Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2019
LA GIUSTIZIA
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
PARTE PRIMA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.
Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri.
Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.
Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma: 12 anni ai due carabinieri.
Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.
Processo Cucchi, medici verso la prescrizione.
Pietre sulla Petrelluzzi.
Ilaria Cucchi: una donna normale.
Il Concerto per Cucchi.
Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.
Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.
I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.
Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.
Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.
Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, anche qui tre sono carabinieri.
Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia.
Stefano Furlan, gli altri e Stefano Cucchi, troviamo le differenze.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
Indimenticabile Avetrana
La sensitiva Rosemary Laboragine.
Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed avvocati di ufficio.
Il Fioraio condannato.
Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.
Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi.
Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.
Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
La vittoria di Amanda Knox Giustizia italiana condannata.
SOLITA ABUSOPOLI.
Dentro ad un divorzio.
Padri separati (dai figli).
La mamma non può impedire al figlio di vedere il papà separato.
Figli nullafacenti: niente mantenimento.
L’amore acido.
William Pezzullo. Due acidi, due misure?
Bibbiano e Angela Lucano. "Amore strappato": “Rapita dalla giustizia”.
Sempre più anziani malati costretti alla contenzione.
Matti da Slegare.
Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi.
"Pensa solo ai minori stranieri".
Quando l’assassino è in casa.
Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila.
La strage dei bambini innocenti.
Quando i figli e i nipoti picchiano genitori e nonni.
Quando i bimbi si menano a scuola.
Bullismo. Bulli da menare.
Quando son le donne le pedofili.
Pedofilia e tecnologia. L’app TikTok.
Codice Rosso. Violenza sulle donne. Due donne e due misure.
Stupri che non lo erano…
La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.
Uomini. Quando le vittime sono loro.
Il commercio delle adozioni.
Boy Scout, esplode lo scandalo abusi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
Dura Lex, Sed Lex?
Ponzio Pilato paradigma del giudice codardo.
Se le forme del diritto possono essere asservite al delitto.
Illuminismo e Garantismo. Da Cesare Beccaria a Giuliano Vassalli: Dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.
La magistratura in Italia: Ordine o Potere?
Le Toghe Show.
La riforma infetta della Giustizia.
Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.
Parentopoli giudiziarie e incompatibilità. Le compatibilità elettive: Io son io e tu non sei un cazzo.
Da pm a giudice: al Csm passano le porte girevoli.
Violenza domestica: troppe leggi e male applicate.
La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».
Diffamazione: questo, sì; questo, no!
Credere nella giustizia, e la chiamano Legge.
Dal Dna il volto dell'assassino.
Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito.
La condanna degli innocenti. Se il pm sbaglia viene punito: ecco la svolta sulla giustizia.
Criminalità, quei 6 miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati.
Caste e soldi. Le parcelle esose e la naturale conformità dei Pareri di Conformità dei colleghi dei Consigli dell'Ordine.
Innocente, ma rovinato dalle spese legali.
Intestare fittiziamente beni ai parenti è reato.
Le ingiustizie dei giudici. Credere nella Giustizia?
Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere".
A proposito di Prescrizione.
Processi lumaca: sì all’indennizzo anche senza istanza di accelerazione.
Test psicologici su giudici e Pm.
Avvocati ed obbiettori di coscienza.
La vituperata Toga.
Il "populismo penale" dei gialloverdi.
Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga.
Mai dire pronto intervento e Denunce a perdere.
Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.
L'astensione non esiste. E se li ricusi, ti denunciano.
Intercettazioni. L’invasione dei Trojan, i file “malevoli” amati dalle procure.
Le Fughe di Notizie.
Mediazione Civile, quando la Giustizia non incassa.
Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze.
In galera? Non ci si finisce più.
Le mie Prigioni.
Atteggiamenti “arbitrari” degli agenti.
«L’ergastolo ostativo nega il “diritto alla speranza”».
"Palazzi di ingiustizia".
Sovraffollamento nelle carceri.
41bis. I magistrati ordinano e le carceri non eseguono.
La difficile vita in cella delle 2600 detenute italiane.
Quella pena doppia per i detenuti disabili.
Quelle celle lisce a Bancali nascoste alla visita del Garante.
Carcere: Tabagismo e Psicologia.
I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati.
Vitto e sopravvitto.
Il carcere dove sono condannati anche a vivere senz’acqua.
Di cella si muore.
Il 70% dei detenuti torna a delinquere Perché non c’è la riabilitazione?
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
Stati Uniti: Un innocente in cella e un colpevole libero.
Dalla parte delle vittime, vere.
Prima infangati e poi assolti. Gogna e calvario degli innocenti. Storie dei soliti noti.
Salvatore Proietto per 72 grammi di marijuana. Muoiono la madre e la moglie, ma lui resta in cella.
Antimo d’Agostino. Ex soldato assolto dopo 5 in galera. Fu legittima difesa.
Giustizia. Franco Tatò: “evitate i processi”.
Le confessioni di Stefano Ricucci.
Mario Moretti. La sentenza sulla strage di Viareggio non fa giustizia.
Stefano Monti. Si dichiara innocente e si suicida.
Angelo Massaro e un’intercettazione distorta.
Gerardo De Piano. L’arresto, le botte e la gogna.
Archiviato. Maurizio Lupi mastica soddisfazione e amarezza.
Novara, Massimo Giordano ex sindaco assolto ma carriera stroncata dall’indagine.
«Del tutto infondata la condanna di Ignazio Marino».
Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.
Gianfranco Cavaliere. La falsa Tangentopoli.
Leonardo Rossi a Firenze. Avvocato accusato di pedo- pornografia, assolto in appello 7 anni dopo l’arresto.
E ora chi chiede scusa a Mimmo Lucano, Giulia Ligresti e Boschi Senior?
Unabomber, Zornitta (indagato e prosciolto) chiede i danni.
Marco Siniscalco. Avvocato, 74 anni: in cella per l’effetto retroattivo della legge spazzacorrotti.
"Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori. Come un calciatore che sbaglia un rigore".
Assolto Duilio Poggiolini.
Bassolino, assolto dopo 16 anni.
Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai tre figli minorenni di Marianna Manduca.
Vincenzo Bommarito. Caltanissetta, pena sospesa a condannato all'ergastolo.
«Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella».
Tortora, Brizzi, De Luca, Tavecchio: i volti della gogna.
"Per Sallusti ingiusta detenzione". E Strasburgo condanna l'Italia.
«Sono scafisti, dategli l’ergastolo» In cella 4 anni, poi assolti. E i media zitti.
Nicola Sodano. Finito il calvario: assolto l'ex sindaco di Mantova.
Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni: “La gente deve capire che sono innocente”.
Katharina Miroslawa, stanca di dirsi innocente.
Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere da innocente: chiede 66 milioni di euro di risarcimento.
I giudici: il “mostro” Brega Massone vittima delle intercettazioni.
Armando Riccardo. La camorra lo accusò per vendetta: agente assolto dopo 8 anni.
Cosimo Commisso. «Non uccise nessuno né ordinò gli omicidi».
La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa.
Strage di Erba e la revisione della sentenza.
Giorgio Magliocca. Arrestato per camorra, poi assolto: «Fu un incubo..».
Parla Lorenzo Diana: «Io, rovinato dalle bugie di un pentito».
Nino Marano. Una vita fra le sbarre.
Aldo Scardella, suicida da innocente.
PARTE SECONDA
SOLITA MANETTOPOLI.
Il processo in Tv e la giuria popolare.
Il Populismo penale: dal Femminicidio all’omicidio stradale.
Viva la Forca!
La Sinistra: un Toga Party.
L’Esercizio Garantista.
I Giallo-Rossi manettari.
I Giallo-Verdi manettari.
I Rossi manettari.
Il Marco Travaglio manettaro.
Il Davigo Manettaro.
Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità.
L’ingiustizia è uguale per tutti.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
La Corte europea dei diritti umani contro Italia e Germania sul caso ThyssenKrupp.
“Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”.
Intoccabili: Quelli che sono toccati…
Si apre il maxi-processo all’ex prefetto Malfi.
Olindo Canali. «L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss».
Giorgio Alcioni. Il giudice prepotente cacciato dal Csm dopo la condanna.
Foggia, la giudice Lucia Calderisi «furbetta del cartellino».
La dolce vita dei Bancarottieri.
Sbirri. Sarebbe ora di chiedere scusa.
CSM. Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Luca Palamara.
Magistrati. Non vi nascondete dietro l’impunità corporativa.
La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti».
Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui».
«Non cacciate il procuratore Rossi».
La Procura di Roma insiste: processate l’ex pm Robledo.
Chiese l'arresto del marito della sua amante, condannato il pm Ferrigno.
In tribunale per la separazione. L'ex marito si fidanza con la giudice.
Il Csm trasferisce il procuratore aggiunto Antonella Duchini ad Ancona.
Emilio Arnesano. Arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl.
Tito Ettore Preioni. Favori per fare carriera.
Dopo Venezia, il giudice Giuseppe Bersani indagato anche ad Ancona.
Il magistrato Agostino Abate sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati».
Gaetano Maria Amato. Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere.
Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Michele Monteleone.
Sentenze tributarie truccate, interdetto l'ex presidente del tribunale di Trani Filippo Bortone.
Carlo Maria Capristo indagato per Falso complotto Eni.
L’assoluzione di Vendola. Il giudice Susanna De Felice: non si tocca.
Magistrati arrestati: Michele Nardi e Antonio Savasta.
Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate.
Giudice di Napoli: “Aveva legami con la camorra”.
Una volpe di Magistrato.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
Persone scomparse, si cercano ancora 10mila italiani. E uno su cinque è un minore.
Gente di Stato. I Suicidi Impossibili: Maria Teresa Trovato Mazza e Anna Esposito.
Il mostro di Modena.
Il mostro di Udine.
Antonino Sciacca. Uno sparo nella notte.
Il giallo di Willy Branchi ucciso nel 1988.
Raed. Il bimbo fantasma della Norman Atlantic: «Morto nel rogo».
Dopo 46 anni riaperte indagini sul sequestro di Mirko Panattoni.
Alessandro Pieri. "Bisigato" e la donna del mistero: morte di un ex calciatore.
Il Caso Regeni.
Anatomia del complotto.
11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia).
Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).
Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.
Il Mistero di Piazza della Loggia.
Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati.
Strage alla stazione di Bologna.
L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.
L’omicidio di «Francescone», attore che recitò con Gassman e Manfredi.
Il giallo di Eleonora Scroppo, uccisa mentre cenava in famiglia 20 anni fa.
Le sfide folli: Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
Il Mostro di Firenze non c'è più.
Il puzzle incompleto del mistero di Garlasco.
Wojtyla-Agca, l’altra pista.
Il Caso Orlandi.
Il mistero di De Pedis.
Adolfo Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali.
Il caso Ermanno Lavorini, 50 anni fa.
Omicidio Mino Pecorelli, 40 anni dopo.
Antonio Logli e l’omicidio di Roberta Ragusa.
Omicidio Marco Vannini, speciale Le Iene.
Duilio Saggia Civitelli, detective romano ucciso alla stazione.
Francesca Moretti, avvelenata col cianuro: il giallo si riapre I 10 indizi trascurati.
«Hanno ucciso Maga Magò». Quel giallo che sconvolse piazza Navona.
Libero Ricci. Il giallo del pensionato e del collezionista di ossa: «Cercate nel Tevere».
Liliana Grimaldi. La maestra di piano uccisa dal giostraio, libero dopo 8 anni.
Gli abusi in collegio e quel corpo nel Tevere: il giallo di Padre Pierre.
Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra…e Massoneria.
La tragedia di Tommy.
Il giallo del suicidio dell’ex generale Conti.
Il “killer delle carceri”.
Il giallo della morte di Marianna Greco.
Cinzia Cannella e Ivano Iannucci: amore «tossico.
Alfredo Rampi. L’eroe di Vermicino Angelo Licheri.
Le bestie di Satana.
Margarete Wilfling. La bella Margarete e il killer di Ponte Matteotti.
Massimo Galioto, Beau Solomon e la Giustizia sott’acqua.
Virginia Mihai. Uccisa da marito Valerio Sperotto e data in pasto ai maiali.
Vera Heinzl e Sandra Honicke, gialli fotocopia.
Giuseppina Morelli. Quel piede nel prato degli orrori.
Umberto Ranieri ucciso per un rimprovero.
Paolo Adinolfi, la fine di un giudice scomodo.
Mirko Panattoni. Sequestro senza colpevoli.
Ferdinando Carretta: "Li ho uccisi tutti io".
Ambrosoli, la vita di un uomo normale.
Mario Ferraro. Sole, sigari e baci.
Chi ha ucciso Lidia Macchi?
Davide Cervia, rose e intrighi.
Roma di sangue. I delitti: Nicoloso, Anniballi, Cannella, Adinolfi e Rosati.
Alessia Rosati, un mistero lungo 25 anni.
Pier Paolo Minguzzi. Ucciso 31 anni fa.
L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.
Thomas Quick. L'uomo che si inventò Serial Killer.
Delitto Khashoggi.
Daphne Caruana Galizia. I tre improbabili sicari e la scia dei dollari.
Il mistero di Atlanta: 24 morti, 1 sospetto.
Samuel Little: il Van Gogh dei serial killer.
John List, l’uomo qualunque che (finiti i soldi) sterminò la famiglia.
Laura e Paolo Fumu sono morti. Chi è stato?
Il rapimento di Claudio Chiacchierini.
Cristoforo Verderame. Ucciso davanti ai bimbi a scuola.
Pietro Maso, il documentario seguito da 500 mila persone. Solo morbosità?
Salvatore Pappalardi. Il padre di Ciccio e Tore.
Omicidio di Angelo Vassallo ed il ruolo dei carabinieri.
Il Giallo della morte di Re Cecconi.
Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana».
Bertrand Cantat, l'idolo assassin. Storia del delitto maledetto di Marie Trintignant.
Il mistero sulla morte di Desirée Piovanelli.
La confessione di Massimo Sebastiani: «Così uccisi Elisa Pomarelli nel pollaio».
Mostro del Circeo, Izzo parla dal carcere: «Non ho confessato tante cose».
I delitti del Dams.
Delitto di Novi Ligure.
Il Caso Emanuele Scieri.
La morte di Denis Bergamini.
Simonetta Cesaroni. Il Delitto di Via Poma.
Busto Arsizio e la strana morte per peritonite.
Omicidio a Vercelli, il caso della donna nella valigia.
Paolo Piccoli, il monsignore condannato per omicidio: Innocente?
Un alibi per Alberto Stasi?
Come è morto David Rossi.
Jennifer Levin, uccisa e umiliata dai media.
Curtis Flowers: Il «perseguitato d’America».
Il Caso Estermann.
La storia di Giuseppe Zangara.
LA GIUSTIZIA
SECONDA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il processo in Tv e la giuria popolare.
I giornalisti? Chiamateli Grandi Inquisitori. Angela Azzaro il 7 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ernest Hemingway, premio Nobel nel 1954 con Il vecchio e il mare, era un grande scrittore perché, prima ancora, era un grande giornalista. Un reporter. Il suo primo scritto è un articolo per il giornale della sua città natale, sobborgo di Chicago. Era uno di quelli che prima di scrivere andava a vedere, toccare con mano, annusare. Una curiosità che lo ha portato in Spagna, in Francia, in Italia, in Africa, nella sua amatissima Cuba, quella della pesca, dei sigari, del mojito. Quando toccava una realtà se ne innamorava, cercava di capire entrando in sintonia con quello che raccontava. Si chiamava e si chiama: pathos, pietà, intelligenza. E da quella intelligenza, poi, nasceva il testo: racconto o reportage che fosse. Negli ultimi anni della sua vita, già gravemente dolorante per un incidente aereo, non smise di viaggiare, voleva ancora conoscere, innamorarsi. Scrivere. Oggi invece trionfa un altro modo di fare giornalismo, in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. Importante non è conoscere, non è aiutare a capire chi legge, ma fare audience. È il giornalismo che sembra fatto a immagine e somiglianza di un Savonarola per il moralismo, a un Davigo per la “presunzione di colpevolezza”, ma ancora più esattamente il modello è Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero che interrogava gli accusati di tradimento durante il Grande terrore staliniano. Per lui tutti erano colpevoli, tutti avevano qualcosa da nascondere e da confessare, tutti dovevano essere messi sotto torchio perché sicuramente avevano minato la causa rivoluzionaria. Spesso venivano mandati a morire. Oggi il terrore (la storia si ripete in forma di farsa…) è quello di un giornalismo che invece di informare, processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie, cerca il clamore. C’è anche la versione light: quella del giornalista che ti insegue per strada e ti fa la domanda sperando che tu non risponda e così possa dire: «Ah che infingardo, non ha risposto. Quindi è colpevole». Come la metti la metti, sembrano tanti figlioletti di Andrej Vyšinskij, non più ispirati dal sacro fuoco del comunismo, ma da quello della Verità, rigorosamente con la V maiuscola, che però di fatti, date, documenti se ne frega altamente. Il retropensiero è sempre lo stesso: «Non c’è ipotesi di reato? Va beh, qualcosa deve per forza aver fatto». Gli esempi si sprecano e ci sono intere trasmissioni che seguono il metodo Vyšinskij come se fosse il manuale del buon giornalismo. L’altro ieri, a Piazza Pulita, Corrado Formigli non ha intervistato il leader di Italia Viva Matteo Renzi: gli ha puntato la lampada e lo ha interrogato sul caso Open. Il volto contratto, la postura e il ghigno da pm, le domande di chi non ha alcun interesse a sapere cosa pensi o sappia l’altro, ma volte esclusivamente a incastrarlo, metterlo in cattiva luce, se possibile umiliarlo. Per sfortuna di Formigli, Renzi è bravino: si è sottratto abbastanza facilmente a questo gioco al massacro rispondendo per filo e per segno sul caso Open, e respingendo il metodo inquisitorio al mittente. Quasi tutta la tv oggi è costruita sul modello del processo: giornalisti-pm, opinionisti-giudici, spettatori-giuria popolare. È il cuore del populismo televisivo che in questi anni ha prodotto trasmissioni come Le Iene. I suoi giornalisti sono i migliori nel perseguitare l’obiettivo, nell’incalzarlo e nel creare casi che spesso si risolvono nel linciaggio della persona coinvolta. Ci stanno provando anche con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che giovedì sera si è infuriato con la Iena Antonino Monteleone. «Lei – gli ha detto il premier – è fuori di testa». Conte, ormai celebre per il suo aplomb, ha perso la pazienza perché la Iena lo ha accusato di aver lavorato gratis per una consulenza ma di essersi poi fatto versare i soldi sul conto dell’avvocato Alpa: «Continuate a scrivere menzogne su menzogne. Non dovete approfittare del fatto che io da quando sono presidente del Consiglio non ho querelato nessuno». Normale che se si viene diffamati, incalzati con accuse false, ripetute in tutte le circostanze, ci si arrabbi. È quello che è accaduto anche al nostro editore, Alfredo Romeo, che per gentilezza ha accolto due giornalisti di Piazza pulita, rimasti fuori dalla sede per quasi tutto il giorno. Li ha fatti entrare, ha risposto alle loro domande, ma davanti alle inesattezze e alle insinuazioni ha perso la pazienza. I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti, di sapere la versione dell’interlocutore, di verificare i dati in loro possesso. Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato. Ma i fatti sono i fatti, le date sono le date e se si dice il falso, non è buon giornalismo, perché si nasconde la telecamera che riprende e registra, è – per citare Conte – una menzogna.
Banda dello spray, perché è sbagliato dire mostri. Angela Azzaro il 6 Agosto 2019 su Il Dubbio. Un titolo di Repubblica usa questa definizione che non lascia spazio alla presunzione di innocenza e fissa l’identità fuori dallo status di persona. Domenica, il quotidiano la Repubblica apriva il giornale con un titolo a quattro colonne, quindi con grande evidenza, che diceva: “I baby mostri dello spray”. Il riferimento era agli arresti di sette ragazzi accusati di essere coloro che, per commettere dei furti, avevano usato lo spray al peperoncino che causò la calca alla discoteca di Corinaldo. L’esito fu tragico: sei morti, 120 venti feriti. Una discoteca che invece di essere luogo di divertimento si trasformò in una gabbia, per alcuni una trappola mortale. I fatti risalgono all’ 8 dicembre dello scorso anno, quando nella discoteca Lanterna azzurra era previsto il concerto del trapper Sfera Ebbasta. In questi mesi la procura di Ancona ha indagato ed è giunta a puntare il dito contro una banda di giovanissimi, tutti in un’età compresa tra i 18 e i 22 anni. Le accuse vanno dall’associazione per delinquere all’omicidio preterintenzionale. L’inchiesta, ricordiamolo, vede a vario titolo altri indagati tra i proprietari del locale, gli organizzatori del concerto e i rappresentanti comunali che avevano concesso le licenze. La definizione “baby mostri” non fa onore a un giornale come Repubblica. Per tante, troppe ragioni. In primo luogo, vale la pena ripeterlo fino alla nausea almeno come testimonianza, perché stiamo parlando di accuse che devono essere confermate da tre gradi di giudizio. Se i ragazzi coinvolti dovessero essere assolti, quel “mostro” resterà sulla loro pelle, e sul loro futuro, come una condanna indelebile contro cui poco potranno fare. Mostro è una definizione che non lascia spazio al garantismo e alla presunzione di innocenza. Repubblica, non altri giornali più “forcaioli”, ha deciso, ancora prima del processo, la loro colpevolezza. Ma, per quanto importante, non basta soffermarsi sulla presunzione di innocenza. No, non basta. L’idea di “mostro” racchiude significati che vanno al di là: una idea dell’umano che non lascia speranza, non prevede la possibilità per chi sbaglia di cambiare. Non si cerca di definire l’errore come un comportamento da condannare, come una scelta scellerata, ma come una identità che si fissa nella mostruosità, cioè in una deviazione dell’umano. È come se decenni di conquiste sociali andassero in fumo in un solo colpo e forse per vendere qualche copia in più. Mostro vuol dire che quei ragazzi non sono più persone, ma scarti, che per loro – una volta appurate le eventuali responsabilità – non vale quanto dice l’articolo 27 della Costituzione, per loro la rieducazione non è contemplata. La loro “natura” è definita una volta per sempre, confinata in una accezione negativa e assoluta. Sempre più spesso quando si usa la parola mostro si tende a mettere in atto un meccanismo di difesa. La società, attraverso i mezzi di comunicazione di massa che ne costruiscono la rappresentazione, prende le distanze dal potenziale colpevole o dal colpevole accertato. È come se dicessimo che le mele marce non fanno parte del consesso civile e si crea una contrapposizione netta tra il bene, che siamo noi, e il male che sta sempre e solo fuori di noi. Gli italiani e i migranti, i buoni e i cattivi, gli umani e i mostri. Sono alcune delle dicotomie che attraversano il dibattito pubblico e l’immaginario collettivo. È però questa una società chiusa in se stessa, che non ha la forza di fare autocritica. Le responsabilità penali sono individuali, ma non possiamo non interrogarci anche sulle nostre responsabilità, su che cosa siamo diventati, su quali valori trasmettiamo alle giovani generazioni, su quale idea di futuro stiamo offrendo loro. Soprattutto una cosa non possiamo permetterci: smettere di pensare che chi sbaglia possa e debba avere una seconda chance. Se dovesse prevalere l’idea del mostro, i primi ad essere sconfitti saremmo noi.
La protesta degli avvocati: «Che barbarie l’arresto di Logli in tv». Valentina Stella il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. L’uomo condannato per la morte di sua moglie è stato bloccato nel corso della trasmissione in onda su rete4 “Quarto grado”. Dopo l’UCPI, ora è l’Ordine degli Avvocati di Roma a stigmatizzare quanto accaduto durante la trasmissione tv “Quarto grado” la sera dell’arresto di Antonio Logli, condannato dalla Cassazione per l’omicidio della moglie.
L’iniziativa dell’Ordine. Secondo quanto scritto dal Presidente Antonino Galletti «l’arresto di un uomo in diretta tv, i commenti dallo studio, il silenzio dei presenti – perfino alcuni avvocati – dinanzi a una tale barbarie» hanno rappresentato «un episodio increscioso, davanti al quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma ed io personalmente in qualità di suo Presidente, abbiamo ritenuto di dover intervenire per porre un freno a questa deriva inammissibile segnalando immediatamente la vicenda al Garante per il Diritti delle Persone Detenute». Una scelta dettata dalla gravità delle circostanze è stata riconosciuta dallo stesso Garante, che ha segnalato a sua volta l’accaduto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, «nell’ottica della collaborazione istituzionale volta a contrastare il linguaggio dell’odio e a fondare una cultura condivisa informata al rispetto della dignità di ogni persona».
Violata la persona. Il presidente Mauro Palma ha sottolineato infatti che «la ripresa nel suo complesso ha rappresentato una indecorosa rappresentazione dell’atto di traduzione in carcere della persona appena condannata, rendendo ai telespettatori elementi di vita familiare, di intimità, di sofferenza del tutto estranei all’informazione sulla vicenda processuale». Nella stessa comunicazione all’AGCOM, il Garante ha anche segnalato l’inopportuna diffusione dell’immagine dei rilievi fotosegnaletici di Carola Rackete mentre era in stato di arresto.
La crocifissione di Mannino iniziò da Funari: l’orrore dei processi in tv. Francesco Damato il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. La trattativa stato mafia e i 25 anni di stato incivile. Assolto lui dopo 25 anni ora toccherà probabilmente a tutti gli altri visto che il teorema è caduto. Il pur notevole e assorbente aspetto giudiziario mi sembra addirittura inferiore, per un paradosso imposto dai nostri tristissimi tempi, all’aspetto politico e morale dell’assoluzione che si è guadagnata anche in appello, col cosiddetto rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per la cosiddetta “trattativa” fra lo Stato e la mafia. Che è costata invece pesanti condanne in primo grado, col cosiddetto rito ordinario, ad un lungo e assai eterogeneo elenco di imputati, fra i quali si confondono servitori e sabotatori dello Stato, di ogni ordine e grado. E che – mi sembra- sarà francamente difficile confermare in appello, almeno per tutti, proprio alla luce della seconda assoluzione di Mannino. Dalle cui preoccupazioni per le minacce di morte lanciategli, non certo per gratitudine, dalla mafia sarebbero cominciate e si sarebbero poi sviluppate, secondo gli inquirenti palermitani, le trattative per bloccare o quanto meno rallentare la stagione delle stragi. Che era stata avviata dai mafio-terroristi – perché altro non saprei definirli- con l’assassinio per strada dell’allora luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima, la strage di Capaci, costata la vita al magistrato Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, la strage di via D’Amelio, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e all’intera scorta, e proseguita con altre imprese di sangue e paura un po’ in tutta Italia. Fu una stagione, quella, che peraltro s’incrociò con l’altra, giudiziaria e politica, per la demolizione della cosiddetta prima Repubblica e finì per influenzare nella primavera del 1992, a Camere appena elette con le elezioni del 5 aprile, la successione a Francesco Cossiga al Quirinale e, di conseguenza, i successivi sviluppi della situazione politica: compreso il rifiuto del nuovo capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, di conferire l’incarico di presidente del Consiglio al candidato concordato fra democristiani e socialisti, Bettino Craxi, previa consultazione alquanto anomala, diciamo così, dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli, morto nei giorni scorsi fra il rimpianto e la beatificazione quasi generale dei cultori, nostalgici e simili dell’” epopea” di Mani pulite. In quella stagione politica, per certi versi non meno feroce di quella stragista della mafia, protagonisti e attori della cosiddetta prima Repubblica potevano essere scambiati, come di notte in una strada senza lampioni, per corruttori o mafiosi, secondo le circostanze e le loro origini. Accadde anche a Mannino, a favore o in onore del quale potrei a questo punto limitarmi anche a condividere e ripetere ciò che ha appena scritto sulla Stampa, nel suo imperdibile Buongiorno, il bravissimo Mattia Feltri. Che, a conti fatti, tra avvisi di garanzia, assoluzioni, ricorsi e quant’altro, ha contato 25 anni e 5 mesi di “sequestro” vissuti da Mannino ad opera di uno “Stato incivile”. Mi corre l’obbligo, tuttavia, di ricordare che la storia pseudo- criminale del povero Mannino cominciò nei primi mesi del 1992 nel salotto televisivo, chiamiamolo così, di Gianfranco Funari, chiamato “Mezzogiorno Italia”, su una delle reti televisive di Silvio Berlusconi. Casualmente ospite di quella trasmissione come direttore del Giorno, reagii con forza al tentativo di Funari di processare in diretta Mannino, naturalmente assente, sulla base di un articolo dell’Unità che gli contestava di essere stato tanti anni prima testimone di nozze della sposa, figlia di un segretario di sezione siciliana della Dc, con un tale che dopo qualche tempo sarebbe risultato mafioso. Inorridii letteralmente all’idea di quel processo e, definito “picciotto” da un altro giornalista invitato e smanioso invece di parteciparvi come aspirante pubblico ministero, abbandonai per protesta la trasmissione in diretta. Finii sui blog di Rai 3 per un bel po’ di tempo come un esagitato. Il giornale ufficiale della Dc Il Popolo, diretto allora dal mio amico indimenticabile Sandro Fontana, ne fece un caso. Di fronte al quale, mentre Funari, dopo avere tentato inutilmente di farmi tornare nel suo studio, si vantava ogni giorno di ricevere telefonate di apprezzamento e incoraggiamento del suo editore in persona, ricevetti da Gianni Letta una cortese offerta di intervista a Berlusconi sui programmi dell’allora Fininvest in cui potergli consentire, su espressa domanda, di prendere le distanze da quel conduttore. Naturalmente, almeno per chi mi conosce, rifiutati la proposta e risposi chiedendo a Letta di fare intervenire sul problema di Funari direttamente Berlusconi con un comunicato. Che non seguì. Seguì invece la letterale persecuzione politica, morale e infine giudiziaria di Mannino. Al quale pertanto potete immaginare con quale piacere telefonerò il 20 agosto per il compimento dei suoi 80 anni: un traguardo peraltro che io ho tagliato prima di lui.
BASTA TELECAMERE NELLE AULE DI TRIBUNALE. Basta con i processi in diretta? Laura Delli Colli il 17 maggio 1990 su La Repubblica. La Rai discuterà molto presto dell' opportunità di mettere un freno alle trasmissioni che hanno aperto alle telecamere le aule dei nostri tribunali. A sorpresa, e con un dibattito che ha già aperto nuove polemiche in seno al Consiglio di amministrazione, l' azienda radiotelevisiva pubblica ha deciso infatti di mettere sotto processo, per una volta, proprio la popolarissima tv delle aule giudiziarie. E' in particolare la trasmissione di RaiTre Un giorno in pretura ad aver acceso, ieri, nell' aula del Consiglio di amministrazione un dibattito che rischia di avere presto nuovi sviluppi, non solo in seno alla Rai. Alla vigilia della nuova diretta per la seconda udienza Tacchella (va in onda proprio stamane su RaiTre) è stato l' intervento di uno dei consiglieri-giuristi di Viale Mazzini a sollevare formalmente il caso: è opportuno o no che la Rai continui a portare le sue telecamere in Pretura? E' legittimo, insomma - si è chiesto ieri nell' aula del consiglio il dc Roberto Zaccaria - che la televisione pubblica dia in pasto al grande pubblico televisivo giudici e imputati? Il tema, Zaccaria, l' aveva già sollevato nei giorni scorsi in una lettera inviata al presidente Manca: Mi aveva spinto a porre la questione alla sua attenzione spiega e alla discussione del Consiglio, una recente delibera del Csm. Sostanzialmente il Consiglio superiore della magistratura riconosce in pieno la legittimità delle norme di pubblicità dei processi penali contenute nel nuovo Codice di procedura penale. Mi sembra però che sollevi, in questa delibera che ho letto anche nell' aula del Consiglio Rai, una questione di opportunità, invitando formalmente i mezzi di comunicazione di massa a darsi un' autodisciplina in materia. Non si tratta, insomma, di promuovere alcuna azione di censura, ma di compiere l' ennesima riflessione sulla tv verità che ha monopolizzato, in quest' ultima stagione, l' attenzione di osservatori e operatori del mondo televisivo. E su questi argomenti Zaccaria non è solo: le sue posizioni sono state condivise ieri dal dc Bindi, e sull' opportunità di riflettere sul problema hanno convenuto, con diverse argomentazioni, anche i socialisti Pellegrino e Pedullà. Come editori televisivi, spiega Bindi non possiamo non occuparcene. Non si tratta di abolire Un giorno in Pretura, né di censurare la politica editoriale di una rete alla quale va invece riconosciuta notevole capacità di ideazione e creatività. Esiste, però, anche secondo Bindi, un problema di misura, ed il rischio è che il processo, con la mediazione delle telecamere si trasformi in mero spettacolo, penalizzando i soggetti più deboli. Immediata la reazione dei consiglieri comunisti: con argomentazioni di carattere tecnico-giuridico, Enzo Roppo ha respinto le tesi di Zaccaria e di Bindi. Il capogruppo dello schieramento designato dal Pci, Bernardi, e con lui Enrico Menduni, hanno quindi difeso le scelte editoriali di RaiTre invitando il Consiglio ad occuparsi piuttosto che dei programmi e della tv verità dei veri buchi neri dei programmi, delle questioni finanziarie e della ristrutturazione aziendale. In questa Rai dicono sostanzialmente i comunisti prendono corpo tendenze che puntano ad ingessare l' informazione, discutendo in termini esclusivamente critici proprio quei programmi e quei contributi editoriali che hanno segnato in termini di novità la stessa offerta del servizio pubblico radiotelevisivo. Secca la replica del socialista Pellegrino: Qui non si tratta di ingessare l' informazione né il diritto di cronaca che è, peraltro, inalienabile. Non si può, però, non vedere nella tv verità, soprattutto nel caso di riprese di processi, una sostanziale modificazione del fatto giudiziario che, a tutela dell' imputato, pone innanzitutto diversi gradi di giudizio. E' lo stesso argomento sostenuto, in Consiglio, anche dall' altro rappresentante del Psi, Pedullà, il quale si è sostanzialmente preoccupato di valutare se questa televisione non rischi di ledere la sfera dei diritti individuali: un' udienza televisiva, in sostanza, secondo questa tesi non esaurisce l' intero processo, ma esclude, anzi, proprio la fase della sentenza in giudicato, limitandosi a dare dei soggetti in campo una sola immagine, e l' immagine tout court più spettacolare. La discussione è aperta: assente Manca, si è assunto ieri il compito di trovare una mediazione tra le parti in causa il vicepresidente (socialdemocratico) Leo Birzoli: Da una parte, spiega esiste il diritto costituzionalmente garantito all' immagine e alla sfera privata dell' individuo, dall' altra l' altrettanto (sacrosanto) diritto alla cronaca e all' informazione. Si tratta, a mio avviso, di trovare tra questi due poli una misura, senza fare processi a una rete o a un direttore. A proposito di direttori, il responsabile di RaiTre, la rete che ha aperto questa nuova via alla televisione della realtà, ovviamente non ha incassato la questione in silenzio: Aspetto di conoscere i termini della discussione che ha impegnato il Consiglio di amministrazione dice, sorpreso, Angelo Guglielmi e, se è vero come mi dicono, che è stata presa la decisione di costituire un gruppo di lavoro per discutere le linee guida cui occorre attenersi nella realizzazione di Un giorno in pretura mi domando: gruppo di lavoro per fare che cosa? Di fatto so che il Consiglio di amministrazione ha sempre evitato, e non credo per caso, di intervenire in modo prescrittivo nella realizzazione delle singole trasmissioni che danno corpo alla linea editoriale della Rai.
Il senso della tv dentro i tribunali. Ondasuonda su La Repubblica.it il 16 giugno 2019. Sono trascorsi 30 anni dall'accanita discussione circa il ruolo della tv nei tribunali. E ancora oggi, basta che in un convegno (si presentava un libro su Umberto Eco e la televisione) venga per caso nominato Un giorno in pretura , perché subito i sopravvissuti di quel tempo lontano riprendano a dibattere circa il bene e il male della tv nel tribunale. Eco riteneva che quella presenza, lungi dal riportare la oggettività del fatto, la deformasse in favore di regia, con lo spettacolo a mangiarsi la giustizia, per non dire delle tentazioni pubblicitarie implicite per la vanità e le convenienze di giudici e avvocati. Diverso il parere di Rai 3 che aveva inventato il programma, prendendo il titolo al film di Steno del 1953, con Peppino De Filippo, pretore combattuto fra forma e sostanza, fra rigore e cuore. Guglielmi, il direttore della rete, pensava che in linea di principio le cose non ci guadagnino ad esser fatte di nascosto, sbrigate solo fra gli addetti o comunque sottratte ai mezzi che in ogni epoca le possono mostrare. Specie laddove, in nome del popolo italiano, si accertano i delitti comparandone il peso con le pene. Vecchie battaglie, di cui si è perso il segno, posto che ormai, ben prima che mostrate ai tribunali, le carte uscite a fiotti dai faldoni finiscono diritte sui giornali. Un giorno in pretura nel frattempo è proseguito, ma in sordina, e assai raramente in prima serata, dove è riapparso invece nell'ultima stagione. Meglio così che niente, visto che ancora ricordiamo quell'ultimo processo sul parto maldestro in casa, col feto nato morto, la puerpera e il fidanzatino che l'occultano. E noi a casa a calarci nei panni di giudici e avvocati. Ma persi più che altro a contemplare quegli imputati e quei testimoni provenienti da un continente sociale a noi per molti aspetti simile, ma sconosciuto per gesti, lingua e acconciatura. Era realtà in tv, altro che storie. E del resto in tribunale di certo non si recita anche se spesso, va da sé, si mente.
I "tribunali televisivi" ridotti a lavare la biancheria intima. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno. Vittorio Feltri, Domenica 17/01/2016 su Il Giornale. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, riuscendo ad ottenere buoni se non ottimi ascolti. La prima antenna che trasformò i tribunali in miniere d'oro fu, se non ricordo male, Raitre con una iniziativa di incredibile successo dal titolo esplicito: Un giorno in pretura. Il pubblico poteva seguire, grazie a questo programma, le vicende più appassionanti affrontate dalla Giustizia. D'altronde, da quando le tragedie greche sono passate di moda, le scene offerte dalle austere aule in cui si svolgono interrogatori, scontri tra difesa e accusa, sono le sole in grado di suscitare forti emozioni in chi le guarda sul video, il mezzo di comunicazione più popolare e diffuso, altro che teatro. Ecco perché dopo breve tempo anche una emittente privata di Mediaset trovò il modo di inventarsi dei processi in proprio basandosi sulle liti familiari, le più comuni e frequenti, nelle quali chiunque può specchiarsi. L'artificio funzionò a meraviglia. Si prendeva, ad esempio, una coppia di sposi in bega su una questione, la si invitava in uno studio arredato secondo lo stile tribunalizio e si avviavano i duelli davanti a un giudice togato le cui sentenze, se accettate dai contendenti, avevano un certo valore. La trasmissione era egregiamente condotta da Rita Dalla Chiesa, garbata e capace di dipanare matasse complicatissime, intrise di rancori come sono molti matrimoni inaciditi. I protagonisti delle battaglie pseudo legali si avvalevano di avvocati di fiducia. Insomma il copione era identico a quello dei processi veri, cosicchè il divertimento per i telespettatori era garantito. Anche in questa versione, la materia giudiziaria fece lievitare l'audience al punto che oggi, a distanza di lustri, persino Raiuno considera conveniente trattarla con le telecamere in una rubrica quotidiana (Torto o ragione?) i cui fili sono tenuti da Monica Leofreddi con lodevole disinvoltura. C'è solo un problema da segnalare agli autori. I quali pur di tener vivo l'interesse sul programma, un po' troppo antico per non essersi logorato, nella scelta dei litiganti hanno raschiato il fondo del barile e selezionato personaggi improbabili, gente che gode a lavare la biancheria intima, direi intimissima, in piazza. Il risultato talvolta è desolante. Giorni orsono è andato in onda un intrico di corna, un triangolo di cui era un'impresa sovrumana capire chi fosse il principale cornuto e chi il principale fedifrago. Lo scambio di battute velenose tra i protagonisti tuttavia ha confermato che se il vino va in aceto, l'amore va quasi sempre a puttane e dintorni. E che quando marito e moglie non si reggono più la colpa è di tutti e tre o, meglio, di tutti e quattro. Torto o ragione? se procede così nella ricerca della porcata sensazionale, rischia di ridursi al solo torto. Provare a inventare qualcosa di fresco? Non c'è pericolo. I dirigenti sono troppo impegnati nella lotta per accaparrarsi i posti di comando e non badano al prodotto, che si vende comunque perché il pecoreccio tira. Quanto ai politici che avrebbero facoltà di cambiare la Rai, poverini, cosa si può pretendere da loro che sono morti e non se ne sono ancora accorti?
"I processi in tv? Così influenzano quelli in tribunale". L'inchiesta di Lorenzo Lamperti su Affari italiani Mercoledì, 13 aprile 2016. L’Alternativa, con la collaborazione della Camera Forense Messapia, ha organizzato la tavola rotonda - in corso di accreditamento – sul tema: “il processo in tv”, che si svolgerà il giorno 15 aprile, dalle ore 16 alle ore 20, presso la sala dell’Università del Palazzo Granafei Nervegna di Brindisi, e a cui interverranno: il Dott. Marco Di Napoli (Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi), il Dott. Maurizio Saso (Magistrato presso il Tribunale di Brindisi con funzioni di GIP e GUP; Presidente Associazione Nazionale Magistrati Sez. di Brindisi), il Dott. Angelo Perrino (Direttore e fondatore del quotidiano on line “Affaritaliani”) Filomena Greco (Giornalista del sole 24Ore), l’Avv. Massimo Manfreda, (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Brindisi), l’Avv. Gianluca Pierotti (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Taranto), l’Avv. Luigi Covella (Avvocato cassazionista penalista del Foro di Lecce e Coordinatore del corso di diritto penale presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università derl Salento. E come moderatore l’Avv. Carlo Verusio (Avvocato cassazionista del Foro di Brindisi; già Magistrato Onorario con funzioni di Vice Pretore della Sez. Distaccata di Ceglie Messapica nel triennio 1995/1998). Affaritaliani.it ha intervistato, anticipando i temi del quale si dibatterà alla tavola rotonda, l'avvocato Carlo Verusio.
Avvocato Verusio, quali sono i temi alla base della tavola rotonda?
«E' un convegno che sorge da un problema di attualità, vale a dire la sovrapposizione dei processi delle aule giudiziarie con i processi che avvengono nelle trasmissioni televisive. E' un fenomeno molto diffuso e molto attuale. La tavola rotonda vuole accendere un riflettore, o uno "spotlight" citando il film premio Oscar, su questo fenomeno e quindi verificare quali elementi di deontologia dovrebbero essere applicati dalla varie categorie professionali, dagli avvocati ai magistrati fino ai giornalisti».
Quali sono le conseguenze di questa sovraesposizione mediatica dei processi in televisione?
«Più che sovraesposizione direi sovrapposizione. Si tratta di un fenomeno che in teoria può anche alterare quello che accade nelle aule giudiziarie. Se i due processi sono sovrapposti può accadere che il processo in aula venga condizionato da quanto si dice in una trasmissione tv, nella quale magari si indica un colpevole diverso da quello imputato».
In che modo può essere condizionato un processo?
«Già il fatto che in una trasmissione tv un giornalista o uno psicologo intervengano in una trasmissione magari nella veste di tecnico e ipotizzino che il delitto in oggetto sia stato compiuto che non corrisponde all'imputato può costituire un elemento di condizionamento perché si può minare la legittimità di quel processo agli occhi dell'opinione pubblica, portata a dimenticarsi che un conto è la verità assoluta e un conto è la giustizia. In un'aula di tribunale vanno presi in considerazione solo ed esclusivamente i fatti e le prove disponibili, non le supposizioni o le ipotesi».
Ma anche i magistrati possono farsi condizionare?
«Beh, anche i magistrati guardano la televisione... Prendiamo per esempio il caso di Roberta Ragusa, con la Cassazione che ha bocciato la sentenza di non luogo a procedere contro il marito dopo che varie trasmissioni hanno insistito nell'individuare in lui il colpevole nonostante di prove non ce ne siano. Non possiamo dirlo con certezza, ma magari questa sovrapposizione mediatica può aver giocato un ruolo».
Che cosa si dovrebbe fare allora a riguardo?
«Il punto è trovare il giusto equilibrio tra il diritto dei giornalisti a dare notizie e a cercare la verità e il rispetto di quanto accade nelle aule giudiziarie. Non bisogna mai perdere questo equilibrio altrimenti si rischiano conseguenze molto dannose. Ci si ricordi sempre che il processo vero è quello nelle aule giudiziarie, che si basa su elementi diversi da quelli che si vedono nelle trasmissioni».
Quali sono le responsabilità degli avvocati?
«Ormai alcuni avvocati sono diventati i registi delle trasmissioni tv. Per esempio, il giorno dopo un recente noto caso di omicidio a Roma il padre di uno degli accusati è andato in televisione. La deontologia alla base del comportamento degli avvocati dovrebbe imporsi su questi fenomeni. Bisognerebbe seguire e rispettare i principi di riservatezza che sono alla base dell'esercizio delle professione. Andare in televisione a parlare dell'allibi dell'assistito è piuttosto discutibile».
Non è che invece al contrario avvocati o magistrati puntino a questi casi di cronaca nera proprio per avere maggiore visibilità?
«Sicuramente c'è anche questo elemento, ci sono avvocati che patrocinano casi eclatanti in forma gratuita ma in cambio ricevono un grande pubblicità andando in tv».
A livello giornalistico come si dovrebbe affrontare la questione?
«E' una problematica sorta con forza dai tempi del caso di Cogne. Nel 2009 questo fenomeno ha portato i giornalisti delle principali reti televisive a stipulare una convenzione con l'Agcom sulle condotte da mantenere durante le trasmissioni tv che si occupano di processi in corso. Una convenzione nata sotto l'auspicio dell'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e che dovrebbe evitare abusi».
Ma è stato davvero così?
«Forse qualche eccesso si è evitato ma di fondo non molto. Ci sono varie trasmissioni anche nate negli ultimi anni che si occupano di processi in corso. Da Chi l'ha visto a Quarto Grado, dai programmi pomeridiani di Barbara D'Urso e della Rai. La realtà è che il pubblico italiano è molto, forse troppo, interessato a questi casi clamorosi e quindi segue questi programmi con avidità. Il plastico di Vespa è l'emblema di tutto ciò».
Ci sono però trasmissioni che hanno un approccio diverso, come Un giorno in pretura...
«Sì, certo. Un giorno in pretura infatti non fa altro che trasmettere in tv i processi già conclusi e comunque semplicemente lascia la parola a quanto accaduto in aula senza fare supposizioni o altro. Il problema della sovrapposizione è legato invece a quei programmi che corrono paralleli ai processi e possono anche cambiarne l'esito».
In questi giorni si parla molto delle intercettazioni, in particolare sul caso dell'inchiesta di Potenza. Sui giornali sono apparsi anche dialoghi privati e secondo molti non inerenti all'indagine. Secondo lei serve una riforma sul tema?
«Ritengo che la migliore legge sulle intercettazioni ce l'abbiano gli Usa. Lì si impone a chi sta ascoltando la telefonata di fermarsi dopo alcuni minuti se si capisce che non tocca elementi che costituiscono reato. L'Italia credo sia un Paese peculiare e non c'è legge che tenga, nel senso che il 70-80% dei processi si fa con le intercettazioni. Senza intercettazioni in Italia non si farebbero processi».
Il caso Ragusa e la tv che vuole sostituirsi ai tribunali. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Corriere.it. In tema di Giustizia, ancora una volta abbiamo assistito al lungo e duro scontro fra Televisione e Tribunale. «Ha ucciso la moglie e ha distrutto il suo cadavere». Anche per i giudici di Cassazione, Antonio Logli è colpevole. È stato lui ad ammazzare Roberta Ragusa, la madre dei suoi due figli e a occultarne il cadavere mai più ritrovato. L’omicidio sarebbe accaduto dopo un violento litigio perché la donna, che aveva compiuto da poco 45 anni, aveva scoperto una relazione del marito con Sara Calzolaio, un’amica già baby sitter dei figli. La sentenza è stata letta quasi in diretta dallo stuolo di inviati che Gianluigi Nuzzi aveva dispiegato nei «luoghi» che avrebbero dovuto ricostruire la scenografia ideale per l’ultimo round. Quello del Tribunale, non certo quello di Quarto grado (Rete4, mercoledì). L’impressione è che Nuzzi in questi ultimi tempi abbia «lavorato» per la scarcerazione dell’imputato, non credendo, lui e i suoi espertoni, alla colpevolezza di Logli. Tra altri, abbiamo ascoltato i figli della povera signora Ragusa, i quali parlavano della mamma chiamandola Roberta, difendendo da ogni accusa il padre. Abbiamo ascoltato Sara, la baby sitter innamorata che da subito ha preso il posto della signora Ragusa, avendo però la premurosa attenzione di occupare il lato opposto dello stesso letto dove dormiva la donna scomparsa. Il Tribunale ha fatto il suo corso: tre gradi di giudizio. La Televisione andrà avanti all’infinito perché tenere aperti i processi e sì dovere giornalistico ma è anche buona esca per tenere acceso il fuoco dell’audience. E ormai nessuno s’interroga più sulla suggestione di soluzioni alternative a quelle che derivano dall’esame delle prove o sulle distorsioni che questo genere di programmi può generare. Non solo nella sfera emotiva del pubblico ma anche in quella di chi è chiamato a giudicare.
Quei vergognosi tribunali televisivi. Nino Spirlì Lunedì 23 marzo 2015 su Il Giornale. Senza freni, ormai. A tutte le ore. Da tutte le bocche. Anche quelle più peccaminose. Anche le più lucide e ritoccate. O quelle più baffute, pelose, rasate di fresco. I fatti da tribunale sono diventati argomento quotidiano di programmi televisivi di ogni genere. Dall’appoltronato talk show al programmino similmusicale, dall’approfondimento giornalistico al salottino enogastronomico. Ovunque, di striscio o di piatto si parla di fatti di cronaca che diventano “caso nazionale” solo per dare notorietà e lustro a questa o quella conduttrice, questo o quel “nuovo volto televisivo”. E le vite di vittime e carnefici diventano carne squartata e stesa al sole della curiosità altrui. Di un malato voyeurismo italico nato, in tempi di crisi di valori e soldi, nella peggior televisione che si potesse immaginare. C’è chi si rivolge “alle signore”, chi tira la giacchetta ai giovani o ai pensionati annoiati, chi si sente già più magistrato dei magistrati e parla, ogni giorno di più, di “interessanti nuove rivelazioni”, “nuove verità”, “testimonianze esclusive”… Un luna park di stupidità e, spesso, di falsità che, se non danneggiano, quantomeno inquinano il corso delle vere indagini. Quelle che spettano alle Forze dell’Ordine. Alla Magistratura. Come mettere fine a questo scempio? Non lo farà la gente, che, costretta a scegliere fra Pinco e Pallino, uno dei due sceglie. Sono gli editori che devono bloccare interi team di autori senza fantasia, senza alcuna capacità creativa. Sono gli editori che devono pretendere, da chi porta a casa fior di euro senza provare il sudore della miniera, un vero impegno professionale e non un copia e incolla di pagine di cronaca nera dai quotidiani, a cui si somma l’opinione personale, non sempre intelligente, di quella pletora di opinionisti globe-trotter, prezzemolini di ogni tv. Sono gli editori che dovrebbero tornare a quella televisione “alla vecchia maniera” rispettosa delle bugie, del “verosimile”, che tanto bene hanno fatto per decenni alla televisione stessa, ai suoi autori, agli italiani. Fra me e me, per oltre un decennio autore di Forum su Retequattro e Canale 5.
Da Corinaldo a Bibbiano: l'Italia scoperta con la «nera». Leggo Martedì 23 Luglio 2019. Cogne, per l’assassinio del piccolo Samuele. Avetrana, per l’omicidio di Sarah Scazzi. Garlasco, per l’assassinio di Chiara Poggi. Erba per l’uccisione di Raffaella Castagna e del figlio Youssef, della madre Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini con il cane. Senza dimenticare Novi Ligure per il duplice omicidio compiuto da Erika e Omar. È anche la cronaca, più spesso la nera, a “fare” la geografia dell’Italia o quantomeno a farla conoscere, portando sotto i riflettori e all’attenzione pubblica luoghi abitualmente lontani dai grandi circuiti che, improvvisamente, vengono – e spesso rimangono – segnati da una tragedia e per quella diventano noti. Procedendo a ritroso si risale a Vermicino, per la straziante morte di Alfredino, a Capocotta per l’assassinio di Wilma Montesi e oltre. È questione di cronaca, appunto, in alcuni casi di storia. Prendendo spunto dal libro “Luoghi comuni. Dal Vajont a Arcore, la geografia che ha cambiato l’Italia” di Pino Corrias, guardiamo all’Italia che, nell’ultimo anno, è stata “rivelata” dalle notizie.
BIBBIANO. Nel cuore dell'Emilia, il paese dei falsi orchi. Bibbiano è un comune di poco più di 10mila abitanti – 10205 secondo gli ultimi dati - nella provincia di Reggio Emilia, in Emilia-Romagna. Nelle ultime settimane, il comune è divenuto tristemente noto per lo scandalo di affidamenti illeciti di bambini, strappati alle loro famiglie, oggetto dell’inchiesta della magistratura chiamata “Angeli e Demoni”. La notizia è emersa il 27 giugno, le indagini però sono iniziate circa un anno prima. Le ipotesi sono gravissime: manipolazioni di minori e allontanamento in via d’urgenza dalle famiglie anche con accuse, senza prove, di abusi sessuali, false relazioni, rapporto tendenziosi. Indagati assistenti sociali e psicologi.
CORINALDO. Cinque morti in discoteca schiacciati dalla folla. Sono stati cinque ragazzi tra 14 e 16 anni e una mamma che accompagnava la figlia di 11 anni a perdere la vita in una discoteca a Corigliano, lo scorso 8 dicembre, mentre il pubblico attendeva il dj set del trapper Sfera Ebbasta tenutosi nel locale durante la festa di cinque scuole superiori. Circa 120 i feriti, alcuni gravi. Dopo che qualcuno ha spruzzato dello spray urticante in pista, nel locale si è scatenato il panico e le sei vittime sono rimaste schiacciate nella calca mentre tentavano di scappare. Le indagini hanno interessato anche il numero dei biglietti venduti, che sarebbe stato eccessivo rispetto alla capienza delle sale. Corinaldo sfiora i cinquemila abitanti - 4927 – e si trova in provincia di Ancona.
FAVARA. Il giallo di Gessica Lattuca: scomparsa e mai più ritrovata
Favara, abitato più di 32mila persone, si trova nella provincia di Agrigento, con cui forma una conurbazione, in Sicilia.
A farne parlare in tutto il Paese è la scomparsa di Gessica Lattuca, madre di quattro figli, sparita il 12 agosto 2018. Nel tempo si sono rincorse molte ipotesi, le indagini hanno portato perfino al cimitero, con l’apertura di alcuni loculi, secondo quanto indicato da una testimone, ma tutto si è rivelato vano. Pochi giorni fa, il 12 luglio, la giovane avrebbe compiuto 28 anni. La madre della donna, che si sta occupando dei suoi figli, in quell’occasione ha rinnovato l’appello affinché che chi sa parli: «I suoi figli vogliono sapere la verità, io non mi arrenderò mai».
MANDURIA. Baby gang tortura e uccide l'anziano senza difese. In provincia di Taranto, in Puglia, Manduria, ex Casalnuovo, ha una popolazione di oltre 31mila abitanti. La sua notorietà è dovuta all’uccisione di Antonio Stano, pensionato sessantaseienne morto il 23 aprile scorso, dopo aver subito ripetute aggressioni e violenze da parte di più gruppi di giovani. In particolare, sono stati otto i ragazzi fermati, sei dei quali minorenni, con le accuse di tortura con l’aggravante della crudeltà, sequestro di persona, violazione di domicilio e danneggiamento. L’uomo che soffriva di disagio psichico, era incapace di reagire. Da quanto emerso nel corso delle indagini, le aggressioni duravano da anni. I giovani attaccavano la vittima, anche introducendosi con la forza in casa sua.
VITTORIA. Simone e Alessio, i cuginetti morti investiti dal suv. Dopo il capoluogo, Vittoria è il comune più popolato del ragusano, in Sicilia, con quasi 65mila - 64072 – abitanti. La località è diventata largamente nota per la morte dei cuginetti Alessio, 11 anni, e Simone, 12, investiti l’11 luglio sotto casa da un Suv guidato da un trentasettenne pregiudicato che, al momento dell’incidente, era ubriaco e aveva fatto uso di cocaina. Il piccolo Alessio è arrivato in ospedale già morto. Simone è stato ricoverato in condizioni apparse da subito gravissime. Gli sono state amputate le gambe, ma nulla è valso a salvargli la vita. I due ragazzini stavano giocando con il cellulare, seduti sui gradini di casa, sicuri di non correre pericoli.
· Il Populismo penale: dal Femminicidio all’omicidio stradale.
Dall’omicidio stradale al femminicidio: vince il populismo penale. Angela Azzaro il 16 luglio 2019 su Il Dubbio. Nuovi reati e pene sempre più dure. Ma la ricetta è sbagliata. Che si tratti di delitti contro le donne o di incidenti stradali, la soluzione offerta è sempre la stessa: galera, galera e galera. Dall’omicidio stradale al femminicidio. Sono decenni che in Italia i temi più scottanti vengono affrontati sempre allo stesso modo, creando nuove fattispecie di reato oppure chiedendo, e ottenendo, l’aumento delle pene. Ma è davvero la strada giusta da percorrere? E perché si è scelta proprio questa direzione? Prendiamo due esempi lontani tra loro, se si pensa alle motivazioni che ci sono dietro, ma che hanno in comune la richiesta di più galera per chi viene coinvolto. Sono due fatti legati alla cronaca di questi giorni: da una parte i femminicidi, dall’altra gli omicidi stradali. La soluzione per questioni così complesse, e diverse, è sempre la stessa: galera, galera e ancora galera. A pochi ormai viene in mente di affrontare i problemi ponendoli sul piano della cultura, della prevenzione, del cambiamento sociale. Eppure i dati dimostrano che aumentare le pene non sia un deterrente e che il problema va affrontato alla radice se davvero lo si vuole risolvere. Deborah è l’ultimo caso, l’ultimo femminicidio. E’ stata uccisa dall’ex, già condannato per stalking, mentre cantava in una serata dedicata al karaoke. Si sentiva braccata, ma in quel momento forse era felice, faceva una cosa che le piaceva. Il suo ex la ha uccisa davanti a tutti, una vendetta consumata fredda e che almeno per una volta leva a diversi giornali la possibilità di scrivere che è stato un raptus, una follia, e non una premeditazione. Chi lavora nei centri anti violenza sa bene che dietro un femminicidio ci sono, quasi sempre, anni e anni di violenze fisiche e psicologiche. Non si tratta di episodi isolati. Dietro a Deborah, come a tutte le altre di cui apprendiamo i nomi e le storie una volta che non ci sono più, ci sono sofferenze, solitudini, impossibilità di rifarsi una vita. Per questo i centri antiviolenza, che sono il cuore della lotta alla violenza contro le donne, non chiedono aumento delle pene, ma aumento dei fondi da investire per prevenire. Se una donna, decide di sporgere denuncia o di lasciare la casa che condivide con il marito o compagno violento deve essere messa nelle condizioni di rendersi autonoma da tutti i punti di vista, a partire da quello economico. Servono strumenti, mezzi, risorse. Invece sui soldi si continua a non investire il necessario per fare una seria campagna di informazione, formazione, aiuto alle donne in difficoltà. I stessi centri antiviolenza D. i. Re hanno espresso il loro dissenso rispetto alle misure del “Codice rosso” là dove si parla di aumento delle pene perché in generale non è interesse delle donne che certo non cercano pene esemplari, ambiscono piuttosto a vivere libere dalla violenza. Nonostante l’introduzione della nuova legge sull’omicidio stradale, tanto criticata dai penalisti e da una parte dell’opinione pubblica, ogni qualvolta che si assiste alle stragi del sabato sera la reazione è la stessa. Non basta aver aumentato le pene, si vuole di più. Sempre di più. A tal punto che il vicepremier Luigi di Maio in un post su Facebook sembra voler invocare la pena di morte, perché – ha detto la prigione non basta. Anche in questo caso la carta della prevenzione e del cambiamento viene tenuta fuori gioco, come se fosse una chimera, un sogno impossibile. Dieci ragazzi morti nel week end, più i due cugini nel ragusano, davvero sarebbero ancora vivi se si potesse applicare una pena ancora più severa? Nel 2017 i morti su strada sono aumentati rispetto all’anno precedente, senza contare che la nuova legge ha – purtroppo – visto aumentare anche i casi di omissione di soccorso con conseguenze spesso letali. Se davvero dovesse interessare che i morti diminuiscano, si dovrebbero prendere ben altre iniziative: per esempio fare informazione soprattutto per le giovani generazioni, aumentare i controlli su strada, migliorare la viabilità che in alcune parti del Paese è ferma all’anno zero. Invece davanti a fatti che indubbiamente lasciano sgomenti e addolorati, si sceglie la strada più breve, quella che parla non alla razionalità ma alla pancia delle persone.
IL POPULISMO PENALE. Secondo il professor Giovanni Fiandaca il populismo penale è la «strumentalizzazione politica del diritto penale e delle sue valenze simboliche in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure, allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico- mediatiche propense a drammatizzare il rischio- criminalità». Nel caso dei femminicidi ciò a cui non si vuol mettere mano è il rapporto uomo donna, la sua matrice comune a tutte le relazioni. Si ha cioè paura di affrontare il nodo principale mettendo in discussione ruoli, stereotipi, abiti culturali che tutti e tutte abbiamo assunti. Si ha cioè paura di mettere in discussione se stessi e la società intera. Meglio invocare l’aumento delle pene che è appunto rassicurante, perché sposta sul singolo e la sua punizione, quella sfida che dovremmo fare nostra in prima persona. Meno complesso il discorso della risposta populista all’omicidio stradale dal punto di vista delle dinamiche psicologiche e storiche. La legge e le reazioni di questi giorni sono però pur sempre emblematiche di una società che invece di ragionare e cambiare, preferisce mettere in atto riti ancestrali fondati sulla vendetta. Non si tratta di essere buonisti o innocentisti ma di capire quale sia la miglior risposta per problemi che assumono valenze spesso così tragiche. Rispondere: più galera, non è una soluzione. E’ una sconfitta.
· Viva la Forca!
Amor di Forca. L’idiozia delle pene deterrenti. Iuri Maria Prado 29 Novembre 2019 su Il Riformista. Un’altra balordaggine in materia di giustizia è questa: che per ottenere il rispetto della legge bisogna rendere conveniente rispettarla. E come si fa? Si fanno leggi sempre più dure, affinché tutti sappiano che violarle non conviene. Questo illuminato programma è illustrato a destra e a manca perlopiù quando si discute di evasione fiscale, ma è riproposto frequentemente a proposito di qualsiasi illecito e precipita sempre in una ricetta esclusiva: alzare le pene. Con l’accortezza – come spiega certa magistratura militante – di alzare le pene minime, in modo tale da garantire che in galera ci vadano proprio tutti (lo ha spiegato qualche giorno fa il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, durante la trasmissione Otto e mezzo, con la giornalista Lilli Gruber impegnata a mettere in difficoltà il magistrato facendosi aiutare da Marco Travaglio). Qualche millennio di esperienza dovrebbe insegnare che la società non migliora mai con l’indurimento delle leggi: e che una legge è veramente efficace quando è diffusamente ritenuta giusta, non quando si ha solo il timore di sottrarvisi. Ma si faccia pure l’ipotesi che, al contrario, la cosa funzioni. Si faccia l’ipotesi, cioè, che davvero aggravare il sistema e l’entità delle pene costituisca un modo efficace per ottenere – come dicono questi qui – maggiore “legalità”. D’accordo: ma il limite qual è? Immaginiamo qualche esempio. La prospettiva di rimanere a pane e acqua per la durata della detenzione non deve essere un granché, e disporre che i detenuti godano di una simile dieta rappresenterebbe un ottimo esperimento dell’intenzione di rendere poco conveniente violare la legge. Che cosa facciamo? La introduciamo, questa salutare riforma? Oppure – che so? – i lavori forzati. Nemmeno quelli saranno visti come una delizia, e c’è caso che uno ci pensi un paio di volte in più, quando sta per commettere un delitto, se sa che finisce a spaccare pietre sotto il sole. Ma è un motivo sufficiente per accogliere nel nostro ordinamento questa bella soluzione? Forse sarebbe il caso di capire che un sistema civile rifiuta le pene terribili perché non desidera una legalità fondata sul terrore. E rifiuta il terrore anche se sa che il terrore può servire. E’, molto semplicemente, ciò che lo rende diverso da un sistema autoritario. Come quello governato dai militari. O dai magistrati.
Vittorio Feltri contro Bonafede: "Una cosa drammatica e disgustosa. Ministro, ecco di cosa ti devi occupare". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. La notizia è di ieri ma vale anche oggi perché ha una valenza drammatica e abbastanza disgustosa. Sei agenti di custodia del carcere di Torino sono stati arrestati. Motivo, torturavano i detenuti convinti forse di essere dei giustizieri anziché dei servitori dello Stato. Già la galera è un luogo orrendo dove la convivenza civile è solo una utopia. Gli uomini e le donne condannati sono ammucchiati in celle piccole nelle quali è pressoché impossibile avere un minimo di privacy e di rispetto per le persone. Infatti il governo se ne frega altamente della Costituzione che prevede, quale finalità della detenzione, la rieducazione di chi finisce dietro le sbarre. Chi è stato «dentro» fornisce racconti raccapriccianti di quanto vi accade senza che nessuno si impegni a migliorare le cose. Se poi ci si mettono pure i secondini a picchiare e umiliare chi sta scontando una pena, la situazione non è più sostenibile. Chi commette reati è ovvio che debba pagare per la propria colpa, il che deve avvenire mediante la privazione della libertà e non della dignità. Se invece a questa punizione si aggiungono esercizi di sadismo da parte degli agenti nei confronti dei reclusi è obbligatorio intervenire drasticamente onde ripristinare criteri di umanità nella gestione delle prigioni. Occorre grande severità nel reprimere certi abusi che offendono non soltanto chi li subisce ma anche i cittadini informati. Tocca al ministro della Giustizia agire in tale senso, e lo deve fare con urgenza al posto di occuparsi pedestremente di prescrizione da eliminare e scemenze del genere. Il nostro sistema giudiziario si regge quasi esclusivamente sulla restrizione entro quattro mura, tuttavia l' edilizia carceraria è inadeguata e i condannati sono ammassati in pochi metri quadrati e costretti a soffrire fisicamente. Ciò è detestabile. Le torture inflitte loro dal personale di custodia sono quindi un supplemento di pena che ripugna alla coscienza. La politica non può fare spallucce e infischiarsene. So che le nostre proteste cadranno nella indifferenza dei manettari, cioè i giustizialisti che auspicano l'inasprimento delle pene per qualsiasi violazione del codice, ma Libero starà sempre dalla parte di chi viene maltrattato. Vittorio Feltri
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 22 ottobre 2019. Fra le analogie che accomunano i due Mattei, ce n' è una che li accomuna a B.: ne hanno fatte troppe perché la gente se le ricordi tutte. E, visto che è impossibile ricordarle tutte, non ne ricorda nemmeno una, aiutata dai giornaloni che han ripreso a pompare il Cazzaro Verde e il Cazzaro Rosa come salvatori della patria. Due casi esemplari. Partiamo dal Matteo minor. A parte le mirabolanti imprese degli specchiati genitori e le visite alla Leopolda di gentiluomini tipo Lele Mora, dovrebbe dire qualcosina sull'Air Force Renzi. Che marcisce in un hangar dopo che Etihad l'aveva comprato dalla società-fantasma Uthl per 6 milioni e l' Alitalia l'aveva preso in leasing per ben 168 (spendendo, per affittarlo, 26 volte il prezzo d' acquisto). Ecco: Renzi può spiegare i dettagli di quell' affarone, capolavoro ineguagliabile di buona amministrazione? E qualcuno dei suoi fortunati intervistatori glielo può gentilmente domandare?
E ora il Matteo maior. L'altro giorno finisce a Regina Coeli il celebre Casimiro Lieto, autore della Isoardi, il cui allora fidanzato Salvini lo voleva addirittura direttore di Rai1: è accusato di corruzione giudiziaria per aver promesso un posto di lavoro al figlio del giudice che doveva aggiustargli la sentenza su un accertamento fiscale di 230 mila euro. La storia fa il paio con quella di Siri, Arata e Savoini. Il primo è indagato per corruzione da parte del secondo. Il secondo lo è pure in quanto socio occulto di Nicastri (appena condannato a 9 anni per mafia per i suoi legami con Messina Denaro). Il terzo lo è per corruzione internazionale per la mazzettona da 65 milioni di dollari chiesta all'hotel Metropol di Mosca. Grazie a Salvini, Siri era sottosegretario ai Trasporti; Arata doveva diventare presidente dell' authority dell'energia e il figlio stava a Palazzo Chigi accanto a Giorgetti; Savoini era membro ufficiale della delegazione di Salvini nel bilaterale di un anno fa con l'omologo ministro dell' Interno russo. Ora, il Cazzaro Verde è perseguitato dalla sfiga o non riesce proprio a nominare una persona perbene? E, visto che ogni giorno rilascia due o tre interviste, cosa impedisce ai valorosi colleghi di domandargli di questo suo fiuto da rabdomante nel selezionare sempre il peggio? I due Mattei intimano quotidianamente alla Raggi, pericolosa incensurata, di dimettersi da sindaca di Roma (ieri il trust di cervelli Gasparri-Schifani strillava contro Rai1 che osa financo intervistarla senza chiedere il permesso). E lasciano intendere di avere pronto il salvatore della Capitale. Che, visti i precedenti dei due Mattei, potrebbe presto rimpiangere i Lanzichenecchi.
Otto e Mezzo, Marco Travaglio tifa per il carcere agli evasori, ma Purgatori lo zittisce in pochissimo. Libero Quotidiano il 22 Ottobre 2019. Marco Travaglio continua a esultare per il carcere agli evasori. Nella puntata di Otto e Mezzo il direttore del Fatto Quotidiano risponde a Lilli Gruber su Luigi Di Maio: "Il leader dei Cinque Stelle fino a ieri ha strizzato l'occhio agli evasori, ma ora cambia tutto". Travaglio si riferisce ai quei commercianti multati se non hanno il Pos. A intervenire è il giornalista Andrea Purgatori, che con una sola frase mette in difficoltà il direttore: "Il problema principale è un altro: in Italia se qualcuno versa di più al Fisco, deve correre a destra e a manca per riottenere quello che gli spetta. In America ti arriva direttamente a casa". E Travaglio alle corde: "Lì l'evasione è fisiologica non patologica". La replica immediata: "Sì, certo".
VIVA LE MANETTE! Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano il 14 ottobre 2019. La nostra copertina dell' altroieri, sulla bozza del ministro della Giustizia per le manette agli evasori, non è piaciuta a Gad Lerner che è personcina sensibile e l' ha riprodotta su Twitter con un commento affranto: "Manette sbattute così in prima pagina, non c' è buona causa che giustifichi questa perversione. Con tutto quel che succede nel mondo e ora datemi pure dell' amico degli evasori". Sotto, come era prevedibile, una raffica di leggiadre contumelie al sottoscritto e al Fatto Quotidiano (i famosi "hater" e "odiatori" che, quando odiano dalla parte giusta, diventano boccioli di rosa). Insulto per insulto, potremmo rispondere che è quantomeno inelegante, per un giornalista di un gruppo edito da due famiglie fiscalmente a dir poco discutibili, dare del pervertito a chi chiede che gli evasori vadano in galera, come in tutto il mondo civile. Ma non ci abbassiamo a tanto, anche perché non pensiamo che sia la sua frequentazione con editori-evasori a suscitare in Lerner cotanta repulsione per le manette a chi le merita. Non è un fatto personale, ma culturale. Che nasce nei due filoni del pensiero purtroppo dominante, molto diversi fra loro, ma accomunati dall' allergia al senso dello Stato e allo Stato di diritto, cioè per il principio di responsabilità: chi sbaglia paga e chi delinque viene punito. Il primo è quello da cui proviene Gad: quello dei gruppettari di ultrasinistra anni 60 e 70, così abituati a fuggire dalle forze dell' ordine e dai magistrati da non riuscire a liberarsene nemmeno dopo 40-50 anni. L' altro è l' impunitarismo dei ricchi e dei potenti, abituati a una giustizia di classe forte coi deboli e debole coi forti, ai quali Gad è estraneo, ma che nel suo mondo hanno pescato a piene mani per sostenere sui rispettivi giornali le loro battaglie contro la legge uguale per tutti. Queste due culture, che partono dagli antipodi ma si uniscono nella comune avversione alla legalità, si sono saldate negli anni del berlusconismo, quando molti ex-extraparlamentari di sinistra (che già flirtavano con Craxi per la sua guerra ai giudici) si ritrovarono al servizio di B.. Oppure, anche se stavano sulla sponda opposta (come Gad), invocavano continue amnistie e indulti, intimando alla sinistra di guardarsi dalla "via giudiziaria": pareva brutto che un amico dei mafiosi, un frodatore e un corruttore di giudici, finanzieri, senatori, testimoni e minorenni finisse a processo e poi in galera. Ora, confidando nella smemoratezza sulle stragi politico-mafiose e sulle retrostanti trattative, insigni esponenti di quelle due culture applaudono insieme le sentenze di Cedu e Grande Chambre contro l' ergastolo "ostativo". Quelle che regalano agli stragisti insperate aspettative di resurrezione. Naturalmente ciascuno è liberissimo di pensarla come gli pare. Ma è davvero paradossale che chi difende la legalità e lo Stato di diritto sia chiamato continuamente a giustificarsi dai sedicenti "garantisti" per il sol fatto di chiedere l' applicazione della legge. I "pervertiti", caro Gad, non siamo noi: siete voi. Le manette sono uno strumento previsto dalle norme per assicurare alla giustizia i criminali: quelli di strada e quelli in guanti gialli e colletto bianco. Ti dirò di più: negli Stati Uniti, e non solo là, gli evasori e i frodatori fiscali, come i corrotti, i corruttori, i bancarottieri e i falsificatori di bilanci, vengono condannati a pene detentive molto pesanti, che regolarmente scontano nei penitenziari di Stato accanto ad assassini, stupratori, terroristi e trafficanti di droga, non solo con le manette ai polsi, ma anche con le catene ai piedi. Per evitare che scappino o che commettano altri reati (le manette salvano anche vite umane, come ha appena dimostrato la strage alla Questura di Trieste: i due agenti assassinati, se avessero ammanettato il ladro appena fermato, sarebbero ancora vivi). Ma anche perché servano di lezione a chi sta fuori, affinché gli passi la tentazione di delinquere. Perciò, non di rado, arrestati e detenuti - poveracci e white collar - vengono esibiti in manette e in catene: perché le pene, quando sono certe e vere, non finte come da noi, hanno una funzione deterrente prim' ancora che rieducativa. E quella rieducativa dipende anch' essa dalla certezza della pena: se uno sa di poter delinquere facendola franca, non si rieduca mai. Anzi si diseduca vieppiù. Quindi no, non penso affatto che Lerner abbia orrore per le manette perché sia un evasore o un amico degli evasori. Penso che Gad e quelli come lui non abbiano senso dello Stato e non abbiano ancora introiettato il principio di responsabilità che regge lo Stato di diritto, cioè l' unica forma di convivenza civile che trattiene i cittadini dal farsi giustizia da soli come nel Far West. Non vorrei beccarmi altri tweet e insulti. Ma confesso che mi prudono le mani quando ogni anno pago fino all' ultimo euro di tasse e poi penso che, grazie al centrosinistra e al centrodestra, milioni di evasori vivono alle mie spalle senza mai rischiare la galera. E neppure un' indagine, se hanno cura di non superare le soglie di impunità gentilmente offerte nel 2015 da Renzi & C.: 250 mila euro di omesso versamento Iva; 1,5 milioni non dichiarati di frode fiscale; 150 mila euro di dichiarazione infedele; 10% di false valutazioni; 50 mila euro di omessa dichiarazione. Ecco, io questi ladri vorrei vederli in manette (e magari pure in catene), come accadrebbe se queste somme, anziché all' erario, le rubassero in un portafogli, in una borsetta, in un' abitazione, in una banca, in un negozio. Solo le manette possono spaventare gli evasori fino a indurli a rinunciare ai loro enormi guadagni per versare il dovuto allo Stato. Quindi continuerò a pubblicare manette in prima pagina finché non troverò un governo che tratta tutti i ladri allo stesso modo. O lascia rubare tutti, o non lascia rubare nessuno.
Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 17 ottobre 2019. L'altra sera avevo appena finito di discutere a Otto e mezzo con due colleghi sulle manette agli evasori ("barbarie!", anzi "bavbàvie!"), quando ho visto Andrea Orlando, vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, a Cartabianca. Anche lui ripeteva la litania che aumentare le pene agli evasori per mandarli in carcere non serve a niente e non spaventa nessuno: molto più dissuasivo confiscar loro il maltolto. Ora, a parte il fatto che soltanto un mese fa il Pd ha sottoscritto un programma di governo che prevede l'aumento delle pene agli evasori, una simile sciocchezza la può sostenere solo chi non sa nulla delle norme sull'evasione, che già prevedono il sequestro e la confisca delle somme evase. E non dissuadono nessuno dal continuare a evadere. Per un motivo semplice. L'evasione, ancor più della corruzione, è un reato seriale. Nessuno evade un anno e poi basta: chi evade lo fa sempre. Ogni anno mette da parte un bel bottino a spese di quei fessi che pagano le tasse. E sa benissimo che gli accertamenti a campione toccano meno del 10% delle dichiarazioni dei redditi, quindi ogni anno ha il 90% di probabilità di farla franca. Può pure scrivere in dichiarazione "Viva la gnocca" e 9 volte su 10 nessuno se ne accorge. Se poi, una volta nella vita, ha la sfiga di essere scoperto, già sa che potrà tenersi il resto del maltolto (le vecchie evasioni cadono in prescrizione alla velocità della luce); e, quanto all' evasione accertata, lo Stato riesce a riscuotere solo il 12%. Quindi chi evade ha 12% del 10% delle probabilità di dover restituire la refurtiva: cioè l'1,2%. A questo punto, se può evadere e non lo fa è un santo da calendario. O un emerito coglione. E chi pensa di dissuaderlo con la minaccia di levargli un anno di malloppo è come chi crede di dissuadere un pesce minacciando di gettarlo nell' acqua, o una talpa di seppellirla sottoterra. Martedì dalla Gruber il collega di Radio24 citava Mani Pulite come prova del fatto che le manette di Tangentopoli non hanno dissuaso corrotti e corruttori. Piccolo particolare: nessuno dei condannati per Tangentopoli, a parte tre o quattro sfigati, ha scontato la pena in carcere. Intanto perché le pene per la corruzione sono basse e fra sconti, attenuanti e amnistie portano a condanne perlopiù inferiori ai 3 anni (che in Italia non si scontano in galera, ma ai domiciliari o ai servizi sociali). Eppoi perché, appena partirono i processi, i governi di destra e di sinistra si attivarono per mandarli in fumo con varie leggi salva-ladri spacciate per "garantismo". Una invalidava le prove e le confessioni raccolte dai pm. Una depenalizzava l'abuso d'ufficio non patrimoniale. Altre allungavano i tempi dei processi. L'ex Cirielli dimezzava i tempi della prescrizione. L'indulto triennale votato nel 2006 da destra, centro e sinistra salvò i pochi condannati superstiti. Perciò le manette di Mani Pulite non dissuasero nessuno dal ricominciare a smazzettare: perché erano finte. Virtuali. Scritte nei Codici, ma mai scattate se non per brevissime custodie cautelari (e non per gli eletti, protetti dall' immunità-impunità-omertà parlamentare). Quanto alle "manette esibite in pubblico" ai tempi della "bavbavie!" di Mani Pulite, è una leggenda metropolitana: l' unico imputato di Mani Pulite ripreso in vinculis fu il dc Enzo Carra quando fu giudicato per direttissima per falsa testimonianza (e regolarmente condannato). Era - ed è - prassi delle forze dell' ordine accompagnare gli imputati detenuti dai cellulari al Tribunale con le manette ai polsi collegate da una catena per evitare fughe, atti di violenza o di autolesionismo. A quegli schiavettoni erano lucchettati ben 50 imputati, sotto gli occhi di tutti nel corridoio del Palazzo di giustizia. Poi quelli dei casi più semplici (quasi tutti spacciatori extracomunitari) furono via via sganciati per i vari processi e restò solo Carra, giudicato per ultimo. Naturalmente fece notizia e scandalo solo un caso su 50: quello del politico ("bavbavie!"). L' indomani, mentre la casta strillava alla Gestapo e alla tortura, un gruppo di detenuti di Asti scrisse una letterina alla Stampa: "Siamo tutti ladri di galline, eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Ci domandiamo quali differenze esistano fra noi e il sig. Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà". Oggi come allora i garantisti all' italiana non si occupano di loro: si danno pena per i politici (sempreché siano del partito giusto: l' anno scorso Marcello De Vito del M5S fu ripreso e fotografato durante l' arresto, fra l' altro poi annullato dalla Cassazione, senza che nessuno facesse una piega o gridasse alla "bavbavie") e i ricchi (molto popolari nel mondo dell' editoria perché pagano gli stipendi). È bastato che Conte&C. evocassero le manette agli evasori perché il consueto cordone di protezione si dispiegasse su giornali e talk show. Fiumi di parole sulla nostra copertina con le manette ("perversione", "bavbavie", "ovvove"!), ovviamente senza i volti dei destinatari (anche se qualcuno in mente ce l' avremmo). Gargarismi da finti tonti sulla "presunzione di innocenza", che non c' entra una mazza, visto che non abbiamo mai titolato "Manette ai non evasori". Balbettii benaltristi sulle "vere armi di lotta all' evasione", che sono sempre "altre" ma nessuno dice mai quali, anche perché in tutti i Paesi civili chi evade finisce in galera senza che nessuno strilli alla "bavbavie", e guardacaso quei Paesi hanno meno evasione di noi. Mark Twain diceva: "Se votare servisse a qualcosa, non ce lo farebbero fare". Ecco: se il carcere agli evasori non servisse a niente, sarebbe previsto da sempre.
Da la7.it il 17 ottobre 2019. Piercamillo Davigo: "Carcere per gli evasori? C'è un equivoco di fondo: in Italia si calcola che ci siano 12 milioni di evasori fiscali, significa fare 12 milioni di processi: non è realistico. Ci sono strumenti più efficaci: se si verificasse la compatibilità tra i beni posseduti e i redditi dichiarati, il bene acquistato che non è compatibile col reddito viene confiscato".
SU LE MANETTE! Da liberoquotidiano.it il 16 ottobre 2019. Vero e proprio raptus manettaro di Marco Travaglio in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo. Il direttore del Fatto quotidiano quando si parla di lotta all'evasione fiscale si scalda e perde letteralmente il controllo, regalando perle come "mi auguro pene draconiane", "chi evade una volta ha evaso tutte le altre volte" oppure "esibire gli arrestati affinché gli altri imparino e si spaventino". Dal legale al morale, una Santa Inquisizione Fiscale che fa inorridire i due ospiti in studio, i giornalisti Marianna Aprile del settimanale Oggi e Sebastiano Barisoni di Radio24, costretti a una vera e propria lezione di "garantismo" a Travaglio.
Gianni Carotenuto per ilgiornale.it il 16 ottobre 2019. Durissimo scontro nell'ultima puntata di "Otto e Mezzo", su La7, tra la giornalista Marianna Aprile e Marco Travaglio. Gli animi si sono accesi quando la discussione si è spostata sul tema dell'inasprimento delle pene per gli evasori deciso dal governo, che il Fatto Quotidiano, di cui Travaglio è direttore, ha festeggiato di recente con l'esibizione delle manette in prima pagina e il titolone "Manette a chi evade più di 50mila euro". Una scelta, quella del giornale manettaro, che è stata duramente condannata da Aprile. La giornalista di Oggi ha definito l'ostentazione delle manette "una cosa indecente. C'è sempre una presunzione di innocenza. Prima di vedermi sbattuta in prima pagina con le manette, dovrei essere prima processato e condannato, altrimenti è la barbarie". Poi un riferimento ad alcune vicende del passato: "Non vedo - ha affermato Aprile - erché si debba tornare indietro o addirittura aspirare al modello americano con l'esibizione delle manette. Ricordiamo la foto di Enzo Tortora, Mani Pulite...". A quel punto Travaglio è letteralmente esploso: "Mani Pulite era una barbarie?", ha chiesto il direttore del Fatto. Ma l'interlocutrice non si è fatta intimidire: "Ripeto, non sta ai giornali sancire la colpevolezza di un indagato, ma ai tribunali. È una regola base del vivere civile". Chiaramente non condivisa da Travaglio, che ha gridato alla collega: "Succede continuamente, solo che tu te ne accorgi solo quando c'è un politico". Al che Aprile ha replicato: "Perché noi (giornalisti, ndr) abbiamo l'obbligo di pixellare le foto della gente in manette che pubblichiamo? C'è una regola che stabilisce - ha precisato la giornalista - che l'indagato non va esibito quando è in uno stato di debolezza legato a una presunta colpa, altrimenti è una barbarie giudiziaria e si viene meno a uno dei principi fondamentali della Costituzione". La stessa Costituzione che, a dire di Travaglio, è la "guida spirituale" del Fatto. Ma non, evidentemente, sulla presunzione di innocenza sancita dall'art. 27 comma 2 della Carta. "La vera barbarie - ha urlato Travaglio - è che ci siano milioni di persone che derubano milioni di concittadini". "Ma non sta a lei deciderlo, bensì ai tribunali", ha provato a farlo ragionare Aprile. Ma niente da fare. L'ex firma di Espresso e L'Unità ha ripreso la parola affermando che "L'altra barbarie è che Renzi abbia stabilito delle soglie mostruose sotto cui non si viene neppure indagati, altro che esibizione degli indagati. Perché - la domanda retorica di Travaglio - non fanno una legge che dice che posso entrare in casa tua e rubarti solo lo stereo e la tv? Perché fanno le soglie di impunità solo per gli evasori fiscali? Questa è la barbarie".
Caselli e la boutade sull’abolizione dell’appello. Giorgio Varano, responsabile Comunicazione Unione Camere Penali Italiane, l'11 Agosto 2019 su Il Dubbio. Colpisce lo spregio dell’ex procuratore per un istituto richiamato dalla Costituzione. E colpisce soprattutto l’approccio fintamente efficentista: dietro l’ansia per i tempi lunghi della giustizia penale c’è una forma di integralismo religioso giustizialista. Alcuni pubblici ministeri vivono la propria funzione con uno spirito religioso integralista e giustizialista. Poi, una volta andati in pensione, o vengono folgorati sulla via di Damasco, o si pongono come teologi dell’ortodossia integralista. Il Dottor Caselli, con la sua ridondante proposta di abolire l’appello nel penale, fornisce però spiegazioni più da seminarista in erba che da teologo. L’ex procuratore pone due domande: è vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito? È vero che anche in Italia nel 1989 è stato introdotto un sistema di tipo accusatorio? Teme, nel porre queste domande capziose, la reazione “cattiva degli avvocati”. Ma gli avvocati non sono usi a reagire in modo cattivo, anche perché dotati di tanta pazienza, così come di solito non pongono domande scivolose, senza avere la certezza delle risposte. Nel nostro Paese non c’è un sistema processuale accusatorio “puro”, ma un sistema a tendenza (omeopatica) accusatoria. Infatti, non ci sono le carriere dei giudici e dei pm separate, c’è un unico Csm per entrambi, ci sono tantissimi processi che si svolgono a dibattimento, tanti decisi da giudici “onorari”, ci sono tanti limiti ai riti alternativi, non ci sono le giurie solo popolari (le corti d’assise non lo sono), non ci sono le decadenze o le nullità dell’azione penale o l’inutilizzabilità assoluta delle prove raccolte in violazione della legge. Potremmo continuare scrivendo pagine e pagine sul punto. Ma è meglio partire della costituzionalizzazione dell’appello nella nostra Carta, nella speranza che possa terminare questa boutade dell’abolizione dell’appello. Nell’assemblea costituente si discusse a lungo sull’inserimento formale dell’appello penale quale diritto costituzionalmente garantito. Ci furono numerose discussioni, e si convenne di non formalizzare questo diritto solo per il penale, perché, per dirla con le parole di Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, non conveniva ammettere espressamente l’appello per certe categorie di sentenze e provvedimenti, tacendo delle altre, ché sarebbero potute sembrare escluse dall’appello (seduta del 27 novembre 1947). Ma la migliore spiegazione la diede il costituente Francesco Dominedò: «La via ad una più alta tutela delle libertà del cittadino, attraverso la possibilità di configurare sempre il doppio grado di giurisdizione (la Cassazione non era e non è considerata un secondo grado) in quanto sempre operi l’istituto della motivazione, garanzia di giustizia e segno di civiltà». Ed è proprio questo il punto in cui è insito il diritto costituzionale all’appello: l’obbligo della motivazione, previsto da sempre dall’articolo 111 (“Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”). Senza considerare poi le convenzioni e le carte internazionali, che riconoscono come inviolabile il diritto ad un nuovo esame di una sentenza di condanna o colpevolezza, da parte di un tribunale superiore.
Chiedere l’abolizione dell’appello, per risolvere le lungaggini processuali, evidenzia una concezione di fondo della giustizia molto preoccupante: i giudici non possono sbagliare. Il vero problema non è solo che i giudici sbagliano (quasi la metà delle sentenze di primo grado vengono riformate in appello). Il problema è che non leggono perché hanno sbagliato. Infatti, non hanno l’obbligo di studiare le sentenze di appello avverso le loro pronunce. Ma è altrettanto preoccupante questo approccio fintamente efficientista, perché in realtà affronta in modo populista il problema delle lungaggini processuali, che i dati statistici dei vari Tribunali confermano essere causato da disorganizzazione e da mancanza di mezzi e personale. Proporre di abolire l’appello per ridurre i tempi processuali è un po’ come dire che per eliminare le attese negli ospedali dobbiamo abolire la possibilità di chiedere un secondo accesso agli stessi, anche se la prima volta ci hanno sbagliato la cura. È vero che viviamo tempi in cui si può abolire la povertà con un post sui social network, ma non è detto che dobbiamo considerare credibile chi ritiene di risolvere i problemi in questo modo.
FORCA ASSASSINA. Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2019. Egregi forcaioli, poco gentili paladini del giustizialismo, feticisti delle manette facili, ma voi conoscete il numero di vittime delle vostre ossessioni come Calogero Mannino, riconosciuto innocente dopo ventisette anni di gogna e ingiustizia? Immagino di no, ma si tratta di decine, forse di centinaia di persone innocenti che avete massacrato proditoriamente. Governatori di Regioni e Province, sindaci, assessori, parlamentari, politici della Prima, Seconda e Terza Repubblica con tutto il codazzo di clan, cricche, loggette, creato appositamente per tracciare grandi disegni criminosi sui media senza mai arrivare a uno straccio di prova, tutti gettati nelle fauci della pubblica riprovazione quando montava l' ondata accusatoria, poi abbandonati a se stessi quando è stata riconosciuta loro l' estraneità ai fatti. Sapete quanti assolti, quanti prosciolti, quanti intercettati poi nemmeno rinviati a giudizio hanno costellato la vita giudiziaria di uno Stato che ha smesso da tempo di essere uno Stato di diritto? Avete anche devastato il linguaggio: avete lasciato intendere che indagato voglia dire imputato, e che imputato significhi condannato, e che la prescrizione sia un privilegio, e non un esito quasi sempre dovuto alla lentezza pachidermica della magistratura. Avete fatto a pezzi il sacrosanto principio costituzionale della presunzione di innocenza, caposaldo di uno Stato di diritto. Poi certo, esistono i tanti casi di innocenti non famosi perseguitati dall' ingiustizia: ma almeno su quelli non avete esercitato il vostro sadismo mediatico. Perché questo siete: un po' sadici. Che degli anni di galera da innocente di Mannino non vi importa nulla, ancora ad inseguire i fantasmi dei vostri teoremi politici celebrati nei tribunali, che sarebbero ridicoli se non fossero tragici. E bisognerebbe fare un elenco aggiornato degli innocenti che avete distrutto. Ma ci vorrebbe Amnesty International.
Il piano delle toghe: fermare un esecutivo di centrodestra. Le procure in soccorso del M5s mandano un messaggio alla Lega: fate attenzione a tornare con Berlusconi. Augusto Minzolini, Mercoledì 08/05/2019, su Il Giornale. A Montecitorio, il giorno dell'ennesima incursione della giustizia nella politica, il sottosegretario leghista Claudio Durigon, lo ammette senza remore. «Io confida ho paura su tutto. Se vado in bagno ho paura pure di fare la pipì fuori dal vaso, perché mi becco un avviso di garanzia. Mi hanno messo in mezzo alla storia dei rom a Latina, quando all'epoca dei fatti non ero neppure leghista. Mi hanno dato del fascista, ma vengo da una famiglia democristiana, con tanto di zio prete e tre zie suore. Con questa storia del traffico di influenze mi occupo solo delle cose che mi riguardano, quando invece mi piacerebbe tanto sbloccare i cantieri per l'ampliamento della Pontina che è fermo da dieci anni anche se tutti lo vogliono. Ma come faccio? Ogni campagna elettorale si gioca sulle inchieste giudiziarie: l'atmosfera è terribile». Poco più in là, altro uomo del Carroccio, Paolo Tiramani, si lascia andare alla stessa confessione. «Dopo gli arresti di oggi, con quei capi d'imputazione racconta come fai a non aver paura!?». E seduto, accanto a lui, un altro leghista, Alessandro Giglio Vigna, rispolvera un vecchio adagio: «È la solita inchiesta ad orologeria, ma alla fine vinceremo lo stesso». Appunto. Un altro giorno di campagna elettorale, un'altra inchiesta giudiziaria, altri arresti, altri avvisi di garanzia. In questi trent'anni il copione si è ripetuto tante volte che non si contano, con obiettivi diversi, ma con logiche politiche sempre stringenti, nascoste dietro lo spauracchio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Ieri è stato il turno di quello che una volta era chiamato il centrodestra: bersaglio principale Forza Italia e i suoi esponenti (un candidato alle Europee, un sottosegretario alla Regione, e una serie di coordinatori del partito), ma dentro c'è finito anche il partito della Meloni e qualche uomo d'area della Lega. E la lettura dentro il Palazzo è fin troppo semplice, quasi elementare: un modo per parlare alla suocera (Forza Italia) perché nuora (la Lega) intenda. «Il colpo a noi spiega Gregorio Fontana, responsabile dell'organizzazione degli azzurri è stato pesante, ma il fine di una certa magistratura è un avvertimento ai leghisti: State attenti a riallearvi con Berlusconi...». Una lettura magari troppo «politicista», che però non è priva di elementi. La richiesta degli arresti è di due mesi fa, ma hanno avuto il via libera alla vigilia del Consiglio dei ministri sul caso Siri e a 20 giorni dal voto europeo. Il governatore leghista, Attilio Fontana, appare come parte offesa, ma il capo della procura milanese, Greco, nicchia: «Valuteremo la sua posizione». E, poi, c'è il can can grillino sull'inchiesta con tanto di conferenza stampa di Di Maio e Bonafede (a dir poco irrituale) e le paure «speculari» dei leghisti. Un copione che alla fine ottiene il risultato di mettere all'angolo Salvini sul caso Siri: «Voteremo ha detto ieri sera - contro le dimissioni di Siri, se ci sarà un voto, ma il governo andrà avanti altri quattro anni». Una resa. Poi, naturalmente, il vicepremier leghista è pronto a fare il buon viso e il cattivo gioco. Oggi il ministro del Carroccio, Erika Stefani, parlerà con il premier Conte per strappare una «pre-intesa» sulla legge sull'autonomia già nel Consiglio dei ministri della prossima settimana per avere una rivincita in questa campagna elettorale. Ma l'intenzione grillina è quella di tergiversare. La verità è che grazie alla questione «giustizia» il vertice pentastellato è convinto di poter nuovamente esercitare una sorta di egemonia sul governo. «Non ci sarà nessuna crisi sul caso Siri, sarà dimissionato e basta» scommetteva già ieri mattina il ministro della Giustizia, Bonafede: «Se poi Salvini diventerà più rigido sull'autonomia, sono convinto che alla fine troveremo la quadra. In fondo le firme per i referendum in Lombardia e Veneto le abbiamo raccolte anche noi». Miele per lenire le ferite dell'avversario. Come le parole del capogruppo dei deputati grillini D'Uva: «Il caso Siri ha una sua specificità, ma non adotteremo una politica giustizialista: sui casi giudiziari di leghisti come Rixi e Molinari abbiamo avuto un atteggiamento diverso». Ma si tratta di dichiarazioni di circostanza: il bastone e la carota. Niente di più. Se parli con Di Maio, infatti, ti accorgi che l'iter dell'autonomia sarà lungo e ci metterà del tempo prima di arrivare in Parlamento. Come pure è palese l'intenzione del vicepremier grillino di agitare le inchieste, la lotta alla corruzione, come argomento principale per riconquistare consensi in questa ultima fase di campagna elettorale e per mettere Salvini «sotto schiaffo»: «La corruzione è la prima emergenza del Paese, il primo strumento per rilanciare la crescita». Argomenti, concetti, che saldano il movimento con quella parte della magistratura «interventista» che si rifà alle tesi di un magistrato come Piercamillo Davigo e alla sua filosofia: «Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». E qui c'è il limite della strategia leghista, il rischio dell'alleanza con un movimento che, se messo in difficoltà, può sempre contare su alleati tra le toghe, mentre il Carroccio su quel versante è «nudo». «La conferenza stampa di Di Maio e Bonafede accusa il forzista Davide Bendinelli dimostra chi sono i mandanti occulti di certe inchieste ad orologeria». «Salvini rincara l'altra forzista, Debora Bergamini dovrebbe compattare il centrodestra per opporsi al giustizialismo dilagante, invece si sta consegnando a loro. Non ha capito che colpiscono noi per eliminare la possibile maggioranza di centrodestra del futuro e mettere la Lega in balia dei 5stelle. I grillini hanno legami con le procure e lui farà la fine di Sigfrido nell'accampamento di Attila». Insomma, il «Capitano» rischia di scoprire, a sue spese, quanto sia complesso il «gioco» della politica in Italia. Quella sorta di «trono di Spade» nostrano per citare una serie televisiva che va per la maggiore che il Cav ha sperimentato sulla sua pelle negli ultimi 25 anni. «Forza Italia osserva Giuseppe Gargani, già responsabile giustizia della Dc e poi degli azzurri, nonché testimone d'eccezione dello scontro tra giustizia e politica degli ultimi trent'anni - prima prendeva schiaffi da certa magistratura perché era al governo. Ora perché potrebbe far parte di un'alternativa all'attuale governo grillino. La verità è che il network 5stelle si basa sull'alleanza con quella parte della magistratura che si è organizzata un sindacato con a capo magistrati come Davigo. Un network più sofisticato, e pericoloso, della vecchia magistratura democratica».
Garantismo “occasionale”. Editoriale del direttore Carlo Fusi il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il processo mediatico «si distacca completamente dalla realtà», ha spiegato il neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Pasquale Grasso, nella bella intervista di Mattia Feltri sulla Stampa. «Il processo mediatico è una deriva non più accettabile», aveva ammonito Andrea Mascherin, presidente del Cnf, nella relazione al Congresso forense di Roma di una settimana fa. Stessi concetti, medesimo linguaggio tra magistrati e avvocati. Dunque tutto a posto? Se la questione riguardasse solo gli aspetti, per così dire, “tecnici” del processo, presumibilmente sì. C’è tuttavia una dimensione che merita di essere approfondita e attiene al ruolo dell’opinione pubblica, alla pressione che viene svolta nei modi più vari e che rischia di condizionare l’esercizio della giustizia con l’obiettivo di piegarla agli umori del momento. Per capirci. Alla fine degli anni ’ 90, nel pieno della bufera di Mani Pulite, le toghe vennero caricate – più o meno strumentalmente, e forse più che meno – del compito di essere lavacro delle ruberie e debellatori della corruzione di una classe politica screditata e inaffidabile. «Condottieri e risanatori. Alla lunga non è stata una buona cosa e c’è stato un riflusso», dice sempre Grasso. Va aggiunto che chi allora svolgeva il compito costituzionale di difesa degli indagati spesso veniva vissuto, da opinione pubblica e media, come correo o ostacolo al giusto e necessario meccanismo di risanamento politico e morale del Paese. Trent’anni dopo, il sentimento popolare volge all’opposto: i giudici che si rifanno alle regole e alla legge per valutare responsabilità e addebiti vengono criticati dai cittadini e attaccati dai leader politici a volte nel corso stesso delle indagini. Mentre nell’immaginario collettivo gli avvocati sono rimasti lì: non un ostacolo alla giustizia, ma comunque cultori di tortuosità e sviamenti. Insomma il garantismo in quell’epoca rivolto agli accusati dovrebbe diventare ora barriera a difesa dell’operato dei magistrati. Perché la “pancia” degli italiani ha cambiato verso. Però l’esercizio della giustizia è altro. Lo Stato di diritto non è una clessidra che si può rovesciare per segnare i tempi delle necessità e delle convenienze. Idem il garantismo, qualunque sia l’accezione che se ne voglia dare. Le regole vanno rispettate sempre e comunque. E chi è chiamato ad interpretarle esprime il senso più pieno della democrazia. Il garantismo occasionale, come il suo rovescio, è una tentazione comoda. Ma deleteria.
VIVA LA FORCA! Ugo Magri per “la Stampa” il 16 aprile 2019. La magistratura è tornata nel mirino della politica. Oggi la sua indipendenza viene minacciata come e, forse, più che ai tempi di Mani Pulite e delle mille inchieste contro Silvio Berlusconi. Le toghe sono maggiormente a rischio perché il tentativo di soggiogarle non viene da leader inquisiti, preoccupati soltanto di sfuggire a una giusta pena, ma è condotto da personalità di governo che si proclamano interpreti dello spirito di vendetta e, metaforicamente, reclamano la forca. Tanto Luigi Di Maio quanto Matteo Salvini si sono scagliati a turno contro verdetti da loro giudicati troppo miti o non abbastanza esemplari. Hanno definito «vergognose» certe decisioni, surfando l' onda dello sdegno contro i colpevoli e innescando una gogna mediatica nei confronti dei magistrati «buonisti». I quali una volta dovevano guardarsi dagli imputati, che manovravano le leve del potere nel tentativo di delegittimarli; adesso vengono egualmente strattonati dai potenti, però a nome delle vittime e per calcoli di natura elettorale. Un tempo pm e giudici passavano per inquisitori a tutto disposti pur di mandare i potenti al gabbio; ora devono proteggersi dal fuoco amico, cioè dall' accusa di anteporre le garanzie della Costituzione alle punizioni esemplari che il popolo reclama. In entrambi i casi, non viene tollerato che il giudice decida in base alla legge, con scrupolo e magari con qualche tormento interiore causato dalle sfaccettature in cui si cela la verità. L' interesse dell' intervista di Mattia Feltri a Pasquale Grasso, sta proprio in questa realistica presa d' atto. Il numero uno dell' Associazione nazionale magistrati riconosce che il fronte si è spostato, inedite sfide attendono gli operatori della giustizia. Si colgono, nelle parole di Grasso, le stesse preoccupazioni di Sergio Mattarella rilanciate su queste colonne da Vladimiro Zagrebelsky. Il capo dello Stato esorta la magistratura a rimanere concentrata sul proprio compito senza lasciarsi intimidire dal populismo giudiziario che vorrebbe sempre la pena massima. La cronaca trabocca di esempi. L' ultimo drammatico caso riguarda l' omicidio del maresciallo Vincenzo Di Gennaro. Quando il ministro dell' Interno diffonde personalmente le foto dell' assassino, e le accompagna con il commento standard («Non merita di uscire dalla galera fino alla fine dei suoi giorni»), diventa difficile vestire i panni del giudice. L' unica via di scampo è uniformarsi. Qualora l'«infame» non ricevesse un bell' ergastolo, che probabilmente merita ma non spetta a Salvini stabilirlo, l' autore della sentenza verrebbe travolto dai media e sui social. Si coglie la tendenza a riversare sui magistrati le colpe dell' insicurezza collettiva («Noi li arrestiamo, quelli li rimettono in circolo»). I troppi casi di femminicidio hanno reso ancora più esigui i margini di valutazione, criminalizzando quelle donne che non hanno ritenuto di applicare la giustizia di genere. In questo clima di attenuata civiltà giuridica, è difficile dissentire dal presidente Anm: una separazione delle carriere tra pm e giudici metterebbe la magistratura ancor più sotto schiaffo. Col paradosso che ai garantisti, quelli veri, oggi converrebbe ripensare quella loro antica battaglia, e schierarsi in difesa delle odiate toghe. Chi l' avrebbe mai detto.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 16 aprile 2019. Pasquale Grasso, cinquant' anni, presidente dell' Associazione magistrati nell' accordo di turnazione annuale per cui ognuna delle quattro correnti rappresentate nel parlamentino presiede la giunta per un anno, è esponente di Magistratura indipendente, forse la più moderata. Concede alla Stampa la prima intervista da presidente, e la chiacchierata parte inevitabilmente dai rapporti fra politica e magistratura.
Presidente, di fronte a vari casi di cronaca, i leader politici, soprattutto di governo, hanno preso l' abitudine di anticipare le sentenze, esprimendo sul sentito dire quale sarebbe per loro la condanna adeguata.
«Per noi non è un problema nuovo. Forse la necessità di una presa di posizione politica è inevitabile, e non possiamo impedire che le sentenze vengano anticipate secondo una sensibilità politica. Ci piacerebbe se anche i professionisti dell' informazione avessero cura del linguaggio, perché la forma è sostanza. Di recente alcune sentenze sono commentate con termini come assurdità o vergogna».
Sono termini usati dai vicepremier. L' informazione non può che riportarli testuali.
«Me ne rendo conto, ma non posso permettermi di dire a un vicepremier quale linguaggio usare. Posso però dire che la distinzione fra il processo reale e il processo mediatico dovrebbe essere più chiara e rimarcata. Da tutti. Perché il processo mediatico, cui partecipa la politica, si distacca completamente dalla realtà dei fatti. Ma aggiungo che un magistrato deve restare indifferente: con le sentenze noi abbiamo l' obbligo di spiegare sempre perché decidiamo in un certo modo. E soprattutto non bisogna avere timore di una perdita di consenso».
È quello che dice anche il presidente Mattarella, a proposito dei magistrati che via internet cercano consenso sociale.
«Dobbiamo trovare il modo di comunicare il nostro lavoro. Per esempio il tribunale di Genova ha nominato un responsabile della comunicazione. Oggi è indispensabile se, per esempio, una sentenza viene pesantemente e superficialmente criticata sulla base di una sola frase».
È anche vero che da quasi trent' anni i magistrati danno l' impressione di proporsi come guida morale del Paese.
«È una percezione non del tutto infondata che risale a Mani pulite, quando i magistrati avevano consenso altissimo, erano visti come condottieri e risanatori. Alla lunga non è stata una buona cosa e c' è stato un riflusso. La stragrande parte di noi sono giudici di tutti i giorni, che fanno un lavoro essenziale ed eccezionale. Mi auguro che sapremo dare un' immagine più equilibrata di noi, e che ci venga riconosciuta».
Il risultato, oggi soprattutto a causa della politica, è un dibattito emotivo, il cui sbocco è sempre e solo l' aumento delle pene.
«Sono d' accordissimo. La reazione emotiva può andare bene per le vittime e i parenti delle vittime, non per la politica, non con una, ma con tre p maiuscole, di cui ho sacrale rispetto. Lo dico da cittadino, non da presidente dell' Anm. Rispondere con l' aumento delle pene è comodo, facilone, e poco produttivo».
A gennaio scatterà lo stop alla prescrizione, e dovrebbe arrivare una riforma del processo penale scritta in pochi mesi. L' ultima, negli anni 80, fu pensata dai massimi giuristi in anni di lavoro.
«Quella riforma fu una rivoluzione copernicana, mentre in questo caso il governo ha preso atto di alcuni limiti del processo penale e intende porre rimedio. Noi abbiamo dato il nostro contributo ma è vero che non c' è stato - a differenza che nella riforma che oggi compie trent' anni - un intenso rapporto fra governo, dottrina, giuristi, università e, anche qui, si corre il rischio di cedere all' onda dell' emotività. Quanto allo stop della prescrizione, si tratta del caso tipico di intervento su un solo organo di un organismo complesso, e può condurre a risultati contraddittori».
Lei, come quasi tutti i suoi colleghi, è contrario alla separazione delle carriere. Ma con l' abolizione dell' immunità parlamentare l' equilibrio dei poteri studiato in Costituzione si è incrinato.
«L' abolizione dell' immunità parlamentare è stata una scelta politica e comunque non colgo la correlazione, non vedo squilibrio dei poteri. Dico solo che il pm chiede il proscioglimento degli imputati che scopre innocenti, mentre l' avvocato, legittimamente, cerca il meglio per l' assistito, anche se è colpevole: ecco la differenza fondamentale. E chiedo: ma davvero vorreste un indirizzo politico al lavoro dei magistrati dato da questo governo? O da qualsiasi altro governo?».
Ho visto procure abbattere governi sulla base di inchieste poi naufragate.
«Effettivamente è un problema che la politica ha reiteratamente posto. Ma l' alternativa, se è il pm sottoposto all' esecutivo, è peggiore del supposto male».
Lei in una lettera ai suoi figli ha descritto lo strazio di infliggere trent' anni a un ragazzo di venti, nonostante fosse uno che ne avesse combinate di tutti i colori.
«Si tratta di una devastazione emotiva che i magistrati conoscono bene. Non ci si abitua mai a decidere della vita degli uomini, sebbene siano colpevoli delle peggiori malefatte. Mi è capitato di uscire stravolto dalla lettura di dispositivi di sentenza».
Lei ha molto a cuore la giustizia civile, che da giudice sta amministrando.
«La giustizia è un tema declinato esclusivamente sul penale, ma è il civile che regola le nostre vite: i divorzi, l' affidamento dei bambini, le eredità, le liti condominiali, le contese fra aziende. Il giudice è essenzialmente un giudice civile, e mi infurio quando si dice che le lungaggini dipendono da giudici fannulloni. Negli uffici giudiziari manca il 30 per cento del personale amministrativo. Noi siamo i cancellieri di noi stessi, stendiamo da soli il verbale al computer. Ma ci rendiamo conto che in media un giudice civile tratta seicento cause contemporaneamente? È come leggere seicento libri tutti insieme. E aggiungo una informazione che tutti trascurano: se il magistrato si ammala, una voce del suo stipendio viene meno, e automaticamente gli si riduce lo stipendio. Cioè, se mi ammalo, è colpa mia».
Inoltre se si blocca la giustizia civile, si blocca l' economia.
«È così. Il diritto civile è economia. La politica dovrebbe rendersene conto perché i costi dei tempi lunghi li scontano, per esempio, i creditori, spesso imprenditori che attendono una decisione sulle loro richieste economiche».
Dalla sua corrente, quattro anni fa, si è scisso Piercamillo Davigo. Come sono i vostri rapporti?
«Penso che le prospettive possano essere di tornare insieme. Forse la scissione ha più avuto a che fare con le contingenze che con le idee, che sono simili, e più che altro espresse con toni diversi».
Sarà, ma questa chiacchierata, con Davigo, non sarebbe andata così.
«Davigo è un collega che rispetto, ma siamo due persone diverse con due storie diverse».
Italia, Paese del giustizialismo che non se ne va. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da L'Opinione della Libertà. Intendiamoci: parlare come fa qualcuno di giustizialismo che ritorna, non è esatto. Il giustizialismo non è ritornato perché non se n’è mai andato. È sempre in azione, all’opera, indefesso e proprio nel Paese che si crede(va) la culla del diritto. Già il nostro giornale che del garantismo ha fatto la sua più vera e unica bandiera, ha narrato nei giorni scorsi casi in sé non eclatanti ma sempre e comunque esemplari, nelle soluzioni giudiziarie, dello stato delle cose in Italia. Siccome il semplicismo, anche e soprattutto mediatico, è subentrato alla dialettica che è la ragion d’essere della democrazia, andrebbero evitate le critiche cosiddette en passant ad una sistema giudiziario che nel suo day-by-day non appare sempre e comunque ispirato alla grande madre di quel garantismo che è oggettivamente indispensabile. Ma che proprio dalla stessa politica – premiata dal voto elettorale e salita a Palazzo Chigi – è spesso e volentieri cestinato perché ispirata alla sua negazione, stabilendo una sorta di santa alleanza con i non pochi Palazzacci e suoi occupanti, più o meno. Del resto, è noto che il giustizialismo d’antan leghista non è mai stato messo in cantina, a cominciare da quel leggendario grido “Mani pulite” inventato soprattutto dai mass media, forse gli stessi che vent’anni dopo hanno dato vita ad un’altra imprecazione, non meno mitica: “La Casta”. Le due grida, invero poco manzoniane, hanno dato una grossa mano, la prima ai successi della Lega (e di Forza Italia prima maniera) con l’annientamento dei partiti della Prima Repubblica, la seconda ai trionfi di un grillismo, prima di lotta ed ora di governo, in nome e per conto del nuovo che avanza. In sostanza, e grazie alle assenze riformatrici degne di questo nome anche da parte di un Cavaliere premiato dai consensi, qualsiasi “riforma della giustizia” e delle sue garanzie per i cittadini non è mai decollata. Questa premessa, sia pure sommaria, serve anche a mettere a fuoco degli esempi che scorrono davanti ai nostri occhi e che si portano con sé il pesante bagaglio di un giustizialismo che non tramonta mai, anche nel silenzio o quasi di un coro massmediatico che sembra poco interessato e propenso ad un’analisi degli episodi e delle persone coinvolte, siano conosciute, sconosciute. Finite nel tritatutto del carcere e delle manette. Il caso della preside di Imperia, Anna Rita Zappulla, è a suo modo emblematico se è vero come è vero che le manette e l’arresto conseguente sono stati inflitti per aver utilizzato l’auto di scuola per un viaggio, anche in Francia, cioè per i fatti suoi. La Zappulla, poi scarcerata, è una signora ultrasessantenne, incensurata, stimata e ha dichiarato di aver fatto quel viaggio in ragione del recupero di fondi europei, purtroppo andati perduti. Dura lex sed lex, si dice in questi casi, ma il proverbio ha spesso il sapore di una sorta giustificazione, ma a posteriori, di provvedimenti che in ben altri casi e ben più gravi non vengono presi. Gli esempi sono tanti e quotidiani e li risparmiamo. Soffermiamoci invece sul caso di Emilio Fede che è scampato ad arresti comunque “minacciati”, ma poi trasformati in “domiciliari”. Francamente è difficile se non impossibile immaginare un famoso giornalista come Fede, ultraottantenne, a rischio di arresto giudiziario per le cosiddette vicende di Arcore sulla cui gravità qualsiasi dibattito, anche il più antiberlusconiano, non potrebbe non concludersi con una risata collettiva, non fosse altro che per scongiurare se non irridere a fronte di una galera alle viste. Ma di dibattiti, nemmeno l’ombra. Dura lex sed lex, appunto. Infine, un cenno di nuovo alla vicenda di un Roberto Formigoni, da qualche tempo associato alle carceri di Bollate, vicino Milano. Anche nel suo caso l’inflessibilità del giudizio è della stessa dura e ferrea materia delle manette. E nessuno può oggettivamente mettere in ombra colpe e responsabilità dell’ex presidente lombardo. Il punto è un altro. Anzi, il fatto. Ed è che Formigoni ha superato i settant’anni e la stessa Costituzione italiana è abbastanza chiara in proposito a condanne in carcere ad una certa età. Dignitosamente, Roberto Formigoni ha voluto e saputo affrontare questa prova con dignità e pacatezza. Ma il fatto, cioè la galera, rimane. Il cappio sventola sul nuovo che avanza.
Regole e garantismo che servono al Paese, scrive Carlo Fusi il 20 Aprile 2019 su Il Dubbio. Proviamo a rigirarla. Proviamo a pensare che Catiuscia Marini sia ancora governatrice umbra. Che il sottosegretario Armando Siri svolga senza patemi il suo incarico. Che la sindaca Raggi si affacci dal balcone sui Fori e veda solo storiche bellezze. Tutto ciò consentirebbe una discussione, accesa ma rispettosa, sulle incrostazioni che il mancato ricambio politico produce rendendo le amministrazioni riserve ereditarie di consenso? Che le grandi opere e le energie rinnovabili sono decisive occasioni di sviluppo a patto che siano del tutto trasparenti? Che non è serio aspettarsi miracoli nel risanamento delle nostre più belle città dopo decenni di trascuratezza e opache se non criminali connivenze, ma è ancora meno serio prometterli? Quasi sicuramente – e desolatamente la risposta non potrebbe che essere negativa. Perché nel nostro Paese la politica da troppo tempo ha smesso di interrogarsi su se stessa, di avere respiro e lungimiranza, di svolgere il compito specifico e democratico di ricerca di soluzioni per il bene comune. Una condizione di progressivo degrado e rinuncia che ha prodotto crollo di autorevolezza e scadimento di fiducia. Il perché mezza Italia rifiuti di andare alle urne sta qui. Su queste basi agisce l’uso strumentale e barbarico delle inchieste, che da decenni ha tracimato il livello di guardia. Le indagini sono diventate armi tanto improprie quanto devastanti di lotta politica dove qualunque colpo, compresi i più bassi, è ammesso o addirittura ricercato. Di conseguenza ogni avviso di garanzia diventa colpevolezza certa; ogni intercettazione, senza guardare se correttamente o scorrettamente pubblicata, inappellabile verdetto di condanna; ogni inchiesta, poco importa se è alle fasi preliminari, processo celebrato con sentenza già scritta. Se poi ci aggiungiamo la disinvoltura con la quale in tanti casi i media civettano con le Procure e l’enfasi spettacolarizzante che gioca senza scrupoli con vicende private e talvolta perfino privatissime delle persone, il quadro è sbozzato. Su questo sfondo, i principi cardine della civiltà giuridica diventano trascurabili orpelli. La presunzione di innocenza viene considerata un ingombro, retaggio di un passato da cancellare. O al contrario sfrontato scudo per nascondere responsabilità. Il controllo di legalità è indispensabile. Ma l’uso politico delle inchieste è fatale. Il rispetto delle regole, sempre e comunque, è il garantismo che ci appartiene e preferiamo.
· La Sinistra: un Toga Party.
L’ex pm Paolo Mancuso è nuovo presidente del Pd napoletano: ormai è un toga party. Marco Demarco il 10 Dicembre 2019 su Il Riformista. Si dice giustizialismo e si pensa ai Cinquestelle, a Di Maio, Travaglio e Bonafede. Ma il Pd? C’è un giustizialismo che non si esaurisce nell’esibizione delle manette, ma che vede nella competenza giudiziaria l’unica, l’assoluta, la sola in grado di tenere insieme il mondo. È il giustizialismo in cui il Pd sguazza. Ecco di cosa si tratta. L’ex magistrato Paolo Mancuso, già pm anticamorra e procuratore capo a Nola, è stato appena nominato presidente del Pd napoletano. La notizia è questa, buona per chi, nel partito dei notabili, aspettava da tempo un nome capace di mettere ordine in un groviglio di interessi e meschinità, che Renzi, quando era segretario, avrebbe voluto incenerire con un lanciafiamme. Ma se questo è il fatto, il contesto è molto meno rassicurante. La scelta di Mancuso è la conferma di un forte squilibrio di sistema: la prova, a dirla tutta, di quanto si sia consolidato negli anni il sodalizio tra i magistrati “di sinistra” e il maggior partito di area. Un sodalizio che risale ai tempi della questione morale di Berlinguer, alla presunta diversità etico-politica dei “buoni” per autodefinizione, ai nomi di Luciano Violante, Anna Finocchiaro, Gerardo D’Ambrosio e Felice Casson, e che senza risalire troppo nella memoria del Pci e sorvolando sul legame tra giustizia e politica che divenne strategico nella stagione di Tangentopoli, arriva fino a oggi, quando il fenomeno, oltre che la Storia, torna a occupare la cronaca. Specialmente nel Mezzogiorno. L’ex magistrato Gennaro Marasca, già autorevole assessore nelle prime giunte postcomuniste di Napoli, è neocomponente della direzione provinciale dello stesso Pd di Mancuso. L’ex magistrato anticamorra Franco Roberti, già assessore regionale di Vincenzo De Luca, il governatore della Campania, è eurodeputato del Pd, eletto da capolista nella circoscrizione meridionale. La magistrata Caterina Chinnici, figlia di Rocco, ucciso dalla mafia, è al pari di Roberti eurodeputata Pd eletta come capolista nella circoscrizione delle isole. E poi ci sono i Michele Emiliano in Puglia, i Pietro Grasso in Sicilia e, caso a parte, Raffaele Cantone che a differenza di tutti gli altri non è mai sceso (o salito o passato) in politica, ma continua a essere in cima ai pensieri del Pd per ogni sorta di alta carica istituzionale. La lista è talmente lunga che basta e avanza. Il partito dei giudici esiste, eccome. Ma non in senso metaforico, a indicare un orientamento di fondo, una egemonia culturale, una presenza forte ma fisicamente impalpabile. Il partito dei giudici è il Pd. Neanche il tempo di andare in pensione o di dimettersi dai ruoli – e qualche volta addirittura con la toga ancora sulle spalle – ed ecco, pronto, il posto in politica. Ormai il passaggio da una funzione all’altra è quasi un avanzamento automatico di carriera. Come lasciare la Nunziatella e passare nell’esercito. Tanto che a pensar male può farsi strada il dubbio che molto di quello che si fa prima, nelle aule di giustizia, possa essere funzionale a quel che si farà dopo, nelle sedi del partito. Ma detto questo, e subito negato per i singoli casi citati, non è che a pensar correttamente il quadro invece migliori. A conti ultimati e lista alla mano, infatti, il Pd si presenta con una rappresentanza a dir poco sbilanciata, come se nella cosiddetta società civile non ci fossero anche imprenditori, disoccupati, operai, scienziati, creativi e professionisti a cui dare voce con pari ossequio e uguale amplificazione. Possibile mai che solo Giuliano da Empoli, in Gli ingegneri del caos, abbia notato che i consulenti più richiesti dai grandi leader mondiali siano oggi i fisici, abituati a destreggiarsi tra i grandi numeri e l’infinito pulviscolo di particelle accelerate? Peggio ancora, il Pd si presenta con una idea di Mezzogiorno inevitabilmente a una dimensione. Senza sfumature e distinguo. Una visione panpenalista, direbbe chi mangia pane e reati. Giustizialista, apocalittica, sospettistica e, in ultima analisi, punitiva e purgatoriale, diremmo noi. Come se il Sud fosse tutto e solo criminalità, intrigo gomorrista, trama oscura, capitalismo amorale e corruzione “seriale e diffusiva”, per definirla alla Davigo, e non avesse, invece, drammatici problemi di modernizzazione da risolvere, al di là delle competenze giudiziarie. Nessuno, poi, che alla luce di tutto questo si chieda come mai i nodi qui in Italia, e specialmente al Sud, comunque restano. E nessuno, ancora, che si interroghi sul perché la scelta di uomini come Mancuso ed Emiliano e le candidature simboliche di Roberti e Chinnici non aiutino la sinistra a uscire dal clamoroso paradosso in cui si è cacciata. La sinistra, in quanto storica paladina dell’uguaglianza, dovrebbe riflettere su come mai, in questi anni, con l’aumentare dei divari economici e delle diseguaglianze civili non ci sia stata una sua parallela crescita elettorale. Ma si ostina a non farlo, per ritrovarsi invece in affanno e sotto assedio, con i populisti e i sovranisti alle porte. Una previsione? Entri la Corte! Di questo passo, è così che si dirà un giorno, quando per fare il punto sulla crisi in atto si convocherà d’urgenza la segreteria politica del partito.
· L’Esercizio Garantista.
ESERCIZIO GARANTISTA. Massimiliano Annetta il 6 settembre 2019 su L’Opinione. Ripetete con me e in rigoroso ordine: 1) Il figlio di Beppe Grillo è, come chiunque, un presunto innocente fino a prova contraria in forza dell’articolo 27, comma 2, di quella Costituzione di cui, quasi sempre a sproposito, andate riempiendovi la bocca; 2) Il fatto che suo padre possieda una villa in Costa Smeralda non ha alcunché di scandaloso, perché ciascuno ha il diritto di spendere i denari lecitamente guadagnati come meglio crede; 3) Il mix di invidia sociale e giustizialismo da quattro soldi che i Cinque Stelle vi hanno propinato fino ad oggi fa ribrezzo.
Ripetere l’esercizio fino a quando non avrete capito. Su, da bravi.
CHI E' SENZA PECCATO SCAGLI LA PRIMA PIETRA. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2019. C'è sempre bisogno di attribuire a qualcuno anche le cose già note: sicché la notizia, ieri, non era che Giuseppe Conte ha un «suocero» evasore proprio mentre il capo del governo straparla di manette agli evasori; la notizia è che l' ha detto Vittorio Sgarbi. Eppure non è una bislacca opinione, un punto di vista stravagante: è una sentenza di patteggiamento ai danni di Cesare Paladino, gestore del «Grand Hotel Plaza» di Roma e occasionalmente padre della fidanzata del presidente del Consiglio. Paladino ha accettato una pena a un anno e due mesi per l' accusa di peculato, in quanto, secondo l' accusa, dal 2014 al 2018 ha intascato la tassa di soggiorno che ogni turista deve versare alle casse del Comune. Al gestore, il 28 giugno scorso, erano stati sequestrati 2 milioni di euro. È quanto basta per consigliare, al Conte manettaro, che per cominciare potrebbe occuparsi di suo suocero. Che è una mezza battuta basata su un fatto vero, e che Sgarbi rende paradossale: «Tra gli evasori da arrestare va riservata una cella di prima classe al padre di Olivia Paladino, sua attuale compagna. Cesare Paladino è il proprietario del Plaza hotel e faceva pagare la tassa di soggiorno ai clienti prima di intascarsela: l' importo accertato dell' evasione, che è un vero e proprio furto all' erario dello Stato di oltre 2 milioni di euro. Si aggiunga che la figlia, essendo amministratore del Plaza, non poteva non sapere. Una buona occasione per il Presidente del Consiglio di dare l' esempio, accompagnandoli in carcere». Sgarbi parla da uomo libero e non da oppositore o da alleato: e parla lui, forse, perché ci sono oppositori ed alleati in posizioni imbarazzanti. Non è chiaro se Matteo Renzi sia un oppositore, ma è chiaro che i suoi genitori - Tiziano Renzi e Laura Bovoli - all'inizio del mese sono stati condannati a un anno e nove mesi per fatture false. Non è neppure chiaro se Luigi Di Maio sia propriamente un alleato di Conte, poi: ma è chiaro e noto che suo padre Antonio Di Maio, meno di un anno fa, ha dovuto ammettere che nella sua ditta c'erano persone che lavoravano senza un contratto, più altre cosette non troppo rinfrancanti.
TENGO FAMIGLIA. Lo sfondo familiare e molto italiano, insomma, resta l'evasione fiscale e il tengo famiglia, per quanto la responsabilità personale resti personalissima. Quello che non è chiaro per niente è se le fumosissime «manette agli evasori» strombazzate da Conte rappresentino un guardarsi in casa oppure, al contrario, un tenere ben lontane le manette dall' uscio familiare. E in attesa dei dettagli - i dettagli sono tutto - sappiamo infatti che l' introduzione di pene severe per chi evade riguarderebbe solo i fatidici «grandi evasori», col dettaglio che l' Italia è terra di piccoli evasori (ma tantissimi) e che insomma resta tutto da capire. Difficile tuttavia credere che da annunci generici ed evasivi (si perdoni il termine) possa nascere quella «rivoluzione culturale» di cui Conte ha già parlato nel suo sparare generici fuochi d' artificio.
PREMI AGLI ONESTI? Si sa solo che le misure saranno «più morbide» rispetto a quelle annunciate, e che, secondo Conte, «per la prima volta lo Stato premia gli onesti». Per la prima volta. Lo Stato, infatti, prima premiava i disonesti. Sempre. Sa tanto di «povertà abolita»: basta dirlo. Poi Conte ha aggiunto che tutto verrà fatto «senza penalizzare chi usa il contante», il che dovrebbe tradursi in una soglia di utilizzo fissata a 2.000 euro (subito) ridotti a 1.000 dal 2022. Resta oscuro, per questa soglia osteggiata da Italia Viva dagli stessi grillini, a che cosa serva esattamente: sappiamo che se ne parla all' articolo 19 del decreto, sappiamo che la soglia del contante è stata modificata molte volte negli ultimi anni, sappiamo che un tetto di mille euro affiancherebbe il nostro Paese a Francia e Portogallo e che il governo Monti fece qualcosa del genere: ma dei benefici non si ha vera notizia, delle seccature che comporta invece sì. Tutto si riduce, il più delle volte, in una rateizzazione dei pagamenti o in un maggior numero di prelievi. Il luogo comune vuole che il contante favorisca l'evasione fiscale e il lavoro nero, oltre a rappresentare un regalo alla criminalità organizzata e addirittura al terrorismo. Ma non ci sono veri dati a riguardo, mentre si sa che i bonus e gli sconti per coloro che acquistino con carte elettroniche non ci saranno, e neppure un azzeramento delle commissioni. Regali alle banche obbligati per legge, insomma. Sullo sfondo le manette ai «grandi evasori» ovviamente al termine di tre gradi di giudizio, ossia alle calende greche. Obiettivo dichiarato: recuperare 7 miliardi di euro confidando nella capacità degli agenti del fisco di scovare gli evasori. Insomma, nessuna rivoluzione. E tantomeno culturale. Solo una musica suonata più o meno da tutti i governi.
L'autogol del premier: con le manette facili ora lui e il suocero rischierebbero la galera. Il padre della compagna di Giuseppi ha patteggiato una condanna per 2 milioni non versati. E il premier ha sanato un contenzioso da 50mila euro. Stefano Zurlo, Martedì 22/10/2019 su Il Giornale. Il premier traccia la strada, Vittorio Sgarbi gliela rende familiare come uno specchio: «Accompagni in carcere il suocero e la figlia Olivia che non poteva non sapere». Le norme sull'evasione fiscale sono un grande cantiere, il presidente del Consiglio dichiara guerra a chi sottrae risorse allo Stato, il celebre critico d'arte punta il dito: il burrone il capo del Governo ce l'ha quasi sotto i piedi. Due in realtà le vicende che in qualche modo incrociano i destini di «Giuseppi» con le mille facce dell'erario. Capitoli non proprio esaltanti che mostrano, fra l'altro, con quanta attenzione si dovrebbero maneggiare temi cosi complessi e scivolosi in cui l'errore spesso confina con l'illecito, nodi che ora l'esecutivo vorrebbe sciogliere, criminalizzando comportamenti che finora erano lontani dai radar del codice. La prima storia, per nulla edificante, riguarda dunque Cesare Paladino (nel tondo), padre dell'attuale compagna del premier, Olivia. L'imprenditore, titolare del Grand Hotel Plaza di Roma si sarebbe intascato per anni la tassa di soggiorno versata dai turisti ospitati nella sua sontuosa struttura. Risultato: un ammanco di 2 milioni per il Comune e una contestazione, pesantissima, per peculato, dunque non un nero in senso stretto ma molto peggio, chiusa con il patteggiamento di 1 anno e 2 mesi. Per la cronaca va detto che Olivia non è mai stata indagata, in ogni caso il padre ha concordato la condanna. Certo, Conte non è in alcun modo responsabile di quel che ha fatto Paladino, oltretutto i rapporti affettivi non sono mai stati formalizzati. Ma il caso, che pure esula dal perimetro del penale fiscale, aiuta a capire la diffusione, purtroppo, di atteggiamenti che devono trovare naturalmente una sanzione, ma non sempre e non solo con l'inasprimento delle pene, con anni e anni di carcere, con il tintinnare delle manette. Non basta, perché nel passato di Conte, non nelle sue frequentazioni, c'è un altro episodio, raccontato a suo tempo dall'Espresso e da Libero, non proprio in linea con la predicazione del premier: due cartelle, una del 2009 e l'altra del 2011, per imposte e multe non versate. Il totale? Oltre 50mila euro. Il premier, che all'epoca era un professore sconosciuto all'opinione pubblica, si era dimenticato di saldare una serie di versamenti ed Equitalia aveva messo un'ipoteca sulla sua casa romana. L'anno scorso, quando ormai Conte era a un passo da Palazzo Chigi, il commercialista aveva cercato di ridimensionare il fatto alla voce contrattempo: «Il professore nel 2009 ha avuto una richiesta di documentazione inerente la sua dichiarazione dei redditi. L'agenzia ha mandato le comunicazioni via posta, ma il portiere non c'è. La cartolina è stata smarrita. Quando il contribuente non si presenta e non porta i giustificativi della dichiarazione, si iscrive al ruolo tutta l'Irpef sulla dichiarazione non presentata». Insomma, la solita maledetta combinazione di sfortuna e burocrazia. Il solito cocktail che avvelena i pozzi del benessere e spinge verso il declino buona parte del ceto medio, un tempo ancorato a un solido benessere. Capita. I giornali hanno dato poi altre letture, più maliziose, di quei debiti trascurati. Alla fine, Conte ha pagato e ha chiuso il contenzioso. E però, nel momento in cui il premier spinge per rivedere le leggi in chiave giustizialista, abbassando l'asticella che fa scattare l'illecito penale e premendo il pedale del carcere, è bene riflettere: certe politiche possono avere effetti disastrosi. Moltiplicano i processi, intasano i tribunali e non tolgono le piaghe. Il catalogo delle possibili sanzioni è molto ampio e basta saper scegliere quella giusta. Senza il faticoso corredo di proclami e grida manzoniane che rimbombano nel vuoto. E che dovrebbero lasciare il posto ad un abbassamento del carico fiscale e a incentivi e premi per sfavorire l'evasione. Discorsi vecchi per manovre sempre più aggressive e muscolari. Sempre, salvo intese. E allora Sgarbi sferra il suo paradosso: Conte metta in carcere il quasi suocero. E cominci a controllare se stesso.
Renzi difende il figlio di Grillo: "No a processi sui social". In un post su Twitter, Matteo Renzi ha commentato così l'indagine per violenza sessuale di gruppo in cui è stato coinvolto Ciro Grillo, figlio di Beppe: "Se è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Noi siamo garantisti". Roberto Bordi, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. "Se il figlio di Beppe Grillo è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Garantisti sempre". Sono le parole con cui Matteo Renzi, su Twitter, difende Ciro Grillo, il figlio più piccolo del comico genovese indagato insieme ad altri tre ragazzi per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 19enne. L'ex premier, che negli ultimi tempi ha ammorbidito i suoi toni polemici nei confronti di Grillo e di tutto il Movimento 5 Stelle, al punto da propiziare l'inizio della trattativa con il Pd che ha portato alla nascita del governo giallo-rosso, è intervenuto per svelenire il dibattito nato sui social, in particolare su Twitter, dopo l'indagine della procura di Tempio Pausania sullo stupro di gruppo che sarebbe stato commesso nella villa di Porto Cervo di proprietà di Grillo. "Se il figlio di Beppe Grillo è colpevole o no lo decideranno i giudici, non i social. Saremo un Paese civile quando nessuno userà le famiglie per aggredire gli avversari politici. In attesa che imparino a farlo gli altri - si legge nell'ultimo post di Matteo Renzi - diamo noi una dimostrazione di civiltà: garantisti sempre". Una presa di posizione, quella dell'ex premier, sulla falsariga di quanto fatto in occasione della polemica sul giro in moto d'acqua, a Milano Marittima, del figlio di Matteo Salvini. Anche in quel caso, l'ex segretario del Pd aveva chiesto di non strumentalizzare la vicenda, invitando gli elettori dem e l'opinione pubblica a "lasciare stare il giovane". Un appello dettato probabilmente da quanto provato sulla propria pelle da Renzi, tirato in ballo per i problemi giudiziari dei genitori.
Quante cautele sull’indagato per stupro Grillo junior. E se fosse stato di CasaPound? Vittoria Belmonte venerdì 6 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Il ragazzo, Ciro Grillo, diciannovenne con una gran voglia di divertirsi, merita ovviamente tutte le garanzie che spettano agli altri cittadini italiani. Non è bello speculare su quest’accusa infamante di stupro arrivata da una modella scandinava con cui avrebbe trascorso una notte brava a base di alcol e forse anche altro nella bollente estate che sta per volgere al termine. Siamo in Costa Smeralda, Ciruzzolohiil (questo il nome usato dal figlio di Beppe Grillo su Instagram), con altri tre amici (tutti di alta estrazione sociale) si porta in villa (la casa paterna?) una scandinava che poi denuncia uno stupro di gruppo. Denuncia tardiva, perché arriva circa dieci giorni dopo il fattaccio. C’è pure un filmato: gli avvocati dei giovani dicono che da lì si vede che il rapporto era consenziente. Gli avvocati della presunta vittima sostengono che dal video ben si evince che si trattò di stupro. Roberto Giachetti, ultrà del garantismo, già avverte: guai a chi specula su questa vicenda. Per carità, e chi vuole speculare. Tanto più che alle garanzie del Codice per Grillo junior si aggiunge il fatto che il ministro della Giustizia è un grillino, Alfonso Bonafede, molto giustizialista quando si tratta di castigare i politici corrotti. E per gli altri reati? Non speculiamo ma per vicinanza cronologica viene in mente un’analoga vicenda: quello dello stupro di Viterbo ad opera di due esponenti di CasaPound. L’evento, pochi mesi fa, meritò l’apertura dei principali quotidiani italiani, ma questo è un dettaglio. Il Pd all’epoca non aveva come adesso perso la voce. Accusava eccome. Eppure anche in quel caso i due stupratori asserirono di avere avuto un rapporto consenziente (e furono anche arrestati). Il senatore di Liberi e Uguali, Francesco Laforgia propose lo scioglimento di CasaPound e di altri movimenti di destra sostenendo che la violenza, e dunque anche lo stupro, provengono da lì, da quella cultura. Ritroverà oggi lo stesso spirito gagliardo e combattivo contro i Cinquestelle? Vedremo. Il senatore del Pd Bruno Astorre, sempre a proposito dello stupro di Viterbo, ebbe a dire: “Di fronte a crimini di questo tipo, e nel rispetto comunque dei diritti dei due giovani arrestati che appartengono a CasaPound, la priorità è la vittima, la famiglia e la comunità di Viterbo che è ferita e sgomenta davanti a questo crimine. Tuttavia, i vertici del governo, Salvini, Di Maio e la maggioranza mettano al bando un’organizzazione parafascista come Casapound – conclude Astorre – che produce una cultura basata sulla violenza, la xenofobia e la sopraffazione”. Intervenne anche la ministra della Salute Giulia Grillo, M5S: “Lo stupro di Viterbo è l’ennesima intollerabile offesa alle donne, aggravata dal fatto che i colpevoli sono militanti di una forza politica. Nessuna connivenza e massima severità con chi umilia le donne e promuove una cultura di sopraffazione che va combattuta in ogni modo”. ne nacque pure una baruffa (una delle tante) tra Salvini che evocò la castrazione chimica e Di Maio che rintuzzò la proposta: “Non è nel contratto”. Basta poco insomma perché uno stupro da reato penale tutto da verificare (bisogna infatti anche tenere presente l’attendibilità della denunciante, che sarà stata opportunamente vagliata dagli inquirenti prima di stabilire se Ciro Grillo meritasse o meno gli arresti domiciliari, che non sono stati ordinati) diventi un caso politico. Eppure stavolta quel particolare “quid” non è scattato. Chissà perché. Sarà per distrazione. O per l’euforia da festeggiamenti seguito alla nascita del Conte bis. Vedremo. Intanto qualche giornalista è riuscito a dare un’occhiata al profilo Instagram del figlio di Grillo, che è anche campione di kick boxing. Nel commento a una sua foto il ragazzo scrive: “Ti stupro, bella bambina, attenta”. E in un altro romantico post scrive: “la tua bitch mi chiama jonny sinn”. Un riferimento, a quanto pare, all’attore porno Jhonny Sins. E ancora, come riporta il Corriere, “in una immagine del 31 agosto 2017 ripresa durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, una scuola situata a Bucklands Beach, Auckland, si vede Ciro in primo piano con degli amici e il commento del figlio di Grillo che recita: «C..i durissimi in Nuova Zelanda»”.
Grillo garantista? Il vero scandalo sono 25 anni di orgia manettara. L'Inkiesta il 3 gennaio 2017. Ora che i guai coinvolgono i suoi, per Grillo l'avviso di garanzia non equivale a una condanna. Un comportamento uguale a quello dei suoi avversari. Che legittima l'uso politico della giustizia. E la rabbia dei cittadini contro i politici “tutti uguali, tutti ladri”. Scusate, dov’è la novità? Una forza politica fonda il suo successo politico urlando che gli altri sono tutti ladri (1), va al potere (2), i suoi leader o i suoi amministratori finiscono indagati (3) e pure quella forza politica si scopre garantista (4). Oggi tocca a Grillo, col suo codice di comportamento per gli eletti e la regola secondo cui l’avviso di garanzia “non comporta alcuna automatica valutazione di gravità dei comportamenti”, dopo anni a sostenere l’esatto contrario. Prima di loro era toccato ai Democratici (un tempo di sinistra) passare dalle monetine a Craxi allo sdegno per le intercettazioni sulla scalata Unipol-Bnl diffuse a mezzo stampa. Ai leghisti, passati dal cappio a Montecitorio agli applausi per Alessandro “il pirla” Patelli, quello della tangente Enimont da 200 milioni di lire. Agli ex missini, orgogliosamente manettari fino all’alleanza con Berlusconi. A Berlusconi stesso, megafono mediatico del pool di Mani Pulite fino all’avviso di garanzia a pochi mesi dall’insediamento a Palazzo Chigi. Fateci caso: mai nessuno è garantista quando i guai coinvolgono gli altri. Nessuno si scandalizza quando la carcerazione preventiva viene usata con estrema disinvoltura contro un avversario politico. Nessuno, quando un ministro altrui si dimette senza nemmeno essere indagato, a causa delle intercettazioni telefoniche sbattute in prima pagina. Nessuno, quando il candidato avverso si piglia la nomea di ”impresentabile” a pochi giorni dalle elezioni, senza alcuna condanna definitiva a suo carico. Nessuno che sottolinea quanto alcune indagini, in prossimità delle elezioni, successive all’insediamento di un amministrazione, o alla caduta di un governo abbiano un timing quantomeno curioso. Nessuno che si scandalizza quando una parlamentare, scienziata di fama mondiale, viene definita “trafficante di virus” da un settimanale, a indagini ancora in corso, e poco importa se si siano concluse con un nulla di fatto. Fateci caso: mai nessuno è garantista quando i guai coinvolgono gli altri. Nessuno si scandalizza quando la carcerazione preventiva viene usata con estrema disinvoltura contro un avversario politico. Nessuno, quando un ministro altrui si dimette senza nemmeno essere indagato, a causa delle intercettazioni telefoniche sbattute in prima pagina. Nessuno, quando il candidato avverso si piglia la nomea di ”impresentabile” a pochi giorni dalle elezioni, senza alcuna condanna pendente. Quando accade, quando i guai riguardano gli altri, i toni sono quelli di venticinque anni fa. Si parla di fatti inquietanti, si presume la colpevolezza, si citano le parole dell’ordinanza d’arresto scambiandole per sentenze, si ironizza sui fatti privati - irrilevanti ai fini d’indagine - che si leggono sui giornali. Si uniscono puntini a caso, facendo intendere chissà quali trame, nascoste dietro il paravento del condizionale. Si fa strame della dignità umana dell’indagato nel nome di una “questione morale” che vale sempre e solo per gli altri. Poi - ops! - ci si stupisce se la gente pensa che i politici siano tutti uguali e tutti ladri, che il Parlamento sia un covo di inquisiti o di gente che ha qualcosa da nascondere. Che l’azione debordante della magistratura non sia un abuso di potere, bensì un male necessario per arginare il malaffare. Che manette, cappi, scope e apriscatole funzionino meglio, nel marketing politico, di idee, riforme, visioni del futuro. Oggi, se la politica italiana fosse seria, dovrebbe plaudere alla (timida) svolta di Grillo e fare quadrato attorno a Virginia Raggi, più in balia della propria incompetenza e della propria inattitudine a combattere contro poteri più grandi di lei, che della propria disonestà, o di quella dei suoi collaboratori. Non succederà. E al prossimo giro di giostra le parti si invertiranno. E la rabbia continuerà a montare.
· I Giallo-Rossi manettari.
Manette, il nuovo logo del governo giallorosso. Paolo Delgado il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Se la punizione esemplare diventa propaganda. Ogni governo ha un cavallo di battaglia: per Berlusconi fu la lotta alle tasse e per Salvini quella ai migranti. I grillini puntano tutto sulle “pene esemplari”. ‘Sorvegliare e punire’. Sarebbe ingeneroso affermare che la peraltro scarna attività di governo in queste prime settimane si è limitata a questo. Il testo rivisto dalla nuova maggioranza del dl Salva imprese, approvato ieri al Senato, contiene norme incisive a favore dei diritti dei Riders e nella stessa manovra di figura il taglio, pur se modesto, del cuneo fiscale a favore dei lavoratori. Però, con tutta la buona volontà, non sono quei 40 euro in più nelle buste paga più basse a connotare questo governo agli occhi dell’opinione pubblica e degli elettori. L’aspetto vistoso della manovra riguarda solo i controlli sull’evasione fiscale, gli obblighi decisi per contrastarla, le "punizioni esemplari" per i trasgressori, i "grandi evasori". E che si tratti anche, se non soprattutto, di "punizioni esemplari" lo ha detto chiaramente Marco Travaglio, che è per i 5S una sorta di ideologo principe, affermando in tv che "far vedere" gli evasori in manette serve a spaventare e quindi a dissuadere. Che le forze politiche, soprattutto nella seconda Repubblica, schierino puntualmente in campo il cavallo di battaglia che ritengono gli frutti più consensi non è una novità. I tempi in cui i partiti modulavano la loro propaganda per rivolgersi a fasce di interesse diverse e le modificavano nel tempo a seconda dei cambiamenti che intervenivano nella realtà sono lontani. Quelli delle ideologie forti, che non necessitavano quindi di propaganda, sono tanto sideralmente distanti da somigliare a favole. Quando la politica diventa solo mercato pubblicitario, non si possono sprecare energie parcellizzando e segmentando il messaggio. Il brand principale deve essere unico, forte, ripetuto all’infinito. Lo insegnava, pur con termini diversi, il dottor Goebbels nei suoi 11 punti che ancora oggi riassumono perfettamente le strategie comunicative in politica. Per Silvio Berlusconi quel cavallo di battaglia erano le tasse. Il cavaliere martellava campagna elettorale dopo campagna elettorale e i risultati lo hanno sempre premiato. La forza dell’M5S, le radici di un’ascesa all’inizio inimmaginabile, affonda le radici nella capacità di individuare un nemico preciso e di indicarlo a un’opinione pubblica che covava già il medesimo risentimento: i politici, indicati come fonte perversa di ogni male. L’odiata "Casta". Quando, nel 2013, Matteo Salvini si ritrovò alla guida di un partito esanime e che sembrava condannato senza possibilità di appello, scoprì la formula magica della salvezza in una campagna permanente contro l’immigrazione. I "clandestini", gli ‘ africani’ andavano sostituendo i politici nella lista nera dell’opinione pubblica. Come i politici erano sempre in odore di corruzione, di ‘ inciucismo’, di attaccamento alla poltrona, di perseguimento dell’interesse personale, così dietro ogni immigrato si nascondeva il ladro, lo stupratore, o più semplicemente il ladro di posti di lavoro. Il mix tra l’anti- immigrazionismo di Salvini e la crociata anticasta dei 5S hanno decretato per oltre un anno il trionfo del governo gialloverde in termini di consenso. Questa maggioranza e questo governo non sembrano avere altra bandiera, per raggranellare consenso, che quella della sanzione e della punizione severa. E’ almeno per ora la sola bandiera che è stata realmente sventolata ed è lecito il sospetto che proprio una visione fortemente giustizialista si riveli il principale tratto comune fra le forze disomogenee che compongono la maggioranza. E’ una scommessa rischiosa, anche sul piano della pura e quindi cinica propaganda. Le campagne dei 5S e della Lega ( ma anche di Renzi con la sua disgraziata crociata contro il Senato e contro "i rottami") prendevano di mira "nemici" che il grosso del corpo elettorale poteva vedere come altro da sé. In questo caso invece, sia con la crociata antievasione che con la riforma della prescrizione sulla quale puntano i piedi i ministri 5S, nel mirino potrebbero finire proprio molti di quegli elettori. Quanto apprezzeranno lo si scoprirà solo nelle urne.
· I Giallo-Verdi manettari.
Da Libero Quotidiano il 19 settembre 2019. "Si vergogni Luigi Di Maio e si vergognino i cinque stelle che hanno votato con voto segreto per l'arresto dell'onorevole Sozzani, dopo che, con voto palese, hanno fatto il governo contro gli italiani". Vittorio Sgarbi commenta indignato il voto alla Camera contro il deputato di Forza Italia, Diego Sozzani. L'Aula ha negato l'autorizzazione all'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il politico, indagato per illecito finanziamento dei partiti e corruzione. Una decisione che non ha evitato la critica di Sgarbi contro i pentastellati, rei di desiderare Sozzani in carcere "per obbedire agli ordini di un Grillo nella cui casa il figlio indagato ha stuprato una ragazza, garantendogli, con Bonafede, un ministro della giustizia amico. Vergogna. Usare lo Stato per proteggere il loro capo".
Il giustizialismo ipocrita dei 5 Stelle di Palazzo, scrive Augusto Minzolini, Venerdì 19/04/2019, su Il Giornale. Chi di giustizialismo ferisce, di giustizialismo perisce. L'iperbole è tutt'altro che bizzarra. Sarà l'epoca del governo del cambiamento, ma di fatto non è mutato niente. Sicuramente non sono diverse le campagne elettorali segnate da inchieste, avvisi di garanzia, arresti e intercettazioni. Un andazzo che va avanti ormai da un quarto di secolo. Con un rigurgito di giustizialismo, proprio della cultura gialloverde, che alla fine si dimostra un'arma a doppio taglio. Per tutti: due giorni fa Matteo Salvini ha preteso e ottenuto le dimissioni della governatrice piddina dell'Umbria, Catiuscia Marini, finita nei guai per l'inchiesta sui «concorsi truccati»; ieri mattina è stato Giggino Di Maio a chiedere le dimissioni del sottosegretario leghista Armando Siri, raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione; e infine, nel pomeriggio, la ministra del Carroccio Erika Stefani, insieme a tutti i leghisti che siedono in Campidoglio, ha evocato la ghigliottina politica per Virginia Raggi per le intercettazioni in cui avrebbe suggerito all'ex ad dell'Ama, Lorenzo Bagnacani, di truccare il bilancio per portarlo in rosso. E per la prima volta il complesso equilibrio del governo gialloverde che in questi mesi ha superato le differenze profonde che dividono grillini e leghisti nella politica economica, estera o delle infrastrutture, ha cominciato a vacillare davvero. Come per tutti i governi della Seconda Repubblica, da Prodi a Berlusconi, il capitolo giudiziario rischia di essere letale. Un paradosso per chi è arrivato nella stanza dei bottoni strillando «onestà, onestà». Così ieri il vicepremier Salvini ha fatto recapitare dallo stesso premier, Giuseppe Conte, un messaggio a Di Maio, colpevole di aver chiesto la testa di Siri d'emblée. «Fai sapere a Luigi - è stata la minaccia - che dopo le elezioni europee faremo i conti». E nelle stesse ore il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha telefonato a Silvio Berlusconi per avvertirlo che il livello di guardia è stato superato: «Siamo a un passo che crolli tutto». Forse, anche questa volta, il grattacielo del governo oscillerà paurosamente, ma non verrà giù. Sicuramente, però, per andare avanti, le due anime della maggioranza dovranno trovare, da qui alle elezioni europee, un'intesa sul terreno più impervio per i grillini: la giustizia e il suo uso politico. Il motivo è semplice: in queste ore Salvini ha toccato con mano quella che è davvero la sua debolezza, il suo fianco scoperto. Spiega senza peli sulla lingua, Giuseppe Basini, un garantista convinto, eletto a Roma nelle file del Carroccio: «Il Pd ha i suoi magistrati interventisti, i grillini si sono trovati i loro, e noi, invece, siamo nudi, inermi, alla loro mercè. E ora che i sondaggi ci danno in crescita, siamo diventati un obiettivo per entrambi». Un ragionamento che non fa una piega e che spiega perché lo stato maggiore leghista abbia preso male le sortite grilline contro Siri. Non solo la richiesta di dimissioni di Di Maio, ma anche l'immediata decisione di Toninelli di togliere le deleghe al sottosegretario leghista e la sortita di primo mattino del presidente della commissione Antimafia, il grillino Nicola Morra, che per primo ha messo in relazione il presunto corruttore di Siri con il boss mafioso Messina Denaro. Un colpo sotto la cintura che ha mandato su tutte le furie Salvini. «Stupisce - è la bordata che la ministra leghista, Giulia Bongiorno, ha rivolto ai pentastellati - il loro giustizialismo a intermittenza, a seconda della vicenda giudiziaria». E la decisione del vertice leghista di tenere Siri al suo posto, rispondendo per ora picche a Di Maio, è un avvertimento per l'oggi, ma, soprattutto, una precauzione per il domani: se le incursioni delle procure continueranno nelle prossime settimane, il Carroccio non può accettare che la sua campagna elettorale verso le europee, da marcia trionfale si trasformi in una via crucis. Ieri nel cortile di Montecitorio, il viceministro alle Infrastrutture, il leghista Edoardo Rixi, congetturava sulle possibili mosse per reagire all'aggressione grillina. «Intanto - spiegava - Toninelli si prenderà l'intera responsabilità del dossier Alitalia che si sta rivelando un fallimento. Poi, vista la struttura del ministero, del suo ufficio legislativo, se c'è stato qualcosa di sbagliato nella vicenda che ha coinvolto Siri, è difficile che non ci sia stata una corresponsabilità del ministro». Ma, soprattutto, Rixi ha fatto venire a galla le due paure dello stato maggiore leghista: è possibile che i grillini per sferrare un attacco simile, sappiano qualcosa di più sull'inchiesta? Ed ancora, chi può escludere che siano stati loro ad alzare la palla ai magistrati? Interrogativi che mettono in controluce, appunto, il timore che i 5stelle possano contare su una quinta colonna nelle procure. Anche perché se questa intuizione fosse fondata, i leghisti si troverebbero in una morsa, visto che l'ostilità della magistratura di sinistra la danno per scontata. Ieri nelle file del Pd non erano pochi quelli che soffiavano sul fuoco. «Ora Salvini si goda i grillini», diceva un Dario Franceschini tranchant. Mentre l'ex guardasigilli Andrea Orlando si dilettava con l'ironia. «È singolare - spiegava - la tesi di Salvini: l'emendamento dall'industriale non c'è nel Def. E con ciò? Questo significa solo che Siri potrebbe aver fregato pure l'industriale, non altro». E il rischio di essere attenzionati da tutta la magistratura militante, non può non far paura. «Qui - si lamenta il leader dei giovani leghisti, Andrea Crippa - se qualcuno ti convince della bontà di un emendamento, non puoi far niente, perché puoi finire incriminato per traffico di influenze. Nei fatti non puoi più far politica. Io ho paura, per cui sto in Parlamento solo per schiacciare il bottone nelle votazioni». Non parliamo poi delle elezioni. «Debbo fare il pitbull - confessa il commissario della Lega in Campania, Gianluca Cantalamessa - perché con la folla di gente che si vuole candidare con noi e con l'aria che tira, per fare le liste in posti come Castel Volturno o Casal del Principe debbo avere quattro occhi, non due». Questi timori non spiegano, però, perché Salvini abbia accettato di andare al governo con un movimento che ha il giustizialismo nel Dna. È lì, il peccato originale. Ora può sperare solo in una metamorfosi dei 5stelle, almeno dell'ala più filo governativa. Qualche segnale sotto sotto c'è: se i leghisti hanno paura delle procure, i grillini hanno il terrore delle urne. «Alla fine - confida il senatore Elio Lannutti - non si romperà. Ma il clima è avvelenato. Morra che tira in ballo i mafiosi e Toninelli che non ci pensa un istante a ritirare le deleghe a Siri, ma come si fa? Lo dice un ex giustizialista». Mentre il presidente grillino della commissione Sanità del Senato, Pierpaolo Sileri, si lascia andare ad una mezza sentenza: «Nasciamo tutti comunisti o fascisti, ma alla fine moriamo tutti democristiani». Appunto, il giustizialismo non va a braccetto con il governo e, tantomeno, con la poltrona.
Armando Siri, anche Alessandra Moretti massacra i grillini: "La vergogna di Luigi Di Maio", scrive il 18 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La vergogna grillina nei confronti della Lega smascherata anche da chi, come Alessandra Moretti, è ciò che di più lontano dal Carroccio esista sulla faccia della terra. A L'aria che tira, il programma condotto da Myrta Merlino su La7, si parlava del caso di Armando Siri, il sottosegretario ai Trasporti leghista indagato per corruzione e contro il quale si sono scatenati i pentastellati: richiesta di dimissioni, rivendicazioni di una presunta superiorità morale, Danilo Toninelli che gli ritira le deleghe. Atteggiamento inaccettabile addirittura per Ladylike, la quale sottolinea: "Noto che il M5s ha sempre due pesi e due misure. Con gli avversari politici strumentalizzano spesso le vicende giudiziarie, che in questo caso coinvolgono la Lega così come possono coinvolgere il Pd. Mentre per esempio la Danzì, indagata, per loro era irrilevante". La Merlino, dunque, chiede alla Moretti se a suo parere Siri si debba rimettere. Chiarissima la risposta: "Le dimissioni sono una scelta personale. Se decide lui può farlo, come ha fatto Catiuscia Marini per difendersi meglio nel processo. Ritengo però assolutamente irrispettoso da parte di Luigi Di Maio o qualsiasi altro esponente politico dire che se una questione riguarda un proprio candidato è una questione irrilevante, mentre invece se riguarda un avversario si deve dimettere a prescindere", ha concluso la Moretti. Lezioni ai grillini da una vera e propria insospettabile.
Siri e Raggi nei guai, le inchieste fanno vacillare il governo. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da La Stampa. Il sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, braccio destro di Matteo Salvini, è indagato per corruzione. Gli uomini del Movimento 5 stelle raccolgono la notizia e d’impulso si scagliano sull’alleato: Di Maio ne chiede le dimissioni. Poche ore dopo, l’Espresso pubblica un’inchiesta in cui emergerebbero pressioni esercitate da Virginia Raggi per modificare il bilancio dell’azienda dei rifiuti del Comune e in cui la sindaca ammette di non avere il controllo della città. I leghisti, che si stavano ancora leccando le ferite, si vendicano con altrettanta ferocia: Salvini chiede le sue dimissioni. E così, il gioco messo in scena fino a questo momento dai due alleati di governo, improvvisamente, scivola via dai binari. Le scaramucce a uso e consumo delle rispettive campagne elettorali prendono d’un colpo i toni della guerra vera: agli attacchi seguono le ritorsioni, scorrono i veleni per lavare via altri veleni, e il governo, per la prima volta, vacilla. È la più lunga e sofferta giornata dell’era gialloverde. Spaccata in due, con le accuse della mattinata dei Cinque stelle e l’assalto degli alleati leghisti nel pomeriggio. La notizia dell’indagine che coinvolge Siri è il colpo più duro, che arriva a freddo. Secondo la procura di Roma, Siri avrebbe ricevuto denaro per modificare una norma sulle energie rinnovabili contenuta nel Def, aiutando così ambienti vicini alle cosche mafiose. Siri respinge «categoricamente le accuse - scrive in una nota -. Non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette». Ma è una difesa che arriva tardi rispetto all’attacco di Di Maio, che chiede immediatamente le «opportune dimissioni» del sottosegretario: «Non è vero che non si è mai occupato di eolico, come dice, perché negli uffici legislativi c’è una sua proposta di legge su questo tema», attacca ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio. Poi, senza concordare nulla con Salvini, dà il via libera al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli affinché ritiri le deleghe a Siri. Gli uomini di via Bellerio sono furibondi. «Giustizialisti a giorni alterni», attacca la ministra Giulia Bongiorno, mentre Salvini conferma il suo appoggio al compagno di partito: «Una persona specchiata, onesta. Per me può restare a fare il suo lavoro». Ma Di Maio ribatte: «Il problema è più ampio. Se l’emendamento di Siri e della Lega non fosse stato fermato quando è stato presentato al mio ministero (il Mise), probabilmente anche dei membri del mio staff sarebbero stati indagati. Un cittadino che legge di questa inchiesta non vorrebbe mai dare in mano a questa persona gli appalti dei cantieri italiani». La vendetta del Carroccio arriva poche ore dopo, quando nel primo pomeriggio l’Espresso pubblica gli stralci di un esposto contro Raggi, recapitato ai pm dall’ex presidente dell’azienda dei rifiuti di Roma Lorenzo Bagnacani, che accusa la sindaca di aver fatto pressioni indebite per modificare il bilancio dell’azienda. Insieme all’esposto ci sono però anche delle registrazioni dalle quali emerge una Raggi inedita, capace di offrire una nuova versione di sè: «Roma è fuori controllo», ammette, «i sindacati fanno quel cazzo che vogliono». E ancora: «I romani oggi si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenete bene...in altre zone non c’è modo». Di Maio chiama Raggi nel pomeriggio per chiedere spiegazioni. Non è una telefonata di cortesia. I toni sono duri, ancora una volta. Alla fine, però, il capo politico M5S vuole soprattutto capire se dall’esposto, più che dalle frasi scomposte, possano nascere nuovi filoni giudiziari, altre inchieste. L’interrogativo resta aperto. Salvini, intanto, capisce che è l’occasione giusta per contrattaccare: «Se non sei in grado di fare il sindaco, se hai la città fuori controllo, lascia che qualcun altro faccia il sindaco», dice a Porta a porta. Ma il segretario del Carroccio sa dove può fare ancora più male. E così, mette un veto sui fondi del governo per la Capitale. Salta sulla sedia il vice capogruppo alla Camera M5S Francesco Silvestri, uomo di raccordo dei grillini tra il Parlamento e il Campidoglio: «Non si capisce davvero a che gioco stia giocando la Lega. Sembra che intimando di togliere il “SalvaRoma” la Lega voglia solo ricattare i romani». In serata, gli alleati tendono ramoscelli d’ulivo da mostrare in tv. È la nuova versione del gioco. Prima le finte scaramucce. Ora la finta pace.
«Siri si dimetta», «Raggi pure»: scontro totale tra Lega e M5S. Il sottosegretario ai Trasporti fa arrossire l’M5s ma la Lega non rinuncia al braccio destro del leader. Il ministro Toninelli dispone il ritiro delle deleghe al sottosegretario, scrive Rocco Vazzana il 19 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Se i fatti fossero questi Siri si deve dimettere». Luigi Di Maio non ha dubbi, fin dalle prime ore del mattino, quando sul governo del cambiamento deflagra un ordigno pericolosissimo: il sottosegretario leghista ai Trasporti, Armando Siri, è indagato dalla Procura di Roma. Secondo gli inquirenti avrebbe presentato alcuni emendamenti sulle energie rinnovabili in cambio della promessa di una tangente da 30 mila euro. Nell’inchiesta, nata dalla procura di Palermo e dalla Dia di Trapani, si intrecciano anche i destini di persone considerate vicine a Cosa nostra, vicine, nientepopodimeno che al super latitante Matteo Messina Denaro. Il diretto interessato respinge «categoricamente le accuse», ma per un movimento cresciuto con le massime casaleggiane («al primo dubbio, nessun dubbio», amava ripetere il fondatore), il boccone rimane troppo amaro da digerire. Da inizio legislatura, i pentastellati hanno già smorzato parecchio la propria intransigenza giudiziaria, in nome di una più alta ragion di Stato, adesso l’imbarazzo si può toccare con le dita. E senza pensarci due volte, Danilo Toninelli, titolare del dicastero dei Trasporti, in qualche modo diretto superiore di Siri, dispone il ritiro delle deleghe al sottosegretario, «in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza». La pazienza dei grillini è messa dura prova e Di Maio prova a tenere uniti i suoi: «Va bene aspettare il terzo grado di giudizio ma c’è una questione morale e se c’è un sottosegretario coinvolto in un’indagine così grave, non è più una questione tecnico- giuridica ma morale e politica», dice il capo politico, convinto di poter giocare di sponda con l’alleato su un tema così delicato. «Non so se Salvini concorda con questa mia linea intransigente ma il mio dovere è tutelare il governo. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l’immagine e la reputazione della Lega», aggiunge Di Maio. Ma il capo del Carroccio non si muove affatto sulla stessa lunghezza d’onda del socio di maggioranza, e da San Ferdinando ribatte: «Per quello che mi riguarda Siri può tranquillamente rimanere lì a fare il suo lavoro e dico agli amici dei 5 Stelle che non si è dimessa la Raggi che è stata indagata per due anni e quindi in Italia si è colpevoli se si viene condannati», dice piccato Salvini, puntando l’indice contro il garantismo a intermittenza dei 5 Stelle. Del resto, per il ministro dell’Interno, chiedere un passo indietro al sottosegretario ai Trasporti equivarrebbe a rinnegare se stesso. Più che un leghista, infatti, Armando Siri è considerato un salviniano doc, diretta emanazione del capo. I due iniziano a frequentarsi nel 2012, prima della conquista di Via Bellerio da parte del giovane Matteo, entrambi interessati allo studio della flat tax. Due anni dopo, nel 2014, con Salvini alla guida della Lega, la collaborazione diventa ufficiale. Siri diventa uno degli uomini più fidati del leader, il responsabile di tutto il progetto flat tax, che qualche anno più tardi contribuirà al trionfo elettorale del Carroccio. Nel maggio 2015 il sottosegretario viene nominato responsabile economico di “Noi con Salvini”, il cavallo di Troia costruito per sbarcare al Sud. Ed è nell’ufficio di Siri che il titolare del Viminale incontra in gran segreto Steve Bannon, l’ 8 marzo 2018. La figura non è di certo di secondo piano nell’organigramma leghista e del governo. Tanto che anche il premier Giuseppe Conte è costretto a intervenire: «Non esprimo una valutazione ma come premier avverto il dovere di parlare col diretto interessato, chiederò a lui chiarimenti e all’esito di questo confronto valuteremo», dice il presidente del Consiglio, ricordando che il «contratto prevede che non possono svolgere incarichi ministri e sottosegretari sotto processo per reati gravi come la corruzione». Lo stato maggiore grillino è in allarme. Dal sottosegretario si dissociano tutti i big: da Paola Taverna a Nicola Morra, passando per Roberta Lombardi. E per l’occasione rompe il silenzio persino Alessandro Di Battista, con un post su Facebook inequivocabile. «Ho sempre sostenuto questo governo, lo sosterrò ancor di più se il sottosegretario Siri si dimetterà il prima possibile», scrive il leader scapigliato del M5S. «Il sottosegretario Siri lavora nel ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il ministero più delicato che c’è per via dei lavori e degli appalti che segue. È evidente che debba dimettersi all’istante perché, come diceva Borsellino, “i politici non devono soltanto essere onesti, devono apparire onesti”».
Armando Siri indagato, terrificante sospetto della Lega: il M5s ha imbeccato i magistrati? Scrive il 19 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Appena uscita la notizia dell'indagine per corruzione che coinvolge Armando Siri, si è scatenato un serratissimo fuoco contro il sottosegretario ai Trasporti leghista. Fuoco grillino. Accuse, parole pesantissime, Luigi Di Maio che ne chiede le dimissioni e Danilo Toninelli che addirittura gli ritira le deleghe (è l'improbabile Danilo, infatti, a capo del ministero di Infrastrutture e Trasporti). I grillini, come è noto, hanno cambiato strategia: sono passati all'attacco della Lega e di Matteo Salvini nel tentativo di riguadagnare parte dell'enorme consenso che hanno perduto in seguito alle elezioni. Dunque, quale occasione è più ghiotta che l'indagine su Siri? Eppure, qualcosa non torna. Per quanto atteso, l'attacco è stato troppo immediato. Troppo duro e veemente. Tanto che tra i leghisti cova un brutto sospetto, reso esplicito dalle parole di Edoardo Rixi riportate da Augusto Minzolini in un retroscena su Il Giornale: "Intanto Toninelli - spiegava il leghista nel cortile di Montecitorio - si prenderà l'intera responsabilità del dossier Alitalia che si sta rivelando un fallimento. Poi, vista la struttura del ministero, del suo ufficio legislativo, se c'è stato qualcosa di sbagliato nella vicenda che ha coinvolto Siri, è difficile che non ci sia stata una corresponsabilità del ministro". Parole che, come nota Minzolini, in controluce fanno emergere il timore dello stato maggiore leghista: forse i grillini sanno qualcosa in più sull'inchiesta, per aver deciso di sferrare un attacco coordinato così violento senza temere che in mezzo ci finisca pure Toninelli? E ancora, si può escludere che siano stati proprio loro ad "alzare la palla" ai magistrati? Quest'ultimo il pesantissimo sospetto del Carroccio: i grillini, insomma, potrebbero aver giocato di sponda con la procura. E l'ostilità che la magistratura nutre nei confronti della Lega e di Salvini è sotto agli occhi di tutti...
Presunzione d’innocenza? Non è aria, anche il destino di Siri pare già scritto. Nelle carte dei pm gli indizi a carico del sottosegretario sono tutti del tipo “si dice”, “forse…”. Ma il suo ministro, Toninelli, gli ha già tolto le deleghe. Un copione scontato che può togliere il sonno a Salvini, scrive Tiziana Maiolo il 19 Aprile 2019 su Il Dubbio. Temiamo finirà comunque male la vicenda che, dopo l’attacco giudiziario che ha travolto la Regione Umbria e le conseguenti dimissioni della presidente Catiuscia Marini, colpisce al cuore la Lega di Salvini con l’apertura di una indagine per corruzione nei confronti del sottosegretario Armando Siri. Finirà male prima di tutto per motivi elettoralistici: nessuno, neanche il trionfatore dei sondaggi Matteo Salvini, può permettersi il lusso di arrivare al 26 maggio con un tale fardello addosso. Siri non è Berlusconi e la Lega non è Forza Italia, non basta quindi che il leader esprima massima fiducia nel suo sottosegretario indagato. Ma ci sono anche motivi politici impellenti: tutto il Movimento 5 stelle sta schiumando la sua rabbia contro un “socio contrattuale” mai amato, e resuscita così un’era in cui bastava la parola “indagato” per alzare le forche sull’albero più alto, quando ancora i sindaci Raggi e Nogarin erano vergini sul piano giudiziario. Ma il colpo più forte a Siri non l’ha sferrato il magistrato, casomai il suo ministro, quel Danilo Toninelli che dalla sua cattedra può dare lezioni a chicchessia e che lesto lesto ha tolto le deleghe al suo sottosegretario ai Trasporti. Via le deleghe, è facile levare anche la scrivania. Ci si domanda quindi se Armando Siri sia stato beccato con il sorcio in bocca, come dicono a Roma. Se è stato corrotto, guardiamogli le tasche, per vedere se contengono la mazzetta, oppure consultiamo il suo album fotografico per vedere se, come Formigoni, abbia goduto di qualche “utilità” come vacanze o giri in barca. Ci tocca andare a vedere le sbobinature delle intercettazioni, per capirci qualcosa. E qui bisogna aprire una parentesi, perché da qualche anno i magistrati italiani ( sia pubblici ministeri che gip) hanno l’abitudine di abbinare a decreti di perquisizione piuttosto che a ordinanze di custodia cautelare un bel fascicolo di intercettazioni. Che sono poi, ovvio, a disposizione delle parti. I giornalisti non sono soggetti processuali, però hanno nelle mani da subito l’intero incartamento e fingono che sia stato l’avvocato difensore della persona inquisita, cioè quello meno interessato a diffondere le accuse contro il proprio assistito, a depositare gli atti in edicola, invece che in cancelleria. Così comincia l’assalto mediatico alla persona. E molti cominciano a dire “io sono garantista però…”. Si delega alla magistratura quella piccola cosa che la Costituzione definisce “presunzione di non colpevolezza” e che comporta l’attesa di una sentenza definitiva dopo qualche anno, e si prende la decisione politica da subito. Ecco perché Catiuscia Marini è stata costretta dal suo partito alle dimissioni, ben sapendo che l’Umbria non eleggerà più, almeno nei prossimi anni, un uomo o una donna del Pd. Perché dalle intercettazioni si palesa un sistema ( non solo umbro, se vogliamo dire la verità) di clientele e raccomandazioni che al cittadino danno disgusto, soprattutto se rappresentato più sul piano morale che politico o giudiziario. Ma rimane una domanda. Quando la magistratura ritiene di avere elementi sufficienti per portare una persona a processo, ha tutti gli strumenti, ben più repressivi che una semplice apertura di indagine, di un’informazione di garanzia, per farlo. Non è il caso dell’ex presidente Marini ( che non è stata arrestata) né di Armando Siri. Il quale sarebbe responsabile di aver cercato di presentare emendamenti a favore del sistema “mini- eolico” in cambio della “promessa e/ o dazione di 30.000 euro”. Pare che il fatto emerga, in termini molto ambigui, da conversazioni intercettate tra padre e figlio, Paolo e Francesco Arata, i quali sarebbero in contatto ( ma questo Siri non lo sa, scrivono i magistrati) con l’imprenditore siciliano Vito Nicastri, il re dell’eolico di cui si sospettano legami addirittura con il latitante mafioso Matteo Messina Denaro. È tutto un pare, un forse. Ma se c’è di mezzo addirittura la mafia… Ce ne è abbastanza per dar fuoco alle polveri. Di Maio e Di Battista paiono entusiasti, come se non aspettassero altro. Non sappiamo se ci sarà resistenza da parte della Lega. Ma a noi pare che la testa di Armando Siri sia già sul ceppo.
I pm: quella tangente a Siri? Dobbiamo ancora verificare…Sulla presunta tangente offerta all’esponente leghista, data per certa dai giornali, piazzale Clodio fa sapere che mancano riscontri. E si aggiunge il caso del figlio di Arata assunto a Palazzo Chigi da Giorgetti, scrive Errico Novi il 20 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il colpo è micidiale. L’indagine avviata dalle Procure di Palermo e Roma e l’accusa di corruzione nei confronti di Armando Siri si abbattono con una violenza devastante sull’alleanza di governo. La misura della deflagrazione è nelle parole di un altro sottosegretario leghista: Jacopo Morrone, che sta alla Giustizia. Notoriamente restio a valutazioni su inchieste in corso, com’è giusto per chi ricopra incarichi a via Arenula. Stavolta però Morrone non può trattenersi: «C’è un procedimento mediatico che corre assai più di quello giudiziario». Vero. Sui media Siri è già condannato. Eppure, qualcosa incrina la macchina del fango all’ora del tè. Quando cioè arrivano sui terminali di tutte le redazioni alcuni lanci d’agenzia, firmati dai cronisti che seguono la giudiziaria nella Capitale. Come capita quando l’inchiesta assume una risonanza abnorme, sono gli stessi magistrati ad affidare alla professionalità dei cronisti poche informazioni, non virgolettate, sullo sviluppo delle indagini. Ebbene queste note, non ufficiali ma molto attendibili, recitano: “All’esame di chi indaga ci sono anche i flussi bancari ( dei conti della famiglia di Paolo Arata, l’ex parlamentare, esperto di politiche ambientali, che avrebbe pagato la tangente a Siri, ndr) la cui analisi servirà ad accertare, stando alla conversazione ( intercettata) del settembre 2018 tra padre e figlio ( Paolo e Franco Arata, ndr), se è vero o no che 30mila euro siano usciti dai conti correnti di famiglia per essere consegnati ad Armando Siri”. Cioè: ancora non si sa se quella mazzetta esiste. Non si sa, e lo lasciano intendere, con un linguaggio prudente ma chiarissimo, i giornalisti in diretto contatto con la Procura di Roma, quindi, in ultima analisi, gli stessi pm. Eppure per la stampa cartacea e audiovisiva, il sottosegretario alle Infrastrutture è già colpevole, impresentabile; il ministro Danilo Toninelli gli ha già ritirato le deleghe; e Luigi Di Maio gli ha già chiesto di «sedersi in panchina». Sembra quasi che i magistrati al lavoro sull’inchiesta nata a Palermo, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi, vorrebbero riportare l’informazione sull’inchiesta nei binari della realtà. Si sa solo che Paolo Arata, accusato a sua volta di corruzione e destinatario approfondite perquisizioni, ha detto al figlio Franco che l’operazione relativa all’emendamento sul micro – eolico sollecitata, senza successo, per il tramite di Siri, «è costata 30mila euro». Nelle carte dei pm non c’è un’altra frase intercettata del tipo “quei 30 mila euro sono andati” o “sono stati offerti a Siri”. E anche le presunte tangenti che Arata avrebbe disseminato negli uffici della Regione Sicilia sono introvabili ( nel caso dell’ex dirigente dell’Energia Alberto Tinnirello) o ipotizzate sotto forma di un incarico professionale ( per il funzionario Giacomo Causarano). Dagli uffici di Piazzale Clodio filtra anche che le verifiche degli inquirenti sono mirate alle numerose società controllate dagli Arata: Etnea, Alquantara, Solcara, e Solgesta. Al setaccio i cellulari e tutto il materiale sequestrato. Il resto è nelle brevi frasi strappate a Siri, che si dice «allibito» e che non intende lasciare l’incarico ( «io lavoro» ). Tra le poche altre certezze c’è che un altro figlio di Arata, Federico, ha da poco ottenuto un contratto a Palazzo Chigi, con il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Si sa del ricorso al Riesame annunciato dall’avvocato di Arata, Gaetano Scalise, e dell’intenzione di quest’ultimo di farsi interrogare subito dopo Pasqua. Anche Siri e il suo legale, Fabio Pinelli, assicurano di «essere a disposizione» dei magistrati. Ma per ribadire l’estraneità del sottosegretario alle accuse di tangenti offerte al fine di favorire l’imprenditore Vito Nicastri, già ai domiciliari per concorso esterno, ora in carcere. Un quadro suggestivo. Ma senza prove.
Armando Siri indagato per una legge mai approvata: cosa non torna, perché c'è puzza di trappola, scrive Tommaso Montesano il 19 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. «Promessa e/o dazione» di denaro (30mila euro). Ruota intorno a quelle due parole l' iscrizione nel registro degli indagati per corruzione, a Roma, del sottosegretario alle Infrastrutture, il leghista Armando Siri. Consigliere economico di Matteo Salvini - è considerato l' ideologo della flat tax - Siri è accusato dai magistrati della Capitale di aver «asservito» le sue funzioni di senatore e sottosegretario «a interessi privati». Nello specifico, gli interessi dell' imprenditore genovese Paolo Arata, manager e dominus di alcune società attive nello sfruttamento dell' energia eolica. Ma soprattutto - per un' altra procura, quella di Palermo - ritenuto in attività con Vito Nicastri, il "re del vento" «pregiudicato e spregiudicato» sospettato di essere un prestanome, se non un finanziatore, del super latitante Matteo Messina Denaro. Per le toghe, Siri avrebbe proposto e concordato «con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia (Infrastrutture, Sviluppo economico e Ambiente) l' inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa (...) di incentivi per il cosiddetto mini-eolico».
L'INTERCETTAZIONE. In cambio, e qui si torna alle due parole chiave iniziali, di «promessa e/o dazione di trentamila euro da parte di Paolo Franco Arata» (anche lui indagato). La procura di Roma, nel decreto di perquisizione a carico dell' imprenditore che porta la firma del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del sostituto Mario Palazzi, cita in particolare una conversazione - in auto - tra lo stesso Arata e il figlio Francesco. Nell' intercettazione, scrivono le toghe, «si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Armando Siri per la sua attività di sollecitazione dell' approvazione di norme» favorevoli ad Arata.
SOLO «FUMUS». Ma sono gli stessi magistrati ad ammettere - cosa tutt' altro che secondaria - di non sapere se la somma sia stata effettivamente consegnata a Siri. L' intercettazione, infatti, è disturbata. Non solo: le «norme» che avrebbero dovuto agevolare il settore eolico, e quindi Arata, non sono state comunque approvate. «Stiamo parlando di qualcosa che non è finito nemmeno nel Def», ha ricordato Salvini. L' emendamento in questione, messo a punto nel corso dell' iter al Senato del disegno di legge di Bilancio, è stato poi stralciato. Non a caso Ielo e Palazzi in un passaggio del decreto di perquisizione si limitano a definire «fumus» - letteralmente: fumo; ovvero sospetto - l' insieme degli elementi al momento raccolti a carico di Siri. Il quale reagisce a tappe. Prima replica: «Non ne so nulla, sono tranquillo». Poi respinge «categoricamente le accuse che mi vengono rivolte. Non ho mai piegato il mio ruolo istituzionale a richieste non corrette». Da qui la richiesta di «essere ascoltato immediatamente dai magistrati. Se qualcuno mi ha accusato di queste condotte ignobili non esiterò a denunciarlo». La richiesta di dimissioni è respinta: «Sono allibito. Io resto dove mi trovo». Ma intanto il suo superiore, Danilo Toninelli, gli ritira le deleghe da sottosegretario. Cosa che Siri apprende dalle agenzie di stampa. L'inchiesta romana su Siri è un filone di quella principale, il cui centro è Palermo. In Sicilia gli indagati sono nove. Nel mirino delle toghe, i permessi gestiti dalla Regione nel campo delle energie alternative: un giro d' affari da 10 miliardi di euro. La Direzione investigativa antimafia ha eseguito perquisizioni a Roma, Palermo, Genova, Partanna e Castellammare del Golfo (Trapani).
Bonafede benedice il convegno dei pm manettari. Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 su Il Giornale.it. Rieccoli. Un tempo furoreggiavano dalle prime pagine dei giornali. Per le loro tambureggianti inchieste e - non tutti in verità - per gli scritti, le polemiche, le scintille. Oggi la giustizia non funziona come sempre ma è schiacciata fra il Pil ansimante e i flussi dei migranti. Insomma, il partito dei pm è finito nelle retrovie dell'opinione pubblica, ma questo non significa che non abbia più voce. E infatti alla chiamata di MicroMega, il barometro del giustizialismo tricolore, hanno risposto molti grandi nomi della magistratura italiana. Ecco Gian Carlo Caselli, oggi in pensione ma a suo tempo anima del pool di Palermo che portò alla sbarra Giulio Andreotti e un pezzo di storia italiana; poi Luca Tescaroli, specialista di misteri nazionali, dalla morte di Calvi al massacro di Capaci, e autore prolifico di saggi su temi delicatissimi. E ancora Henry John Woodcock, regista da molti anni di inchieste controverse, osannate e scomunicate dalle opposte tifoserie; infine Nino Di Matteo e Paolo Ielo. Di Matteo è un'icona del popolo grillino per via dello scavo sulla trattativa Stato-mafia e più volte è stato candidato come possibile Guardasigilli. Ielo ha un profilo più anomalo rispetto agli altri ma la sua competenza, e pure qualcosa di più che ha a che fare con l'autorevolezza, è fuori discussione. Da Mani pulite a Mafia capitale. Saranno tutti a Fabriano, nelle Marche, su invito di Paolo Flores d'Arcais, il custode della liturgia manettara, per un convegno che verrà aperto il 3 maggio dal ministro Alfonso Bonafede. Bonafede, va detto, ha avuto la fortuna di vivere in un'epoca in cui le tempeste giudiziarie e le levate di scudi sono solo un ricordo e il clima è meno acceso di prima, ma la relativa fortuna non l'ha spronato a moltiplicare gli sforzi per recuperare il tempo perduto e mettere una pezza a meccanismi logori e vetusti. Il ministro ci ha consegnato una sventurata rivisitazione della prescrizione che scatterà l'anno prossimo ed è legata, sulla carta, ad un'epocale riforma di tutto il settore di cui non c'è traccia su alcun radar. Quello che tutti percepiscono è il disagio per un apparato che arranca sempre con esiti drammatici: non si riesce a mandare in cella i condannati con pena definitiva, come nel caso dell'assassino dei Murazzi a Torino. Altro che prescrizione. Chissà, forse Flores d'Arcais e il Guardasigilli discuteranno anche di tutto, troppo, quel che non va - dai tempi biblici dei procedimenti all'incertezza della pena - e il ministro ci fornirà un cronoprogramma dei prossimi interventi. Chissà. Il titolo del dialogo, "Giustizia è libertà", promette altro. Speriamo che il tutto non si risolva in una lucidata del monumento alle toghe, un po' trascurato negli ultimi tempi. L'Italia avrebbe bisogno di altro.
C'ERA UNA VOLTA "ONESTA’, ONESTA’". Valentina Errante per “il Messaggero” del 3 aprile 2019. Pressioni, ingerenze. Nel groviglio che si era creato in Campidoglio è difficile distinguere tra gli interessi privati delle figure istituzionali e quelli pubblici. Le consulenze e gli incarichi da parte degli imprenditori avrebbero creato corridoi speciali per i progetti facendoli passare per scelte politiche. Così Marcello De Vito lavorava ai fianchi i suoi compagni di partito, per convincerli della bontà dei progetti. E a sorpresa, dalle carte di due inchieste che inevitabilmente si intrecciano, emerge anche un vecchio rapporto professionale, tra un' azienda della famiglia Parnasi e l' ex assessore all' Urbanistica Paolo Berdini, nemico acerrimo del progetto Tor di Valle. Circostanze che confondono gli affari personali e l' interesse pubblico, almeno secondo Parnasi che sostiene che una parcella pagata a metà abbia scatenato l' avversione del futuro assessore. Non emerge con chiarezza, invece, come sia stato possibile che il progetto degli Ex Mercati generali, business dei fratelli Toti, non sia passato all' esame del Consiglio comunale, ma abbia ottenuto direttamente l' approvazione della giunta. Non lo chiarisce neppure l' assessore all' Urbanistica, Luca Montuori, sentito subito dopo gli arresti, così come gli altri testi, interrogati dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli dopo l' ennesimo terremoto nel pianeta Cinquestelle. Così come un doppio ruolo lo avrebbe svolto Luca Lanzalone, imputato per corruzione, al quale la sindaca suggeriva di mandare «tutto il materiale sui Mercati generali», almeno secondo il verbale della presidente della commissione Urbanistica. È Alessandra Agnello, presidente della Commissione capitolina Lavori pubblici, sentita come testimone il 22 marzo, a raccontare alle pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli delle pressioni di De Vito: «Con riferimento alla realizzazione del Nuovo stadio della Roma io ho avvertito un certo pressing da parte di De Vito. Notai che era particolarmente eccitato e sollecitava tutti ad andare avanti a votare favorevolmente». La consigliera del M5S ha aggiunto che, in occasione di una riunione di maggioranza preliminare alla delibera per la dichiarazione di pubblica utilità dell' opera, votò contro, «ma in sede consiliare mi sono adeguata alla maggioranza come da codice etico del Movimento. Nella riunione di maggioranza, effettivamente, De Vito era il più attivo per trascinare tutti a votare a favore. Rimasi colpita da questo atteggiamento, non mi vengono in mente altre riunioni nelle quali si fosse mostrato così determinato». Nel groviglio di rapporti intrecciati è stato lo stesso Luca Parnasi a riferire ai pm di una vecchia ruggine tra lui e l' ex assessore all' Urbanistica Paolo Berdini, nemico numero uno del progetto stadio. Spiegando così - fatture alla mano - la netta opposizione dell' assessore, poi sostituito da Montuori, al progetto Tor di Valle. L' incarico di progettazione per una convenzione edilizia in via Laurentina tra Parsitalia e la Regione risaliva al 2005. Berdini, allora vicino a Rifondazione comunista, nel 2008 avrebbe percepito solo il 50 per cento dell' incarico, che ammontava a oltre 78mila euro, per il mancato conseguimento degli obiettivi. L' assessore Luca Montuori, invece ha ricordato come nel Consiglio comunale De Vito spingesse perché il progetto Mercati generali andasse avanti. «La prima volta in cui lui mi chiese di incontrare gli investitori nel progetto dei Mercati Generali - ha detto a verbale - io restai perplesso». L' assessore cerca poi di spiegare come la delibera venne votata in giunta: «Mi sono confrontato con il mio staff in merito alla competenza della Giunta o del Consiglio per l' approvazione del progetto. Mi sono confrontato soprattutto con il direttore del Dipartimento, Roberto Botta, i funzionari che si occupano delle concessioni, altri funzionari interni all' amministrazione esperti di convenzioni, con l' Avvocatura capitolina e poi, in particolare, con il Segretario Generale, Pietro Paolo Mileti e il Vice Segretario Maria Rosa Turchi». Mileti, interpellato sul punto dai pm, dice di non ricordare.
Mettetevelo in testa: onestà e competenza non bastano per governare. Lo spiegava già Tocqueville a metà Ottocento e oggi tanti leader politici farebbero bene a rileggerlo. Essere onesti è un prerequisito. E non ha alcun senso opporgli la presunta competenza, scrive Antonio Funiciello il 2 aprile 2019 su Panorama. L’oblio della politica è l’oblio delle idee della politica. Ramsay MacDonald, uno dei fondatori del Labour Party britannico e primo premier laburista della storia, diceva che i partiti mangiano idee, si nutrono di idee. Se privi un partito di idee, gli sottrai la possibilità stessa di nutrirsi e, quindi, di perseverare nei propri scopi e prosperare a beneficio di se stesso e della nazione. Più in generale, si potrebbe dire lo stesso riguardo alla politica, della quale nelle democrazie liberali i partiti sono i macchinari aziendali e gli attrezzi di bottega.
Chi di manette ferisce, di manette perisce, scrive il 21marzo 2019 Mirko Giordani su Il Giornale. Marcello De Vito, Movimento 5 Stelle, è innocente fino a prova contraria, e chiunque sia contrario a questo principio non vive nel 21esimo secolo ma nell’alto Medioevo. A dire la verità questo principio non è neanche vagamente accettato dai Cinque Stelle, che si sono dimostrati pronti ad impiccare chiunque in pubblica piazza anche per un semplice avviso di garanzia. Tradizione ereditata dalla sinistra manettara. Adesso che uno di loro è finito sul patibolo e non per una stupidaggine, ma per corruzione, c’è da sperare che De Vito ne esca pulito, c’è da essere garantisti fino all’ultimo, e di evitare di agire come dei lupi che mangiano delle carcasse morte. In poche parole, non dobbiamo comportarci come i pentastellati, sempre pronti con il cappio in mano e con la ghigliottina insanguinata. Che sia da monito per gli sbruffoni, che sia da monito a quel signore della politica che si chiama Giarrusso, che faceva il segno delle manette agli avversari politici. Mai come oggi la poesia di John Donne è attuale: per chi suona la campana? Ieri per i partiti tradizionali, oggi per i duri e puri dei 5 Stelle.
Dai "mariuoli" alle mele marce, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 21/03/2019, su Il Giornale. C'è un'operazione in corso all'interno dei Cinque Stelle. Una grande, orchestrata e pianificata campagna mediatica per far passare un concetto: Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina finito in manette per tangenti sul nuovo stadio, è solo una mela marcia. Una solenne menzogna. Perché De Vito, ora scaricato come un pacco dai vertici del Movimento, era espressione del Movimento stesso. Assolutamente organico ai papaveri pentastellati, ortodosso, allineato con i duri e puri della prima ora. Ossessionato da tutte le parole d'ordine dei grillini: legalità, trasparenza, lotta alla corruzione e alla casta. Bellissime parole, a quanto pare tutte disattese. Almeno a giudicare dalla reazione di Di Maio che lo ha immediatamente espulso, al di fuori di ogni regola del partito. Ma basta dare un'occhiata agli ultimi spot elettorali di De Vito, per capire di avere davanti un grillino doc. Il tutto condito da una esibita ostilità nei confronti di tutte le grandi opere. Per poi - scherzo del destino - scivolare su quelle medie, come lo stadio della Capitale. A dimostrazione che il problema non è la dimensione di quello che si vuole costruire, ma la statura di chi presiede quei lavori. Bastano un piccolo uomo e un politico meschino per fare una grande truffa con un'opera modesta. E neppure i Cinque Stelle sfuggono a questa regola.
Con gli arresti di Roma hanno definitivamente perso la loro verginità, è crollato il mito di una presunta superiorità morale e financo antropologica. «Questa congiunzione astrale... è tipo l'allineamento della cometa di Halley, hai capito? Cioè è difficile secondo me che si riverifichi così... e allora noi, Marcè, dobbiamo sfruttarla sta cosa, secondo me, cioè guarda... ci rimangono due anni», si dicono al telefono l'avvocato Camillo Mezzacapo e Marcello De Vito, con un linguaggio astrale involontariamente ironico. E di fatto inserendo anche la corruzione nel firmamento fondato da Grillo e Casaleggio. E, ad essere malevoli, i sondaggi dimostrano che il Movimento non è lontano dalla sua notte di San Lorenzo. Non solo, avvisiamo il partenopeo Di Maio che bollare come mela marcia, come metastasi isolata senza pericolo di contagio, il compagno di partito che sbaglia, porta iella. E non esistono gesti apotropaici per scongiurarla. Lo insegna la storia recente. Dietro a un corrotto molto spesso se ne nasconde un altro, e così via. Il 17 febbraio 1992, il socialista Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, venne colto con le mani nella marmellata: una mazzetta di sette milioni di lire. Bettino Craxi lo definì: «un mariuolo isolato». Da quella stecca nacque l'inchiesta Mani pulite. Il sassolino che preludeva una valanga. E sappiamo tutti che fine hanno fatto Craxi e il Partito socialista.
Marcello De Vito e la morte del mito dell'onestà del Movimento 5 Stelle. L'arresto per corruzione del presidente dell'assemblea capitolina è un duro colpo all'immagine costruita negli anni dai pentastellati a colpi di selfie e foto discutibili. E la sua espulsione non basterà a riconquistare l'innocenza perduta, scrive Mauro Munafò il 20 marzo 2019 su L’Espresso. Marcello De Vito è innocente fino a quando un tribunale non avrà stabilito il contrario. Questa ovvietà è bene precisarla, proprio perché si tratta di un'ovvietà troppo spesso dimenticata di recente. Ma se il presidente dell'assemblea capitolina del Movimento 5 Stelle avrà i suoi modi e tempi per difendersi, quello che oggi muore senza dubbio è il mito dell'onestà dei 5 Stelle. Perché i miti si alimentano di suggestioni, simboli, immagini e non di fatti. Si alimentano di fotografie di tuoi parlamentari che fanno il gesto delle manette o di tuoi consiglieri comunali che si fanno i selfie con le arance per augurare la galera a un avversario politico. E queste immagini e suggestioni così superficiali possono essere spazzate vie con facilità da altre immagini e suggestioni ben più rilevanti. Come appunto la notizia di un tuo esponente di primo piano nel territorio più importante che amministri, la Capitale d'Italia, che viene arrestato per tangenti e corruzione. L'accusa è pesante: De Vito avrebbe incassato direttamente o indirettamente delle elargizioni dal costruttore Luca Parnasi. Per agevolare il progetto collegato allo stadio della Roma. Pochi minuti dopo la notizia, Luigi Di Maio si è affrettato a cacciare “con motu proprio” De Vito dal Movimento 5 Stelle, spiegando che “De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi”. Operazione inutile: a ben pochi di quegli elettori che per anni hai alimentato a pane e qualunquismo interessa un'operazione puramente di facciata come espellere qualcuno dal Movimento. Il mito dell'onestà, una volta che lo perdi, non lo recuperi con un'espulsione e un post di poche righe su Facebook. Chissà se oggi quelle foto con le mani che imitano le manette o i selfie con le arance faranno arrossire qualcuno degli ex onesti.
Rimborsopoli, il vero problema sono Le Iene, non i cinquestelle. Il M5s è solo il fratello scemo del grillismo, scrive Emanuele Boffi il 14 febbraio 2018 su Tempi. La radice del problema è la malapianta del risentimento che da anni è coltivata dai mass media e di cui i grillini sono solo l’epifenomeno più chiassoso, effimero e passeggero. Voglio scrivere una cosa contromano e impopolare: il problema non sono quegli sciamannati dei grillini, il problema sono Le Iene. Riassunto per chi si fosse perso la notizia. Le Iene hanno scoperto e sputtanato due parlamentari grillini che hanno presentato per anni bonifici fittizi: fingevano di restituire una parte del loro stipendio, ma, in realtà, dopo aver fatto il versamento, essersi fatti il selfie e aver postato sul sito tirendiconto.it la ricevuta, lo annullavano. Per il Movimento che ha fatto della retorica sull’onestà la propria stella polare è una mazzata. Scoprire di essere come tutti gli altri, per il partito che ha fatto fortuna mandando affanculo tutti gli altri, è la cosa peggiore che potesse capitare. Va bene, ben gli sta e io godo. Ma terminato l’orgasmo politico per quei marrani dei cinquestelle, che rimane? Rimane il problema di fondo. Ieri su Repubblica Sebastiano Messina se l’è presa coi “furbetti dello scontrino” pestando nel mortaio delle contraddizioni pentastellate. “Non è vero che restituivano i soldi”, avete visto? “Anche loro sono marci”, vi rendete conto? è il senso del ragionamento di Messina mentre fa l’elenco delle marachelle degli onesti. Così, però, si vagabonda sempre nello stesso labirinto logico: Messina non è nemmeno sfiorato dal dubbio che l’idea del “rimborso” sia una solenne pagliacciata propagandistica in sé, che poi questa venga assolta o meno. È l’idea stessa di poter far politica a costo zero a essere lunare. Ci sono due truffe, una nascosta e una palese: quella palese, scoperta dalla Iene, è che anche i grillini fanno i furbi con gli scontrini. Quella nascosta è l’idea che se restituisci parte del tuo stipendio da parlamentare, l’Italia andrà a posto. Non è vero. Non è vero perché la politica costa, e se tu non metti in condizione chi la esercita di poterla pagare allora le alternative sono solo due: o la fanno solo i ricchi o il politico dovrà trovare un modo (magari illecito) per sostenere il suo impegno. Si può anche pensare che se togliamo gli stipendi a deputati a senatori, poi il paese riparta, ma è una balla, rendiamocene conto. Ieri sul Foglio, Claudio Cerasa ha scritto parole di buon senso e condivisibili. Rimborsopoli è l’esempio del «grillismo demolito dai mostri alimentati dal grillismo». Scrive Cerasa: «La storia dei rimborsi tarocchi dei due parlamentari Andrea Cecconi e Carlo Martelli – e forse non solo loro – può essere raccontata utilizzando due chiavi di lettura. La prima è quella utilizzata da gran parte degli osservatori che in queste ore ci hanno raccontato che ah, quanto era bello il grillismo delle origini. È una chiave di lettura a sua volta grillina. (…) La seconda chiave di lettura, invece, è più sofisticata. Ovverosia: non esiste una forma di moralizzazione buona e una forma di moralizzazione cattiva e non esiste un grillismo buono e uno cattivo. Esiste, molto semplicemente, una dannosa truffa politica chiamata moralismo, che un pezzo importante del nostro paese ha scelto da anni di considerare non un virus letale ma al contrario un utile antibiotico da somministrare all’Italia per provare a guarirla dai suoi mali». Ci stiamo avvicinando alla questione. Cerasa fa bene a ricordare il celebre motto di Nenni (arriva sempre uno più puro di te che ti epura) e la saggia osservazione di Benedetto Croce (l’onestà in politica non è altro che la capacità politica), ma qui si vorrebbe provare a spingersi oltre e dire che, quand’anche il partito delle cinque stelle andasse a gambe all’aria; quand’anche a Di Maio capitasse quel che è successo ad Antonio di Pietro, che dopo anni di lotta ai “ladri” fu inchiodato da Report sui suoi affarucci immobiliari; quand’anche Di Battista fosse beccato con le mani nel sacco a non pagare il caffè alla buvette del Transatlantico; ecco, quand’anche accadesse tutto ciò, noi non avremmo risolto il busillis. Perché il problema – la radice del problema – è costituita dalla malapianta del risentimento che da anni è coltivata dai mass media e di cui i grillini sono solo l’epifenomeno più chiassoso, effimero e passeggero. Il problema sono Le Iene, è Striscia la notizia, è Report. Sono loro che ogni volta soffiano sul fuoco con spirito distruttivo, aizzando gli animi contro “i politici”. Il fenomeno Grillo l’ha inventato il Corriere della Sera, ricordiamocelo sempre. I Cinquestelle sono i figli della propaganda sulla Casta, il libro di Rizzo e Stella. Accendete la tv, ascoltate la radio, leggete i giornali: di cosa vive oggi l’informazione? Di denunce, di sputtanamento, di fiele riversato contro tutto e tutti. Non sto dicendo che non bisogna dire, scrivere, sottolineare cosa non va. Sto dicendo che esiste ormai un genere letterario giornalistico che fa politica nel modo peggiore possibile. Ed è un genere letterario che ha il solo scopo di disfare, martellare, solleticare istinti di vendetta, ricevere l’applauso della platea e incassare i soldi del biglietto. Il grillismo è più grande e diffuso del M5s, che ne è solo la parte più pittoresca e scalcagnata, la meno furba. Il M5s è il fratello scemo del grillismo. È ora di iniziare a mettere sul banco degli imputati i corifei di questa mentalità, questo grillismo diffuso che sta fuori dal blog di Grillo e che ammorba l’Italia dai tempi di Mani Pulite (è una vecchia storia, insomma) e che si può permettere di tutto senza mai sentirsi in dovere di ritrattare, chiedere scusa, tornare sui propri passi (la vicenda Stamina, da questo punto di vista, è esemplare). Spremuto il fiele da Di Pietro, sono arrivati i grillini. Spremuti i grillini, ne arriveranno altri. Le Iene continueranno a ridere nel loro cantuccio, aspettando la prossima preda.
MA NON ERANO QUELLI DELL’ONESTA’? Fiorenza Sarzanini e Carlotta De Leo per corriere.it il 20 marzo 2019. Tempesta giudiziaria sull’amministrazione romana guidata dalla sindaca Virginia Raggi: all’alba è stato arrestato il presidente dell’assemblea capitolina, il Cinque Stelle Marcello Di Vito. I carabinieri hanno passato al setaccio la sua abitazione all’alba con un’ordinanza di custodia cautelare in carcere chiesta dai pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli. De Vito è accusato di corruzione per aver preso elargizioni dell’imprenditore Luca Parnasi promettendo in cambio di favorire il progetto per la costruzione dell’impianto sportivo nell’area di Tor di Valle.
Altri progetti. Non c’è soltanto il costruttore Luca Parnasi nell’elenco delle persone che avrebbero «pagato» De Vito. Il giudice lo accusa di aver preso soldi e alte utilità anche dal gruppo Toti e dal gruppo Statuto sempre per favorire alunni progetti a Roma. In questo caso la procura - l’indagine è coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo - aveva contestato il traffico di influenze illecite, ma il giudice ha ritenuto che si trattasse di corruzione. Per questo per i due imprenditori è scattata la misura interdittiva.
L’albergo. I progetti riguardano la costruzione di un albergo presso la ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere e alla riqualificazione dell’area degli ex Mercati Generali di Roma Ostiense. L’indagine ha fatto luce su una serie di operazioni corruttive realizzate da imprenditori attraverso l’intermediazione di un avvocato ed un uomo d’affari, che fungono da raccordo con il Presidente dell’Assemblea comunale capitolina al fine di ottenere provvedimenti favorevoli alla realizzazione di importanti progetti immobiliari.
L’inchiesta. Il nome di De Vito (l’uomo che ha raccolto più preferenze nella Capitale) era già stato fatto nell’inchiesta che ha portato all’arresto di Parnasi e altre 18 persone per la costruzione dell’impianto di Tor Di Valle. Tra gli altri, era finito in manette Luca Lanzalone, ex presidente di Acea.
Tangenti sul nuovo stadio della Roma: arrestato Marcello De Vito, presidente 5 Stelle dell'assemblea capitolina. Altri tre in manette. Avrebbe favorito il progetto del costruttore Luca Parnasi, scrive Giuseppe Scarpa il 20 marzo 2019 su La Repubblica. Terremoto giudiziario nel Movimento 5 Stelle romano. Marcello De Vito, presidente dell'assemblea capitolina è stato arrestato all'alba con l'accusa di corruzione. I carabinieri di Via In Selci hanno perquisito il suo appartamento. L'esponente grillino avrebbe incassato direttamente o indirettamente delle elargizioni, questa l'ipotesi dei pm Barbara Zuin e Luigia Spinelli, dal costruttore Luca Parnasi. De Vito, in cambio, avrebbe promesso - all'interno dell'amministrazione pentastellata guidata dalla sindaca Virginia Raggi - di favorire il progetto collegato allo stadio della Roma. La misura cautelare emessa dal dip del tribunale di Roma riguarda in tutto 4 persone (per 2 indagati è stata disposta la custodia cautelare in carcere, per gli altri i domiciliari). Una misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare attività imprenditoriale riguarda invece due imprenditori. L’indagine "Congiunzione astrale" si concentra sulle condotte corruttive e il traffico di influenze illecite nell'iter per la realizzazione del nuovo stadio della Roma, la costruzione di un albergo presso la ex stazione ferroviaria di Roma Trastevere e la riqualificazione dell’area degli ex Mercati generali di Roma Ostiense. L’inchiesta ha fatto luce su una serie di operazioni corruttive realizzate dagli imprenditori attraverso l’intermediazione di un avvocato e un uomo d’affari, che secondo l'accusa avrebbero interagito con De Vito al fine di ottenere provvedimenti favorevoli alla realizzazione di importanti progetti immobiliari. Il nome di De Vito compariva spesso nell'ordinanza che aveva portato all'arresto di Parnasi e di Luca Lanzalone ex presidente di Acea lo scorso giugno. Da quella inchiesta sono finite a processo 18 persone, accusate di aver messo in piedi un sistema corruttivo per la costruzione dell'impianto del club giallorosso, progetto che dovrebbe sorgere a Tor di Valle. I pm avevano messo nel mirino nomi di spicco dell'imprenditoria e politica romana come il costruttore Parnasi e gli esponenti di Pd e Fi, Pier Michele Civita, Adriano Palozzi e Davide Bordoni. Il 10 dicembre, in un altro filone della stessa inchiesta, erano finiti alla sbarra altri personaggi di rilievo - sempre coinvolti nell'affaire del tempio giallorosso - tra cui l'avvocato genovese Luca Lanzalone, voluto al vertice di Acea dalla nomenclatura pentastellata. Associazione a delinquere, finanziamento illecito e corruzione i reati contestati a seconda delle posizioni. Gli avvisi di garanzia erano stati notificati all'imprenditore Parnasi ritenuto dagli inquirenti "il capo e organizzatore" dell'associazione a delinquere che ha cercato di pilotare le procedure amministrative legate al masterplan, approvato, nell'ambito della conferenza dei servizi, nel febbraio del 2018.
Elezioni 2018, Di Maio fa la lista di condannati, imputati e indagati dal Pd a Forza Italia: “Via gli impresentabili”. Sul Blog delle Stelle il candidato premier del M5s ha elencato 23 nomi di candidati le cui vicende sono state raccontate in queste settimane dal Fatto.it, insieme a quelle di molti altri esponenti della classe politica che il 4 marzo si presenteranno al giudizio degli elettori senza i requisiti di "candore" richiesti dalla loro condizione di "candidati": da Luigi Cesaro a Luciano D'Alfonso, da De Luca junior a Umberto Bossi, scrive Il Fatto Quotidiano il 4 Febbraio 2018. Da “Luca Lotti indagato nel caso Consip” fino a Franco Alfieri, consegnato all’immortalità da Vincenzo De Luca con l’epiteto quasi omerico de il “signore delle fritture”, passando per gli ex consiglieri del Pd rinviati a giudizio per le spese allegre alla Regione Lazio. Sul Blog delle Stelle Luigi Di Maio ha fatto la lista degli “impresentabili” candidati dagli altri partiti, Partito Democratico (“il centrosinistra ha rinnegato la lezione di Berlinguer sulla questione morale”, attacca il candidato premier dei 5 Stelle) e centrodestra in testa, le cui vicende sono state raccontate in queste settimane dal Fatto.it, insieme a quelle di molti altri esponenti della classe politica che il 4 marzo si presenteranno al giudizio degli elettori senza i requisiti di “candore” richiesti dalla loro condizione di “candidati”. “Tutti i giornali italiani per giorni hanno sbattuto in prima pagina tutta la vita di Emanuele Dessì, cittadino incensurato candidato al Senato con il MoVimento 5 Stelle” e che ha accettato di rinunciare al seggio, esordisce Di Maio, mentre sul capolista Giggino ‘a purpetta, esponente del centrodestra, hanno “osservato un omertoso silenzio, un insulto ai lettori”. Il leader del M5S punta il dito quindi contro il segretario del Pd che “ieri ha diffamato pubblicamente il MoVimento 5 Stelle dicendo che noi abbiamo impresentabili. Gli impresentabili e riciclati li ha messi lui nelle liste con un atto d’imperio fregandosene degli iscritti e della democrazia interna del suo partito”. Insomma, dice ancora Di Maio: “Basta impresentabili in Parlamento. Di seguito trovate i nomi degli impresentabili dei partiti. Devono sparire dalle liste. Ora!”. In cima all’elenco degli impresentabili del centrosinistra c’è Luciano D’Alfonso, “governatore della Regione Abruzzo, indagato a Pescara e a L’Aquila, per una inchiesta su appalti regionali e sul recupero del complesso che ha ospitato il mercato ortofrutticolo pescarese”. Dietro di lui spunta “Vito Vattuone che ha dal 29 gennaio scorso – si legge sempre sul blog – una richiesta di rinvio a giudizio, capolista del Pd nel collegio plurinominale per il Senato in Liguria, uno dei tanti politici candidati e coinvolti nelle vicende sui rimborsi regionali”. Per il Lazio Di Maio consegna alla ribalta i nomi di “Claudio Mancini (proporzionale Camera Latina), Carlo Lucherini (uninominale Senato Guidonia), Bruno Astorre (proporzionale Senato), Claudio Moscardelli tutti coinvolti nell’inchiesta sui rimborsi e le spese di rappresentanza del gruppo alla Pisana fra il 2010 e il 2012, rinviati a giudizio lo scorso settembre”. Ferdinando Aiello, Brunello Censore e Antonio Scalzo si presentano in Calabria nonostante siano stati “rinviati a giudizio nel luglio scorso”, seguiti da Angelo D’Agostino, “imputato in un processo a Roma per una storia di certificati falsi per appalti pubblici”. Vittorino Facciolla, assessore regionale all’Agricoltura in Molise, è “indagato nell’ambito di un’indagine sui Peu (Progetti Edilizi Unitari), fondi per la ricostruzione post sisma in Molise”. “Menzione speciale” per la Campania, la regione del candidato premier del Movimento, dove svetta “De Luca junior, candidato ovviamente a Salerno, nel “feudo” del padre. È imputato di bancarotta fraudolenta per il crac della società immobiliare “Ifil”. E dove Di Maio segnala il “sottosegretario Umberto Del Basso De Caro, accusato di tentata concussione, è stato sentito dai pm nel dicembre scorso”. Nelle fila del centrodestra, invece, oltre a Luigi Cesaro, c’è “Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati – scrive il leader M5S – sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani Libero e il Riformista; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio”. Ci sono Ugo Cappellacci (capolista in Sardegna, ex governatore, per lui chiesta condanna per abuso d’ufficio nel processo scaturito nell’inchiesta sulla cosiddetta P3; condannato in secondo grado a restituire alla Regione Sardegna circa 220 mila euro. Condannato a due anni e mezzo di reclusione per il crac milionario della Sept Italia), Michele Iorio, (candidato al Senato in Molise, condannato “dalla corte d’appello di Campobasso a 6 mesi di reclusione per abuso d’ufficio e a un anno di interdizione dai pubblici uffici”) e Urania Papatheu, “candidata nel Catanese, con una condanna in primo grado per gli sperperi dell’ex Ente fiera di Messina”. Il capitolo Lega comprende Umberto Bossi “condannato a 2 anni e 3 mesi per aver usato i soldi del partito, quindi “provenienti dalle casse dello Stato” a fini privati” e Edoardo Rixi, “assessore regionale in Liguria e imputato per le spese pazze in regione Liguria: si sarebbe fatto rimborsare spese private con soldi pubblici”. Non poteva mancare Roberto Formigoni, capolista al Senato con Noi con l’Italia in Lombardia, nonostante sia “condannato per corruzione a sei anni e imputato in altri processi”.
M5s, Travaglio vs Richetti (Pd): “Candidate 29 indagati, più di Forza Italia. E date lezioni?”. “Parli come Rocco Casalino”, scrive Gisella Ruccia il 14 Febbraio 2018 su Il Fatto Quotidiano. Bagarre a Dimartedì (La7) tra il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, e Matteo Richetti, portavoce della segreteria del Pd e candidato al Senato in Emilia-Romagna. La miccia del dibattito è il caso sulle mancate restituzioni, che ha travolto il M5s, vicenda sulla quale Richetti è tranchant: “Il problema qui è aver assistito per 5 anni a persone che davano lezioni sull’onestà, loro requisito fondamentale, e scoprire che il comportamento è tutt’altro che di onestà. C’era qualcuno che faceva il bonifico, ne mostrava lo screenshot e poi lo rimuoveva. Questo è un atteggiamento di massima disonestà e lo trovo molto grave”. “Forse dovreste cominciare a restituire anche voi un pezzo dello stipendio, prima di dare lezioni agli altri” – ribatte Travaglio – “La differenza tra voi e i 5 Stelle è che loro, quando trovano una mela marcia, la cacciano, mentre voi la candidate e la promuovete. Nelle vostre liste ci sono 29 inquisiti e per la prima volta avete sorpassato Forza Italia, che invece ha candidato 24 indagati. E’ un fatto storico. Ma vi rendete conto di che razza di macigno di questione morale avete in casa vostra? E date lezioni agli altri? E’ sconfortante”. Richetti replica: “Io trovo gravissimo che un direttore di giornale che io stimo, come Marco Travaglio, si comporti come un Rocco Casalino qualunque”. “Ma come si permette?” – insorge Travaglio – “Ma risponda alla mia domanda. Restituite anche voi un pezzo dello stipendio prima di dare lezioni agli altri. Tra l’altro, i 5 Stelle hanno votato la sua legge sul taglio dei vitalizi”. Il portavoce dem difende la sua posizione e ammonisce: “Ma lei come fa a difendere questa roba qua? Lei sta facendo il giornalista di partito”. “Lei fa finta di non capire” – controbatte il direttore del Fatto – “Voi avete candidato persone indagate per le Rimborsopoli regionali, cioè sotto processo in quanto facevano spese private con soldi pubblici, destinati ad attività istituzionali. E non è che li avete scoperti dopo e li avete cacciati, ma li avete candidati, sapendo che quelle persone sono imputate per avere rubato sui rimborsi regionali”.
Il bue chiama cornuto l’asino.
Bugie, reati e indagati: manicomio M5s. Il pesce puzza dalla testa e difatti tutto principia da Beppe Grillo: condannato nel 1985 per omicidio colposo in seguito a un incidente stradale, scrive Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 19/02/2018, su Il Giornale. Ci sono un paio di condannati per omicidio colposo, una manciata di sindaci a giudizio per falso ideologico, un altro che legittimamente si può definire evasore, due maneschi e una dozzina di trafficanti di scontrini e ricevute. Cosa fanno tutti insieme? Il Movimento 5 Stelle. Sembra una barzelletta, ma non lo è. Anche se spesso - di fronte a questo carnevale elettorale - scappa proprio da ridere. I duri e puri, gli sventolatori di manette, stanno ormai collezionando qualsiasi genere di imputazione: penale, civile e diremmo pure morale, se indossassimo per una volta i loro occhiali giustizialisti. Il pesce puzza dalla testa e difatti tutto principia da Beppe Grillo: condannato nel 1985 per omicidio colposo in seguito a un incidente stradale. Via, spuntato l'omicida dal codice penale. Ma il capocomico, come abbiamo scritto ieri, può anche essere definito - per sentenza - evasore. E abbiamo smarcato il secondo reato. Ma Beppe è in buona compagnia. Condannato per omicidio colposo è anche il candidato pentastellato in Piemonte Pino Masciari. A discendere è tutta un'umanità varia di furbetti, maneggioni o incompetenti. Nella migliore delle ipotesi. La sindaca Chiara Appendino è indagata per omicidio colposo, lesioni colpose, disastro colposo e pure per falso ideologico. Le fanno compagnia Virginia Raggi (indagata per abuso d'ufficio e rinviata a giudizio per falso ideologico) e il primo cittadino di Livorno Filippo Nogarin (abuso d'ufficio e concorso in omicidio colposo). Di fronte a loro il povero Di Maio, indagato solo per diffamazione, pare un mesto chierichetto. Si salva in corner solo perché non esiste il reato di stupro del congiuntivo. E poi c'è tutta la caleidoscopica galassia di deputati e candidati. Ultimo in ordine di tempo il capitano De Falco, che dal mitologico «Vada a bordo, cazzo!» sembra essere passato ai cazzotti in famiglia. Non manca neppure il candidato scroccone Emanuele Dessì: che ha ammesso candidamente di pagare 7 euro e 70 centesimi di affitto mensile per la sua casa popolare. Novantatrè euro l'anno. Come una notte in un hotel tre stelle, due in meno del partito per il quale è in lista. Dopo lo scroccone c'è la spendacciona sotto scacco dell'ex. Giulia Sarti, infatti, ha incolpato il suo compagno per la mancata restituzione di 23mila euro di rimborsi, il quale - come in una puntata di Beautiful - si è precipitato in procura per dire che lui non c'entra nulla e ha le prove perché registra tutto, telefonate comprese. Tutto segretato dai giudici, per amor di patria e buon gusto. E ci sono anche i mezzi furbetti, quelli che facevano il bonifico e poi lo cancellavano, quelli che facevano incetta di scontrini per giustificare le spese. Smarcata anche la casella degli arruffoni, come Marta Grande, che dopo non aver rendicontato nulla per un anno intero ha deciso di farlo in una volta sola: 7mila euro di alberghi ad agosto. Ad agosto. Quando il Parlamento è chiuso. Geniale. Di livello superiore Ivan Della Valle che, dopo essere scappato in Marocco come in un film di Salvatores, ha confessato di aver taroccato i bonifici con Photoshop. Dimostrando, se non altro, di avere una certa perizia nella contraffazione informatica. Ci manca solo quello che dice che non ha le ricevute dei bonifici perché gliele ha mangiate il cane. Ma da qui alle elezioni ci sono ancora due settimane. Se questa è la trasparenza a Cinque Stelle, beh, allora è meglio chiudere il sipario su questo spettacolo indecoroso.
Saverio De Bonis: il senatore condannato e la doppia morale M5S, scrive Giovanni Drogo l'11 Settembre 2018 su Next. Vi ricordate di quando Luigi Di Maio in campagna elettorale prometteva che nelle liste del MoVimento 5 Stelle non c’erano impresentabili? Vi ricordate di quando si è scoperto che in lista all’uninominale Di Maio aveva fatto mettere massoni ed indagati? Il Capo Politico del MoVimento 5 Stelle rassicurava gli elettori che «Tutti coloro che erano in posizioni eleggibili nei candidati delle liste plurinominali mi hanno già firmato un modulo per rinunciare alla proclamazione altrimenti gli facevo danno d’immagine».
Perché Saverio De Bonis non è stato espulso dal M5S? Gli altri, spiegava il leader pentastellato, erano in collegi uninominali perdenti, quindi non sarebbero stati eletti. Ovviamente non è andata così. Alcuni degli impresentabili presentati dal MoVimento 5 Stelle sono stati espulsi (ma sono rimasti in Parlamento), come ad esempio Salvatore Caiata il presidente del Potenza calcio eletto alla Camera in Basilicata e subito espulso dal M5S perché indagato. Altri – per non si sa quale motivo – invece hanno potuto tenere lo scranno e il posto nel partito del Capo. È il caso del Senatore Saverio De Bonis, eletto all’uninominale in Basilicata con la bellezza di 123.118 preferenze. De Bonis attualmente è membro della Commissione Agricoltura di Palazzo Madama. E il 19 gennaio 2017 (con sentenza depositata il 24/05/2018) è stato condannato in Appello dalla Corte dei Conti al pagamento, in favore della Regione Basilicata, di 2.775,00 euro. La sentenza d’appello è stata pubblicata nel maggio scorso (dopo le elezioni) De Bonis non solo è stato candidato dal MoVimento 5 Stelle e, in aperta violazione del Codice Etico, non si è autospeso né è stato oggetto di provvedimento di sospensione o espulsione dal M5S. Ma il problema è un altro, perché dal momento che la sentenza di primo grado della Corte dei Conti a carico di De Bonis è stata emessa nel 2015, il senatore non avrebbe potuto candidarsi non solo perché era già stato condannato dalla Corte dei Conti – che è una condanna contabile e non una condanna penale – ma soprattutto per via di due reati prescritti in due precedenti procedimenti giudiziari nel quale il Senatore è stato prosciolto. Anche se De Bonis è incensurato le regole del M5S non fanno distinzione tra condanna e prescrizione del reato. Nel Codice Etico del M5S (Art. 6) è scritto che «costituisce condotta grave ed incompatibile con la candidatura ed il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5Stelle la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo» e precisa che «sono equiparate alla sentenza di condanna la sentenza di patteggiamento, il decreto penale di condanna divenuto irrevocabile e l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta dopo il rinvio a giudizio». Ad esempio nel caso di Antonio Tasso, il reato prescritto risale a dieci anni fa, ma il M5S decise per la sua sospensione, scaduta nei giorni scorsi (anche se attualmente risulta ancora iscritto al gruppo misto).
Il doppio standard del Codice Etico del MoVimento 5 Stelle. Eppure le cose sono andate diversamente perché – e non è chiaro se i vertici ne fossero a conoscenza o meno – De Bonis è arrivato in Parlamento nonostante la condanna della Corte dei Conti (non definitiva) e la prescrizione per il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico e truffa (reato per il quale il GUP aveva chiesto il rinvio a giudizio). Il sistema dei due pesi e delle due misure (o della doppia morale) pentastellata funziona così: se la stampa scopre che un “portavoce” è sotto indagine allora viene espulso (come nel caso di Caiata) ancora prima di essere eletto, anche se poi dovesse venire archiviato. Se la notizia di una condanna in appello da parte della Corte dei Conti e della prescrizione non arriva sui giornali allora il MoVimento degli onesti e trasparenti fa finta di niente. Eppure la condanna di De Bonis da parte della Corte dei Conti, imprenditore agricolo molto attivo sul fronte politico della tutela della qualità di riso e grano italiani, dovrebbe far riflettere il M5S. Perché l’accusa nei confronti di De Bonis era quella di aver truffato la Regione Basilicata al fine di ottenere l’ammissione della sua azienda ai benefici previsti dal P.O.R. Basilicata 2000-2006, Misura IV.8 “Investimenti nelle aziende agricole nell’ambito delle filiere produttive. I fatti risalgono al 2004 e nella motivazione della decisione della Corte dei Conti si legge che «<agli atti di causa risulta che il De Bonis ha dichiarato nella domanda di essere imprenditore agricolo dal 7/11/2000 ed “insediato da non oltre 5 anni”, mentre dalla “visura storica dell’impresa” depositata in atti dal P.M., risulta iscritto presso la Camera di Commercio Industria ed Artigianato di Matera quale “Impresa Agricola (sezione speciale)” sin dall’8.1.1997, e risulta altresì “data d’inizio dell’attività d’impresa 03/04/1996” relativamente all’attività di coltivazione di cereali>. Per cui il suddetto non era in possesso dei requisiti per godere delle agevolazioni previste nei confronti dei c.d. “giovani imprenditori agricoli”». Secondo l’accusa del processo penale poi conclusosi con il proscioglimento per intervenuta prescrizione De Bonis avrebbe tentato di acquisire il maggior punteggio in graduatoria (e il finanziamento maggiore) concesso a quei “giovani imprenditori” nel caso di richiesta di ammissione al contributo venisse presentata «da giovani agricoltori che si siano insediati in azienda da meno di cinque anni». La prima sezione d’appello della Corte dei Conti ha condannato De Bonis al pagamento, in favore della Regione Basilicata, di euro 2.775,0. Ma non è tanto l’entità della condanna il problema, quanto il fatto che De Bonis abbia taciuto sul suo processo e sulla prescrizione ai vertici del partito. E se De Bonis non ha taciuto e il Capo Politico e lo Staff ne erano a conoscenza allora la situazione dimostra il doppio standard pentastellato. Perché? Forse perché al Senato la maggioranza è meno ampia che alla Camera. Ogni voto conta, e il MoVimento non può permettersi di perdere un senatore.
EDIT del 26/10/2018: Per conto dell’Onorevole De Bonis riceviamo da parte dell’Avvocato Giampiero Milone una richiesta di rettifica. In particolare l’Avv. Milone chiede di precisare che l’onorevole pentastellato non ricopre lo status di “impresentabile” in base al regolamento del MoVimento 5 Stelle. È utile far notare che lo status di “impresentabile” non è una definizione giornalistica ma che è un termine coniato proprio dal MoVimento 5 Stelle e utilizzato in più occasioni dal Capo Politico del partito come ricordato all’inizio dell’articolo. Lo statuto del MoVimento 5 Stelle parla chiaro: «costituisce condotta grave ed incompatibile con la candidatura ed il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5 Stelle la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo» e precisa che «sono equiparate alla sentenza di condanna la sentenza di patteggiamento, il decreto penale di condanna divenuto irrevocabile e l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta dopo il rinvio a giudizio». Quindi il fatto che l’Onorevole De Bonis sia stato prescritto dopo il rinvio a giudizio viene equiparato (ovvero è uguale) ad una condotta grave ed incompatibile con la candidatura. Questo non lo hanno inventato i giornalisti ma chi ha scritto lo statuto. Vero è che De Bonis non è mai stato definito impresentabile dai vertici del MoVimento (come invece il collega Tasso) ma è proprio questo il punto dell’articolo: la doppia morale del M5S in questi (perché De Bonis non è l’unico) casi. Ad essere rimessa alla discrezionalità degli Organi Associativi (ovvero i Probiviri) sono invece tutti quei casi in cui la condanna, il proscioglimento, il rinvio a giudizio o la prescrizione riguardano «fatti astrattamente riconducibili ai cosiddetti reati di opinione». Il che ovviamente non riguarda il tipo di reato per il quale De Bonis venne rinviato a giudizio e successivamente prescritto.
I massoni e gli impresentabili eletti con il MoVimento 5 Stelle, scrive Giovanni Drogo l'11 Settembre 2018 su Next. Poco meno di una settimana fa il Capo Politico del M5S Luigi Di Maio rassicurava gli elettori del MoVimento spiegando che gli impresentabili che erano finiti nelle liste uninominali erano in collegi perdenti e che quindi non saranno eletti. Allo stesso tempo Di Maio confermava che «Tutti coloro che erano in posizioni eleggibili nei candidati delle liste plurinominali mi hanno già firmato un modulo per rinunciare alla proclamazione altrimenti gli facevo danno d’immagine».
I candidati che non dovevano essere eletti sono stati eletti. Oggi, il giorno dopo il voto scopriamo che le cose sono andate diversamente. L’ondata di consensi che ha portato il partito di Grillo e Casaleggio al 32% ha infatti consentito l’elezione anche di molti incandidabili dei quali Di Maio si diceva sicuro non sarebbero potuti entrare in Parlamento. L’ex massone Catello Vitiello candidato alla Camera nel Collegio uninominale Campania 1-12 a Castellamare di Stabia si è aggiudicato un posto in Parlamento con il 46,58% dei consensi (60.324 voti). Vitiello aveva fatto sapere di non aver alcuna intenzione di rinunciare all’elezione e così entrerà alla Camera ma da “espulso” dal MoVimento. Stessa sorte anche per il presidente del Potenza Calcio Salvatore Caiata, candidato alla Camera all’uninominale a Potenza. Quando mancano appena cinque sezioni alla fine dello spoglio Caiata è saldamente in testa al 42% e quindi sarà tra gli eletti. Anche Caiata era però stato espulso dal M5S perché si era scoperto dopo la sua candidatura che è attualmente indagato a Siena con l’accusa di riciclaggio. Come per Vitiello Caiata aveva fatto sapere di non volersi ritirare. Festeggia anche un altro candidato all’uninominale “perdente”. Si tratta di Antonio Tasso candidato per il MoVimento in Puglia alla Camera Cerignola. Tasso ha ottenuto oltre cinquantamila voti (pari al 43,8%) ed è quindi ufficialmente eletto alla Camera dei deputati. Anche lui però era stato espulso perché non aveva rivelato di essere stato condannato (e prescritto) per violazione della legge sul diritto d’autore, perché “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso abusivamente duplicava o riproduceva a fine di lucro, 308 cd per videogiochi e 57 cd musicali”. Anche Emanuele Dessì, secondo in lista nel listino bloccato del collegio plurinominale Lazio 3 (dove la capolista è la senatrice Elena Fattori) dovrebbe essere eletto dal momento che il MoVimento ha conquistato il 36,28% delle preferenze. Dessì ha firmato il famoso, e inutile, contratto e nei giorni scorsi, dopo aver detto che un giro al Senato se lo sarebbe fatto volentieri ha detto che «non esiste nessuna legge che prevede la rinuncia all’elezione, il voto dell’elettorato è costituzionalmente “indisponibile”».
Riconfermati anche i i parlamentari coinvolti nella rimborsopoli a 5 Stelle. Tutto come previsto invece per i parlamentari coinvolti nel caso “rimborsopoli” e per questo espulsi dal MoVimento 5 Stelle. Andrea Cecconi ha addirittura sconfitto all’uninominale a Pesaro il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il senatore Carlo Martelli, capolista al proporzionale nel collegio Piemonte 2 dovrebbe essere eletto così come la riminese Giulia Sarti che pur avendo perso di misura (per poco meno di cinquemila preferenze) il confronto all’uninominale con Elena Raffaelli (candidata per il centrodestra) potrà beneficiare del paracadute del proporzionale essendo la prima del listino bloccato Emilia Romagna 1 dove il M5S ha preso il 29,7%. Anche il senatore Maurizio Buccarella, tra i volti più noti tra quelli coinvolti, sarà eletto. Buccarella era stato candidato al secondo posto del listino bloccato nella circoscrizione Puglia 2 (la prima è la senatrice uscente Barbara Lezzi). I 5 Stelle hanno vinto tutte le sfide all’uninominale in Puglia e quindi il senatore coinvolto nel caso delle rendicontazioni allegre potrà tornare in Senato e smettere di preoccuparsi per la sua situazione finanziaria. Dovrebbe farcela anche Silvia Benedetti, capolista in Veneto al proporzionale alla Camera che sarà quindi riconfermata.
Luigi Di Maio, la ridicola sparata del manettaro a diMartedì: "Non si fa politica sugli arresti", scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Oltre il ridicolo, come spesso accade quando a parlare è un grillino. In questo caso si tratta di Luigi di Maio, ospite a diMartedì di Giovanni Floris su La7. Si faceva il punto sul voto in Giunta che ha espresso un parere negativo al processo di Matteo Salvini per il caso Diciotti. Dopo il voto, fuori dall'aula, il Pd ha inveito contro il grillino Michele Giarrusso, il quale ha risposto con il deplorevole gesto delle manette, con un chiaro riferimento - poi confermato dalle sue stesse parole - all'arresto dei genitori di Matteo Renzi. Interpellato sull'opportunità di un simile gesto da Floris, Di Maio ha risposto: "Il gesto delle manette? Gli è sfuggita di mano la situazione, perché c'erano i senatori del Pd che inveivano contro di lui. Il tema dell'arresto dei genitori di Renzi non deve essere usato contro l'ex premier". Il che, detto dal leader del partito più manettaro e forcaiolo d'Italia (un partito il cui ideologo maximo è Marco Travaglio, per intendersi) è assolutamente ridicolo.
Il forcaiolo a 5 Stelle e l'orrore delle manette. Che orrore quel gesto che oltraggia la giustizia, scrive Felice Manti, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Ci sono immagini che fanno orrore. Enzo Tortora che lascia in manette la stazione dei carabinieri, vittima simbolo della malagiustizia che ci costa 800 milioni di euro l'anno di risarcimenti. Dieci anni dopo c'è il dc Enzo Carra che entra in tribunale con gli schiavettoni. Condannato a 1 anno e 4 mesi per «false o reticenti informazioni al pm» su una tangente da 5 miliardi, reato poi abolito. «Anche la Gestapo otteneva risultati in questo modo», dirà Arnaldo Forlani. Allora la gogna di Mani pulite voleva i suoi scalpi, alle tricoteuses fuori dai palazzi di giustizia delle sentenze importava poco. Oggi che la piazza M5s ribolle dopo la capriola garantista che fermando le ghigliottine ha salvato le poltrone ci voleva un comando per far abbaiare la canea forcaiola e uscire dall'imbarazzo. Il gesto delle manette indirizzato ai genitori dell'ex premier Matteo Renzi. Ci ha pensato Mario Giarrusso, ex discepolo di Leoluca Orlando Cascio nella Rete ma con un ruolo onorevole, quello di custode della Fondazione Antonino Caponnetto, mentore degli eroi antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A loro quel gesto avrebbe fatto ribrezzo. Non si può onorare la loro memoria se si obbedisce alla religione della cultura del sospetto. È «l'anticamera del khomeinismo - diceva Falcone - non si può dire io intanto contesto il reato, poi si vede perché da queste contestazioni derivano conseguenze incalcolabili». Ma l'oltraggio peggiore Giarrusso l'ha fatto alla toga di avvocato, calpestando per un pugno di voti la presunzione d'innocenza, testata d'angolo su cui si costruisce la giurisprudenza italiana, maltrattata nelle aule di tribunale da teoremi spregiudicati che spesso finiscono in cenere. Una deriva, questa sì, inarrestabile.
Michele Giarrusso, chi è il grillino imbarazzante che vuole impiccare Renzi, scrive Francesco Specchia il 22 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Da quel vischioso groviglio di contraddizioni che spesso anima il governo gialloverde, in questi giorni riemerge prepotente una figura antica: il "parlatore a titolo personale". Della suddetta categoria Cinque Stelle e Lega, oggi, vantano ben due pregiati rappresentati: il senatore Mario Michele Giarrusso e il deputato Claudio Borghi Aquilini. Che nulla hanno in comune, se non la capacità innaturale di bombardare la semantica parlamentare, produrre a getto continuo dichiarazioni eversive che aizzano i taccuini dei cronisti, ed essere -per questo- sistematicamente smentiti dal partito, dalle istituzioni, talora da se stessi. L' epilogo della straordinaria strategia di comunicazione che li fa finire sui giornali è sempre la stessa frase, tranchant, pronunciata dal resto del mondo: «Parla a titolo personale», appunto. Campioni della specialità un tempo erano Renato Brunetta, Mario Borghezio, Nichi Vendola quand' era comunista. Ma Giarrusso e Borghi sono l'evoluzione della specie, tecnica di base e tempistica inarrivabili. Non so come facciano. Prendete l'avvocato Giarrusso. Se avesse deciso di attenersi solo al ruolo di capogruppo M5S nella Giunta per le immunità a Palazzo Madama, sarebbe ricordato solo per una foto terribile, ghignante a torso nudo e un'altra in gessato da gangster anni 30; invece Michele ha deciso che spiazzare è il suo mandato.
«MANETTARO». Da qui il famoso gesto delle manette per la famiglia Renzi ai domiciliari, dopo aver giustificato in aula la mancata autorizzazione a procedere per Salvini, e la frase gridata a La Zanzara su Radio 24: «Io sono manettaro!»; mentre, pochi minuti dopo, lo stesso Salvini lo correggeva: «Conosco Giarrusso, non è un manettaro». Mesi prima, in Senato, l'uomo aveva posizionando geograficamente la diga di Mosul in Siria con tanto di smentita ironica del Premier: «Mosul, però, è in Iraq». E poi, indimenticabile fu quella volta che, intervistato da Maurizio Mannoni al Tg3 sull' accordo col Pd sui giudici della Consulta, affermò che la Costituzione era del 1946. Smentito dalla storia. E quando fu accusato di diffamazione contro la Pd Greco, lo stesso Giarrusso invocò per sè, in un primo momento l'insidacabilità parlamentare, e venne smentito da Di Maio. Poi attaccò un giornalista Rai intimandogli di «buttarsi a mare con una pietra al collo», smentito da M5S. Idem per l'accusa a Beppe Grillo di aver posto le votazioni online sul Ddl anticorruzione in modo scorretto. Ma se Giarrusso è un ariete della contropolitica, Borghi, presidente della Commissione Bilancio delle Camera, economista e teorico antieuro, nello stop-and-go delle provocazioni è un centravanti di sfondamento.
Le sparate L' ultima sparata è stata l'annessione del M5S alla Lega in un unico gruppo parlamentare. Pronta la replica di Salvini: «No al gruppo unico». E del Movimento: «Ci spiace dover contraddire il presidente Borghi ma lui parla a titolo personale. E, sistematicamente, viene smentito». Notare l'avverbio aguzzo, «sistematicamente». E già. Perché, in precedenza Borghi aveva dichiarato che: a) «il commissario Ue Moscovici mi segue su Twitter» (smentito da Moscovici); b) «se l' Europa non cambia, noi ne usciamo» (smentito da Salvini e da Conte); c) «serve una legge che dica esplicitamente che le riserve auree appartengono allo Stato e non a Bankitalia» (smentito da tutti: la legge già c' è. Replica, tiratissima: «ma non c' è l' interpretazione autentica»); d) «se uno dovesse ipotizzare una manovra aggiuntiva adesso, dovrebbe ipotizzarla in maggiore deficit» (smentito da Tria). Il problema di Borghi è che, avendo più credenziali di Giarrusso, quando parla rischia di causare l'effetto farfalla: il 2 ottobre, dichiarando di voler uscire dall' euro, diede una spallata alla moneta unica sul dollaro. A forza di parlare, anzi tuonare, a titolo personale i due sono diventati la mappa vivente dei paradossi di un governo ad eversione variabile. Francesco Specchia
· I Rossi manettari.
Pd, non c’è soltanto lo scandalo Umbria: ormai cinque regioni traballano sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Eccole. Salgono a cinque le regioni travolte da inchieste a carico di dirigenti locali e governatori daem. Mentre i sondaggi rianimano il partito e il tempo restituisce all'ex sindaco Marino la sua innocenza, nel Pd tornano la questione morale e il no giustizia. Il nuovo segretario marca la linea della "fiducia nella magistratura", ma sotto le ceneri cova l'anatema berlusconiano, scrive Thomas Mackinson il 13 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. In Umbria lo scandalo sanità fa saltare la testa del partito, con l’arresto dell’assessore Luca Barberini e del segretario regionale Gianpiero Bocci, ai domiciliari. Indagata la governatrice Catiuscia Marini. Nicola Zingaretti commissaria, Salvini chiama elezioni subito. Nel fianco del Pd ci sono però anche Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria. Macigni sulla campagna elettorale di un partito uscito un anno fa con le ossa rotte e che ora sta cercando di ricomporsi. Zingaretti tutto poteva aspettarsi, tranne che il banco di prova della sua reggenza delle europee iniziasse a traballare sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Proprio ora che i sondaggi sono in ripresa e il tempo ha restituito a Ignazio Marino, l’ex sindaco di Roma, la patente di estraneità al malaffare degli scontrini cavalcato dalla corrente capitolina e renziana in ascesa. L’ultima tegola travolge l’Umbria, affare di assunzioni pilotate in sanità che riempie ancora i giornali di episodi e ricostruzioni che – oltre al possibile criminale in senso tecnico – illuminano consuetudini clientelari e dinamiche di potere difficilmente compatibili con il passo che il neosegretario vorrebbe imprimere al partito. Il rapporto con la giustizia, al di là del caso locale, è una variabile importante del suo mandato. Nel Pd che ha eredito cova da tempo una spaccatura profonda sul tema, emersa con più evidenza in occasione dell’indagine a carico dei genitori dell’ex segretario Matteo Renzi, quando qualcuno – ricorda oggi Repubblica – ha rispolverato la formula berlusconiana della “giustizia a orologeria”. Il segretario-governatore sembra indisponibile a seguire questa linea, avendo limitato il suo commento ai fatti di Perugia alla “piena fiducia nella magistratura”.
Basilicata, la débâcle dopo un quarto di secolo. Appena due settimane fa, il Pd aveva subito un storica sconfitta in Basilicata, regione che governava da 25 anni. Determinante l’inchiesta giudiziaria che a luglio aveva portato all’arresto del governatore Marcello Pittella. Sempre storiaccia di concorsi truccati, raccomandazioni e sanità usata come ascensore per ricchezza e potere dei notabili locali del partito e loro amici e parenti. A fine marzo si è votato per il rinnovo del consiglio regionale, Pittella disarcionato dall’inchiesta sulla sanità lucana è tornato in consiglio forte di oltre 8mila preferenze e la sua lista “batte” quella del Pd. E i suoi ex assessori, indagati, siedono insieme al lui in consiglio.
Puglia, Emiliano e le primarie. In Puglia è finito sotto inchiesta Michele Emiliano per una vicenda legata al finanziamento delle primarie del Pd, quando il governatore sfidava Renzi e Orlando. Per la procura di Bari due imprenditori con interessi diretti sugli appalti della Regione pagarono la campagna elettorale dell’ex magistrato. Da qui l’accusa di abuso d’ufficio e traffico illecito di influenze alle quali Emiliano si dichiara estraneo.
Calabria, Oliverio tentato dal ritorno. Guai per il Pd anche in Calabria dove è indagine anche il presidente della Regione, Mario Oliverio. Per lui era stato disposto l’obbligo di dimora, misura però annullata a marzo dalla Cassazione. L’indagine riguarda presunte irregolarità in due appalti gestiti dalla Regione e per i quali la guardia di finanza, oltre ai presunti reati contestati a Oliverio, per gli altri indagati aveva riscontrato quelli di falso, corruzione e frode in pubbliche forniture. Dopo più di tre mesi, il presidente Oliverio torna libero con un provvedimento della Cassazione che, a questo punto, potrà sfruttare anche in chiave politica: siamo agli sgoccioli della legislatura, presto si tornerà a votare per le regionali e ha intenzione di ricandidarsi nonostante le perplessità di parte del Pd calabrese.
Il terremoto delle inchieste in Abruzzo. In Abruzzo proprio due giorni fa il tribunale dell’Aquila ha disposto l’archiviazione della posizione dell’ex presidente regionale Luciano D’Alfonso, oggi senatore dem. L’inchiesta era uno dei filoni seguiti dalla procura della Repubblica dell’Aquila sugli appalti della Regione: tra i principali, la gara per l’affidamento dei lavori di ricostruzione di palazzo Centi, sede della giunta regionale all’Aquila. Il primo di ottobre però si terrà l’udienza preliminare per un’altra vicenda in cui rischia il processo, quella della Procura di Pescara su una delibera di giunta del 2016, avente come oggetto la riqualificazione e la realizzazione del parco pubblico Villa delle Rose di Lanciano (Chieti) con le accuse di falso ideologico, per aver falsamente attestato, stando all’accusa, la presenza del governatore in giunta.
Virus manettaro: Zingaretti, tu quoque. Il caso Marino non ha insegnato nulla al Pd, scrive Angela Azzaro il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. Katiuscia Marini, pur smentendo di aver ricevuto pressioni per dimettersi, non ha potuto non porre la questione del giustizialismo interno al Pd. Il nuovo corso di Zingaretti faceva bene sperare, ma la delusione è stata quasi immediata. Ancora una volta i dem per inseguire i Cinque stelle sulla cosiddetta questione morale, diventano ancora meno garantisti di loro. Luigi Di Maio, con l’eccezione di Marcello De Vito, ha difeso i suoi colpiti da un avviso di garanzia o rinviati a giudizio. Il Pd no. Eppure c’è stata la recente lezione di Ignazio Marino, costretto a dimettersi dopo le vicende giudiziarie. Ora che è stato assolto, tutti a dire che Renzi e Orfini avevano sbagliato, che avevano regalato Roma ai Cinque stelle, che la questione garantista deve essere centrale. Qualche giorno dopo, quello che valeva per Renzi e per Orfini, sembra non valere per Zingaretti che può facilmente lasciare sola una sua capace amministratrice, senza far pesare il sacrosanto principio della presunzione di innocenza. Non si tratta di difendere questo o quella, ma di far valere un valore fondamentale e di chi capire che un nuovo centrosinistra ( se questa è la sfida di Zingaretti) non può che ripartire tagliando i ponti con la cultura giustizialista che da anni intossica la vita politica italiana. Invece ancora una volta prevale la logica di sacrificare lo stato di diritto sull’altare del capro espiatorio e della gogna. Ma così non si vince.
Cacciari: «Il giustizialismo dei dem è iniziato con Tangentopoli». Intervista al filosofo: «Zingaretti sfidi i grillini sul loro terreno con proposte vere non demagogiche, inizi dal lavoro», scrive Riccardo Tripepi il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. Lo scandalo che ha azzerato la giunta regionale dell’Umbra pone nuovamente al centro dell’attenzione la difficoltà per le amministrazioni pubbliche, di ogni livello, di rimare immuni da infiltrazioni e corruzione. Un tema cavalcato dalle forze populiste e giustizialiste, che hanno trascinato anche i partiti tradizionali all’interno dello stesso solco. Il presidente della Regione Catiuscia Marini si è dimessa anche perché abbandonata dal suo partito. Il Pd, tramite il silenzio del segretario nazionale Nicola Zingaretti e gli affondi di altri suoi componenti, come Carlo Calenda, ha consegnato un messaggio chiaro alla Marini che ha parlato di una sorta di deriva giustizialista alla quale i democrat si sarebbero abbandonati. Il filosofo Massimo Cacciari offre la sua visione dell’attuale fase politica provando ad allargare lo sguardo oltre la mera cronaca.
«Quanto avvenuto in Umbria non cambia niente nella sostanza. Scandali di questo genere sono all’ordine del giorno in Italia, ma ci si ostina a non capire che non è una questione di corrotti, ma una questione di sistema. Fino a quando non lo capiremo, saremo sempre lì ogni giorno a commentare questo o quell’altro malaffare. E’ truccato il sistema dei concorsi, così come quello sanitario. I corrotti ci sono sempre stati e qualche corrotto non ha mai rovinato nessun sistema. Quando è il sistema corrotto, invece, i corrotti proliferano e diventano il tutto. E nessuno fa nulla per cambiare le cose».
Perché ciò avviene? Perché nessuno si oppone a questo stato di cose?
«È evidente che il Paese non intende assolutamente cambiare. Esiste un ceto politico, una elite politica, anche questo governo, che si rifiuta di mettere mano alle vere riforme di sistema che contano. Pertanto non si mette mano alla riforma della pubblica amministrazione, del sistema sanitario, di quello universitario, del sistema degli appalti, così come non si fa nulla per la qualificazione dei pubblici amministratori. Si tratta di quelle riforme che nessuno affronta e che nessuno ha mai affrontato oppure che quando sono state affrontate, ciò è avvenuto dall’alto e non dal basso. Partendo dai Senati e dalle Camere e non dall’osservazione di quello che non funziona. Questo è un sistema corrotto nel senso di rotto, è un sistema che non funziona più».
Crede che il Pd abbia affrontato male la vicenda umbra?
«Non si tratta del Pd. Una volta è un partito e un’altra volta un altro. E un rincorrersi continuo di strumentalizzazioni davanti ad episodi che dipendono dal sistema».
Non ravvede quindi una deriva giustizialista del partito?
«Ma quando mai. Ne mandano via uno, ne espellono un altro. E’ uguale in ogni partito e poi il Pd va avanti su questa linea da tempo. Per 20 anni ha fatto così contro Berlusconi facendo poco altro. Non mi pare che ci siano grandi novità: si continua inutilmente ad inseguire la cronaca in modo ossessivo e il centrosinistra lo fa dai tempi di Tangentopoli».
Si tratta di un modo di fare che andrebbe rivisto?
«Come fa a essere rivisto? Le forze politiche sono costrette a inseguirsi sullo stesso terreno criminalizzandosi a vicenda. Non può essere rivisto da nessuno. Chi dovesse farlo verrebbe accusato di chissà cosa da tutti gli altri. E proseguendo così non si capirà mai che non si tratta di qualche criminale, ma del sistema».
Così però diventa difficile per il Pd costruire un’alternativa al populismo…
«Non per questo motivo di sicuro. Le possibilità di attaccare politicamente questo governo sono nelle capacità dall’altra parte di elaborare una strategia politica ed esprimere un gruppo dirigente decente. Per il momento non ce ne sono tracce».
Cosa dovrebbe fare dunque Zingaretti?
«Dovrebbe su alcuni temi propri della tradizione della politica di centrosinistra, come il lavoro, elaborare proposte vere non demagogiche in contrapposizione ai Cinque Stelle, ma sul loro terreno. Proposte che siano più credibili ed efficaci, più di governo. Poi dovrebbe avviare un grosso discorso europeista con gli altri partiti europei di questa ispirazione, con un programma davvero credibile di riforma radicale dell’Unione europea con nuove politiche economiche. Dovrebbe poi presentare un gruppo dirigente vero al più presto, così come c’è stato in tutti i partiti che hanno funzionato. Se invece si continua a mettere insieme i Calenda da una parte e i Bersani dall’altra dove vuole che si vada?»
Si aspetta quindi una bocciatura alle europee?
«Non credo che andranno male. Secondo me il Pd prenderà di più che alle ultime politiche. Magari si avvicinerà al 20% o riuscirà a battere di un soffio i Cinque Stelle che sono in rotta totale e potrà anche dire di aver avuto successo. Ma si tratterà di una vittoria di Pirro perché Zingaretti non sta creando un gruppo dirigente alternativo a quello renziano».
Immagina invece che il voto di maggio possa avere effetti sulla tenuta del governo nazionale?
«Soltanto se Salvini dovesse avere un exploit formidabile. Con la Lega al 35% potrebbe puntare a nuove elezioni per formare un governo monocolore con le altre forze del centrodestra. Farebbe partire un’opa nei confronti di Forza Italia cui nessuno potrebbe resistere».
Riuscirà la Lega ad arrivare a una percentuale così alta?
«Al momento ne dubito. Non tanto per l’azione del governo, ma perché credo che un certo settore dell’elettorato della Lega non digerisca certe alleanze di Salvini o certe sue uscite, come quelle pro Putin. Non è che queste cose piacciano molto all’elettorato del Nord- Est o ai governatori che sono in grande sofferenza. Credo che molti voteranno in modo prudente».
Renzi: «Infamie su di me». E querela tutti: Pelù, Trenta, Vissani, D’Eusanio. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Corriere.it. Matteo Renzi chiede i danni. Lo annuncia lui stesso nella sua enews: «Avevo promesso di iniziare a chiedere i danni per le infamie che ho ricevuto in questi anni. E vi avevo garantito che vi avrei tenuti informati», scrive, facendo proprio l’elenco. «I primi dieci atti formalmente predisposti oggi», riporta l’ex premier, «sono contro: 1) Piero Pelù per avermi definito in diretta tv al concertone “boy-scout di Licio Gelli”; 2) Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio tv; 3) Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi “ad cognatum”; 4) la giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa “di un porto aperto da Renzi”; 5) lo chef Vissani per avermi definito “peggio di Hitler”; 6) la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in tv; 7) il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; 8) Il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di stato; 9) Panorama, sulla vicenda Paita - alluvione di Genova; 10) chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche». «Ovviamente è solo l’inizio», annuncia infine l’ex presidente del Consiglio, che invita i suoi sostenitori a inviare ulteriori segnalazioni che, promette, saranno trasmesse «agli avvocati per l’apertura di cause di risarcimento civile. Vi terrò informati sul quantum e sulla destinazione dei risarcimenti», conclude. Le schermaglie giudiziarie avviate dall’ex premier o dalla sua famiglia hanno già portato a dei risultati. In precedenza, era stato il padre Tiziano, a metà dello scorso ottobre, a vincere una causa civile per diffamazione intentata nei confronti del Fatto Quotidiano. «Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli», aveva spiegato l’ex segretario del Pd, «oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95 mila euro: è solo l’inizio. Il tempo è galantuomo. Niente potrà ripagare l’enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni». Tiziano Renzi aveva chiesto un totale di 300 mila euro di risarcimento, in relazione agli articoli pubblicati sulla vicenda Chil Post e Mail Service srl. Un mese dopo, ancora Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, è stato nuovamente condannato, al pagamento di 50 mila euro, stavolta per un intervento televisivo a proposito della vicenda Consip. «Condannato due volte nel giro di un mese (...) La verità prima o poi arriva. Il tempo è galantuomo», era stato il commento di Matteo.
Da Imola Oggi il 17 aprile 2019. Matteo Renzi dà seguito all’annuncio di una serie di querele e risarcimenti danni “per le infamie che ho ricevuto in questi anni”, e nella newsletter inviata ai suoi sostenitori elenca “i primi dieci atti formalmente predisposti oggi”. I destinatari sono “Piero Pelù per avermi definito in diretta TV al concertone ‘boy-scout di Licio Gelli’; Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio TV; Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi ‘ad cognatum’; la giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa ‘di un porto aperto da Renzi’; lo chef Vissani per avermi definito ‘peggio di Hitler”; la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in TV; il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di Stato; Panorama, sulla vicenda Paita – alluvione di Genova; chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche”. E promette: “Ovviamente è solo l’inizio”, invitando i suoi sostenitori a mandare “ulteriori segnalazioni” che “saranno passate agli avvocati per l’apertura di cause di risarcimento civile. Vi terrò informati sul quantum e sulla destinazione dei risarcimenti”.
Matteo Renzi, la vignetta di Vauro che ridicolizza l'ex premier: la farsa sulle querele, scrive il 18 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Renzi querela tutti". "Querela pure sto c***", dice l'omino della vignetta. Risponde lo stesso "membro" maschile, che mette le mani avanti: "Zitto, che quello è capace di farlo per davvero". Così Vauro sul Fatto Quotidiano mette alla berlina l'ex premier che ha fatto nomi e cognomi di chi querela per le "infamie" subite. "Avevo promesso di iniziare a chiedere i danni per le infamie che ho ricevuto in questi anni. E vi avevo garantito che vi avrei tenuti informati". Lo scrive Matteo Renzi nella enews spiegando di aver predisposto "i primi dieci atti" che sono contro: "Piero Pelù per avermi definito in diretta TV al concertone boy-scout di Licio Gelli; Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio TV; Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi 'ad cognatum'". Ed ancora: "La giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa 'di un porto aperto da Renzi'; lo chef Vissani per avermi definito 'peggio di Hitler'; la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in TV; il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; Il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di stato; Panorama, sulla vicenda Paita – alluvione di Genova; chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche". "Ovviamente è solo l’inizio: qualsiasi vostra ulteriore segnalazione (matteo@matteorenzi.it) sarà passata agli avvocati per l’apertura di cause di risarcimento civile. Vi terrò informati sul quantum e sulla destinazione dei risarcimenti".
Eboli, capogruppo Pd arrestato per favoreggiamento immigrazione clandestina. Pasquale Infante, capogruppo Pd al Comune di Eboli, è stato arrestato associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e favoreggiamento dell’immigrazione clandestin nell'ambito di un'inchiesta sul caporalato, scrive Francesco Curridori, Martedì, 19/03/2019, su Il Giornale. Pasquale Infante, capogruppo Pd al Comune di Eboli, è stato arrestato associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell'ambito di un'inchiesta sul caporalato. Infante, secondo la Procura Antimafia di Salerno che conduce le indagini, guidava insieme al marocchino Hassan Amezgha, un'organizzazione “specializzata” nel traffico umano di braccianti agricoli dall’Africa alla Piana del Sele. L'esponente del Pd campano, si legge su Salernotoday, in quanto commercialista avrebbe avuto il compito di mettere in ordine le carte riguardanti lo sfruttamento dei migranti, opera nella quale sarebbe stata anche la sorella Maria Infante che lavora con lui nel suo studio di consulenza. Il gip ha concesso gli arresti domiciliari al piddino campano perché riteneva non vi fossero i presupposti per trattenerlo in carcere. Ora, spetterà a Infante difendersi al meglio da queste accuse onde evitare di 'infangare' il nuovo corso del Pd iniziato con la vittoria di Nicola Zingaretti a segretario del partito.
Nicola Zingaretti subito ko? "Indagato per finanziamento illecito", bomba sul segretario, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. A due giorni dalla proclamazione a segretario del Partito Democratico, fonti di Piazzale Clodio rivelano che Nicola Zingaretti è indagato per finanziamento illecito. Stando a quanto riferito dall’Espresso, il presidente della Regione Lazio nonché nuovo segretario del Pd avrebbe beneficiato di erogazioni per la sua attività politica dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, arrestato nel febbraio del 2018, in passato capo delle relazioni istituzionali dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone. Erogazioni, però, di cui i magistrati non hanno trovato traccia al punto che per Zingaretti potrebbe profilarsi presto una richiesta di archiviazione. Nonostante questo, in contemporanea con il comunicato del settimanale in cui si rilanciava l’articolo, dal Movimento 5 Stelle è arrivata una valanga di richieste - da parte di deputati, senatori e anche consiglieri regionali - in cui si ripeteva, in maniera quasi identica, la stessa formula, «è sempre il solito Pd», seguita dalla richiesta di lasciare l’incarico di leader del partito. La notizia dell’inchiesta arriva proprio nel momento in cui il Partito Demcoratico è dato in forte ripresa, al punto da aver superato - per i sondaggisti di Swg - il Movimento 5 Stelle: 21,1% per il Pd contro il 21 dei grillini. Il primo a dichiarare, nel fronte M5s, è il sottosegretario agli Affari Esteri, Manlio Di Stefano: «Questo sarebbe il nuovo che avanza? Il neo segretario del Pd, Nicola Zingaretti - se venisse confermato quanto riportato da L’Espresso - sarebbe indagato per finanziamento illecito», spiega l’esponente del governo Conte: «Cambiano i segretari, ma gli affari oscuri sembrano rimanere di casa nel Pd.
Saviano: "Le mie parole a processo mentre il ministro scappa". Ho definito il ministro dell'Interno "ministro della Mala Vita". Ribadisco pienamente la mia definizione, ne difendo la legittimità. Salvini, invece, ha deciso di sottrarsi al giudizio, scrive Roberto Saviano il 20 marzo 2019 su La Repubblica. Sì, confermo la notizia. Verrò processato. Verrò processato per aver definito il ministro dell'Interno "ministro della Mala Vita". Ribadisco pienamente la mia definizione, ne difendo la legittimità e vado con serenità e con certa fierezza a farmi processare. Io, cittadino come tanti, come tutti, sarò processato; il ministro, invece, ha deciso di sottrarsi al processo, seriamente e giustamente spaventato dal fatto che la sua condotta nel caso Diciotti possa farlo condannare. Ha usato lo schermo e il ricatto politico per ottenere l'appoggio del suo alleato di governo, quel M5S che doveva fare da argine ai movimenti xenofobi e che ha finito per essere la loro stampella al Governo. Questo processo che mi vedrà imputato, se non altro, costringerà Matteo Salvini a dire la verità o, quantomeno, a pronunciare sotto giuramento, dinanzi a uno spazio di verificabilità, le sue affermazioni, cosa che fino a oggi non è mai accaduta, trovandosi nel più agevole ambito della propaganda, dove ogni menzogna è manipolata, costruita, seminata sul terreno della bile, della frustrazione di un Paese disorientato da cui sta, per ora, e solo per ora, ricavando consenso. Sono pronto a essere processato per un reato di opinione, cosi potrò ribadire quanto grave sia la strategia che sta portando questa politica a far coincidere lo Stato con il Governo. Le divise continuamente indossate dal ministro, la querela che mi viene fatta su carta intestata - in modo che sia fatta dall'istituzione, dal ministero e non, quindi, da persona privata - mostrano che nella politica da Twitter, nella politica da 280 caratteri, spesso si smarriscono i confini. La strategia è la solita: permettere qualunque libertà d'espressione a chi non fa rumore, a chi si perde nel vociare ininfluente o generico e scegliere di punire e di perseguitare chi, invece, ha una voce che, per qualche ragione, si distingue e si diffonde con eco. E ancora, si preferisce punire per isolare, ed è un'evoluzione intelligente di quello che l'Italia ha già conosciuto nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, con cui fu introdotto il reato di offesa al Duce (e furono 5000 i condannati per questo reato in Italia). Molti, troppi. Ora, non risulti questo un accostamento forzato, perché non è un accostamento. È semplicemente un racconto di come furbescamente, da sempre, si tenda a far passare la critica, anche forte, al potere come diffamazione. Sia chiaro, il reato di diffamazione serve a tutelare chiunque si senta vittima di calunnie, Io stesso vi ho fatto ricorso quando mi sono sentito solo contro il potere dei Tg berlusconiani, contro politici come Maurizio Gasparri, che ha utilizzato la sua carica per evitare il processo. Salvini, lei è un ministro, ma sono fiero di poter testimoniare, con le mie idee, il disprezzo politico e umano che nutro verso di lei e verso il suo partito (storicamente compromesso da una lotta per anni razzistica nei confronti del Sud Italia), verso il suo basso populismo, termine che indica, va ribadito, l'ingannare il popolo mostrando che si sta invece agendo a suo vantaggio. Sono felice di poter esprimere tutto il mio disprezzo verso questa pantomima che avete ingaggiato di voi come popolo al governo che si oppone alle élite, di cui invece siete proprio voi l'espressione più scadente. Chiamate élite tutto ciò che vi critica, che vi sorprende negli errori, che scopre le vostre contraddizioni, e chiamate popolo tutto ciò che vi è supino, fedele alleato. Qual è l'automatismo che renderebbe voi gli unici interpreti del sentire del popolo? Che lo renderebbe esclusivamente rappresentato da questa parte politica? Ecco, è proprio qui che arriva la necessità della querela e l'obbligo che aveva di portarmi in tribunale: cercare di isolare le voci che dissentono, perché il popolo non deve avere un volto, deve dare solo applausi. Non deve dare neanche un consenso ragionato, ma deve dare like, qualcosa di istintuale. E qui c'è l'odio verso gli intellettuali e verso chi pensa, chi scrive, chi racconta, chiamati élite, o al servizio dell'élite, cosa per niente nuova e insolita. E anche in questo si sente una continuità. È da uno dei miei maestri, Gaetano Salvemini, che ho preso l'espressione ministro della Mala Vita, che lui usò per Giovanni Giolitti. Si figuri, ministro, che molti pensano che avrebbe dovuto sentirsi lusingato da questo accostamento, assolutamente improprio per mancanza di spessore, capacità, visione. Nulla di ciò che aveva Giolitti somiglia a ciò che di sé manifesta il nostro ministro dell'Interno. Questo processo dal quale, a differenza di lei, non mi sottrarrei nemmeno se potessi, lo affronterò non solo in difesa di me stesso ma anche di donne e uomini liberi che ragionano, che agiscono, che si battono e che prendono parte. L'odio verso gli intellettuali è da sempre giustificato allo stesso modo, ministro. Gli intellettuali fanno pensare, danno elementi, possono esistere al di là del consenso, mentre un politico senza consenso non ha voti e cade. Gli intellettuali non devono dare dimissioni e, anche se sottoposti a una campagna di delegittimazione e di repressione infinita, l'unico tribunale a cui devono rispondere è quello della loro coscienza e della qualità delle loro opere. Fine. Fanno paura per questo, da sempre e in molte parti di questo mondo, soprattutto quando si allontanano dai territori accademici, quando diventano incontrollabili, quando accade che la loro riflessione diventi dibattito diffuso. Ecco, lì l'intellettuale va fermato, delegittimato, accusato, processato. "Rendere la vita difficile al Gobetti", fu quello che Mussolini telegrafò al prefetto di Torino. Uno dei più grandi intellettuali che la Cina abbia mai avuto, Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace, è stato condannato al lavoro forzato in un laogai. Quindi sono fortunato, perché riesco ancora a scrivere, a guadagnare con il mio lavoro e a pagare i miei avvocati. Nell'incedere che si crede nuovo perché violento, perché nel gesto di ribaltare la tavola c'è una sua bellezza definitiva, quanto è facile poter sintetizzare in una frase la propria rabbia. È stata sempre la fortuna dei totalitarismi, della demagogia, poter in poche parole interpretare un mondo così complesso. E così, pensate di essere nuovi quando definite gli scrittori élite, quando stigmatizzate il sistema delle banche oppure quando date a Soros ogni sorta di responsabilità perché ebreo, perché finanziere. È tutto molto semplice, è tutto molto vecchio, è già successo, già si è visto negli anni '20. Non c'è nulla di nuovo. L'immigrato considerato il male, l'invasore, lo stupratore, colui che porta via il lavoro è una storia che gli italiani lo hanno già subito, come i polacchi, gli irlandesi, i cinesi. Gli ebrei che "strozzano" la vita degli Stati perché sono l'anima oscura nascosta nelle banche, lo spirito finanziario dei massoni. Frasi che si ripetono, concetti che rimbalzano da più di un secolo ormai. Vecchie storie che servono a rendere semplice, scontato il mondo e che permettono quindi anche a una figura mediocre, come quella del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, di poter sembrare un disvelatore di verità. Io vengo mostrato come bersaglio chiaro da colpire, rappresento tutti coloro che hanno con severità e con decisione criticato la politica di questo governo e l'attività di questo ministro. Sento già che sarà una battaglia molto solitaria, come molte fatte in questi anni. Siamo stati in grado (parlo per parte democratica) di essere disuniti, isolati, di credere che la fragilità di chi ci era più vicino potesse aumentare la nostra solidità. Nulla di più stupido. Abbiamo soltanto rafforzato chi da tempo sta sistematicamente compromettendo le conquiste democratiche per un vivere civile e tutto questo gli è permesso perché chi c'è stato prima non ha di un solo passo riformato il Paese. Ma mi fermo. Mi fermo, certo che questo processo sarà un punto di non ritorno per il ministro Salvini. In quell'aula dove ovviamente verrò processato nei tempi infiniti che la giustizia italiana come sempre ha, senza che alcun governante riesca a porci rimedio, sono certo che qualunque sarà l'esito, per quanto mi riguarda, avrò la certezza di aver preferito quotidianamente combattere contro le menzogne e le manipolazioni di questo ministro, che aver invece cercato, in maniera imbelle, il suo favore e la sua indifferenza, per continuare una vita tranquilla e una carriera senza inciampi. Matteo Salvini, mentre lei scappa codardamente dal processo sul caso Diciotti, ci vedremo al processo nel quale sarò io l'imputato, ma le assicuro che non mi intimidisce e le prometto che con la parola - l'unico mezzo a mia disposizione - non darò tregua alle sue continue bugie.
"Buffone", "Ti querelo": scontro tra Saviano e Salvini. L'autore di Gomorra di fatto ha subito puntato il dito contro Salvini per il "no" allo sbarco dei migranti dalla Mare Jonio, scrive Angelo Scarano, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. Ancora scontro tra Roberto Saviano e il ministro degli Interni, Matteo Salvini. L'autore di Gomorra di fatto ha subito puntato il dito contro il titolare del Viminale che ha chiuso i porti dopo l'arrivo della Nave Jonio a largo di Lampedusa: "Alla vigilia del voto in Senato sul caso #Diciotti, che salverà il Ministro della Mala Vita dal rischio concreto di finire in carcere, assistiamo al suo ennesimo atto da buffone sulla pelle dei migranti. Grazie Mediterranea Saving Humans per aver salvato 49 persone dal mare e dalle prigioni libiche". Parole durissime quelle dello scrittore che hanno immediatamente riaperto lo scontro con il ministro degli Interni. Salvini ha risposto per le rime: "Noi lavoriamo per gli italiani, lui insulta dandomi del Ministro della Mala Vita e del buffone. Che dite, oltre al bacione gli regaliamo anche una bella querela???", ha scritto su Twitter il ministro degli Interni. Insomma di fatto tra Saviano e il ministro a colpi di botta e risposta si riapre il fronte del dibattito sui migranti. Le scintille tra i due che sono destinate a durare ancora a lungo...
Salvini contro Saviano: “Querela per avermi dato del buffone”. Saviano parla di Salvini come del "Ministro della Malavita" sui social e il Ministro risponde minacciandolo di querela, scrive Giampiero Casoni su cisiamo.info il 20 Marzo 2019. Denuncia nell’aria per Roberto Saviano, a firmarla Matteo Salvini che non ha gradito le ultime considerazioni dello scrittore per cui il ministro dell’Interno, in un post sulla vicenda Ong “Mare Jonio”, aveva definito il titolare del Viminale un “buffone”. “Alla vigilia del voto in Senato sul caso Diciotti che salverà il Ministro della Mala Vita dal rischio concreto di finire in carcere– questo il testo integrale del post – assistiamo all’ennesimo atto da buffone sulla pelle dei migranti. Grazie per aver salvato 49 persone dal mare e dalle prigioni libiche”.
La replica di Salvini. Salvini è parimenti tipo che, sui social non le manda a dire (come l’universo mondo, ormai) e ha replicato a stretto giro di posta sempre on line: “Noi lavoriamo per gli Italiani, lui insulta dandomi del Ministro della Mala Vita e del buffone. Che dite, oltre al bacione gli regaliamo anche una bella querela?”.
Insomma, sul web i due ormai si picchiano come fabbri da tempo e Salvini non rinuncia mai alla strategia di comunicazione in cui l’interrogativo sembra suggellare il patto corale per cui le decisioni lui le prende assieme alle “sua” gente interpellandola. Lo scrittore napoletano dal canto suo non rinuncia mai alle sue formule simbologiche censorie e ormai la faccenda fra i due pare roba da Ok Corral ma in una strada fatta di pixel.
La precedente querela. Già un anno fa le avvisaglie della lotta a colpi di carte bollate e “invio” fra i due: Salvini non gradì il conio dell’espressione, reiterata sul posto di ieri di “Ministro della Malavita” e, impugnando anche la lettura per cui Saviano attribuiva al Ministro intenzioni vendicative nel togliergli la scorta, lo aveva querelato per diffamazione su carta intestata del Viminale, e con gran spolvero mediatico. Ora la nuova minaccia sempre con la questione migranti a fare da sugo concettuale, in un gioco che pare segnato dal filo guida di tappe cicliche e fisse: arriva una nave, Salvini interviene, Saviano lo asfalta, la gente si schiera e Salvini vince come solo i capipopolo bravi sanno vincere nei confronti dei letterati malpancisti. Tutto uguale, tutto fino alla prossima nave.
Quelle strane coincidenze che fanno ancora incrociare giustizia e politica…Con la vicenda del “processo” a Salvini torna a galla la patologia del nostro sistema. Un “male” che risale a prima di Tangentopoli e Mani pulite, scrive Francesco Damato il 12 Marzo 2019 su Il Dubbio. Per carità, non parliamo di orologi e orologiai. E neppure di calendari, e di chi si annota tutte le scadenze utili a fare gli auguri, o a rovinare la festa di turno. Anche questa volta le coincidenze sono state casuali, o incidentali. Ma, appunto, anche questa volta i passaggi politici si sono sovrapposti, o sono stati sottoposti, come preferite, a passaggi giudiziari, o paragiudiziari. In quest’ultimo modo possono essere chiamati quelli in cui i politici agiscono e decidono come magistrati per competenze loro conferite dalla Costituzione, e non ancora soppresse da chi forse non vedrebbe l’ora di farlo se disponesse in Parlamento dei numeri necessari allo scopo. Il conflitto latente, a dir poco, sin dalla nascita del governo gialloverde sul progetto della linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci da Lione a Torino è alla fine esploso, con la “minaccia di crisi” contestata dallo “sbigottito” vice presidente grillino del Consiglio al suo omologo leghista Matteo Salvini, nelle stesse ore della diffusione della notizia di indagini su Silvio Berlusconi per presunta corruzione in atti giudiziari. Che cosa c’entrasse Berlusconi nei venti di crisi soffiati per un po’ sul governo gialloverde, sino alla sopraggiunta soluzione dilatoria dei bandi a lungo corso per gli appalti, lo avevano spiegato gli stessi grillini, volenti o nolenti, quando avevano contestato la posizione di Salvini a favore della Tav sfidandolo a “tornare” dal Cavaliere. Che Di Maio in persona aveva rappresentato, secondo i giorni o le ore dei suoi incubi, come il ministro degli Esteri, o dell’Economia, o della Giustizia di un governo di centrodestra, forse già prima e senza elezioni anticipate, presieduto da un Salvini tornato appunto all’ovile. In verità, c’era già un’ampia letteratura retroscenista che dava Salvini contrario o quanto meno refrattario all’idea di rimettersi a livello nazionale con Berlusconi, relegato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso ad alleato locale, o periferico. Ma evidentemente essa non era bastata a rasserenare Di Maio e a risparmiargli nelle riunioni con i compagni di partito inquieti, o addirittura smaniosi di rompere con Salvini, la rivendicazione del ruolo di “argine” attribuitosi rispetto al fantasma di un Cavaliere addirittura guardasigilli, con tutti i problemi, vecchi e nuovi, che costui ha con la giustizia. Secondo Michele Serra, sulla Repubblica, Berlusconi sarebbe un uomo ormai chiaramente "al tramonto", tanto che sarebbe praticamente caduta nel nulla la notizia sulle sue presunte manovre per strappare al Consiglio di Stato tre anni fa una sentenza a favore di una consistente partecipazione a Mediolanum, contestatagli invece dalla Banca d’Italia perché condannato per frode fiscale. Troppo ingenuo, direi, il buon Serra. Era invece bastato e avanzato che la notizia delle indagini su Berlusconi per la sentenza del Consiglio di Stato comparisse sulle agenzie, sulle prime pagine dei giornali e nei titoli di testa dei telegiornali perché le cronache politiche sulla Tav e sull’avvicinamento alla crisi di governo si tingessero ulteriormente di giallo. E si moltiplicassero dietro l’angolo o nel "buco" della montagna tanto contestato in Val di Susa sospetti, congetture e quant’altro sul minore o maggiore potere contrattuale derivante a Salvini nella partita con Di Maio, e viceversa, dalla nuova o rinnovata vicenda giudiziaria del Cavaliere. E si facessero spallucce alla convinzione espressa, magari a ragione, dai difensori di Berlusconi sull’esito delle indagini scontato a favore del loro assistito, tornato intanto alla piena agibilità politica tanto temuta dal vice presidente grillino del Consiglio guardando ben oltre la candidatura del presidente di Forza Italia al Parlamento Europeo nelle elezioni di fine maggio. D’altronde, è appena fresco di stampa l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Serain cui si immaginano elezioni anticipate, all’esaurimento della ennesima tregua, destinate a produrre “un quadro movimentato dalla ritrovata libertà d’azione dei 5 stelle nuovamente partito di lotta, da una sinistra che ha ritrovato la baldanza e da qualche inchiesta giudiziaria” capace di disturbare il centrodestra a trazione leghista destinato a uscire vincente dalle urne. Così “il nuovo quadro – ha scritto il nient’affatto sprovveduto Mieli a fatica potrebbe presentarsi come più stabile di quello attuale”. Nel culmine delle polemiche sulla “testa dura” rivendicata da Salvini contestando anche i ‘ forti dubbi e perplessità’ espressi pubblicamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla “convenienza” della Tav, o della sua versione maschile, Di Maio non aveva soltanto commesso la gaffe istituzionale di anteporsi al capo del governo – “Io e Conte” per definire minoritaria la posizione dello scomodo e cocciuto ministro dell’Interno. Egli aveva anche ricordato a quest’ultimo – casualmente, per carità, in attesa del voto del 20 marzo nell’aula del Senato sulla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di processarlo per la vicenda della nave “Diciotti”, con l’accusa di sequestro aggravato di oltre 170 immigrati, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora- che “avremo problemi in futuro” insistendo a reclamare la Tav. “Problemi in futuro”, ripeto. Un no al processo a Salvini per l’affare "Diciotti" è stato già espresso dalla competente giunta del Senato, presieduta dal forzista Maurizio Gasparri, col concorso dei componenti grillini dopo una consultazione digitale dei militanti del movimento delle cinque stelle. Ma non è per niente scontata, nelle nuove condizioni politiche createsi con gli sviluppi delle polemiche sulla Tav, neppure dopo la frenata sulla crisi compiuta ricorrendo all’espediente degli appalti con la clausola della dissolvenza incorporata, un’automatica ripetizione del voto e/ o degli schieramenti della giunta nell’assemblea di Palazzo Madama. Dove è richiesta la maggioranza assoluta, i numeri della coalizione gialloverde, già striminziti alla partenza del governo, si sono ulteriormente ridotti con alcune espulsioni di dissidenti dal gruppo pentastellato e permangono resistenze, sempre fra i grillini, alla linea contro il processo a Salvini espressa a pur larga maggioranza – 59 per cento contro 41- dalle tastiere dei computer collegati con la “piattaforma Rousseau” di Davide Casaleggio. Certo, Salvini potrà contare, sul piano personale come senatore e sul piano politico come leader leghista, anche sui voti dei gruppi che rappresentano in Parlamento i partiti di Berlusconi e di Giorgia Meloni, forse più che sufficienti a colmare i dissensi grillini combinati con l’opposizione targata Pd. Che è pregiudizialmente schierata in tutte le sue anime o correnti con la richiesta della magistratura di turno. Pregiudizialmente, perché persino l’ex segretario del partito Matteo Salvini, il senatore di Scandicci che voleva una volta ripristinare il primato della politica sulla magistratura, ha avuto questo approccio dichiarato pubblicamente con la pratica Salvini: “Mi riservo di leggere bene le carte per votare sì al processo”. O, come imporranno le procedure, no alla proposta della giunta di rifiutare l’autorizzazione ai giudici di Catania. Naturalmente nel caso di un no del Senato al processo a Salvini condizionato dai voti forzisti o, più in generale, di un centrodestra pienamente riesumato, avremmo un rovesciamento della maggioranza di governo, con tutte le conseguenze prevedibili, o magari senza conseguenze, come potrebbe anche accadere in una situazione politica così anomala e imprevedibile quale è diventata da tempo quella italiana. Ma ciò avverrebbe – questo è il punto accennato all’inizio di queste riflessioni- all’incrocio fra iniziative politiche e giudiziarie, o paragiudiziarie, com’è l’intervento del Senato attivato costituzionalmente dall’azione della magistratura. Se questa non è una patologia ormai del sistema, risalente a molti anni fa, persino a prima dello spartiacque comunemente considerato di Tangentopoli, o "Mani pulite", ditemi voi come si debba o possa definire.
La sinistra non perde il vizietto antico degli attacchi ad personam: ieri Berlusconi, oggi Matteo Salvini. È l’immancabile delegittimazione morale dell’avversario. E questo resta il tarlo del peggior moralismo e dell’arroganza culturale. Oggi tocca subire al vicepremier, scrive Giorgio Merlo il 13 Marzo 2019 su Il Dubbio. C’è poco da fare. Il vecchio detto che “il lupo perde il pelo ma non il vizio” è sempre attuale e dietro l’angolo. Ce lo hanno ricordato alcuni commentatori politici a proposito della strategia del segretario del Pd, Zingaretti. Un partito che, dopo aver predicato, praticato e condotto un feroce antiberlusconismo per svariati lustri – condotto prevalentemente dalla sinistra con il relativo cambiamento delle sigle dei partiti nel corso degli anni – adesso ha individuato il suo nemico mortale nel segretario della Lega e vice Premier Matteo Salvini. Ogni giorno assistiamo, infatti, ad una serie infinita di stilettate polemiche e personali contro il “salvinismo” e il suo leader, accusati di incarnare tutto il male possibile della politica contemporanea. È il solito, e ben noto e collaudato, vizio della sinistra e di tutto il caravanserraglio che la accompagna. Ovvero, accanto al seppur e scontato attacco politico, l’immancabile delegittimazione morale dell’avversario. E questo resta il tarlo del peggior moralismo e dell’arroganza culturale che da sempre animano gli esponenti che storicamente provengono dalla filiera del Pci/Pds/Ds ma che, purtroppo, ha avuto una deriva pericolosa e scivolosa negli ultimi tempi. Un comportamento che conosciamo da tempo, per non dire da sempre appunto. È appena sufficiente ricordare gli attacchi violenti, smisurati e senza remore che venivano scagliati dai principali dirigenti del Pci contro alcuni statisti democristiani. Per esperienza diretta, ne ricordo uno su tutti: Carlo Donat- Cattin, di cui in questi giorni si svolgerà la commemorazione in Parlamento. E non per le vicende drammatiche che dovette subire nei primi anni ‘ 80 ma anche, e soprattutto, come ministro della Sanità per le sue concrete scelte politiche. Tuttavia, per tornare all’attualità, con l’attacco a testa bassa, smisurato e violento, contro Salvini e il salvinismo come interpreti del male assoluto della politica italiana, si rischia di produrre lo stesso effetto che ebbe la crociata contro Berlusconi condotta a partire dall’inizio degli anni ’ 90 per oltre 20 anni. Con altri argomenti, com’è ovvio, ma con lo stile immutato nella sostanza. E quindi, con un misto di attacco politico, delegittimazione morale e critica personale. Il tutto condito con le ormai note accuse sul “ritorno del fascismo”, la “regressione autoritaria”, la “minaccia eversiva” e stupidaggini varie. Infine, e per arrivare al vero punto politico – e condivido, al riguardo, l’esortazione dell’ex direttore della Stampa Marcello Sorgi – forse sarebbe opportuno che il nuovo segretario del Pd Zingaretti, anche se è un interprete coerente ed ufficiale della cultura e della prassi comunista, invertisse un po’ la rotta. E cioè, prima di lanciarsi nei soliti slogan e negli ormai consueti attacchi politici, morali e personali contro l’avversario da distruggere, si soffermasse un po’ di più sul progetto politico che intende declinare dopo il disastro e la voragine in cui è precipitata la sinistra in questi ultimi tempi. Perché non saranno più sufficienti gli altrettanto noti e conosciuti “appelli” dei testimonial progressisti. Tra l’altro, sempre tutti milionari, elitari, aristocratici e alto borghesi. No, deve ritornare protagonista la politica perché una credibile e seria alternativa politica e di governo al centro destra non passa più solo e soltanto attraverso l’attacco personale, la delegittimazione morale e la violenza verbale della polemica politica contro l’avversario prescelto. Adesso serve di più. Anche per un bravo professionista della politica come Zingaretti.
Nicola Zingaretti, rispunta l'audio durante il processo Mafia Capitale: "Ho preso contributi da Buzzi", scrive il 9 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il nome del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, torna a circolare sui social associato al processo Mafia Capitale dopo il trionfo alle primarie del Pd che lo hanno eletto nuovo segretario. Nel corso del processo in cui era imputato Salvatore Buzzi, Zingaretti aveva ammesso: "Da lui ebbi un finanziamento di 5mila euro durante la campagna elettorale per le Regionali del 2013. La raccolta era aperta a tanti e raggiunse quasi un milione di euro. È tutto regolarmente documentato agli atti". Sui social le parole di Zingaretti tornano a risuonare, aggiungendo nuovi dettagli sul passato del segretario dem, finora poco noto agli elettori fuori dalla sua regione. "Conoscevo Buzzi - aveva detto in aula Zingaretti - era il promotore di una forma imprenditoriale che si era presentata a Roma come esperienza di riscatto di ex detenuti attiva nel settore sociale. L'ho incontrato più volte in occasioni pubbliche, anche se, nella mia esperienza di presidente della Provincia prima e della Regione poi, non sono mai stato alla guida dell'amministrazione con cui lavorava di più, ovvero il Comune".
Quell'audio su Mafia Capitale che ora imbarazza Zingaretti. Sul neo segretario del Pd pende un'accusa di falsa testimonianza per le dichiarazioni in Aula su Buzzi, scrive Felice Manti, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Il fantasma di Mafia Capitale sta turbando il sonno del nuovo segretario del Pd. Nicola Zingaretti aspetta con ansia la decisione del gip del tribunale di Roma che deve decidere se archiviare o meno l'inchiesta che vede l'ex presidente della Provincia e governatore del Lazio accusato di aver reso falsa testimonianza al processo che ha condannato l'ex Nar Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, ras delle coop rosse che faceva affari sull'immigrazione e finanziatore ufficiale del Pd e dello stesso Zingaretti. Finora il successore di Matteo Renzi l'ha fatta franca: è stato accusato di corruzione per una mazzetta a un collaboratore che sarebbe servita a finanziare la sua campagna elettorale da presidente della Provincia di Roma e per la compravendita di una sede della stessa Provincia. Poi è stato sfiorato dall'indagine sulla turbativa d'asta con al centro una storiaccia legata alla gestione della gara per il servizio Cup bandita nel 2014 dalla Regione Lazio. I tre filoni d'indagine sono finiti nel nulla con la richiesta di archiviazione avanzata il 5 ottobre 2016 dalla procura e accolta dal gip Flavia Costantini il 7 febbraio 2017. Zingaretti era stato chiamato in causa da Buzzi negli interrogatori resi ai pm. Ma per la Procura quelle accuse de relato non erano sufficienti per costruire un'ipotesi accusatoria. Ad accusare Zingaretti di falsa testimonianza erano stati gli stessi giudici della decima sezione penale del tribunale che avevano condannato Buzzi e Carminati. Secondo le toghe i pm avrebbero dovuto verificare se Zingaretti e un'altra ventina di testimoni sfilati nell'aula bunker di Rebibbia avessero reso in udienza dichiarazioni false o reticenti su alcune circostanze. In effetti ad ascoltare alcuni stralci della sua deposizione, in cui Zingaretti viene interrogato dagli avvocati di Buzzi come teste in favore della difesa del ras delle coop rosse si capisce perché i giudici l'hanno giudicata reticente. Al tempo se ne era accorto anche Alessandro Di Battista che aveva rilanciato il file audio sul Blog delle stelle, ricomparso magicamente in questi giorni su alcune pagine Facebook vicine a M5s. Nel file audio che dura 6 minuti circa si sente Zingaretti ammettere di aver ricevuto finanziamenti da Buzzi, parla di un editore «amico» a cui la Provincia ha dato diverse migliaia di euro e della famigerata gara per il bando del Cup, vinta da un imprenditore che guarda caso aveva finanziato lo stesso Zingaretti. Le risposte incerte avevano convinto i giudici che qualcosa non tornasse in quella deposizione: a proposito di Zingaretti, il tribunale - stando alle motivazioni - scrive che «ha reso testimonianza (richiesta dalla difesa di Buzzi) escludendo radicalmente e con indignazione qualunque contatto con chiunque per la gara Cup, di cui si sarebbe occupato solo a livello di indirizzo politico nella fase della programmazione. E tuttavia tali dichiarazioni non risultano convincenti». Ora la palla passa al gip. Insieme al leader Pd sono finiti diversi esponenti di peso del Pd come la responsabile nazionale del Pd al Welfare e Terzo Settore Micaela Campana e l'ex viceministro all'Interno Filippo Bubbico. Su di loro si decide il 18 marzo.
L'archiviazione-lampo che salvò Zingaretti dai guai di Mafia capitale. Dopo l'audio, tornano a far discutere le accuse del ras delle coop Buzzi sui finanziamenti, scrive Felice Manti, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. Accuse de relato, senza riscontri oggettivi. Così i pm della Procura di Roma avevano motivato l'archiviazione della posizione di Nicola Zingaretti nella storiaccia sulla gara per il Centro prenotazioni unico del Lazio del 2014. È ai pm Paolo Ielo e Michele Prestipino che Salvatore Buzzi, re della coop rossa al centro dell'inchiesta Mafia Capitale per cui è stato condannato insieme all'ex Nar Maurizio Carminati, vuota il sacco in carcere. Rivelando l'indicibile accordo tra la e la sinistra Pd e l'opposizione - rappresentata dall'ex consigliere comunale Luca Gramazio, figlio di Domenico - per la spartizione del numero unico della sanità romana. Circostanza a cui i pm credono, tanto è vero che nel tritacarne finisce Maurizio Venafro, braccio destro di Zingaretti e suo capo di gabinetto quando l'attuale segretario Pd era presidente della Provincia di Roma. Gramazio per lungo tempo è rimasto l'unico politico di Mafia Capitale in cella anche prima della condanna. Da tutta la vicenda Venafro è uscito libero, ma con le ossa rotte. Ma secondo Buzzi era solo un tramite. Così dice ai magistrati: «Gramazio va da Zingaretti e gli dice: L'opposizione sono io e Zingaretti lo rassicura: Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro, ci penso io con Venafro. Da quel momento in poi si parla solo con Venafro. Che gli dice: Mi ha trasmesso la cosa il presidente, quindi stai tranquillo uno (lotto, ndr) è il tuo. Quale vuoi?. E noi gli diciamo: Vogliamo il 4, invece poi ci danno il 3, insomma uno dei due più piccolini», come rivela Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera. Circostanze su cui, secondo il legale di Buzzi Alessandro Diddi, forse non si è ancora indagato abbastanza. Sta di fatto che Venafro e Gramazio passano sotto le forche caudine del processo, invece le accuse contro Zingaretti non sembrano sufficientemente documentate tanto da andare avanti. Eppure si parla anche di soldi. Soldi che sempre secondo il creatore della coop «29 giugno» sarebbero transitati da Peppe Cionci, che per Buzzi è «l'uomo di Zingaretti». Zingaretti ammetterà a processo di aver preso soldi da Buzzi «in chiaro» ma le accuse valgono una querela di Venafro e dello stesso Cionci. È lui che secondo Buzzi «tiene le cose economiche di Zingaretti, perché se uno deve fare una campagna elettorale e se deve dare i soldi al comitato di Zingaretti si rivolge a Cionci. È un uomo abbastanza conosciuto a Roma». «Per i finanziamenti per Zingaretti?», chiede il pm Ielo. «Esatto», risponde Buzzi, che con la memoria torna al 2008, quando «Zingaretti vince le elezioni provinciali e Luca Odevaine viene nominato capo della polizia provinciale». E chi è Luca Odevaine? Un altro componente del cerchio magico vicino a Zingaretti. Anche lui è una vecchia conoscenza della politica romana che grazie alla sinistra era riuscito a scalare i vertici del Viminale, fino a entrare nel Tavolo tecnico sull'immigrazione. Già vicinissimo a Walter Veltroni, secondo i giudici che l'hanno condannato per corruzione a 6 anni e 6 mesi (la Procura si sarebbe accontentata di 2 anni e mezzo) perché in cambio di mazzette avrebbe favorito Buzzi e il Mondo di mezzo attraverso la rivelazione di informazioni riservate e la decisione di dirottare i flussi dei migranti che sbarcavano a migliaia nelle coste italiane verso le coop vicine a Mafia Capitale ma anche al Cara di Mineo, centro di accoglienza recentemente sgomberato dal Viminale. Di Odevaine Buzzi parla in merito a una vicenda, anche in questo caso appresa de relato, in cui si ipotizza che la sede della Provincia di Roma fu comprata da Parnasi. L'imprenditore che oggi è finito nei guai per lo stadio di Roma e i rapporti con Campidoglio, Lega, M5s e guarda caso il Pd. Ma non ditelo a Zingaretti.
Giorgia Meloni, colpo mortale a Saviano: "Tu condannato...". Ego massacrato, scrive il 2 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "A Propaganda live Saviano si vanta di essere stato invitato da me ad Atreju. Confermo". Giorgia Meloni commenta le parole dello scrittore su La7, che ha raccontato contatti passati con il leader di Fratelli d'Italia. "Anni fa lo invitai, come ho invitato molte persone delle quali non condivido le idee, da Boldrini a Fico. Lo feci quando pensavo che Gomorra fosse farina del suo sacco (e quando Saviano non ci faceva continuamente la morale su temi dei quali non capisce nulla)". Poi la Meloni sfodera il colpo mortale: "Poi ho scoperto che era stato condannato in via definitiva per plagio a risarcire i giornalisti dai quali aveva copiato degli articoli e quest'anno ho invitato loro". Colpito e affondato?
“Diffamò un imprenditore senza pubblicare la rettifica”, condannato Roberto Saviano, scrive lunedì 13 agosto 2018 Secolo d’Italia. Roberto Saviano è stato condannato (insieme con la casa editrice Mondadori) per non aver rettificato il passaggio del libro Gomorra in cui si legge che Vincenzo Boccolato, in realtà imprenditore incensurato che vive all’estero, fa parte di un clan camorristico con un ruolo apicale in un traffico di cocaina. Lo scrittore e la casa editrice ono stati condannati a versare in solido 15 mila euro allo stesso imprenditore diffamato e già risarcito con 30 mila euro quattro anni fa per via di una sentenza diventata definitiva. Saviano dovrà anche pagare le spese processuali, come si evince dall’ordinanza. Lo rendono noto gli avvocati Alessandro Santoro, Sandra Salvigni e Daniela Mirabile, legali di Boccolato, precisando che il provvedimento, depositato una settimana fa, è stato firmato dal giudice della prima sezione civile di Milano Angelo Claudio Ricciardi.
Saviano condannato per un passaggio del libro “Gomorra”. L’aspetto clamoroso della vicenda è che Saviano e la casa editrice di Segrate non hanno deliberatamente adempiuto alla prima sentenza. Nonostante la precedente condanna hanno infatti ritenuto di continuare a ristampare la stessa edizione, dal 28 novembre 2013, data della sentenza di primo grado, al gennaio 2016, senza depurarla delle espressioni diffamatorie. Per il giudice le riedizioni del best seller, con il passaggio “incriminato”, sono da ritenere un «nuovo illecito diffamatorio» con «caratteristiche del tutto analoghe a quelle già accertate in sede civile» non essendo stato «tempestivamente provveduto all’adozione delle necessarie precauzioni a tutela della reputazione del Boccolato». Precauzioni che andavano individuate tra due opzioni: o eliminare le affermazioni ritenute “dannose” sotto il profilo patrimoniale e non patrimoniale per l’imprenditore oppure aggiungere una postilla per informare i lettori della sentenza di condanna di qualche anno fa. Ma nessuna delle due opzioni è stata presa in considerazione da Saviano. Lo scrittore che, solitamente interviene tempestivamente su ogni tema di attualità, ancora non ha commentato la sentenza né sui giornali né tantomeno sui Social.
· Il Marco Travaglio manettaro.
Dagospia il 27 novembre 2019. Marco Travaglio, la cena con Giuseppe Conte, il suo rapporto coi social, la timidezza e quel Cristiano Ronaldo come vicino di casa. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il direttore del Fatto Quotidiano si è raccontato in una lunga intervista, nella quale ha risposto a domande di ogni tipo, a partire dalla colazione mattutina per finire col suo 'astio' per i piumoni da letto. Con cosa ama fare colazione Marco Travaglio? “Con caffé e le Camille, dei biscotti”. Quanti caffé prende al giorno? “Tre al giorno, colazione, pranzo e cena. E a cena amo bere anche Coca Cola”. In questo periodo lei ama dormire col piumone o ancora con la copertina? “Il piumone non lo utilizzo mai, mi fa schifo. Uso sempre lenzuolo e coperta”. Da' l'impressione di esser molto duro e determinato. E'mai stato un po' timido? “Si, sono timido e lo sono sempre stato. Per esempio quando parlo con una persona lo guardo negli occhi per un attimo e poi, senza accorgermene, mi cala lo sguardo altrove”. In un duello tv con Renzi, il leader di Italia Viva, la 'accusò' proprio di questo. “No, in quel caso guardavo solo dall'altra parte. Ma non era un segno di timidezza: mi dava solo fastidio la sua faccia...” Che rapporto ha con i social network? La sua pagina Facebook ha oltre un milione di fan. “Sono 'asocial' perché non ho tempo. Ringrazio chi mi segue ma la mia pagina è gestita dai social media manager del nostro giornale, che pubblicano le iniziative del Fatto e gli articoli più importanti”. Quindi non si occupa direttamente dei suoi riferimenti social. “Non ho nemmeno la password: se devo mettere un post su Fb dico a chi se ne occupa che gli manderò il contenuto via mail o via messaggio. Ogni tanto guardo i commenti pubblici alla mia pagina e sono commenti che contengono per la maggior parte insulti. Oggi i social network danno spago a questi disadattati che non sanno cosa fare durante la giornata”. Travaglio è ancora un grande tifoso della Juventus? “Si, ma ho perso interesse per il calcio. Però vivo nella stessa strada di Cristiano Ronaldo. Ogni tanto vedo passare i van con i vetri oscurati e immagino che sia lui, dal momento che l’FBI non ha motivo di frequentare il mio quartiere”. Infine ci dica: com'è andata, davvero, la cena col premier Giuseppe Conte in provincia di Viterbo? “Non siamo stati a cena di recente nel senso che abbiamo organizzati una cena, è successa una cosa curiosa”. Quale? “Io avevo il mio spettacolo a Viterbo, due sabati fa. Ma pioveva talmente tanto, anche dentro al teatro, che abbiamo deciso di annullarlo. Ad un certo punto chiama Conte che dice: 'mi state tirando un pacco, io sto arrivando con la mia famiglia per vedere lo spettacolo'. I biglietti se li era comprati su internet, aveva l'ultima fila”. E cosa è successo poi? “Dato che Conte era già arrivato a Viterbo, con suo figlio, la sua compagna e sua sorella, è venuto a cena con me e con tutto lo staff del mio spettacolo. Ecco qual è stata la famosa cena nella quale qualcuno ha voluto vedere che siamo andati a nasconderci nel viterbese. Peccato che c'erano 200 persone, c'era una 'processione' di persone che andavano a farsi i selfie con lui, altro che cena segreta”, ha chiosato Travaglio a Un Giorno da Pecora. “Bruno Vespa? Non mi ha mai invitato, ho questo primato. Avrà fatto 80mila puntate di Porta a Porta ma non ci sono mai stato. Mi leva dall'imbarazzo di dirgli di no quindi sono felice...” A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano. “E poi ho un altro record: non sono mai stato a Mediaset”. Non l'hanno mai invitata? “Forse c'è una lista di giornalisti che non possono esser invitati a Mediaset formata da un solo nome: il mio”, ha ironizzato Travaglio a Un Giorno da Pecora. Vauro ha detto in un'intervista che lei talvolta non pubblica le sue vignette, o le pubblica nelle ultime pagine dei giornali. Avete litigato? “No. Capita così anche agli articoli: alcuni vanno in prima pagina, altri dentro, alcuni non li pubblichiamo. I giornali mica sono delle buche delle lettere”.
Bruno Vespa replica a Marco Travaglio: "Dice che non lo invito? Lui abita a casa di Lilli Gruber..." Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Botta e risposta tra Marco Travaglio e Bruno Vespa a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Ieri - mercoledì 28 novembre - il direttore del Fatto Quotidiano aveva spiegato di non esser mai stato invitato a partecipare a Porta a Porta. Oggi, intervenuto nel corso del programma condotto da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, non si è fatta attendere la risposta di Vespa: “Non ha mai messo piede nello studio ma ha partecipato a Porta a Porta in collegamento, il 4 dicembre 2016, forse non ha resistito alla tentazione di festeggiare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum. Per noi da allora il 4 dicembre è un giorno indimenticabile, ogni anno in quella data celebriamo il Travaglio Day, ci riuniamo in raccoglimento come fossimo degli apostoli quando il Signore li lasciò e ricomparve sotto mentite spoglie...”. Insomma, una presa in giro perfida. Tra poco sarà di nuovo il 4 dicembre: potrebbe invitare nuovamente il direttore del Fatto Quotidiano. “Ma lui abita a casa di Lilli Gruber, è difficile cambi casa...”, conclude Bruno.
Marco Travaglio, la replica acida a Bruno Vespa: "Io non sono andato a Porta a Porta, ma..." Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. Ultimo atto della querelle tra Marco Travaglio e Bruno Vespa. Il primo lamentava di non essere mai stato invitato a Porta a Porta, il secondo gli ha replicato prendendolo divinamente per i fondelli, come vi abbiamo raccontato qui. E il direttore del Fatto Quotidiano, il giorno successivo, è tornato sulla vicenda. Con tutta l'acredine che lo contraddistingue da decenni. Il punto è che Vespa aveva ricordato come il 4 dicembre 2016, Travaglio, "non ha resistito alla tentazione di festeggiare la sconfitta di Renzi al referendum". Il direttore era ospite in collegamento, come specificato da Vespa. Pacifico? Non per Marco Manetta: "Non sono andato io ospite da lui, è lui che è venuto da me, mandando nel mio ufficio una telecamera. Il Fatto - ha sottolineato - era l'unico giornale ad essere per il no al referendum, non poteva fare una trasmissione senza il no. Comunque sono felicissimo di non essere mai entrato nello studio, mi ha levato dall'impaccio di dover trovare scuse", ha commentato acido. E ancora: "Non mi invita perché sono della famiglia Gruber? Ma non diciamo fesserie, non mi inviterà mai. Lui è in onda da quando neanche esisteva la Gruber", conclude Travaglio.
Dagospia il 29 novembre 2019. Nuovo capitolo del botta e risposta tra Bruno Vespa e Marco Travaglio, sempre dai microfoni di Un Giorno da Pecora. Due giorni fa Il direttore del Fatto Quotidiano aveva detto di non esser mai stato invitato Porta a Porta, dichiarazione smentita ieri dl conduttore del talk Rai secondo il quale Travaglio era stato ospite del suo programma il 4 dicembre 2016. Nella puntata di Un Giorno da Pecora di oggi, Travaglio ha risposto alle 'accuse' di Vespa, con queste parole: “non sono andato a Porta a Porta. E' Vespa che è venuto nella mia redazione, mi ha mandato una telecamera in collegamento, per fare due battute, perché non essendoci altri giornali che si fossero battuti per il no al referendum di Renzi non poteva organizzare un dibattito senza una voce del no. Ma prima dell'esito del referendum parlava solo del si...” Travaglio ha poi aggiunto: “sia chiaro che a me non dispiace affatto non esser mai entrato in quello studio, ne sono ben felice. Almeno mi toglie dall'impaccio dal trovare delle scuse per non andarci”. E se Vespa la invitasse? “Non lo farà mai”. Il conduttore di Porta a Porta ci ha detto che, anche se volesse invitarla, lei fa parte della famiglia di Lilli Gruber, riferendosi alla sua presenza a Otto e Mezzo. “Non diciamo fesserie: lui è in onda con Porta a Porta quando la Gruber non era neanche nata”.
· Il Davigo Manettaro.
Giulia Bongiorno e legittima difesa, la lezione a Piercamillo Davigo: "Non è licenza di uccidere, ma...", scrive il 24 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Il gesto di Matteo Salvini è pienamente coerente con una nostra battaglia: dimostrare che stiamo dalla parte di chi è aggredito, non di chi aggredisce". Esordisce così Giulia Bongiorno in un'intervista a La Stampa, in difesa del vicepremier che è andato a visitare in carcere Angelo Peveri, finito in galera per aver sparato a un rapinatore dopo l'ennesimo furto. Il ministro della Pubblica amministrazione, insomma, difende a spada tratta la riforma della legittima difesa. "Finalmente avremo una legge che si schiera decisamente a favore di chi è aggredito. La considero di importanza strategica: è un elemento di certezza del diritto e in Italia abbiamo estremo bisogno di certezza del diritto anche per l'economia". Dunque la Bongiorno risponde alle critiche di Piercamillo Davigo alla riforma sulla legittima difesa. "Tanto per cominciare, la norma dice che si tutela chi respinge un aggressore in casa propria. Non è affatto una licenza ad uccidere. È abbastanza chiara la differenza tra i verbi respingere e aggredire? Perciò dissento radicalmente dal dottor Davigo: in questa legge, a volerla leggere, non c'è affatto la legittimazione a sparare alle spalle a un ladro che fugge. Ripeto, anche a beneficio di chi sostiene l'incostituzionalità della norma, come gli esponenti di Magistratura democratica, che la condotta di reagire e respingere chi entra con violenza o minaccia in casa è assolutamente proporzionata alla situazione di pericolo che si crea. Peraltro, valorizzando lo stato d' animo dell'aggredito, di turbamento o di paura, allineiamo la nostra legislazione a quanto prevedono già molti altri Paesi europei", conclude la Bongiorno.
Annalisa Chirico massacra Piercamillo Davigo dopo il delirio manettaro: "Perché ti devi vergognare", scrive il 24 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Un assoluto delirio manettaro, quello di Piercamillo Davigo, secondo il quale chi viene arrestato e poi assolto è un "colpevole che l'ha fatta franca". Parole inaccettabili, soprattutto se pronunciate da un consigliere del Csm. Parole, quelle del Davigo molto vicino al M5s, che scatenano Annalisa Chirico, che rivolge alla toga parole pesantissime. "Oggi il consigliere Csm Davigo rispolvera il suo cavallo di battaglia: chi è arrestato e poi assolto è un ‘colpevole che l’ha fatta franca’. Ditelo alle 26mila persone che dal ‘92 ad oggi sono finite in galera da innocenti. Quasi mille all’anno", conclude. E se non fosse chiaro, la Chirico aggiunge l'hashtag "VergognaDavigo".
«Il popolo decida la galera» e alla Camera scatta la rissa. Il dibattito in Aula degenera sul tema del referendum propositivo, scrive Giulia Merlo il 15 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Mima un ciao con la mano e sorride polemico, «Arrivederci», dice il presidente Roberto Fico al gruppo del Partito Democratico che sta lasciando l’aula. Per tutta risposta, sullo scranno più alto di Montecitorio vola un fascicolo, che prende in pieno una segretaria generale. Un tiro degno da lanciatore del disco partito da mano ignota, invisibile dalle riprese d’aula. Fico si inalbera e sospende la seduta per 5 minuti, salvo poi fare mea culpa appena riprende la discussione: «C’è stata un po’ di tensione, il Pd stava uscendo e veniva sotto i banchi qui salutando. Chiedo scusa al Pd per aver risposto "arrivederci". Mi sono lasciato andare. È stata una mia colpa, un mio errore. Questa presidenza quando sbaglia si scusa». A incendiare d’aula, un figurato tintinnar di manette. Nella fattispecie, il parlamentare grillino Giuseppe D’Ambrosio che mostra i polsi incrociati a mimare i ceppi, in direzione del dem Gennaro Migliore. Il gruppo del Pd, a quel punto, chiede l’espulsione del pentastellato, ma il presidente Fico si limita a un richiamo formale e saluta i parlamentari di minoranza che abbandonano l’emiciclo. Come si sia arrivati al mimare manette in direzione del Pd, però, è il risultato di un dibattito d’aula zigzagante. Tema del giorno è la proposta di modifica costituzionale dell’articolo 71, con l’introduzione del referendum propositivo. La minoranza si scalda sul fatto che, nella proposta di legge costituzionale, tra le materie oggetto di referendum propositivo siano comprese anche le norme penali, pur con un vaglio di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. Il tema, sollevato da Pierantonio Zanettin di Forza Italia, accende un dibattito che, però, non verte espressamente sull’emendamento in discussione. «Noi non possiamo affidare i diritti, i diritti individuali e i diritti civili, alla “pancia” del Paese. Capite bene che populismo e demagogia non si sposano con il garantismo, con l’equilibrio dei poteri nei confronti dei soggetti che vengono indagati nei processi penali e ai processi penali. Non possiamo affidare la qualificazione dei reati, le pene edittali, il minimo e il massimo a questo tipo di referendum propositivo e all’iniziativa popolare», dice Zanettin, seguito a ruota sulla stessa tesi dai colleghi dem Andrea Orlando, Stefano Ceccanti e Gennaro Migliore, che iniziano un fuoco di fila nei confronti della relatrice di maggioranza. «La materia penale deve essere sottratta a quella che è l’iniziativa violenta, talvolta, di alcune élite che si propongono come la voce del popolo, perché qui stiamo parlando di una manipolazione bella e buona, cioè quella che avviene costantemente quando la procedura penale si trasferisce nei processi di piazza, quando il diritto viene trasformato in processi sugli editoriali di alcuni giornali, quando l’idea che il giustizialismo possa prevaricare quello che è lo Stato di diritto e le garanzie dei singoli diventa la prassi comune della lotta politica», tuona Migliore. «Colpisce sempre sentire riferimenti così espliciti e forti al tema del popolo, come se ci fosse chi, per grazia ricevuta, stesse dalla parte popolare e altri no. Mi rimanda alla storia, alla storia dell’umanità, proprio chi ha più usato il popolo come argomento politico poi lo ha affamato. Penso ai grandi totalitarismi, penso al peggiore di tutti, al comunismo, che parlava di popolo, salvo poi affamarlo. E poi, cari 5 Stelle, proprio voi parlate di popolo? Ma da chi siete selezionati voi? Da quale popolo? Da un popolo di troll, da un popolo di nerd su un sistema operativo fasullo», rincara la dose il forzista Cattaneo. Di qui il discorso degenera, coi 5 Stelle che replicano duramente: «Io trovo surreale che i rappresentanti del popolo che siedono qui dentro continuino a trattare il popolo come una massa di decerebrati, che non hanno alcun discernimento nel capire e nel decidere di se stessi, senza riuscire ad avere alcun ragionamento etico e civile», ribatte il grillino Ricciardi. Dalla presenza o meno della materia penale tra le ipotesi di referendum propositivo, dunque, si passa al metodo di selezione della classe dirigente. E’ l’intervento del grillino D’Ambosio, tuttavia, che scatena la bagarre: «Mi sembra un dibattito divertente, quasi surreale, a tratti, perché in quest’Aula si parla di preferenze, il PD e Forza Italia parlano di preferenze, e sono proprio i partiti che hanno cancellato da questo Parlamento le preferenze per fare i listini bloccati, nei quali mettere i peggiori parlamentari della vergogna della Repubblica Italiana», e continua: «Voglio ricordare a quest’Aula il nome di Francantonio Genovese, condannato in primo grado a 11 anni, deputato del PD , cacciato dal PD, passato in Forza Italia, che logicamente lo ha accolto a braccia aperte, e che poi candida il figlio, campione di preferenze, indagato dopo due giorni». Poi si volta verso i banchi del Pd e incrocia i polsi, rivolto in direzione di Gennaro Migliore.
· Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità.
Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità. Francesco Storace venerdì 3 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Prendete i popcorn, cari lettori, e leggete questa storia che sembra provenire dall’aldilà della politica. Quando i giustizialisti randellavano la politica e sbattevano i malcapitati in galera. Era quando i Torquemadatuonavano contro l’immunità parlamentare, “rifugio della criminalità politica”. Accadeva quando il popolo esaltava i magistrati in politica. Ebbene, cambia tutto. Agli atti della giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei Deputati c’è un’implorazione firmata Tonino Di Pietro. Ragazzi, ero deputato pure io e ora mi hanno condannato ad elargire un risarcimento di seimila euro a Cuffaro. Impeditelo, voi che ne avete il potere, dice l’ex piemme al Parlamento. Ora, tra i due, il condannato per fatti di mafia e il magistrato senza macchia e senza paura, è il secondo a pregare per l’immunità. Non vuole cacciare un euro.
Totò non aveva screditato Falcone. La gustosa storia che vede Cuffaro dalla parte della giustizia e Di Pietro in quella del condannato riguarda una diffamazione piuttosto pesante. Che si trascina sostanzialmente (anche se non formalmente) dalla bellezza di 28 anni, per la gioia del ministro Bonafede. Nel 1991 Cuffaro partecipò alla trasmissione Samarcanda di Michele Santoro. Tanti anni dopo, nel 2009, Di Pietro scrisse un articolo sul proprio sito “Vi difendiamo tutti da Cuffaro”. Questi era accusato di aver screditato la memoria del giudice Giovanni Falcone, presente alla trasmissione che era stata straordinariamente gestita in comune da Rai e Mediaset. L’ex pm milanese ripubblicò da YouTube tre video caricati da ignoti nel 2007 per sostenere che Cuffaro l’aveva fatta grossa. Ci furono un mare di commenti e l’ex presidente della Sicilia citò in tribunale civile Di Pietro. Che venne condannato, nel 2013 (!), a risarcire la somma di seimila euro per quel “vi difendiamo tutti”. Ora che la causa è arrivata in Corte d’appello, Tonino torna alla carica e non ne vuole proprio sapere di dare soldi a Cuffaro. E ha quindi chiesto al giudice civile l’immunità parlamentare, in quanto deputato all’epoca dei fatti. E adesso sarà la Camera a dover decidere il da farsi, previa istruttoria della giunta per le autorizzazioni a procedere.
I precedenti sono contro Tonino. La vicenda è davvero significativa. Anche perché con l’immunità parlamentare c’entra come i cavoli a merenda. La giurisprudenza costituzionale ha escluso da tempo che sia sufficiente essere “onorevole” per non pagare mai se c’è una condanna. Perché l’eventuale immunità deve essere “appoggiata” ad un atto parlamentare che preceda il fatto in sé, e non era questo il caso. Se i precedenti valgono, Di Pietro potrebbe essere obbligato a versare sull’unghia i quattrini rivendicati da Cuffaro. E magari con l’aggiunta del costo dei lavori parlamentari che in fondo sono a carico della collettività. Una condanna, anche per un reato grave, non è ragione sufficiente per svillaneggiare una persona, esporla al pubblico ludibrio. E’ una lezione, se sarà confermata, per chi pensa di poter insultare il prossimo dalla mattina alla sera o aizzare il popolo contro l’avversario. Con quei quattrini, l’ex governatore siciliano non si arricchirà di certo e chissà se non gli venga l’idea di festeggiare un verdetto finalmente favorevole a lui a base di buoni cannoli palermitani. Crepi l’avarizia.
· L’ingiustizia è uguale per tutti.
L’ingiustizia è uguale per tutti. Pubblicato il 20 Febbraio 2019 da INFOSANNIO. (Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Certo vedere i reprobi eccellenti in manette è una bella soddisfazione e anche accontentarsi di saperli agli arresti domiciliari. Purtroppo è un contentino rispetto alla gratificazione di non vederli più, scomparsi in un cono d’ombra, negletti da talkshow e oscurati dagli opinionisti come meriterebbero, e ancora più a paragone del compiacimento per la loro eclissi definitiva post-elettorale. Da anni ormai siamo abituati a pensare che se non siamo capaci di liberarci dell’abuso illegittimo della politica, del parlamento e della gestione della cosa pubblica da parte di un ceto che mostra un istinto ferino alla trasgressione, alla corruzione, all’impiego privato di ruolo, rendita e potere che ne consegue, possiamo contare sulla magistratura che prima o poi ci vendica. Si, auspicando che ci riscatti e li castighi, e non faccia “giustizia”, perché negli anni forma e contenuto di questo “valore” sono stati aggiornati, disperdendo o modernamente resettando la sua qualità morale e sociale, quella attinente al contrasto alle disuguaglianze, quelle suscitate della lotteria naturale e quelle determinate dallo scontro di classe. Non a caso proprio da parte di un soggetto politico che ieri grazie a una liberatoria non del tutto arbitraria è sfuggito alle sue maglie, viene continuamente richiamata la opportunità di valersi di un utilizzo privato della giustizia, sotto forma di pistola sul comodino. Niente di diverso da chi pensa che l’appartenenza a un ceto con tutto il corredo di principi e valori identitari: arrivismo, ambizione, indole alla sopraffazione e allo sfruttamento, familismo e clientelismo, autorizzi a una interpretazione personale delle regole, dileggiate in quanto ostacolo a libera iniziativa e imprenditorialità. Sicché l’ingresso a gamba tesa di un altro ceto, quello giudiziario, viene inteso come a una guerra intestina mossa per chissà quali opachi moventi o per segnare il territorio del quale vengono rivendicati l’occupazione e il possesso in comodato.
Eh sì, ieri ne abbiamo avuto due rappresentazioni allegoriche. La giunta per le immunità del Senato ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere del tribunale di Catania contro il ministro Matteo Salvini per il caso della nave Diciotti, con una decisione presa a maggioranza: 16 voti contro il processo e 6 a favore, un risultato scontato dopo l’esito della consultazione online dei 5Stelle, una cerimonia officiata nel quadro dell’odierna imitazione della democrazia nella quale siamo costretti a vivere, da avventizi dell’oligarchia incaricati di sperimentare l’occupazione della rete, in modo che cada anche uno degli ultimi baluardi di massa, sia pure con effetti francamente grotteschi. È uno dei paradossi della nostra contemporaneità, la possibilità per il ceto politico di difendere i propri comportamenti illegali o illegittimi – anche se il caso in questione è opinabile perché le leggi non sono teoremi aritmetici da applicare con un approccio contabile – grazie alla determinazione e al lascito i padri costituenti e in particolare Lelio Basso, i socialisti e i Comunisti che vollero stabilire attraverso gli articoli 68 e 96 la tutela degli eletti dalle pressioni e dai condizionamenti di poteri forti, in modo che venisse tutelata “la libera esplicazione delle funzioni del Parlamento, contro indebite ingerenze” da parte della magistratura, certo, in un tempo nel quale la sua autonomia era ancora incerta. E’ un’eredità quella che abbiamo difeso insieme a altri principi messi in pericolo da “riforme” volte a consegnare le istituzioni e noi all’ideologia neoliberista della deregulation, del dominio incontrastato e della supremazia del “privato”, del superpotere attribuito all’esecutivo. E si tratta infatti di quella cassetta degli attrezzi che utilizza per la sua propaganda difensiva l’altro co-protagonista sulla scena di ieri, quando riconferma la sua “fiducia” inossidabile nella magistratura, purché tratti coi guanti gialli il suo asse dinastico, che in virtù del suo ruolo pubblico ha diritti inversi ai nostri in materia di privatezza, impunità, immunità, insindacabilità delle azioni e dei comportamenti. C’è poco da dire, viviamo il paradosso della debolezza, ci è stata concessa la “prerogativa” di accettare i comandi, deprecandoli, di essere servi, lamentandoci, di ubbidire, ma brontolando. Perfino ci è stato sottratto il diritto libero di votare in virtù di leggi contraffatte, liste bloccate, differenti e disuguali condizioni di partenza dei candidati, impari mezzi profusi, permettendo la finzione di consultazioni virtuali su piattaforme di soggetti privati, che vale per le autorizzazioni a procedere o per i talent. Vale anche per la giustizia, quando diritti duramente conquistati e che credevamo a torto inalienabili, quelli “materialisti” (che ispiravano la critica sociale e la lotta di classe) ormai declassati a gruzzolo micragnoso a disposizione di tutti e garantito, in favore di “valori post-materiali” più moderni e fashion. Sicché dando retta indirettamente a chi ha stabilito delle graduatorie, prima gli italiani, prima i maschi, prima gli eterosessuali, si instaurano delle contro-gerarchie morali e etniche, che indicano i fronti di denuncia e militanza, prima gli immigrati, prima gli omosessuali, prima le donne, come se togliere qualcosa agli uni arricchisse gli altri. Così l’amministrazione della giustizia segue le tendenze della moda e dello spettacolo, altro settore fortemente e irriducibilmente condizionato dal mercato. Ci elargisce qualche spot gratificante di potenti minacciati dalle catene, quando le nostre galere sono affollate di ladruncoli e piccoli spacciatori, mentre bancarottieri e corruttori entrano e escono dalle loro porte girevoli pronti a occupare altri posti in prestigiosi consigli di amministrazione. Quando a essere perseguiti con rigore sono i reati di strada, le condotte dei poveri, mentre gli illeciti commessi da chi può e sta in lato sono trattati con indulgenza e la comprensione che si riserva a chi dà lavoro, a chi non deve essere ostacolato da lacci e laccioli, a chi è troppo impegnato per svolgere quelle moleste attività da straccioni: dichiarazione dei redditi, osservanza delle regole in materia di previdenza o edilizia. Lo credo che chi sta su o non si rassegna a scendere ha fiducia della giustizia, mica è uguale per tutti.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La Corte europea dei diritti umani contro Italia e Germania sul caso ThyssenKrupp.
Da ilfattoquotidiano.it il 14 Novembre 2019. La Corte europea dei diritti umani ha avviato un procedimento contro Italia e Germania sul caso del rogo dello stabilimento della ThyssenKrupp a Torino scoppiato il 6 dicembre 2007: un incidente immane in cui morirono 7 operai. Sono stati i parenti delle vittime e uno dei sopravvissuti, Antonio Boccuzzi, a rivolgersi alla Corte di Strasburgo, accusando i due governi di aver violato i loro diritti, in particolare quello al rispetto della vita, perché nonostante la sentenza di condanna della Corte di Cassazione pronunciata nel 2016 nei confronti due manager tedeschi, questi restano in libertà. L’ad Harald Espenhahn e il consigliere Gerald Priegnitz hanno avuto pene definitive rispettivamente a 9 anni e 8 mesi e a 6 anni e 10 mesi, ma non hanno mai scontato un giorno di carcere per il disastro del 2007 nell’acciaieria: mentre i quattro dirigenti italiani condannati si consegnarono alle autorità per scontare la pena, i due tedeschi fuggirono in Germania, rifiutando l’esito del processo e chiedendo di scontare gli anni in patria, cosa che però non è mai avvenuta finora. I firmatari del ricorso – che la Corte aveva ricevuto un anno e mezzo fa – sono in tutto 26 e sottolineano che la violazione del loro diritto alla vita deriverebbe “dalle omissioni e i ritardi delle autorità italiane e tedesche nel dare esecuzione alla sentenza di condanna dei due manager”. Aggiungono di non aver altro modo, se non attraverso la Corte di Strasburgo, per far valere i loro diritti nei confronti di Roma e Berlino. “I governi italiano e tedesco – scrive ora la Corte ai due governi – sono pregati di fornire tutte le informazioni pertinenti sullo stato della procedura di esecuzione della condanna”.
I tre anni di “Vietnam” burocratico e procedurale. In realtà Espenhahn e Priegnitz e i loro avvocati hanno fatto di tutto per non far eseguire la pena decisa dai tribunali italiani in modo definitivo – dopo tre gradi di giudizio – né la giustizia tedesca ha deciso quale strada prendere: se eseguire la sentenza della Suprema Corte italiana o celebrare di nuovo il processo in forza del fatto che la pena massima per il reato contestato ai due ex massimi dirigenti della ThyssenKrupp – l’omicidio colposo plurimo – nel codice penale tedesco ha un tetto di 5 anni di carcere. In un primo caso fu sollevata la questione della mancata traduzione di alcuni atti e della stessa sentenza della Cassazione. Pochi mesi dopo la Suprema Corte respinse anche un ricorso straordinario. L’ultima di numerose puntate procedurali e burocratiche grazie alle quali non c’è stata ancora alcuna decisione sui due responsabili della tragedia di Torino risale al febbraio scorso quando i due condannati avevano chiesto al tribunale di Essen di archiviare per “irregolarità nel processo”.
I messaggi (inascoltati) dei ministri italiani. Una vicenda che da giudiziaria arriva ad avere profili politici e diplomatici. Due ministri della Giustizia italiani in momenti diversi hanno scritto al governo di Berlino e ai tribunali tedeschi nel corso di questi tre anni. Il guardasigilli Andrea Orlando nel 2017 aveva chiesto al ministro tedesco Heiko Maas che la Germania desse esecuzione al verdetto. Il successore Alfonso Bonafede nel 2018 aveva fatto inviare dal ministero di via Arenula una lettera al tribunale di Essen per chiedere l’esito del procedimento con cui si era chiesto il riconoscimento ed esecuzione della sentenza”. Bonafede, nel febbraio scorso, aveva detto tra l’altro che il ministero avrebbe “continuato a monitorare giorno per giorno la vicenda”. Ma da allora nulla è cambiato. La difficoltà è la stessa che nel corso degli ultimi dieci anni è stata riscontrata per gli ex ufficiali delle SS e della Wehrmacht condannati all’ergastolo per diverse stragi di civili in Italia durante la ritirata tedesca dai territori occupati in Italia (tra queste Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto): le sentenze non sono mai state eseguite dalla Germania e in quel caso l’Italia non ne ha mai chiesto conto a Berlino.
“Se siamo arrivati qui, è per la debolezza dell’Italia con la Germania”. “Siamo arrivati a questo punto è per la debolezza del nostro Governo nei confronti della Germania” dice Antonio Boccuzzi, sopravvissuto nel 2007 al rogo negli impianti ThyssenKrupp. “I nostri appelli al Governo italiano – aggiunge – hanno sempre ottenuto promesse di attenzione che non si sono mai concretizzate. E’ opportuno, quindi, che si attivi un organo superiore”. “Il nostro non è desiderio di vendetta, ma di giustizia” sottolinea Graziella Rodinò, mamma di Rosario. “Siamo sempre stati decisi ad andare avanti nella nostra battaglia – aggiunge – Se i due manager tedeschi sono ancora liberi, qualcosa non ha funzionato. C’è una sentenza definitiva, che non è stata rispettata. Voglio che vadano in galera, che vedano la cella almeno per un giorno. Per noi il tempo si è fermato, non è vero che il tempo lenisce il dolore”.
La Cassazione disse: “Vertici Thyssen consapevoli di pericolo di morte per operai”. Nelle motivazioni della sentenza del 2016 la Cassazione aveva rilevato a sostegno della decisione che quella dell’ex amministratore delegato e degli altri dirigenti fu una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“. I giudici avevano aggiunto che quella commessa è stata una “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”. Espenhahn, in particolare, era stato descritto come “il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte” mettendo inoltre in evidenza il fatto che “intorno a lui si muovono gli altri imputati che all’interno della complessa organizzazione aziendale si cooperano, interagiscono con la figura di vertice, aderiscono alle scelte strategiche, le supportano con le loro competenze tecniche e nell’esercizio dei poteri gestionali”.
· “Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”.
Giachetti: «Chi ha paura di Rita Bernardini e della battaglia sulla cannabis?» Valentina Stella il 13 Dicembre 2019. «L’ex parlamentare è stata trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua», ma «non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino». «Perché non arrestate Rita Bernardini?». È questa la sintesi dell’interrogazione a risposta scritta presentata ieri in Aula dall’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti e indirizzata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Giachetti prende spunto da una notizia pubblicata sul sito leiene. it riguardante una delle tante iniziative di disobbedienza civile sulla cannabis portate avanti dall’esponente del Partito Radicale e già deputata nella XVI legislatura, Rita Bernardini.L’ex parlamentare – si legge nell’interrogazione – «è stata trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua», ma «non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare la risonanza mediatica che quell’arresto avrebbe potuto comportare, essendo la Bernardini da anni impegnata in battaglie per la legalizzazione della cannabis». Il problema che solleva con le sue disobbedienze civili e la richiesta di legalizzazione è «maledettamente serio, e non solo per i malati che non riescono ad accedere ai farmaci cannabinoidi» ci dice la radicale. A sostenere la tesi richiamata nell’atto parlamentare – si legge ancora nell’articolo a cura del programma di Italia1 – è un carabiniere del Nucleo radiomobile della compagnia Roma Cassia, Enrico Sebastiani, che «quest’estate eseguì in un primo momento l’arresto della ex parlamentare. Secondo lui, i carabinieri in un primo momento avrebbero arrestato Rita Bernardini per aver violato il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. Una volta giunta in caserma, però, le cose cambiano: il superiore di Sebastiani, che era tra i militari coinvolti nell’arresto, gli avrebbe ordinato di rilasciare la donna. Sempre secondo la ricostruzione del carabiniere, l’indicazione di rilasciare Rita Bernardini a piede libero sarebbe arrivata direttamente dal procuratore della Repubblica in persona. La paura del procuratore sarebbe stata la seguente: un arresto di quel tipo avrebbe provocato una grande risonanza mediatica, e dunque era meglio evitare». Due pesi e due misure quindi? «Questa storia della Procura di Roma che mi riserva un trattamento di favore costituisce uno scandalo inaudito – commenta ancora al Dubbio Rita Bernardini – . Cominciò il l’ex procuratore capo Pignatone, quando l’ 8 febbraio del 2016 archiviò il procedimento riguardante la mia coltivazione di ben 56 piante, prosegue ora il procuratore Prestipino.Plaudo al comportamento del carabiniere costretto dalla legge ad arrestare ogni giorno i coltivatori fai- da- te della cannabis e a me, per volontà della procura, di rilasciarmi a piede libero». Giachetti chiede quindi ai due ministri se siano a conoscenza dei fatti e se sussistano i presupposti di fatto e di diritto per un’iniziativa ispettiva presso la Procura di Roma che non ha proceduto all’arresto dell’onorevole Bernardini.
Cannabis in terrazzo, “Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”. Le Iene il 07 dicembre 2019. A sostenerlo è un carabiniere, che ha anche presentato un esposto. Secondo il militare la decisione fu presa dalla procura di Roma per evitare clamore mediatico sul caso. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la storia del mancato arresto questa estate e avevamo anche visitato la sua coltivazione Coltivava piante di marijuana in casa e dopo esser stata scoperta non viene arrestata. Il motivo? La procura avrebbe voluto evitare risonanza mediatica sul caso. A raccontare questa storia è il quotidiano La Verità secondo cui l’ex parlamentare ed esponente radicale Rita Bernardini, trovata in possesso di 32 piante di marijuana sul balcone di casa sua, non sarebbe stata arrestata su indicazione del procuratore di Roma Michele Prestipino. L’obiettivo sarebbe stato quello di evitare la risonanza mediatica che quell’arresto avrebbe potuto comportare, essendo la Bernardini da anni impegnata in battaglie per la legalizzazione della cannabis. A sostenere questa tesi è un carabiniere del Nucleo radiomobile della compagnia Roma Cassia, Enrico Sebastiani, che quest’estate eseguì in un primo momento l’arresto della ex parlamentare. Il militare avrebbe anche presentato un esposto alla procura di Perugia. In sintesi, questa sarebbe la sua versione dei fatti: i carabinieri in un primo momento avrebbero arrestato Rita Bernardini per aver violato il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti. Una volta giunta in caserma, però, le cose cambiano: il superiore di Sebastiani, che era tra i militari coinvolti nell’arresto, gli avrebbe ordinato di rilasciare la donna. Questa indicazione, sempre secondo la sua ricostruzione, sarebbe arrivata direttamente dal procuratore della Repubblica in persona. La paura del procuratore sarebbe stata la seguente: un arresto di quel tipo avrebbe provocato una grande risonanza mediatica, e dunque era meglio evitare. C’è un problema però: l’arresto di Bernardini, quando arriva l’intervento di Prestipino, sarebbe stato già “eseguito e comunicato” all’ex deputata. Si sarebbe però deciso di procedere in violazione delle regole, costringendo i militari ad accompagnare la donna al suo domicilio. Il militare Sebastiani però avrebbe protestato per questa decisione, ricevendo il mese successivo un procedimento disciplinare. L'accusa sarebbe quella di essersi intromesso inappropriatamente nell’accordo preso dal procuratore con il suo superiore. Su questa versione è intervenuta anche la stessa esponente radicale, Rita Bernardini, che su Facebook ha scritto: “Sia chiaro, io sono dalla parte del carabiniere che ha protestato per il mio mancato arresto e sono contro la Procura di Roma che -violando la legge- da anni vanifica le mie disobbedienze civili per la legalizzazione della cannabis, in particolare, per il diritto effettivo di cura”. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la vicenda del mancato arresto di Rita Bernardini nell’articolo che potete leggere cliccando qui. "Sono stata denunciata a piede libero per la coltivazione di sostanze stupefacenti, 32 piante tra un metro e un metro e venti”, aveva dichiarato l’ex parlamentare, portata in caserma. “Esprimo tutto il mio disappunto per la decisione della Procura di Roma di non procedere al mio arresto, come accade a tutti i cittadini che vengono sorpresi a coltivare marijuana. Così si usano due pesi e due misure e la legge finisce per non essere uguale per tutti". L’ex parlamentare radicale sperava infatti in un arresto, come ci aveva spiegato il suo avvocato, Giuseppe Rossodivita, che abbiamo contattato telefonicamente, “in modo che la questione possa essere portata, attraverso il processo, al centro di un dibattito pubblico”. Rita Bernardini, infatti, da anni si batte per la legalizzazione della cannabis. “In particolare nell’ultimo periodo si è specializzata su quella a scopo terapeutico”, dice l’avvocato e dirigente radicale. Già l’anno scorso, infatti, l'ex parlamentare ci aveva spiegato che "in Italia c’è una legge approvata nel 2007 sulla marijuana terapeutica che ancora oggi non riesce a entrare in funzione. Per i malati continua a essere un’odissea accedere alla cannabis come medicina". Più di un anno fa eravamo stati proprio sul terrazzo dove Rita coltiva le sue piantine, come potete vedere nel video qui sopra. E già allora ci aveva detto: "La procura dovrebbe procedere nei miei confronti come si fa con chiunque altro faccia l’autocoltivazione: e cioè dovrebbe arrestarmi". Ma evidentemente, a differenza di quanto sarebbe probabilmente stato fatto con qualsiasi altro cittadino colto in flagranza, con l’ex parlamentare si è deciso di procedere diversamente: forse adesso abbiamo scoperto il perché.
· Intoccabili: Quelli che sono toccati…
Salvo Palazzolo per “la Repubblica” l'11 dicembre 2019. A maggio, la giudice che ha condannato Antonello Montante aveva mandato in procura i verbali delle testimonianze del direttore dell' Aisi Mario Parente e del suo vice Valerio Blengini. «Mentono sapendo di mentire», aveva scritto la gup Graziella Luparello nella sentenza sull' ex leader di Confindustria al centro di una catena di fughe di notizie sull' inchiesta. Dopo nuovi approfondimenti, la procura di Caltanissetta ha iscritto nel registro degli indagati il capo dei servizi segreti, per false informazioni, e ha trasmesso il fascicolo alla procura di Roma. Stessa contestazione è stata mossa al numero due di Parente, a cui i pm nisseni hanno notificato invece un avviso di chiusura dell'indagine. Al centro del caso, uno 007 imputato nel processo bis, è Andrea Cavacece, chiamato in causa perché avrebbe saputo dell' indagine su uno dei fedelissimi di Montante, Giuseppe D' Agata (pure lui ai Servizi), e avrebbe girato la notizia all' allora direttore dell' Aisi, Arturo Esposito. Parente - ex generale del Ros, mai un' ombra in 40 anni di lotta alle mafie - era stato sentito dall' avvocato di Cavacece, nell' ambito di un' indagine difensiva. All' epoca era il vice dei Servizi: spiegò che Blengini gli aveva raccontato di alcune domande su D' Agata («Fatte a un nostro collaboratore durante un incontro per gli auguri di natale con personale dello Sco della polizia»), precisò «di non averne parlato né con Cavacece, né con Esposito, in quanto la notizia era indeterminata». Per la giudice Luparello, invece, l' informazione giunta a Blengini e Parente era tutt' altro che «generica» perché Blengini chiese notizie all' allora questore di Caltanissetta, Bruno Megale, che segnalò subito il caso ai pm.
(ANSA il 10 dicembre 2019) - La Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati, per concussione, il procuratore aggiunto di Avellino Vincenzo d'Onofrio nell'ambito della stessa indagine che vede indagato l'ex capo degli ispettori del Ministero della Giustizia Andrea Nocera a cui si contesta la corruzione in concorso. Lo rendono noto organi di stampa. Indagati, sempre per corruzione in concorso, anche l'ex senatore di Forza Italia, Salvatore Lauro, e l'armatore Salvatore Di Leva sul cui cellulare gli investigatori, nell'ambito dell'indagine "madre", hanno inoculato il trojan che ha consentito di intercettare la conversazione ritenuta chiave. Gli accertamenti su D'Onofrio, passati per competenza a Roma, sono finalizzati ad accertare una presunta pressione esercitata sull'armatore Di Leva, finalizzata a fargli riparare una barca usata per gite nel Golfo di proprietà di Pasquale D'Aniello, vicesindaco di Piano di Sorrento. Nelle indagini risulta coinvolto anche l'ufficiale della Guardia di Finanza Gabriele Cesarano.
Magistrato finisce sotto inchiesta: gite a Capri ed altri favori. Andrea Nocera su Il Corriere del Giorno il 5 Dicembre 2019. Un’inchiesta che ha messo in fibrillazione un intero mondo di relazioni, uno giro di amicizie influenti che ruotava attorno ai cantieri di Di Leva, a qualche “attenzione” di troppo: dalle gite in barca o alle tessere gratis per una vacanza a Capri in favore di questo o quel magistrato. Il magistrato partenopeo Andrea Nocera , fino a qualche giorno fa capo dell’ufficio ispettorato del Ministero della Giustizia è stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Napoli . Secondo gli inquirenti avrebbe ricevuto numerosi biglietti di viaggio, per sé e per i suoi congiunti, sulla rotta Napoli-Capri, in cambio della disponibilità a fornire informazioni riservate in un’indagine a carico di un armatore napoletano. Accusato di corruzione Nocera ha deciso di rassegnare le proprie dimissioni. Da ieri è tornato al Massimario della Cassazione, ufficio dal quale era stato selezionato un anno e mezzo fa, prima di accettare l’incarico in forza al Ministero guidato dal ministro Bonafede (M5S). Una scelta conseguente alla decisione della Procura di Napoli di trasmettere la notizia dell’inchiesta a carico dello stesso Nocera al Ministero di via Arenula ed all’ufficio della Procura generale della Cassazione . Una vicenda che fa registrare una svolta nel corso delle indagini a carico dell’armatore sorrentino Salvatore Di Leva, socio di Salvatore Lauro, in qualità di amministratore della società Alilauro Gruson. L’armatore Di Leva è stato interrogato giovedì scorso a Napoli dai pm della Procura partenopea, ma anche dal procuratore aggiunto romano Paolo Ielo (accanto nella foto) e dalla pm Lia Affinati della Procura di Roma titolari delle indagini su un magistrato tuttora in servizio nel distretto di Corte di appello di Napoli.. Un vero e proprio colpo di scena è scattato al termine di questo interrogatorio, quando la Procura di Napoli ha sequestrato il cellulare di Salvatore Di Leva che nei mesi scorsi colpito dal virus trojan delle forze dell’ordine, per compiere ulteriori verifiche sui contatti più recenti potenzialmente utili alle indagini. Il coinvolgimento nell’indagine del magistrato Andrea Nocera e di Salvatore Lauro è emerso proprio dal decreto di perquisizione notificato nel corso dell’interrogatorio Di Leva, in questo nuovo filone che ipotizza per tutti e tre il concorso in corruzione. Al centro dell’inchiesta un incontro nel cantiere navale di Di Leva che sarebbe avvenuto alla fine dello scorso aprile , al quale avrebbero preso parte anche Salvatore Lauro, il commercialista del gruppo Alessandro Gelormini finito in cella un paio di mesi fa in un’altra vicenda di corruzione, nonostante la sua età di ottanta anni, e lo stesso Andrea Nocera ex capo degli ispettori del Ministero di via Arenula. Un incontro intercettato in tempo reale, grazie al trojan inoculato nel cellulare di Di Leva, dal quale sarebbero emersi elementi che hanno spinto la Procura di Napoli ad una accelerata. Ma in cosa consistono le accuse a carico dell’ex capo degli ispettori. L’ inchiesta è condotta dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo, dal capo del pool mani pulite Giuseppe Lucantonio, ma anche dal pm anticamorra Giuseppe Cimmarotta (che sta indagando su presunte opacità nell’assegnazione delle zone demaniali a Castellammare di Stabia), e dal pm Henry John Woodcock, a sua volta in forza al “pool mani pulite” della Procura di Napoli. Definito lo schema investigativo: il magistrato Nocera avrebbe ricevuto per sé e per i suoi parenti numerosi biglietti e tessere gratis per gli aliscafi del gruppo Alilauro, in particolare quelli per andata e ritorno tra Napoli e Capri. E non soltanto, in quanto avrebbe ottenuto in omaggio anche la manutenzione e il rimessaggio di un gommone, sempre a titolo di presunta contropartita per il suo ruolo di magistrato. E’ questo il punto principale su cui si basano le indagini. Inevitabili porsi alcune legittime domande: come è possibile che un magistrato “in carriera” come Andrea Nocera abbia deciso di far corrompere il proprio ruolo di magistrato per alcune centinaia di euro ? E cosa avrebbe dato in cambio agli armatori? Sulla base di quanto sinora emerso, ci sarebbe stata l’esigenza di ottenere notizie utili a favorire gli interessi dell’armatore Salvatore Lauro, a sua volta coinvolto in una indagine del pm Raimondi, in relazione a questioni societarie interne al gruppo. Allo stato attuale non risultano in modo tangibile delle “soffiate” da parte di Nocera agli imprenditori Di Leva e Lauro. Sempre basandosi su quanto trapelato finora da parte di persone “vicine” al magistrato campano, si baserebbe la convinzione di poter fugare ogni dubbio sulla propria condotta in questa squallida vicenda. Agli atti dell’inchiesta giudiziaria ci sono molte ore di conversazioni captate dal cellulare di Di Leva che sono durate da aprile allo scorso settembre, ma sopratutto da quanto verrà trascritto dagli interrogatori di Di Leva e dello stesso commercialista Alessandro Gelormini. Un’inchiesta che ha messo in fibrillazione un intero mondo di relazioni, uno giro di amicizie influenti che ruotava attorno ai cantieri di Di Leva, a qualche “attenzione” di troppo: dalle gite in barca o alle tessere gratis per una vacanza a Capri in favore di questo o quel magistrato.
Si dimette il capo degli ispettori del ministro Bonafede: è indagato per corruzione. Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Il magistrato Andrea Nocera, scelto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per guidare l’ispettorato del ministero, si è dimesso dopo dopo aver scoperto di essere indagato dalla procura di Napoli. L’ipotesi di reato formulata dai pm Henry John Woodcock e Giuseppe Cimmarotta, coordinati dal procuratore capo Giovanni Melillo, è di corruzione in concorso con l’armatore Salvatore Lauro, ex deputato di Forza Italia, e l’imprenditore marittimo Salvatore Di Leva, amministratore della società Alilauro Gruson. Nocera, secondo l’accusa, si sarebbe reso disponibile a dare informazioni segrete in merito ad una inchiesta su Lauro in cambio di biglietti di viaggio per Capri, dove il magistrato possiede una casa, e del rimessaggio gratuito del suo gommone. La vicenda sarebbe emersa tramite una conversazione intercettata sul telefono cellulare dell’armatore, socio di Lauro, risalente allo scorso aprile. A quella conversazione avrebbero partecipato il capo dell’ufficio ispettorato del ministero della Giustizia, l’ex senatore e il commercialista del gruppo Alessandro Gelormini, quest’ultimo già in carcere nell’ambito di un altro procedimento giudiziario. L’indagine sul capo dei suoi ispettori è stata comunicata a Bonafede giovedì scorso. Venerdì il ministro grillino ha quindi convocato Nocera che ha subito deciso di lasciare il suo posto al ministero, chiedendo al Csm di tornare a lavorare al Massimario della Cassazione. Ieri infine è arrivato il via libera dal Consiglio superiore. Nocera in poco meno di un anno e mezzo di lavoro al ministero ha istruito un centinaio di azioni disciplinari e 42 accertamenti preliminari: tra le ultime missioni quella al tribunale dei Minori di Bologna e alla procura di Reggio Emilia, disposta dal ministron Bonafede, legata all’inchiesta "Angeli e Demoni" sugli affidi illeciti.
Si dimette Nocera, il capo degli ispettori di Bonafede E’ accusato di corruzione. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Corriere.it. Indagato e dimissionario, per provare a evitare, o almeno depotenziare, un nuovo scandalo nella magistratura. Il giudice Andrea Nocera, fino all’altro ieri capo dell’Ispettorato del ministero della Giustizia, ha lasciato l’incarico dopo aver appreso di essere inquisito dalla Procura di Napoli per una presunta corruzione: biglietti per aliscafi e il rimessaggio di un gommone in cambio di notizie su un procedimento penale in corso. L’ipotesi di reato è scaturita da un’inchiesta condotta dai pm Henry John Woodcock e Giuseppe Cimmarotta, coordinati dal procuratore Giovanni Melillo, che s’è trasformata in un’altra tegola per le toghe italiane, già messe a dura prova dal «caso Palamara» che ha investito il Consiglio superiore della magistratura. E proprio al Csm Nocera ha comunicato la decisione di lasciare l’incarico apicale che ricopriva, chiedendo di tornare a lavorare all’Ufficio del massimario della Cassazione. Il magistrato, 54 anni, da quasi un anno e mezzo era il responsabile degli ispettori ministeriali, chiamati a vigilare e indagare sulla correttezza del lavoro svolto negli uffici giudiziari da giudici e pm, anche per ciò che riguarda gli aspetti deontologici. L’Ispettorato è infatti il «braccio operativo» del ministro, titolare dell’azione disciplinare insieme al procuratore generale della Cassazione. La segnalazione su Nocera indagato, oltre che al Csm, è giunta anche al «palazzaccio» di piazza Cavour, dove però per il momento il pg Giovanni Salvi attenderà gli sviluppi dell’indagine penale. Non ha atteso ad accettare le dimissioni, invece, il ministro Bonafede, considerate le evidenti ragioni di inopportunità che al vertice di uno degli uffici più delicati del suo dicastero restasse un inquisito. L’inchiesta a carico di Nocera deriva da quella sul conto dell’imprenditore sorrentino Salvatore Di Leva, sessantatreenne amministratore del gruppo Alilauro, con interessi anche nei settori turistico, alberghiero e della ristorazione. Nelle intercettazioni, attivate per verificare manovre sospette intorno ad alcune concessioni demaniali, sono state registrate conversazioni che hanno fatto emergere l’ipotetico ruolo del magistrato in servizio al ministero — amico dell’imprenditore — come «informatore» su un’altra indagine in corso a Napoli, a carico dell’armatore Salvatore Lauro. Come contropartita Nocera, che ha una casa sull’isola di Capri, avrebbe ricevuto «numerosi biglietti e tessere per usufruire gratuitamente dei servizi di trasporto marittimo mediante aliscafi esercitati da società del gruppo Alilauro, soprattutto sulla tratta Napoli-Capri e Capri-Napoli»; in più, gli viene contestata «l’erogazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio di un gommone» da 8 metri e mezzo. Secondo l’accusa — che dovrà accertare il collegamento tra le «utilità ricevute» e il presunto «abuso delle qualità e funzioni» — le notizie che Nocera avrebbe dovuto trasmettere a Di Leva e Lauro riguardavano un’indagine a carico di quest’ultimo, ex parlamentare di Forza Italia e proprietario della Alilauro. L’incontro fra i tre sarebbe avvenuto ad aprile, accertato successivamente dagli inquirenti ascoltando altre conversazioni tra Di Leva e un commercialista indagato e arrestato dopo i tentativi di concordare le versioni da fornire ai magistrati. Nell’indagine è emersa anche la figura di un altro magistrato campano, di cui si occupa la Procura di Roma competente per le toghe di quel distretto. Di qui il recente interrogatorio congiunto di Di Leva da parte delle due Procure interessate, nel quale l’imprenditore avrebbe spiegato l’amicizia con Nocera provando a ridimensionare le accuse.
Punito il pm Facciolla, «ma le accuse erano state archiviate». Simona Musco il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. Il Csm trasferiscre il procuratore di Castrovillari. Il magistrato era accusato di aver violato I doveri di imparzialità, correttezza e rischio. Ora si occuperà di cause civili a Potenza. Punito dal Csm per accuse archiviate. Al centro della vicenda il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, per il quale la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha deciso il trasferimento a Potenza, destinandolo alla giustizia civile. Una misura richiesta dal ministro Alfonso Bonafede e dalla procura generale della Cassazione e decisa lunedì dalla sezione disciplinare presieduta da Davide Ermini, vicepresidente del Csm, con relatrice Paola Braggion. Alla base della decisione l’indagine aperta a Salerno – competente per le inchieste sui magistrati del distretto di Catanzaro – su una presunta violazione dei doveri di imparzialità, correttezza e riserbo. Secondo i pm, abusando delle proprie funzioni, il magistrato avrebbe rivelato dati sensibili e favorito una società che si occupa di intercettazioni. Ma proprio le accuse oggetto del procedimento disciplinare sono state già archiviate nei mesi scorsi, come spiega al Dubbio il difensore del procuratore, Antonio Zecca, che lo assiste solo in merito alla vicenda penale. Al momento il trasferimento rimane in sospeso, spiega il legale, in vista dell’impugnazione della decisione. «Dopo la fuga di notizie sulle indagini che riguardano Facciolla – sottolinea Zecca -, dell’archiviazione, invece, stranamente non si è saputo nulla. E il difensore con fatica è riuscito a prendere visione del provvedimento sollecitato dallo stesso pm di Salerno». Rimangono in piedi le ipotesi di corruzione per atto conforme ai doveri d’ufficio per l’utilizzo di una scheda sim, i cui pagamenti delle telefonate e del canone, secondo la difesa, venivano effettuati dallo stesso Facciolla, e per falso per la presunta alterazione della data di una relazione di servizio, accuse per le quali l’udienza preliminare, dopo il rinvio di ieri per difetto di notifica, è stata fissata al prossimo 29 gennaio. Secondo i pm, Facciolla avrebbe «affidato il noleggio di apparecchiature nell’ambito di attività di intercettazione alla Stm srl, formalmente intestata a Marisa Aquino e di fatto amministrata da Vito Tignanelli, con il quale il magistrato intratteneva relazioni personali risalenti a circa 20 anni addietro». Affidamenti che, secondo l’accusa, avrebbero procurato un «ingiusto vantaggio patrimoniale» alla Stm srl «in violazione dell’obbligo di imparzialità gravante su ogni pubblico ufficiale». In cambio, avrebbe ottenuto, come «utilità», l’uso di un’utenza telefonica intestata a Marisa Aquino «da epoca anteriore e prossima al 23 dicembre 2015 e fino a tutto il 17 ottobre 2016, avendone assunto la titolarità solo il 17 ottobre 2016». L’ipotesi di falso riguarda poi Facciolla e il maresciallo forestale Carmine Greco, indagato con l’accusa di concorso esterno nell’inchiesta “Stige”: i due, secondo l’accusa, avrebbero concordato la redazione di una relazione falsa, della quale, però, il maresciallo si è assunto la piena responsabilità nel corso dell’incidente probatorio. Infine, si contesta la rivelazione di dati sensibili. «Il riferimento è al fatto di aver fatto scansionare alcuni atti di un procedimento che lo riguardavano personalmente, non in qualità di procuratore – sottolinea Zecca -, ma come parte offesa costituita parte civile». Il provvedimento del Csm, secondo Zecca, dovrebbe far aprire una discussione sull’opportunità di un controllo da parte dei cittadini sui procedimenti disciplinari, i cui atti sono coperti. «Visto quello che accade ed è accaduto sarebbe auspicabile un controllo del popolo anche sui provvedimenti disciplinari – conclude -, visto che c’è stato un momento di disagio nello spostamento dei magistrati sul territorio nazionale e nel conferimento degli incarichi direttivi». Facciolla, secondo il Csm, avrebbe commesso una «grave scorrettezza» nei confronti dei magistrati della Dda di Catanzaro che stavano svolgendo indagini a carico di Spadafora Antonio e di Carmine Greco, nell’ambito dell’inchiesta “Stige”, accusati di 416 bis, «per la possibile interferenza della nota falsa» redatta da Greco nel corso della stessa indagine. Per la sezione disciplinare, risulterebbe accertato, dunquem «tramite la copiosa documentazione trasmessa dalla Procura di Salerno e i documenti prodotti dallo stesso incolpato, la sussistenza del fumus degli illeciti disciplinari». In particolare, il comportamento di Facciolla avrebbe minato «la credibilità indispensabile» per poter continuare a svolgere «con il necessario prestigio» le funzioni requirenti in qualsiasi sede giudiziaria, in quanto risulterebbe lesa non solo «la credibilità personale» del magistrato nella sede di Castrovillari, ma anche quella «della funzione requirente esercitata».
Libri. Il caso Mario Conte. «E se fossi tu l’imputato?», storia di un magistrato morto di malagiustizia. Il Corriere della Sera il 26 settembre 2019. Un accanimento giudiziario durato vent’anni, una lunga battaglia con la rinuncia alla prescrizione e l’assoluzione pochi mesi prima della morte per tumore. Da pubblico ministero a magistrato di Cassazione. Quasi quarant’anni al servizio della giustizia italiana con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed alle mafie ed una paradossale vicenda di malagiustizia che lo ha debilitato fino alla morte prematura. È la storia di Mario Conte (1951-2015), napoletano di nascita, irpino di origini familiari, in magistratura dal 1978, pubblico ministero a Bergamo per lunghi anni, e dal 1992 al 1996 applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo negli anni del grande attacco della mafia allo Stato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino. A lui sabato 28 settembre alle 17.30 il Comune di Villanova del Battista (Avellino) intitolerà la Sala Consiliare del nuovo palazzo comunale “in memoria di un uomo che ha combattuto una vita intera per la giustizia ed ha sempre portato nel cuore il suo paese d’origine”. Alla cerimonia prenderanno parte l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia ed oggi membro della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, il Sindaco di Villanova del Battista, Raffaele Panzetta, il magistrato Gaetano Carlizzi, docente di Teoria dell’argomentazione giuridica all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’oncologo Franco Ionna, direttore del Dipartimento assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici Muscolo-Scheletrici dell’Istituto Nazionale dei Tumori “IRCCS Fondazione Pascale”. Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo come suo primo incarico nel 1978, poi magistrato addetto ai rapporti con l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, Mario Conte nel 1992 a seguito dell’omicidio di Giovanni Falcone fu chiamato come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo e nello stesso anno fu designato a partecipare in rappresentanza della magistratura Italiana al programma di studio sul crimine organizzato e sul traffico internazionale di stupefacenti “Combatting organized crime, narcotics and drug trafficking”. Una carriera brillante che nel 1998 lo aveva portato alle soglie della nomina a magistrato di Cassazione poi bloccata per una gravissima vicenda giudiziaria e riconosciutagli postuma nel 2016 con una lettera del CSM alla famiglia. Una lettera che riconosceva la sua piena estraneità ai fatti dopo quasi vent’anni di battaglie processuali conclusesi con la piena assoluzione dopo che Mario Conte aveva anche rinunciato alla prescrizione per vedere dichiarata la sua innocenza anche nella sostanza dei fatti. Associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso e peculato. Era l’estate del 2003 quando Mario Conte, ricevette un inquietante e inatteso avviso di garanzia. “C’era scritto davvero traffico di stupefacenti? Sono un narcos? Il mio lavoro di pm si era improvvisamente trasformato in attività criminale?”. Così Mario Conte descrive nel suo libro denuncia il suo stato d’animo di quei momenti. “E se fossi tu l’imputato?. Storia di un magistrato in attesa di giustizia” (Guerini e Associati Editore) è stata la sua ultima battaglia prima della sua scomparsa, avvenuta il 2 Ottobre 2015 nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dopo una straziante battaglia con un mieloma multiplo diagnosticatogli nel 2006. “Come medico, mi chiedo quanto questa brutta storia possa avere influito sull’eziopatogenesi della sua malattia. Una malattia che ha affrontato con una dignità incredibile, senza mai autocommiserarsi, ma dialogando con la morte quotidianamente, augurandosi solo di poter avere il tempo di riscattare il suo nome”. Così l’amico Giorgio Gabriele Bani, neurochirurgo all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, sottolineava la probabile correlazione tra la malattia oncologica e la sofferenza per l’incredibile vicenda processuale. Il 15 Luglio del 1997 è la data d’inizio del calvario giudiziario di Mario Conte. Il pm bresciano Fabio Salamone (i cui conflitti di interesse emergeranno proprio nel libro di Mario Conte in maniera dettagliatamente documentata) raccoglie la deposizione di Biagio Rotondo, criminale di lungo corso, che dopo l’ultimo arresto della Questura di Brescia, di fronte ad accuse gravissime (tra cui tentato omicidio e rapina aggravata) si dichiara pronto a collaborare per riferire di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militare del ROS di Bergamo e di Roma e coordinate da Mario Conte che avrebbero costituito una “struttura deviata” per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti al fine di conseguire brillanti operazioni di polizia. Dal luglio 1997 all’estate del 2003 passano sei anni solo per gli avvisi di garanzia. Altri due anni per il rinvio a giudizio. Altri nove anni anni per due gradi di giudizio con l’assoluzione con formula piena per Mario Conte che arriva dalla Corte di Appello di Milano soltanto il 2 Luglio 2014 e soltanto perché Conte aveva scelto di rinunciare ad avvalersi della prescrizione. Una assoluzione che arriva però quando Mario Conte aveva capito di essere prossimo alla sconfitta nella sua battaglia parallela: quella contro il mieloma. Ed è per questo che Mario Conte decide di scrivere un libro-testamento. E lo fa senza acredine ma con un’accurata ricostruzione delle carte processuali “avendo speso gli ultimi 12 anni della mia vita esclusivamente nel ruolo di avvocato difensore di me stesso”, ricorda Conte nel libro, sottolineando “come sia stato quasi fortunato ad aver avuto le competenze e i mezzi per potersi difendere a differenza di tanti cittadini comuni che possono essere travolti dagli errori del sistema giudiziario”. E allora il libro, come scrive Conte, nasce proprio per questo “per sollecitare nelle istituzioni e nella magistratura una riflessione sulle contraddizioni dell’ordinamento giudiziario italiano, su i suoi vuoti e sulle sue possibili degenerazioni, affinché il ruolo del pubblico ministero resti sempre e solo quello di chi deve accertare i fatti e acquisire le prove a carico ma anche a discarico dell’imputato e non quello di un giustiziere che deve ristabilire un ordine sociale violato”. Un libro quello di Mario Conte che, ripercorrendo la sua vicenda giudiziaria con dovizia di documenti e di particolari, diventa anche un manifesto programmatico per una possibile riforma della giustizia o meglio per una serie di piccoli accorgimenti mirati perché, come scrive Conte, “in Italia il vero problema in materia di giustizia non è quello di fare riforme epocali ma di recuperare la distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello stato incapaci di esprimere il proprio ruolo”. Secondo Mario Conte serve un sistema in cui il processo penale “debba solo accertare in tempi ragionevoli se l’imputato è colpevole o innocente oltre ogni ragionevole dubbio, senza nessuna forzatura, senza preconcetti o tesi precostituite da difendere” così come servirebbe prevedere “un rapporto più equilibrato tra imputato e inquirenti restituendo dignità al primo (intesa come rispetto della persone e dei diritti e non dimenticando la presunzione di innocenza) e professionalità ai secondi: elementi essenziali per l’efficienza e l’affidabilità di un sistema giudiziario di uno stato democratico”. Idee semplici e chiare che avranno bisogno di un’immediata applicazione per evitare che in futuro si possano ripetere vicende giudiziarie così paradossali. Del resto il valore assoluto della ricerca della verità e il miglioramento di quel sistema giudiziario per cui ha speso una vita intera sono stati proprio l’obiettivo per cui Mario Conte si è battuto fino all’ultimo respiro.
La storia di Mario Conte, magistrato morto di malagiustizia. La Vocedinapoli.it il 27 settembre 2019. Da pubblico ministero a magistrato di Cassazione. Quasi quarant’anni al servizio della giustizia italiana con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed alle mafie ed una paradossale vicenda di malagiustizia che lo ha debilitato fino alla morte prematura. È la storia di Mario Conte (1951-2015), napoletano di nascita, irpino di origini familiari, in magistratura dal 1978, pubblico ministero a Bergamo per lunghi anni, e dal 1992 al 1996 applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo negli anni del grande attacco della mafia allo Stato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino. A lui sabato 28 Settembre alle ore 17.30 il Comune di Villanova del Battista (Avellino) intitolerà la Sala Consiliare del nuovo palazzo comunale “in memoria di un uomo che ha combattuto una vita intera per la giustizia ed ha sempre portato nel cuore il suo paese d’origine”. Alla cerimonia prenderanno parte l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia ed oggi membro della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, il Sindaco di Villanova del Battista, Raffaele Panzetta, il magistrato Gaetano Carlizzi, docente di Teoria dell’argomentazione giuridica all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’oncologo Franco Ionna, direttore del Dipartimento assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici Muscolo-Scheletrici dell’Istituto Nazionale dei Tumori “IRCCS Fondazione Pascale”.
La storia di Mario Conte da paladino della giustizia a vittima delle falle del sistema giudiziario italiano. Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo come suo primo incarico nel 1978, poi magistrato addetto ai rapporti con l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, Mario Conte nel 1992 a seguito dell’omicidio di Giovanni Falcone fu chiamato come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo e nello stesso anno fu designato a partecipare in rappresentanza della magistratura Italiana al programma di studio sul crimine organizzato e sul traffico internazionale di stupefacenti “Combatting organized crime, narcotics and drug trafficking”. Una carriera brillante che nel 1998 lo aveva portato alle soglie della nomina a magistrato di Cassazione poi bloccata per una gravissima vicenda giudiziaria e riconosciutagli postuma nel 2016 con una lettera del CSM alla famiglia. Una lettera che riconosceva la sua piena estraneità ai fatti dopo quasi vent’anni di battaglie processuali conclusesi con la piena assoluzione dopo che Mario Conte aveva anche rinunciato alla prescrizione per vedere dichiarata la sua innocenza anche nella sostanza dei fatti.
Le dichiarazioni senza riscontri di un pentito per un’accusa scioccante di ‘narcotraffico’ a chi lo aveva combattuto per anni. Associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso e peculato. Era l’estate del 2003 quando Mario Conte, ricevette un inquietante e inatteso avviso di garanzia. “C’era scritto davvero traffico di stupefacenti? Sono un narcos? Il mio lavoro di pm si era improvvisamente trasformato in attività criminale?”. Così Mario Conte descrive nel suo libro denuncia il suo stato d’animo di quei momenti. “E se fossi tu l’imputato?. Storia di un magistrato in attesa di giustizia” (Guerini e Associati Editore) è stata la sua ultima battaglia prima della sua scomparsa, avvenuta il 2 Ottobre 2015 nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo dopo una straziante battaglia con un mieloma multiplo diagnosticatogli nel 2006. “Come medico, mi chiedo quanto questa brutta storia possa avere influito sull’eziopatogenesi della sua malattia. Una malattia che ha affrontato con una dignità incredibile, senza mai autocommiserarsi, ma dialogando con la morte quotidianamente, augurandosi solo di poter avere il tempo di riscattare il suo nome”. Così l’amico Giorgio Gabriele Bani, neurochirurgo all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, sottolineava la probabile correlazione tra la malattia oncologica e la sofferenza per l’incredibile vicenda processuale. Il 15 Luglio del 1997 è la data d’inizio del calvario giudiziario di Mario Conte. Il pm bresciano Fabio Salamone (i cui conflitti di interesse emergeranno proprio nel libro di Mario Conte in maniera dettagliatamente documentata) raccoglie la deposizione di Biagio Rotondo, criminale di lungo corso, che dopo l’ultimo arresto della Questura di Brescia, di fronte ad accuse gravissime (tra cui tentato omicidio e rapina aggravata) si dichiara pronto a collaborare per riferire di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militare del ROS di Bergamo e di Roma e coordinate da Mario Conte che avrebbero costituito una “struttura deviata” per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti al fine di conseguire brillanti operazioni di polizia.
Un calvario giudiziario lungo 20 anni e il libro-testamento “E se fossi tu l’imputato?” Dal luglio 1997 all’estate del 2003 passano sei anni solo per gli avvisi di garanzia. Altri due anni per il rinvio a giudizio. Altri nove anni anni per due gradi di giudizio con l’assoluzione con formula piena per Mario Conte che arriva dalla Corte di Appello di Milano soltanto il 2 Luglio 2014 e soltanto perché Conte aveva scelto di rinunciare ad avvalersi della prescrizione. Una assoluzione che arriva però quando Mario Conte aveva capito di essere prossimo alla sconfitta nella sua battaglia parallela: quella contro il mieloma. Ed è per questo che Mario Conte decide di scrivere un libro-testamento. E lo fa senza acredine ma con un’accurata ricostruzione delle carte processuali “avendo speso gli ultimi 12 anni della mia vita esclusivamente nel ruolo di avvocato difensore di me stesso”, ricorda Conte nel libro, sottolineando “come sia stato quasi fortunato ad aver avuto le competenze e i mezzi per potersi difendere a differenza di tanti cittadini comuni che possono essere travolti dagli errori del sistema giudiziario”. E allora il libro, come scrive Conte, nasce proprio per questo “per sollecitare nelle istituzioni e nella magistratura una riflessione sulle contraddizioni dell’ordinamento giudiziario italiano, su i suoi vuoti e sulle sue possibili degenerazioni, affinché il ruolo del pubblico ministero resti sempre e solo quello di chi deve accertare i fatti e acquisire le prove a carico ma anche a discarico dell’imputato e non quello di un giustiziere che deve ristabilire un ordine sociale violato”.
Le proposte di Conte per una riforma della giustizia. Un libro quello di Mario Conte che, ripercorrendo la sua vicenda giudiziaria con dovizia di documenti e di particolari, diventa anche un manifesto programmatico per una possibile riforma della giustizia o meglio per una serie di piccoli accorgimenti mirati perché, come scrive Conte, “in Italia il vero problema in materia di giustizia non è quello di fare riforme epocali ma di recuperare la distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello stato incapaci di esprimere il proprio ruolo”. Secondo Mario Conte serve un sistema in cui il processo penale “debba solo accertare in tempi ragionevoli se l’imputato è colpevole o innocente oltre ogni ragionevole dubbio, senza nessuna forzatura, senza preconcetti o tesi precostituite da difendere” così come servirebbe prevedere “un rapporto più equilibrato tra imputato e inquirenti restituendo dignità al primo (intesa come rispetto della persone e dei diritti e non dimenticando la presunzione di innocenza) e professionalità ai secondi: elementi essenziali per l’efficienza e l’affidabilità di un sistema giudiziario di uno stato democratico”. Idee semplici e chiare che avranno bisogno di un’immediata applicazione per evitare che in futuro si possano ripetere vicende giudiziarie così paradossali. Del resto il valore assoluto della ricerca della verità e il miglioramento di quel sistema giudiziario per cui ha speso una vita intera sono stati proprio l’obiettivo per cui Mario Conte si è battuto fino all’ultimo respiro.
AL MAGISTRATO MARIO CONTE SARÀ INTITOLATA LA SALA CONSILIARE DI VILLANOVA DEL BATTISTA. Da avellinotoday.it. Da pubblico ministero a magistrato di Cassazione. A Mario Conte, napoletano di nascita, irpino di origini familiari, in magistratura dal 1978, pubblico ministero a Bergamo per lunghi anni, e dal 1992 al 1996 applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo negli anni del grande attacco della mafia allo Stato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita, tra gli altri, i giudici Falcone e Borsellino, verrà intitolata la sala consiliare del Comune di Villanova del Battista alle ore 17.30 di sabato 28 settembre. Alla cerimonia prenderanno parte l’assessore alla Sicurezza della Regione Campania, Franco Roberti, già Procuratore nazionale antimafia ed oggi membro della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, il Sindaco di Villanova del Battista, Raffaele Panzetta, il magistrato Gaetano Carlizzi, docente di Teoria dell’argomentazione giuridica all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’oncologo Franco Ionna, direttore del Dipartimento assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici Muscolo-Scheletrici dell’Istituto Nazionale dei Tumori “IRCCS Fondazione Pascale”. Quasi quarant’anni al servizio della giustizia italiana con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata ed alle mafie ed una paradossale vicenda di malagiustizia che lo ha debilitato fino alla morte prematura. L’amministrazione comunale di Villanova del Battista ha voluto fare questo gesto “in memoria di un uomo che ha combattuto una vita intera per la giustizia ed ha sempre portato nel cuore il suo paese d’origine”.
Palermo, suicida l’ex capo dei gip Vincenti. Era indagato. Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. Choc al Palazzo di Giustizia di Palermo. Si è suicidato Cesare Vincenti, magistrato a lungo presidente della sezione gip-gup del Tribunale del capoluogo siciliano, è prima ancora della sezione Misure di prevenzione. Vincenti era andato in pensione da poche settimane al termine di una carriera lunga (oltre quarant’anni in magistratura) e apprezzata che nell’ultimo periodo era stata scossa da un’indagine giudiziaria. Vincenti e il figlio Andrea, avvocato, erano indagati dal giugno scorso dalla procura di Caltanissetta per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell’ambito dell’indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all’ex patron del Palermo calcio Maurizio Zamparini. Secondo l’ipotesi dei pm nisseni, l’imprenditore friulano avrebbe appreso preventivamente del rischio di una richiesta di custodia cautelare nei suoi confronti. Incredulità in tribunale tra ex colleghi e avvocati. Poche settimane fa Vincenti, che soffriva da mesi di depressione, aveva salutato il personale del Palazzo di giustizia con un brindisi, come da prassi, nel suo ufficio. Oggi, nella tarda mattinata, si è tolto la vita nella sua abitazione palermitana nella zona residenziale di via Sciuti.
Dramma a Palermo, si uccide l'ex capo dei gip Cesare Vincenti: era indagato per il crac del Palermo. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. Si è tolto la vita l'ex capo dei gip del Tribunale di Palermo Cesare Vincenti. Il magistrato, che era andato in pensione da pochi mesi, era indagato insieme con il figlio Andrea, avvocato, dalla Procura di Caltanissetta per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell'ambito dell'indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all'ex patron del Palermo Maurizio Zamparini. Vincenti si è gettato dal balcone. Sono arrivati sul posto il questore di Palermo Renato Cortese, il procuratore capo Francesco Lo Voi, il capo della Mobile Rodolfo Ruperti e il capitano della Compagnia di San Lorenzo maggiore Andrea Senes. Appena arrivato anche il medico legale.
Si suicida l’ex gip Vincenti. «Lasciato solo da tutti». Il Dubbio il 22 novembre 2019. Era indagato per la fuga di notizie sul caso Zamparini. L’accusa degli avvocati: «è vittima del processo mediatico». Ma il suo legale smentisce il collegamento con l’avviso di garanzia di giugno: «era depresso da tempo». Si è tolto la vita il giudice Cesare Vincenti, ex presidente dell’ufficio del gip di Palermo, che ieri si è lanciato dal pianerottolo del quinto piano del palazzo in cui abitava, da una finestra del vano scale che dà sul parcheggio interno. Prima del gesto si trovava con la figlia nel suo appartamento, al terzo piano dello stabile di via Rapisardi. L’ex giudice, andato in pensione a giugno scorso, era indagato assieme al figlio Andrea, avvocato, per corruzione e rivelazione di notizie riservate nell’ambito dell’indagine sulla presunta fuga di notizie relativa all’ex patron del Palermo, Maurizio Zamparini. Un’indagine che, secondo la Camera penale di Palermo, lo avrebbe fatto finire al centro di un processo mediatico che lo ha portato ad essere lasciato solo dai colleghi. Ma a smentire qualsiasi collegamento tra la scelta di suicidarsi e l’indagine è il legale di Vincenti, Paolo Grilli. «L’avviso di garanzia e le indagini della procura di Caltanissetta non hanno nulla a che vedere con quanto successo – ha sottolineato – poiché Vincenti era affetto da un anno dalla depressione. Era refrattario alle cure». Non sono dello stesso avviso, però, gli avvocati di Palermo. «Questo evento – si legge in una nota della Camera penale – costituisce la conseguenza di un perverso circuito mediatico-giudiziario che travolge vita e affetti senza alcun discernimento. Il principio costituzionale di non colpevolezza, unico strumento di contrasto alla gogna mediatica, è un segno di civiltà che deve essere richiamato e ribadito in momenti drammatici come questo – dicono i penalisti -. Una tragedia che si consuma subito dopo il trentennale della scomparsa di Sciascia, che della nostra terra contemporanea ha saputo evidenziarne tratti, contraddizioni e crudeltà». Il dolore per la sua morte corre anche sui social. «Sembra essere un gesto di un uomo di altri tempi, che si ribella contro l’ipocrisia di un mondo in cui lui era controcorrente – scrive su Facebook Stefano Giordano, legale dell’ex 007 Bruno Contrada -. Spero che chi lo ha lasciato solo in vita abbia il pudore di non fare passerelle nel momento delle sue esequie. La sua tragica morte dovrebbe farci riflettere sulle conseguenze dei processi mediatici». L’ex giudice, in magistratura dal 1976, era stato presidente della sezione gip- gup del Tribunale di Palermo e prima ancora della sezione Misure di prevenzione. A giugno, poco prima del pensionamento, aveva ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Caltanissetta. Secondo l’ipotesi investigativa, sarebbe stato lui la talpa in Procura che avrebbe informato Zamparini dell’esistenza di un’indagine a suo carico e del rischio che venisse emessa un’ordinanza di custodia cautelare. Dopo essere finito sul registro degli indagati, come raccontato da alcuni magistrati, era «stato allontanato da quasi tutti i colleghi». Al punto che alla festa di commiato organizzata recentemente al Palazzo di giustizia se n’era presentato solo uno. A salutarlo, dunque, si erano presentati solo avvocati e amministrativi. Nelle prossime ore verrà deciso se disporre o meno l’autopsia. Nel frattempo, i carabinieri hanno acquisito le immagini dell’impianto di videosorveglianza del palazzo.
· Si apre il maxi-processo all’ex prefetto Malfi.
Oltre cento testimoni, decine di avvocati e cinque imputati: si apre oggi il maxi-processo all’ex prefetto Malfi. Andrea Zanello il 7 Novembre 2019 su La Stampa. Oltre 100 testimoni, una decina di avvocati, almeno tre parti civili, cinque imputati. Oggi in Tribunale a Vercelli davanti al collegio presieduto da Enrica Bertolotto si apre il processo nato dall'inchiesta sull' accoglienza dei migranti e che ha coinvolto quelli che erano i vertici della prefettura. Il giudice Claudio Passerini lo scorso giugno ha rinviato a giudizio l'ex prefetto di Vercelli Salvatore Malfi ed il suo vice Raffaella Attianese, ora in servizio a Torino, le funzionarie Cristina Bottieri e Lucia Catelluccio e Gianluca Mascarino, presidente di Obiettivo Onlus (cooperativa favorita secondo le accuse nei bandi per la gestione dell'accoglienza dei migranti). Oggi si terrà l'udienza filtro: dopo eventuali questioni preliminari sarà calendarizzato il dibattimento che si annuncia denso. La lista dei testimoni dovrebbe superare i 100 nomi tra accusa, difesa e parti civili. Le accuse, a vario titolo, mosse dal sostituto procuratore Davide Pretti che ha coordinato l'inchiesta sono turbativa d'asta, abuso d'ufficio, frode, rivelazione di segreto d'ufficio, corruzione, favoreggiamento, maltrattamenti, minacce, estorsione, induzione indebita ad ottenere utilità. Le indagini condotte dalla squadra mobile della questura di Vercelli e dal nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Vercelli e coordinate da Pretti hanno prodotto un'inchiesta che inizialmente era stata affossata dal gip di Vercelli, ma poi resuscitata dal Riesame di Torino che ha accolto gran parte dell'impianto accusatorio della procura. L'inchiesta sulla gestione dell'accoglienza dei migranti tra 2015 e 2016 in provincia di Vercelli è nata da un esposto di alcuni volontari che lavoravano nelle strutture gestite dalla cooperativa Obiettivo Onlus. La procura contesta, tra gli altri, una serie di reati legati alla selezione delle location destinate all’accoglienza, ma anche la gestione dei migranti al loro interno ed episodi per aggirare i controlli. Durante l'indagine però l'inchiesta ha preso una piega diversa aprendo un secondo filone lungo una zona grigia tra pubblico e privato che è costato altre accuse ad Attianese e Malfi, relativamente al modo in cui venivano trattate segretaria e colf del prefetto. Queste ultime due si sono costituite parti civili così come il ministero dell'Interno.
· Olindo Canali. «L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss».
Beppe Alfano, l’assassinio del cronista anti boss cerca ancora una verità. A 26 anni dalla morte la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio di Olindo Canali, il magistrato che era Pm nel processo a esecutori e mandanti. Con l’accusa di aver favorito Cosa nostra. Fabrizio Gatti il 29 novembre 2019 su L'Espresso. L’amore di un padre non smette mai di proteggere la propria figlia, anche se lei ormai è una giovane donna. E Beppe Alfano è un papà pieno di attenzioni. Lo sarà fino alla sera di venerdì 8 gennaio 1993, quando tre proiettili sparati da un revolver calibro 22 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, fermano per sempre l’intelligenza di un giornalista scomodo. Un cronista controcorrente anche oggi, perché le sue simpatie a destra poco si adattano al cliché che vorrebbe gli eroi dell’antimafia schierati solo a sinistra. Così, grazie alla spiccata capacità di guardare dentro l’antropologia della Sicilia orientale, il caso Alfano brucia ancora nella sua irriverente attualità: pochi giorni fa la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio del magistrato che aveva sostenuto l’accusa al processo contro il mandante e l’assassino e ha riaperto le pagine di un giallo che, ventisei anni dopo, è ancora alla ricerca di un finale credibile. L’allora pubblico ministero si chiama Olindo Canali, 64 anni, è nato in Brianza e oggi lavora come giudice del Tribunale di Milano nella sezione specializzata per l’immigrazione. Canali è accusato di corruzione in atti giudiziari: con l’aggravante, scrivono il procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto, Gaetano Paci, di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di Cosa nostra e in particolare della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto. La Barcellona italiana, quella affacciata sul Tirreno, è una città di oltre quarantamila abitanti: dove, trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, la Guerra fredda con i suoi riti occulti non è mai terminata. Un giorno del 1992, qualche mese prima di essere ucciso, proprio per quel sentimento di protezione che ogni genitore esprime, Beppe Alfano, 47 anni, avverte la figlia Sonia, che allora è una ragazza di 22 anni. «Io ero spesso in macchina con mio padre», racconta Sonia Alfano, che nel procedimento di Reggio Calabria si costituirà parte civile contro il giudice Olindo Canali: «Una volta papà vide Saro Cattafi a Barcellona e lui non me lo indicò al momento, me lo disse dopo che ci eravamo passati con la macchina. Mi disse che era preoccupato, dopo che abbiamo incrociato questa persona. Gli ho detto: e chi è? Mi rispose: se Saro Cattafi è qua, vuol dire che deve succedere qualcosa o che c’è qualcosa in itinere. Gli ho detto: perché? Mi disse che era un esperto di armi e di esplosivi». Le piste investigative seguite da Canali, nel ruolo di pubblico ministero della Procura di Barcellona e poi di applicato alla Direzione distrettuale antimafia di Messina, non hanno mai coinvolto l’uomo indicato da Beppe Alfano. Rosario Cattafi era rientrato da poco a Barcellona dopo anni trascorsi a Milano e in Svizzera, impegnato in «attività di intermediazione nel traffico d’armi estero su estero». Così lo definisce nel 1986 il magistrato Francesco Di Maggio della Procura di Milano, chiedendo il suo proscioglimento dall’inchiesta per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati. Oggi Cattafi ha 67 anni e una fedina giudiziaria in punta di diritto: dichiarato colpevole di calunnia e associazione mafiosa senza ruoli direttivi dagli anni Settanta al 1993, dopo il rinvio della Corte di Cassazione è in attesa del giudizio in appello per gli anni dal ’93 al 2000. L’episodio che lo riguarda è ricordato nella memoria con cui Sonia Alfano, assistita dall’avvocato Fabio Repici, si è opposta alla recente richiesta di archiviazione dell’ultima indagine sull’agguato: un fascicolo ancora aperto a Messina, di cui però potrebbe essere disposto il trasferimento alla Procura di Reggio Calabria, competente sui magistrati in servizio nella Sicilia orientale. L’avvocato Francesco Arata, uno dei due difensori di Olindo Canali, spiega che si tratta di una questione già «chiarita, nota, vecchissima: ripresa ora nel contesto e a supporto di una vicenda calunniosa, reiterata dopo l’assoluzione piena di Canali qualche anno fa». Il procuratore Bombardieri e l’aggiunto Paci chiedono comunque il rinvio a giudizio del giudice in concorso con il boss della mafia di Barcellona, Giuseppe Gullotti, 59 anni, e un ex killer, Carmelo D’Amico, 48 anni, oggi collaboratore, secondo il quale alcune dichiarazioni irrituali di Canali e qualche errore procedurale sarebbero stati fatti in cambio della promessa di denaro. Mediatore tra la mafia e il magistrato, sarebbe un medico, Salvatore Rugolo, figlio del precedente capoclan di Barcellona e cognato di Gullotti, il nuovo boss. Il giudice, interrogato un anno fa a Reggio Calabria, respinge le accuse di corruzione e ammette la frequentazione saltuaria con Rugolo tra la seconda metà del 2003 e i primi mesi del 2005. Perché, spiega, tutti dicevano che si era staccato da Gullotti e dal padre e aveva cercato di tirarsi fuori. Il medico nel frattempo è morto in un incidente stradale. I tormentati gradi del processo agli assassini di Beppe Alfano si concludono soltanto nell’aprile 2006: quando diventa definitiva la sentenza a ventuno anni di carcere per Antonio Merlino, ritenuto l’esecutore materiale, che si aggiungono ai trent’anni irrevocabili dal 1999 per il boss Giuseppe Gullotti, riconosciuto come mandante. Ma qualche mese prima, arriva il colpo di scena. A gennaio 2006, Canali spedisce due memorie personali: una all’avvocato della famiglia Alfano, l’altra al giornalista della “Gazzetta del Sud”, Leonardo Orlando, con le quali sostiene che Gullotti era stato condannato ingiustamente per l’omicidio del giornalista e che comunque sulle prove della sua responsabilità gravavano dubbi e perplessità tali da chiedere e ottenere la revisione della condanna. Né il procuratore di Messina, né il capo della Procura di Barcellona vengono però preventivamente informati dal pubblico ministero. Canali in quegli stessi mesi ha già perso il suo incarico alla Direzione distrettuale antimafia: il 30 maggio 2005 rappresenta per l’ultima volta l’accusa al maxiprocesso “Mare nostrum”, poi la sua applicazione viene revocata in seguito agli incontri, documentati dalla polizia giudiziaria, con Salvatore Rugolo, il cognato del mandante dell’omicidio di Beppe Alfano. In cambio di atti contrari ai propri doveri d’ufficio, dichiara ora il collaboratore D’Amico, il magistrato avrebbe accettato la promessa della consegna di trecentomila euro, della quale avrebbe ricevuto una prima parte di cinquantamila, allo scopo di favorire la posizione processuale di Gullotti. Deciderà il giudice per le indagini preliminari se i movimenti sul conto personale sono dovuti alla vendita di beni propri, come Canali ritiene di aver sufficientemente dimostrato. Ma le repliche alla sua versione messa a verbale non sono lusinghiere. Gianclaudio Mango, pm antimafia di Messina ora in pensione, dichiara di essere rimasto sorpreso dai rapporti del collega, perché Rugolo era il figlio di un capomafia ucciso e cognato di colui che veniva considerato il capo della famiglia di Barcellona, nonché imputato dell’omicidio Alfano: sebbene su Rugolo figlio non fosse emerso nulla di penalmente rilevante, almeno all’epoca, tali circostanze avrebbero dovuto sconsigliare Canali dalla frequentazione. Il tenente colonnello dei carabinieri, Domenico Cristaldi, racconta a verbale come già nel 2003 Salvatore Rugolo e il magistrato fossero soliti circolare insieme, a piedi o in macchina, per il centro di Barcellona. E di come abbia notato diverse volte Rugolo a bordo dell’auto di servizio dei carabinieri, sulla quale viaggiava anche Canali. Proprio per questa ragione l’allora capitano Cristaldi decise di ritirare l’auto. Luigi Croce, procuratore a Messina dal 1998 al 2008, ricorda invece di aver chiesto la revoca dell’applicazione di Canali dal maxi-processo “Mare nostrum” dopo una relazione di servizio dei carabinieri, che avevano visto il magistrato a pranzo con il cognato del boss Gullotti in un ristorante fuori Messina. Olindo Canali arriva a Barcellona dalla Procura di Monza il 22 maggio 1992, la vigilia della strage di Capaci. E Beppe Alfano, secondo i suoi colleghi al quotidiano “La Sicilia”, ha con il nuovo pubblico ministero un rapporto confidenziale. Alfano in redazione dice di essere certo che il boss Benedetto “Nitto” Santapaola si nasconda in città. E forse scopre che un apparato statale ne segue la latitanza da vicino, senza arrestarlo. Un ulteriore, possibile testimone è l’avvocato siciliano Ugo Colonna, che è anche il secondo difensore nominato ora da Canali. Interrogato in un altro procedimento dalla Distrettuale antimafia di Messina nel 2002, poco prima che il magistrato brianzolo cominci a turbare colleghi e carabinieri, Colonna spiega il ruolo di Salvatore Rugolo. «A capo di Barcellona c’è il figlio di Rugolo, il medico che è uno importante», dice Colonna. «Il cognato di Gullotti?», chiede il pubblico ministero, Rosa Raffa. «Di Pippo Gullotti», conferma l’avvocato. Ma nella sua ricostruzione storica, una risposta è dedicata anche a Nitto Santapaola, di cui parlano alcuni collaboratori che il legale assiste: «L’intelligenza di Santapaola è quella di mettersi con lo Stato. Mai contro lo Stato perché lo Stato, deviato ovviamente, non fa la giustizia, lo Stato fa gli interessi particolaristici di queste persone: quindi mi devo mettere con lo Stato», aggiunge Ugo Colonna riferendosi ai mafiosi, «perché nel momento in cui mi distacco dallo Stato, in sostanza, vengo combattuto». Barcellona, secondo Colonna, è ormai al vertice: «I gruppi di Riina e di Santapaola vengono buttati via dopo le stragi, no? I barcellonesi sono la nuova Cosa nostra». Aveva scoperto questo, Beppe Alfano? E con chi ne aveva parlato? Gullotti intanto non perde l’occasione. Già ha evitato l’ergastolo perché, pur condannato come mandante dell’omicidio, nella richiesta di rinvio a giudizio il pubblico ministero di Barcellona non gli aveva contestato l’aggravante della premeditazione. Ma oggi può addirittura sperare di tornare libero. Le due memorie scritte dal magistrato al di fuori del rito giudiziario, cioè il presunto corpo del reato nel procedimento penale che riguarda sia Canali sia il boss, hanno avuto un’incredibile conseguenza legale. Il 10 ottobre 2019 la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dopo aver accolto l’istanza dei difensori, ha avviato il giudizio di revisione a favore di Giuseppe Gullotti. Dal carcere di Parma, il capomafia si prepara a una seconda vita. I figli e la moglie di Beppe Alfano a un nuovo, ingiusto dolore.
«L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss». Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Olindo Canali, oggi in servizio a Milano, è accusato di «corruzione in atti giudiziari». I pm: «Deve andare a processo». Lui: «Niente prescrizione». Per i pm che lo accusano è un giudice (oggi in servizio a Milano) che da pm in Sicilia si fece corrompere per proteggere due triplici killer e il boss mafioso mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano. Per la difesa è invece un giudice che rinuncia alla prescrizione e chiede un processo-lampo sulle accuse false e tardive (oltre i 180 giorni) di un collaboratore di giustizia che riferisce parole di un morto su fatti di 19 e 11 anni fa. Il risultato attuale è che la Procura di Reggio Calabria chiede il rinvio a giudizio di un giudice civile molto stimato dai colleghi milanesi, Olindo Canali, per due ipotesi di «corruzioni in atti giudiziari» aggravate dall’aver agevolato il clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto del boss Giuseppe Gullotti quando là a fine anni ‘90 Canali era pm. Dop che Canali chiese la condanna a 30 anni di Carmelo D’Amico e Salvatore Micale per un triplice omicidio del 1993 ma gli imputati furono assolti in primo grado il 20 novembre 1999, l’assoluzione divenne definitiva perché il pm depositò l’appello non entro il termine del 3 aprile 2000 ma il 7 aprile (pur con data 3 aprile), e poi il 14 aprile vi rinunciò «per errore di calcolo». Ora la Procura di Reggio Calabria, sulla scorta di dichiarazioni nel 2015 proprio di D’Amico divenuto collaboratore nel 2014, collega l’errore a «100 milioni di lire promessi a Canali», che così si sarebbe «adoperato per condizionare l’esito del processo». Il giudice ribatte che l’appello in ritardo fu davvero un errore; che nemmeno pg e parti civili appellarono; che i capi, pur se non lo ricordano, erano informati; e che è contraddittorio che D’Amico racconti anche d’aver nel 2002 cercato un modo per ricattare il pm se già nel 2000 l’aveva comprato. Per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano l’8 gennaio del 1993, dopo un’iniziale assoluzione, su ricorso di Canali furono poi condannati in via definitiva i ritenuti esecutore Nino Merlino (21 anni) e mandante Giuseppe Gullotti (30 anni). Il 9 marzo 2009, nel processo d’appello «Mare Nostrum» per associazione, l’avvocato di Gullotti, Franco Bertolone, depositò un anonimo che disse trovato nella posta, e che additava la condanna di Gullotti ingiusta e meritevole di revisione. L’aveva redatto nel 2006 proprio Canali, il quale per i pm reggini lo «inviò il 9 gennaio 2006 all’avvocato Fabio Repici» (parte civile per la figlia di Alfano, Sonia) e «l’11 gennaio al giornalista Leonardo Orlando», dicendogli di renderlo pubblico in caso di arresto: timore del pm, all’epoca, per le polemiche sulla sua frequentazione del medico Salvatore Rugolo, consulente giudiziario ma figlio del boss barcellonese e cognato del capomafia Gullotti. Dopo 2 anni Repici nel 2008 depositò lo scritto ai pm di Messina, ai quali in dicembre Canali ne ammise la paternità. Poi in aula lo tirò fuori pure il legale di Gullotti, Canali fu chiamato teste il 15 aprile 2009, lo spiegò come momento di sconforto e isolamento, fu denunciato da Repici per falsa testimonianza, condannato in primo grado a 2 anni ma assolto in via definitiva a Messina nel 2013 «perché il fatto non sussiste». Adesso l’accusa stilata dal procuratore aggiunto reggino Gaetano Paci è che Canali abbia scritto il memoriale (pervenuto non si sa come anche al legale di Gullotti che l’utilizzò per cercare di ottenere la revisione della condanna definitiva del boss) in cambio del denaro («50.000 euro» su «300.000 promessi») che il collaboratore D’Amico asserisce d’aver consegnato nel 2008 a Rugolo intermediario di Gullotti. Rugolo non può confermare perché è morto il 26 ottobre 2008, ma l’accusa valorizza «le espresse indicazioni fornite da Gullotti mediante la corrispondenza epistolare con la sorella Fortunata dal carcere di Cuneo» (in regime di 41 bis) in 7 lettere tra giugno e dicembre 2008, specie nella frase «si devono portare i soldi» a un legale. I difensori Francesco Arata e Ugo Colonna obiettano che Canali già dal 2005 non aveva più con Rugolo i rapporti iniziati solo nel 2001; che nel 2006 Gullotti denunciò Canali incolpandolo della propria condanna; e che tutti i conti bancari forniti dal giudice provano la liceità dei soldi usati per una casa. Inoltre la difesa, in forza di relazioni del Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segnala ai pm che l’avvocato di parte civile Repici, come assistente dell’allora parlamentare Sonia Alfano, nel 2012 sia entrato in carcere con lei e con il senatore Beppe Lumìa a colloquio con il boss Gullotti proprio anche sul processo.
· Giorgio Alcioni. Il giudice prepotente cacciato dal Csm dopo la condanna.
Nonostante 2 anni e 8 mesi per concussione continuava ad amministrare la giustizia. Luca Fazzo, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. C'è voluta una condanna per concussione a due anni e otto mesi di carcere perché Giorgio Alcioni, giudice del tribunale di Milano, finisse sanzionato dal Consiglio superiore della magistratura. Una carriera costellata di contestazioni disciplinari, anche per fatti disdicevoli, era finora proseguita senza scossoni e Alcioni continuava fino a pochi giorni fa ad amministrare giustizia in nome del popolo italiano nella sua stanza al sesto piano del Palazzo di giustizia. Anzi, dopo la condanna per concussione, aveva ottenuto che il presidente del tribunale, Roberto Bichi il mese scorso lo scegliesse tra altri aspiranti per il posto che aveva richiesto alla tredicesima sezione civile, quella che si occupa di sfratti e di locazioni. Una destinazione singolare, visto che proprio da una storia di liti condominiali è scaturita la condanna di Alcioni. Ma l'articolo del Giornale che lo scorso 8 maggio aveva resa nota la condanna di Alcioni, non è passato inosservato. Il giudice è finito sotto procedimento disciplinare e nei giorni scorsi il Csm ha disposto la sua sospensione cautelare dall'incarico. È un provvedimento provvisorio e d'altronde anche la condanna inflitta ad Alcioni non è definitiva. Ma almeno cesserà l'imbarazzante spettacolo di un giudice ritenuto colpevole di un reato grave che continua come se nulla fosse a distribuire torti e ragioni. A rendere nota la sospensione di Alcioni è stato il presidente Bichi, con una circolare che spiega che solo il 16 luglio scorso il tribunale di Milano ha avuto notizia del provvedimento emesso dal Csm a carico di Alcioni che è stato collocato «fuori ruolo». E il posto che gli era stato assegnato alla tredicesima sezione viene riassegnato alla seconda classificata. La condanna a due anni e otto mesi di Alcioni è stata decisa dal tribunale di Brescia, al termine di un processo in cui sono state esaminate una lunga serie di prepotenze - per usare un eufemismo - messe in campo dal magistrato per impedire che un bar, il «Birillo» di viale Monte Nero, si trasferisse sotto casa sua, nel palazzo prospicente. Alcioni era arrivato al punto di fare irruzione negli uffici del Comune cercando di impadronirsi della pratica: «Se voglio, io il fascicolo lo visiono lo stesso. Lo faccio sequestrare e me lo porto a casa». Al barista aveva detto più volte «lei questo bar non lo aprirà mai, lei è a conoscenza del lavoro che svolgo?». La cosa singolare è che il primo procedimento disciplinare a carico di Alcioni risalga addirittura al 1996, quando era pretore ad Abbiategrasso e l'Ordine degli avvocati denunciò una serie di comportamenti anomali, tra cui usare come proprie auto sequestrate e di portare i suoi cani negli spazi del tribunale. Poi nel 2006 era finito nuovamente sotto procedimento disciplinare per avere condannato una società a pagare alla controparte un risarcimento di ben 600mila euro senza motivare la sentenza. Tutte le volte se l'era cavata senza conseguenze. Ed evidentemente questo lo ha convinto di poter continuare a fare quello che gli pareva.
· Foggia, la giudice Lucia Calderisi «furbetta del cartellino».
Foggia, la giudice «furbetta del cartellino» condannata dalla Corte dei conti. Per 8 anni la donna «risultava sempre in servizio o assente giustificata per ragioni di servizio (con permessi retribuiti)», mentre durante le udienze avrebbe dovuto risultare assente dal servizio per poi recuperare le ore perse. Massimiliano Scagliarini il 16 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Dal 2006 al 2013 nel Tribunale di Foggia ha operato un magistrato onorario «assenteista», che ha prima svolto funzioni giudicanti e quindi - dal 2010 al 2016 - quelle di vice-procuratore onorario. Dimenticandosi però, una volta cambiato incarico, di chiedere l’autorizzazione alla Provincia di Foggia di cui è dipendente. «Chi ha occultato l’assenza dal servizio e si è procurato un ingiusto profitto è lo stesso soggetto che ha amministrato la Giustizia in nome del Popolo italiano», hanno scritto i giudici della Corte dei conti pugliese condannando Lucia Calderisi, 50 anni, avvocato nell'ufficio legale dell’ente, a risarcire circa 67mila euro. La decisione della magistratura contabile (presidente Raeli, relatore Iacubino) arriva dopo una indagine della Finanza che due anni fa aveva già portato il Tribunale di Lecce a condannare la Calderisi per truffa aggravata a due anni con interdizione dai pubblici uffici: condanna appellata e a rischio di prescrizione. Anche la Corte dei conti ha dovuto ridurre per prescrizione le richieste dell’accusa, rappresentata dal vice-procuratore contabile Antonio D’Amato (il fascicolo era stato aperto dal collega Pierpaolo Grasso), che aveva quantificato il danno in circa 97mila euro. L’indagine, nata da una denuncia, ha infatti accertato - è detto in sentenza - che la donna «risultava sempre in servizio o assente giustificata per ragioni di servizio (con permessi retribuiti, il che, sostanzialmente, è la stessa cosa)», mentre invece durante le udienze avrebbe dovuto risultare assente dal servizio per poi recuperare le ore perse. Da qui la condanna a restituire 4.230 euro, pari agli stipendi da funzionaria della Provincia che avrebbe ottenuto attestando «in modo fraudolento la presenza in ufficio o lo svolgimento di attività d’ufficio». Nel 2010 la Calderisi ha partecipato al bando del ministero della Giustizia per vice-procuratore onorario, risultando vincitrice e prendendo servizio (nel 2011) in Procura a Foggia. Dimenticando però - secondo l’accusa - di chiedere l’autorizzazione alla Provincia: quella che le era stata concessa nel 2001 come giudice onorario, quando era ancora una semplice impiegata, per la Corte dei conti non è infatti valida. Dal 2013 al 2015, peraltro, la funzionaria era in aspettativa per frequentare un dottorato all’Università di Bari, e anche in questo caso avrebbe «dimenticato» di rendere noto l’incarico giudiziario. La legge in questi casi è chiara: i compensi ricevuti tornano allo Stato. Ed ecco che, tolti gli anni dal 2010 al 2012, ormai prescritti, l’ex magistrato onorario restituirà altri 61mila euro, oltre a 2.500 euro per il danno di immagine causato alla Provincia.
· La dolce vita dei Bancarottieri.
LA DOLCE VITA DEI BANCAROTTIERI MILIARDARI FRA VINI, CAVALLI E NUOVE SPECULAZIONI - DA CRAGNOTTI A MUSSARI FINO A CALISTO TANZI E GIANNI ZONIN, ECCO CHE FINE HANNO FATTO GLI UOMINI AL CENTRO DEGLI SCANDALI - C'È CHI HA ABBINDOLATO 30 MILA INVESTITORI E CONTINUA A TENERE CORSI SU COME METTERSI IN PROPRIO - E C'È CHI HA PRELEVATO I SOLDI DAI CONTI CORRENTE DEI SOCI, MORTI COMPRESI, HA MEZZO DISTRUTTO UN PAIO DI BANCHE, MA NONOSTANTE QUESTO…Pubblichiamo un estratto del servizio di copertina del nuovo numero di Panorama, da oggi in edicola. Francesco Bonazzi ha firmato l’inchiesta «Bancarottieri d’Italia» sugli imprenditori che hanno provocato crac miliardari. Uscendone spesso quasi illesi. Ecco che fine hanno fatto Calisto Tanzi, Sergio Cragnotti e Giovanni Zonin. Articolo di Francesco Bonazzi pubblicato da “la Verità” il 20 giugno 2019. C' è chi ha abbindolato 30.000 investitori, ma continua a tenere corsi su come mettersi in proprio [...]. E c' è chi ha prelevato i soldi dai conti corrente dei soci, morti compresi, ha mezzo distrutto un paio di banche, ma nonostante questi successi è tornato a comprare e vendere quote di istituti di credito. [...]
Sergio Cragnotti, 79 anni, è stato patron della Lazio dal 1992 al 2003 [...]. Si è fatto sei mesi di carcere preventivo, ha incassato condanne, annullamenti della Cassazione e rinvii in un lungo calvario giudiziario che dopo 15 anni non è ancora concluso. Comunque vada a finire, la Cirio sbriciolò come croste di pane 1,1 miliardi di euro a oltre 35.000 investitori. E Cragnotti [...] a Roma non lo si vede mai. Manda avanti la tenuta agricola Corte alla Flora a Montepulciano, in Toscana, dove scontò gli arresti domiciliari e che oggi è intestata ai figli, e gira per il Centro Italia a promuovere i suoi vini in ristoranti e alberghi.
Calisto Tanzi ha appena un anno di più di Cragnotti, al quale è spesso accomunato perché come lui si muoveva sotto l' ala protettiva del banchiere romano Cesare Geronzi [...]. Il fallimento Parmalat pende su di lui [...]: un buco da 14,3 miliardi di euro e 145.000 risparmiatori danneggiati. Dal 2003 a oggi Tanzi è stato sotterrato di condanne, poi in qualche modo riviste e ridotte fino alla metà, circa 19 anni di carcere. Considerata l'età, ha ottenuto i domiciliari e ora anche la semilibertà, che significa poter uscire di casa tre ore al mattino, vicino a Parma. [...] Passa la giornata a fare il nonno e il giardiniere, nel parco di casa. Da fervente cattolico, sa che alla lunga si raccoglie quel che si semina. Ma nel Vangelo c'è anche una parabola che racconta la storia dell'amministratore infedele, ovvero colui che, quando capisce che il padrone sta per licenziarlo, chiama i debitori (del padrone, ovvio) e concede loro ampi sconti. [...]
Come deve aver fatto l'ex banchiere «cattolicissimo» Giampiero Fiorani, che ai tempi della sua Popolare di Lodi era di casa in Liguria (nel 2003 comprò il Banco di Chiavari). Nell'ottobre 2015, per i danni causati dalla scalata Antonveneta del 2005, risarcì la Banca Popolare di Lodi con 34 milioni di euro. Ma Fiorani (classe 1959), dopo una condanna a due anni e mezzo, dall' estate del 2014 è tornato in pista. L' ex banchiere vive a Lodi, ma è il braccio destro di Gabriele Volpi, l'imprenditore di Recco che ha accumulato fortune enormi in Nigeria lavorando nella logistica per l' Eni.
Volpi [...] ha investito oltre 100 milioni di euro per acquisire il 9% della Carige, che oggi è sospesa in Borsa e di milioni ne vale a stento 90 [...]. C'è chi invece vorrebbe scomparire, ma alla fine lo trovano sempre. Come Giuseppe Mussari, penalista calabrese che nell'era pre Bce dei banchieri «del territorio» fu fatto presidente del Monte dei Paschi di Siena. È passato alla storia per aver aperto una voragine nella banca più antica del mondo comprando per 10 miliardi Antonveneta. Vive in un coagulo di villette intestate alla moglie, a pochi chilometri da Siena. Cucina e va a cavallo all'alba. [...] Al centro di varie inchieste, Mussari sta aspettando la sentenza per i derivati appioppati al Montepaschi e per operazioni immobiliari disastrose. A Milano, i pm hanno chiesto per lui 8 anni di carcere e 4 milioni di multa. [...]
Chi ha solo cambiato casa è Giovanni Zonin, per 19 anni dominus incontrastato della Popolare di Vicenza e della controllata Banca Nuova, l' istituto siciliano che gestiva i soldi dei servizi segreti e all' interno della quale si sarebbe mossa, secondo Report e per la Procura di Caltanissetta, la rete spionistica gestita da Antonello Montante, l'ex numero due di Confindustria. L'appartamento nel centro di Vicenza è chiuso e sbarrato. La tenuta nella vicina Gambellara è affidata ai figli. Zonin e consorte si sono spostati tra i vigneti di Terzo d' Aquileia, in Friuli, dove possono andare a cena fuori senza che tutta la sala si metta a rumoreggiare. L'ex banchiere torna a Vicenza solo per il processo di primo grado, che non finirà prima della prossima primavera, dove si mostra sempre sorridente. [...] La prescrizione marcia inesorabile. [...]
Pop.Vicenza, la sorella del giudice frena il maxi processo a Zonin&C. Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Corriere.it. È tutto assolutamente regolare ma il rischio non poteva essere previsto prima? Non poteva astenersi la sorella? Questo è un procedimento gigantesco con 9mila parti civili, 400 avvocati, un milione di pagine di atti (che il nuovo giudice dovrà pur leggersi, sommariamente). È partito il 24 gennaio e imputati per aggiotaggio, ostacolo alle autorità di Vigilanza e falso in prospetto, sono l’ex presidente Zonin, l’ex consigliere Giuseppe Zigliotto e alcuni dirigenti. Per 18 tra ex consiglieri e membri del collegio sindacale i pm Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori hanno già chiesto l’archiviazione perché, in sintesi, «non sapevano» delle manovre illecite, in particolare le operazioni «baciate». In sostanza erano professionisti di altissimo livello (avvocati, professori di economia, industriali, commercialisti) pagati bene dai soci per gestire, controllare, chiedere, informarsi, pretendere, obiettare più che avallare, passare carte, brindare. Le indagini, evidentemente, hanno appurato che non hanno saputo né capito cosa stava succedendo sotto i loro occhi. Ora si attende che il gip confermi l’archiviazione oppure ordini un supplemento di indagini, ammesso che la procura vicentina ne abbia le forze. Intanto l’intoppo dei fratelli Miazzi, così come qualsiasi piccolo ritardo, avvicina il rischio prescrizione cioè «il limite – dice l’avvocato vicentino Renato Bertelle – oltre il quale i cittadini e i risparmiatori non avranno giustizia». Altri legali di parte civile sostengono che adesso i difensori degli imputati vorranno rifare quanto è già stato acquisito come, per esempio, le testimonianze. «Puntiamo a chiudere il processo relativo alle vicende del dissesto della Banca Popolare di Vicenza entro il 2020 abbiamo fissato un calendario di udienze serrato», diceva il presidente del collegio Miazzi giovedì 24 gennaio 2019. Poi è spuntato l’incarico della sorella avvocato.
· Sbirri. Sarebbe ora di chiedere scusa.
Caso Cucchi a Roma, a processo Casarsa e altri sette carabinieri per depistaggio. Ilaria: "Momento storico". Prima udienza il 12 novembre, si apre così un quarto processo per il decesso del geometra romano. L'allora comandante dei carabinieri della capitale aveva dichiarato di aver avuto informazioni solo dal suo superiore dell'epoca, Vittorio Tomasone. La sorella: "Tutto iniziato grazie a Casamassima". La Repubblica 16 luglio 2019. Sono stati rinviati a processo otto militari dell'Arma, tra cui alti ufficiali, imputati nell'ambito dell'inchiesta sui presunti depistaggi relativi alle cause della morte di Stefano Cucchi. Si apre un quarto processo che vede alla sbarra la catena di comando dei carabinieri che - secondo le accuse - avrebbe prodotto falsi per sviare le indagini. La prima udienza è fissata per il 12 novembre. Tra militari coinvolti, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono indagati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'inchiesta coinvolge anche Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Cianni.
I capi di imputazione. Scrive il pm: "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano secondo cui Cucchi lamentava dolori al costato e che non poteva camminare, ndr) fosse modificato nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo Musarò, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che 'Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidita' della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Gli indagati rispondono di falso anche in merito alla annotazione di servizio, sempre del 26 ottobre del 2009 redatta dal carabiniere scelto Gianluca Colicchio (non indagato), "indotto a sottoscrivere il giorno dopo una nota in cui falsamente attribuiva allo stesso Cucchi 'uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza', omettendo ogni riferimento ai dolori al capo e ai tremori manifestati dall'arrestato". Il tutto "con l'aggravante di volere procurare l'impunità dei carabinieri della stazione appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso". Sabatino e Testarmata, che erano stati delegati dalla procura ad acquisire nuove carte nell'ambito dell'indagine bis, ebbero modo di rendersi conto (nel novembre del 2015) della falsita' di queste annotazioni del 2009 ma evitarono di segnalare la cosa all'autorita' giudiziaria, favorendo così gli autori degli stessi falsi. Testarmata poi, una volta scoperto che era stato alterato il registro di fotosegnalamento dell'epoca con il nome di Cucchi "sbianchettato", non solo non acquisi' il documento originale, come gli era stato ripetutamente detto da due colleghi, ma neppure riporto' la circostanza nella relazione di servizio. Tra gli otto militari dell'Arma rinviati a giudizio figura De Cianni che in una nota di pg accuso' Casamassima, pur sapendolo innocente, di aver fatto dichiarazioni gradite alla famiglia Cucchi dietro la promessa di soldi da parte di Ilaria, sorella di Stefano. Casamassima, che per aver collaborato con la magistratura e aver dato un impulso significativo alle nuove indagini ha subito pressioni e ritorsioni, compreso un trasferimento ad altro incarico e relativo demansionamento, gli avrebbe riferito che Cucchi la sera dell'arresto tento' gesti di autolesionismo e che fu solo schiaffeggiato, non certo pestato. Dichiarazioni false che De Cianni ha confermato anche in un interrogatorio fatto alla squadra mobile.
Ilaria Cucchi: "Momento storico grazie a Casamassima". "Possiamo dire che la decisione del gup rappresenta un momento storico e significativo per noi. Tutto è cominciato per merito di Riccardo Casamassima (il carabiniere supertestimone che ha fatto riaprire l'inchiesta, ndr)". E' il primo commento, a caldo, di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al rinvio a giudizio di otto militari dell'Arma per la vicenda legata ai depistaggi. "Dieci anni fa, mentre ci battevamo in processi sbagliati - ha aggiunto Ilaria - non immaginavamo neanche quello che stava avvenendo alle nostre spalle e sulla nostra pelle. Oggi poi abbiamo assistito a uno scaricabarile con il generale Casarsa che ha raccontato che le cause della morte di Stefano gli furono dettate dal generale Tomasone".
Casarsa si difende: "Uniche informazioni mediche dal mio superiore". "Io non ho mai avuto contatti con i magistrati né con i medici legali. Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009, quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti". Si era difeso così, nel corso di una dichiarazione spontanea resa di fronte al Gup, Alessandro Casarsa. Il generale aveva chiamato in causa il suo diretto superiore, il generale Vittorio Tomasone (ex comandante provinciale di Roma e da gennaio 2018 comandante interregionale Ogaden), pur senza mai nominarlo direttamente. Casarsa era il comandante del Gruppo Roma, quando Stefano Cucchi venne arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti, picchiato in caserma e poi deceduto all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo.
Tomasone: "Quello di Cucchi fu arresto normale". Fino a oggi Tomasone era entrato nella vicenda Cucchi solo in relazione alla sua deposizione avvenuta il 27 febbraio scorso, nella veste di testimone, nel processo in corso davanti alla corte d'assise dove figurano imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati dal pm Giovanni Musarò di omicidio preterintenzionale. "Per me quello di Cucchi era stato un arresto normale - aveva detto quel giorno in udienza Tomasone -. Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del Gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto fino alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Per l'attuale comandante interregionale Ogaden, "tutto portava ad escludere qualsiasi coinvolgimento dei carabinieri in questa storia". Rispondendo al pm, poi, Tomasone aveva escluso con forza di essersi mai interessato delle questioni medico-legali legate alle cause della morte di Cucchi. E a proposito di un atto interno all'Arma del primo novembre 2009, esibito in udienza dal magistrato, proprio a firma del generale, in cui venivano presi per buoni gli esiti (parziali) dell'autopsia, che la procura all'epoca non poteva conoscere anche perchè doveva essere integrato il pool dei suoi consulenti tecnici, il generale Tomasone aveva fornito questa spiegazione: "Confermo di non essermi mai interessato degli accertamenti medico legali così come escludo di aver mai parlato con i consulenti. Posso immaginare di aver raccolto queste informazioni sulla base di quanto giratomi dal comandante del gruppo Roma, ma non so se lui abbia interloquito con i medici".
Saul Caia per il “Fatto quotidiano” il 10 luglio 2019. L' ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è stato rinviato a giudizio a Roma per abuso d' ufficio, insieme al generale Antonio Bacile, ex comandante regionale della Sardegna, e Gianni Pitzianti, delegato del Cocer-Cobar Sardegna, l'organismo sindacale dell'Arma. Il gup Andrea Fanelli li ha invece prosciolti dall' accusa di omissioni di atti d' ufficio. Il caso, di cui il Fatto Quotidiano si è occupato nel novembre 2017 e lo scorso aprile, trae origine dall' inchiesta della Procura di Sassari sui trasferimenti, nel 2015, del comandante provinciale di Sassari, colonnello Giovanni Adamo, del capitano Francesco Giola e del luogotenente Antonello Dore, a capo rispettivamente della compagnia e del nucleo operativo di Bonorva (Sassari). Comincia tutto con l'indagine del pm Giovanni Porcheddu su una colluttazione tra due carabinieri e un 45enne, fermato a Pozzomaggiore. Per i militari l'uomo ha commesso resistenza a pubblico ufficiale, ma un collega presente li smentisce. Il pm li intercetta e scopre che i carabinieri di Bonorva, oltre ad aver programmato una spedizione punitiva a Poggiomaggiore contro i colleghi, auspicavano che i loro superiori fossero trasferiti. I tre comandanti "puniti" avevano mosso contestazioni ai loro militari: dall' abbigliamento non corretto ai comportamenti inadeguati durante in servizio. Ma il sindacato Cobar-Cocer si era schierato a difesa dei sottoposti contro Adamo, Giola e Dore. Nel marzo 2017 il pm Porcheddu invia gli atti a Roma per Del Sette, Bacile e Pitzianti. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall' Olio, il 6 ottobre 2017, chiedono l' archiviazione. Per loro mancano gli "elementi costitutivi" dell' abuso d' ufficio, "sia dal punto di vista dell' elemento oggettivo che di quello soggettivo", perché "non risultano rapporti diretti tra gli indagati, né accordi collusivi tra gli stessi volti a sfavorire il colonnello Adamo o gli altri militari". Ma il gip Clementina Forleo, il 29 marzo scorso, ordina ai pm l'imputazione coatta per tutti e tre gli indagati. Secondo il giudice le intercettazioni acquisite, dimostrano il "coinvolgimento" di "esponenti del Cobar Sardegna (Pitzianti) e di taluni vertici dell' Arma che avrebbero dovuto occuparsi di dare "una lezione" a chi aveva correttamente e doverosamente svolto i suoi compiti istituzionali oltre che i suoi doveri civici". Inoltre Pitzianti, delegato sindacale del Cocer-Cobar, avrebbe fatto pressioni su Bacile "affinché si attivasse per punire" Dore, Giola e Adamo. Il gip sottolinea "la visita del Comandante Del Sette a Bonorva il 21 agosto 2015", quando "Giola riferiva di essere stato aggredito verbalmente" dal generale, che avrebbe permesso solo a Pitzianti di esporre il suo punto di vista, di fatto ribaltando le gerarchie. A Roma, l' ex comandante dell' Arma è imputato per favoreggiamento (con l' ex ministro Luca Lotti) e rivelazione di segreto d' ufficio nel processo Consip. Del Sette avrebbe rivelato a Luigi Ferrara, all' epoca presidente Consip, l' esistenza di un' indagine sull' imprenditore Alfredo Romeo, invitandolo a essere cauto nelle comunicazioni. I vertici Consip bonificarono gli uffici dalle microspie piazzate dai carabinieri del Noe.
IL CASO CUCCHI FA ESPLODERE L'ARMA DEI CARABINIERI. (ANSA il 9 aprile 2019.) - "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile nel caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". Lo afferma all'ANSA - parlando del comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri - il colonnello Sergio De Caprio, presidente del Sindacato italiano militari Carabinieri, noto come Capitano Ultimo.
Capitano Ultimo contro il comandante dell'Arma "Parte civile? Si dimetta". Il colonnello De Caprio contro il generale Nistri che ha deciso di costituire l'arma parte civile nel processo per la morte di Stefano Cucchi, scrive Giovanni Neve, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile sul caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". A dirlo è il colonnello Sergio De Caprio, conosciuto come il "Capitano Ultimo" e attuale presidente del Sim (Sindacato Italiano Militare) Carabinieri che incalza così il comandante generale dell'Arma, il generale Giovanni Nistri. "Per dieci anni i vertici dei carabinieri hanno ignorato e negato il caso Cucchi. Solo ora se ne accorge", dice De Caprio parlando della morte di Stefano Cucchi come riporta Tgcom24, "Qualcuno dirà meglio tardi che mai. Invece, no è troppo tardi. E noi carabinieri ci sentiamo parte lesa per questo ingiustificabile ritardo. Le lettere del generale Nistri non mi interessano. Non è questione di chiedere scusa. Mi interessano i fatti e i fatti sono un silenzio lunghissimo. Non lo dico io, lo dice il calendario. L'Arma vuole fare piena luce? Stiamo parlando di ovvietà e banalità. La violenza va condannata sempre e i responsabili vanno perseguiti, anche se si trovano all'interno della nostra istituzione: alla fine ci si è arrivati, ma con tantissimo ritardo rispetto ai fatti. Ora bisogna indagare e capire come mai e la procura lo sta facendo benissimo. Il sindacato dei carabinieri è con la famiglia Cucchi e con tutte le vittime di violenza. Nessuno potrà strumentalmente allontanarci da Ilaria Cucchi e dalla sua famiglia. Siamo da sempre accanto alle vittime e per le vittime contro ogni abuso e non al servizio di altri padroni. Da carabinieri, ci sentiamo parte lesa dall'assenza e dall'incapacità del vertice dell'Arma, che per dieci anni ha ignorato e negato l'esistenza stessa del caso Cucchi'. Vorremmo sapere perché, come tutti i cittadini".
Dal caso Cucchi all’omicidio Di Gennaro, la catarsi dell’Arma che sa chiedere scusa. Le macchie non cancellano i tanti meriti, dalla lotta alle cosche e al terrorismo fino al Peace keeping. La fiducia della gente sfiora il 70%, scrive Fabio Evangelisti il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il suo nome era Vincenzo Di Gennaro. Enzo per gli amici. Cullava sogni e coltivava speranze. Come ciascuno di noi. Aveva 47 anni e una compagna, Stefania. Presto si sarebbe sposato. Invece, in un sabato di aprile, in una piazzetta di un paese alle pendici del Gargano, quell’uomo è morto. Ammazzato soltanto perché indossava la divisa dei Carabinieri. Immediatamente la notizia è rimbalzata su tutti i siti e i social. Poi sono arrivate le televisioni e la carta stampata. E un coro unanime s’è levato nel Paese. Tutti stretti nel cordoglio e nella vicinanza all’Arma. Mentre una bandiera tricolore veniva poggiata come un velo pietoso sulla macchina con la striscia stilizzata sulla carrozzeria. Come se quel sangue versato su quella piazza di Cagnano Varano rappresentasse la catarsi, la purificazione dell’Arma dopo una settimane ( e mesi) di dolorosa passione. Dapprima la lettera del generale Giovanni Nistri alla famiglia Cucchi. Non soltanto scuse per le botte che avevano portato a morte Stefano. Soprattutto la denuncia delle falsità e del depistaggio perpetrato dai propri commilitoni. Fino a ipotizzare la costituzione dell’Arma come parte civile nel processo in corso. Poi le immagini e la voce in tv di Francesco Tedesco, uno dei militari imputati per quell’omicidio che è diventato il super teste contro i colleghi coimputati. Quindi le polemiche seguite alle parole di Sergio De Caprio. Il famoso “Capitano Ultimo” ( noto per aver arrestato Totò Riina, il boss di Cosa Nostra, nel lontano 1993) ha criticato apertamente il comandante generale dei Carabinieri: ‘ Per dieci anni il vertice dell’Arma ha ignorato e negato il ‘ caso Cucchi’. Ora se ne accorge. Ritardo ingiustificabile”. A febbraio era emersa un’altra storia di depistaggio riguardo alla vicenda di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce, uccisa nel 2001 nella caserma dei carabinieri del suo stesso paese in provincia di Frosinone. Lo hanno confermato le analisi del Ris egli stessi Carabinieri. E, ancora, a ottobre scorso, l’imbarazzo dell’Arma per la prima condanna a 4 anni e 8 mesi ( con rito abbreviato) per il carabiniere Marco Camuffo accusato a Firenze, insieme al collega Pietro Costa ( che andrà a processo il prossimo 10 maggio), di aver abusato di due studentesse ventenni dopo averle riaccompagnate a casa con l’auto di servizio da una discoteca. Macchie difficili da cancellare in una storia pur segnata da quotidiani e normali atti di eroismo, dalle Alpi alla Sicilia. Dalle zone terremotate agli incidenti sulle strade. Dalla lotta alle cosche alle azioni di peace keeping nelle zone calde del mondo. Atti e gesta quotidiani suggellati dal testo di quella splendida canzone che Giorgio Faletti tanti anni fa portò a Sanremo: “… e siamo qui con queste divise. Che tante volte ci vanno strette. Specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette. E siamo stanchi di sopportare quel che succede in questo Paese. Dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese. E c’è una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù. E farla scendere è una parola, se chi ci ammazza prende di più di quel che prende la brava gente..” E infatti, secondo Eurispes, resta ancora altissima la fiducia dell’opinione pubblica verso l’Arma dei Carabinieri. Un livello del 69,4%, calcolato nel 2018. Probabilmente, se l’Italia anche sul piano della sicurezza e della lotta al terrorismo ha fin qui dimostrato grandi capacità di prevenzione, il merito va a questi uomini in divisa, spesso bistrattati se non strumentalizzati. Come è avvenuto anche sabato dopo il grave fatto di sangue in provincia di Foggia. “Pena di morte” qualcuno ha rilanciato. Non c’è bisogno di seppellire nuovamente Cesare Beccaria. E nemmeno di un inasprimento specifico delle pene. Quel che serve è che non si abbassi mai la guardia di fronte al crimine organizzato e l’impegno nel contrasto della microcriminalità diffusa. Quella maggiormente avvertita dai cittadini. E serve che la trasparenza continui a restare un valore primario per chi esercita funzioni istituzionali e amministra pene e giustizia. Altrimenti la retorica patriottica ( come anche quella inneggiante a Dio e famiglia) potrà pure trionfare, ma soltanto come metafora di una civiltà senza presente. E, soprattutto, senza futuro.
STAI SERENA (BORTONE). Da Libero Quotidiano il 30 marzo 2019. Il poliziotto diventa uno «sbirro». Non succede nella periferia malfamata di una grande città, ma in uno studio Rai , quello di Agorà, dove la conduttrice Serena Bortone si riferisce proprio in quel modo a un ospite in studio. Le cose sono andate così: la Santanchè, anche lei tra gli ospiti, si rivolge a un interlocutore chiamandolo «professore». La conduttrice lo corregge: «Non è un professore, è uno sbirro, un poliziotto». La frase ha poi suscitato inevitabili polemiche sul web.
Non è un paese per sbirri, scrive il 17 aprile 2019 Domenico Ferrara su Il Giornale. Vengono ricordati solo quando vengono ammazzati. O quando commettono dei soprusi. Per il resto le forze dell’ordine non esistono. Anzi, peggio ancora, lavorano rischiando la vita ogni giorno. L’Italia non è un paese per sbirri. Diciamocelo una volta per tutte. Il rispetto per la divisa è un sentimento che va e viene come una bandiera sballottata dal vento. Per questo non esiste mai una via di mezzo. Ci sarà sempre qualcuno pronto a difenderli ciecamente a spada tratta e ci sarà sempre qualcuno pronto a puntare il dito contro un’intera categoria. Il caso Cucchi è l’emblema dello status quo. Un deprecabile caso che avrebbe potuto e dovuto essere chiuso nel giro di 24 ore (con l’individuazione dei responsabili e la loro punizione ed esclusione dall’Arma) e che invece ha visto uno spiraglio di luce solo alla fine di un tunnel durato dieci anni. Alimentando così un disprezzo generalizzato verso il corpo militare ed esacerbando gli animi dei difensori dello stesso corpo. Come un elastico tirato da entrambe le parti, gli estremi si sono allargati e allontanati sempre di più. ImageIn medio stat virtus, dicevano i latini. Invece nel mezzo non ci sta niente. Non ci sta quello che ci dovrebbe stare e che sarebbe normale che ci fosse, cioè il normale rispetto e la sana fiducia nei confronti dell forze dell’ordine. E non ci sta perché le persone che dovrebbero garantire la nostra sicurezza vengono considerate soltanto quando realmente abbiamo bisogno di loro. E siamo pronti pure a lamentarci del fatto che non abbiano risolto la situazione o che siano arrivati troppo tardi. Questo quando si trovano di fronte persone normali. Altrimenti sono solo sbirri, guardie contro cui ingaggiare battaglie fuori dagli stadi di calcio, a cui sputare, contro cui rivolgere insulti, lanciare sassi, bulloni, pietre, fumogeni, bombe carta, a cui sparare, da uccidere. Andate a chiederlo a quei poveri cristi che per mesi al freddo e al gelo a Chiomonte erano semplicemente dei bersagli dei violenti dei No Tav. Svolgevano semplicemente il loro dovere. Per una paga risibile. Andate a chiederlo a quelli che devono combattere con uniformi desuete e attrezzature inadeguate, che sono costretti a mangiare sugli scudi, ma che nonostante tutti ogni giorno sono lì a proteggerci. Tutte cose che stanno in mezzo. Nel silenzio. Nell’indifferenza. Sono sbirri e basta. Sinonimo di spia. Allarmi da segnalare a chi ti viene incontro in auto se si sorpassa indenni un posto di blocco. Guastafeste quando vogliono interrompere un’occupazione in una scuola, quando in realtà applicano solo la legge e l’illegalità sta proprio nell’occupazione. O quando effettuano uno sgombero. Piedipiatti rompipalle quando ti beccano senza casco o ti multano: perché sono loro a violare il tuo codice della strada e non sei tu a farlo. L’Italia non è un paese per sbirri. E neanche per le regole e per la legge. Ma nonostante questo, loro, carabinieri e polizia, saranno sempre lì in prima fila a prendersi sputi, insulti, sassi, bulloni, pietre, fumogeni, bombe carta, pallottole. A morire. Nel mezzo del silenzio.
Renzi: “C’è il capitano Ultimo dietro il complotto Consip”. E lui lo querela. Lo scontro tra l’ex premier e il carabiniere che catturó Riina, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 16 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “L’Arma ama poco i personaggi che brillano di luce propria. Successe con Dalla Chiesa, che i vertici di allora avrebbero volentieri ridimensionato, ma che sfuggì di mano. Accade oggi con capitano Ultimo”, dichiara il giornalista Mediaset Enrico Fedocci, grande conoscitore delle dinamiche interne alla Benemerita. Il trasferimento di Ultimo, alias colonnello Sergio De Caprio, e dei suoi 23 fedelissimi dal Nucleo operativo ecologico (Noe) ai Servizi segreti (Aise) avvenuto nel 2015, e la loro successiva brusca cacciata avvenuta nel 2017, non celerebbe quindi alcun “complotto” contro Matteo Renzi. Era stato l’ex premier, nel libro “Un’altra strada”, da ieri nelle librerie, ad ipotizzare che dietro questi trasferimenti si potesse nascondere qualcosa di poco chiaro. “Perche Ultimo e tutto il suo gruppo, di colpo e con un atto senza precedenti, viene rimandato indietro?”, scrive Renzi. “In quel periodo – prosegue – l’Arma pativa una strisciante tensione interna legata al cambio di vertice”. Il riferimento è alla proroga concessa dal governo all’allora comandante generale Tullio Del Sette, nonostante fosse rimasto coinvolto nell’inchiesta Consip. Sempre secondo la ricostruzione di Renzi, Ultimo sarebbe stato trasferito dal Noe all’Aise con lo scopo di catturare Matteo Messina Denaro. “Un segugio infallibile”, dissero di Ultimo i vertici dell’epoca dei Servizi. Solo che il gruppo di Ultimo non si mise alla caccia di Matteo Messia Denaro. Anzi, “qualcuno avrebbe sbagliato Matteo”, aggiunge ironico Renzi. Il capitano Giampaolo Scafarto, poi promosso maggiore, “avrebbe manipolato le prove”, puntualizza l’ex premier, citando la testimonianza davanti al Consiglio superiore della magistratura del procuratore di Modena Lucia Musti: “Dammi le prove per arrivare a Renzi, devo arrestare Renzi”. Ultimo ha dato mandato a Francesco Romito, il suo storico avvocato di Roma, di agire nei confronti dell’ex premier. “Leggo – si legge in una sua nota – che Matteo Renzi nel suo libro paventa ancora fantomatici complotti ed azioni eversive contro di lui. Non mi sono mai occupato di Renzi e non me ne occupo ora”, “Il motto dell’Arma è ’Usi obbedir tacendo e tacendo morir’. Capitano Ultimo è tipo da ‘obbedir’ e da ‘morir’ ma non tacendo”, ricorda Fedocci. Anni addietro, il vicecomandante Clemente Gasparri, a proposito della sobrietà che deve contraddistingue il carabiniere, fece questo esempio: “L’Arma è come un treno in corsa, i passeggeri sono vincolati prima di scendere alla responsabilità di lasciare pulito il posto occupato”. Vanno evitati comportamenti che possano comportare il “deragliamento dell’antico treno”. E a viale Romania sono molto attenti al fatto che ciò non accada.
G8, per la Diaz è ora di pagare, i poliziotti condannati a rimborsare tre milioni. Quasi vent'anni dopo, la sentenza della Corte dei Conti per il rimborso delle spese legali e dei risarcimenti. I giudici: "Quella notte sonno della ragione", scrive Marco Preve il 15 marzo 2019 su La Repubblica. A quasi vent’anni dalla notte della macelleria messicana, i 27 poliziotti responsabili delle violenze alla scuola Diaz e delle false prove “per coprire le nefandezze perpetrate” subiscono una nuova condanna. Alti dirigenti, ispettori e agenti sono stati condannati dalla Corte dei Conti a risarcire un danno erariale pari a due milioni e 800 mila euro per danni materiali. Un’ulteriore condanna da cinque milioni per il danno d’immagine dovrà essere valutata il 22 maggio dalla Corte Costituzionale poiché un controverso codicillo del 2009 consente di contestare il danno erariale solo per reati contro la pubblica amministrazione e non per imputazioni come il falso o le lesioni gravi. Come richiesto dal procuratore regionale della Corte, Claudio Mori, dovranno rifondere ai ministeri dell’Interno e della Giustizia le spese legali dei tre gradi di processo penale, le provvisionali stabilite come risarcimenti alle decine di manifestanti inermi massacrati di botte e arrestati sulla base di prove costruite ad arte, nonché ripagare gli avvocati del gratuito patrocinio delle parti civili. Nonostante siano trascorsi, appunto, quasi due decenni e l’ultimo capo della polizia Franco Gabrielli, due anni fa proprio su Repubblica, abbia finalmente fatto pubblica ammenda a nome della polizia per quanto accaduto nel luglio del 2001, il G8 e i fatti della Diaz in particolare continuano a rappresentare un corto circuito della nostra democrazia. Intanto perché in questi lunghi anni tutti i responsabili hanno potuto fare tranquillamente carriera nonostante gli avvisi di garanzia e le prime condanne (Gilberto Caldarozzi, uno dei condannati, è oggi il numero due della Dia, la Direzione investigativa antimafia, l’Fbi italiana) e nonostante le sentenze della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che condannò l’Italia per la mancanza di un reato di tortura (legge arrivata, fra mille polemiche, solo nel 2017). E poi perché il comportamento processuale degli imputati è stato sempre quanto di più distante vi sia da ciò che ci si aspetterebbe da alti rappresentanti delle istituzioni. Esempio illuminante, il rifiuto di massa (se si eccettuata il vicequestore Massimiliano Fournier ) di deporre nelle aule dei processi. Il rifiuto di manifestare un minimo pentimento che valse ad alcuni dei condannati la negazione dell’affidamento ai servizi sociali. Un atteggiamento ostruzionistico proseguito anche nel giudizio davanti alla Corte dei Conti con situazioni a dir poco imbarazzanti. Filippo Ferri, ex capo della squadra mobile di Firenze, figlio dell’ex ministro Enrico e fratello del leader dell’Anm Cosimo, ha tentato di sostenere la nullità della notifica “poiché il plico dell’invito a dedurre è stato consegnato a soggetto che non rivestiva la qualifica di familiare convivente”. La Corte ha ritenuto insussistente la questione poiché l’atto “è arrivato nella sfera di conoscibilità del destinatario, in particolare alla cognata”. Inoltre, attraverso le difese di alcuni degli imputati del processo erariale si è scoperto che i due ministeri hanno notificato le cartelle esattoriali ai funzionari di polizia ai fini di rivalsa sulle spese sostenute ma che le “cartelle sono state annullate per vizi formali e per difetto di motivazione…. sicchè è ragionevole ritenere che allo stato degli atti non un solo euro di risarcimento è stato retrocesso alle amministrazioni danneggiate”. Insomma, vent’anni senza interruzione di carriera - Franco Gratteri all’epoca il più alto in grado divenne questore, prefetto e poi capo Divisione Centrale Anticrimine prima di andare in pensione, Pietro Troiani è oggi capo di una delle centrali della Polstrada più importanti d’Italia - e senza risarcire alcunché. Ora tutti i condannati faranno ricorso in appello e se la sentenza verrà confermata si vedranno pignorare stipendi e pensioni del quinto. Ovvero, i costi della macelleria messicana ricadranno quasi interamente sui cittadini italiani. Resta nei confronti di coloro che “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero” il marchio d’infamia per aver infangato la divisa, per quel “sonno della ragione da parte dei vertici operativi Luperi e Gratteri che si propaga e investe tutta la catena di comando, la notte del 21 luglio sono sospese le garanzie costituzionali. Per gli occupanti non c’è via di scampo… Alla polizia venne lasciata carta bianca…sciolti i freni inibitori”.
· CSM. Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Luca Palamara.
Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo.
TOGHE ROTTE. Giorgio Meletti per "il Fatto Quotidiano” il 30 luglio 2019. "Se il Csm è il buco nero della giustizia all'italiana, la sua sezione disciplinare lo è dell' intero Palazzo dei Marescialli. Quella dove le correnti del sindacato in toga ordiscono le trame più inconfessabili". Se vi sembrano parole ispirate dallo scandalo di questi giorni, vi state sbagliando. Le ha scritte dieci anni fa Stefano Livadiotti - coraggioso giornalista dell' Espresso che ci ha lasciato troppo presto l' anno scorso - in un libro intitolato Magistrati. L'ultracasta. Il nocciolo del discorso era quello che ancora oggi lorsignori vogliono rimuovere: nella giustizia c' è il vero cancro italiano, tutto il resto è metastasi. La classe dirigente continua a girarsi dall' altra parte perché tutti hanno paura dei magistrati: o hanno la coscienza sporca, o sono già in debito per un' archiviazione allegra o un' indagine dolosamente sciatta, oppure sono onesti ma la paura dei magistrati l' hanno interiorizzata a prescindere. Il libro di Livadiotti fu liquidato dagli interessati con commenti pigramente diffamatori: la tecnologia della merda nel ventilatore è stata brevettata ben prima dei social network dai comparti più sussiegosi della classe dirigente. Un magistrato del Nord che andava per la maggiore lo definì "livido e rancoroso"; dall' altro capo della penisola una valorosa toga antimafia lo trovò "pieno di errori che inducono alla disinformazione". A dieci anni di distanza c'è una pagina dell'Ultracasta che fa stringere il cuore. Livadiotti riferisce che, secondo le rilevazioni 2008 di Eurobarometro, solo il 31 per cento degli italiani ha fiducia nel sistema giudiziario, mentre la media europea è al 46 per cento. Secondo un altro sondaggio un italiano su tre ammette di aver perso ulteriormente fiducia nella magistratura. L'autore aggiunge che anche il primo presidente della Corte di Cassazione, inaugurando l'anno giudiziario, ha dovuto ammetterlo: "La magistratura non può ignorare il forte calo di fiducia non solo internazionale, ma ora anche interno nei suoi confronti". Commento di Livadiotti: "L'auspicio di tutti è, appunto che non lo ignori. Che consideri suonata la campanella dell' ultimo giro e si dia una mossa, riformandosi dall'interno. Prima che lo faccia qualcun altro, magari con intenti poco nobili. Il paese ha bisogno di tutto meno che di una magistratura delegittimata e per ciò stesso, alla fine, asservita". Ai normali sudditi queste parole profetiche fanno stringere il cuore, ai magistrati dovrebbero farli arrossire di vergogna per dieci anni di silenzio e furbizie. Quel presidente di Cassazione che doveva prendere coscienza era Vincenzo Carbone: nel 2010, appena andato in pensione, è stato indagato per la sua collaborazione alle trame della cosiddetta P3, associazione segreta capitanata da Flavio Carboni che si occupava, guarda un po', anche di pilotare sentenze e carriere dei magistrati. Nel 2013 Carbone è stato rinviato a giudizio. I suoi colleghi hanno impiegato più di quattro anni per condannarlo in primo grado - il 16 marzo 2018, quarantesimo anniversario della strage di via Fani - a due anni per abuso d' ufficio. Per lui la strada della prescrizione è spianata. Ma in questi dieci anni i suoi colleghi dov' erano? Erano pieni di lavoro. Dovevano vendersi le assoluzioni o gli insabbiamenti, indagare il collega per fotterlo (loro parlano così), difendersi dagli agguati "disciplinari", strappare poltrone per i propri compagni di corrente. I più hanno taciuto, per giustificata paura dei colleghi delinquenti o per vigliaccheria semplice, e se gli fai notare come si sono ridotti si offendono. Adesso che è saltato il coperchio c'è chi, per malinteso senso dello Stato, cerca di mettere la sordina allo scandalo. Credendo che le istituzioni si difendano con l'omertà.
Caso Palamara-Csm: toghe sporche. Decine di magistrati sono sotto inchiesta per corruzione, con effetti devastanti sulla giustizia italiana. Antonio Rossitto l'1 luglio 2019 su Panorama. «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra» avvertiva il giurista Piero Calamandrei. Qualche decennio dopo, è la corruzione ad aver sfondato quell’uscio. Le trame romane, esacerbate dall’ultima sfornata di intercettazioni, sono lo sgradevole rumore di fondo. Il vero frastuono è un altro: le inchieste che stanno travolgendo giudici e inquisitori. Un florilegio investigativo mai visto prima. Abusi, falsi, favori e mercimoni. Che stanno sconquassando tribunali e procure di mezza Italia. E rischiano di ferire a morte la nostra magistratura. La bomba è detonata nella capitale. La procura di Perugia indaga per corruzione sul pm romano Luca Palamara, riverito simbolo delle toghe nostrane: ex membro del Csm, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, leader di Unicost. Avrebbe beneficiato di «varie e reiterate utilità, consistenti in viaggi e vacanze» per lui, amici e conoscenti. E poi, dettaglia ancora l’avviso di garanzia, un «anello non meglio individuato del valore di 2 mila euro in favore dell’amica Adele Attisani». Regalie. Per agevolare nomine e danneggiare magistrati ostili. Il burattinaio sarebbe l’avvocato siracusano Pietro Amara. Uno abituato a intrecciare, oliare e mistificare. Nel gorgo ha trascinato una decina di toghe. Le sue supposte gesta corruttive hanno figliato deflagranti fascicoli. Nella rete investigativa finisce anche Palamara. E poi, a strascico, un altro blasonato pm romano: Stefano Rocco Fava. È indagato per concorso in rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento personale. Avrebbe aiutato Palamara «a eludere le investigazioni a suo carico». Così come a screditare l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e il suo fido aggiunto, Paolo Ielo. Anche Luigi Spina, consigliere dimissionario del Csm, viene coinvolto: per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.
Le intercettazioni svelano pure il rimestio di toghe. Chi va a guidare la procura di Roma? Meglio un sodale che un Robespierre. Giusto. Magari mette anche una pietra sopra l’indagine che fastidia gli amici. Come quella sugli appalti Consip, che coinvolge Luca Lotti: ex ministro turborenziano allo Sport, più interessato alle liane giudiziarie che alle funi delle palestre. Così, una telefonata via l’altra, Lotti s’è autosospeso dal partito. Pochi giorni dopo, il 20 giugno 2019, viene però ascoltato a Messina: nell’ennesimo procedimento nato dalle prodezze di Amara. L’ex ministro è difatti testimone nel processo contro l’ex giudice amministrativo, Giuseppe Mineo, imputato per corruzione in atti giudiziari assieme a Denis Verdini, a sua volta accusato di finanziamento illecito ai partiti. Ossia: aver ricevuto 300 mila euro dall’avvocato siciliano per il suo defunto gruppo politico Ala. È stato ancora il disinvolto legale a tirare in ballo Lotti, che ammette di aver ricevuto una mail da Verdini per spingere la nomina di Mineo, mai avvenuta, al Consiglio di Stato. Il giudice, proprio mentre il suo nome viene caldeggiato, avrebbe ricevuto 115 mila euro: per sovvertire due sentenze, care ad Amara e al collega Giuseppe Calafiore. Attorno ai due legali si sviluppano altri robusti tronconi investigativi. Come l’inchiesta sulle sentenze pilotate, ancora al Consiglio di Stato. Una settimana fa è cominciato il processo per tre magistrati: il già presidente del Consiglio di giustizia amministrativo siciliano, Raffaele Maria De Lipsis; l’ex giudice della Corte dei conti, Luigi Pietro Maria Caruso; un altro togato, ora sospeso, Nicola Russo. Sono accusati di corruzione in atti giudiziari. Per la Procura di Roma i tre sarebbero stati il fulcro di un rodato meccanismo truffaldino: sentenze benevole in cambio di mazzette. Il procuratore aggiunto Ielo, lo stesso avversato da Palamara e Fava, contesta cinque episodi. Una delle tangenti, da 30 mila euro, l’avrebbe consegnata un politico: il deputato regionale siciliano, Giuseppe Gennuso, eletto dopo un rocambolesco ricorso. La decisione sarebbe stata aggiustata da De Lipsis. I due, assieme a Caruso, il 18 giugno 2019 chiedono di patteggiare. L’ex giudice Russo, invece, è accusato di aver alterato gli appaltoni pubblici Consip. Sentenze per cui sono indagati anche due presidenti di sezione del Consiglio di Stato. Uno è Sergio Santoro. L’altro, ora in pensione, è Riccardo Virgilio: gli contestano 751 mila euro su conto svizzero. Denaro, ipotizzano gli inquirenti, da ripulire. E dunque girato a una società maltese dei tentacolari Amara e Calafiore.
La giustizia, invece, comincia a fare il suo corso in un ulteriore filone marchiato Amara: il cosiddetto «sistema Siracusa». Che ha già portato alla condanna di un pm del capoluogo siciliano: Giancarlo Longo. Amara, legale anche dell’Eni, gli avrebbe dato sottobanco 88 mila euro. E si sarebbe prodigato per pagare lussuose vacanze a Dubai. In cambio il magistrato, dettaglia la sentenza di primo grado, aveva aperto un’inchiesta dall’ardita ipotesi investigativa: un complotto ai danni di Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni. Già, ma perché? Per depistare, rimestare, confondere. Sperando infine di fiaccare le indagini della Procura di Milano sulla corruzione in Congo e Nigeria del colosso petrolifero italiano. Longo, lo scorso dicembre, patteggia cinque anni. E lascia la toga. Due settimane fa stessa sorte è toccata a un suo vecchio collega, rimosso dal Csm: Maurizio Musco, già pm di Siracusa, poi a Sassari. Sprofondato in un’inchiesta cui gli contestano, tra le altre cose, d’aver violato «consapevolmente e reiteratamente» l’obbligo di astenersi da un procedimento su familiari e clienti di un intimo amico. Ovvero: l’immancabile Amara. In attesa di giudizio, Musco però è già stato condannato a 18 mesi, in via definitiva, per abuso d’ufficio. Stessa sorte per il suo vecchio capo, l’ex procuratore di Siracusa, Ugo Rossi.
Un anno fa, invece, viene radiata dalla magistratura l’ormai mitologica Silvana Saguto: ex potentissima e ossequiatissima presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Finisce sotto inchiesta nel 2015, per associazione a delinquere. È accusata di aver creato un prolifico cerchio magico attorno alla gestione dei beni confiscati alla mafia: figli, mariti, amici e colleghi. Tutti beneficiati, è l’ipotesi della Procura di Caltanissetta, da rigide regole spartitorie nell’assegnazione di amministrazioni giudiziarie e incarichi vari. Il processo all’ex presidente è in corso, tra appassionanti colpi di scena. Intanto lo scorso febbraio, in uno stralcio del fascicolo, è condannato a due anni e quattro mesi il giudice Fabio Licata. Per falso materiale. Più prosaicamente: avrebbe firmato tre provvedimenti illeciti di Saguto. Nella gloriosa compagine della sezione fallimentare palermitana sono però indagati altri due togati: Raffaella Vacca e Giuseppe Sidoti.
E qui si spalanca un nuovo precipizio. Che nel capoluogo siciliano, ancora una volta, rischia di trascinare giù influentissimi magistrati. È l’inchiesta sul Palermo calcio. Sidoti è accusato di concorso in corruzione, abuso d’ufficio e rivelazione di notizie riservate. In parole povere: avrebbe contribuito a salvare la malmessa compagine dal fallimento. Con una sentenza pilotata ad arte. In cambio di un posto per un’amica nell’organismo di vigilanza della società. Lo scorso novembre, Sidoti viene sospeso per un anno. Ma le traversie dei rosanero, due settimane fa, coinvolgono pure il capo dei gip del tribunale, Cesare Vincenti. Per un altro supposto caso di familismo amorale. È indagato per rivelazione di notizie riservate e corruzione assieme al figlio Andrea, avvocato e presidente del comitato etico della squadra di calcio. Incarico che avrebbe ottenuto in cambio degli spifferi paterni sull’ex patron del Palermo, Maurizio Zamparini, oggetto di una richiesta d’arresto per falso in bilancio e riciclaggio. Informazione, ipotizzano i pm di Caltanissetta, poi girata all’interessato. Che, un anno fa, si dimette provvidenzialmente dalle cariche societarie. Gesto che, sostiene un gip dell’ufficio di Vincenti, fa venir meno le esigenze cautelari.
Il 12 giugno 2019, negli stessi giorni in cui scoppia quest’ultimo bubbone, a Palermo esplode un’altra granata giudiziaria. Anche stavolta, le verifiche riguardano un magistrato di riconosciuto prestigio: Anna Maria Palma, avvocato generale nel capoluogo. Viene indagata per concorso in calunnia, aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Così come Carmelo Petralia, procuratore aggiunto a Catania. I fatti sono di un decennio fa. Quando i due, allora pm a Caltanissetta, si occupano della strage di via D’Amelio: quella in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. I magistrati sono accusati di aver imbeccato un falso pentito: Vincenzo Scarantino. Suggerendo di attribuire l’attentato a incolpevoli estranei. Depistaggio definito «clamoroso» nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, costato l’ergastolo a sette innocenti. E che adesso coinvolge i due ex pm nisseni.
Per favoreggiamento alla mafia indaga anche la Procura di Salerno. Ma l’inchiesta riguarderebbe pure presunte corruzioni, rivelazioni di segreto d’ufficio e abusi vari. Sarebbero coinvolti almeno 15 magistrati calabresi, tra cui procuratori e aggiunti. Le accuse nascono da una faida interna. La denuncia sarebbe partita da un esposto di Nicola Gratteri, capo della Procura di Reggio Calabria. E adesso i colleghi salernitani, competenti sul distretto calabrese, starebbero verificando le supposte violazioni. Un procedimento su cui, per ora, regna tombale riserbo.
Anche in Puglia, continuano le indagini sulle «Toghe sporche» alla Procura di Trani. Il 7 giugno 2019 il gip del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, dispone altri tre mesi di custodia cautelare per l’ex pm Antonio Savasta e il gip Michele Nardi, già arrestati lo scorso gennaio. L’accusa ai due è gigantesca: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso. Reati che sarebbero stati commessi tra il 2014 e il 2018, mentre erano in servizio nell’ufficio giudiziario pugliese. Solita, drammatica, solfa: mazzette, in cambio di sentenze pilotate. Savasta sta collaborando. S’è dimesso dalla magistratura. E ha ammesso di aver chiesto 300 mila euro a un imprenditore barese per archiviare un’indagine farlocca: avviata solo per ottenere denaro dal malcapitato. «Era stato letteralmente spolpato» racconta al gip. Sarebbe andata ancora peggio a un altro imprenditore: Flavio D’Introno. Riferisce di aver pagato 2 milioni di euro per evitare di scontare una condanna per usura. Diventato il principale accusatore a Trani, l’uomo continua a vuotare il sacco. E adesso c’è un terzo ex pm pugliese coinvolto: Luigi Scimè, ora in servizio alla Corte d’appello di Salerno. I colleghi di Lecce gli contestano tre mazzette: 75 mila euro in totale. Soldi che sarebbero servizi per aggiustare procedimenti penali a favore dell’imprenditore.
Decisioni pilotate, assoluzioni prezzolate, persecuzioni su commissione. Per la giustizia penale è una Caporetto. Ma anche i tribunali fallimentari vacillano sotto i colpi di scandali e inchieste. Il 1° aprile 2019 è finito agli arresti domiciliari Enrico Caria, ex giudice a Napoli, adesso a Bologna. È al centro di un’inchiesta di Fava, uno dei pm indagati a Perugia. Caria è accusato di aver veicolato nomine e consulenze in cambio di favori. Come gli incarichi che avrebbe affidato alla compagna. Un altro giudice con gloriosi trascorsi nella fallimentare è indagato dalla procura di Ancona: Giuseppe Bersani, già a Piacenza. Il copione, stavolta, sarebbe differente: affidamenti ad amici avvocati in cambio di mazzette. Ma Bersani è sotto inchiesta anche a Venezia per corruzione in atti giudiziari assieme all’amico Tito Ettore Preioni, presidente della sezione civile a Lodi. Una storia assonante con le beghe romane. Avrebbero brigato per far ottenere a uno, Preioni, l’ambita poltrona di presidente del Tribunale di Cremona. Dov’era in servizio l’altro: cioè Bersani. Viene scoperto persino un incontro a Roma con un membro laico del Csm, grazie ai buoni uffici di un avvocato. Che avrebbe pure pagato il viaggio nella capitale dei due magistrati. In cambio, ipotizzano gli inquirenti, dei soliti incarichi. Così torniamo all’inizio, come nel gioco dell’oca. Al mercato delle toghe. Alla giustizia lottizzata e carrierista. Ma che ora s’è intersecata con corruzioni e favori. Una pletora di mercimoni e scorrettezze. Troppi per derubricare o autoassolversi. L’incendio è divampato. E le fiamme, stavolta, non smettono di avanzare.
Giustizia: basta con questo Csm da riformare. L’oscena guerra per la nomina del successore del procuratore di Roma mostra che il sistema correntizio è corrotto e irriformabile. Maurizio Tortorella 31 maggio 2019 su Panorama. La guerra per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone, il procuratore di Roma andato in pensione lo scorso 8 maggio, sta devastando l’ultimo vero potere politico rimasto in Italia: la giustizia. I concorrenti per la poltrona di Pignatone all’inizio erano addirittura 13. Ma da metà maggio i giochi si sono concentrati sui due nomi di Franco Lo Voi e di Marcello Viola, rispettivamente procuratore di Palermo e procuratore generale a Firenze ed entrambi appartenenti alla corrente di maggioranza relativa, Magistratura indipendente. Il problema è che la contesa da qualche giorno scatena la rissa delle correnti in seno al Consiglio superiore della magistratura, con dossieraggi incrociati e perfino inchieste giudiziarie. Uno spettacolo di giochi di potere violento e sconcertante. Sembrava che Lo Voi dovesse prevalere, perché sul suo nome convergeva anche la corrente più di sinistra, Area. Prima di arrivare al plenum, però, le candidature per ogni ufficio direttivo devono passare per il vaglio della quinta commissione del Csm. E qui il 23 maggio è successo il patatrac, perché per Lo Voi ha votato solo Mario Suriano, membro togato di Area, mentre per Viola hanno votato in quattro: Antonio Lepre (membro togato di Magistratura indipendente, il gruppo di maggioranza relativa dei magistrati), Piercamillo Davigo (della corrente “grillina” di Autonomie a Indipendenza, che lui stesso ha fondato), Emanuele Basile (membro laico della Lega) e Fulvio Giglioti (un altro laico, del Movimento 5 stelle) .
È a quel punto che si è scatenato l’inferno. La lobby giornalistica della sinistra ha attaccato Viola. Sono partiti i dossier. Un ex membro del Csm a lui vicino, il magistrato romano Luca Palamara, che è uno dei leader della corrente di Unità per la costituzione e ora viene descritto dai giornali come grande manovratore di voti in seno al Csm, è finito indagato con l’accusa di avere accettato denaro per favorire nomine quando sedeva nel consiglio. Si è aperto un verminaio di accuse incrociate e confuse, e a leggere le cronache pare che il più pulito dei protagonisti abbia la rogna. L’effetto complessivo è disastroso per l’immagine della magistratura e della giustizia. Le toghe cadono come birilli, e spesso nella polvere finiscono presunti o celebrati campioni del moralismo giudiziario. Nel 2008, per fare un solo esempio, Palamara era stato nominato presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato dei magistrati, al posto di Simone Luerti, costretto a lasciare quel posto per le polemiche feroci causate dalla notizia di un incontro che Luerti aveva avuto con l'imprenditore calabrese Antonio Saladino, allora coinvolto nell'inchiesta Why Not, e con l'ex guardasigilli Clemente Mastella (anni dopo, peraltro, Saladino e Mastella sono stati assolti con formula pena).
Difficile dire come andrà a finire, quasi inutile sapere chi sia nel torto e chi nella ragione. Para noi, garantisti, oggi pare ragionevole solo sospendere il giudizio sulle responsabilità individuali, penali o comportamentali, in attesa almeno di qualche sentenza. Ma poi sarà fatta davvero giustizia? C’è davvero da fidarsi, delle toghe che giudicheranno questo guazzabuglio? Decisioni, assoluzioni e condanne saranno sincere e oneste oppure saranno inquinate da giochi di corrente? E quante altre volte accadrà che decisioni, assoluzioni e condanne saranno invece condizionate dai giochi di corrente e dagli interessi di questa e di quella parte?
Questo è il vero dramma che va in scena con l’ultima guerra sulla Procura di Roma. Che la giustizia esce dal calderone del Csm come una larva di zanzara emerge da uno stagno: sembra un piccolo vampiro evanescente, un macabro ectoplasma. È il simbolo della vergognosa decadenza di un Csm che sempre più viene trasformato in osceno mercato delle vacche. Dove interessi di parte, scambi di potere, traffici illeciti e favori inconfessabili si barattano senza che nella politica a ogni livello ci sia chi trovi il coraggio di bloccare questa sconcezza collettiva. Oggi si può ben dire, purtroppo retroattivamente, quanta ragione avesse il centrodestra berlusconiano quando, nel 2004, cercò inutilmente di ridimensionare il Csm nell'assegnazione, nel trasferimento e nella promozione dei magistrati. Il tentativo, sacrosanto, venne bloccato dalla sinistra giudiziaria collegata alla sinistra politica, che ottennero il no del presidente Carlo Azeglio Ciampi. Per quanto celebratissimo sia stato l’uomo, il suo fu un errore fatale.
POST SCRIPTUM. Più volte Panorama ha scritto quanto sia moralistica la logica del “traffico illecito di influenze”, un tipico reato di derivazione (e deriva) grillina divenuto l’articolo 346 bis del nostro Codice penale nel novembre 2012 grazie - ahinoi! - al voto demenzialmente inconsapevole di tutti i gruppi parlamentari (la Camera votò con 480 deputati a favore, appena 19 eroi dissero No, e altri 25 si astennero). Vogliamo leggerne insieme il testo? Perché è utile e istruttivo: “Chiunque (…) sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della propria mediazione illecita (…) ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni”. Questo reato fastidiosamente moralistico, il traffico d’influenze, finora è stato contestato a politici e ministri, a sindaci e assessori regionali. I magistrati, soprattutto quelli poco garantisti, ne hanno fatto il tipico strumento di devastazione della politica, contestandole accordi (spesso legittimi), e scambi di potere, e intese incrociate. Esattamente quel che poi gli stessi magistrati fanno (del tutto illegittimamente) nelle stanze oscure del Csm. Ma da un male potrebbe venire fuori un bene, perché forse l’art. 346 bis potrebbe essere usato per arginare il comitato d’affari giudiziario, l’idra che da troppo tempo avvolge nelle sue spire il Consiglio superiore della magistratura. Ci pensi, qualche magistrato. Da qualche parte ce ne sarà pure uno senza corrente, no?
Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Palamara. Luca Palamara accusato di corruzione: un patto per controllare la procura di Roma. L'inchiesta che fa tremare il Csm. Giovanni Corato, Mercoledì 29/05/2019, su Il Giornale. L'ex presidente dell'Anm, Luca Palamara, sarebbe indagato per corruzione. Come racconta oggi Repubblica, infatti, la procura di Perugia ha aperto un fascicolo sui veleni scoppiati per la successione alla carica di procuratore generale di Roma dopo il pensionamento di Luigi Pignatone e avrebbe scoperto un vero e proprio "mercato delle toghe". Al centro ci sarebbero i rapporti che legano Palamara - consigliere del Csm fino all'anno scorso - a Fabrizio Centofanti, lobbista arrestato nel febbraio 2018 per reati fiscali ed ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone. Si parla di "viaggi e regali galanti" che vengono ritenuti "al di là dell'opportuno". L'inchiesta coinvolgerebbe anche altre persone di spicco alla quale la procura di Perugia sta lavorando. E questo proprio mentre al Csm si gioca la battaglia delle nomine con la decisione del successore di Giuseppe Pignatone. Battaglia che vede protagonista proprio Palamara, che - di concerto con il renziano Cosimo Maria Ferri - non vorrebbe appoggiare il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, ma quello di Firenze, Marcello Viola, "ritenuto dalla coppia caratterialmente controllabile". Proprio per questo la corrente Unicost guidata proprio da Palamara avrebbe appoggiato la nomina a vicepresidente del Consiglio di David Ermini, laico del Pd ed ex responsabile giustizia del partito, che risponderebbe - riporta sempre Repubblica - a Luca Lotti, ex ministro e braccio destro di Matteo Renzi coinvolto nell'inchiesta Consip.
Corruzione, l’inchiesta che agita la corsa alla Procura di Roma. Pubblicato mercoledì, 29 maggio 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. La partita per la nomina del nuovo procuratore di Roma non s’è chiusa con la votazione della commissione Incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura, che giovedì scorso ha espresso una chiara indicazione per uno dei tre candidati in lizza: 4 preferenze per lui, e una ciascuna per gli altri due aspiranti. In attesa di questa delicata e importante decisione — la più rilevante che il Csm è chiamato a compiere — si stanno infatti moltiplicando trattative e notizie che potrebbero influire sul verdetto finale. Ad esempio la comunicazione all’organo di autogoverno dei giudici, da parte della Procura di Perugia, di un’indagine per l’ipotesi di corruzione a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione magistrati e componente del Csm fino allo scorso anno. Lui non è in corsa per il posto di procuratore ma per quello di aggiunto (il Consiglio dovrà eleggerne due), e il suo nome è inserito nel risiko delle poltrone da assegnare, tutte collegate tra loro. Inoltre Palamara, esponente di punta della corrente centrista Unità per la costituzione, è uno dei protagonisti di trattative e cordate che si stanno delineando al Csm, ma anche nei palazzi della politica. L’inchiesta di Perugia, avviata sulla base di atti inviati dalle Procure di Roma e Messina dopo che nel febbraio 2018 furono arrestati — sempre per corruzione — l’avvocato Pietro Amara, l’imprenditore Fabrizio Centofanti e altri indagati, è stata aperta diversi mesi fa, ma solo di recente il Csm ne è stato informato, quando gli inquirenti umbri hanno acquisito carte sull’attività del precedente Consiglio, di cui Palamara faceva parte. Nelle stesse ore ha ripreso improvvisamente fiato l’esposto che un pm romano ha inviato contro l’ex procuratore Giuseppe Pignatone e un aggiunto, per presunti asseriti comportamenti scorretti nella gestione di un’indagine. Proprio intorno alla continuità o discontinuità rispetto alla gestione di Pignatone — che ha guidato l’ufficio negli ultimi sette anni con risultati unanimemente riconosciuti —ruota il dibattito sulla scelta del successore. La corrente di Magistratura indipendente, la più a destra dello schieramento politico-giudiziario, ha puntato su Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, per il quale hanno votato anche Piercamillo Davigo di Autonomia e Indipendenza e i «laici» espressi dalla Lega (Emanuele Basile) e dai Cinque stelle (Fulvio Gigliotti). Il consigliere di Unicost, Gianluigi Morlini, ha votato per il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, della sua stessa corrente, mentre Mario Suriano di Area, il gruppo di sinistra, ha indicato Franco Lo Voi, procuratore di Palermo, che appartiene a Magistratura indipendente. Proprio il fatto che Lo Voi sia il candidato di Area ha convinto il gruppo di Mi a preferirgli Viola, considerato da tutti il concorrente in maggiore discontinuità con Pignatone. Non fosse altro perché Lo Voi ha lavorato per anni con l’ex procuratore a Palermo in molte indagini antimafia, e lo stesso accadde con Creazzo quando Pignatone era a Reggio Calabria e lui a Palmi. Viola viene visto come «persona capace di fare squadra e dialogare con i colleghi» (così l’ha definito il segretario di Mi Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma), nonostante non abbia mai guidato una Procura distrettuale di grandi dimensioni, a differenza degli altri due. In considerazione dei diversi curricula, il rappresentante di Area in commissione aveva chiesto l’audizione dei tre candidati; richiesta fatta propria dal vice-presidente David Ermini, anche per conto del capo dello Stato che guida l’organo di autogoverno. Ma l’istanza non è passata, e subito dopo la commissione ha votato con un risultato che prelude a una netta spaccatura del Csm sulla guida dell’ufficio giudiziario più importante d’Italia. Per evitare questo esito, che porterebbe con sé il rischio di ricorsi alla giustizia amministrativa, sono cominciate discussioni e trattative riservate. A cui ora si aggiungono le notizie sulle inchieste in corso.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 31 maggio 2019. Siamo passati dal Porto delle nebbie a Fronte del porto. Infatti, a leggere le cronache di questi giorni, il tribunale di Roma più che il tempio in cui si amministra la giustizia pare un luogo popolato da gangster, dove si combatte una guerra senza quartiere, con accuse fra diverse componenti della magistratura. Come la guerra sia iniziata non è dato sapere, però la sensazione che tutto abbia a che fare con il futuro capo della Procura della Capitale è piuttosto forte. Per capire ciò che sta succedendo, comprese le perquisizioni disposte ieri a casa dell' ex segretario dell' Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara, accusato di corruzione, forse bisogna partire dall' inizio, cioè da qualche settimana fa, quando Giuseppe Pignatone, numero uno dei pm romani, se ne va in pensione per raggiunti limiti di età. Quello è l' ufficio giudiziario più importante d' Italia, da cui passano inchieste delicate, ma è anche un crocevia di potere. Sono in tanti a voler occupare la poltrona di procuratore capo e a seconda di chi vi si andrà a sedere inizierà un risiko che riguarderà altri incarichi di prestigio in tutta Italia. La posta in palio scatena le varie anime della magistratura, che tramite le correnti si danno da fare per stringere alleanze e spartirsi le nomine. Il tutto, ovviamente, nel nome della Giustizia con la G maiuscola e della sempre decantata autonomia della magistratura. Un gioco che va in scena la scorsa settimana al Csm, il parlamentino di autogoverno delle toghe. La quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura deve vagliare i candidati. In corsa ci sono diversi nomi, ma la sfida essenzialmente è tra Franco Lo Voi, procuratore capo a Palermo, e Marcello Viola, procuratore generale a Firenze. Il primo sembra favorito, spinto da Magistratura democratica, la corrente di sinistra dei giudici, nonostante egli faccia parte di quella indipendente. Ma invece, a sorpresa, passa Viola, grazie a un accordo fra la stessa Magistratura indipendente e la corrente che fa capo a Piercamillo Davigo. Il procuratore di Firenze, ovviamente, dovrà ricevere l' incarico formale dal plenum del Csm, ma essendo il suo nome uscito un po' a sorpresa, perché a sinistra erano convinti che la poltrona fosse già stata conquistata da Lo Voi, succede il finimondo. Viola è un tipo schivo, con un solido curriculum alle spalle, anche sul fronte antimafia e pare non avere referenti o sponsor politici. Ma essere indipendente e riservato non lo salva dalla reazione stizzita di chi aveva già dato per scontata la nomina di Lo Voi. Da Repubblica sparano ad alzo zero, usando l' artiglieria pesante. Le frasi più carine parlano di un colpo di mano, anzi di un' operazione che fa ritornare in auge il Porto delle nebbie. Così infatti la stampa chiamava la Procura di Roma negli anni Settanta, perché le inchieste che approdavano in quella sede, naturalmente o avocate, poi sparivano nei meandri degli uffici senza lasciare traccia, soprattutto se foriere di risvolti politici e di governo. Ma la reazione giornalistica pare solo l' inizio di un' offensiva che ha come posta in palio il potere sulla più importante sede giudiziaria d' Italia, la cui perdita potrebbe rimettere in gioco i delicati equilibri della giustizia nel nostro Paese. E così, ecco cominciare a girare le carte. Accuse e controaccuse planano sui tavoli delle redazioni, soffiate o spifferate da chi ha deciso di andare alla resa dei conti. È un gioco tra correnti, una battaglia senza esclusione di colpi fatta a suon di carte, di accuse e controaccuse. Il primo a finire nel mirino è Luca Palamara, ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati, uomo di Magistratura indipendente ed ex togato del Csm. È accusato dai pm di Perugia di essersi fatto corrompere da un indagato. La notizia dell' inchiesta, aperta da mesi, curiosamente arriva ai giornalisti proprio pochi giorni dopo l' indicazione di Marcello Viola e la sconfitta di Franco Lo Voi. Ma a un Palamara indagato fa da contraltare la notizia dell' esposto di un pm di Roma contro l' ex capo dell' ufficio Giuseppe Pignatone e il suo vice Paolo Ielo. Tutti e due non si sarebbero astenuti dalle indagini su un certo avvocato coinvolto in un giro di milioni e corruzione, mentre avrebbero dovuto fare un passo indietro avendo parenti che in qualche modo lavoravano per l' indagato. Il pubblico ministero accusa Pignatone di avergli negato l' arresto del legale, a suo dire inspiegabilmente. Neanche il tempo di riprendersi dalla botta, che ecco arrivarne altre. Prima il pm che accusa Pignatone finisce a sua volta indagato, con l' accusa di aver spifferato a Palamara l' inchiesta a suo carico, e poi lo stesso ex capo del sindacato dei magistrati viene perquisito. La Finanza si presenta a casa sua e passa al setaccio l' abitazione come quella di un qualsiasi lestofante e l' accusa è di essersi fatto pagare per il ruolo al Csm. Ovviamente i magistrati sono uguali agli altri cittadini davanti alla legge e dunque si capisce che per loro vengano disposte le misure applicate a chiunque altro. Tuttavia lo scambio di accuse e il fuoco incrociato, con al centro un ufficio giudiziario, dà la sensazione di una giustizia impazzita, dove la guerra non si combatte in nome della legge, ma delle poltrone. E noi - noi cittadini, intendo - dovremmo avere fiducia davanti a una toga?
Luca Palamara, Filippo Facci e la verità sul "sottobosco delle nebbie": cosa c'è dietro la guerra tra le toghe. Libero Quotidiano il 31 Maggio 2019. Ci sono dei magistrati che indagano su altri magistrati accusati di aver favorito o danneggiato altri magistrati, e per il resto, se arrivate in fondo a questo articolo, siete degli eroi. Già fatichiamo a render conto di forze politiche che bene o male conosciamo - addirittura votiamo - benché occupate dal personale più dilettantesco di sempre: figurarsi che cosa può impicciarvene, ora - meno che mai - di burocrati che nessuno o quasi conosce, gente autoriferita, non eletta, invischiata nella propria corporazione e abituata a cantasela, suonarsela e arrestarsela: la magistratura, ma quella di potere, quella correntizia e para-politica, quella al centro della cagnara impazzita che abbaia a margine della prossima elezione del procuratore capo di Roma. Parliamo di un sottobosco che resta un porto delle nebbie (da sempre) e dove il controllo mediatico-sociale è ridotto al minimo, le opinioni si mischiano alle notizie - ieri lo spiegava bene Bruno Tinti, ex magistrato, su ItaliaOggi - e ci sono veline che diventano articoli, cordate di cronisti che pubblicano e contro-pubblicano per logiche di parte, notizie che starebbero in tre righe con presunti retroscena che ne occupano ottanta. Scusate l' introduzione, ma era necessaria. Dopodiché le notizie, dicevamo, sono poche, anche se i cronisti, per ottenere spazio, cercano di convincere i capo-cronisti che a Roma stia succedendo di tutto, e che questo faccia parte di piani e complotti per favorire o sfavorire la nomina di tizio e di caio al vertice della Procura di Roma, ora che Roberto Pignatone è andato in pensione. Una notizia l' abbiamo data ieri: Luca Palamara, magistrato, ex segretario dell' Associazione magistrati, ex Csm, leader della corrente Unità per la Costituzione, è indagato a Perugia per corruzione. Ci sono nuovi particolari. L' accusa indaga sui suoi rapporti con Fabrizio Centofanti (area Pd, arrestato e poi scarcerato nel febbraio 2018 per frode fiscale, capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone sino al 2012) il quale Centofanti avrebbe avuto, con Palamara, un rapporto disinvolto fatto di viaggi e di «regali galanti». la perquisizione La procura di Perugia indaga anche sui rapporti di Palamara e Centofanti con tal avvocato Piero Amara, un palermitano a sua volta coinvolto nelle indagini sulle sentenze comprate al Consiglio di Stato e su alcune inchieste depistate riguardanti l' Eni. Sono stati perquisiti l' abitazione e gli uffici di Palamara, l' abitazione del suo commercialista e anche quella di Adele Attisani, amica del magistrato. Altri avvisi di garanzia (tutti per concorso in corruzione) hanno raggiunto il citato Pietro Amara e il suo avvocato Giuseppe Calafiore, oltre, naturalmente, a Fabrizio Centofanti. Ora: nonostante tutti i giornali abbiano messo in relazione l' indagine su Palamara (eccetera) con valenze politico-dietrologiche legate a questa o quest' altra nomina romana, è venuto fuori che l' indagine di Perugia riguarda fatti che con la Capitale non c' entrano niente: l' obiettivo della corruzione sarebbe stato il danneggiare un ex pm di Siracusa, Marco Bisogni, già oggetto di vari esposti di Amara e Calafiore nonché di un procedimento disciplinare contro la cui archiviazione Palamara, da membro del Csm, si oppose, anzi, chiese l' incolpazione di Bisogni che poi fu assolto. pilotare nomine Più in generale, Amara e Calafiore avrebbero corrotto Palamara affinché «mettesse a disposizione la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati». A parte questo, ora tutti vogliono sapere di quali «viaggi galanti» stiamo parlando, vista l' ambiguità dell' espressione. In pratica, indagando su Fabrizio Centofanti nel dicembre scorso, sono saltati fuori quattro viaggi-weekend in Toscana, Sicilia, Ibiza e Dubai: alla presenza di Luca Palamara nonché di suoi familiari e conoscenti. Ha pagato Centofanti, anche se Palamara - informalmente - nega, e dice che lui rimborsava tutte le spese, compresa, evidentemente, quella per un «anello non meglio individuato del valore di 2 mila euro in favore della sua amica Adele Attisani», indagata. Palamara invece è indagato in realtà da dicembre, anche se l' iscrizione è saltata fuori adesso (a parte un articolo solitario del Fatto Quotidiano risalente al 27 dicembre scorso) perché le carte, intanto, sono arrivate in quel colabrodo che è il Csm. Ad arricchire c' è una notizia di ieri: la Procura di Perugia, nella sua indagine su Palamara, ha indagato anche il suo collega Stefano Rocco Fava (favoreggiamento e rivelazione del segreto di ufficio) oltre al consigliere del Csm Luigi Spina (stesse accuse). Fava, in pratica, avrebbe spifferato a Palamara che a Perugia lo stavano indagando, e poi l' avrebbe aiutato: questo «rispondendo alle plurime e incalzanti sollecitazioni» di Palamara e «specificandogli che gli accertamenti erano partiti dalle carte di credito dell' imprenditore Fabrizio Centofanti e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi». Il favoreggiamento, invece, sarebbe legato a un' altra indagine del 2016 su Palamara «in relazione a profili di mancata astensione dei predetti procuratori», e in cui Rocco Fava «aiutava Palamara ad eludere le investigazioni a suo carico». complotti vari Vien da dire che le notizie finiscono qui - non che sia poco - anche se ad addensare le nebbie romane, sulla stampa, potreste trovare infinite altre «notizie» che si cerca di appiccicare allo sfondo della prossima nomina del procuratore capo di Roma, e, in particolare, a corredo di un presunto complotto per danneggiare il candidato Francesco Lo Voi (attuale procuratore capo di Palermo) e favorire invece Marcello Viola (attuale Procuratore Generale a Firenze). In realtà, tra chiacchiericci e vari esposti incrociati di tizio contro caio, e pettegolezzi sulle cene di sempronio e i conflitti d' interesse di altri ancora, nulla avvalora la tesi di nessun complotto. A parte Roma, che è un complotto di per sé. Filippo Facci
Da "porto delle nebbie" a "porto dei veleni". La Procura di Roma non prende pace per la corsa alla nomina del nuovo procuratore capo. Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2019. Il pm Luca Palamara indagato per corruzione. Esposti contro Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo. Le lotte interne negli uffici giudiziari della Capitale hanno portato alla luce giochi di potere ed i retroscena nella guerra in corso fra le correnti di Palazzo dei Marescialli, a colpi di esposti, indagini, soffiate e accuse. Lo scontro in corso al Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autocontrollo dei magistrati è violentissimo . Un conflitto che a colpi di esposti, indagini, soffiate ed accuse di corruzione ha fatto letteralmente saltare in aria gli equilibri e gli accordi di retrobottega fra le correnti, . Tutto gira attorno alla più importante delle poltrone da assegnare: quella del procuratore capo di Roma. Un incarico fondamentale per gli equilibri giudiziari interni alla magistratura. Dietro le quinte compare un avvocato siciliano Piero Amara onnipresente filo conduttore delle inchieste . Infatti c’è Amara al centro dell’esposto arrivato al Csm che ha portato a galla un presunto conflitto d’interessi di Giuseppe Pignatore, il procuratore capo di Roma da poco andato in pensione, e Paolo Ielo, attuale aggiunto della Capitale. Sempre Amara viene citato nell’inchiesta che coinvolge l’attuale sostituto procuratore della Repubblica di Roma , Luca Palamara, leader di UNICOST Unità per la Costituzione, la corrente “moderata” della magistratura, in passato presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, e consigliere del Csm nella precedente consiliatura . Il Consiglio Superiore della magistratura, il baricentro dell’ordinamento giudiziario ha intuito troppo tardi la profondità della guerra in corso senza esclusioni di colpi fra toghe. Ed ora manifesta una fretta a dir poco sospetta ed imbarazzante, dividendosi, e mandando in frantumi ogni forma di “galateo” istituzionale, lasciando dunque cadere ogni richiesta di trasparenza arrivata dal capo dello Stato e presidente del Csm Sergio Mattarella. Il Consiglio di Palazzo dei Marescialli ha trasformato la successione del procuratore Giuseppe Pignatone , che ha lasciato l’incarico l’8 maggio scorso per raggiunti limiti di età, in una congiura di palazzo trasformatasi in un mercato delle vacche, mandando all’aria. equilibri, correnti, alleanze. Ed incredibilmente, non ha fatto i conti proprio con il lavoro della magistratura. E l’inchiesta della Procura di Perugia che ha informato il Consiglio, annuncia ora di travolgere tutto e tutti. Palamara è indagato dalla procura di Perugia, l’ufficio giudiziario competente per reati commessi dai magistrati capitolini per rispondere sulle accuse di “corruzione” . La procura umbra ha immediatamente informato il Csm. La vicenda, resa nota dal Corriere della Sera e Repubblica, è strettamente collegata ai rapporti intercorsi tra il pm Palamara e Fabrizio Centofanti, ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, arrestato nel febbraio del 2018 per frode fiscale. Centofanti considerato “vicino” agli ambienti del Pd, è in affari proprio con Piero Amara, l’avvocato coinvolto nelle indagini sulle sentenze comprate al Consiglio di Stato, sul caso del depistaggio delle inchieste sull’Eni, il quale ha già patteggiato (quindi riconosciuta la colpa) una sentenza a tre anni di reclusione per corruzione. Il fascicolo d’ indagine della Procura di Perugia sul pm Palamara, è affidato alla pm Gemma Milano e al Gico della Guardia di Finanza. Al centro dell’attività degli inquirenti c’è il rapporto tra il pm e Centofanti, considerato troppo stretto, fatto di viaggi e “regali galanti“. “Apprendo dagli organi di stampa di essere indagato per un reato grave e infamante per la mia persona e per i ruoli da me ricoperti. Sto facendo chiedere allaProcura di Perugia di essere immediatamente interrogato perché voglio mettermi a disposizione per chiarire, nella sede competente a istruire i procedimenti, ogni questione che direttamente o indirettamente possa riguardare la mia persona”, scrive Palamara in una nota inviata alle agenzie. Il pm Luca Palamara attualmente è in corsa per una delle due poltrone da procuratore aggiunto a Roma. E da “leader” della corrente di Unicost ha un ruolo non da poco anche nelle trattative tra le correnti per nominare il nuovo procuratore capo della Capitale. Trattative in corso condotte con l'”influenza” di Cosimo Maria Ferri, uno dei tanti magistrati entrati in politica, senza aver mai perso influenza nel mondo giudiziario. Ferri è figlio d’arte essendo figlio di un magistrato che fu anche ministro per il PSDI nel governo De Mita, Ferri è stato sottosegretario alla giustizia nei governi di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Attuale deputato del Pd, intrattiene notoriamente rapporti più che buoni con Denis Verdini, Niccolò Ghedini e tutto l’ entourage berlusconiano. Cosimo Maria Ferri è ancora oggi un esponente molto influente di Magistratura Indipendente, la corrente più conservatrice delle toghe, di cui è stato anche segretario. Proprio l’accordo raggiunto tra le due “correnti” di Unicost e Magistratura Indipendente – che hanno eletto dieci consiglieri togati al Csm – hanno portato all’elezione di David Ermini, ex responsabile giustizia del Pd, a vicepresidente di Palazzo dei Marescialli. Secondo quanto pubblicato dal quotidiano La Repubblica, l’influenza di Ferri e Palamara avrebbe portato a sciogliere l’accordo già siglato da Unicost e Mi nella corsa al vertice della procura di Roma, per nominare Francesco Lo Voi, attuale procuratore capo di Palermo, al vertice della procura capitolina. Lo Voi è infatti un autorevole esponente di Magistratura indipendente, considerato “vicino” e molto amico dello stesso Pignatone, ed è diventato Procuratore Capo di Palermo nel 2014 grazie un intervento fondamentale, peraltro irrituale, dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. All’epoca della sua nomina, infatti, Lo Voi aveva meno titoli dei due concorrenti, Sergio Lari e Guido Lo Forte, il quale peraltro aveva raccolto tre voti in commissione incarichi direttivi. Dal Quirinale, però, era arrivata una lettera, che ordinava a Palazzo dei Marescialli di procedere con maggiore urgenza alla nomina degli incarichi vacanti da più tempo. Con il rinnovo del Csm ed una nuova maggioranza, di colore diverso. Il vantaggio di Lo Forte era stato azzerato aveva portato alla nomina di Lo Voi. Insomma, quello di Lo Voi non è certo un nome sgradito ai vertici del potere istituzionale. In più è vicinissimo a Pignatone, con cui ha lavorato diversi anni fa alla procura di Palermo. Secondo il quotidiano LA REPUBBLICA l’obiettivo di Palamara e Ferri è soprattutto quello di “azzerare” il lavoro e l’eredità di Pignatone a Roma e quindi boicottare Lo Voi. E’ questo il motivo per il quale – come scrive il collega Carlo Bonini – l’ accoppiata Ferri e Palamara punta su un altro esponente di Magistratura indipendente, il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, magistrato al di sopra di ogni sospetto e con il vantaggio di essere ritenuto coppia caratterialmente controllabile. A Palamara sarebbe stato “garantito” dalla corrente di ì Magistratura indipendente il sostegno per la sua nomina a procuratore aggiunto a Roma. Dell’impronta di Pignatone sull’operato della Procura di Roma non si vuole fare rimanere neppure il più vago minimo ricordo. Non vanno fatti “prigionieri” nel gioco delle correnti, come ad esempio l’aggiunto Michele Prestipino il quale nell’ipotesi di Lo Voi a Roma sarebbe destinato alla guida della Procura di Palermo), o altri “magistrati senza etichetta” come l’aggiunto Paolo Ielo, competente per i reati della pubblica amministrazione, o il sostituto Mario Palazzi (il pm che insieme a Ielo ha istruito il “caso Consip“) o il pm Giovanni Musarò che ha svela i depistaggi nel caso Cucchi. La nomina del nuovo procuratore di Roma, in pratica vuole essere un ritorno alla “tradizione”, a quella magistratura capace di stare un passo indietro, oltre ad essere la verifica di quella che toccherà ad altri uffici vacanti come ad esempio la Procura di Torino, quella di Brescia (importante per la sua competenza per i reati commessi dai magistrati di Milano) e Perugia, dove il procuratore capo attuale Luigi De Ficchy si prepara a lasciare. Un accordo questo di cui non vi è alcuna traccia nel voto espresso dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Csm: infatti giovedì scorso Gianluigi Morlini il consigliere togato di Unicost ( la corrente di Palamara n.d.r. ) non ha votato per Viola ma per il terzo candidato, Giuseppe Creazzo attuale procuratore capo a Firenze. A Viola sono arrivati i voti di Antonio Lepre (Magistratura indipendente), Piercamillo Davigo (Autonomie a Indipendenza), Emanuele Basile (membro “laico” indicato dalla Lega) e Fulvio Gigliotti (laico indicato dal M5s). In favore di Lo Voi è arrivato il voto di Mario Suriano membro “togato” di Area, la corrente di sinistra delle toghe . Ma la mancanza di “tracce” in commissione, non deve meravigliare più di tanto, in quanto in realtà vuol dire ben poco. Non sono state poche le nomine del “plenum” del Csm che hanno cambiato le indicazioni del plenum del Consiglio superiore della magistratura, “Mai, e sottolineo mai, baratterei il mio lavoro e la mia professione per alcunché e sono troppo rispettoso delle prerogative del Csm per permettermi di interferire sulle sue scelte e in particolare sulla scelta del procuratore di Roma e dei suoi aggiunti”, dichiara Palamara. Adesso la prima commissione del Csm magistratura aprirà un fascicolo. “In questi casi c’è un automatismo ma in presenza di un’indagine penale si sospende in attesa dell’esito”, spiega il presidente della Commissione, Alessio Lanzi, membro “laico” di Forza Italia. Sullo sfondo del Csm si muovono le “operazioni” sotterranee per designare il successore di Pignatone. Presto gli stessi consiglieri dovranno occuparsi di un esposto che riguarda lo stesso ex procuratore capo di Roma, andato in pensione l’8 maggio scorso. A raccontare la storia è stato il collega Marco Lillo sul Fatto Quotidiano.
L’esposto è firmato dal sostituto procuratore di Roma, Stefano Rocco Fava, che ha illustrato al Csmil presunto conflitto di interessi di Pignatone e Ielo. I rispettivi fratelli dei due magistrati svolgono un’attività professionale che li ha portati ad intrattenere contatti con Piero Amara. Roberto Pignatone, fratello dell’ ex-procuratore capo di Roma , ha 61 anni, è professore associato di diritto tributario con studio a Palermo, ha ottenuto nel 2014 un incarico da Piero Amara. Domenico Ielo, 49 anni, titolare di un suo studio associato con sede a Milano, ha fatto legittimamente il consulente per l’Eni, finita nel mirino della Procura di Roma per i pagamenti effettuati di decine di milioni a una società di nome Napag, considerata dello stesso Amara. L’esposto al Csm su Pignatone. L ’esposto presentato dal pm Fava verte su una riunione convocata nel suo ufficio lo scorso 5 marzo dal procuratore Pignatone per discutere dell’eventuale sua astensione in ragione dei rapporti professionali del fratello. Il 12 dicembre 2018 era stato lo stesso Fava a chiedere di accelerare un’indagine su soggetti legati ad Amara. A quel punto è stato il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo a chiedere di astenersi per evitare conflitti, visti gli incarichi di suo fratello in Eni . La richiesta del pm Fava di andare avanti, però, non venne approvata da Pignatone (e dall’aggiunto Rodolfo Sabelli, che aveva preso il posto di Ielo). Il pm Fava contesta a Pignatone i rapporti di suo fratello con Amara. e quindi l’allora procuratore capo convoca la famosa riunione del 5 marzo, a cui partecipano gli aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e il sostituto Mario Palazzi, il pm che con Ielo e Pignatoneha condotto l’inchiesta Consip. In quella riunione Pignatone sostenne che tutti sapevano i rapporti professionali di suo fratello Roberto e che nessuno aveva avuto nulla da ridire sulla sua “non astensione”. Ma il pm Fava nega questa circostanza. I procuratori aggiunti si schierano con il capo. Passano tredici giorni e guarda caso Pignatone toglie il fascicolo che era assegnato Fava il quale a sua volta presenta il suo esposto al Csm. Il procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio ha reso noto che avvierà accertamenti disciplinari su Palamara: “Una pre-istruttoria ci sarà come accade per tutte le notizie di reato che riguardano i magistrati e che vengono comunicate alla Procura generale e al Csm” ha dichiarato l’alto magistrato rispondendo ad una domanda dei cronisti a margine di una tavola rotonda . Fuzio facendo un riferimento ad alcuni articoli di giornali ha aggiunge: “Mattarella è il presidente del Csm e non ha attuato nessuna invasione di campo, ma ha rispettato le sue attribuzioni”.
Perquisito Palamara, indagato il pm Fava e il togato Spina. Terremoto alla Procura di Roma. Roberto Frulli giovedì 30 maggio 2019 su Il SEcolo D'Italia. Gli sviluppi dell’inchiesta della Procura di Perugia sui colleghi romani travolgono altri magistrati e scuotono fin dalle fondamenta il palazzo di Giustizia capitolino al centro, in questi giorni, di una specie di guerra di potere sotterranea per gli avvicendamenti, che il Csm sta valutando, alle poltrone di vertice di piazzale Clodio dopo il freschissimo pensionamento dell’ex-procuratore capo Giuseppe Pignatone. La guardia di Finanza di Perugia, delegata dai magistrati eugubini, si è presentata stamattina, esibendo un decreto di perquisizione, a casa e nell’ufficio di piazzale Clodio del pm romano Luca Palamara, indagato da ieri per corruzione, e nel suo ufficio di piazzale Clodio. A Palamara, ex-presidente dell’Anm ed esponente della corrente centrista “Unità per la Costituzione”, in corsa per un posto da procuratore aggiunto alla Procura di Roma, i colleghi di Perugia contestano la sua amicizia, sfociata, secondo l’accusa, in una serie di scambi di favori sul filo della corruzione, con l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Contestualmente i magistrati di Perugia, territorialmente competenti per le indagini sui colleghi romani, hanno indagato, con l’accusa di rivelazione di segreto e favoreggiamento, anche Luigi Spina, consigliere togato del Csm in rappresentanza della corrente di Unicost, la stessa a cui appartiene Palamara. Indagato, infine, anch’esso con l’accusa di rivelazione di segreto e favoreggiamento, il pm romano Stefano Rocco Fava, cioè il magistrato che presentò un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura contro l’ex-procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo per presunte irregolarità nella gestione delle inchieste sull’avvocato Piero Amara. La vicenda è intricatissima è restituisce un quadro coerente con la guerra di potere che si è scatenata alla Procura di Roma per l’avvicendamento ai vertici. Fava era il titolare del fascicolo sul caso Amara ma la delega di indagine gli venne ritirata dall’ex-capo Pignatone dopo che lui aveva scritto al Csm per segnalare il presunto conflitto di interessi dello stesso Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo in merito ad alcune importanti inchieste giudiziarie a causa dell’attività professionale dei loro fratelli. Per tutta risposta, denunciò Fava, gli venne tolto il fascicolo sul caso Amara e sulle presunte sentenze pilotate nell’ambito della giustizia amministrativa. Dalla Procura di Perugia, ora, risultano indagati anche l’imprenditore Fabrizio Centofanti e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. I tre, secondo i magistrati umbri, sono accusati di aver «corrisposto varie e reiterate utilità a Palamara, all’epoca consigliere del Csm, consistenti in viaggi e vacanze(soggiorni presso svariati alberghi anche all’estero) a suo beneficio», come si legge nell’avviso di garanzia. Da questo punto di vista, secondo i pm perugini, l’imprenditore Centofanti sarebbe stato l’anello di congiunzione fra Palamara e Amara. Secondo l’indagine della Procura di Perugia, l’imprenditore Centofanti e gli avvocati Amara e Calafiore, avrebbero «corrisposto» le «utilità» «anche a beneficio di familiari e conoscenti» di Palamara «e anche un anello non meglio individuato del valore di 2mila euro» per il compleanno «dell’amica (di Palamara, ndr) Adele Attisani, essendo Centofanti in rapporti di stretta ed illecita collaborazione e correità con Amara e Calafiore». «La Attisani – si legge nel provvedimento dei magistrati di Perugia – veniva prelevata da un autista di Centofanti ed infine da questi raggiunta (a bordo del veicolo monitorato in viaggio verso l’aeroporto di Fiumicino). Nel corso del tragitto emerge il chiaro riferimento della Attisani ad un gioiello che deve essere acquistato (“io non lo so se voglio il solitario …. io volevo una cosa più … sottile”)». I due, proseguono i pm nel decreto notificato agli indagati, «fanno riferimento esplicito a una gioielleria che si trova a Misterbianco, e la Attisani invita l’amico a passarci (una volta evidentemente atterrati a Catania)». Sul punto, prosegue il decreto, la polizia giudiziaria verificava che dalle intercettazioni «emergeva un messaggio inerente un pagamento del 15.9.2017 POS di euro 2. 000 in favore» di una gioielleria di Misterbianco» e che l’utenza «monitorata in uso a Centofanti alle ore 17 .15 si trovava in una zona ubicata nei presso della predetta gioielleria». Inoltre, ancora nelle intercettazioni, rilevano i pm, «sempre Attisani e Centofantiparlano della organizzazione della festa di compleanno della donna per il 6.10.2017 (il compleanno era il giorno 4.10.2017), dato dal quale può ipotizzarsi che l’acquisto del gioiello a Misterbianco per conto di “Lui” (che qui si assume essere Palamara Luca) sia avvenuto in vista del compleanno della donna». Secondo la Procura di Perugia, l’attività corruttiva era messa in atto «per danneggiare Marco Bisogni – sostituto procuratore di Siracusa (in precedenza già oggetto di reiterati esposti depositati presso la Procura generale di Catania a firma da Amara e Calafiore, il primo indagato da Bisogni, il secondo, suo difensore) nell’ambito del procedimento disciplinare nel quale Palamara faceva parte della sezione che con ordinanza n.94/2017 rigettava la richiesta di archiviazione proposta dalla Procura generale della Corte di Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico di Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla Commissione in diversa composizione il 29 gennaio del 2018». Inoltre, secondo la Procura di Perugia, «per fare in modo che Palamara mettesse a disposizione, a fronte delle utilità, la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati Amara e Calafiore». Al pm Fava i magistrati eugubini contestano, in concorso con Palamara, di aver violato «i doveri inerenti la sua funzione e abusando della sua qualità, comunicando con Palamara e rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti “dalle carte di credito” dell’imprenditore Fabrizio Centofanti e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi, rivelandogli altresì alcuni retroscena delle indagini». Il favoreggiamento è contestato a Fava perché «nella medesima conversazione» con Palamara «consegnandogli alcuni atti e documenti allo stato non identificati, ed alcuni atti già allegati all’esposto inoltrato al Csm, asseritamente comprovanti i comportamenti non consoni del Procuratore di Roma e di un procuratore aggiunto (Paolo Ielo, ndr), anche in relazione alla conduzione e gestione del fascicolo 44630/16, dal quale erano scaturite le investigazioni a carico dello stesso Palamara» e «in relazione a profili di mancata astensione dei predetti procuratori (circostanze allo Stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita presso la Procura della Repubblica di Roma)» aiutava «Palamara ad eludere le investigazioni a suo carico». In tutto questo caos spicca l’aplomb british dell’Associazione Nazionale Magistrati, il sindacato delle toghe che, per nulla scosso dalla guerra di potere e dalle accuse di corruzione che stanno volando e di presunto conflitto di interessi denunciato da Fava, esprime «piena fiducia nell’autorità giudiziaria di Perugia» sostenendo che la vicenda «conferma la capacità della magistratura italiana di esercitare il controllo di legalità anche quando riguarda appartenenti all’ordine giudiziario». Ma la preoccupazione maggiore del sindacato delle toghe sembra essere quella che la procedura di nomina dei nuovi vertici della Procura di Roma non si arresti: «il percorso decisionale che porterà il Csm alla nomina di ogni dirigente degli uffici giudiziari avvenga esclusivamente nell’ambito del confronto dialettico tra i componenti togati e laici, che in base alle norme costituzionali lo compongono, e non sia in alcun modo influenzato da alcun altro fattore, esterno o interno alla magistratura».
La Procura di Perugia: a Palamara 40.000 euro per favorire la nomina del pm Longo. Roberto Frulli giovedì 30 maggio 2019 su Il Secolo D'Italia. Luca Palamara, il pm romano ed ex-componente del Consiglio Superiore della magistratura, in corsa per la poltrona di procuratore aggiunto agli uffici giudiziari di piazzale Clodio e indagato per corruzione dalla Procura di Perugia avrebbe ricevuto, da Giuseppe Calafiore e Piero Amara «in concorso tra loro e con Giancarlo Longo», la somma di 40.000 euro per favorire – cosa che, poi, in realtà non gli riuscì – «quale componente del Csm» la nomina del pm Giancarlo Longo a procuratore capo della Procura di Gela. C’è anche questa contestazione nel decreto di perquisizione fatto notificare oggi dai magistrati eugubini che contestano al magistrato romano «un atto contrario ai doveri di ufficio, ovvero, agevolare e favorire il medesimo Longo nell’ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela alla quale aveva preso parte Longo, ciò in violazione dei criteri di nomina e selezione come individuati dalle circolari e atti correlati, in particolare dalla circolare consiliare (del Csm, ndr) del 28. 7.2015, che individua le precondizioni e i parametri generali per il conferimento degli incarichi dirigenziali». Quella nomina, poi, non andò in porto.
A sorpresa nelle intercettazioni di Palamara spuntano anche due parlamentari. E, a sorpresa, fra le 19 pagine del decreto di perquisizione nei confronti di Palamara, spunta anche un riferimento a due parlamentari. Inizialmente non si capisce se ad essere ascoltati dagli inquirenti umbri siano anche i due esponenti politici presenti alla conversazione con i magistrati Spina e Palamara. Subito dopo la Procura di Perugia chiarisce che la coppia di parlamentari è finita casualmente nell’intercettazione disposta dai pm eugubini perché la polizia giudiziaria non poteva prevederne la presenza. In particolare, scrivono i pm di Perugia, «in tale conversazione che intercorre tra Spina, Palamara, e due parlamentari, il primo comunica che all’esposto di Favaè allegato un Cd che sarebbe stato secretato. Tale conversazione, poi, dimostra come Palamara fosse già consapevole del suo procedimento pendente a Perugia (pagina 45, progressivo 40 del 9.5.2019 – “perché quel cazzo che m’hanno combinato lì a Perugia ancora nemmeno si sa”), tanto da parlarne con il parlamentare». Sull’utilizzabilità della conversazione con i parlamentari, la Procura richiama la posizione della Cassazione sul concetto di “casualità”, tanto che «questo pm aveva specificato alla Pg operante con nota in atti di non attivare il microfono, quando dovesse emergere preventivamente che l’indagato Palamara si stesse per incontrare con parlamentari o altre figure ricoperte da specifiche garanzie similari, pertanto, le conversazioni qui citate sono da considerarsi casuali nei termini anzidetti non avendo la Pg in anticipo percepito alcun ascolto che facesse presagire la presenza di tali soggetti».
La soffiata del membro del Csm, Spina a Palamara sull’indagine. Quanto agli altri personaggi coinvolti, il togato di Unicost al Csm, Luigi Spina, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento nell’inchiesta di Perugia, rivelò a Luca Palamara l’arrivo al Consiglio Superiore della magistratura degli atti relativi all’indagine a suo carico. In particolare, si legge nel decreto di perquisizione, Spina, «quale consigliere Csm in seno alla I Commissione, essendo pervenuta al Csm una comunicazione di avvenuta iscrizione nel registro degli indagati nei confronti di Palamara Luca del presente procedimento, proveniente dal Procuratore della Repubblica di Perugia (con allegata una nota della Pg operante contenente atti ed elementi coperti dal segreto istruttorio), comunicazione inoltrata dal comitato di Presidenza alla I e alla V commissione in forma secretata, comunicando con Palamara, violando i doveri inerenti la sua funzioni e abusando della sua qualità, rilevava al predetto non solo il pervenimento dell’atto, ma, rispondendo alle reiterate ed incalzanti sollecitazioni del Palamara, gli rivelava, a grandi linee, i contenuti della nota, i nominativi degli altri soggetti coinvolti (familiari e conoscenti che avevano preso parte a dei viaggi oggetto de/l’accertamento medesimo) i nomi dei sostituti procuratori a cui quella nota era diretta, la Polizia Giudiziaria che l’aveva redatta, i particolari emergenti da alcune intercettazioni ivi citate, nonché, il titolo di reato oggetto dell’iscrizione e a suo carico ed anche l’epoca dell’iscrizione (art. 319 c.p. e mese di dicembre 2018)».
Da San Casciano ai Bagni a Dubai, i viaggi sospetti di Palamara. Ma come sono arrivati gli investigatori a Palamara? E’ indagando sulle spese di Centofanti in favore di un assessore di Artena, il Gico della guardia di Finanza incappa in una serie di pagamenti in hotel a favore di Palamara o di persone a lui vicine da parte dello stesso Centofanti o di società a lui ricollegabili. Al capitolo «utilità oggetto di investigazione» del decreto di perquisizione firmato dai pm di Perugia la Finanza riferiva alla Procura di più soggiorni presso l’Hotel Fonteverde di San Casciano dei Bagni, un lussuoso resort in Toscana, di pernotti e pasti all’Hotel Campiglio Bellavista, un quattro stelle di Madonna di Campiglio. Sempre le Fiamme Gialle fanno notare come su un viaggio a Dubai, «con relativo soggiorno», il cui pagamento risulta in parte fatturato con carta di credito di Palamara e in parte pagato in contanti da un suo conoscente, ci siano aspetti da chiarire: «Pagamenti sulla cui verosimiglianza la Pg avanzava alcuni dubbi in relazione alle date delle fatture». Sempre il Gico fa riferimento infine a un soggiorno a Favignana anche qui con fatture regolarmente pagate da Palamara su cui però gli investigatori sollevano perplessità.
Con le carte ricevute da Fava, Palamara puntava a screditare Ielo. Dal decreto di perquisizione della Procura di Perugia emerge il presunto «interesse di Palamara per la trattazione di un esposto che il dottor Fava (pm romano anch’esso oggi indagato dai colleghi di Perugia, ndr) aveva trasmesso al Consiglio Superiore della Magistratura. In tale atto, acquisito da quest’ufficio e pervenuto al Consiglio il 2 aprile 2019, venivano segnalate alcune “asserite” anomalie commesse dall’allora Procuratore della Repubblica di Roma (Giuseppe Pignatone, ndr) e da un aggiunto (Paolo Ielo, ndr). I destinatari di tale esposto, come vedremo, verranno individuati da Palamara come i responsabili dei suoi problemi giudiziari». «In un distinto colloquio, Fava, che aveva seguito le iniziali indagini del procedimento 44630/2016 mod. 21 presso la Procura di Roma, rivelerà a Palamara anche i “destinatari” originari della nota della polizia giudiziaria, tra i quali il Procuratore Aggiunto Paolo Ielo. A questo punto tornerà come argomento forte la vicenda dell’esposto di Fava che nell’intendimento di Palamara sarà suo strumento per screditare il Procuratore Aggiunto che ha disposto, all’epoca, la trasmissione degli atti a Perugia (rif. progressivo 15 del 16.5.2019 pagina 57 e progressivo 20 del 16.5.2019 pagina 66 in cui Palamara esclama “siccome un angelo custode ce l’ho io … sei spuntato te, m’è spuntato Stefano che è il mio amico storico …» e Spina lo rassicura «Ma è spuntato Stefano adesso si va fino infondo … »). «Tale dato – proseguono i magistrati di Perugia – emerge sia nelle citate comunicazioni con Spina, sia ancor di più nel progressivo 82 del 16.5.2019 intercorso con Fava, dal quale si ricava la consegna di carte da Fava a Palamara finalizzate a recare discredito al Procuratore Aggiunto Ielo».
Un consulente della Procura informò Palamara sul fratello di Ielo. Sarebbe stato un professionista, anche consulente della Procura, secondo quanto riportano i magistrati umbri nel decreto di perquisizione, a informare il pm di Roma, Luca Palamara di avere «raccolto informazioni compromettenti sul conto del collega Ielo». La circostanza per i pm perugini emergerebbe anche da alcune conversazioni telefoniche intercorse con questo consulente «che evidentemente a conoscenza delle intenzioni di Palamara lo informa di aver acquisito informazioni sul fratello del dottor Ielo che potrebbero danneggiare quest’ultimo». «Non vi è dubbio – continuano i magistrati umbri nel decreto – che tale ipotesi va accertata e verificata sia in un senso che nell’altro al fine di fugare il dubbio che si stia cercando di alterare il quadro probatorio».
Spina a Palamara: «avrai la tua rivincita contro chi ti sta fottendo». I magistrati di Perugia che hanno indagato per corruzione Palamara si dicono convinti che «la consegna di queste carte “contro” i suoi colleghi da parte di Fava e parimenti le informazioni assunte» dal consulente della Procura che avrebbe spifferato a Palamara informazioni sul fratello di Ielo «abbiano per Palamara, nella sua ottica, un valore al contempo difensivo e forse di “ritorsione”». Ciò per i magistrati umbri «emerge nitidamente dal colloquio che Palamara ha con l’amico Spina dopo le informazioni assunte sulle iniziative di questa Procura». Nel decreto viene riportato uno stralcio di questa intercettazione. Spina: «C’avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e tutte le cose forse sarà lui a doversi difendere a Perugia, per altre cose perché noi a Fava lo chiamiamo». Palamara: «No, adesso lo devi chiamare (in audizione al Csm, ndr) altrimenti mi metto a fare il matto».
SOLDI, VIAGGI, GIOIELLI «COSÌ L'IMPRENDITORE CORROMPEVA L'EX CONSIGLIERE CSM». Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della sera" il 31 maggio 2019. Indagato per corruzione, l'ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati (Anm) e già membro del Csm Luca Palamara è stato perquisito a casa e in ufficio e interrogato ieri dai pm di Perugia. È sotto accusa per aver accettato soldi e regali dall' imprenditore Fabrizio Centofanti al centro di un'inchiesta per corruzione e compravendita delle sentenze al Consiglio di Stato, assieme agli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore. In cambio di quei vantaggi Palamara si sarebbe messo a disposizione degli indagati «favorendo (da membro del Csm, ndr ) nomine di capi degli uffici cui erano interessati Amara e Calafiore» come ad esempio la Procura di Gela. Nella giornata più complicata per i pm capitolini, affiorano i nomi di altri due indagati dai magistrati della Procura guidata da Luigi De Ficchy: sono il collega di Palamara a Roma, Stefano Rocco Fava e il consigliere del Csm Luigi Spina. L'uno e l'altro avrebbero contribuito a informare l'ex presidente dell'Anm sull' inchiesta in corso, rivelando dettagli cruciali e ovviamente riservati. A Spina si contesta di avergli rivelato l'esistenza dell' inchiesta a suo carico dopo la comunicazione arrivata al Csm, con i nomi degli altri soggetti coinvolti «e a particolari emergenti da alcune intercettazioni». Quanto a Fava, «rispondendo alle plurime e incalzanti sollecitazioni (di Palamara, ndr ) gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui specificandogli che gli accertamenti erano partiti dalle carte di credito di Centofanti e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi». Di tutte queste informazioni Fava era in possesso in quanto pm titolare dell' inchiesta su Centofanti e soci. Ed è proprio indagando su quei pernottamenti che i finanzieri del Gico hanno trovato elementi a sostegno della presunta corruzione di Palamara: «Viaggi e vacanze (una anche a Dubai, ndr ) a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti ed anche un anello non meglio individuato del valore pari a euro 2 mila in favore dell'amica Adele Attisani». Non solo. Palamara avrebbe ricevuto 40 mila euro per facilitare la nomina a procuratore capo di Gela di Giancarlo Longo, il magistrato che fu arrestato per ordine dei giudici di Messina con l'accusa di corruzione. Palamara era stato convocato a Perugia per il 7 giugno, ma ieri, accompagnato dagli avvocati Mariano e Benedetto Buratti, si è presentato nella caserma della Guardia di Finanza per essere interrogato. Oltre cinque ore domande dei pm Gemma Miliani e Mario Formisano, ma proseguirà oggi. Ma intanto ha detto: «I veleni della Procura di Roma si stanno abbattendo sulla mia persona per scalfirne moralità e dignità. Sto chiarendo punto per punto fatti che attengono alla mia sfera intima e privata». Agli investigatori ha consegnato «una serie di ricevute e altre posso portarne per dimostrare che non ho preso soldi, né ho fatto favori». E sulle nomine si difende: «Chiunque conosce le dinamiche del Consiglio sa benissimo che trattandosi di un organo collegiale le decisioni non vengono prese da uno solo. Non ho mai avuto nessun tipo di rapporti con Amara e Calafiore, mentre ho specificato modalità e circostanze della mia amicizia con Centofanti».
QUEGLI INCONTRI CON I PARLAMENTARI E LA VENDETTA CONTRO PIGNATONE. Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini per il "Corriere della sera" il 31 maggio 2019. Sono condensati in alcuni incontri di poche settimane fa, tra il 7 e il 16 maggio, i presunti reati e le manovre consumate dal pubblico ministero romano Luca Palamara - indagato per corruzione - e il componente togato del Consiglio superiore della magistratura Luigi Spina, accusato di violazione di segreto e favoreggiamento. Un collega che i pm di Perugia titolari dell'inchiesta definiscono vicino a Palamara non solo «per interessi legati al mondo della magistratura, come le nomine dei procuratori della Repubblica di sedi vacanti, ma anche per un sottostante rapporto di natura personale e frequentazioni anche al di fuori dell' ambito "professionale"». Frequentazioni talvolta allargate ai deputati del Pd Cosimo Ferri (giudice e leader ombra della corrente di Magistratura indipendente) e Luca Lotti, ex sottosegretario a Palazzo Chigi durante il governo Renzi. Incontri intercettati dagli investigatori della Guardia di Finanza nei quali Palamara - ex presidente dell' Associazione magistrati ed esponente di gruppo Unità per la Costituzione, lo stesso gruppo di Spina - avrebbe rivendicato un proprio ruolo nell' operazione per portare l'attuale procuratore generale di Firenze Marcello Viola alla guida della Procura di Roma. Ma la successione dell' ex procuratore Giuseppe Pignatone non sarebbe l'unica che Palamara avrebbe voluto telecomandare. Secondo la ricostruzione dell' accusa era interessato anche alla Procura di Perugia, dove c'è l'indagine a suo carico e che da domani sarà libera con il pensionamento dell'attuale capo, Luigi De Ficchy. Palamara, accusano i pm, cercava un capo «sensibile alla sua posizione procedimentale e all'apertura di un procedimento fondato sulle carte che Fava era intenzionato a trasmettere a tale ufficio». Il 7 maggio dice a un collega: «Ma io non c'ho nessuno a Perugia, zero». Insieme fanno l'elenco dei candidati, l'altro lo invita a sostenerne uno che lui conosce, e Palamara chiede: «Chi glielo dice che deve fà quella cosa lì?... Deve aprire un procedimento penale su Ielo...cioè stamo a parlà de questo... non lo farà mai». Paolo Ielo è il procuratore aggiunto di Roma che insieme a Pignatone aveva inviato a Perugia gli atti da cui è nata l’indagine su Palamara. In un esposto al Csm il pm romano Stefano Fava li ha accusati di aver compiuto irregolarità nella gestione di alcuni fascicoli. Proprio il 7 maggio Spina rivela a Palamara l'esistenza di quel dossier. Nasce da lì, secondo i pm umbri, il «forte interesse di Palamara a gettare discredito sull'operato dei magistrati che riteneva responsabili dell'avvio delle indagini», utilizzando l'esposto di Fava. Palamara quasi lo confessa a Spina: «Un angelo custode ce l'ho, io... sei spuntato te, m'è spuntato Stefano (Fava, ndr ) che è il mio amico storico», e il collega conferma: «Ma è spuntato Stefano, adesso si va fino in fondo...». Da un incontro del 16 maggio «si ricava la consegna di carte da Fava a Palamara finalizzate a recare discredito a Ielo», e lo stesso giorno Spina gli dice: «C'avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo forse sarà lui a doversi difendere a Perugia per altre cose, perché noi a Fava lo chiamiamo». Palamara replica: «No, adesso lo devi chiamare altrimenti mi metto a fare il matto». La settimana precedente, il 9 maggio, Palamara e Spina si vedono con i deputati Ferri e Lotti (quest' ultimo imputato di favoreggiamento nel caso Consip dopo la richiesta di rinvio a giudizio firmata da Pignatone, Ielo e dal sostituto procuratore Mario Palazzi); nell'occasione Spina rivela che «all' esposto di Fava è allegato un cd che sarebbe secretato». Quel giorno l'ex presidente dell'Anm e componente del Csm fino al settembre scorso si mostra già consapevole dell' indagine a suo carico, e dice a Lotti: «Perché quel c.... che m' hanno combinato a Perugia ancora nemmeno si sa». Qualcosa ha cominciato a sapere il 16 maggio, quando Fava «gli rivelava, rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti "dalle carte di credito" di Fabrizio Centofanti, e si erano estesi alle verifiche dei pernottamenti negli alberghi». Si tratta dei viaggi e di altri favori che - secondo le verifiche della Finanza - sarebbero stati pagati da Centofanti, imprenditore arrestato a febbraio 2018 insieme agli avvocati siciliani Piero Amara e Giuseppe Calafiore per reati legati alla corruzione giudiziaria. Tra i regali contestati ci sono un anello del valore di 2.000 euro per un' amica di Palamara, Adele Attisani che dava indicazioni: «Io non lo so se voglio il solitario... io volevo una cosa più... sottile»; il pagamento di loro soggiorni in hotel a San Casciano dei Bagni, Favignana e Dubai (cinque giorni comprensivi di viaggio) tra il 2016 e il 2017; vacanze a Madonna di Campiglio per il magistrato e i suoi familiari, e per la sorella Emanuela. Secondo l' ex pm di Siracusa Giancarlo Longo (5 anni di pena patteggiati per corruzione) Calafiore e Amara avrebbero anche pagato 40.000 euro «a beneficio di Palamara» per far nominare Longo procuratore di Gela. Calafiore, che ha patteggiato la pena dopo aver collaborato con i pm, smentisce quel versamento. Inoltre Longo non ha ottenuto l'incarico. I pm di Perugia ritengono che l'ex consigliere possa aver avuto un ruolo anche nella sezione disciplinare del Csm, quando fu rigettata la richiesta di archiviazione in un procedimento nei confronti dell' ex pm di Siracusa Marco Bisogni, osteggiato da Amara e Calafiore. Tra le carte sequestrate a Centofanti c' erano atti giudiziari e ministeriali su processi che contrapponevano quel pm ai soliti avvocati, Longo, intercettato, commentava: «Intanto adesso se ne va a giudizio al Csm... c' è Palamara, e secondo me lo condanna». Bisogni invece fu assolto, ma il giorno della sentenza Palamara non era nel collegio giudicante.
Procura di Roma, pm Fava indagato a Perugia con Palamara: “Rivelazione di segreto e favoreggiamento”. Il pm accusato di aver rivelato al collega retroscena sulle indagini a suo carico per corruzione. I fatti contestati risalgono al 16 maggio. Due mesi prima, invece, il sostituto procuratore aveva preso carta e penna per scrivere al Csm e segnalare un presunto conflitto d'interessi di Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma ora in pensione, sul caso Amara. Marco Lillo il 30 Maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Si allarga l’indagine sui magistrati della procura di Roma. La Guardia di finanza – su mandato della procura di Perugia – ha perquisito casa e ufficio del pubblico ministero Luca Palamara, indagato per corruzione, in relazione ai suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, arrestato nel 2018 a Roma e scarcerato, in attesa di giudizio. Altre tre informazioni di garanzia sono state notificate a Luigi Spina, membro togato del Csm della corrente Unicost, la stessa di Palamara; all’avvocato Pietro Amara e al lobbista Fabrizio Centofanti, l’imprenditore che nella tesi dell’accusa avrebbe pagato le vacanze allo stesso Palamara. La procura di Perugia ha notificato anche un invito a comparire al pm della procura di Roma Stefano Fava, calabrese come Palamara e amico del collega da molti anni. Fava è l’autore di un esposto inviato a marzo al Csm sulle presunte ragioni di astensione in capo all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al suo aggiunto Paolo Ielo per gli incarichi che sarebbero stati assunti dai due fratelli dei magistrati, entrambi avvocato di grido. Circostanze – quelle del conflitto d’interessi – che nell’avviso a comparire recapitato a Fava la stessa procura di Perugia – competente per i reati dei magistrati romani – considera “allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita”. Ora i pm di Perugia entrano in quella storia di contrapposizioni tra magistrati romani. Da un lato fanno capire che considerano irrilevanti le cose sostenute contro i pm Pignatone e Ielo da Fava. Dall’altro lato contestano come un’ipotesi di reato la consegna da parte di Fava degli allegati a quell’esposto, atti presi dal fascicolo non più segreto. La svolta investigativa di Perugia svela un retroscena importante nella vicenda dell’esposto, della quale si era occupato Il Fatto. Per i pm di Perugia, quell’esposto (o almeno i suoi allegati) era stato condiviso con Palamara in una conversazione del 16 maggio nella quale quest’ultimo chiedeva a Fava notizie sull’innesco romano delle indagini a suo carico. Il pm Fava è accusato dai colleghi umbri di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Al centro c’è sempre Luca Palamara, ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, anche lui in servizio nella Capitale come sostituto. Palamara infatti è indagato dalla procura di Perugia per corruzione. E Fava è accusato di aver rivelato a Palamara i motivi per i quali era indagato dalla procura di Perugia. Fava è indagato dai pm perugini perché avrebbe rivelato i segreti di cui era titolare “quale sostituto procuratore titolare del procedimento penale n.44630/16, in seno al quale erano scaturiti gli accertamenti che avevano poi imposto la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica di Perugia nei confronti di Palamara Luca (reati di corruzione di cui al presente procedimento) confluiti nella nota di indagine che la Procura di Perugia aveva inoltrato al Csm in relazione alla iscrizione nel registro degli indagati nei confronti di Palamara Luca, violando i doveri inerenti al sua funzione e abusando della sua qualità”. Come avrebbe realizzato Fava questa violazione del segreto? “Comunicando – scrivono i pm di Perugia – con Palamara e rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti ‘dalle carte di credito’ di Centofanti Fabrizio e si erano estesi alle verifiche e pernottamenti negli alberghi, rivelandogli altresì alcuni retroscena delle indagini”. Fabrizio Centofanti, imprenditore ed ex capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone, è l’uomo che inguaia Palamara. I pm di Perugia ipotizzano che avrebbe corrotto il pm pagandogli gli alberghi per alcune brevi vacanze. Palamara nega. Arrestato nel febbraio del 2018 per frode fiscale, considerato vicino agli ambienti del Pd, Centofanti è in affari proprio con Piero Amara, l’avvocato siciliano al centro del caso delle sentenze comprate al consiglio di Stato. Proprio su Amara indagava Fava, prima d’imbattersi in Centofanti. Anche se, secondo quanto risulta al Fatto, nel fascicolo di cui Fava era titolare non c’era l’informativa della Guardia di Finanza sugli accertamenti svolti sulle carte di credito di Centofanti e sui soggiorni di Palamara. Il presunto reato sarebbe stato commesso il 16 maggio scorso e probabilmente la contestazione nasce da un’intercettazione di un colloquio. Due mesi prima, invece, come ha raccontato il Fatto Quotidiano il pm Fava aveva preso carta e penna per scrivere al Csm e segnalare un presunto conflitto d’interessi di Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma ora in pensione. Al centro dell’esposto di Fava c’è una riunione del 5 marzo scorso convocata da Pignatone nel suo ufficio per discutere dell’eventuale sua astensione in ragione dei rapporti professionali del fratello con l’avvocato Amara, che ha patteggiato 3 anni per corruzione. I pm di Perugia indagano Fava anche perché “consegnando a Palamara atti e documenti allo stato non identificati e alcuni atti già inoltrati al Csm ed alcuni atti già allegati all’esposto inoltrato al Csm, asseritamente comprovanti comportamenti non consoni del Procuratore capo e di un procuratore aggiunto anche in relazione al fascicolo 44630/16 (dal quale erano scaturite le investigazioni a carico del medesimo Palamara) in relazione a profili di mancata astensione dei predetti procuratori (circostanze allo stato smentite dalla documentazione acquisita presso la Procura di Roma) aiutava Palamara a eludere le investigazioni a suo carico”. Il 4 giugno prossimo Stefano Fava sarà davanti ai pm di Perugia e spiegherà le sue ragioni nell’interrogatorio.
Ora i pm incastrano Palamara "40mila euro per una nomina".
Nel 2016 il magistrato avrebbe intascato soldi per favorire l'incarico a Gela per Longo, poi arrestato per corruzione. Giovanni Neve Giovedì 30/05/2019 su il Giornale. Non solo le pressioni per piazzare Marcello Viola come successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Luca Palamara avrebbe intascanto nel 2016 ben 40mila euro per facilitare la nomina di Giancarlo Longo a procuratore capo di Gela.
L'ex capo dei giudici fissato con Berlusconi. Nomina che in realtà non è mai andata in porto, ma che ora rischia di costar cara al procuratore, già nella bufera. A dirlo è il decreto delle perquisizioni eseguite oggi in casa e nell'ufficio del magistrato. Secondo la procura di Perugia, infatti, Palamara "quale componente del Csm riceveva da Calafiore e Amara la somma pari ad euro 40 mila per compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio, ovvero agevolare e favorire il medesimo Longo". Lo stesso Longo che fu poi arrestato nell'ambito di un'inchiesta per corruzione. Per i pm, poi, l'imprenditore Fabrizio Centofanti "era una sorta di anello di congiunzione tra Luca Palamara e il duo Calafiore-Amara". E proprio Centofanti "ha agito come rappresentante di tale centro di potere che ha operato sistematicamente mediante atti corruttivi di esponenti dell'autorità giudiziaria". "Le utilità percepite nel corso degli anni da Palamara, dai suoi conoscenti e familiari ed erogate da Centofanti- si legge nel provvedimento - appaiono direttamente collegate alla sua funzione di consigliere dell'organo di autogoverno della magistratura. Il numero di donativi e il valore degli stessi non è spiegabile sulla base di un mero rapporto di amicizia". Per la procura di Perugia, quindi, "occorre tener conto che l'autore di tali emolumenti è un soggetto in stretti rapporti illeciti con imputati rei confessi del delitto di corruzione".
Palamara: «Clima avvelenato, ho usato frasi sbagliate Ma contro di me solo fango». Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. «Io sono stato infettato da un’amicizia, quella con Fabrizio Centofanti, e per questo posso essere giudicato. Ma ho avuto rapporti con lui, non con il suo mondo, gli avvocati finiti sotto processo e i loro affari». Dopo sei ore di interrogatorio (altre quattro giovedì pomeriggio) davanti ai pubblici ministeri di Perugia che lo accusano di corruzione e violazione di segreto, Luca Palamara dice di aver fornito tutti gli elementi per dimostrare la propria innocenza: «Non ho mai avuto soldi, regali o altri vantaggi, né ho mai barattato le mie funzioni di magistrato».
L’ex pm Giancarlo Longo, arrestato per corruzione, racconta di 40.000 euro versati per aiutarlo a diventare procuratore di Gela.
«È un falso, lo stesso avvocato Calafiore che avrebbe dovuto pagare quei soldi ha negato. Per fortuna si possono controllare i movimenti bancari. Sono millanterie, io Longo l’avrò visto una volta, e di Gela non mi sono mai interessato. Inoltre non ho fatto nulla per danneggiare chicchessia nella Sezione disciplinare, né avrei potuto visto che è un organo collegiale».
E i viaggi pagati da Centofanti?
«Rientrano in un rapporto che risale al 2008, Fabrizio era amico di mia sorella e ho cominciato una frequentazione insieme a varie persone, tra cui qualche magistrato. Niente di male né di sospetto, lui non mi ha chiesto niente. Degli avvocati arrestati con lui, Calafiore non l’ho mai visto, e Amara l’avrò incontrato due volte in situazioni conviviali».
Ma i viaggi pagati restano.
«Li ho pagati io, e se non ho potuto dare tutte le ricevute e prove dei versamenti è per motivi privati che ho spiegato ai pm. Qualcosa ho trovato, continuerò a cercare, ma non mi si può cucire addosso l’abito del corrotto per questo».
C’è pure l’anello da 2.000 euro per una sua amica.
«Un’altra vicenda privata che ho potuto chiarire. Nell’intercettazione in cui si parla dell’anello non sono io a parlare, ed è stata interpretata male. Di queste storie su di me si parla dal 2017, adesso finalmente so di che si tratta e mi posso difendere».
Sta dicendo che sapeva di essere indagato prima che glielo dicessero i suoi colleghi Spina e Fava?
«Sapevo da tempo, come tanti altri, che a Perugia si indagava su quella mia amicizia; era il segreto di Pulcinella, e da quando sono rientrato in Procura questa storia mi ha danneggiato. C’era un clima avvelenato, sentivo dire “ti vogliono fregare”, che non potevo diventare procuratore aggiunto e dovevo ritirare la domanda. Questo mi ha ferito e amareggiato: ditemi che non sono bravo, ma non che c’è un’inchiesta a Perugia. Sono rimasto molto deluso, sul piano umano prima che professionale, e da lì nascono certe affermazioni in cui ora non mi riconosco».
Sarebbero quelle da cui trapelano ritorsioni contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo? Lei cercava un procuratore di Perugia che lo mettesse sotto processo...
«È un fraintendimento. Intendevo dire, dopo aver saputo dal collega Fava che c’erano delle questioni su procedimenti gestiti insieme, che bisognava trovare qualcuno affidabile che verificasse ogni circostanza. Certi commenti esasperati sono frutto della forte tensione, io mi sentivo in trappola e cercavo una via d’uscita, ma non mi riconosco in quelle frasi».
Le ha dette lei.
«Sì, ma il significato non è quello che gli si attribuisce oggi. Non volevo danneggiare nessuno, ancora oggi mi sento un protagonista della Procura di Giuseppe Pignatone, non volevo vendette né ritorsioni contro di lui o altri».
Come spiega allora il suo appoggio alla nomina a procuratore di Roma di Marcello Viola, in discontinuità con la gestione Pignatone?
«Si cercavano soluzioni valutando possibili schieramenti e convergenze tra correnti. Non faccio più parte del Csm, ma è normale continuare a parlarne con i colleghi».
Anche con due deputati come Cosimo Ferri e Luca Lotti che sembra ce l’avessero con Pignatone?
«Ferri non ha niente contro Pignatone, e si facevano discorsi generici. Il tema era cercare di capire come superare il clima incandescente che si era creato, non danneggiare qualcuno».
Forse volevate anche capire se con la nomina di Viola lei poteva diventare procuratore aggiunto...
«Io ero comunque in difficoltà per questa storia che aleggiava, e cercavo le ragioni dell’ostilità nei miei confronti. Ma adesso tutto questo è superato, voglio mandare un segnale di distensione. Mi interessa solo scrollarmi di dosso questa assurda ondata di fango».
Csm e Palamara, le trame di Luca Lotti per il dopo Pignatone «Viaggi e gioielli». Pubblicato venerdì, 31 maggio 2019 da Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. C’erano altri due componenti del Consiglio superiore della magistratura agli incontri con i politici per scegliere il nuovo procuratore di Roma. Quando Luca Palamara discuteva con i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (entrambi sottosegretari del governo Renzi) la successione a Giuseppe Pignatone, erano presenti i due esponenti di Magistratura Indipendente: il capogruppo al Csm Corrado Cartoni e il collega Antonio Lepre. Con loro, almeno in un’occasione, c’era l’altro «togato» Luigi Spina, ora indagato per aver rivelato proprio a Palamara l’avvio dell’inchiesta per corruzione a Perugia che aveva appreso grazie alla comunicazione trasmessa al Csm e per questo ha deciso di autosospendersi. Le conversazioni intercettate grazie a un «troyan» inserito circa un mese fa nel telefonino di Palamara svelerebbero le trattative diventate serrate a pochi giorni dalle scadenze di palazzo dei Marescialli, ma anche l’interesse di Lotti alla discontinuità con la gestione Pignatone. Pochi mesi prima il procuratore, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi avevano chiesto per lui il rinvio a giudizio per l’affare Consip e dunque negli incontri delle ultime settimane Lotti avrebbe sostenuto la necessità di un cambio di rotta, sostenendo la candidatura del procuratore aggiunto di Firenze Marcello Viola, anziché quello di Palermo Francesco lo Voi. Valutazioni condivise da Ferri e discusse con i vari esponenti del Csm. Al momento nei confronti di Cartoni e Lepre non sono emersi rilievi di natura penale, ma i loro nomi saranno segnalati per eventuali azioni disciplinari. Non sono gli unici. La volontà di Palamara di screditare Ielo — diventato un nemico da quando aveva deciso di segnalare a Perugia proprio le spese di viaggi e gioielli che sarebbero state effettuate in suo favore dall’imprenditore Fabrizio Centofanti — è stata condivisa anche con un collega in servizio alla Direzione Nazionale Antimafia. Il 7 maggio scorso Palamara lo incontra e gli dice che «Fava vuole andare a Perugia», riferendosi all’esposto che il pm romano Stefano Fava ha deciso di presentare accusando Pignatone e Ielo di scorrettezze nella gestione delle inchieste. Fava è indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto. E adesso si valuterà se anche il magistrato della Dna abbia avuto un ruolo attivo in queste manovre. La Guardia di Finanza delegata alle indagini ha denunciato una vera e propria attività di dossieraggio svolta contro Ielo e tra i più attivi nella raccolta delle informazioni ha indicato il commercialista Andrea De Giorgio, che mercoledì scorso ha subito una perquisizione. Si tratta di un consulente della Procura di Roma che contatta Palamara il 25 marzo e l’11 aprile scorsi «e lo informa di aver acquisito informazioni sul fratello di Ielo che potrebbero danneggiare quest’ultimo». Il 16 maggio Palamara ne parla con Spina, concordano le nuove mosse contro Ielo. Spina sembra sicuro dell’esito e parla di quanto farà il Csm: «C’avrai la rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e sarà lui a doversi difendere a Perugia, perché noi Fava lo chiamiamo».
Antonio Massari e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 31 maggio 2019. Se davvero, come sostiene di aver saputo l' ex pm Giancarlo Longo in un interrogatorio, fu il Colle a fermare la sua nomina come procuratore di Gela, saremmo di fronte a uno scenario singolare: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da un lato, nel 2015 avrebbe bloccato meritoriamente la nomina di un magistrato che ha appena patteggiato una pena di 5 anni per corruzione in atti giudiziari. Dall' altro, però, dovrebbe almeno spiegare sulla base di quali informazioni agì in quel modo. Il motivo è semplice: Longo è il pm che a Siracusa ha imbastito un' inchiesta farlocca per sostenere che Claudio Descalzi, attuale amministratore delegato dell' Eni, fosse vittima di un complotto. Inchiesta ritenuta un depistaggio per intralciare il processo milanese sulla maxi tangente, pagata da Eni in Nigeria, per acquistare il giacimento Opl 245 e che vede proprio Descalzi tra gli imputati. L' intervento del Colle è citato nel decreto di perquisizione, eseguito ieri dal Gico della Guardia di Finanza, nei confronti di Luca Palamara, consigliere del Csm ed ex segretario dell' Anm, accusato di corruzione per atti contrari al dovere di ufficio. Palamara secondo l' accusa ha ricevuto in cambio regali - un anello per la sua amica del valore di 2mila euro -, viaggi e soggiorni i albergo dall' imprenditore Fabrizio Centofanti. La vicenda Longo è il primo dei sei capi d' imputazione menzionati nel decreto disposto dai pm perugini Mario Formisano e Gemma Miliani. Tra le accuse mosse a Palamara c' è anche quella - in concorso con l' avvocato esterno dell' Eni Piero Amara e il suo collega Giuseppe Calafiore - di "aver ricevuto 40mila euro per () agevolare e favorire Longo nell' ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela () in violazione dei criteri di nomina e selezione come individuati dalle circolari e atti correlati () pur non venendo Longo nominato". Negli atti viene citato un interrogatorio di Longo dinanzi ai magistrati di Messina: fu un intervento "diretto" del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - dice - a bloccare la sua nomina alla guida della procura di Gela. "Longo - scrive la procura di Perugia - riferiva di aver appreso da Calafiore che questi (Amara) sarebbe stato in grado di gestire i voti di Unicost (corrente del Csm, ndr) tramite Palamara, intimo amico di Centofanti (imprenditore indagato con Palamara, ndr)". Longo spiega che "Calafiore gli avrebbe riferito di aver dato, unitamente ad Amara, 40mila euro 'a beneficio di Palamara' per la sua (di Longo) nomina a procuratore di Gela, non avvenuta, a dire di Palamara, a causa di un intervento diretto del Presidente della Repubblica". In sostanza Palamara avrebbe riferito Longo che fu Mattarella a bloccare la sua nomina. L' ex consigliere potrebbe aver millantato per giustificare il mancato risultato raggiunto. O potrebbe millantare Longo che infine aggiunge di "aver incontrato Palamara tra novembre e dicembre 2015, a Roma, in un centro sportivo, di aver parlato della sua possibile nomina a Gela, verso la quale Palamara si dichiarava disponibile o in alternativa anche in relazione al posto di procuratore di un' altra procura, precisando che () non parlarono di soldi". "Longo - si legge ancora - spiegava l' interesse di Amara rispetto alla nomina del procuratore di Gela in relazione ai procedimenti riguardanti Eni ivi pendenti, e in sostanza affermava che Calafiore l'aveva incoraggiato a presentare domande di trasferimento avendogli promesso specifici aiuti e possibilità di agganci al Csm". L'obiettivo erano quindi i procedimenti pendenti a Gela sull'Eni. Ecco perché Mattarella dovrebbe spiegare se è vero che stoppò la nomina di Longo e sulla basi di quali informazioni: se il Colle era a conoscenza di manovre che intendevano interferire con le inchieste su Eni a Gela è un fatto che non può restare riservato. Calafiore nega ai pm perugini di aver mai pagato qualcuno ma ammette di aver aiutato Longo nelle sue domande di trasferimento "facilitandolo ad avere un contatto con Palamara per il tramite di Centofanti". Longo ha lasciato la magistratura sei mesi fa, dopo aver patteggiato una pena di 5 anni per l' accusa di corruzione. Dal Colle ci si limita a far sapere che il Presidente detta soltanto linee generali che riguardano tutti i magistrati senza mai entrare in casi specifici. Fonti autorevoli del vecchio Csm smentiscono qualsiasi interferenza di Mattarella.
“HO DATO 10MILA EURO A PALAMARA”. CARLO VULPIO (ANSA l'1 giugno 2019.) - "Sono certo di chiarire i fatti che mi vengono contestati. Il mio intendimento ora è quello di recuperare la dignità e l'onore e di concentrarmi esclusivamente sulla difesa nel processo di fronte a tali infamanti accuse. Per tali ragioni mi assumo la responsabilità di auto sospendermi dal mio ruolo di associato con effetto immediato". Lo scrive il pm romano Luca Palamara, indagato per corruzione a Perugia, al presidente dell'Anm Pasquale Galasso. Gli altri non so, ma io sì, ho dato soldi veri a Luca Palamara. Diecimila euro. Non so se la Guardia di Finanza li ha trovati durante le perquisizioni, ma dovrebbero esserci 10 mila euro con una fascetta sulla quale c’è il mio nome e cognome “Carlo Vulpio”. Sono i soldi che il giudice monocratico di Bari, Luna Calzolaro, con sentenza del 3 febbraio 2016 ha deciso che io pagassi a Palamara - subito, con una provvisionale - come risarcimento per averlo “diffamato”. E senza aspettare il giudizio della Corte di Appello, alla quale mi sono ovviamente rivolto per continuare a sostenere che non ho diffamato Palamara e che il primo giudice ha compresso il mio diritto di difesa decidendo all’ultimo momento di non ascoltare il testimone chiave della vicenda. Ma intanto, ho dovuto dare a Palamara 10 mila euro. Adesso tutti si chiedono perché il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si scagliò contro Palamara. E adesso (adesso!) casca giù dal pero anche l'ex presidente della Camera, Luciano Violante, e viene a dirci che per il Csm invece delle elezioni bulgare sarebbe meglio procedere per sorteggio. Ciao Violante, buonaseraaa...
GUERRA PER PROCURA. Stefano Zurlo per “il Giornale” l'1 giugno 2019. Quando ha letto gli è parso di rivedersi allo specchio. Le carte di Perugia, per quel che si capisce, descrivono un network che mischiava poltrone e anelli, posizioni di potere e vacanze all inclusive. La politica e la giustizia a braccetto. Ad Alfredo Robledo, che oggi non è più in magistratura ma solo cinque anni fa era una delle toghe più note a Milano, non interessano i benefit che appassionano l' opinione pubblica ma le guerre dietro le quinte. «Nel tempo, come è noto, il rapporto fra il Procuratore Edmondo Bruti Liberati e il sottoscritto si guastò. Ma non si trattava di un conflitto fra due primedonne come pure è stato raccontato, io semplicemente volevo preservare la mia autonomia e indipendenza, lui aveva un' altra concezione. Io riconoscevo in lui il monarca, ma non assoluto. E chiedevo, come stabilito dal Csm, che motivasse il cambio in corsa di regole e assetti codificati». Una battaglia sempre più aspra in un' escalation di colpi di scena. «In un modo o nell' altro io mi ritrovai isolato nel momento in cui avevo afferrato un filone di indagine su Expo, quello della cosiddetta piastra, che io ritenevo molto promettente e di cui poi non ho saputo più nulla». Difficile tentare paragoni, anche perché sono molte le tessere del puzzle. Si può ricostruire una singola vicenda, entrando in un labirinto di repliche, controrepliche, pareri, risoluzioni. Ma si può anche cogliere un clima generale, una tendenza, alcuni snodi simbolici. Robledo, che nel 2014 è procuratore aggiunto e ha il delicatissimo ruolo di guida del dipartimento che si occupa della pubblica amministrazione, si ritrova spalle al muro. Gli vengono imputati rapporti non ortodossi con l' avvocato Domenico Aiello. Perde le deleghe. Dopo qualche mese scatta il trasferimento a Torino. Lui allinea alcuni elementi: «Io non sono mai stato iscritto ad alcuna corrente, ma posso dire che all' inizio gli esponenti di Magistratura indipendente mi furono vicini, promisero di difendere le mie ragioni al Csm, dove la sinistra di Magistratura democratica era schierata compatta a tutela di Bruti Liberati. Invece, dopo un po' sparirono tutti, io mi sono ritrovato solo. Il Csm non ha mosso un dito. Nulla. Non so cosa sia successo, io scrivevo documenti, mandavo carte, davo prove di quel che sostenevo, ma mi sembrava di parlare al muro. Solo il Consiglio giudiziario a un certo punto prese la mia parte andando contro Bruti Liberati, ma poi il Csm scavalcò Milano». Ed è a questo punto che entra in scena Luca Palamara. «È lui che ha scritto il provvedimento cautelare con cui sono stato trasferito a Torino ed è ancora lui, sempre lui, a comporre la sentenza in cui quel trasloco diventa definitivo. E diventa una condanna. Io ho cercato in tutti i modi di far sentire la mia voce, di spiegare che dietro quelle vicende non c' erano beghe personali o caratteriali ma due visioni della magistratura assai diverse. Ma non è servito a niente». Facile leggere quello di Robledo come lo sfogo dell' ex, come il tentativo di rivincita di chi ha perso il match e non accetta il verdetto. Ma si può anche ricordare come sia stato il premier Matteo Renzi a ringraziare ai tempi di Expo la procura di Milano per la sua «sensibilità istituzionale». Una frase accolta dai giornali con maliziosi e ironici commenti sulle sinergie fra poteri dello Stato. Oggi l' indagine di Perugia sembra mettere i bastoni fra le ruote al tentativo di egemonizzare, e quindi fatalmente normalizzare, pezzi importanti del sistema giudiziario. «È una storia che parte da lontano, che inizia con me - conclude Robledo - e che fu risolta dall' intervento del Presidente della repubblica Giorgio Napolitano: la sua lettera dava al capo, quindi a Bruti Liberati, poteri estesi ed eliminava l' indipendenza della mia funzione». Il resto, a sentire Robledo, è stato il dispiegarsi di un sistema. Fino alla condanna firmata da Palamara. «Ma contro quel procedimento ho fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. E Strasburgo ha dichiarato ammissibile il mio caso». Un passaggio importante in una vicenda che non è ancora finita.
TOGHE CONTRO TOGHE, PALAMARA CONTRO IELO, CARLO BONINI CONTRO MARCO LILLO. Carlo Bonini per “la Repubblica” il 2 giugno 2019. Il magistrato della Direzione Nazionale Antimafia con cui Luca Palamara, intercettato dal Gico della Guardia di Finanza, discuteva al telefono della nomina del futuro Procuratore di Perugia era il suo collega di corrente (Unicost) Cesare Sirignano. Arrivato a Roma nel 2015, dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, dove aveva brillato per l' eccellente lavoro sulla Camorra (da cui aveva ricevuto minacce di morte), e tornato ad aprile 2018 in Campania come magistrato di collegamento con le Procure di Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere, Nola, Benevento ed Avellino, Sirignano è dunque l' ennesimo nome che, per "contagio", entra nelle carte dell' inchiesta di Perugia. Per quale motivo, poi, l' ex Presidente dell' Anm indagato per corruzione avesse bisogno di sollecitare Sirignano per la scelta del futuro Procuratore di Perugia sarà chiaro solo quando cadrà il segreto sul contenuto delle telefonate intercettate. Un fatto è certo: il pm della Dna non sarà l' ultimo magistrato a rimanere impigliato nella micidiale rete a strascico che sono stati gli ascolti del telefono di Palamara vista la sua frenetica attività di tessitura nel mercato delle nomine. Quello di cui altro e di più promettono di dire i giorni che abbiamo davanti. Partendo da un dato che, ad oggi, pare acquisito. In quel mercato, a capotavola, a trattare con Palamara per conto di Unicost e con gli «amici» di Magistratura Indipendente in Consiglio (Corrado Cartoni e Antonio Lepre) erano i parlamentari Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti. Per i quali la nomina del Procuratore di Roma - primo movimento di un Grande Gioco in divenire - era diventata una linea del Piave da presidiare con un Procuratore ritenuto "affidabile". L' inchiesta di Perugia - per quanto riferiscono qualificate fonti investigative - sorprende infatti Lotti a rivendicare per sé l' ultima parola sull' accordo circa il successore di Pignatone. Lotti avrebbe dovuto dare semaforo verde. E in nome di un solo criterio. Che il futuro Procuratore non avesse "pendenze" con la stagione renziana. Motivo per il quale - per dire - Giuseppe Creazzo, oggi procuratore di Firenze e uno dei tre candidati in Consiglio, era dato come spacciato. Perché politicamente inaffidabile per il lavoro fatto a Firenze sul Giglio magico. In questa partita, del resto, non erano previsti per altro prigionieri. Come dimostra un nuovo dettaglio sul dossieraggio che avrebbe dovuto spezzare le ossa di Paolo Ielo, colpevole di essere stato uno dei pivot della stagione di Pignatone a Roma, di aver pestato troppi piedi e dunque condannato, nei piani della congiura, a passare i prossimi mesi a difendersi a Perugia di fronte a un nuovo Procuratore scelto dai suoi carnefici. Nel ciarpame fatto arrivare al Csm sul suo conto era infatti anche un' altra vicenda (anche questa affacciata con singolare tempismo nel marzo scorso sul "Fatto", lo stesso giornale utilizzato come buca delle lettere per veicolare l' esposto dell' oggi pm indagato Stefano Fava su Pignatone e lo stesso Ielo) che, nelle intenzioni dei cartari, doveva imbarazzare il procuratore aggiunto. Parliamo di una consulenza avuta nel 2018 dal fratello Domenico Ielo, da Giovanni Bruno, commissario liquidatore di "Condotte", terza società italiana di costruzioni. Ebbene, la sorella di Bruno, B.runella, magistrato amministrativo, era stata nel 2016 imputata in un processo di cui Ielo era stato pm e da cui era uscita assolta. Il dossier doveva calunniosamente lasciare ipotizzare chi sa quale inconfessabile trastula. Peccato che Paolo Ielo avesse chiesto la condanna della Bruno (1 anno e 2 mesi) e avesse comunicato la sua astensione da qualsiasi procedimento su "Condotte" appena avuta notizia dell' incarico al fratello. Ma, evidentemente, in questo verminaio, tutto faceva brodo. Anzi, veleno.
Pm, politici e manager: la lista dei 40 nella rete di Palamara per «gestire le nomine». Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 da G. Bianconi e F. Sarzanini su Corriere.it. Nella rete costruita dal pubblico ministero Luca Palamara ci sono giudici, politici, imprenditori e manager. Con loro aveva rapporti professionali e privati sui quali svolgerà accertamenti la Procura di Perugia, che ha inquisito il magistrato per corruzione. La lista comprende una quarantina di nomi che la guardia di finanza ha mostrato a Palamara al momento della perquisizione, informandolo che avrebbe cercato nei suoi computer, nel telefonino, ma anche nei documenti prelevati a casa e in ufficio, riferimenti a quelle persone per verificare la natura dei contatti. Alla vigilia di una giornata che potrebbe rivelarsi cruciale per l’inchiesta penale e le ricadute istituzionali delle trame per l’assegnazione di poltrone negli uffici giudiziari — con gli interrogatori fissati degli altri magistrati indagati Stefano Fava e Luigi Spina, e la riunione straordinaria del plenum del Consiglio superiore della magistratura — emergono nuovi dettagli sul materiale raccolto negli ultimi mesi che consentiranno di approfondire diversi filoni investigativi. Nell’elenco ci sono almeno quattro pm di Roma che con Palamara erano in stretto contatto. Due avrebbero condiviso con lui viaggi e vacanze. Altri, oltre a Fava che per questo è indagato di favoreggiamento e rivelazione di segreto, lo avrebbero appoggiato nei presunti progetti di «vendetta» contro l’ex procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. In una conversazione captata grazie al trojanche ha trasformato il suo telefono in una microspia, Palamara è esplicito sul candidato da scegliere per la Procura di Perugia: «Deve aprire un procedimento penale su Ielo... de questo stamo a parla’». Per questo — sebbene nel suo interrogatorio, assistito dagli avvocati Mariano e Benedetto Buratti, abbia cercato di spiegare che voleva solo un inquirente che appurasse tutto — si muoveva con politici come Cosimo Ferri e Luca Lotti. Ma anche con alcuni consiglieri del Csm che avrebbero dovuto votare le nomine dei nuovi procuratori. Allargando poi la propria rete a tutti coloro che potevano dargli informazioni utili, compresi politici locali e professionisti o manager custodi di informazioni riservate. Tra le persone su cui svolgere verifiche ci sono anche alcuni consiglieri del precedente Csm. L’accusa di aver orientato nomine e decisioni in cambio di soldi, viaggi e gioielli riguarda infatti soprattutto il Consiglio di cui Palamara ha fatto parte fino al 2018. Proprio in quel periodo — è il sospetto — potrebbe aver gestito alcune pratiche segnalate dal suo amico Fabrizio Centofanti, che a sua volta agevolava gli affari degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. A parte le scelte del procuratore di Gela e il procedimento disciplinare su un pm di Siracusa, già contestati all’indagato, i controlli potrebbero allargarsi ad altre vicende come quelle della Procura di Trani, dove inizialmente era stato inviato il dossier su un falso complotto ai danni dei vertici dell’Eni, poi trasmesso a Siracusa. Lì c’era un pm, Antonio Savasta, poi arrestato per corruzione, messo sotto inchiesta disciplinare e assolto dalla Sezione di cui faceva parte anche Palamara. Ma si tratta di provvedimenti collegiali, dove sarà complicato trovare riscontri a eventuali responsabilità individuali.
Le decisioni del Csm. In questo contesto a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si attende l’arrivo delle trascrizioni delle intercettazioni. Per affrontare con piena cognizione di causa la discussione nel plenum straordinario che si terrà domani pomeriggio e poter valutare i colloqui tra magistrati e politici a cui hanno partecipato, assieme a Palamara e Spina, almeno altri due consiglieri: Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura indipendente. Soprattutto Lepre potrebbe trovarsi in una situazione delicata, poiché fa parte della commissione incarichi direttivi che tratta le pratiche sulle nomine di tutti i vertici degli uffici giudiziari. E proprio delle nomine dei procuratori di Roma e non solo, pare si discutesse in quelle riunioni. Lepre è uno dei quattro consiglieri che il 23 maggio ha votato per proporre Marcello Viola nuovo procuratore della Capitale, il candidato sponsorizzato da Palamara. Ed è uno dei tre che ha deciso di respingere la richiesta di fare le audizioni prima di votare, come chiesto da un componente ma esplicitamente raccomandato dal vicepresidente David Ermini, portavoce di un’istanza del Quirinale. In questo contesto a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si attende l’arrivo delle trascrizioni delle intercettazioni.
[L’inchiesta] "Volevano il controllo sulle procure per vendicarsi di alcuni colleghi". La difesa di Palamara: "Su di me fango, mai barattato dignità e professione". Claudia Fusani, giornalista parlamentare 1 giugno su Tiscali News. Il pm romano al centro della bufera giudiziaria che intreccia fatti di corruzione con il tentativo di condizionare alcune nomine ai vertici degli uffici. Tra questi, la procura di Roma e di Perugia che indaga sulle toghe della Capitale. Giura di “non aver mai barattato la dignità e la professione con alcuno”. Nega di aver avuto “40 mila euro in cambio della nomina del procuratore di Gela”, circostanza che in effetti non si è poi mai verificata. Mette a disposizione il proprio conto corrente, “l'ho appena fatto con i magistrati di Perugia”. Dice che su di lui “è stata rovesciata una quantità inaudita di fango”. E comunque riuscirà a spiegare tutto, assicura, “lo devo ai miei figli, alla famiglia, ai magistrati italiani e a tutte quelle persone che hanno riposto fiducia in me”.
Un interrogatorio lungo un giorno e mezzo. Dopo un interrogatorio durato in pratica un giorno e mezzo, tutta la giornata di giovedì a Roma e ieri fino alle tre del pomeriggio davanti ai colleghi a Perugia, il pm romano Luca Palamara consegna ai giornalisti, con passione e molta disperazione, la sua versione dei fatti. In 48 ore, da essere uno dei magistrati più noti d'Italia, leader di Unicost, ex membro del CSM ed ex presidente dell'Anm, sostituto a Roma con buone possibilità di passare aggiunto, si ritrova ad essere “lo scandalo della magistratura”, il simbolo “del punto più basso raggiunto dalla toghe”. Oltre che indagato per una presunta brutta storia di corruzione dai contorni ancora poco chiari e proprio per questo abbastanza inquietanti. Già nota come “la battaglia finale per il controllo della procura di Roma”, “le mazzette al CSM”, “il mercato delle nomine” e via di questo passo con una ridda di titoli di giornali e servizi Tv che sembrano ignorare il fatto che è sempre pericoloso generalizzare quando si parla delle istituzioni perché significa indebolirle, svilirle e metterle alla berlina senza pensare agli effetti collaterali, l'inchiesta della procura Perugia ha scatenato un tale inferno politico e istituzionale che deve procedere il più velocemente possibile verso la verità. È necessario fugare o confermare il prima possibile quelli che oggi sono indizi e sospetti che rischiano di azzoppare senza ritorno la magistratura.
Tenere distinti i fatti. L’Anm cerca di tenere distinti i fatti: una cosa sono i fatti relativi alla presunta corruzione per cui sono indagati tre magistrati, due pm della Capitale – Palamara e Stefano Fava per i quali mercoledì 5 si riunirà la sezione disciplinare dell’Anm – e il consigliere togato Luigi Spina (da ieri autosospeso da ogni funzione consiliare); altra cosa sono le dinamiche correntizie che da sempre – sarebbe ipocrita negarlo – caratterizzano le scelte dei vertici dei vari uffici. Nel breve periodo il Csm dovrà nominare oltre centro magistrati ai vertici di tribunali e procure, caselle a volte delicate come possono essere le procure di Roma, più di tutte, Torino, e poi Brescia e Perugina. Naturale che ci siano consultazioni preliminari e contatti che non sempre sono spartizioni e lottizzazioni. Il problema è che dalle carte dell’inchiesta di Perugina, che per legge indaga sui colleghi della Capitale, emerge, secondo l’accusa, un piano, si spiega negli uffici della procura di Roma, “finalizzato non solo a condizionare quelle nomine ma, attraverso quest’ultime, a regolare conti interni nati da gelosie, vendette personali e finanche propositi di controllare l’attività dei giudici per gestire inchieste scomode”. In Sicilia, tra Gela e Siracusa, ma anche a Roma e a Perugia. Un quadro che, se confermato, “potrebbe configurare quasi l’eversione”. Un quadro che Palamara avrebbe smontato pezzo dopo pezzo nel suo lungo faccia a faccia con i pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani giustificando il tutto, al massimo, con qualche rancore personale e legittima ambizione.
L’uso del trojan. Perugia è da ieri senza procuratore capo visto che Luigi de Ficchy è andato in pensione come è già successo l’8 maggio a Roma quando Pignatone ha salutato i suoi quasi cento sostituti dopo sette anni incredibili che hanno scoperchiato il malaffare criminale e politico della Capitale. Incredibili perché la procura di Roma aveva scoperchiato sempre molto poco affidata negli anni per lo più a procuratori zelanti e poco coraggiosi. Sono stati Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Paolo Ielo ad inviare, ormai un anno fa, le carte ai colleghi di Perugia per verificare ed esplorare quello che stava emergendo intorno al ruolo e alla figura di Palamara, sostituto a piazzale Clodio in prestito al Csm fino a settembre 2018 quando poi è tornato nuovamente in procura a Roma. Il nome di Palamara emerge in quanto amico di Fabrizio Centofanti, manager romano, che ha da poco patteggiato una condanna in una brutta storia di corruzione giudiziaria che ha visto protagonisti due avvocati siciliani (Pietro Amara e Giuseppe Calafiore) che avevano creato una vasta rete di relazioni utile a condizionare le sentenze del Consiglio di Stato. A questo punto anche le nomine dei capi delle procure. Considerata la delicatezza degli indizi, i pm umbri decidono di non fare sconti al collega e di impiegare addirittura un trojan (meccanismo inviato allo smartphone che nei fatti si trasforma in cimice che ascolta tutto). Segno che i sospetti sono stati da subito inquietanti.
"Ha venduto la propria funzione". I pm umbri scrivono che Palamara “ha venduto la propria funzione di consigliere del Csm dal 2014 al 2017”. Nelle carte ci sono indizi documentali che parlano di viaggi regalati, a Dubai, in Toscana e a Madonna di Campiglio con tanto di cenone di fine anno. Si parla di passaggio di danaro, ben 40 mila euro: ne parla, interrogato, l’ex toga Giancarlo Longo, poi condannato per corruzione, che Palamara avrebbe cercato di promuovere procuratore a Gela così come chiedevano i due avvocati che per questo lo avrebbero pagato 40 mila euro (la nomina fu stoppata da Mattarella). Soldi che Palamara nega tassativamente di aver ricevuto e che difficilmente potranno essere dimostrati. Ma quello che più inquieta dell’indagine sono le intercettazioni. Dialoghi che spiegherebbero la contropartita di quei regali. E il contesto dove la vendetta personale si mescolerebbe alla volontà di controllo di alcune procure chiave. In pratica Palamara, una volta consapevole (grazie alla soffiata di Spina che sta al Csm e poi del collega Fava che per primo aveva trovato il contatto, tramite carte di credito, tra Palamara e Centofanti), non solo rivendicava un ruolo di king maker nella nomina del nuovo procuratore di Roma (è in testa il pg di Firenze Marcello Viola ma la votazione finale è attesa intorno a metà giugno), ma avrebbe lavorato anche per condizionare la nomina del nuovo capo di Perugia e trovare così una persona amica che avrebbe potuto indagare sull’aggiunto Paolo Ielo colpevole di aver iniziato l’indagine su Palamara e, una volta sostituito Pignatone, certamente più solo.
"La rivincita". I passaggi chiave per l’accusa sono racchiusi in alcune intercettazioni captate tra il 7 e il 16 maggio, un paio di settimane fa, quando viene a sapere che Fava ha presentato un esposto al Csm contro Ielo e Pigantone. In quei giorni Palamara, è la tesi dei pm umbri, sconvolto e preoccupato dalla notizia, voleva condizionare la nomina del nuovo procuratore di Perugia “per avere un capo sensibile alla sua posizione procedimentale e all’apertura di un procedimento fondato sulle carte che il pm Fava era intenzionato a trasmettere a Perugia proprio sull’operato di Pignatone e Ielo”. Il 7 maggio Palamara dice ad un collega: “ ma io non c’ho nessuno a Perugia, zero”. I due prendono in esame alcuni candidati e, una volta individuato quello più utile alla bisogna, Palamara osserva: “Ma chi glielo dice che deve fare quella cosa lì… che deve aprire un procedimento su Ielo, cioè di questo parliamo, non lo farà mai”. Il pm Fava assume così le fattezze dell’”angelo custode”. Sempre parlando con Spina, che lo aggiorna nel dettaglio su ciò che si sta movendo a palazzo dei Marescialli, Palamara dice: “Un angelo custode ce l’ho io, m’è spuntato Stefano (Fava, ndr) che è il mio amico storico”. E Spina: “E’ spuntato Stefano, e adesso si va fino in fondo”. Il 16 maggio “Fava consegna a Palamara documenti finalizzati a gettare discredito su Ielo”. Quello stesso giorno Spina dice: “Avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo forse sarà lui a doversi difendere a Perugia per altre cose perché noi (la I° commissione del Csm, ndr) Fava lo chiamiamo”. E Palamara: “No, lo devi chiamare adesso perché che altrimenti mi metto a fare il matto”.
I parlamentari. Nelle 19 pagine del decreto di perquisizione si fa riferimento anche ad alcuni incontri che Palamara e Spina hanno avuto con alcuni deputati. Si tratta del magistrato Cosimo Ferri, leader di riferimento di Mi, e Luca Lotti (entrambi del Pd). Con loro Palamara, secondo gli investigatori del Gico della Finanza, avrebbe rivendicato un ruolo nella nomina, ancora non avvenuta, del nuovo procuratore di Roma. Incarico per cui la V Commissione del Csm si sarebbe espressa sul pg di Firenze Marcello Viola. In procura a Roma si fa notare che “Lotti, indagato a Roma per Consip, viene aggiornato sulla scelta del nuovo procuratore della Capitale”. Una coincidenza? Qualunque cosa sia, suona come minimo inopportuna.
La difesa di Palamara. Nel lungo faccia a faccia con i pm umbri, Palamara non ha rinnegato l’amicizia con Centofanti. “Ma è un rapporto di amicizia preesistente e risalente. Siamo usciti insieme e abbiamo passato del tempo insieme. Ma non accetto minimamente da chicchessia che si possa pensare che abbia ricevuto favoritismi, anche con riferimento ai viaggi, per dare in cambio qualsiasi favore”. Il magistrato è sicuro che potrà “continuare a fare a testa alta quello che ho fatto. Poi posso aver fatto errori ma mai e poi mai ho barattato in alcun modo l'imparzialità del mio giudizio, il mio essere magistrato ma soprattutto l'attività che ho svolto al Csm nell'interesse della magistratura intera, dei colleghi e nel pieno rispetto di tutte le istituzioni”. Da comprendere alcuni sfoghi verbali nati dalla preoccupazione per un’inchiesta che però Palamara dice di conoscere da settembre “quando già ne parlarono alcuni giornali”. Legittimo anche ambire all’incarico di aggiunto. Circa i politici, si tratta di “rapporti ordinari nell’ambito del ruoli istituzionali ricoperti negli anni”. Tra Csm e Anm “ho avuto in più occasioni incontri con i più svariati appartenenti al mondo politico di qualsiasi parte per questioni relative alle politiche della giustizia. Mai però queste discussioni hanno potuto interferire con la scelta dei capi degli uffici”.
Coincidenze, errori, ingenuità, leggerezza, svendita della propria funzione: qualunque cosa sia, occorre che le indagini arrivino presto alla conclusione dando risposte certe. La magistratura non può operare con questo verminaio sullo sfondo.
L'amante gli alberghi e il "solitario", ecco come si è difeso Luca Palamara davanti ai magistrati. Voleva essere interrogato per spiegare, convincere i suoi colleghi, i sostituti procuratori di Perugia, che non ha mai preso soldi, regali, viaggi. Guido Ruotolo 31 maggio 2019 su Tiscali News. Ha cercato disperatamente di difendersi, Luca Palamara. Ma ha capito di avere poche possibilità di rialzarsi in piedi. Voleva essere interrogato per spiegare, convincere i suoi colleghi, i sostituti procuratori di Perugia, che non ha mai preso soldi, regali, viaggi. Sperava che i pm scoprissero le carte, approfondissero gli elementi che li avevano convinti del suo coinvolgimento. L'ex membro del Csm in attesa di essere nominato procuratore aggiunto di Roma ha visto in pochi giorni crollare il suo mondo. Era potente, Palamara. Contava e diceva la sua sulle nomine dei vertici degli uffici giudiziari. Tutto questo fino a all'inizio di questa settimana quando è arrivata la perquisizione della Finanza.
Sperava di poter chiarire tutto. Ma il suo è stato un drammatico monologo davanti ai magistrati della Procura di Perugia. Quasi quattro ore per cercare di smontare le accuse contestate nel provvedimento con il quale gli 007 del Gico della Finanza lo hanno perquisito. Muti, i pm di Perugia hanno lasciato che Palamara parlasse.
Colpisce e inquieta questa inchiesta. Perché racconta della degenerazione di un sistema di autogoverno della magistratura. Unico, il Consiglio Superiore della Magistratura, dove sopravvive il Manuele Cencelli, un lascito della Prima Repubblica. In base alla rappresentanza, le varie correnti si spartiscono le nomine dei vertici degli Uffici giudiziari. Ora però, se si dovesse arrivare al processo e i giudici di Perugia dovessero confermare le accuse della Procura, almeno nella scorsa consiliatura, a Palazzo dei Marescialli alcune nomine sono state garantite e pilotate dall'esterno, per interessi criminali, illegali, illeciti. I magistrati di Perugia stanno verificando alcune nomine in particolare. Il numero dei magistrati indagati va ben al di là di Luca Palamara (corruzione) e di Luigi Spina, membro del Csm indagato per aver violato il segreto d'ufficio e per favoreggiamento. Ci sono vertici di uffici giudiziari che secondo alcuni testimoni sono stati nominati per essere a disposizione.
Da dove è partita l'inchiesta. L'inchiesta che sta terremotando il Csm e gli uffici giudiziari, muove i suoi primi passi nella Sicilia Orientale. Siracusa. Due avvocati, un magistrato e un faccendiere. Sono loro i protagonisti di storie di sentenze comprate, assoluzioni garantite, magistrati da promuovere e altri da punire. E dal faccendiere, Fabrizio Centofanti, si arriva a Luca Palamara e le carte vengono spedite a Perugia.
L'amante e il contante. "Posso chiarire tutto. Quegli alberghi li ho pagati io, in contanti. Non volevo che mia moglie scoprisse che ero in compagnia di una donna". Ha provato a difendersi così Palamara. Non sapendo che la Guardia di finanza aveva raccolto persino le dichiarazioni dei titolari degli alberghi e le fatture. Soggiorni offerti da Fabrizio Centofanti sin dal lontano 2011, quando Palamara non era ancora componente del Csm. Soggiorni da 425 euro per due notti all'Hotel Fonteverde di san Casciano dei Bagni, Siena. Altro che conti saldati in contanti. L'amministrazione dell'Hotel Campiglio Bellavista di Madonna di Campiglio conservava persino l'appunto che il prenotante della stanza era Fabrizio Centofanti, che per loro era riservata la mezza pensione e che avrebbe saldato il conto lo stesso Centofanti. La storia dell'anello ha fatto scalpore perché durante una conversazione intercettata, Adele Attisani non è convinta di prendere "il solitario", preferendo un gioiello più sottile. Valore 12.000 euro. Nelle carte della inchiesta perugina si raccontano storie di mercimonio di magistrati che si vendevano sentenze e trasferimenti di fascicoli da una città a un'altra. Quello che è certo è che la inchiesta di Perugia è destinata ad avere nuovi sviluppi.
GIUSTIZIA E' SFATTA. Marco Lillo e Antonio Massari per “il Fatto Quotidiano” l'1 giugno 2019. Il 9 maggio Luca Lotti, in compagnia del collega di partito Cosimo Ferri, discute con Luca Palamara e Luigi Spina del futuro della procura di Roma e della successione di Giuseppe Pignatone. I quattro non sanno che la Procura di Perugia, dopo aver inoculato un trojan nel telefono di Palamara, trasformandolo in una cimice, sta intercettando le loro conversazioni. Sarebbe riduttivo definire l' intercettazione di questo consesso gelatinoso un mero atto d' indagine: ritrae in diretta la delegittimazione in cui stanno sprofondando la magistratura e un' importante parte della politica. Lotti, non a caso, è definito negli atti il "parlamentare imputato". È imputato, infatti, con l' accusa di favoreggiamento, nell' inchiesta Consip condotta dalla Procura di Roma. Non solo. Per Tiziano Renzi, accusato di traffico d' influenze nella stessa inchiesta, è stata richiesta l' archiviazione, ma non è stata ancora disposta: sul suo destino pende sempre l' ipotesi di un' imputazione coatta. Lotti non doveva essere lì e non doveva interessarsi al futuro della Procura che ha chiesto il suo rinvio a giudizio. Non dev' essere affar suo se il posto di Pignatone sarà preso da Marcello Viola, Francesco Lo Voi o Michele Creazzo. Ma c' è di più. Discute con Palamara anche di quel che potrà accadere al suo accusatore: il procuratore aggiunto Paolo Ielo che, con il collega Mario Palazzi, ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Lotti è in compagnia di Cosimo Maria Ferri, ex magistrato, storico e inossidabile ras della corrente di Magistratura Indipendente, oggi deputato del Pd: una formidabile cerniera tra mondo politico e giudiziario. A invischiare il quadro c' è la presenza del componente del Csm, Luigi Spina. A renderlo insostenibile c' è infine il protagonista dell' indagine: l' ex presidente dell' Anm e consigliere del Csm Luca Palamara, uomo forte della corrente Unicost, accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d' ufficio, sostituto procuratore a Roma, dove aspira a conquistare la poltrona di procuratore aggiunto. È già difficile in questo contesto cogliere la separazione tra i due mondi, quello politico, giudiziario e correntizio, ma a rendere più fosco il clima è un altro contenuto della loro conversazione: l' esposto che, secondo l' accusa, sarà lo "strumento" di Palamara per "recare discredito" a Ielo, ovvero il magistrato che ha indagato Lotti chiedendone il suo processo. Lotti e Ferri non dovrebbero essere lì e non dovrebbero assistere alla strategia che, in base all' accusa, mira a colpire Ielo. Invece ci sono. A scrivere l' esposto consegnato al Csm - e destinato alla Procura di Perugia secondo la conversazione - è stato il pm romano Stefano Fava. "L' esposto di Fava - scrive la Procura di Perugia - nell' intendimento di Palamara sarà suo strumento per screditare il procuratore che ha disposto, all' epoca, la trasmissione degli atti a Perugia". E ancora "la consegna di carte da Fava a Palamara", aggiungono i pm umbri, è "finalizzata a recare discredito al procuratore aggiunto Paolo Ielo". Al centro dell' esposto di Fava - che i pm definiscono "circostanze allo stato smentite dalla documentazione fin qui acquisita" - c' è la mancata astensione di Ielo e del procuratore capo uscente di Roma Giuseppe Pignatone, in un fascicolo che riguarda l' ex avvocato esterno dell' Eni, Piero Amara, per il duplice motivo che il fratello di Ielo ha lavorato per Eni mentre quello del procuratore capo ha in passato collaborato con Amara. E ancora: Spina - si legge negli atti di Perugia - rivela ai tre che "all' esposto di Fava è allegato un cd che sarebbe stato secretato". Spina alla presenza di Palamara e Ferri fornisce al "parlamentare imputato" Lotti un' informazione che riguarda il suo accusatore e la manovra di "discredito" che sta per colpirlo. Manovre contro Ielo e discussioni su chi sarà il nuovo procuratore di Roma. Tutto questo non è solo un atto d' indagine. È il finale di una commedia tragica che oltre ai tre magistrati, vede protagonista il Pd e quel che resta del Giglio magico e del suo senso delle istituzioni.
Marco Lillo, Antonio Massari e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” l'1 giugno 2019. Quella che si sta consumando in queste ore nei palazzi di giustizia romani è una storia di tradimenti e colpi sferrati dietro la schiena tra chi dovrebbe stare sempre dalla stessa parte. Protagonista è Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma, ex consigliere al Consiglio superiore della Magistratura (Csm), in passato anche presidente dell' Associazione Nazionale Magistrati. Doveva rappresentare la sua categoria, meno uno. Ossia Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma. Lo stesso che a Perugia aveva inviato nel 2018 le carte di un' indagine che raccontavano i rapporti tra Palamara e l' imprenditore Fabrizio Centofanti e che sono costati all' ex consigliere l' accusa di corruzione. Uno smacco che Palamara non sopportava, tanto da utilizzare per screditare Ielo - secondo le carte dei pm di Perugia - una denuncia fatta al Csm da un altro magistrato, Stefano Rocco Fava in cui "venivano segnalate 'asserite' anomalie commesse" da Ielo ma anche dall' ex procuratore capo Giuseppe Pignatone. È la storia di un esposto rivelato mercoledì dal Fatto che riguarda presunte ragioni di astensione in una particolare indagine in capo a Pignatone e Ielo per gli incarichi che sarebbero stati assunti dai due fratelli dei magistrati. Accuse che i pm di Perugia bollano così: "circostanze allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita". E così anche Fava si ritrova indagato a Perugia, ma per favoreggiamento e rivelazione di segreto. Quest' ultimo reato contestato anche al consigliere del Csm Luigi Spina. È stato il trojan installato sul cellulare di Palamara a svelare questa storia di notizie rivelate e usate a proprio favore. Un trojan che ha raccolto anche tante altre voci di chi nel Csm ora sta discutendo la nomina a procuratore capo di Roma. Sono stati ad esempio intercettati "casualmente" almeno due parlamentari che parlavano con Palamara a maggio del 2019. Ci sarebbe poi anche una registrazione della voce di Luca Lotti, il renzianissimo ex sottosegretario allo Sport, totalmente estraneo alle indagini. Sono due dunque le rivelazioni fatte a Palamara. Da una parte Spina - secondo le accuse - gli ha detto che era arrivato alla prima commissione l' esposto di Fava, ma anche che era stata inoltrata da Perugia la comunicazione della sua iscrizione nel registro degli indagati. È stato poi lo stesso Fava a consegnarli il 16 maggio scorso l' esposto, "strumento" per Palamara "per screditare il procuratore aggiunto". "Siccome un angelo ce l' ho io sei spuntato te, m' è spuntato Stefano che è il mio amico storico", diceva l' ex consigliere a Spina. Che lo rassicura. "Ma è spuntato Stefano, adesso si va fino in fondo". Quegli atti consegnati a Palamara sono costati a Fava l' accusa di favoreggiamento per averlo aiutato "ad eludere le investigazioni a suo carico". Agli amici il pm Fava ha detto che "erano atti non più segreti". La rivelazione di segreto invece gli viene contestata perchè come titolare del procedimento dal quale erano "scaturiti gli accertamenti" su Palamara, "rispondendo alle sue plurime e incalzanti sollecitazioni, gli rivelava come gli inquirenti fossero giunti a lui, specificandogli che gli accertamenti erano partiti 'dalle carte di credito' di Centofanti e si erano estesi alle verifiche e pernottamenti negli alberghi". Su questo Fava, che sarà interrogato il 4 giugno, si difende dicendo: "Non ho mai avuto in mano quell' informativa Centofanti-Palamara, non era nel mio fascicolo". Dell' esposto contro Ielo si parla in diverse conversazioni. Per esempio, il 9 maggio scorso alla presenza anche di "due parlamentari". "Per quel cazzo che mi hanno combinato lì a Perugia ancora nemmeno si sa", dice l' ex consigliere. E il 7 maggio sempre Palamara dice che Fava "vuole fare andare a Perugia". E qui entrano in gioco le nomine: domani infatti il procuratore capo di Perugia Luigi De Ficchy sarà in pensione e bisogna nominare il successore. Palamara vuole qualcuno che lo aiuti quando l' esposto contro Ielo arriverà anche lì. "Ma io non c' ho nessuno a Perugia zero", dice Palamara, informandosi "su uno dei tanti candidati conosciuto e in contatto con il suo interlocutore". Di questa nomina parla anche con Fava il 16 maggio. È scritto negli atti: "Traspare l' interesse di Palamara che venga nominato un procuratore a Perugia che sia sensibile alla sua posizione procedimentale e all' apertura di un procedimento fondato sulle carte che Fava sarebbe intenzionato a trasmettere". Per i pm "la consegna delle carte contro i suoi colleghi da parte di Fava" hanno "per Palamara, nella sua ottica, un valore al contempo difensivo e forse di ritorsione". E la sintesi delle intenzioni sta in una intercettazione tra Spina e Palamara del 16 maggio. "C' avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e tutte le cose forse sarà lui a doversi difendere a Perugia, per altre cose perché noi a Fava lo chiamiamo", dice Spina. E Palamara: "No, adesso lo devi chiamare, altrimenti mi metto a fare il matto".
"Toghe sporche" . Altri due togati del Csm coinvolti nelle trattative segrete per controllare le procure. Il Corriere del Giorno l'1 Giugno 2019. Si è dimesso dal CMS il consigliere Spina di Unicost. Coinvolti anche i membri “togati” Cartoni e Lepre presenti agli incontri con Lotti, Ferri e Palamara. Molte le nomine sospette, fra cui quella del procuratore di Matera Pietro Argentino. All’interno dei faldoni dell’inchiesta della Procura di Perugia sul “mercato” delle nomine al Csm compaiono due altri nomi. Si tratta di due magistrati, consiglieri togati, della corrente Magistratura Indipendente: Corrado Cartoni, attualmente giudice presso il Tribunale di Roma, ed Antonio Lepre, pubblico ministero della Procura di Paola in Calabria. Cartoni è membro della terza commissione del Consiglio, mentre Lepre è membro della quinta commissione , cioè quella che valuta le candidature per gli incarichi direttivi e semidirettivi. Secondo l’informativa del Gico della Guardia di Finanza contenente il risultato investigativo pedinamenti e le intercettazioni telefoniche , vengono documentati delle riunioni “carbonare” a cui hanno partecipato il pm Luca Palamara, ex presidente della Anm ed ex consigliere del Csm, attualmente indagato per corruzione e “regista” delle grandi operazioni che volevano determinare la geografia negli uffici giudiziari chiave del Paese, e sopratutto i suoi interlocutori nel “Palazzo” : a partire dal parlamentare del Pd, Cosimo Ferri,magistrato ex sottosegretario alla giustizia e “dominus” della corrente di Magistratura Indipendentedella quale è stato segretario), e l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Matteo Renzi, successivamente ministro Luca Lotti. Incontri avvenuti nel mese di maggio appena terminato, in almeno tre occasioni. Secondo quanto riferiscono fonti investigative qualificate, le intercettazioni dei finanzieri del Gico “fotografano” infatti i magistrati Cartoni, Lepre e Palamara, con i parlamentari Ferri e Lottibeccati a discutere del “dopo Pignatone“, cioè della nomina del suo successore alla guida della procura di Roma, che sembra essere diventata un’ossessione per Lotti, conseguenziale probabilmente al suo coinvolgimento nell’ “inchiesta Consip“, condotta dal pool dei reati contro la pubblica amministrazione guidata da Paolo Ielo che pochi mesi insieme al pm Mario Palazziavevano chiesto per lui il rinvio a giudizio e negli incontri delle ultime settimane Lotti avrebbe sostenuto la necessità di un cambio di rotta, patrocinando la candidatura del procuratore aggiunto di Firenze Marcello Viola, invece di quello di Palermo Francesco lo Voi, considerato troppo vicino alla gestione Pignatone. Un’inchiesta che Lotti ritiene una macchinazione in suo danno. Infatti non a caso l’ex ministro Pd braccio destro da sempre di Matteo Renzi è da tempo alla ricerca di di un editore che gli pubblichi un suo libro sulla vicenda “Consip”. Il tenore ed i modi di questa cricca della malagiustizia, le loro parole intercettate non devono essere molto “istituzionali” al punto da costringere la Procura di Perugia, a trasmettere a Palazzo dei Marescialli gli atti relativi a questo passaggio dell’inchiesta perché il Consiglio valuti gli aspetti disciplinari del comportamento di Cartoni e Lepre, con riserva di eventuali future valutazioni penali. Nei prossimi giorni, dopo l’autosospensione da consigliere comunicata ieri al Csm dall’indagato Luigi Spina magistrato di Magistratura Indipendente, che viene indicato nelle indagini della Procura di Perugia come il “sodale” che assieme a Palamara tramava per la rovina di Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma ritenuto “uomo di Pignatone“, la corrente di Mi e il Consiglio Superiore della Magistratura potrebbero perdere altri due consiglieri. Un’inchiesta che si è rivelata un vero e proprio ciclone inarrestabile. Un “ciclone” giudiziario che ha origine della squallida vicenda professionale e non solo del pm Luca Palamara, sembra ormai non potersi più fermare, coinvolgendo persino anche gli uffici della Direzione Nazionale Antimafia, dove è bene ricordare, l’ex procuratore capo Roberti è stato appena eletto parlamentare europee nelle liste del Pd. Sono arrivate arrivate alla D.N.A. le telefonate intercettate dell’ex Presidente dell’Anm Palamara, che cercava di coinvolgere uno dei magistrati antimafia di via Giulia per decidere il nome del futuro capo della Procura di Perugia (fino a ieri diretta da Luigi De Ficchy, da oggi in pensione), una sede “fondamentale” per i suoi destini personali ed in generale strategica nei rapporti di forza interni alla magistratura in quanto procura competente sui reati commessi dai magistrati di Roma. Il 7 maggio scorso Palamara incontra il magistrato e gli dice che “Fava vuole andare a Perugia“, riferendosi all’esposto che il pm romano Stefano Rocco Fava ha deciso di presentare accusando Pignatone e Ielo di presunte scorrettezze nella gestione delle inchieste.
La Guardia di Finanza delegata alle indagini ha comprovato una vera e propria attività di dossieraggiosvolta contro il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo e ha indicato il commercialista Andrea De Giorgiotra i più attivi nella raccolta delle informazioni , motivo per cui mercoledì scorso è stata effettuata una perquisizione nei suoi confronti. De Giorgio è un consulente della Procura di Roma, il quale gli scorsi 25 marzo e l’11 aprile contattava Palamara “e lo informa di aver acquisito informazioni sul fratello di Ielo che potrebbero danneggiare quest’ultimo“. Palamara ne parla con Spina, il 16 maggio ed insieme concordano delle nuove mosse contro Ielo. Spina manifesta assoluta sicurezza sull’esito ed anticipa di quanto accadrà al Csm: “C’avrai la rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo e sarà lui a doversi difendere a Perugia, perché noi Fava lo chiamiamo“. Il captatore trojan inserito da remoto dagli investigatori del Gico della Guardia di Finanza nello smartphone di Palamara ha consentito agli inquirenti umbri di poter ascoltare e registrare il frenetico impegno del magistrato romano e della sua corrente Unicost nel cercare di raggiungere compromessi ed accordi con le altre componenti della magistratura che, si scopre ora, hanno riguardato, nella passata consiliatura (cioè quella nella quale il pm Palamara è stato consigliere) e in quella presente il destino di quattro uffici giudiziari del Mezzogiorno aventi un “peso” politico per il tipo di procedimenti ed inchieste che gestiscono. A partire dalla Procura di Gela dove – come raccontato ieri da “Repubblica” – gli “amici” di Palamara, gli avvocati Amara e Calafiore, hanno cercato di imporre ala guida il pm Giancarlo Longo precedentemente in servizio presso la Procura di di Siracusa, il quale successivamente è stato arrestato per corruzione, ed ha lasciato la magistratura. O la Procura di Trani, dove Antonio Di Maio venne incredibilmente preferito a Renato Nitti, un capace ed eccellente magistrato della Direzione distrettuale Antimafia di Bari. Nonostante il Consiglio di Stato, aveva bloccato nell’ottobre del 2018, la nomina di Di Maio invitando il Csm a riconsiderare quella di Nitti, l’attuale composizione del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, nel febbraio 2019, ha riconfermato la precedente nomina di Di Maio.
Per finire alla Procura di Matera, dove nel luglio del 2017, il Csm aveva indicato e nominato Pietro Argentino come Procuratore capo, nonostante lo stesso magistrato fosse stato indicato dal Tribunale di Potenza come testimone falso e reticente nel processo penale che aveva mandato in carte il pm Matteo Di Giorgio che sta scontando una condanna a 8 anni di carcere proprio a Matera. Alfredo Robledo che da cinque anni non più in magistratura, dopo essere stato procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, Robledonel 2014 da aggiunto, aveva il coordinamento del pool di magistrati della procura milanese che si occupava dei reati nella pubblica amministrazione, ma gli venne contestato dei rapporti non ortodossi cn l’avvocato Domenico Aiello, ritirate le deleghe ed in seguito trasferito a Torino, a suo dire proprio per volontà di Palamara. “E’ lui che ha scritto il provvedimento cautelare con cui sono stato trasferito a Torino, ed è lui, ancora lui a a comporre la sentenza con cui quel trasloco diventa definitivo“. Sentenza contro la quale Robledo si è rivolto alla Corte Europea (CEDU) a Strasburgo presentando un ricorso, che è stato ritenuto ammissibile.
Palamara con una lettera inviata al presidente dell’Anm, Pasquale Grasso ha spiegato i motivi della sua decisione di dimettersi dall’ ANM: “Sono certo di chiarire i fatti che mi vengono contestati –scrive Palamara (a lato nella foto) – il mio intendimento ora è quello recuperare la dignità e l’onore e di concentrarmi esclusivamente sulla difesa nel processo di fronte a tali infamanti accuse. Per tali ragioni mi assumo la responsabilità di auto sospendermi dal mio ruolo di associato con effetto immediato. Sono però sicuro – conclude conclude il pm di Roma, che ha guidato l’Anm dal 2007 al 2012 – che il tempo è galantuomo e riuscirà a ristabilire il reale accadimento dei fatti“. E proprio l’Anm questa mattina ha chiesto gli atti dell’inchiesta alla Procura di Perugia. L’azione dei magistrati italiani, sottolinea l’Anm, “deve ispirarsi quotidianamente a principi di correttezza, trasparenza, impermeabilità ambientale, assoluta distanza e terzietà dagli interessi economici e personali. Ogni comportamento che si discosta da tali principi compromette e lede l’immagine dell’intera magistratura. Immagine che l’Anm intende tutelare: chiederemo alla Procura di Perugia gli atti ostensibili per poter avere una diretta conoscenza dei fatti e consentire una preliminare istruzione dei probiviri sulle condotte di tutti i colleghi, iscritti alla Anm, che risultassero in essi coinvolti“. È un atto che “riteniamo necessario per salvaguardare il lavoro, l’etica e l’impegno che ogni magistrato – conclude la nota dell’Anm – testimonia ogni giorno col suo lavoro“. Intanto è stato convocato per mercoledì 5 giugno il Comitato Direttivo Centrale dell’Anm per prendere alcuni provvedimenti dopo un’analisi di quanto accaduto negli ultimi giorni. In una nota, i consiglieri del Csm Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura indipendente,che avrebbero partecipato a incontri con esponenti politici per discutere della nomina del Procuratore di Roma, si difendono: “Il nostro comportamento è sempre stato improntato alla massima correttezza. Non siamo mai stati condizionati da nessuno. Marcello Viola è il miglior candidato alla procura di Roma e solo ed esclusivamente per questo lo sosteniamo”. La corrente della magistratura Unicost, Unità per la Costituzione, alla quale appartiene il pm Palamara, ha reso noto che se al termine dell’inchiesta di Perugia dovesse aver luogo un processo, “si ritiene parte lesa, sicchè sin da oggi ci riserviamo, in caso di successivo processo, la costituzione di parte civile a tutela dell’immagine del gruppo, gravemente lesa“. Lo dichiara il presidente Mariano Sciacca, ex componente del CSM “Più leggiamo gli articoli e ancor più ci convinciamo del danno, forse ancora non compiutamente calcolabile, che la vicenda all’attenzione della magistratura perugina porterà alla magistratura italiana“, aggiunge Unicostnella nota firmata oltre che dal presidente Sciacca dal segretario Enrico Infante. “Al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni, Unità per la Costituzione, ma ancor prima ciascuno dei suoi associati, non possono accettare la perdita di credibilità davanti ai colleghi e ai cittadini”. E questa non è “ vuota retorica, ma sostanza”, affermano ancora i vertici della corrente di magistrati , assicurando che tutto il gruppo è pronto ad “assumere la propria responsabilità politica senza sconto alcuno“. E conclude: “Chiediamo ai colleghi Spina e Palamara, iscritti a Unità di Costituzione – ai quali auguriamo di potere chiarire tutto tempestivamente – di assumersi le rispettive responsabilità politiche, adottando le decisioni necessarie delle dimissioni dall’istituzione consiliare e dalla corrente“. Poco dopo il Comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura ha reso noto le dimissioni di Spina, di Unicost, da membro togato, ed annunciato un plenum straordinario convocato per martedì 4 giugno, alle ore 16.30. Da noi contattato un importante magistrato, già componente del Csm , a Palazzo dei Marescialli, ci ha dichiarato: “Stiamo attenti a colpevolizzare un’intera categoria, che ha il diritto di essere difesa dalle mele marce. Se questa inchiesta è venuta alla luce è proprio grazie alla indipendenza e determinazione di alcuni magistrati“. Anche se bisogna ricordare che a Perugia da oggi il procuratore capo è in pensione, ed è proprio per quella poltrona, cioè di capo della procura che indaga sulle vicende oggetto dell’inchiesta giudiziaria in corso, che si è scatenata questa inchiesta sulle toghe sporche .
Il pm senza indagini da copertina diventato megafono dei giustizialisti. Il talento per la comunicazione l'ha trasformato in una star della televisione. Stefano Zurlo Giovedì 30/05/2019 su Il Giornale. C'è un dialogo, in realtà un monologo contro di lui che è diventato un pezzo di storia televisiva. Francesco Cossiga, ormai presidente emerito, lo apostrofa con parole beffarde: «Faccia di tonno. I nomi esprimono la realtà. Lui si chiama Palamara come il tonno, la faccia da intelligente non ce l'ha assolutamente». Luca Palamara scuote la testa: «È molto offensivo». E Cossiga, al telefono, infierisce: «Mi quereli, mi diverte se mi querela». Maria Latella dagli studi di Sky nicchia e allora l'ex capo dello Stato spara il colpo finale: «Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare magistrati con quella faccia alla tue trasmissioni per carità». Siamo nel 2008, nei giorni delle dimissioni del Guardasigilli Clemente Mastella, azzoppato da un'inchiesta giudiziaria, e Palamara è già una star della tv. L'astro nascente del partito dei giudici nell'ultima stagione in cui le toghe dettano l'agenda politica. Mastella e Prodi, ma non solo. Gli scontri più cruenti sono quelli con Silvio Berlusconi, sempre accerchiato dalle indagini, in particolare quelle di Ilda Boccassini, con il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti.
Palamara, classe 1969, è il presidente della potente Associazione nazionale magistrati e spesso parla in coppia con il segretario dell'Anm, Giuseppe Cascini. Cascini appartiene all'ala sinistra della corrente di sinistra dei giudici italiani, Magistratura democratica, Palamara invece è targato Unicost, il grande contenitore moderato, ma questo elemento non è sufficiente a chiarirne la collocazione: la verità è che anche lui viene da Md e sta nell'area progressista della corrente, difficilmente distinguibile da Md, e contrapposta alla parte più conservatrice di Giacomo Caliendo e Antonio Martone. Che si parli della prescrizione breve o degli articoli del Giornale sulla vita privata della Boccassini, che intanto ha scoperchiato la vicenda Ruby, Palamara è in prima pagina e sullo schermo, sempre pronto a rilanciare il verbo puro del giustizialismo italiano. È un continuo batti e ribatti, inevitabilmente anche un gioco delle parti ma non solo. Palamara, che come pm prima a Reggio Calabria e poi a Roma non ha mai condotto indagini da copertina e nemmeno fa parte dell'élite degli studiosi del diritto, ha un talento per la comunicazione e diventa il megafono di quella stagione burrascosa. Non avrà mai la popolarità dei Davigo, degli Spataro e dei Caselli, che peraltro sono della generazione precedente, ma acquista un posto di rilievo nella politica giudiziaria del Paese. Una carriera solida che prosegue al Csm e una vicinanza alla procura di Milano e al suo leader Edmondo Bruti Liberati, erede potente del rito ambrosiano dei Borrelli e dei D'Ambrosio, anche se l'epopea di Mani pulite è ormai solo un ricordo. Una contiguità ideale ma anche fatalmente la gestione del potere che parte da Palazzo dei Marescialli, attraversa le correnti e arriva fino alle poltrone più importanti del sistema giudiziario. Quando Alfredo Robledo si mette di traverso agli assetti della gloriosa macchina da guerra ambrosiana e si ritrova isolato e sotto accusa, è Palamara a scrivere una sentenza di condanna disciplinare che fa molto discutere. Il clima nel Paese è cambiato. Le zuffe fra politica e magistratura non appassionano più come prima, ora dominano la crisi economica e il tema dei migranti. Palamara è meno visibile, ma è tutta la corporazione in toga a non avere più l'appeal di prima sull'opinione pubblica. Quel che è accaduto dietro le quinte, se qualcosa di non lineare è avvenuto in un disinvolto game of thrones sulla linea di confine fra politica e magistratura nell'era renziana, ce lo dirà l'inchiesta di Perugia.
Lo scontro in tv Cossiga-Palamara: "Hai la faccia da tonno". Uno scontro in tv tra Cossiga e Palamara è tornato virale in queste ore sui social. L'ex Capo dello Stato disse: "Ha la faccia da tonno..." Angelo Scarano Giovedì 30/05/2019 su Il Giornale. Il pm Luca Palamara finito nel ciclone delle inchieste per corruzione ha un precedente televisivo che in queste ore sta facendo il giro del web. Siamo nel 2008 e l'allora Guardasigilli, Clemente Mastella, si è appena dimesso per un'inchiesta giudiziaria a suo carico. Palamara, ospite di Sky Tg24, pontifica sul ruolo della magistratura e sulle dimissioni del ministro Mastella. Ma ad un certo punto irrompe la telefonata dell'ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga. Con una telefonata che ha il sapore del monologo, in pochi minuti il "picconatore" abbatte il pm con una sfilza di insulti e di critiche: "Ha la faccia da tonno. I nomi esprimono realtà. Lui si chiama - afferma Cossiga rivolgendosi alla conduttrice Maria Latella - Palamara come il tonno. La faccia intelligente non ce l'ha assolutamente. In questi anni ho visto tante facce e le so riconoscere...". Palamara resta in silenzio. Cossiga non molla la presa e rincara la dose: "Mi quereli, mi diverte se mi querela...". A questo punto Cossiga si rivolge direttamente alla Latella e afferma: "Sei una bella donna e di gran gusto, non invitare i magistrati con quella faccia alle tue trasmissioni per carità". Quel diverbio così acceso nelle ultime ore è diventato virale sui social. Il battibecco tra Cossiga e Palamara è diventato all'improvviso un pezzo della storia della tv. La chiusura di quella telefonata è ancora più forte degli attacchi a Palamara: "L'associazione nazionale magistrati è una associazione sovversiva e di stampo mafioso". Ultimo affondo del "picconatore" che quando parlava badava poco allo stile ma andava direttamente alla sostanza. Anche davanti al pm con la "faccia da tonno"...
· Magistrati. Non vi nascondete dietro l’impunità corporativa.
Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.
La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)
La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").
Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.
Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.
A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione 2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.
Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.
Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.
Il carabiniere, il pm e la società: «Perizie inutili per un milione». Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Come i gabbiani dietro ai pescherecci: si sposta da una Procura all’altra il pm, si sposta con lui il suo carabiniere più stretto collaboratore, si sposta l’imprenditore amico (e pure foraggiatore) del carabiniere braccio destro del pm, e si sposta un fiume di denaro di consulenze tecniche affidate senza motivo e strapagate dalla Procura (tramite carabiniere) all’imprenditore. Così la Procura di Milano nel 2009-2010, quando qui tra i pm di punta operava S.ndro R.imondi e nella sua polizia giudiziaria spiccava il carabiniere Lorenzo Terraneo, ha liquidato 750.000 euro (per copie forensi di dati informatici sequestrati nei pc o nei cellulari) alla After Hour srl amministrata dall’imprenditore Alessandro Tornotti; e così la Procura di Brescia nel 2010-2011, dopo il passaggio qui sia del pm (che ne diventerà procuratore aggiunto fino a marzo 2018 prima che il Csm lo nominasse attuale capo della Procura di Trento) sia del carabiniere, ha liquidato 300.000 euro alla stessa After Hour srl, peraltro controllata da una società di Malta. Questo inedito spaccato affiora solo ieri nelle pieghe dell’arresto per bancarotta di Tornotti per il fallimento della After Hour srl nel 2016, al cui interno la gip Alessandra Clemente accoglie anche l’accusa di corruzione che i pm milanesi Silvia Bonardi (già collega di Raimondi a Brescia) e Stefano Civardi formulano per i benefit dell’imprenditore al carabiniere che gli procacciava gli incarichi firmati dal pm: l’affitto di un residence a Brescia per 33.000 euro, un viaggio a Capo Verde, ricariche del cellulare per 4.400 euro, l’uso di una moto. La nomina dei consulenti è un «atto discrezionale del pm» ma qui «in sostanza era pilotato proprio in virtù della massima fiducia riposta in Tornotti da Terraneo e quindi da Raimondi», scrive la gip, rilevando che «sul punto Raimondi non è mai stato sentito» dai pm coordinati da Ilda Boccassini, «forse in virtù dei suoi rapporti con i due indagati che lo ponevamo in una situazione delicata». Pur se appaiono «peculiari le plurime nomine del consulente», e se il «risalente rapporto di collaborazione» pm-imprenditore «ha contribuito a confondere i piani che avrebbero dovuto restare separati», per la gip «è da escludersi che il pm sia stato coinvolto in scambi di favori». A stoppare l’andazzo nel 2011 furono le resistenze di una giovane pm, Lara Ghirardi, e lo scomparso procuratore bresciano Nicola Pace, che impose il visto sopra i 2.500 euro. Ora si scopre che il Csm nel 2015 nulla fece quando un gip bresciano, Lorenzo Benini, in una di quelle archiviazioni-fuffa denunciò una consulenza pagata alla After Hour 100.000 euro per intercettazioni inesistenti, e fu controdenunciato da Raimondi per calunnia. Senza indagini diverse dall’interrogatorio di Benini e dalla memoria di Raimondi, il procuratore veneziano Luigi Delpino, e gli aggiunti Carlo Nordio e Adelchi d’Ippolito, esclusero l’abuso d’ufficio per Raimondi ritenendo la sua giustificazione (e cioè l’aver caricato su quel fascicolo tutte le asserite spese di noleggio di 8 pc e 8 fax-scanner a beneficio del lavoro generale della polizia giudiziaria) opinabile, ma dettata dall’esigenza di superare le carenti dotazioni degli uffici; e esclusero per Benini la calunnia per difetto di dolo nel suo esposto, aggiungendo che i «toni avrebbero potuto essere più misurati». A quel punto pure la I commissione del Csm (relatore Zanettin) archiviò la vicenda: con la motivazione che «non aveva avuto alcuna risonanza esterna».
Carlo Taormina su Facebook il 17 gennaio alle ore 19:52. "Dunque, magistrati corrotti, magistrati mafiosi, magistrati speculatori, magistrati che vanno a puttane pagandole con atti giudiziari; dunque magistrati disonesti a nord, a sud e al centro del Paese e ne conosciamo solo una parte perché molti altri vengono protetti dai loro stessi colleghi. Io mi sono rotto un po’ i coglioni di rispettare una categoria in cui Il tasso dei ladri e persino mafiosi è’ così alto. Non sono mele marce se da una parte ne trovi quindici di magistrati disonesti, da un’altra parte ne trovi altri quindici e da un’altra parte ancora ne trovi altri quindici. E mi sono anche rotto i coglioni ad andare in carcere a consolare e difendere degli innocenti condannati da questi ladri. Persino la cassazione è un luogo in cui è inutile andare perché invece di essere garante dei cittadini onesti che invece vengono condannati e di essere garante della imparzialità dei giudici che hanno condannato i cittadini, è diventata una istituzione di copertura delle malefatte dei giudici. Non capisco perché il governo giallo verde tagli gli stipendi a tutte le caste e tagli il numero degli appartenenti alle caste, ma non si ponga mai il problema di tagliare lo stipendio ai magistrati e di diminuirne il numero. Lo faccia, sarebbe suo ulteriore merito. Ma è’ anche ora di svolte populistiche anche per la magistratura. Cacciamo dai tribunali i magistrati statali e mettiamoci i giudici popolari, come nei paesi civili di tipo anglosassone ai quali si ispira il nostro sistema processuale. Come è ora di liberarsi dei pubblici ministeri arroganti, prevaricatori ed incapaci perché c’è ben la polizia per fare le indagini e c’è l’Avvocatura dello Stato per sostenere l’accusa davanti ai giudici popolari. Bonafede, pensaci tu!"
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 24 gennaio 2019. I veleni nella magistratura amministrativa, la più riservata e prossima al potere politico, non sono destinati a prosciugarsi. Domani è convocato il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, l'organo di autogoverno che decide sugli incarichi. All'ordine del giorno la nomina del presidente aggiunto del Consiglio di Stato, il numero due del supremo organo che decide tra l'altro sugli atti delle pubbliche amministrazioni, compresi quelli del governo. La quarta commissione interna che ha istruito la pratica ha vagliato tre autorevoli candidati, proponendo infine all' unanimità Sergio Santoro, preferito all' ex ministro berlusconiano Franco Frattini e a Giuseppe Severini. Domani al plenum l'ultima parola. Santoro vanta una superiore anzianità di servizio: dopo essere stato magistrato del Tar, diventò consigliere di Stato per concorso nel 1981, quando aveva trent' anni. Dal 1983, per i successivi 25 anni, ha svolto incarichi fuori ruolo come consigliere giuridico e capo di gabinetto in ministeri e altre pubbliche amministrazioni, dal Campidoglio (con Alemanno) a Palazzo Chigi (con Berlusconi). Rientrato al Consiglio di Stato, attualmente presiede la sesta sezione giurisdizionale. L' elemento destinato a riaprire il rubinetto delle polemiche emerge proprio nei giorni della designazione. Santoro risulta indagato dalla Procura di Roma per corruzione in atti giudiziari nell' ambito della maxi inchiesta su una rete di avvocati, giudici, politici, imprenditori e faccendieri che avrebbero pilotato l'assegnazione di grandi appalti «aggiustando» le sentenze proprio al Consiglio di Stato, dove approdano tutte le controversie tra le imprese che partecipano alle gare pubbliche. La vicenda era esplosa un anno fa, quando le inchieste condotte dalle Procure di Roma, Milano e Siracusa avevano intrecciato diversi episodi di corruzione legati dal ruolo determinante degli stessi attori. Al punto da ipotizzare l'esistenza di un «sistema corruttivo» unico, da Nord a Sud. A capo dell'associazione a delinquere un avvocato siciliano, Piero Amara, assai attivo proprio in Consiglio di Stato. Tra i quindici arrestati in quella prima fase c'era anche un ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, accusato di corruzione in atti giudiziari. Nei mesi successivi l'inchiesta romana, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, si è approfondita ed allargata, toccando altri giudici o ex giudici. Fino alla svolta di luglio, quando Amara decide di collaborare con i magistrati e svela i dettagli di un'organizzazione in grado di determinare con la corruzione l'esito di 18 sentenze su alcuni dei più importanti e lucrosi appalti banditi in Italia negli ultimi anni (compresi quelli Consip oggetto di altre indagini), per un valore di diverse centinaia di milioni di euro. Nel frattempo gli indagati sono saliti a 31, compresi Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio (corruzione), l'ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (corruzione giudiziaria e rivelazione di segreto d' ufficio) e Francesco Saverio Romano, che fu ministro dell'Agricoltura con Berlusconi (rivelazione di segreto d' ufficio). A tutti è stato notificato nei giorni scorsi un avviso di proroga delle indagini, disposta dal giudice per le indagini preliminari di Roma su richiesta della Procura. Tra gli indagati su cui Ielo proseguirà gli accertamenti c' è Santoro, il più alto in grado tra i magistrati coinvolti nell' inchiesta. Santoro è contemporaneamente parte in causa anche in un altro processo. Non penale ma amministrativo e generato proprio da un suo ricorso, tre anni fa. Anche all' epoca era candidato ai vertici del Consiglio di Stato, ma fu scavalcato sia come presidente (da Alessandro Pajno) sia come presidente aggiunto (da Filippo Patroni Griffi, da pochi mesi diventato presidente dopo il pensionamento di Pajno). Santoro, con altri colleghi, aveva lamentato la lesione dell'indipendenza della magistratura amministrativa ad opera del governo Renzi, presentando ricorso al Tar contro le nomine. Quella ferita non è mai stata chiusa, le indagini giudiziarie ne hanno aperte altre e al Consiglio di Stato i veleni continuano a scorrere.
Cinque anni per scrivere la sentenza. Il Csm perdona. Il Csm al termine dell’istruttoria ha assolto il giudice ritardatario, partendo da una premessa: sono tollerati ritardi superiori al triplo del temine legale, scrive Giovanni M. Jacobazzi l'1 Marzo 2019 su Il Dubbio. Assolto nonostante abbia depositato centinaia di sentenze con anni di ritardo. E’ questa la linea del nuovo Csm che emerge dalla prima pronuncia della sezione disciplinare. Una grande discontinuità con il passato, quando era sufficiente che il giudice depositasse una sola sentenza con un anno ritardo per uscire da Palazzo dei Marescialli con una condanna. Questi i fatti. Un giudice civile di un importante Tribunale dell’Italia centrale impiega anni per depositare i suoi provvedimenti. Alcune sentenze vengono depositate addirittura dopo oltre cinque anni. Lo stesso periodo di tempo impiegato da Tolstoj per scrivere il romanzo capolavoro del Novecento, Guerra e pace, o da uno studente per conseguire la laurea in giurisprudenza. La situazione viene segnalata dal presidente del Tribunale, il quale evidenzia come il suo giudice non riesca proprio a depositare le sentenze rispettando i tempi. E ciò nonostante avesse condiviso con il diretto interessato un programma di smaltimento dell’arretrato. Il capo dell’Ufficio, infatti, vista la situazione fuori controllo, dopo aver esonerato il magistrato ritardatario dalla partecipazione alle udienze dove non fosse relatore e dalla decisione dei reclami cautelari, aveva concordato con lui una tabellina di marcia: depositare in un mese cinquanta sentenze e quaranta ordinanze, per un totale di tre provvedimenti al giorno. Tutto inutile. Dopo appena qualche mese il crono programma salta e l’obiettivo non viene raggiunto. Da qui, dunque, l’inevitabile avvio del procedimento disciplinare. Secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, il magistrato ritardatario avrebbe violato con la sua condotta i doveri di «diligenza e laboriosità», determinando «un’evidente lesione del diritto del cittadino ad una corretta e sollecita amministrazione della giustizia con conseguente compromissione del prestigio dell’Ordine giudiziari», nel quinquennio 2012- 2016. Un particolare. Il magistrato ritardatario è recidivo, essendo stato già condannato per avere dal 2007 al 2012 depositato, sempre con ritardo di anni, altre centinaia di sentenze.
«Ritardi gravi ed ingiustificati prosegue il pg – nonché pregiudizievoli del diritto della parti ad ottenere la definizione in tempi ragionevoli del processo secondo quanto previsto dall’art. 111 co 2 della Costituzione e 6 CEDU». Il Csm, come detto, al termine dell’istruttoria ha assolto il giudice ritardatario. La decisione del Csm parte da una premessa: sono tollerati, secondo giurisprudenza costante, ritardi superiori al triplo del temine legale. Una sorta di “extrabonus” temporale che il giudice può quindi spendersi prima di essere sanzionato. Oltre a ciò, tralasciando alcune sentenze, la maggior parte dei ritardi si concentrerebbero nel deposito delle “ordinanze istruttorie”. E questo, a dire del Csm, non costituirebbe illecito disciplinare. A far pendere la bilancia in favore del giudice, poi, il fatto che negli anni «non c’è stato alcun avvocato che si sia mai lamentato della gestione del ruolo del magistrato», ed alcuni motivi personali, come il ricovero di un familiare per dieci giorni in un ospedale, che gli avrebbero impedito il rispetto dei tempi. Di diverso parere il procuratore generale che ha impugnato la sentenza davanti alla Sezioni unite civili della Cassazione. Varie le questioni d’appello. E’ irrilevante il fatto che gli avvocati non abbiano mai protestato contro il giudice «in quanto l’illecito tutela il regolare corso della giustizia ed in principi del giusto processo». Sui motivi personali, comprensibilissimi, «il giudice poteva ricorrere a periodi di congedo o aspettativa». Tali periodi di criticità, però, devono essere transitori ed eccezionali e non, come in questo caso, di durata ultra decennale. La decisione della Cassazione è attesa dopo l’estate.
Pm torinese diventa youtuber e propone il suo metodo dimagrante. La pm Monica Supertino all'opera su YouTube. La magistrata spiega davanti ai fornelli di casa la sua dieta i suoi esercizi di fitness, scrivono Ottavia Giustetti e Sarah Martinenghi il 25 febbraio 2019 su La Repubblica. Mele cotte a colazione, crepes di solo albume e muffin alle carote. Con l’arrivo della bella stagione, in procura a Torino impazza un nuovo metodo tra dieta e fitness firmato dalla pm Monica Supertino che sabato ha aperto un suo canale Youtube per dettare consigli per avere un fisico scultoreo e “pietroso” come il suo. e si propone in video in versione influencer sui temi della salute e del benessere anche a tavola. Ai fornelli direttamente dalla sua cucina di casa, vestita però in un fasciante e cortissimo tubino da sera, la magistrata spiega i suoi segreti per rimanere in forma. E li battezza “il metodo Supertino”: “un percorso di benessere che vi porterà nel giro di poco tempo a mangiare con menù che appagheranno tutti i vostri sensi per raggiungere naturalmente un fisico non solo magro ma statuario, pietroso”. Una cucina “sensoriale”, senza faticose limitazioni, per mangiare a volontà cose golose senza rinunciare alla linea e dando il massimo anche in palestra. Un vero stile di vita che mostra una passione anche per il video, finora sconosciuta ad avvocati e colleghi che sono rimasti così stupiti da rendere i primi video già “virali”, se non ancora sul web, quanto meno a Palazzo di Giustizia.
La pm youtuber dà consigli per dimagrire, scrive Il Giornale Martedì 26/02/2019. Da pm a nutrizionista. La parabola di Monica Supertino, magistrata torinese, dalla procura atterra su Youtube. Dove la toga piemontese, che al lavoro da magistrato aveva già affiancato un'attività da podista amatoriale, ora si scopre aspirante influencer. E per la carriera da youtuber la donna sceglie di lanciare il «Metodo Supertino», ossia - il titolo è suo - una «ricetta per avere un fisico definito e pietroso». Al momento i video sul «metodo» sono solo due, le visualizzazioni meno di mille e gli iscritti al «canale» appena 41, ma da qualche parte bisogna pure cominciare, e così la pm sceglie di farlo dal suo «percorso di benessere», finalizzato - come spiega lei stessa, in tubino bordeaux, come gli occhiali - «a nutrirvi sempre di cibi ad alto contenuto sensoriale e al contempo avere un fisico non solo magro ma statuario, pietroso, scolpito». Da nutrizionista, la Supertino più che pm diventa giudice. La prima sentenza? «I grassi non fanno colazione».
Giulia Bongiorno, la proposta per ribaltare la magistratura: un test psicologico ai giudici, scrive Andrea Morigi l'11 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. Occorre una svolta nei criteri di selezione dei magistrati. La invoca Giulia Bongiorno, celebre avvocato e ora ministro della Pubblica Amministrazione. Ieri, durante il suo intervento alla scuola di formazione politica della Lega a Milano, ha proposto di cambiare: «Spero ci possa essere una nuova riflessione sul metodo di reclutamento della magistratura perché ci servono dei magistrati che siano sempre all'altezza dei loro compiti. Oggi come oggi i magistrati hanno un tipo di concorso solo nozionistico». Invece, a suo parere, «bisognerebbe cercare di fare in modo che ci sia un percorso di tirocinio fatto in modo anticipato rispetto all' esame. Prima si fa il corso di tirocinio e poi si supera l'esame un po' come avviene con gli avvocati». Al termine, insomma, chi ha in affidamento il tirocinante esprime un parere sulle attitudini di quest' ultimo. Inoltre, il ministro ritiene che «bisogna cercare di verificare anche l'attitudine a giudicare, non solo la conoscenza delle norme». Come? L' orientamento del ministro pare sia favorevole a procedere a una valutazione delle caratteristiche psico-caratteriali degli aspiranti giudici, pm, gip e di tutti i candidati a indossare la toga. Per ora, soltanto la corrente più moderata dell'Associazione Nazionale Magistrati accoglie favorevolmente la proposta. Magistratura Indipendente (MI), guidata da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano, ha visto da tempo quel che non funziona e afferma: «Registriamo con attenzione le parole del ministro Giulia Bongiorno sulla riforma dell'accesso in magistratura. Da tempo riteniamo necessario riflettere su opportune modifiche al sistema di accesso in magistratura». L' elenco delle criticità del sistema è pronto: «Oggi si entra in magistratura troppo tardi, con evidenti problemi dal punto di vista previdenziale per i futuri magistrati e attraverso un percorso che non appare del tutto adeguato alle nuove sfide». Perciò, MI invita «il ministro della Giustizia a promuovere una seria e tempestiva riflessione sul tema, coinvolgendo la magistratura, l'avvocatura e l'Università», senza peraltro far cenno al mutamento delle procedure selettive.
L'AZIONE DEL GOVERNO. In realtà, c' è già un testo approvato dal governo nel dicembre scorso, che ha iniziato il suo iter ed è stato ideato proprio dalla Bongiorno, il disegno di legge «Deleghe al Governo per il miglioramento della Pubblica Amministrazione». In particolare, sia nella fase di reclutamento sia negli avanzamenti di carriera, i servitori dello Stato dovranno misurarsi con test psico-attitudinali per comprenderne le capacità relazionali e l'attitudine al lavoro in gruppo.
I TENTATIVI PRECEDENTI. Non è la prima volta che si punta a introdurre una griglia di selezione più mirata a tutelare il pubblico. Lo aveva già pensato il ministro della Giustizia Roberto Castelli, in carica fra il 2001 e il 2006, nella sua riforma dell'ordinamento, prevedendo proprio un test psico-attitudinale. Ma allora, era il 2002 e la bozza non entrò in vigore prima del 2005, le battute di Silvio Berlusconi contribuirono ad avvelenare ancora più il clima fra politica e giustizia. Il Cavaliere, come presidente del consiglio dei ministri, il 3 settembre del 2003, aveva detto di ritenere che i giudici sono «doppiamente matti», aggiungendo che «per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato». Una generalizzazione forse spiegabile con l'accanimento giudiziario nei suoi confronti, ma che nel 2008 gli fece avanzare l'ipotesi che i pubblici ministeri «siano periodicamente sottoposti ad esami che ne attestino la sanità mentale». Intanto il Guardasigilli del secondo governo Prodi, Clemente Mastella, nel 2007 aveva già provveduto a stravolgere con modifiche profonde la riforma Castelli, abrogando anche «il test psicoattitudinale, che peraltro non era mai stato applicato», ricorda Castelli, parlando con Libero. In realtà, fa notare, «non si trattava affatto di una norma offensiva od oltraggiosa nei confronti dei magistrati e nemmeno soltanto di una garanzia per i cittadini, ma di un'esigenza che vale per molte altre categorie che esercitano grandi responsabilità, che quindi riguarda anche l'immagine della magistratura».
Test psicologici per i magistrati, in molti paesi europei si fanno. La proposta di Giulia Bongiorno: l’idea era già stata lanciata dal ministro Roberto Castelli ma l’Anm è da sempre critica ad ogni valutazione di questo genere, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. Un test psicologico per chi abbia intenzione di diventare magistrato. L’argomento non è certamente nuovo. A riproporlo nelle ultime settimane è stato il ministro della Pubblica Amministrazione Giulia Bongiorno. In precedenza si era cimentato sul tema Roberto Castelli, un altro leghista, ministro della Giustizia durante il governo Berlusconi II. “Urge riformare il tradizionale metodo di selezione”, ha dichiarato Bongiorno intervenendo alla Scuola di formazione politica della Lega. “I magistrati – ha aggiunto – sono troppo legati ad un sapere nozionistico, spesso lontano dalle concrete complessità della carriera in magistratura”. In tale ottica, “i test psicologici dovrebbero essere funzionali a verificare la stabilità emotiva, l’empatia ed il senso di responsabilità, caratteristiche imprescindibili della professione”, ha precisato. La proposta però, come era accaduto in precedenza per il collega Castelli, non ha raccolto molti consensi da parte dei diretti interessati. L’Associazione nazionale dei magistrati, infatti, è da sempre critica ad ogni valutazione di questo genere. Solo i vertici del gruppo moderato di Magistratura indipendente, il segretario Antonello Rancanelli ed il presidente Giovanna Napoletano, hanno dichiarato di essere d’accordo con la necessità di riformare le modalità di accesso alla magistratura. I test psicoattitudinali vengono da sempre considerati un tabù per le toghe. Forse perché fra i più convinti sostenitori del loro impiego vi era Silvio Berlusconi. Ed è noto che fra il Cav e le toghe non sia mai corso buon sangue. Previsti per moltissime categorie lavorative, dalle Forze di polizia ai piloti d’aereo, sono visti dai magistrati come “un’offesa” e non come il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto, per il quale empatia e stabilità mentale sono fondamentali. In Europa, invece, l’attenzione all’equilibrio psicologico di chi amministra la giustizia è molto forte. In Francia, ad esempio, sono andati oltre la semplice somministrazioni di test psicoattitudinali e di colloqui con lo psicologo. Le prove d’esame per l’aspirante magistrato, che in Italia si limitano a delle verifiche scritte ed orali, prevedono lo svolgimento di un caso pratico in cui è prevista la partecipazione dello psicologo. Quest’ultimo analizza le reazioni da parte del candidato, valutando in particolar modo come reagisce alle situazioni di stress a cui viene sottoposto dagli esaminatori. Altre simulazioni vengono poi organizzate dalla Scuola superiore della magistratura. Non solo la Francia ma anche i Paesi bassi hanno sistemi di selezioni analoghi. In Germania, addirittura, le valutazioni psicologiche sono periodiche ed entrano nella progressione di carriera degli operatori del comparto giustizia. In conclusione, dovrebbe essere evidente anche ai detrattori dei test psicoattitudinali che non basta un ottimo scritto ed un ottimo orale per essere un buon magistrato.
Davigo giudicherà Woodcock. Ma non è incompatibile? L’ex pm del pool di Milano è nella commissione disciplinare che dovrà valutare le responsabilità del collega. Ma in un’intervista al Fatto si era già schierato con lui, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 9 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Le dichiarazioni rilasciate da Pier Camillo Davigo al Fatto Quotidiano circa il procedimento disciplinare che vede coinvolto Henry Jonh Woodcock rischiano di creare più di un imbarazzo al Consiglio superiore della magistratura. Il prossimo 18 febbraio è attesa a Palazzo dei Marescialli la sentenza sul pm napoletano, accusato di aver violato i diritti di difesa dell’ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni. Costui venne ascoltato nel dicembre del 2016 nell’ambito dell’inchiesta Consip come testimone e non come indagato, dunque senza l’assistenza di un avvocato. Inoltre, sempre Woodcock, avrebbe esercitato pressioni nei suoi confronti, come quella di mostrargli dalla finestra della Procura il carcere di Poggioreale, chiedendogli «se vi volesse fare una vacanza» e facendogli vedere dei fili, spacciati per delle microspie. Ma, soprattutto, con la collega Celestina Carrano avrebbe lasciato mano libera agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria (tra i quali c’era anche il maggiore dei carabinieri del Noe Giampaolo Scafarto), permettendo a tutti loro di «svolgere in maniera confusa e contemporaneamente, una molteplicità di domande», invitando quindi Vannoni a «confessare». L’indagine Consip, con i suoi indagati eccellenti, in particolare Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, accusato di traffico di influenze, monopolizzò per mesi le prime pagine dei giornali, scatenando la polemica politica. Intervistato la scorsa estate da Marco Travaglio, l’ex pm di Mani pulite affermò di essere rimasto esterrefatto dell’atteggiamento del Csm che «non dice nulla contro gli attacchi del governo a un pm colpevole di fare indagini ad alti livelli e anzi lo processa disciplinarmente prima ancora che vengano processati gli imputati. Sono esterrefatto». Davigo era stato appena eletto al Csm con un plebiscito di voti. Per lui uno dei due posti destinati a piazza Indipendenza ai giudici di legittimità. Essendo nella composizione della Sezione disciplinare del Csm previsto un membro eletto fra i giudici di merito, la presenza di Davigo come titolare o come supplente era scontata. E infatti fu eletto come titolare. I giudizi di valore espressi da Davigo su questo procedimento disciplinare rischiano ad una settimana dalla sentenza di gettare un’ombra su quello che sarà il giudizio finale su Woodcock. Sia nel caso di condanna, il pg della Cassazione ne ha chiesto la censura, che di assoluzione. La Procura di Roma, a cui venne trasmesso per competenza territoriale il fascicolo Consip in cui era indagato Tiziano Renzi, lo scorso ottobre ha chiuso le indagini chiedendone l’archiviazione. I carabinieri del Noe, come si ricorderà, volevano invece arrestarlo e cercarono elementi affinché Woodcock chiedesse nei suoi confronti la custodia cautelare al gip. Il processo disciplinare ha le stesse regole del processo penale. L’obbligo di astensione del giudice scatta se «esistono gravi ragioni di convenienza». E’ una norma di carattere generico. La Corte costituzionale con una sentenza del 2000 ha precisato che le ragioni di convenienza debbano «essere valutate caso per caso». L’ultima parola su questa vicenda toccherà quindi solo a Davigo. Il vice presidente del Csm David Ermini, a cui sarebbe spettato presiedere il collegio, ha risolto un “problema” analogo subito dopo essersi insediato, optando per l’astensione. Da ex parlamentare del Pd e responsabile Giustizia, nella scorsa legislatura attaccò duramente gli inquirenti di Consip. «Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?», furono le sue parole.
Caso Consip, il Csm censura Woodcock. Assolta Carrano. La sezione disciplinare ha ritenuto il magistrato responsabile del solo addebito della "scorrettezza" nei riguardi del procuratore Fragliasso, escludendola invece nei confronti dei pm di Roma. La difesa: "Ricorreremo in Cassazione", scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. La sezione disciplinare del CSM ha condannato il PM di Napoli Henry John Woodcock alla sanzione della censura, mentre ha assolto la collega Celestina Carrano nell'ambito del procedimento sul caso Consip. Il 'tribunale delle toghe' ha 'condannato' Woodcock soltanto per il capo di incolpazione relativo ai 'virgolettati' sul caso Consip contenuti in un articolo di 'Repubblica' dell'aprile 2017: secondo la procura generale della Cassazione, questi avrebbero rappresentato una "grave scorrettezza" nei confronti sia dell'allora procuratore facente funzioni Nunzio Fragliasso, sia dei pm della Capitale titolari del filone romano dell'indagine Consip. La sezione disciplinare ha ritenuto Woodcock responsabile del solo addebito della "scorrettezza" nei riguardi di Fragliasso, escludendola invece nei confronti dei pm di Roma. Caduta, inoltre, l"accusa, contestata sia a Woodcock che a Carrano, di aver violato i doveri di "imparzialità, correttezza e diligenza", con le modalità in cui, il 21 dicembre 2016, venne svolto l'interrogatorio di Filippo Vannoni, all'epoca consigliere economico di Palazzo Chigi, sentito come persona informata sui fatti e non come indagato, dunque senza l'assistenza di un difensore. "Leggeremo le motivazioni, ma sicuramente ricorreremo in Cassazione". Lo ha detto l'ex procuratore di Torino Marcello Maddalena, difensore del pm di Napoli Henry John Woodcock davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Woodcock è stato condannato alla sanzione della censura. Il verdetto della disciplinare del Csm, presieduta dal laico M5s Fulvio Gigliotti, che ha sanzionato con la censura il pm di Napoli Henry John Woodcock, potrebbe essere impugnato davanti alle sezioni unite civili della Cassazione anche dalla procura generale della Suprema Corte. "Non sono soddisfatto, mi riservo di valutare il ricorso in Cassazione", ha detto il rappresentante della procura generale della Cassazione Mario Fresa. Fresa aveva chiesto per Woodcock la sanzione che gli è stata inflitta ma anche rispetto a un'altra accusa dalla quale il pm napoletano è stato invece assolto (così come Carrano per la quale era stata chiesta la condanna all'ammonimento): quella di aver violato i diritti di difesa di Filippo Vannoni, uno degli indagati dell'inchiesta Consip. Nessun commento invece da parte di Woodcock e Carrano, che hanno lasciato Palazzo dei Marescialli senza fare alcuna dichiarazione ai giornalisti.
Woodcock censurato dal Csm per Consip Ma è assolto per la gestione dell'inchiesta. Nessuna sanzione per la Carrano. E a Firenze prima udienza per i Renzi, scrive Patricia Tagliaferri, Martedì 05/03/2019, su Il Giornale. Roma Per il caso Consip il pm napoletano John Henry Woodcock è stato censurato dal Consiglio Superiore della Magistratura. La sanzione che gli è stata inflitta dall'organo di autogoverno dei giudici e che prevede una dichiarazione formale di biasimo è legata ad alcune frasi, pubblicate su Repubblica, riferite alle accuse di falso contestate dalla Procura di Roma all'allora capitano del Noe Gianpaolo Scafarto e per le quali ha mancato al dovere di riserbo comportandosi in modo gravemente scorretto nei confronti dell'allora capo facente funzione della Procura di Napoli, Nunzio Fragliasso, che lo aveva invitato alla massima riservatezza sulla vicenda in un momento particolarmente delicato, in cui la parte «politica» dell'inchiesta era stata stralciata e trasmessa a Roma per competenza. Per l'altro capo di incolpazione, che riguardava più direttamente la gestione dell'indagine sulla corruzione nella centrale acquisti della pubblica amministrazione, Woodcock è stato assolto e con lui la collega Celestina Carrano, totalmente scagionata (per la pm era stata sollecitata la sanzione più lieve dell'ammonimento). I due magistrati erano accusati di aver violato i diritti di difesa nei confronti dell'ex consigliere di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni, che non era stato iscritto nel registro degli indagati mentre per il pg della Cassazione Mario Fresa, che rappresentava l'accusa, ci sarebbero stati i presupposti per farlo. Il 21 dicembre del 2016 Vennoni era stato interrogato come testimone senza l'assistenza di un legale e con metodi ritenuti lesivi della sua dignità. L'assoluzione su questo punto non ha soddisfatto Fresa, che si riserva di valutare il ricorso in Cassazione. Lo stesso potrebbe fare l'ex procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena, difensore del pm napoletano: «Leggeremo le motivazioni, ma ricorreremo sicuramente in Cassazione». I virgolettati apparsi su Repubblica secondo Fresa avrebbero interferito anche con l'inchiesta della Procura di Roma, che nel frattempo aveva ereditato il fascicolo. Ma questa contestazione è stata esclusa e la censura per il pm partenopeo è arrivata solo per la scorrettezza nei riguardi del procuratore Fragliasso. Woodcock si era difeso davanti alla sezione disciplinare, prima della sentenza, ribadendo che il colloquio con la giornalista sarebbe dovuto rimanere privato: «Sono stato ingannato e tradito. Se questo debba essere causa di una mia condanna lo lascio decidere alla serenità della vostra camera di consiglio». In questa inchiesta era stato coinvolto anche Tiziano Renzi, ma la sua posizione è stata archiviata. Adesso il papà dell'ex premier ha altri guai giudiziari. Ieri a Firenze si è aperto il processo che lo vede imputato con la moglie Laura Bovoli per false fatture, un'inchiesta diversa da quella che li ha fatti finire agli arresti domiciliari. Un'udienza lampo, quella di ieri, per individuare il perito che dovrà trascrivere le intercettazioni ambientali e stilare il calendario del processo. I coniugi Renzi ieri non erano in aula perché non era richiesta la loro presenza.
(ANSA) - La sezione disciplinare del CSM ha condannato il PM di Napoli Henry John Woodcock alla sanzione della censura, mentre ha assolto la collega Celestina Carrano nell'ambito del procedimento sul caso Consip. Woodcock è stato condannato per l'accusa di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dell'allora capo del suo ufficio, Nunzio Fragliasso. L'accusa di riferisce ai virgolettati che gli erano stati attribuiti da Repubblica nell'aprile 2017 e che riproducevano il suo giudizio che il falso di cui era accusato il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto dai pm romani era da attribuire a un errore e non era stato determinato da dolo. Durante il processo disciplinare Woodcock ha spiegato che quell'opinione lui l'aveva espressa in un colloquio "salottiero" con una giornalista amica che gli aveva promesso che non avrebbe scritto niente. Ma evidentemente non ha convinto la sezione disciplinare che lo ha ritenuto responsabile di scorrettezza verso Fragliasso che lo aveva invitato a osservare il riserbo. Per la stessa vicenda a Woodcock veniva anche contestato di aver interferito nell'inchiesta della procura di Roma, ma da questa accusa è stato assolto. Con Carrano, Woodcock è stato assolto anche dalla contestazione principale di aver violato i diritti di difesa di uno degli indagati dell'inchiesta Consip, l'ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, per averlo ascoltato come testimone, e quindi senza avvocato, quando invece - secondo l'accusa che non è stata riconosciuta fondata dalla Sezione disciplinare- c'erano già gli elementi per la sua iscrizione nel registro degli indagati.
(ANSA) - "Leggeremo le motivazioni, ma sicuramente ricorreremo in Cassazione". Lo ha detto l'ex procuratore di Torino Marcello Maddalena, difensore del pm di Napoli Henry John Woodcock davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Woodcock è stato condannato alla sanzione della censura. Nessun commento invece da parte di Woodcock e Carrano, che hanno lasciato Palazzo dei marescialli senza fare alcuna dichiarazione ai giornalisti.
(ANSA) - Il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, componente della Sezione disciplinare del Csm, ha querelato il Foglio che aveva scritto che si sarebbe dovuto astenere dal collegio sul caso Consip per essersi "espresso a più riprese su Consip e, in particolare sulla vicenda che ha coinvolto il collega napoletano (ndr il pm Henry John Woodcock). I reati ipotizzati nella querela presentata alla procura di Milano sono di diffamazione aggravata e omesso controllo.
(ANSA) -"Non sono sodisfatto, mi riservo di valutare il ricorso in Cassazione". Lo ha detto il rappresentante della procura generale della Cassazione Mario Fresa a proposito della sentenza che ha condannato il pm di Napoli Henry John Woodcock alla sanzione della censura e ha assolto la collega Celestina Carrano. Fresa aveva chiesto per Woodcock la sanzione che gli è stata inflitta ma anche rispetto a un'altra accusa dalla quale il pm napoletano è stato invece assolto (così come Carrano per la quale era stata chiesta la condanna all'ammonimento): quella di aver violato i diritti di difesa di Filippo Vannoni, uno degli indagati dell'inchiesta Consip.
Woodcock quasi perdonato Solo uno schiaffetto dal Csm. Il tribunale delle toghe assolve il magistrato napoletano, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 Marzo 2019 su Il Dubbio. “Consip” è salva. Wooodcock un po’ meno. Dopo un’istruttoria durata mesi, il pm napoletano è stato dunque assolto dalla grave accusa di aver violato i doveri di ‘ imparzialità, correttezza e diligenza” per le modalità con cui, il 26 dicembre del 2016, condusse con i carabinieri del Noe comandati dall’allora capitano Giampaolo Scafarto l’interrogatorio di Filippo Vannoni, all’epoca consigliere economico di Palazzo Chigi. Vannoni venne sentito come persona informata sui fatti e non come indagato, senza l’assistenza di un difensore. Un interrogatorio, secondo quanto riportato da Vannoni, a tratti drammatico, con Woodcock che avrebbe esercitato pressioni nei suoi confronti, come quella di mostrargli dalla finestra della Procura il carcere di Poggioreale, chiedendogli ‘ se vi volesse fare una vacanza’ e facendogli vedere dei fili, spacciati per delle microspie. La Sezione disciplinare non gli ha invece perdonato il suo “colloquio” con la giornalista di Repubblica, Liana Milella. La sentenza è arrivata ieri pomeriggio. Condanna della censura per la violazione del dovere del riserbo sull’indagine Consip, con un comportamento gravemente scorretto nei confronti dell’allora procuratore facente funzione, Nunzio Fragliasso. Woodcock aveva sempre ribadito di aver espresso alcune riflessioni in un colloquio «che sarebbe dovuto rimanere salottiero» con una giornalista amica, che invece poi tradì l’impegno di non scrivere nulla. «Io sono stato tradito. Se questo inganno, questo tradimento, debba essere causa della mia condanna lo lascio alla serenità della vostra camera di consiglio», aveva detto prima che i giudici si ritirassero per la camera di consiglio. Il pm aveva anche letto le dichiarazioni rilasciate da Fragliasso, il quale gli aveva dato atto di «grande correttezza ed estrema professionalità». Una versione confermata anche dalla giornalista che, citata come teste davanti al Csm aveva detto: «Avevo dato la mia parola d’onore che non avrei mai scritto. Ma poi ha prevalso il demone giornalistico, la voglia di fare uno scoop». Milella, a dimostrazione di ciò, aveva citato alcuni sms scambiati con Woodcock e degli appunti, evidenziando come non ci fosse mai stata alcuna intenzione da parte del pm di screditare il suo capo. Il Csm, però, è stato di diverso avviso. E solo leggendo le motivazioni della sentenza si capirà perché. Motivazioni che saranno anche un "avviso" alle toghe. Ad esempio: «Quando parlate con un giornalista sappiate che egli, a prescindere, pubblicherà qualsiasi cosa voi direte». Con la censura Woodcock è ora “azzoppato”. Una condanna che peserà per eventuali incarichi direttivi o semi direttivi. Il collegio era presieduto dal laico M5s Fulvio Gigliotti in quanto David Ermini si era astenuto a causa di alcune dichiarazioni su Woodcock fatte quando, nella scorsa legislatura, era responsabile giustizia dei dem. C’era invece Piercamillo Davigo. «Non sono soddisfatto, mi riservo di valutare il ricorso in Cassazione», ha detto il pg della Cassazione Mario Fresa dopo aver ascoltato il dispositivo della sentenza. Nessun commento invece da parte di Woodcock che ha lasciato Palazzo dei Marescialli senza fare alcuna dichiarazione ai giornalisti. Era stato Pierantonio Zanettin, componente laico del Csm nella scorsa consiliatura, a richiedere un’apertura pratica sull’indagine Consip. Richiesta che per mesi era stata però stoppata.
Perché il Csm ha salvato Woodcock e condannato il pm Valter Giovannini? Il magistrato interrogò una farmacista senza il suo avvocato, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 6 Marzo 2019 su Il Dubbio. L’assoluzione di Henry John Woodcock dal capo di imputazione più grave, cioè quello di aver violato i diritti di difesa dell’ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, sentito come testimone e non come indagato, quindi senza la presenza dell’avvocato, è una ulteriore conferma del mutato clima all’interno dell’attuale Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, la memoria va infatti ad una vicenda analoga, quella di Vera Guidetti, la farmacista che uccise la madre ultranovantenne e poi si suicidò qualche giorno dopo essere stata ascoltata, nel marzo del 2015, dall’allora procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini come testimone in un’indagine su un furto di gioielli avvenuto nel capoluogo emiliano. La Sezione disciplinare del Csm, all’epoca, aveva condannato con la censura il magistrato per aver “trascurato” le garanzie difensive a tutela della donna e per avere in questo modo colpevolmente violato le norme processuali. Giovannini fece poi ricorso, senza successo, in Cassazione. Il collegio era presieduto dal laico Antonio Leone, relatore della sentenza il togato Luca Palamara. «Riguardo la mancata iscrizione di Guidetti nel registro degli indagati – si legge nella sentenza – appare necessario procedere alla descrizione di tutti gli elementi di prova che delineano la condotta antecedente, contemporanea e successiva all’esame come persona informata della stessa Guidetti nella giornata del 9 marzo 2015 e che fanno emergere per le ragioni di seguito indicate una responsabilità dell’incolpato per la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell’applicazione del citato art. 63 cpp». La farmacista, in un biglietto trovato a casa sua, scrisse che Giovannini l’aveva trattata come una criminale e non aveva creduto nella sua buona fede. Per il Csm, Giovannini doveva interrompere l’audizione della donna, iscriverla nel registro degli indagati e invitarla a nominarsi un difensore dal momento che nel frattempo a casa della Guidetti erano stati trovati dei gioielli che lei aveva ammesso di custodire su richiesta di un ragazzo nomade, Ivan Bonora, sospettato del furto. La posizione della farmacista era dunque cambiata e doveva essere iscritta nel registro degli indagati. Come nel procedimento Woodcock, l’accusa era sostenuta dal sostituto pg della Cassazione Mario Fresa. Nella sua requisitoria fu molto severo con Giovannini e gli investigatori, parlando di un modo di procedere da “Stato di polizia”. La sentenza del Csm, come detto, venne confermata in Cassazione. «La Sezione disciplinare non ha addebitato a Giovannini scrissero i giudici di piazza Cavour – le soggettive ricadute psicologiche per la Guidetti, anziana farmacista, né gli insani suoi gesti, bensì l’aver trascurato, nel corso del suo esame, prolungato e ripetuto, quelle minime garanzie difensive a lei spettanti quale persona ` di fatto ´ indagata e la prosecuzione dell’esame, sempre quale persona informata sui fatti, nonostante fosse esigibile l’iscrizione dell’esaminata nel registro delle notizie di reato, con tutte le conseguenze di legge sul piano difensivo». Il Csm aveva correttamente motivato il suo provvedimento «rispetto alla peculiare offensività della condotta omissiva e commissiva ascritta al dottor Giovannini, nell’attuale assetto del valore costituzionale e convenzionale dato alle garanzie difensive e al giusto processo». Il primo ieri ad evidenziare il cambio di passo della Sezione disciplinare, di cui fa parte Piercamillo Davigo, è stato lo stesso Giovannini, attualmente sostituto pg a Bologna. «Da quel che ho letto sulla stampa ci sono aspetti tecnico processuali simili alla vicenda che mi ha riguardato. Nel mio caso i fatti sono ormai coperti dal giudicato e le sentenze, anche quelle che possono non piacere, si rispettano», così Giovannini interpellato dall’Ansa proprio sull’assoluzione di Woodcock.
Giudici e pm arrestati. L’allarme di Legnini: «la magistratura reagisca alle toghe corrotte». Per responsabilità di pochi si compromette fiducia dei cittadini, scrive la Redazione di PdN Prima da noi l'8 Febbraio 2018. «Cinque magistrati detenuti e due interdetti per fatti di corruzione», preoccupano il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, che ritiene indispensabile «una forte reazione di tutta la magistratura», come dice in un'intervista a Repubblica. Già, perché dopo il caso Bellomo, sul Consiglio di Stato si abbatte l'inchiesta sui giudici corrotti. La reazione è di "stupore" anche perché uno dei protagonisti, Riccardo Virgilio, aveva fama di "duro". Gli investigatori ne hanno individuate 18, tra sentenze, ordinanze e decreti del Consiglio di Stato: sarebbero state tutte aggiustate in modo da produrre «esiti favorevoli» per le società che, direttamente o indirettamente, erano rappresentate in giudizio da quegli stessi avvocati che figuravano essere dietro alla società maltese nella quale il giudice ha investito 750mila euro, provenienti da un conto Svizzero e mai dichiarati al fisco. Per l'ex presidente della IV sezione del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso con i due avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, non è scattato alcun provvedimento restrittivo poiché è in pensione dal 1 gennaio 2016. Dunque, dice il giudice, «non sussiste il pericolo che possa reiterare il reato» e «non sono emersi elementi concreti per ritenere che possa continuare ad esercitare la sua influenza su altri Consiglieri di Stato». Ma la gravità dei fatti che gli viene contestata è sintetizzata dalle parole dei pm, il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini: ci sono sentenze «aggiustate» almeno per 400 milioni.
«ANCHE SOLO UN ARRESTO CREA SCONCERTO». «I magistrati sono circa 9mila e l'ordine giudiziario nel suo complesso è sano», ha ribadito il vice presidente del Csm, legnini, ma «l'arresto anche di uno solo di loro non può che destare preoccupazione e sconcerto perché quella del giudice non è certo una professione qualsiasi. Quindi sì, per la funzione della magistratura, sette misure come queste, di cui ben 4 negli ultimi due mesi, sono tante» e «suscitano due sentimenti tra loro contrastanti: il timore che per responsabilità di pochi si possa compromettere la fiducia dei cittadini nei confronti dell'intero ordine giudiziario», ma anche «la soddisfazione per la capacità della stessa magistratura di accertare reati anche a carico di magistrati». Legnini chiama in causa la magistratura associata: «le correnti dovrebbero sprigionare tutta la loro forza di orientamento nei confronti dei loro associati». Parlando dell'indagine sulle sentenze pilotate, di cui si è avuto notizie ieri, sottolinea che «se i fatti saranno confermati, il sistema emerso desta gravissime preoccupazioni. Sulle anomalie che si manifestavano da tempo alla procura di Siracusa siamo già intervenuti, pur non potendo conoscere gli episodi di corruzione. La prima commissione a maggio 2017 è andata a Siracusa, tant'è che dopo lo stesso Longo, per l'incompatibilità ambientale e funzionale, ha chiesto di essere trasferito e ciò è stato subito disposto. Longo poi a novembre è stato condannato in sede disciplinare».
LA "RETE" NEGLI ATTI DELL'INCHIESTA. L'ordinanza del gip di Roma documenta i rapporti di Virgilio con i due avvocati. Centrale il finanziamento da 752mila euro che nel dicembre 2014 sottoscrive per una società maltese riconducibile ad Amara e Calafiore: la somma parte da un suo conto svizzero. L'investimento garantisce un interesse netto del 2% annuo e rende «più difficile» essere beccati dal fisco; e proprio nell'arco temporale in cui viene perfezionato, escono le sentenze finite nel mirino dei pm. Ma i tre come entrano in contatto? Amara dice di aver conosciuto Virgilio nell'ottobre, novembre 2014 quando glielo presentò Antonino Serrao, direttore generale al Consiglio di Stato. Quest'ultimo, sentito, ha confermato. Tra le esperienze pregresse di Virgilio c'è anche quella, negli anni '90, di direttore del Secit, gli allora 007 del fisco al Ministero delle Finanze. Dalle carte dell'inchiesta emergono altri consiglieri di Stato, come Nicola Russo. «Anch'egli indagato nel presente procedimento», scrive il gip, nel marzo 2014 stende una delle sentenze chiave a favore di Ciclat, difesa da Amara. Ma proprio Amara difende Russo in due procedimenti che lo hanno visto indagato: uno per rivelazione di segreto d'ufficio e uno per sfruttamento della prostituzione. Fatti per i quali Russo è stato sospeso dal Consiglio di Stato. C'è poi Raffaele De Lipsis: Amara e il suo uomo di fiducia Alessandro Ferraro informano lui e l'ex giudice della Corte dei conti Luigi Caruso che sono intercettati.
15 ARRESTI IN TOTALE. Quindici gli arresti, tra carcere e domiciliari: e in cella è finito anche il pm Giancarlo Longo che sarà interrogato dal gip nel carcere di Poggioreale. Secondo l'accusa, che gli contesta il falso, la corruzione e l'associazione a delinquere, in cambio di soldi avrebbe pilotato procedimenti penali in favore dei clienti di riguardo di due legali siracusani: Piero Amara, anche lui arrestato, avvocato dell'Eni, e Giuseppe Calafiore, socio di Amara riuscito a sfuggire alla cattura e latitante a Dubai. I favori del pm, ora trasferito al tribunale di Napoli, sarebbero stati ricompensati con 88mila euro e vacanze di lusso negli Emirati e in un hotel a 5 stelle di Caserta.
PM SI DIFENDE: «CONTRO DI ME UN COMPLOTTO DEI COLLEGHI». Sospettando da tempo di essere finito nel mirino degli inquirenti tanto da aver dato la caccia alle microspie, che l'hanno puntualmente ripreso, Longo ha depositato nelle scorse settimane una memoria difensiva in cui accusa gli otto ex colleghi pm di aver ordito un complotto tutto per danneggiarlo. «Abbiamo dimostrato attraverso una consulenza che però non è stata tenuta in considerazione dalla Procura di Messina - dice il suo legale - che i soldi depositati sul suo conto erano regali dei suoceri. Bastava confrontare i movimenti bancari da loro fatti». Una difesa a cui il gip non ha creduto e che sarebbe confutata dai prelievi fatti da Calafiore e da un altro personaggio coinvolto, Fabrizio Centofanti. Le somme ritirate corrisponderebbero a quelle versate sui suoi conti dall'ex pm.
IL CASO ENI. Dall'inchiesta, che si intreccia con una indagine della Procura di Roma su alcuni personaggi comuni e che ha accertato una serie di sentenze pilotare al Consiglio di Stato, emerge intanto una lunghissima serie di procedimenti "pilotati" da Longo. Dal caso Eni, in cui l'ex pm avrebbe avrebbe contribuito a creare una sorta di falso complotto per depistare l'indagine milanese su una corruzione internazionale a carico dell'ad De Scalzi, ai fascicoli sugli imprenditori Frontino, clienti e vicini all'avvocato Calafiore. Per "proteggerli" Longo avrebbe estromesso la polizia giudiziaria e incaricato consulenti compiacenti, come l'ingegnere Mauro Verace, anche lui indagato, in modo da avere relazioni tecniche favorevoli ai Frontino coinvolti in diversi procedimenti. E ancora avrebbe cercato di costruire un castello accusatorio contro dirigenti comunali che, in una causa degli imprenditori contro il Comune di Siracusa per un risarcimento del danno da ritardata concessione edilizia, avevano dato torto alla loro società. In alcuni casi poi avrebbe aperto fascicoli ad hoc per farvi confluire false consulenze che avrebbero poi scagionato i Frontino: come nel caso di un fascicolo avviato contestualmente a un accertamento fiscale aperto sugli imprenditori dall'Agenzia delle Entrate. Una gestione a dir poco personalistica della giustizia che, dicono gli inquirenti, veniva riservata, tra gli altri, anche all'impresa Cisma coinvolta in una inchiesta su reati ambientali.
AMARA E’ IL REGISTA OCCULTO? Piero Amara, 48 anni, arrestato per corruzione, falso e associazione a delinquere, è un avvocato siracusano che ha svolto attività legale anche per l'Eni. Ritenuto molto vicino all'ex procuratore Ugo Rossi e all'ex pm Maurizio Musco, entrambi condannati per abuso d'ufficio, nel 2009 è stato condannato (pena sospesa) per accesso illecito al sistema informativo della Procura di Catania. Due anni fa finì sotto inchiesta a Cassino in una indagine su presunti aggiustamenti in cambio di soldi di una perizia ambientale sulla raffineria di Gela. L'indagine è stata archiviata. Fu indagato a Siracusa, insieme al suo collaboratore Alessandro Ferraro, oggi arrestato, in uno stralcio dell'inchiesta su Musco e Rossi. E nell'aprile 2017 dalla Procura di Roma per l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata a false fatture. Dagli accertamenti venne fuori che Amara era socio di un ex magistrato del Consiglio di Stato in una società maltese che si occupava di start-up. Dall'inchiesta che oggi ha portato al suo arresto è emerso che Amara, insieme al socio Giuseppe Calafiore e al pm Giancarlo Longo, e grazie alla complicità di una serie di consulenti tecnici, avrebbe condizionato l'esito dei procedimenti penali aperti dalla Procura di Siracusa su alcuni suoi clienti.
Tre anni per chiudere un’inchiesta, magistrato della procura di Alessandria indagato a Milano. La pm Marcella Bosco indagata per omissione di atti d’ufficio: le si contestano ritardi nelle indagini riguardanti il caso di un’eredità a Portofino in cui era coinvolto l’ex presidente del Tribunale Sciaccaluga, scrive il 19/02/2019 Silvana Mossano su La Stampa. Un magistrato della procura di Alessandria, la pm Marcella Bosco, è indagato, a Milano, per omissione di atti d’ufficio. Le viene contestato un ritardo – tre anni – nella chiusura di un’inchiesta per la quale chiese, alla fine, l’archiviazione, motivandola peraltro in modo molto articolato, come riconosce la stessa procura milanese. Ma il tempo trascorso è giudicato eccessivo. La contestazione viene mossa alla dottoressa Bosco a chiusura delle indagini, prima che venga formulata un’eventuale – ma non scontata – richiesta di rinvio a giudizio. La vicenda rappresenta uno strascico di un altro caso, di anni precedenti, in cui finì sotto accusa l’ex presidente del Tribunale di Alessandria, Gian Rodolfo Sciaccaluga, (già presidente a Casale Monferrato, e, successivamente, anche a Chiavari oltre che di una sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte) che aveva affidato a un got una causa civile su una villa di Portofino “invitandolo” a decidere a favore di una “simpatica vecchina”. Che era la suocera di Sciaccaluga medesimo. Una delle controparti di quella causa civile depositò, poi, in procura ad Alessandria, nel 2012, una denuncia in cui ipotizzava la falsità del testamento riguardante la villa di Portofino. E qui c’è il ruolo della dottoressa Bosco. La pm a metà 2013 completa le verifiche, ma soltanto dopo tre anni, e cioè a settembre 2016, deposita la richiesta di archiviazione, ampiamente motivata, che approda al gup Paolo Bargero, il quale, esaminati gli atti, invita la procura a valutare e approfondire ipotesi di concussione o abuso d’ufficio a carico di Sciaccaluga. Trascorrono alcuni mesi, e ad agosto 2018 la pm trasmette il fascicolo alla procura di Milano, competente a indagare su magistrati del tribunale di Alessandria. Su quella vicenda si sono mosse a carico dell’ex presidente l’accusa di concussione nei confronti del got. Successivamente, però, a parte, anche il pubblico ministero Bosco viene indagata e le vengono contestatati i ritardi di inchiesta che ora sono riassunti nell’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio. Il difensore Piero Monti dichiara: “Non c’è stata l’intenzione di favorire nessuno, questo è il primo punto che va chiarito. Se ci fosse stato il minimo sospetto che la dottoressa Bosco intendeva tenere la parte a qualcuno la contestazione sarebbe stata altra. Il magistrato ha effettuato le indagini che, al termine, non hanno portato a nulla e ha quindi chiesto, in modo ampio e articolato, l’archiviazione”. Tempi lunghi? “Indubbiamente hanno inciso i carichi e le difficoltà strutturali dell’ufficio della procura, la somma di altre cause. Avrà modo di spiegare con chiarezza che non ha mai avuto intenzione di compiere atti contrari al proprio ufficio”.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2019. Avviso ai naviganti magistrati nei procellosi mari dei fascicoli giudiziari: chi li lascia giacere senza motivo negli armadi - tipo 3 anni dalla fine dell' indagine prima di archiviarli, o 9 mesi dall' ordine del gip prima di trasmetterli altrove per competenza - rischia di incorrere non solo in un ovvio procedimento disciplinare, ma addirittura anche nel reato di «omissione d' atti d' ufficio»: almeno secondo quanto la Procura di Milano, in un avviso di conclusione delle indagini, sceglie ora di contestare a una pm di Alessandria, del tutto a prescindere invece dalla parallela accusa di «concussione» mossa al già presidente del Tribunale di Alessandria nell' assunto che il 18 gennaio 2008 abbia costretto un giudice onorario a decidere a favore della suocera una causa civile su una villa con boschi e vigneti e uliveti a Portofino. «Le ho assegnato la causa di una simpatica vecchina», si sentì dire il giudice onorario (got) Alfonso Matarazzo da Gian Rodolfo Sciaccaluga, cioè dal magistrato che allora presiedeva il Tribunale di Alessandria e poi presiederà quello di Chiavari nonché una sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte. Solo che la «simpatica vecchina» era la suocera del presidente (poi morta nel 2009). Per i pm milanesi Ilda Boccassini e Cristiana Roveda il presidente (oggi in pensione), oltre a non astenersi, e a violare i criteri per l'assegnazione al got di un fascicolo con controversa competenza territoriale e persino con controparti ignare, avrebbe imposto al got di consegnargli «una bozza di sentenza poi restituita modificata e integrata», dicendogli «questo è quello che deve scrivere». «Un mattino presto al parcheggio del Tribunale il presidente non trovava il provvedimento nella borsa - dipinge la scena il got che, non indagato, dice di aver ceduto per paura che il presidente gli togliesse gli incarichi -: telefonò al figlio imprecando e chiedendogli dove l'avesse messo». «Abbiamo appreso da poco dell'indagine - ribatte il legale Andrea Soliani -, ma sono convinto che, ad un sereno confronto con l'autorità giudiziaria, possa emergere con chiarezza l'assenza di responsabilità penali».
Nel 2012 il secondo round. Una delle controparti denuncia in Procura l'asserita falsità del testamento prodotto nella causa civile, e ad Alessandria la pm Marcella Bosco finisce gli accertamenti a metà 2013: ma fa passare 3 anni prima di definire il fascicolo chiedendo un'articolata archiviazione il 26 settembre 2016. Il 10 agosto 2017 il gip Paolo Bargero risponde al pm che invece vanno esplorate ipotesi di concussione o abuso d' ufficio a carico del presidente del Tribunale, magistrato su cui quindi a indagare deve essere un'altra Procura precostituita per legge (Milano). Dopo 3 mesi il pm iscrive l'abuso d' ufficio, ma non trasmette a Milano il fascicolo per altri 9 mesi, fino al 10 agosto 2018. Dopo 11 giorni il pm milanese Stefano Civardi indaga il presidente per abuso d' ufficio, reato per cui (al pari dell'induzione indebita) il pm Roveda il 9 ottobre 2018 chiede l'archiviazione per prescrizione, nel contempo contestando invece al presidente la concussione del got. «Bosco non conosce e non ha mai visto Sciaccaluga, nulla è mai stato ritardato dalla pm con l'intento di omettere un atto dell'ufficio», spiega l'avvocato Piero Monti. «La pm ha fatto una scelta investigativa (e una valutazione che quel fascicolo fosse di secondo piano) che oggi possono apparire non esatte alla luce degli atti milanesi, e indubbiamente ci furono oggettivi rallentamenti nella tempistica: ma vanno ricondotti alla gestione delle priorità in un ufficio in forte affanno, dove come pm era appena arrivata, l'assistente era in malattia, e c' erano difficoltà nella logistica delle copie degli atti».
La banda dei giudici corrotti: l'inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura. Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. C'è una vera e propria rete di toghe sporche al lavoro da Milano alla Sicilia, scrive Paolo Biondani il 19 febbraio 2019 su L'Espresso. Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado.
La banda delle toghe sporche, di Paolo Biondani. L'Espresso, 17 febbraio 2019. Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. Una rete di giudici corrotti, da Milano alla Sicilia. Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall'interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un'inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L'accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell'associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado. Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino annullare le elezioni. L'indagine della procura di Roma ha già provocato decine di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi con i soldi all'estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e sentenze svendute in serie, "a pacchetti di dieci". Con tangenti pagate anche per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la corruzione. L'antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il politico siciliano, secondo l'accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore, un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla l'elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell'ottobre 2014 conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio 2018 come grandi corruttori di magistrati. L'esistenza di una rete strutturata per comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016, in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi, vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, "un elenco di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie", con nomi di magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi altrui, chiusi in una busta con il nome proprio dí Mazzocchi. Negli stessi mesi Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l'accusa di essersi fatto corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di Mazzocchi, ma anche di - "magistrati di Roma" e "ufficiali della Finanza". Ma si rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra ricattatoria: l'ex giudice cerca di "controllare questa rete riservata" di magistrati e ufficiali "in debito con lui per i favori ricevuti". Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue "raccomandazioni" a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e due società immobiliari di famiglia dell'avvocato Calafiore, che progettavano speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza. L'inchiesta riguarda molti verdetti d'oro. Russo è accusato anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi contratti pubblici all'impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio: secondo l'accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore. Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato. A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche, secondo l'accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso. Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo l'ordinanza d'arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l'ex giudice ha versato in banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni. Amara, come avvocato siciliano dell'Eni, è anche l'artefice della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno 88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria ipotizzando un inesistente complotto contro l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell'Eni in Nigeria e Congo. Dopo l'arresto, Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri dell'Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni italiane in Africa. Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla giunta dell'ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato. A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano 300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L'ex ministro Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi nelle sue sentenze siciliane. Tra i legali ora agli arresti c'è un altro illustre avvocato, Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l'imprenditore Alfredo Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un "arbitrato libero" (un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo. Proprio lui, l'ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione.
Arresti domiciliari per tre giudici (e un deputato siciliano): «Pagati da Amara per pilotare sentenze». Le toghe coinvolte sono in pensione o già sospese, scrive Errico Novi l'8 febbraio 2019 su Il Dubbio. Tre magistrati ai domiciliari. E, con loro, un deputato regionale siciliano. È l’ultimo effetto della lunga indagine su presunte sentenze “comprate” avviata un anno fa dalle Procure di Messina e di Roma e imperniata attorno all’avvocato Piero Amara, del Foro di Catania ma con studio anche a Roma, ritenuto dai pm il terminale di una sorta di “centrale di acquisti giudiziaria”. Le ordinanze cautelari eseguite ieri portano la firma della gip capitolina Daniela Caramico D’Auria e si basano sull’accusa di corruzione in atti giudiziari. Riguardano in particolari l’ex giudice del Consiglio di Stato, ora in pensione, Nicola Russo, già arrestato a marzo 2018 con l’immobiliarista Stefano Ricucci; l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa siciliano Raffaele de Lipsis, già sospeso dalle funzioni giurisdizionali due anni fa; il deputato regionale siciliano Giuseppe Gennuso, siracusano della lista “Popolari e autonomisti”; e un altro magistrato in pensione, l’ex consigliere della Corte dei Conti Pietro Maria Caruso. Si tratta di provvedimenti restrittivi riguardanti fatti già da tempo oggetto d’indagine. Tanto che, poco dopo la notizia sulle ordinanze della gip di Roma, dall’ufficio stampa della Giustizia amministrativa si prova a fare ordine, visto che nei primi lanci di agenzia e sulle testate on line si era subito parlato di operazioni condotte materialmente a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, e presso la sede del Consiglio di Giustizia amministrativa siciliano. Niente di tutto questo, considerato che appunto i due magistrati amministrativi coinvolti, Russo e de Lipsis, sono l’uno «in pensione dal 2015» e l’altro «già sospeso dal servizio dal 2017 con misura cautelare disciplinare». Oltretutto le stesse ipotesi di reato che ieri hanno prodotto gli arresti domiciliari per i quattro indagati riguardano, nel caso dei due magistrati amministrativi, «sempre i medesimi episodi». Si tratta insomma di illeciti già contestati a toghe ormai «non in servizio», e non ha quindi senso ipotizzare perquisizioni nei palazzi dove un tempo gli interessati lavoravano. A parte il caso di Russo, secondo i pm destinatario di una presunta tangente da 20mila euro, pagata da Amara per l’aggiustamento di tre fascicoli, gli altri tre destinatari delle misure sono chiamati in causa per la sentenza che annullò le elezioni regionali a Siracusa e consentì così a Gennuso di essere eletto al “secondo round”, dietro pagamento di una presunta tangente da 30mila euro.
Sentenze pilotate, arresti e perquisizioni al Consiglio di Stato. Quattro provvedimenti cautelari per i giudici Nicola Russo e Raffaele Maria De Lipsis, ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano, e Luigi Pietro Maria Caruso, ex consigliere della Corte dei Conti. Ordine di cattura anche per il deputato siciliano Giuseppe Gennuso, scrivono Giuseppe Scarpa e Alessandra Ziniti il 7 febbraio 2019 su La Repubblica. Quattro ordinanze di custodia cautelare sono state emesse dal gip di Roma Daniela Caramico D'Auria, per i reati di corruzione in atti giudiziari commessi in seno al Consiglio di Stato e al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia. Ai domiciliari il giudice del Consiglio di Stato Nicola Russo (ora in pensione), già arrestato a marzo dello scorso anno con l'immobiliarista Stefano Ricucci, l'ex presidente del Cga siciliano Raffaele de Lipsis, il deputato siciliano di Popolari e Autonomisti Giuseppe Gennuso di Siracusa e l'ex consigliere (ora in pensione) della Corte dei Conti Luigi Pietro Maria Caruso. L'indagine è quella relativa a presunte sentenze pilotate (almeno cinque) presso palazzo Spada e presso il Consiglio di giustizia amministrativa di Sicilia. Un giro di mazzette da 150.000 euro, solo quello accertato in questo troncone d'inchiesta che fa riferimento al giro dell'avvocato Piero Amara, il grande regista dei verdetti aggiustati nell'ambito della giustizia amministrativa. Uno dei giudici arrestati è l'ex consigliere di Stato Nicola Russo, già destinatario di un ordine di cattura a marzo scorso insieme all'immobiliarista Stefano Ricucci.Amara, che collabora da diversi mesi, racconta di avere pagato 20.000 euro a Russo per pilotare sentenze su tre diversi procedimenti. Uno degli ordini di custodia cautelare riguarda l'ex presidente del Cga siciliano Raffaele Maria De Lipsis, accusato di corruzione. Avrebbe intascato diverse tangenti da Amara. ll nome di De Lipsis era stato uno dei primi a finire nel mirino dei pm di Roma e Messina che da oltre un anno indagano sul giro di sentenze aggiustate nei processi che riguardano la giustizia amministrativa. Le sue sentenze, a cominciare da quelle sul contenzioso della Open land a Siracusa, sono state passate al setaccio dagli investigatori della Guardia di Finanza. Secondo gli inquirenti, insieme ad un altro ex presidente del Cga Riccardo Virgilio, già finito agli arresti a febbraio dell'anno scorso, De Lipsis sarebbe stato tra i giudici sui quali Amara e il suo socio di studio Calafiore ricorrevano in favore dei loro clienti. La sentenza contestata per la quale procede la procura di Roma è quella del collegio presieduto da de Lipsis che, accogliendo il ricorso di Giuseppe Gennuso, annullò le elezioni regionali a Siracusa facendo poi rivotare e favorendo così l'elezione di Giannuso che avrebbe pagato 30.000 euro per il tramite per il tramite dell'amico consigliere della Corte dei Conti Caruso. Tra i mediatori delle sentenze pilotate torna il nome dell'avvocato Stefano Vinti il professionista che, secondo quanto dice l'ex parlamentare Italo Bocchino intercettato, comprava le cause " a blocchi". Con De Lipsis salgono a tre i giudici del Cga siciliano ad essere finiti agli arresti in un'inchiesta che, dopo le dichiarazioni di Amara e Calafiore, continua ad allargarsi a macchia d'olio e promette nuovi sviluppi. A luglio, la Procura di Messina guidata da Maurizio de Lucia aveva ottenuto l'arresto di Giuseppe Mineo, anche lui accusato di corruzione in atti giudiziari.
Cga Sicilia e Consiglio di Stato, il marcio di storie di "favori" e mazzette nell'Isola, scrive il 07/02/2019 Marco Maffettone su La Sicilia. Svelato, grazie alle dichiarazioni fatte negli ultimi mesi dagli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, un sistema corruttivo in cui giudici amministrativi si erano messi al servizio di privati in cambio di denaro: cinque gli episodi contestati. Un sistema corruttivo in cui giudici amministrativi si erano messi al servizio di privati in cambio di mazzette. Soldi dati e promessi per «comprare» sentenze e ottenere, in alcuni casi, cifre a sei zeri o elezioni ad un consiglio regionale. E’ il quadro che emerge dalle carte della maxindagine della Procura di Roma su sentenze pilotate al Consiglio di Stato e che oggi ha vissuto una nuova accelerazione con quattro arresti. Ai domiciliari sono finti il giudice Nicola Russo, già coinvolto in altre vicende giudiziarie, l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, l’ex giudice della Corte dei conti, Luigi Pietro Maria Caruso. Destinatario dell’ordinanza anche il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso. Il reato contestato a tutti è corruzione in atti giudiziari. In totale sono cinque gli episodi contestati dai magistrati di piazzale Clodio, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. In base agli accertamenti le mazzette messe a disposizioni dei giudici corrotti erano di 150mila euro. L’indagine si basa sulle dichiarazioni fatte negli ultimi mesi dagli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio del 2018 scorso nell'ambito di uno dei filoni dell’inchiesta. Dichiarazioni riscontrate dai magistrati e inquirenti attraverso intercettazioni e analisi dei flussi finanziari. Nella loro funzione di giudici - scrive il gip nell’ordinanza - «hanno posto a disposizione dei privati la loro funzione, contravvenendo ai doveri di imparzialità e terzietà e ricevendo in cambio un’utilità economica e ciò, indipendentemente dall'esito favorevole o sfavorevole delle decisioni assunte». Tre episodi sono contestati al giudice del Consiglio di Stato (ora sospeso) Russo e due all'ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, De Lipsis. In base a quanto raccontato da Amara, Russo avrebbe ottenuto da lui circa 80mila euro (e altri 60mila promessi), per aggiustare sentenze di tre procedimenti. A svolgere un ruolo di «mediatore», in base a quanto accertato dagli inquirenti, sarebbe stato anche l’avvocato Stefano Vinti oggetto questa mattina di una perquisizione. Il suo nome spunta in una vecchia intercettazione nell'ambito del caso Consip, finita agli atti dell’indagine, tra Alfredo Romeo e Italo Bocchino, in cui i due parlando dell’avvocato affermano che «comprava cause a blocchi». Per quanto riguarda De Lipsis avrebbe incassato tangenti per 80mila euro per intervenire su alcune sentenze. Tra queste anche quella relativa ad un contenzioso che la società Open Land, rappresentata da Amara, aveva con il comune di Siracusa. Il giudice, attraverso la nomina di consulenti graditi ad Amara e Calafiore, fa ottenere alla società un risarcimento dal comune siciliano di 24 milioni euro. Di questi ne verranno elargiti due prima dell’esplosione del caso giudiziario. Per questa operazione De Lipsis ha ottenuto 50mila euro di tangenti. Infine l’ex presidente del Cga è intervenuto, in qualità di presidente del collegio, nella vicenda relativa al ricorso presentato da Giuseppe Gennuso dopo la sua mancata elezioni alle amministrative del 2012. Il tribunale amministrativo annullò quel risultato elettorale di Siracusa favorendo Gennuso che venne rieletto alla nuova tornata. In cambio il giudice ottenne 30mila euro. Denaro che Gennuso consegnò attraverso l’ex giudice della Corte di Conti, Caruso.
Consiglio di Stato, nuovi indagati per le sentenze amministrative comprate. La Procura di Roma ha ottenuto la proroga d'indagine per 31 persone tra cui l'ex governatore siciliano Raffaele Lombardo e l'ex ministro Saverio Romano, scrive Alessandra Ziniti il 24 gennaio 2019 su La Repubblica. Ci sono diversi nomi nuovi nella sempre più lunga lista degli indagati delle Procure di Roma e Messina che si occupano dei due filoni delle sentenze amministrative truccate e che ormai da mesi stanno raccogliendo le dichiarazioni degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore che gestivano il giro di corruzione. Sono 31 i nomi che compaiono nella richiesta di proroga delle indagini disposta dal gip di Roma, su richiesta della Procura, e che riguarda anche uno dei filoni legati a presunte attività di corruzione in atti giudiziari al Consiglio di Stato. Oltre al presidente di Sezione, Sergio Santoro, compaiono i nomi del giudice Nicola Russo (già coinvolto in una vicenda giudiziaria con l'imprenditore Stefano Ricucci), l'ex ministro Francesco Saverio Romano accusato di rivelazione del segreto d'ufficio, l'ex governatore della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, l'imprenditore Ezio Bigotti e l'avvocato Giuseppe Calafiore. La vicenda giudiziaria, che coinvolge le procure di Roma e Messina, è legata alle dichiarazioni dell'avvocato Pietro Amara che da alcuni mesi sta collaborando con gli inquirenti. L'ipotesi investigativa gira intorno a presunte corruzioni di giudici di Palazzo Spada per pilotare alcune sentenze. Il filone siciliano è in parte già approdato in aula. Stralciata la posizione di Amara e Calafiore, il gup di Messina, Monica Marino, ha rinviato a giudizio l' ex senatore di Ala, Denis Verdini, per finanziamento illecito ai partiti. Comparirà davanti alla seconda sezione penale del tribunale insieme a Giuseppe Mineo, ex magistrato del Consiglio di giustizia amministrativa, per corruzione in atti giudiziari. Secondo l'accusa, attraverso una serie di passaggi societari, Verdini avrebbe ricevuto, a titolo di finanziamento del gruppo politico di cui era coordinatore, circa 300 mila dall'avvocato Pietro Amara per suo interessamento per la designazione di Mineo al Consiglio di Stato, che non otterrà l'incarico. L'ex magistrato del Cga siciliano è accusato invece di avere favorito clienti di Amara in contenziosi milionari che avevano instaurato contro il Comune e la Sovrintendenza di Siracusa, in cambio, sostiene la Procura, di 115mila euro, andati in parte a beneficio di un amico del magistrato, l'ex governatore della Sicilia Giuseppe Drago, bisognoso di cure.
Il giudice che «vendeva le sentenze» presenta appello (e torna in servizio)
Il caso di un giudice del Tar arrestato e condannato nel 2016. In attesa dell’Appello riprende il lavoro, scrive il 4 febbraio 2019 Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. Non sono omonimi, sono proprio la stessa persona: il magistrato amministrativo che celebra udienze al Tar-Tribunale amministrativo regionale della Valle d’Aosta è lo stesso giudice del Tar Lazio arrestato nel 2013 e condannato nel 2016 in primo grado a 8 anni per corruzione in atti giudiziari. Un paradosso, formalmente legittimo, determinato dalla lentezza dei processi che livella le ragioni di tutti: sia di chi si stupisce di vedere sentenze decise anche da un giudice condannato (pur solo in primo grado) proprio per compravendita di sentenze, sia del diretto interessato che rivendica il diritto dopo 6 anni di non restare indefinitamente «sospeso in via cautelare» in attesa di Appello e Cassazione. È il 18 luglio 2013 quando il giudice del Tar Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, viene arrestato con l’accusa di essersi accordato con una avvocato amministrativista (che patteggerà poi 3 anni e mezzo) «per indirizzare clienti presso lo studio legale e porre in essere a loro favore indebite interferenze su assegnazioni, procedure e decisioni»: collegata all’arresto scatta il 6 agosto 2013 anche la sospensione cautelare dal servizio, di tipo automatico, che dall’11 febbraio 2015 il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (l’equivalente del Csm per i giudici del Tar) sostituisce con la sospensione cautelare di tipo facoltativo. Il 22 luglio 2016 il Tribunale di Roma condanna in primo grado il magistrato a 8 anni (uno più della richiesta dei pm), alla confisca di 115.000 euro e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici. La conseguenza è che il 20 marzo 2017, al posto della sospensione facoltativa, viene disposto un altro periodo di quella automatica. Solo che l’appello non è ancora stato fissato. Ma quanto può durare la sospensione in attesa di sentenza definitiva? Nel 2002 la Consulta ritenne incostituzionale, in quanto manifestamente eccessiva, una sospensione lunga quanto la prescrizione del reato, rimarcando che «una misura cautelare, proprio perché tendente a proteggere un interesse nell’attesa di un successivo accertamento, deve per sua natura essere contenuta in una durata strettamente indispensabile per la protezione di quell’interesse, e non deve gravare eccessivamente sui diritti del singolo che essa provvisoriamente comprime». Restano allora o i 5 anni di durata massima come clausola generale; o, scaduti questi 5 anni, la scelta discrezionale di ricorrere di nuovo alla sospensione facoltativa dal servizio, cioè stavolta per motivi fondati non più sulla mera pendenza del processo penale, ma sull’apprezzamento in concreto dei fatti. L’opzione non è stata ritenuta percorribile dal «Csm» amministrativo, che ha finito per assegnare De Bernardi al Tar Valle d’Aosta dopo che il 17 aprile 2018 i magistrati del Tar Piemonte avevano paventato il «rischio di menomazione al prestigio, oggettivamente derivante dalla pendenza di un processo per reati gravi connessi all’esercizio delle funzioni giurisdizionali». A giugno la storia finirà comunque: perché il giudice andrà in pensione.
RAI3 PRESADIRETTA 14/01/2019 21:20: "Palazzi di ingiustizia", intervista a Ministro Bonafede. Ospite in studio Ministro Grillo, scrive L'Ufficio stampa della Rai. “Palazzi di ingiustizia” è un’inchiesta sulla macchina della Giustizia che rischia il collasso: l’emergenza dei Tribunali italiani, il mondo dei giudici, le correnti nella magistratura, le pressioni della politica, le storie di errori giudiziari e di malagiustizia. A rispondere a tutto campo sulle tematiche aperte dalla puntata di “PresaDiretta”, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La puntata andrà in onda lunedì 14 gennaio alle 21.20 su Rai3. L’ospite in studio, in apertura della seconda puntata, è il ministro della Salute, Giulia Grillo. Risponderà alle critiche del presidente dimissionario dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, alle polemiche degli ultimi giorni circa le informazioni raccolte sulle simpatie politiche degli scienziati e soprattutto sulle emergenze della sanità pubblica e i nuovi progetti in campo. Le telecamere di “PresaDiretta” sono entrate nei tribunali italiani, a Venezia, a Palermo, a Latina, a Catania, a Tempio Pausania, ad Avellino, a Napoli, ovunque l’esercizio della Giustizia è un autentico calvario. Mancano i giudici, manca il personale amministrativo, mancano gli uscieri, qualche volta mancano anche i bagni. E poi edifici pericolanti, crepe sui muri, aule bollenti d’estate e fradice di pioggia in inverno, topi negli edifici. E ancora, fascicoli pendenti, condanne definitive che non si riesce a far eseguire, indagini che non partono, richieste di arresto inevase. Le storie di giustizia negata. Quella del maxi processo Eternit per le morti di asbestosi provocate dall’amianto della fabbrica di Casale Monferrato. Quelle delle donne che hanno subito le violenze dei mariti. Cosa resta ai parenti delle vittime quando il processo cade nell’oblio della prescrizione? Per la prima volta in televisione “il caso Robledo” che ha avvelenato la procura di Milano. PresaDiretta è entrata anche nel Palazzo del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati che ne garantisce l’autonomia e l’indipendenza. E’ proprio così? Quale è il ruolo delle correnti nella magistratura?
PresaDiretta: nei palazzi della ingiustizia, scrive Aldo Funicelli su Uno e Nessuno lunedì 14 gennaio 2019. Si fa un gran parlare di sicurezza, di certezza della pena, di delinquenti da sbattere in carcere, eppure non si va mai a fondo per capire come mai la macchina della giustizia è andata nel corso degli anni in sofferenza, rischiando ora di finire al collasso. Forse perché negli anni si sono applicate ricette sbagliate: leggi pensate per salvare imputati dai processi, leggi per svuotare le carceri, leggi per gerarchizzare le procure e portare l'azione giudiziaria sotto il controllo dell'esecutivo. Non si è mai parlato di giustizia, di legge uguale per tutti, dei diritti degli imputati e di quelli delle vittime. E anche dei diritti di coloro i quali sono stati condannati al carcere. Si parla di prescrizione, di pene più severe, ma non si cerca mai di affrontare le cause a monte dei problemi: l'inchiesta di Presa diretta cercherà di colmare questa lacuna, andando a capire cosa cosa non funziona nelle procure, definiti “palazzi d'ingiustizia”. Il processo sulle morti per Eternit, a Casale Monferrato è uno dei casi di giustizia negata: in un'area di 94mila metri quadrati lavoravano 5000 operai, tutto il paese. Non si faceva caso alla polvere delle fibre di amianto che si infiltrava nei polmoni degli operai e degli abitanti del paese: questa polvere ha causato 2200 morti, in una cittadina che oggi fa 35mila abitanti. Sono persone morte per una condotta criminale – racconta Bruno Pesce dell'associazione vittime al giornalista di Presadiretta: il processo di primo grado è finito con una condanna dei responsabili dell'azienda, sentenza confermata in appello. Ma poi la Cassazione ha chiuso tutto, perché secondo i giudici della suprema corte, il reato era prescritto già dal primo grado. E per quelle morti, e per i parenti delle vittime? La scorsa puntata si chiudeva con un servizio sul Tribunale di Bari, chiuso per rischio crollo: una delle leve su cui puntare per far crescere il paese è anche questa, la macchina della giustizia, ma finché questa funzionerà a singhiozzo, coi processi tagliati per la prescrizione, non avremo speranza: In Italia la maggioranza dei processi viene rinviata e le uniche sentenze emesse sono quelle di prescrizione. Ogni anno 145 mila processi vanno in prescrizione e ci vogliono 8 anni per una sentenza definitiva, è la peggiore performance di tutta Europa. Di questa performance non si può sempre dare la colpa ai magistrati e giudici se abbiamo un sistema giudiziario garantista che si basa su tre gradi di giudizio, dove i testimoni devono ripetere in aula quanto già detto in fase di acquisizione delle prove prima del rinvio a giudizio. Un sistema come il nostro, funzionerebbe se procure e tribunali fossero dotate di tutto il materiale necessario, del personale che oggi è carente. Ma a volte sono proprio i palazzi a cadere a pezzi, come ad Avellino: crepe sui muri e sui pilastri, su un muro un cartello che invita a lasciare il palazzo “appena svolti gli adempimenti di interesse”. A Tempio Pausania un altro palazzo transennato, con muri che perdono i pezzi. A Catania le udienze di rinviano di frequente per motivi più disparati – racconta l'anteprima – per esempio perché gli impianti di condizionamento non funzionano da anni: d'estate fa caldo e d'inverno ci piove dentro. Durante il servizio verrà ripercorsa la vicenda del procuratore aggiunto di Torino Alfredo Robledo, storia che era stata già raccontata da Iacona assieme al giornalista Danilo Procaccianti nel libro “Palazzo d'Ingiustizia”: gli scontri con l'allora procuratore capo Bruti Liberati per alcuni fascicoli che toccavano politici lombardi (alcuni tenuti nel cassetto), l'estromissione dalle indagini su Expo 2015 (e l'allora presidente Renzi che ringraziò la procura per la “sensibilità istituzionale” per come aveva gestito o non gestito le inchieste sugli appalti). Dal caso particolare, la vicenda del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, finito sotto procedimento disciplinare, cacciato da Milano dal suo posto di capo del dipartimento contro i reati della ppaa, come spunto per raccontare un problema generale della giustizia italiana, di cui forse non abbiamo colto tutta la portata e pericolosità. La spinta verso la gerarchizzazione dentro le procure, con un Procuratore Capo che non solo può avocare a sé fascicoli, coordinare i lavori, dirigere gli uffici: un Procuratore Capo col potere di dirottare i fascicoli dal giudice competente ad n altro magistrato, di un altro ufficio, in spregio all'organizzazione interna. Che può dimenticarsi i fascicoli (che magari riguardano proprio qualche personaggio potente) nel cassetto; perfino usarli per attaccare qualche magistrato troppo indipendente, troppo poco disciplinato, troppo poco disposto a cogliere quelle “sensibilità istituzionali”. Quella sensibilità che va a discapito della legge uguale per tutti, dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare, di una giustizia che non deve tener conto delle dinamiche industriali di un gruppo o di un partito o di un governo. La storia di Alfredo Robledo, oggi tornato alla funzione requirente dopo due anni di Purgatorio a Torino, è sintomatica di tutto questo. Sta succedendo qualcosa nelle procure, qualcosa che riguarda tutti noi, la possibilità di veder riconosciuti i nostri diritti pur senza avere santi in paradiso. Tutto questo è avvenuto grazie (o per colpa) delle varie riforme della giustizia, dalla riforma Castelli, fino all'ultima legge targata centro sinistra sulla responsabilità civile dei magistrati. Su questo argomento, a parte i tratti di facciata, destra e sinistra si sono dimostrate uguali nel dimostrare la stessa insofferenza nei confronti dei magistrati che si muovono contro politici, contro le banche, contro le lobby. Contro i troppi don Rodrigo di questo paese contro cui in pochi hanno voglia di andare ad indagare. C'è un altro aspetto sta minando l'indipendenza e la credibilità della magistratura che, va sempre ricordato, è un organo indipendente dall'esecutivo come sancito dalla Costituzione: il potere delle correnti all'interno del CSM, la capacità di questi gruppi, di diritto privato, nel condizionare, pilotare, imporre nomine di magistrati a ruoli apicali. In apertura di puntata Iacona intervisterà il ministro della salute Grillo, sui rapporti tra politica e scienza, in riferimento a quanto ha raccontato la scorsa settimana l'ex presidente dell'Istituto superiore di sanità, Mario Ricciardi. Ci sarà spazio anche per un'intervista al ministro della Giustizia Bonafede che esporrà le proposte del governo in tema giustizia.
Il Csm pronto a secretare i procedimenti disciplinari contro i magistrati, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 18 Aprile 2019 su Il Dubbio. La discussione nella Commissione che valuta i togati. Trovare il punto d’incontro fra la tutela del diritto alla privacy e l’esigenza di rendere sempre più trasparente l’azione amministrativa. Attività per nulla facile soprattutto se l’interessato è un magistrato. Fino a che punto, ad esempio, può spingersi il bisogno di conoscenza sui trascorsi disciplinari di una toga? In particolar modo se tali trascorsi hanno poi avuto conseguenze sulla sua valutazione di professionalità e quindi sulla sua progressione in carriera? Lo spinoso tema è stato affrontato dal Consiglio superiore della magistratura nel corso dell’ultimo Plenum. La IV Commissione del Csm, competente sulle valutazione di professionalità delle toghe, sta da tempo disponendo la segretazione di tutte le pratiche di valutazione di professionalità nelle quali si faccia riferimento ai precedenti disciplinari del magistrato. Il presidente della Commissione, il togato di Magistratura indipendente Antonio Lepre, ha rivendicato la decisione presa trattandosi di dati sensibili. Per Lepre, questi procedimenti hanno già inciso sulla vita del magistrato in maniera negativa, ingenerando ansia e sofferenza. Molti di questi procedimenti disciplinari, prosegue Lepre, riguardano infatti fattispecie di ritardi nel deposito dei provvedimenti, omesso rispetto dei termini di custodia cautelare, commenti inopportuni sui social. E gli incolpati sono spesso magistrati estremamente laboriosi che lavorano in condizioni di oggettiva difficoltà. Per evitare, dunque, inutili ed ulteriori situazioni di imbarazzo ai magistrati coinvolti in procedimenti disciplinari, la soluzione migliore è quella di non riaprire vicende ormai concluse, ponendo uno stop ad un voyeurismo che rischia di nuocere alla funzione. L’argomento è fra i cavalli di battaglia di Mi, la corrente moderate delle toghe che esprime l’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il giudice Pasquale Grasso. Le toghe di Mi sono poi favorevoli all’esclusione di ogni automatismo tra provvedimento disciplinare e negazione della valutazione di professionalità. Con particolare riguardo ai fatti disciplinari ritenuti insussistenti oppure scusabili dal giudice competente. La materia, come detto, è estremamente delicata perché deve contemperare il diritto alla riservatezza e al diritto alla conoscenza, tramite l’accesso agli atti. L’attività valutativa del Csm è stata talvolta oggetto di aspre critiche. Fra le accuse quella di opacità nelle decisioni, non sempre comprensibili. Ad insistere in tema di trasparenza sono stati i consiglieri di Area, la corrente progressista delle toghe, che hanno rivendicato la necessità della trasparenza, trovando sponda nel regolamento del Csm che prevede come regola la pubblicità dei lavori consiliari. Le sentenze disciplinari, peraltro pubbliche e adottate all’esito di un dibattimento pubblico, non possono considerarsi attinenti alla sfera privata del magistrato, dicono i consiglieri di Area. Se il magistrato fornisce il proprio consenso, fino a quando il servizio sarà disponibile, le udienze disciplinari sono trasmesse da Radio Radicale. L’interesse di tutti, comuque, è che "l’ oblio" sulle vicende disciplinari sia a tutela del corretto ed equilibrato esercizio della giurisdizione e non a salvaguardia di privilegi di casta.
MAGISTRATI, ATTENTI A COME USATE I SOCIAL. Claudia Guasco per ''Il Messaggero'' il 6 aprile 2019. Una foto inopportuna, un commento offensivo, una frase fuori luogo. Basta un post sconveniente per delegittimare un pubblico ministero o gettare l' ombra di mancanza di terzietà su tutta la magistratura. E nell' era del web il rischio è elevato, tanto da richiedere un richiamo forte. «Una questione nuova, tra le più delicate, è l' uso dei social media da parte dei magistrati; sono strumenti che se non amministrati con prudenza e discrezione, possono offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria», avverte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando alla platea togata della Scuola superiore della magistratura a Scandicci. «Se la qualificazione professionale» è lo strumento principale, «questa non può prescindere, anche a garanzia dell' imparzialità, da un profondo rispetto della deontologia professionale e da sobrietà nei comportamenti», sottolinea il capo dello Stato. In effetti le intemperanze social negli ultimi anni non sono mancate e i casi sono finiti dritti sulla scrivania della prima commissione del Csm. Tra i protagonisti la pm di Trani Simona Merra, immortalata a una festa estiva mentre l' avvocato Leonardo de Cesare, difensore di uno degli indagati per la strage del disastro ferroviario tra Corato e Andria, le baciava il piede. Travolta dalle polemiche ha lasciato l' inchiesta ed è stata condannata alla sanzione della censura. Assolta invece la pm di Imperia Barbara Bresci che, titolare dell' indagine sull' esplosione nella villetta di Sanremo in cui rimase ferito Gabriel Garko, si lasciò andare ad apprezzamenti in rete con le amiche: «Com' era bello, Garko». Lo scorso febbraio l' ex presidente dell' Anm Eugenio Albamonte affrontò il tema dei social all' interno dell' associazione, aprendo la strada a una possibile modifica del codice deontologico. La riflessione è la seguente: vi sono comportamenti non necessariamente censurabili dal punto di vista disciplinare ma non opportuni, perché espongono la magistratura ad addebiti di scarsa serietà. Non solo: «Nel nostro sistema costituzionale la magistratura non è composta da giudici o pubblici ministeri elettivi e neppure ovviamente da giudici o pm con l' obiettivo di essere eletti», è la risposta indiretta ma chiara di Mattarella a quanti ogni tanto ripropongono l' idea che i giudici possano essere eletti dai cittadini. E la magistratura, da parte sua, «non deve mai farsi suggestionare dal clamore mediatico intorno ai processi, da spinte emotive evocate da un presunto e indistinto sentimento popolare», avverte Mattarella. Infatti il Csm ha aperto una pratica nei confronti del pm di Trani Michele Ruggiero, che in merito all' assoluzione del processo rating ha scritto su Facebook: «Sono stato lasciato solo. Evidentemente ci sono verità che è bene restino sullo sfondo». Condannato per diffamazione aggravata a otto mesi in primo grado (pena sospesa) Luigi Bobbio, magistrato di Nocera che sul web definì «feccia, teppista» Carlo Giuliani, morto nel G8 di Genova, e pratica aperta per Giorgio Nicoli, gip di Trieste, che bollò l' ex governatrice Debora Serracchiani come «supponente e inconsistente». Ammonimento del Csm invece per Desirée Digeronimo, pm di Roma: nel 2015 sul suo profilo scrisse che l' ex sindaco Ignazio Marino «ha applaudito beotamente per essere stato messo sotto tutela». E corre il rischio di sanzioni anche la pm di Torino Monica Supertino, cinquant' anni portati splendidamente, che su YouTube ha lanciato due video di ricette e benessere. Ma il «metodo Supertino» è stato rimosso di tutta fretta in un paio di giorni.
· La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti».
La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti». Pubblicato mercoledì, 03 aprile 2019 da Corriere.it. Esulta su Facebook il ministro M5S della Giustizia, Alfonso Bonafede: «La class action in Italia è legge. Fino ad ora era limitatissima e aveva diversi paletti che l’avevano resa inutilizzabile. Noi l’abbiamo fatta diventare uno strumento generale. Era un altro punto del contratto di governo ed è stato realizzato in nove mesi. Finalmente la giustizia in Italia è al servizio dei cittadini onesti...». Il Senato ha approvato il ddl con 206 sì, 44 astenuti e un solo voto contrario, quello del senatore azzurro Gaetano Quagliariello. La legge, composta di sette articoli, trasferisce la disciplina dell’azione di classe dal codice di consumo al codice di procedura civile, al fine di potenziarne la portata e l’ambito di applicazione soggettivo e oggettivo. «I cittadini - spiega il ministro Bonafede - ogni volta che vengono lesi i loro diritti, possono unirsi e far valere i loro diritti tutti assieme. Questo dà la possibilità a tanti cittadini che da soli sarebbero deboli, di unirsi e diventare forti, magari nel caso in cui dall’alta parte c’è un soggetto economicamente molto forte. Un punto importante è che la norma non vale solo per il provato cittadino, ma anche per le imprese: con questa legge, diamo la possibilità anche agli imprenditori di unirsi se un loro diritto è stato leso». Ma i senatori di Forza Italia, che si sono astenuti a parte Quagliariello che ha votato no, contestano apertamente l’ottimismo del governo: «Questo testo, blindato dalla maggioranza, è chiaramente squilibrato a favore dei consumatori e foriero di grandi rischi per le imprese - secondo Alessandra Gallone, vicepresidente dei senatori di Forza Italia - È un testo impregnato di odio sociale, di stampo neo-giacobino nei confronti di chi fa impresa. Un testo pasticciato scritto guardando a una sola delle parti in causa, quella dei consumatori, quasi che le imprese siano considerate sempre in malafede e quindi non meritevoli di tutela e da penalizzare. Una legge che penalizzerà gli investimenti». Oltre alla nuova azione inibitoria collettiva, sottolineata da Bonafede, la cui vecchia procedura secondo il governo si era rivelata farraginosa, lenta, costosa e poco efficace, la legge introduce ora anche la disciplina degli accordi transattivi tra le parti. Il vaglio di ammissibilità del giudice bloccherà le azioni pretestuose e infondate. Previsto, infine, anche un ampio ricorso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini di pubblicità della procedura. E passa il principio della irretroattività: la class action, cioè, non potrà più essere chiesta contro eventi accaduti prima dell’entrata in vigore della legge. «Ora i cittadini sono più forti e potranno difendersi dai comportamenti scorretti di gruppi di potere, lobby e aziende senza scrupoli», conclude il ministro M5S per il Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro.
· Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui».
Dress code imposto alle borsiste: chiuse indagini su ex giudice Bellomo. Il barese Bellomo risponde dei maltrattamenti in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin. La Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura di Bari ha chiuso le indagini sull'ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo accusato dei reati di maltrattamenti su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura 'Diritto e Scienza', alle quali avrebbe imposto anche un 'dress code' con minigonna e 'tacco 12'; e di estorsione nei confronti di un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Bellomo risponde dei maltrattamenti in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin. Il procuratore aggiunto Roberto Rossi e la pm Iolanda Daniela Chimienti contestano all’ex giudice barese anche i reati di calunnia e minaccia nei confronti dell’attuale premier Giuseppe Conte (all’epoca vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa) e di Concetta Plantamura, rispettivamente ex presidente ed ex componente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo quando nel 2017 fu sottoposto a procedimento disciplinare. L’avviso di conclusione delle indagini preliminari è stato notificato anche ad un terzo indagato, l’avvocato barese Andrea Irno Consalvo, all’epoca dei fatti contestati organizzatore dei corsi all’interno della Scuola, accusato di false informazioni al pm. Quando Consalvo fu chiamato a rendere dichiarazioni nell’ambito di questa inchiesta, avrebbe «taciuto - secondo la Procura - quanto a sua conoscenza» sui rapporti tra l’ex magistrato e le corsiste. Bellomo è attualmente interdetto dall’attività di insegnamento dopo aver trascorso, dal 9 al 29 luglio, 20 giorni agli arresti domiciliari. Fu il Tribunale dei Riesame ad attenuare la misura cautelare riqualificando i reati da maltrattamenti in concorso in tentata violenza privata aggravata e stalking, e da estorsione in violenza privata. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, però, la Procura contesta agli indagati i reati originariamente ipotizzati. Stando alle indagini dei pm baresi, Bellomo tra il 2011 e il 2018 avrebbe adescato corsiste proponendo loro borse di studio a patto della sottoscrizione di un contratto che disciplinava "doveri» e «dress code» imponendo, tra le altre cose, minigonna e tacco 12, l’obbligo di rispondere al telefono entro il terzo squillo e punizioni in caso di violazione del codice di comportamento. Inizialmente la Procura aveva chiesto una proroga delle indagini ma la difesa dell’ex giudice ne ha eccepito la tardività, perché presentata un giorno dopo la scadenza dei termini. Nelle scorse settimane i difensori di Bellomo, gli avvocati Gianluca D’Oria e Beniamino Migliucci, hanno chiesto inoltre l'attenuazione della misura interdittiva sostituendola con lezioni in streaming per evitare il contatto con le studentesse. Il gip del Tribunale di Bari che ha ereditato il fascicolo su Bellomo, Francesco Mattiace, ha rigettato l’istanza. Sulla questione cautelare pende ora un appello non ancora fissato. Si discuterà, invece, il 7 novembre dinanzi alla Corte di Appello di Bari l’udienza per la ricusazione del gip Antonella Cafagna che aveva firmato l’ordinanza di arresto e che poi si è astenuta. Bellomo, nell’atto di ricusazione, ricordava che la giudice nel 2009 aveva fatto domanda per entrare come borsista nella Scuola “Diritto e Scienza”.
Caso Bellomo, gip Milano archivia inchiesta su ex magistrato. Era accusato di stalking e violenza privata su alcune studentesse milanesi. la Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2019. E’ stata archiviata, come richiesto dalla Procura, l’inchiesta milanese sull'ex consigliere di Stato Francesco Bellomo accusato di stalking e violenza privata su 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura «Diritto e scienza» e difeso dall’avvocato Beniamino Migliucci. Lo ha deciso il gip Guido Salvini non ravvisando reati e accogliendo l’istanza dei pm Barilli e Pavan. Bellomo, divenuto noto per il «dress code» che imponeva alla sue studentesse e borsiste, è indagato in un’inchiesta a Bari. Sebbene «molte delle richieste rivolte alle borsiste appaiano inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». Lo scrive il gip di Milano Guido Salvini nel provvedimento con cui ha deciso di archiviare l’inchiesta a carico dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo che era accusato di stalking e violenza privata su quattro studentesse. Di certo, spiega il gip, era «decisamente poco consono ad un corso per la preparazione dell’esame di magistratura la circostanza, riferita da numerose studentesse, secondo cui la proposta di diventare «Borsiste» nasceva dall’«immagine» esteriore delle ragazze e non dall’essersi distinte per conoscenze giuridiche nella prima fase delle lezioni. Ma anche questa circostanza in sé non è di rilievo penale». «L'attività svolta dal dr. Bellomo - prosegue il giudice - nella gestione della sua scuola ha avuto come conseguenza la massima sanzione, quella della destituzione da Consigliere di Stato, ma con questo si esauriscono le conseguenze di un comportamento, pur certamente singolare perché, per quanto concerne almeno il segmento milanese del corso di Scienza e Diritto, non si ravvisano condotte rilevanti sul piano penale». Il gip fa presente anche che «molti dei contatti intervenuti tra Bellomo e le studentesse non siano stati posti in essere in via unilaterale da parte dell’indagato, ma si siano iscritti nell’ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità tra l'indagato e le studentesse». 'Reciprocità' di cui avevano parlato anche i pm chiedendo l’archiviazione.
(ANSA Paolo Delgado il 25 Ottobre 2019) La "proposta" che l'ormai ex consigliere di Stato Francesco Bellomo faceva ad alcune sue studentesse "di diventare 'Borsiste' nasceva dall''immagine' esteriore delle ragazze e non dall'essersi distinte per conoscenze giuridiche". Una richiesta certamente poco consona "ad un corso per la preparazione dell'esame di magistratura", ma anche una circostanza che, assieme ad altre, come le "telefonate in tarda serata" o le "modalità di persuasione talvolta incalzanti", non ha "rilievo penale". Con queste motivazioni il gip di Milano Guido Salvini, accogliendo la richiesta dei pm Cristian Barilli e Antonia Pavan, ha archiviato l'inchiesta a carico di Bellomo, difeso dall'avvocato Beniamino Migliucci e divenuto noto per il "dress code" che imponeva alla sue 'borsiste' e che nel capoluogo lombardo era indagato per stalking e violenza privata su 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura "Diritto e scienza". A luglio era anche stato arrestato dal gip di Bari per maltrattamenti nei confronti di 4 giovani e nei mesi scorsi, però, il Riesame ha revocato i domiciliari e riqualificato le accuse. Sebbene "molte delle richieste rivolte alle borsiste" non rispettassero "i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica", il gip, seguendo la linea dei pm, non ha ritenuto che fossero molestie e minacce. Tra l'altro, osserva il giudice, "l'attività svolta dal dr. Bellomo nella gestione della sua scuola ha avuto come conseguenza la massima sanzione, quella della destituzione da Consigliere di Stato". Con questo, però, "si esauriscono le conseguenze di un comportamento, pur certamente singolare perché, per quanto concerne almeno" all'indagine milanese "non si ravvisano condotte rilevanti sul piano penale". Il gip, inoltre, fa presente che i "contatti" tra Bellomo e le studentesse (tutte hanno passato, poi, il concorso di magistratura) non sono stati "posti in essere in via unilaterale" dal magistrato, "ma si siano iscritti nell'ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità". E' "significativo", si legge ancora nel decreto, che è stato "inviato avviso" alle 4 ex studentesse "della richiesta di archiviazione" e "nessuna di queste" ha presentato opposizione o o si è "presentata in udienza". In più, "con nessuna delle corsiste milanesi" l'ex magistrato "risulta aver intrapreso qualche forma di relazione sentimentale". Per il giudice, poi, non ha rilievo il "timore, manifestato da alcune delle borsiste, legato alla possibilità di essere espulse dal corso di formazione con perdita della retta o di non superare il concorso in magistratura qualora si fossero rifiutate di aderire alle richieste". Si tratta, spiega, di "uno stato soggettivo forse autoindotto, alimentato dall'autorevolezza dell'indagato, che non trova peraltro nel concreto comportamento di Bellomo alcun significativo fondamento". Oltre al "look vistoso e provocante" il "contratto" di Bellomo prevedeva anche "un dovere di collaborazione e fedeltà", di "distacco rispetto ai 'comuni allievi' e di rispetto della propria immagine al fine di garantirne 'l'armonia, l'eleganza e la superiore trasgressività'". Tuttavia, chiarisce il gip, la "sottoscrizione, pur nella sua 'singolarità', era rimessa alla libera volontà delle aspiranti, che in diversi casi si sono rifiutate di firmare per continuare a frequentare le lezioni nella veste di studentesse ordinarie".
«Dress code» imposto dal giudice alle studentesse: accuse archiviate per 4 casi. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. È stata archiviata, come richiesto dalla Procura, l’inchiesta milanese sull’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo accusato di stalking e violenza privata su 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura "Diritto e scienza" e difeso dall’avvocato Beniamino Migliucci. Lo ha deciso il gip Guido Salvini non ravvisando reati e accogliendo l’istanza dei pm Barilli e Pavan. Bellomo, divenuto noto per il «dress code» che imponeva alla sue studentesse e borsiste, resta indagato in un’inchiesta analoga davanti alla magistratura di Bari, inchiesta per la quale lo scorso luglio era finito anche agli arresti domiciliari. Sebbene «molte delle richieste rivolte alle borsiste appaiano inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». Così scrive il gip di Milano Guido Salvini nel provvedimento di archiviazione. Di certo, spiega il gip, era «decisamente poco consono ad un corso per la preparazione dell’esame di magistratura la circostanza, riferita da numerose studentesse, secondo cui la proposta di diventare `Borsiste´ nasceva dall«immagine’ esteriore delle ragazze e non dall’essersi distinte per conoscenze giuridiche nella prima fase delle lezioni. Ma anche questa circostanza in sé non è di rilievo penale». «L’attività svolta dal dr. Bellomo - prosegue il giudice - nella gestione della sua scuola ha avuto come conseguenza la massima sanzione, quella della destituzione da Consigliere di Stato, ma con questo si esauriscono le conseguenze di un comportamento, pur certamente singolare perché, per quanto concerne almeno il segmento milanese del corso di Scienza e Diritto, non si ravvisano condotte rilevanti sul piano penale». Il gip fa presente anche che «molti dei contatti intervenuti tra Bellomo e le studentesse non siano stati posti in essere in via unilaterale da parte dell’indagato, ma si siano iscritti nell’ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità tra l’indagato e le studentesse». `Reciprocità´ di cui avevano parlato anche i pm chiedendo l’archiviazione.
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 27 ottobre 2019. Il gip di Milano Guido Salvini ha archiviato l’indagine sull’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, accusato di violenza privata e stalking ai danni di 4 ex studentesse della sede milanese di «Diritto e scienza», una scuola di formazione per la preparazione al concorso in magistratura con sedi a Roma, Milano e Bari. Secondo Salvini quella di Bellomo è una condotta non conforme a un normale rapporto di collaborazione accademica, ma non è né molestia né minaccia. Ricordate? A luglio Bellomo era finito agli arresti domiciliari nella sua casa di Bari per maltrattamenti, estorsione: si parlava di un «contratto di schiavitù» che prevedeva alle sue borsiste diversi vincoli, tipo l’obbligo di un dress code (tacco 12 e gonna corta), telefonate seriali, la cancellazione di foto e amicizie da Facebook o permessi per uscire la sera. Bellomo rimane indagato a Bari e vedremo come andrà a finire: anche la legge ha un suo dress code. Né molestia né minaccia, resta però una ferita morale di non poco conto. Ci sarà sempre qualche collega che alle magistrate divenute tali dopo i «consigli» vestimentari di Bellomo non risparmierà insinuazioni, ammiccamenti, pettegolezzi. Come se non bastassero già le correnti del Consiglio Superiore della Magistratura, a quando una giustizia secondo scienza, coscienza e avvenenza?
Azzurra Barbuto per ''Libero Quotidiano'' il 27 ottobre 2019. «Il contratto è sempre stato frutto di libera scelta, e il termine "imposizione" - che ricorre di frequente nelle contestazioni che mi sono mosse - è del tutto fuori luogo; piuttosto erano le studentesse che aspiravano alla borsa come mezzo per instaurare un rapporto più stretto con me». È quanto si legge nella memoria difensiva dell' ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo. L' indagine nei suoi confronti è stata archiviata dal gip di Milano Guido Salvini, che ha accolto la proposta della procura. Eppure Bellomo, descritto dalla stampa come una sorta di persecutore maschilista e spietato, è stato destituito dal suo ruolo e la sua fulgida carriera stroncata a causa di accuse infamanti che appaiono sempre più evanescenti. È vero, il contratto sottoscritto dalle allieve, così come dagli allievi, che avevano il privilegio di frequentare la scuola "Diritto e Scienza" prevedeva a carico dei firmatari i doveri di "fedeltà e segretezza". Tuttavia, essi vanno intesi come "espressione di obblighi canonici di un rapporto giuridico" nonché inseriti nell' ambito di comuni rapporti di collaborazione, mica di tipo sentimentale. Non erano poche le studentesse che desideravano frequentare il consigliere di Stato al di fuori degli orari di lezione, stando alla testimonianza di una ex allieva di Bellomo, C. G., la quale oggi è magistrato. Ella dice: «Notavo da parte di molte studentesse, ma tale circostanza mi veniva anche riferita da altri corsisti e corsiste, un atteggiamento di interesse e di infatuazione nei confronti del dottor Bellomo. Da parte di alcuni corsisti mi è stato riferito che in passato il dottor Bellomo aveva ricevuto diverse proposte di frequentazione da parte di ragazze che volevano avvicinarsi a lui. Durante le pause delle lezioni mi è capitato di vedere alcune studentesse che si avvicinavano al Consigliere mentre pranzava, durante la prima pausa dalle lezioni». E poi: «A me risulta che fossero le borsiste a manifestare un particolare interesse per il dottor Bellomo e non il contrario. Il dottor Bellomo tende a mantenere un atteggiamento di distacco nei confronti degli altri, sia che si tratti di borsisti, sia che si tratti di normali studenti. Per come l' ho conosciuto io come insegnante, non lo considero una persona emotiva, tutt' altro, molto neutrale e rispettoso dei suoi allievi». Allorché alla testimone, ritenuta della massima attendibilità, viene chiesto se Bellomo abbia mai prospettato la revoca della borsa di studio in caso di rifiuto di prestazioni sessuali, ella risponde: «No, non mi risulta. E mi pare che sia un' assurdità». «In generale c' era molta stima nei confronti del Consigliere e a mio avviso in alcuni casi si trasformava in infatuazione», riferisce M. F., una delle testimoni. Un'altra ex borsista, C. F., che rifiutò di firmare il contratto che conteneva indicazioni sul dress code, ha dichiarato: «Specificai al Consigliere che non me la sentivo a priori di impegnarmi ad indossare gonna di una determinata lunghezza piuttosto che un' altra, ma che preferivo decidere autonomamente cosa indossare. Non ho ricevuto pressioni né minacce per essere indotta a firmare. Preciso che non mi sono mai sentita costretta a tenere un determinato look. Ho ottenuto lo stesso la borsa di studio, pur non firmando il contratto». Dalle carte emerge che «molte ragazze erano invaghite di Bellomo» e che questi non ha mai sfruttato il fascino che sapeva di esercitare. Una delle presunte vittime dell' ex consigliere inviava alla sua collega foto di Bellomo tempestate di cuoricini, un' altra sospirava a lezione che lo avrebbe seguito per sempre. E poi ci sono le mail che le ragazze inviavano a Bellomo e che sono allegate agli atti. Si tratta, da un lato, di lettere, condite con esagerate lusinghe, il cui intento è quello di coinvolgere il docente in argomenti più personali ed intimi; dall' altro, di epistole da parte di soggetti che hanno frequentato il corso di magistratura e che esprimono gratitudine nei confronti di Bellomo per gli insegnamenti ricevuti. Francesco Bellomo è stato altresì tacciato di avere un atteggiamento ostile nei confronti del gentilsesso, eppure allorché alcuni studenti gli fecero presente che una delle allieve non meritava la borsa di studio in quanto aveva fatto alcune comparse televisive, il docente prese le sue difese e rassicurò l' aspirante magistrato spiegandole di averla valutata per le sue capacità giuridiche e che così avrebbe continuato a fare. Inoltre, la esortò a fregarsene delle critiche. Non mancavano le occasioni di dialogo tra docente e discenti su temi che esulano da quelli giuridici. Una testimone ha narrato che Bellomo le consigliò di «rimanere sola in vista di una prospettiva di carriera futura». Da un misogino ci si aspetterebbe semmai che inciti la fanciulla a rinunciare alla realizzazione professionale per dedicarsi solo al focolare. «Una suggestione ricorrente è che il contratto ed i suoi corollari patrocinerebbero una visione di subalternità della donna. È un equivoco grossolano: la divisione dei sessi è del tutto indifferente rispetto alle teorie enunciate, che hanno uno spiccato carattere di neutralità ed anzi confutano una visione della società patriarcale e maschilista. Conta l' individuo e non il genere», sottolinea Bellomo sempre nella sua memoria. L' ex consigliere spingeva le giovani a credere in loro stesse e a perseguire tenacemente il sogno di superare il concorso in magistratura. Il monito fondamentale è che a ciascuno di noi è data la possibilità di raggiungere qualsiasi obiettivo ci poniamo, purché lo desideriamo davvero e non siamo disposti a tirarci indietro davanti a sacrifici e rinunce.
Bellomo: «Mai fatto del male a studentesse, oggi sono magistrati». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Non ho fatto mai nulla di male e queste studentesse dei miei corsi, poi, sono diventate tutte magistrati». Così, come sintetizzato dal suo legale, l’avvocato Beniamino Migliucci, l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, con una memoria depositata al gip di Milano Guido Salvini, ha raccontato «la sua attività e il suo vissuto» nel procedimento milanese nel quale gli stessi pm hanno chiesto l’archiviazione per lui, accusato di stalking e violenza privata nei confronti di 4 studentesse della sede milanese della scuola di preparazione alla magistratura «Diritto e scienza». Bellomo, divenuto noto in particolare per il «dress code» che imponeva alla sue studentesse e borsiste, a luglio era stato arrestato dal gip di Bari per maltrattamenti nei confronti di 4 giovani e di recente il Riesame ha revocato i domiciliari e riqualificato le accuse. Sul fronte dell’indagine milanese (le quattro studentesse non hanno presentato denuncia) i pm hanno ritenuto che tra Bellomo e le studentesse ci fosse «una rete di scambi connotata da reciprocità». Il gip nei prossimi giorni dovrà decidere se archiviare o meno l’indagine, come chiesto dai pm. «Noi condividiamo assolutamente in tutti i suoi punti la richiesta di archiviazione della Procura che non ha ravvisato reati», ha spiegato l’avvocato Migliucci ai cronisti dopo la discussione davanti al gip (Bellomo non era presente e per la Procura c’era il pm Antonia Pavan). «Le studentesse - ha aggiunto il legale - erano libere di accettare i contratti, qualcuna li accettava altre no, nessuna di queste ha mai ricevuto pregiudizi, l’unico cambiamento in positivo per loro è che sono diventate magistrati». Stessi concetti ribaditi dall’ex giudice del Consiglio di Stato in una lunga memoria depositata al giudice. L’inchiesta milanese era nata nel dicembre del 2017. Dopo le prime notizie emerse sul «dress code» che sarebbe stato imposto alle giovani frequentatrici della scuola «Diritto e Scienza», i pm avevano, infatti, sentito come persone informate sui fatti molte persone che frequentavano la sede milanese del corso. E avevano individuato come parti offese dei reati di violenza privata e atti persecutori quattro ragazze che sono state allieve di Bellomo a Milano. Per la Procura, però, dalle indagini non sono emersi «atti idonei ad integrare una condotta di sopraffazione, né un’abitualità di comportamenti volti ad incidere negativamente sulla serenità e l’integrità psicofisica delle allieve». Secondo i pm, «sebbene molte delle richieste rivolte alle borsiste siano apparse inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia».
Bari, dress code alle corsiste: dopo 9 ore di interrogatorio Bellomo nega tutto. Destituito da gennaio scorso dal Consiglio di Stato, è ai domiciliari dal 9 luglio. Bellomo è accusato di maltrattamenti ed estorsione nei confronti di borsiste e ricercatrici della sua Scuola di formazione. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2019. L’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo ha «contrastato in modo molto rigoroso e documentato tutte le accuse che gli vengono rivolte», rispondendo per più di 9 ore alle domande del gip del Tribunale di Bari nell’interrogatorio di garanzia. Al termine, dopo aver depositato anche una memoria difensiva, i difensori di Bellomo, Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria, hanno chiesto la revoca degli arresti domiciliari ai quali l’ex giudice è sottoposto da una settimana per maltrattamento e estorsione.
L'INIZIO DELL'INTERROGATORIO - Si è svolto a Bari l’interrogatorio di garanzia dell’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, agli arresti domiciliari dal 9 luglio scorso per i reati di maltrattamento nei confronti di quattro donne, tre borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di formazione per la preparazione al concorso in magistratura, ed estorsione ad un’altra ex corsista.
Bellomo, pantaloni e camicia bianchi, scarpe nere, giacca e cravatta grigio scuro, cartellina sotto il braccio, è arrivato con la sua auto poco dopo le 8.30 ed è salito al secondo piano del palazzo di giustizia dove ad attenderlo, c'erano già i suoi difensori, Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria. Dovrà rispondere alle domande del gip Antonella Cafagna che una settimana fa ha firmato l’ordinanza di arresto, e dei pm inquirenti, l’aggiunto Roberto Rossi e il sostituto Daniela Chimienti. L’ex consigliere di Stato, destituito nel gennaio 2018, è accusato di aver vessato alcune corsiste della scuola, con le quali aveva poi anche relazioni sentimentali, in cambio di borse di studio con le quali imponeva rigidi codici di comportamento e dress code, fino a controllarne profili social e frequentazioni.
Dress code alle corsiste, Bellomo: «Io strumentalizzato, non maltrattatore». Domani la difesa chiederà al Riesame l'annullamento della misura cautelare. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2019. «C'è qualcosa di ancora più prezioso della libertà, la dignità...a rileggere tutta questa storia, ora a mente fredda, e vedendo le cose che vanno a dire dopo, ho la netta sensazione di essere stato strumentalizzato, altro che maltrattatore». È uno dei passaggi dell’interrogatorio di Francesco Bellomo, l’ex giudice del Consiglio di Stato agli arresti domiciliari dallo scorso 9 luglio per presunti maltrattamenti su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura 'Diritto e Scienza', ed estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Bellomo è stato interrogato per quasi nove ore il 16 luglio dal gip Antonella Cafagna e dai magistrati che hanno coordinato le indagini, il procuratore aggiunto Roberto Rossi e il sostituto Daniela Chimienti. Domani i suoi difensori, gli avvocati Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria, saranno a Bari per discutere l’udienza di Riesame e chiedere l’annullamento della misura restrittiva. Nell’interrogatorio della scorsa settimana, all’esito del quale il gip ha rigettato la sua istanza di revoca della misura cautelare, Bellomo nega tutte le accuse, dicendo di essere stato «strumentalizzato» da donne che "volevano ottenere» qualcosa. Parla di alcuni episodi come di "baggianate», di «storielle» e definisce «bugiarde» le donne che lo hanno accusato. «Come in qualsiasi rapporto contrattuale ci sono diritti e obblighi» dice, spiegando il senso del contratto che veniva fatto sottoscrivere alle borsiste e che prevedeva rigidi codici di comportamento, un dress code e anche «la clausola del fidanzato a punteggio» perché «tutte le persone che ti stanno accanto inevitabilmente ti influenzano. Tu impari e disimpari da loro». Per l’ex giudice «le regole sono il codice che noi diamo al nostro rapporto, la nostra struttura esistenziale», descrivendo la sua idea di «fedeltà»: «non la esigevo, ma per me era mancanza di rispetto, e la mancanza di rispetto io la chiamo tradimento». Al gip Bellomo nega di aver sottoposto le donne a prove di velocità e di averne controllato la vita privata. «Le ho fatto credere di aver fatto i controlli...in realtà non ho fatto nessun controllo, ero un buon giocatore di poker». Ammette però di aver chiesto a una di loro di scusarsi in ginocchio, spiegando che «non è un atto di sottomissione, io voglio la prova che mi posso fidare di te, questo il punto. Questo magari può fare scalpore, non dovrebbe, perché quando un uomo si inginocchia per chiedere la mano di una donna, non è un atto di sottomissione, ma un atto per dire io sto, voglio dare importanza».
Bellomo torna libero, ma niente insegnamento per un anno. Il Corriere del Giorno il 30 Luglio 2019. L’ex giudice barese del Consiglio di Stato era stato ristretto agli arresti domiciliari per presunti maltrattamenti sulle sue allieve non potrà insegnare per un anno. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Bari riqualificando i reati a carico di Francesco Bellomo. Francesco Bellomo l’ex giudice espulso dal Consiglio di Stato e dalla magistratura, che si trovava ristretto ai domiciliari dallo scorso 9 luglio, ritorna a piede libero ma non potrà insegnare per un anno, a seguito delle accuse per suoi presunti maltrattamenti su 4 donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura “Diritto e Scienza“, e per una denunciata estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Bari, in parziale accoglimento in parte l’istanza dei difensori Beniamino Migliucci e Gianluca D’Oria , riqualificando i reati. I giudici dell’appello hanno sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari con l’interdizione per 12 mesi dalle “attività imprenditoriali o professionali di direzione scientifica e docenza“, riqualificando i reati contestatigli dalla Procura di Bari. I presunti maltrattamenti su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della Scuola, sono stati riqualificati in “tentata violenza privata aggravata” e “stalking“, mentre la presunta estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta nel 2011 a lasciare il lavoro in una emittente locale, è stata ritenuta dal Riesame una condotta di “violenza privata”, che secondo la difesa “già sostanzialmente prescritta”. Peccato che Bellomo per dimostrare la sua millantata innocenza, non abbia rifiutato la prescrizione scappatoia grazie alla quale molti avvocati “salvano” i loro assistiti. Sulla base ed evidenze emerse delle indagini dell’ Arma dei Carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e condotte dal pubblico ministero Daniela Chimienti, il Bellomo avrebbe vessato alcune corsiste della sua Scuola in cambio di borse di studio. Alle donne, con le quali aveva preteso ed avviato anche relazioni intime, avrebbe imposto dei codici di comportamento e dress code assurdi, arrivando a controllare i profili sui socialnetwork e persino le frequentazioni. Per il procuratore aggiunto Roberto Rossi della Procura di Bari “il Tribunale del Riesame ha riconosciuto i fatti così come descritti nell’ordinanza, ma ha ritenuto che siano un reato diverso, lo stalking, per ragioni giuridiche“, mentre “per le esigenze cautelari i giudici hanno ritenuto sufficiente che lui non tenga più le lezioni alla scuola di magistratura”. La Procura si ritiene per voce di Rossi “più che soddisfatta, sarà poi il dibattimento a decidere sulla colpevolezza dell’indagato” . Secondo i difensori di Bellomo, Migliucci e D’Oria “premesso che occorre leggere le motivazioni dell’ordinanza, il quadro ci sembra notevolmente ridimensionato rispetto alle accuse originarie. Faremo comunque ricorso per Cassazione appena saranno depositate le motivazioni, perché non riteniamo sia condivisibile che rispetto ad una impostazione di questo tipo si inibisca per 12 mesi l’insegnamento. Riteniamo che non sussista un grave quadro indiziario con riferimento ai fatti contestati, neppure così come riqualificati”.
L'ex giudice Bellomo torna libero ma non può insegnare per un anno. Il Riesame accoglie parzialmente le istanze della difesa. E cambiano i reati: non è più contestata l'estorsione. La Repubblica il 29 luglio 2019. Torna libero, ma non potrà insegnare per un anno, l'ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, ai domiciliari dal 9 luglio per maltrattamenti su 4 donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura Diritto e Scienza, ed estorsione ad un'altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame, in parziale accoglimento dell'istanza della difesa, riqualificando i reati. Il Tribunale ha riqualificato i reati da maltrattamenti in concorso in tentata violenza privata aggravata e stalking, e da estorsione in violenza privata. I giudici hanno quindi sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari con quella del "divieto temporaneo, per la durata di dodici mesi, di esercitare attività imprenditoriali o professionali di direzione scientifica e docenza, interdicendogli in tutto le attività ad esse inerenti". Le motivazioni della decisione del Riesame si conosceranno tra 45 giorni. Secondo le accuse, le borsiste della scuola di formazione dell'ex giudice Bellomo, dovevano "attenersi ad un dress code suddiviso in "classico" per gli "eventi burocratici", "intermedio" per "corsi e convegni" ed "estremo" per "eventi mondani" e dovevano "curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l'armonia, l'eleganza e la superiore trasgressività' al fine di pubblicizzare l'immagine della scuola e della società". Ad alcune borsiste, si legge nell'ordinanza di custodia cautelare era imposto "il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa". Alle ragazze era imposto un contratto che "imponeva una serie di obblighi e di divieti", come la "fedeltà nei confronti del direttore scientifico" e "l'obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse". Per il procuratore aggiunto Rossi "il Tribunale del Riesame ha riconosciuto i fatti così come descritti nell'ordinanza, ma ha ritenuto che siano un reato diverso, lo stalking, per ragioni giuridiche", mentre "per le esigenze cautelari i giudici hanno ritenuto sufficiente che lui non tenga più le lezioni alla scuola di magistratura". La Procura si dice "più che soddisfatta, sarà poi il dibattimento - conclude il magistrato - a decidere sulla colpevolezza dell'indagato". Per i difensori di Bellomo "premesso che occorre leggere le motivazioni dell'ordinanza, il quadro ci sembra notevolmente ridimensionato rispetto alle accuse originarie. Faremo comunque ricorso per Cassazione appena saranno depositate le motivazioni, - dicono Migliucci e D'Oria - perché non riteniamo sia condivisibile che rispetto ad una impostazione di questo tipo si inibisca per 12 mesi l'insegnamento. Riteniamo che non sussista un grave quadro indiziario con riferimento ai fatti contestati, neppure così come riqualificati".
Bellomo, aperta inchiesta a Milano: chiesta archiviazione. Il magistrato barese è accusato di atti persecutori e violenza privata nei confronti di 4 studentesse. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2019. Anche a Milano è stata aperta un’inchiesta a carico dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, ai domiciliari a Bari dallo scorso 9 luglio per maltrattamenti nei confronti di 4 donne, ed estorsione ad una ex corsista della scuola di magistratura di cui era direttore. I pm di Milano hanno chiesto l’archiviazione per il magistrato, accusato di atti persecutori e violenza privata nei confronti di 4 studentesse della sede milanese della scuola. L’archiviazione sarà discussa davanti al gip Guido Salvini il 16 settembre.
«C'ERA RECIPROCITA'» (di Manuela Messina) - Le «insistenze» sull'abbigliamento da indossare - dalla gonna al trucco fino allo smalto e alle calze - ma anche i «punteggi» da attribuire ai fidanzati e le "gerarchie» esistenti tra le borsiste e le altre studentesse. Anche a Milano sono finiti sotto la lente della Procura i discutibili codici di comportamento per le allieve dei corsi preparatori alla magistratura diretti dall’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, finito ai domiciliari a Bari dallo scorso 9 luglio per maltrattamenti nei confronti di 4 donne ed estorsione ad una ex corsista della scuola di cui era direttore. Indagine per la quale, però, i pm del capoluogo lombardo Cristian Barilli e Antonia Pavan hanno chiesto l’archiviazione. Istanza che sarà discussa in un’udienza davanti al gip Guido Salvini il prossimo 16 settembre. L’inchiesta milanese, di cui in pratica oggi si è saputo dell’esistenza, era nata nel dicembre del 2017. Dopo le prime notizie sul 'dress code' che sarebbe stato imposto alle giovani frequentatrici della scuola 'Diritto e Scienza', i pm hanno ritenuto di sentire come persone informate sui fatti molte persone che frequentavano la sede milanese del corso. E hanno infine individuato come parti offese dei reati di violenza privata e atti persecutori, ossia stalking, che avrebbe commesso Bellomo quattro ragazze che sono state sue allieve a Milano. Tra le molte testimoni sentite, un’allieva del corso ha riferito ai pm che dalla fine del 2013, nelle pause tra una lezione e l’altra, Bellomo era divenuto «insistente circa l'abbigliamento da osservare». Dato che la stessa ragazza «non aveva rispettato il dress code con riferimento alla lunghezza della gonna e all’altezza dei tacchi» non è stata «riconfermata come borsista per l’anno successivo». La giovane ha raccontato anche di essere stata invitata, nel Natale del 2014, a «prendere parte a un aperitivo organizzato a Milano in Corso Como (dove è stata accompagnata con un autista) per discutere della sua situazione». Nel corso dell’incontro, ha spiegato, Bellomo le si è avvicinato e le ha dato un bacio sulla guancia, all’irrigidirsi della ragazza Bellomo le ha comunicato l'esclusione dal corso, perché non voleva borsiste che non "seguivano la linea». Tuttavia, i pm hanno ritenuto che dall’indagine non sono emersi «atti idonei ad integrare una condotta di sopraffazione, né un’abitualità di comportamenti volti ad incidere negativamente sulla serenità e l’integrità psicofisica delle allieve». Secondo i pubblici ministeri, «sebbene molte delle richieste rivolte alle borsiste siano apparse inconferenti con quelli che sono i normali caratteri di un rapporto di collaborazione accademica e siano state sovente avanzate con insistenza attraverso telefonate in tarda serata e invio di e-mail, non può ritenersi che le stesse valgano ad integrare una condotta abituale di molestia e minaccia». Secondo la Procura, inoltre, è «da osservare come molti dei contatti intervenuti tra Bellomo e le studentesse non siano stati posti in essere in via unilaterale da parte dell’indagato, ma si siano iscritti nell’ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità». La parola passa al gip che dovrà decidere, dopo l’udienza, se archiviare, disporre nuove indagini o l’imputazione coatta.
ORA CHE FACCIAMO CON LE RAGAZZE CHE GIURARONO FEDELTÀ A FRANCESCO BELLOMO? Luca Fazzo per “il Giornale” il 19 luglio 2019. C' è chi è venuto allo scoperto, rendendo interviste, come il pm di Massa Alessia Iacopini, secondo cui Francesco Bellomo «era come dottor Jekyll e mister Hyde». Delle altre va tutelata la privacy, perché in questa vicenda rivestono il ruolo di vittime. Ma un dato è certo, ed emerge dalle due inchieste condotte in Italia contro Bellomo, giovane e brillante consigliere di Stato, finito agli arresti dieci giorni fa per avere imposto alle allieve dei suoi corsi obblighi che sconfinavano nel plagio e nella violenza. Le due indagini sono state condotte, con esiti opposti, dalle Procure di Bari e di Milano. È possibile incrociare i dati delle prime due inchieste con due decreti ministeriali: quelli con la data 18.1.2016 e 12.3.2019. Sono i decreti che immettono in ruolo due infornate di centinaia di nuovi magistrati. E si scopre che buona parte delle vittime di Bellomo compaiono nei due elenchi. Oggi, insomma, indossano la toga. Tranne la Iacopini, che fa il pubblico ministero, sono quasi tutti giudici civili e penali. Nei tribunali dove esercitano, i pettegolezzi sul loro passato non mancano. E in qualche modo rischiano di inficiarne la serenità. Prima o poi, un imputato arrabbiato o un avvocato deluso, rinfaccerà: «Ma lei non era una di quelle che per avere la borsa di studio ha firmato il contratto con Bellomo?». L'inchiesta della Procura di Bari si è chiusa con l' arresto di Bellomo e del suo collaboratore Davide Nalin. Quattro le vittime individuate. Due di queste sono riuscite a diventare giudici. Una è la Iacopini, che le carte dell' indagine di Bari definiscono «legata a lui (Bellomo) da una relazione sentimentale dall' estate 2013 al febbraio 2016», e che avrebbe subito «reiterate e sistematiche condotte di controllo, imposizione, minaccia, vessazione e denigrazione». Un bombardamento di sms cui la vittima a volte cedeva: «Non vorrei perderti (...) La verità è che, anche se sono coinvolta, non riesco ad essere affettuosa e presente quanto meriteresti. E non credo che dipenda dal sentimento, ma dalla mia natura». Ha superato il concorso per diventare magistrato, e amministra la giustizia in un tribunale del Sud, anche la borsista di Bellomo che ai pm racconta di avere firmato, dopo le ritrosie iniziali, il contratto che le veniva sottoposto dal consigliere di Stato giustificandosi così: «Ero condizionata dalla figura di Bellomo che induceva una certa soggezione. Posso dire che una sorta di venerazione era condivisa da gran parte dei partecipanti al corso. Il motivo che mi indusse ad accettare era la curiosità, una certa attrazione verso questa persona che percepivo come fuori dal Comune». Il troncone d' inchiesta milanese si è concluso con la richiesta di archiviazione da parte della Procura, secondo cui «nessun comportamento volto a coartare la libertà morale delle studentesse può invero essere ravvisato nella sottoposizione di contratti di collaborazione la cui sottoscrizione, pur nella sua singolarità, era rimessa alla libera volontà delle alunne»; peraltro spesso i contatti non erano unilaterali ma «iscritti nell' ambito di una rete di scambi connotata da reciprocità». Nessuna delle quattro vittime si è opposta alla richiesta di archiviazione: tre di loro nel frattempo sono divenute giudici in altrettanti tribunali del Nord. Il gip Guido Salvini però non è convinto che reato non ci sia stato, e ha fissato udienza per il 16 settembre.
Arrestato l'ex giudice Bellomo: maltrattava studentesse imponendo il look e calunniò il premier Conte. L'ex consigliere di Stato, già indagato perché avrebbe imposto il dress code alle ragazze iscritte ai suoi corsi di preparazione ai concorsi in magistratura, è ai domiciliari. I fatti risalgono a quando Conte non era capo del governo, ma era vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa. Chiara Spagnolo il 9 luglio 2019 su La Repubblica. Non solo i maltrattamenti e le estorsioni nei confronti di quattro giovani borsiste della scuola di formazione giuridica "Diritto e scienza" di Bari a cui imponeva anche il dress code, ma anche la calunnia e la minaccia bei confronti del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Finisce agli arresti domiciliari Francesco Bellomo, 49enne barese, consigliere di Stato destituito dopo che nel 2017 scoppiò lo scandalo della scuola di preparazione per il concorso in magistratura. La scintilla parti da Piacenza, con la denuncia di una studentessa, e si estese presto anche a Bari, città d'origine di Bellomo e dove è presente una sede di "Diritto e scienza", tuttora in funzione. L'arresto giunge al termine di un'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dal pm Daniela Chimienti, con l'ordinanza firmata dalla gip Antonella Cafagna. Quattro le studentesse individuate come parti offese, per i reati di maltrattamenti e estorsione, alcune delle quali legate a Bellomo da relazioni sentimentali. Nell'inchiesta barese si inserisce poi il nuovo filone, che vede come vittime il presidente del Consiglio Conte, in passato vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa, organo chiamato ad esercitare l'azione disciplinare nei confronti di Bellomo, dopo che erano emersi i primi illeciti a suo carico. Il premier (all'epoca non in carica) fu trascinato davanti al Tribunale civile di Bari, insieme alla collega Concetta Plantamura, componente dello stesso organismo. Bellomo paventò che avessero commesso illeciti nella trattazione del giudizio a suo carico e poi fece notificare loro un atto di citazione per danni. Secondo la procura di Bari, tale atto fu un'implicita minaccia, finalizzata a prospettare all'intero Consiglio il possibile esercizio di azioni civili nei confronti di Conte e Plantamura. Il gip Cafagna parla di "indole dell'indagato in seno al rapporto interpersonale in termini di elevata attitudine alla manipolazione psicologica mediante condotte di persuasione e svilimento della personalità della partner nonché dirette ad ottenerne il pieno asservimento se non a soggiogarla, privandola di qualunque autonomia nelle scelte, subordinate al suo consenso". Nell'ordinanza il giudice analizza quello che definisce "sistema Bellomo", nel quale "l'istituzione del servizio di borse di studio non era altro che un espediente per realizzare un vero e proprio adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell'agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia". Le borsiste della scuola di formazione dell'ex giudice Bellomo, dovevano "attenersi ad un dress code suddiviso in "classico" per gli "eventi burocratici", "intermedio" per "corsi e convegni" ed "estremo" per "eventi mondani" e dovevano "curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l'armonia, l'eleganza e la superiore trasgressività al fine di pubblicizzare l'immagine della scuola e della società". Sono alcuni passaggi del contratto imposto alle borsiste e riportati nell'ordinanza di arresto. L'abbigliamento definito "estremo" ad esempio prevedeva "gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza". Ad alcune borsiste, si legge sempre nell'ordinanza di custodia cautelare era imposto "il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa". Alle ragazze era imposto un contratto che "imponeva una serie di obblighi e di divieti", come la "fedeltà nei confronti del direttore scientifico" e "l'obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse".
Arrestato Bellomo, l’ex giudice del Consiglio di Stato per il dress code imposto alle borsiste. Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Virginia Piccolillo e Antonio Crispino su Corriere.it. Una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari è stato notificata a Francesco Bellomo, ex giudice barese del Consiglio di Stato, docente e direttore scientifico dei corsi post-universitari per la preparazione al concorso in magistratura della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata "Diritto e Scienza". Bellomo deve rispondere dei reati di maltrattamento nei confronti di quattro donne, tre borsiste e una ricercatrice, alle quali aveva imposto anche un dress code (minigonna e tacchi a spillo), ed estorsione aggravata ai danni di un’altra corsista. I fatti contestati risalgono agli anni 2011-2018. L’arresto è stato disposto dal gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna. Il reato di maltrattamenti sarebbe stato commesso da Bellomo nei confronti di donne con le quali aveva avuto una relazione sentimentale, in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin, coordinatore delle borsiste. Francesco Bellomo attualmente è anche direttore scientifico di un’altra scuola di formazione giuridica, la Legal & Business school di Catania dove tra l’altro compare come presidente del Comitato scientifico Guido Alpa, l’avvocato con cui ha lavorato il premier Giuseppe Conte. La particolarità sta nel fatto che Alpa è il difensore di Conte in un processo a Bari che lo vede contrapposto proprio a Bellomo per il reato di calunnia. A inizio giugno lo avevamo sorpreso all’esterno della Fiera di Roma, dove si stava svolgendo la prova scritta per il concorso in magistratura, mentre faceva lezione ai suoi studenti. «Non ho fatto nulla di male e spero quanto prima di essere reintegrato in magistratura, ho presentato ricorso al Tar» aveva detto alle nostre telecamere. Stando alle indagini dei Carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e dal sostituto Iolanda Daniela Chimienti, Bellomo, con «l’artifizio delle borse di studio offerte dalla società» che consentivano tra le altre cose la frequenza gratuita al corso e assistenza didattica individuale, «per selezionare ed avvicinare le allieve nei confronti delle quali nutriva interesse, anche al fine di esercitare nei loro confronti un potere di controllo personale e sessuale» si legge nell’imputazione, avrebbe fatto sottoscrivere un «contratto/regolamento» che disciplinava i «doveri», il «codice di condotta» ed il «dress code» del borsista. A selezionare le donne tramite colloquio, sottoponendole al «test del fidanzato sfigato» sarebbe stato l’ex pm Nalin, incaricato anche di vigilare sul rispetto degli obblighi contrattuali, svolgere istruttorie in caso di violazioni e proporre sanzioni. La presunta estorsione sarebbe stata commessa nei confronti di un’altra corsista, costretta a rinunciare ad un lavoro da co-presentatrice in una emittente televisiva «in quanto incompatibile con l’immagine di aspirante magistrato» e «minacciando di revocarle la borsa di studio».
Giusi Fasano per il “Corriere della sera” il 10 luglio 2019. Un anno fa, quando scoppiò lo scandalo e dopo la sua destituzione, lui si disse «tranquillo» e «in attesa di essere reintegrato in magistratura». Gli inquirenti avevano appena cominciato a svelare il «sistema Bellomo», come lo chiamano oggi, e adesso lui - Francesco Bellomo - dice al suo avvocato Gianluca D'Oria che «sono decisamente sorpreso perché mi sarei aspettato un'archiviazione». E invece no. L'ex Consigliere di Stato - travolto un anno fa dall'accusa di adescare ragazze attraverso le borse di studio della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata «Diritto e Scienza» - da ieri è agli arresti domiciliari per maltrattamenti, estorsione e minacce. E assieme a lui è indagato anche l'amico ed ex pubblico ministero di Rovigo Davide Nalin. Messi tutti in fila, gli episodi raccontati nell' ordinanza - vittime quattro borsiste e una ricercatrice - sono un'incredibile combinazione di soprusi, manipolazione psicologica, sete di dominio e affermazione di sé. Una parte dell'inchiesta riguarda anche i reati di calunnia e minaccia ai danni dell'attuale premier Giuseppe Conte che nel 2017, come presidente della commissione disciplinare, fu chiamato a pronunciarsi proprio su un procedimento a carico di Bellomo, il quale se la prese con lui e una sua collega: li incolpò «falsamente», dicono le indagini, di aver esercitato «in modo strumentale e illegale il potere disciplinare» con «intento persecutorio» motivato da «invidia». Tolto il capitolo Conte, il resto delle indagini racconta il delirio di «un potere di controllo personale e sessuale», una «sopraffazione sistematica» che Bellomo pretendeva di esercitare con le ragazze incappate nella sua sfera di interesse. Lo faceva, scrive il gip Antonella Cafagna, creando «un legame elitario, modalità elettiva con cui si soggiogavano le vittime, ponendole in una condizione di dipendenza psicologica». Con quasi tutte lui ha avuto una relazione sentimentale (per lunghi periodi anche con diverse contemporaneamente). Ogni cosa, anche la più piccola, doveva passare per la sua approvazione. Era lui a decidere se e quando la ragazza poteva uscire di casa, e che cosa dovesse indossare. Obbligo di rispondergli sempre, abbandonando qualsiasi attività in corso. Divieto di rimanere in zone d'ombra senza linea telefonica. E davanti a una «violazione» il primo passo punitivo era la «reazione rivista»: pubblicare sul periodico della Scuola articoli diffamatori con dettagli personali e intimi della malcapitata. I passi successivi erano minacce di procedimenti disciplinari, di espulsione dai corsi, di avviare cause di risarcimento, di ostacolare studi e carriera. A una delle ragazze che aveva osato non rispondergli subito al telefono, per esempio, lui scrisse: «Ti sei rovinata vita e carriera». E il giorno dopo: «Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici: ti chiedo perdono non lo farò mai più». Per concedere la sua approvazione a una borsista il Consigliere Bellomo imponeva l'osservazione di codici comportamentali, a volte scritti altre no. Il dress code, per esempio, disponeva il look secondo tre criteri: estremo, intermedio o classico. E a ciascuno dei criteri corrispondeva un tipo di gonna (molto corta, corta o sopra il ginocchio, morbida o stretta). Poi le camicette o i maglioni: con maniche, senza, scollatura ampia oppure no. E ancora: «Gonne o vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco». D'inverno «cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero)». Dopo una prima frequentazione le ragazze troncavano la relazione con Bellomo, o quantomeno ci provavano. E allora toccava all'amico Davide Nalin provare a ricontattarle, come toccava a lui fare da «sentinella», così dicono le carte, per controllare che tutte si attenessero ai codici del Consigliere, comprese le indicazioni sui fidanzati possibili e non, e l'obbligo di postare su Facebook soltanto fotografie gradite. Sempre suo il compito di «istruttoria» per accertare eventuali trasgressioni alle regole Bellomo: a volte lui stesso proponeva di presentare una «istanza di grazia», un mea culpa per dichiarare «di aver agito in preda a distorsioni emotive». Una di loro, a un'amica confidò di un «contratto di schiavitù sessuale» che Bellomo le avrebbe chiesto di sottoscrivere. Racconta l'amica ai magistrati: «Mi disse: "Tu non sai che cosa mi voleva far fare. Hai presente 50 sfumature di grigio ?". Io non l' avevo letto.
Valeria D'Autilia per “la Stampa” il 10 luglio 2019. «Questa è la magistratura che sognavo da quando avevo 8 anni, quella che sta facendo giustizia». Rosa Calvi, pugliese, è stata la prima studentessa a denunciare quello che è stato definito «sistema Bellomo». Sull'arresto dell' ex giudice barese commenta: «Ti faceva credere che fosse onnipotente, invece rubava sogni. Era un abile manipolatore, non tutti purtroppo hanno la forza di resistere. Cercavo di dare una logica a quello che stavo leggendo, a quel contratto. Dissi a me stessa: non può essere quello che penso. Avevo 27 anni e di fronte a me c' era un consigliere di Stato».
Cosa c'era scritto?
«Si trattava di accettare alcuni obblighi pesanti, anche di restrizioni della libertà personale: obbedienza, fedeltà, riservatezza, reperibilità, il dress code. Inizialmente pensai fosse una prova: vuole vedere se firmo e, in quel caso, mi dice che non posso fare il giurista. Perché se scrivi "divieto di relazioni intime", è un diritto indisponibile e quel contratto è nullo. Iniziai a riflettere. Peraltro non avevo mai fatto domanda di borsa di studio perché, pur avendone i requisiti, erano scaduti i termini. Fu lui a scegliermi, insieme ad altre sei corsiste. Tutte belle ragazze».
E lei?
«Non ho firmato. La sera del colloquio, fece domande personali: io parlavo della mia formazione e lui mi chiedeva quanti fidanzati avessi avuto, le mie esperienze intime. Poi, con la scusa che avevo le occhiaie, si avvicinò e mi diede un bacio sulle labbra. Indietreggiai spaventata, volevo solo andare via. Lui spiegò che era un gesto d' affetto perché non dava baci sulle guance. Io risposi che dovevo andare a casa da mio fratello. E Bellomo mi disse che lui veniva prima di mio fratello».
Il periodo a scuola com'è stato?
«Mi disse che potevo seguire il corso ma che, avendo rifiutato, non avevo diritto a fargli domande a lezione. Diceva di poter fare tutto, anche accedere ai miei messaggi privati di Facebook. Poi mi mandò via, dicendo che non voleva una studentessa così e restituendomi i 2500 euro che avevo pagato. Da ottobre 2016 a gennaio 2017 è stato un incubo. Si arrabbiava se non rispondevo al telefono, mi chiedeva di tornare. Ho conservato tutti i messaggi. Aveva anche cambiato approccio: mi piaci, sei estroversa, ho bisogno di una persona così nella mia vita».
Poi ha deciso di denunciare.
«Non è stato facile, era sempre un consigliere di Stato e avevo paura. Peraltro non era mancata una minaccia velata: "tra 10 anni ti renderai conto dell' errore che hai fatto perché non farai progressi nella tua vita". Pensai che, così come poteva farmi vincere il concorso, poteva anche farmi perdere. E quell' anno non lo tentai neppure, ero confusa. Poi ho trovato il coraggio: se volevo diventare magistrato, dovevo essere a posto innanzitutto con la mia coscienza. Dopo il mio racconto, sono stata contattata da altre ragazze».
Tutto questo ha condizionato le sue scelte?
«A un certo punto mi sono messa in discussione come donna, mi dicevo che forse era colpa mia, che avevo dato un segnale sbagliato. Poi ho realizzato che era il suo modo di fare e che andava avanti da un decennio. A volte, in alcuni contesti, mi sono fatta condizionare al punto da indossare maglie accollate o cucire lo spacco del vestito. Oggi ho 29 anni e seguo un altro corso a Roma. Non gli avrei mai dato la soddisfazione di fermarmi».
Bellomo arrestato, il racconto di una delle studentesse: «Mi ha obbligata a un contratto di schiavitù sessuale». Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Virginia Piccolillo e Antonio Crispino su Corriere.it. «Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici ‘ti chiedo perdono, non lo farò mai più’ ‘ Non ha il significato della sottomissione, ma della solennità. Con le forme rituali». Eccole una delle vessazioni inflitte alle aspiranti magistrato, dall’ex consigliere di Stato, Francesco Bellomo, da martedì agli arresti domiciliari, su richiesta del pm Roberto Rossi accolta dal gip di Bari, Antonella Cafagna. Nell’ordinanza di custodia cautelare sono molti gli sms e le mail che testimoniano il suo modo di agire «manipolativo» condotto - con la complicità del magistrato Davide Nalin - sulle borsiste del suo corso per future toghe. Una delle borsiste, confidandosi con la sorella, riferisce di aver firmato «un contratto di schiavitù sessuale» e di essere stata punita per aver violato una delle clausole. In questi casi si finiva in una rubrica sulla rivista della scuola dove si «pubblicavano dettagli intimi sulla vita privata» . La stessa ragazza, a un certo punto, dimostra di temere l’ex giudice e professore Bellomo al punto da «avere paura» al punto da «rinunciare alla borsa di studi. Sono terrorizzata dalla reazione... mi stanno facendo paura... non vogliono lasciarmi andare». Secondo il gip le tecniche usate dall’ex giudice del Consiglio di Stato si basavano su minacce di denigrazione o di rivelare dettagli intimi agli altri studenti. Un metodo che iniziava allettando le ragazze, poi umiliandole e infine sottomettendole psicologicamente e sessualmente. Utilizzando come un’arma la minaccia di far finire nei guai giudiziari chi si sottraeva. Il gip la chiama «singolare, indiscutibile serialità dei comportamenti criminosi descritti, accresciuta da un sicuro senso di impunità» e dalla convinzione che, facendo loro «temere che non avrebbero potuto coltivare con successo il ricorso» ad alcuna tutela della legge, anzi, “al contrario, avrebbero potuto subirla sol che avessero disatteso le prescrizioni imposte, le vittime si sarebbero indotte ad accettare supinamente ogni genere di vessazione inflitta». Al punto di dover ricorrere, alla fine della relazione, «a trattamenti di psicoterapia». «Con il progredire dell’attività in seno alla Scuola di Formazione - scrive ancora il gip - l’indagato ha semplicemente individuato un possibile ulteriore bacino cui attingere per la ricerca di legami sentimentali ed escogitato un sistema, quello incentrato sulle borse di studio, per imbrigliare la prescelta». Una modalità che, hanno riferito le ragazze al pm, riproduceva anche con chi non aveva partecipato al corso ma aspirava comunque a passare il difficile concorso in magistratura. È il caso di una ragazza, ora diventata gip, conosciuta su un sito di incontri che voleva troncare la relazione. Il 3.12.2006 Bellomo le scrive: «Nulla nella tua vita indica genio, eccezionalità, capacità straordinarie ..omissis.. Ho sempre pensato che una donna si qualifica per l’uomo che scegli di avere stabilmente accanto a sé. E il tuo uomo ti (s)qualifica. Inoltre non hai compiuto azioni od opere di particolare significato». Sette giorni dopo aggiunge: «omissis.. Dimenticavo. Il viaggio a Roma (pur rappresentando una delle tue ridicole affermazioni) ti avrebbe riservato un’umiliazione. Vedermi accanto ad una ragazza platealmente più bella (io ti trovavo bella perché ti amavo, lei lo è) e con un senso morale ed una dedizione infinitamente più elevate della tue. Lucrezia avrà 100. Tu 120, 68 meno di me». E due giorni dopo: «omissis.. E’ impossibile che abbia amato una come te. Una puttana di indole (e questo giudizio non l’ho mai rinnegato).. omissis.. Do ut des. Ti ho fatto passare gli scritti (il concorso non lo so, ho qualche dubbio ma penso che non sarai bocciata, Però in Calabria rischi di finirci)». Per costringerle a rimanere nello stato di sottomissione, secondo il gip, Bellomo usava anche la minaccia della denigrazione. Lo aveva già fatto: rivelando fatti intimi e mail private di una borsista sulla rivista del corso. Una ragazza, Veronica D.T. riferisce al pm Roberto Rossi: «Io avevo proprio paura di lui, devo dire la verità. …(OMISSIS)… Lo vedevo come una persona molto potente. …(OMISSIS)… c’era anche un’altra circostanza, cioè il fatto che questo avesse reso la vita impossibile a quella borsista …(OMISSIS)… lui aveva una relazione sentimentale con questa borsista, questa borsista deve aver fatto qualcosa per cui … che a lui non piaceva, e lì ha iniziato ad infangarla, cioè, ha iniziato proprio… Io mi domando come abbia fatto a vivere questa, cioè continuava a … a infangarla. Pubblicava le foto, pubblicava i messaggi, raccontava i dettagli intimi della loro vita». E aggiunge: «addirittura lui aveva aperto questo concorso interno alla rivista dicendo: “Chi mi dà una spiegazione del comportamento di questa ragazza secondo il metodo scientifico avrà accesso ai segreti industriali del corso». È il nucleo delle promesse-minacce di Bellomo: «Lí - conclude di nuovo noi pensammo: ‘Cosa sono questi segreti industriali?’ E l’unica cosa interessante che ci veniva era, appunto, le tracce».
Bari, arrestato l'ex giudice Bellomo: maltrattava studentesse e minaccio il premier Conte. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2019. L’ex consigliere di Stato, già indagato perché avrebbe imposto il dress code alle ragazze iscritte ai suoi corsi di preparazione ai concorsi in magistratura, è agli arresti domiciliari. I fatti risalgono a quando l’attuale premier Giuseppe Conte non era capo del governo, ma vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa. Secondo la Procura di Bari, tale azione di Bellomo fu un’implicita minaccia, “prospettato oltre all’aggravarsi dell’entità del risarcimento chiesto, anche il possibile esercizio di azioni civili in caso di ulteriori danni”. E’ finito agli arresti domiciliari Francesco Bellomo, 49enne barese, consigliere di Stato destituito dopo che nel 2017 scoppiò lo scandalo della sua scuola di preparazione per il concorso in magistratura. Bellomo viene accusato non solo dei maltrattamenti e delle estorsioni nei confronti di quattro giovani borsiste e di estorsione aggravata ai danni di una ricercatrice della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata “Diritto e scienza” di Bari a cui imponeva anche il “dress code”, fatti questi risalenti al settembre 2017, ma anche per le calunnie e la minacce espresse nei confronti del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. L’arresto giunge al termine di un’indagine della Procura di Bari coordinata dal procuratore aggiunto dr. Roberto Rossi , con l’ordinanza firmata dalla dr.ssa Antonella Cafagna, Gip del Tribunale di Bari. Sono quattro le studentesse individuate come parti offese, per i reati di maltrattamenti e estorsione, alcune delle quali legate a Bellomo da relazioni sentimentali. Le indagini vennero avviate dalla Procura di Piacenza a seguito della denuncia di una studentessa, e si allargò subito dopo a Bari, città d’origine del Bellomo e dove è presente una sede della scuola “Diritto e scienza”, tuttora in funzione. Nell’inchiesta barese si inserisce un nuovo filone giudiziario, che vede come parte lesa il prof. Giuseppe Conte attuale Presidente del Consiglio, in passato vicepresidente del Consiglio della presidenza della giustizia amministrativa, organo chiamato ad esercitare l’azione disciplinare nei confronti di Bellomo, subito dopo che erano emersi i primi illeciti a suo carico. Il prof. Giuseppe Conte che all’epoca dei fatti, non era ancora diventato premier, insieme alla collega Concetta Plantamura (componente dello stesso organismo) vennero entrambi accusati da Bellomo che sosteneva avessero commesso illeciti nella trattazione del giudizio a suo carico e poi fece notificare loro un atto di citazione per danni trascinandoli davanti al Tribunale civile di Bari “incolpandoli falsamente” per aver esercitato “in modo strumentale e illegale il potere disciplinare“, compiendo “deliberatamente e sistematicamente una attività di oppressione” nei suoi confronti, secondo Bellomo “mossa da un palese intento persecutorio, dipanatosi in un numero impressionante di violazioni procedurali e sostanziali, in dichiarazioni e comportamenti apertamente contrassegnate dal pregiudizio“. Alcuni giorni successivi alla notifica della citazione e nell’imminenza della seduta del Plenum della giustizia amministrativa, per la discussione finale del procedimento disciplinare a suo carico, Bellomo aveva depositato anche una memoria chiedendo “l’annullamento in autotutela degli atti del giudizio disciplinare per vizio di procedura” ed il proprio “proscioglimento immediato per evitare ogni ulteriore aggravamento dei danni ingiusti già subiti“. Secondo la Procura di Bari, tale azione di Bellomo fu un’implicita minaccia, “prospettato oltre all’aggravarsi dell’entità del risarcimento chiesto, anche il possibile esercizio di azioni civili in caso di ulteriori danni” finalizzata a prospettare all’intero Consiglio il possibile esercizio di azioni civili nei confronti di Conte e Plantamura, come si legge nell’imputazione ” per turbarne l’attività nel procedimento disciplinare a suo carico ed impedire la loro partecipazione alla discussione finale, influenzandone la libertà di scelta e determinando la loro estensione, benché il CPGA avesse votato all’unanimità, ed in loro assenza, l’insussistenza di cause di astensione e ricusazione“. Il gip del Tribunale di Bari dr.ssa Antonella Cafagna che ha disposto l’arresto, dell’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, con concessione degli arresti domiciliari, nella sua ordinanza parla di “indole dell’indagato in seno al rapporto interpersonale in termini di elevata attitudine alla manipolazione psicologica mediante condotte di persuasione e svilimento della personalità della partner nonché dirette ad ottenerne il pieno asservimento se non a soggiogarla, privandola di qualunque autonomia nelle scelte, subordinate al suo consenso” analizzando quello che chiama “sistema Bellomo” nel quale “l’istituzione del servizio di borse di studio non era altro che un espediente per realizzare un vero e proprio adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell’agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia”. Le vittime secondo “la concezione bellomiana dei rapporti interpersonali” sarebbero state prima “isolate, allontanandole dalle amicizie”, e successivamente Francesco Bellomo avrebbe tentato una “manipolazione del pensiero se non addirittura di indottrinamento con successivo controllo mentale, mediante l’espediente di bollare come sbagliate le opinioni espresse o le scelte compiute dalla vittima, in modo da innescare un meccanismo di dipendenza da sé”. È proprio una delle ragazze sue vittime a definire il rapporto con Bellomo “come se si fosse impossessato della mia testa“. Una borsista della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, confidandosi con la sorella, le raccontò di aver sottoscritto “un contratto di schiavitù sessuale”, mentre un’altra borsista sarebbe stata “punita” mediante la rivelazione di “dettagli intimi sulla sua vita privata” per aver violato secondo Bellomo, gli obblighi imposti dal contratto, finendo in una rubrica sulla rivista della Scuola “Diritto e scienza” . Con un’altra borsista invece avrebbe preteso che “si inginocchiasse e gli chiedesse perdono” per avere violato regole del contratto. Le borsiste della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, arrestato per maltrattamenti e estorsione, erano tenute ad “attenersi ad un dress code suddiviso in ‘classico‘ per gli eventi burocratici, intermedio per corsi e convegni ed estremo per eventi mondani e dovevano curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività’ al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società“. Questi sono alcuni passaggi contenuti del contratto imposto alle borsiste e riportati nell’ordinanza di arresto firmato dal Gip del Tribunale di Bari dr.ssa Antonella Cafagna. L’abbigliamento “estremo” prevedeva “gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza“. Quello “intermedio” contemplava l’uso di “gonna corta (da 1/3 a ½ della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche”; quello “classico” prevedeva “gonna sopra il ginocchio (da ½ a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati“. Il “dress code” previsto da Bellomo (che deve avere qualche problema…) imponeva anche “gonne e vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco. Nella stagione invernale calze chiare o velate leggere, non con pizzo o disegni di fantasia; cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm a seconda dell’altezza, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero) oppure french”.
Da Il Fatto Quotidiano il 9 luglio 2019. Umiliava le allieve che non assecondavano i suoi desiderata “anche attraverso la pubblicazione sulla rivista on line della scuola delle loro vicende personali, e minacciandole di ritorsioni sul piano personale e professionale”. Controllava i loro like, i post sui social, imponeva loro di cancellare amicizie e fotografie. Di essere reperibili in qualsiasi momento. Di non sposarsi e di essergli fedeli per tutta la durata del “contratto/regolamento” che disciplinava i “doveri“, il “codice di condotta” ed il “dress code” del borsista. Sono i dettagli che emergono dall’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari notificata a Francesco Bellomo, ex giudice del Consiglio di Stato agli arresti domiciliari per maltrattamento ed estorsioni ai danni di alcune sue borsiste. Secondo quanto emerso dalle indagini, il magistrato ha instaurato con alcune allieve “rapporti confidenziali e, in alcuni casi, sentimentali” e, “facendo leva sul rispetto degli obblighi assunti”, avrebbe posto in essere “sistematiche condotte di sopraffazione, controllo, denigrazione ed intimidazione consistite nel controllarne, anche nel timore che intrattenessero relazioni personali con altri uomini, le attività quotidiane, le relazioni personali e in genere le frequentazioni, anche attraverso il monitoraggio dei social network”, controllando foto e like ai loro post. Alle ragazze sarebbero stati imposti “la cancellazione di amicizie, di fotografie pubblicate”, “l’obbligo di immediata reperibilità“, il “divieto di avere rapporti con persone con un quoziente intellettivo inferiore ad uno standard da lui insindacabilmente stabilito”, l’obbligo di “indossare un determinato abbigliamento e di attenersi a determinati canoni di immagine, anche attraverso la pubblicazione sui social network di foto da lui scelte”. “Qualora il loro comportamento non corrispondesse ai suoi desiderata“, Bellomo le avrebbe “umiliate, offese e denigrate”, anche “attraverso la pubblicazione sulla rivista on line della scuola delle loro vicende personali”. Le avrebbe anche minacciate “di ritorsioni sul piano personale e professionale” e di “azioni legali in sede civile e penale”. Le accuse nei confronti delle allieve – Stando alle indagini dei carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e dal sostituto Iolanda Daniela Chimienti, Bellomo, con “l’artifizio delle borse di studio offerte dalla società” che consentivano tra le altre cose la frequenza gratuita al corso e assistenza didattica individuale, “per selezionare ed avvicinare le allieve nei confronti delle quali nutriva interesse, anche al fine di esercitare nei loro confronti un potere di controllo personale e sessuale” si legge nell’imputazione, avrebbe fatto sottoscrivere un “contratto/regolamento”. A selezionare le donne tramite colloquio, sottoponendole al “test del fidanzato sfigato” sarebbe stato l’ex pm Nalin, incaricato anche di vigilare sul rispetto degli obblighi contrattuali, svolgere istruttorie in caso di violazioni e proporre sanzioni. La presunta estorsione sarebbe stata commessa nei confronti di un’altra corsista, costretta a rinunciare ad un lavoro da co-presentatrice in una emittente televisiva “in quanto incompatibile con l’immagine di aspirante magistrato” e “minacciando di revocarle la borsa di studio”. Nozze e fedeltà: divieti e obblighi del contratto – Alle ragazze, secondo quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare, era imposto “il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa” e il contratto prevedeva per loro “una serie di obblighi e di divieti“, come la “fedeltà nei confronti del direttore scientifico” e “l’obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse”. Oltre a questo, c’era anche “un addestramento del borsista” e “attribuiva un potere di vigilanza e un potere disciplinare alla società in caso di violazione dei doveri, sanzionata con la "censura, la sospensione, la retrocessione, la decadenza", prevedendo la revoca della borsa di studio in caso di inosservanza dei doveri e l’irrinunciabilità della stessa una volta iniziata l’attività”. Secondo gli inquirenti, Bellomo avrebbe instaurato con le borsiste rapporti confidenziali e, in alcuni casi, sentimentali. Nell’ambito di questo tipo di rapporti, “facendo leva sul rispetto degli obblighi assunti, si sarebbe reso responsabile nei loro confronti di comportamenti sistematici di sopraffazione, controllo, denigrazione ed intimidazione offendendone in tal modo il decoro e la dignità personale, limitandone la libertà di autodeterminazione e riducendole in uno stato di prostrazione e soggezione psicologica”. Dress code classico o estremo: i dettagli del contratto – Le ragazze dovevano “attenersi ad un dress code suddiviso in ‘classico’ per gli ‘eventi burocratici’, ‘intermedio’ per ‘corsi e convegni’ ed ‘estremo’ per ‘eventi mondani'” e dovevano “curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività‘ al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società”. Nei passaggi citati dal contratto e riportati nell’ordinanza di arresto l’abbigliamento definito “estremo” prevedeva “gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza”; quello “intermedio” “gonna corta (da 1/3 a ½ della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche; il “classico” “gonna sopra il ginocchio (da ½ a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati”. Il dress code imponeva anche “gonne e vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco. Nella stagione invernale calze chiare o velate leggere, non con pizzo o disegni di fantasia; cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm a seconda dell’altezza, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero) oppure french”.
Dress code alle corsiste, arrestato Bellomo. Minacciò Conte. La difesa: arresto immotivato. L'ex giudice barese del Consiglio di Stato è ai domiciliari. Vittima si rivolse a ex pm Carofiglio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2019. Una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari è stato notificata a Francesco Bellomo, ex giudice barese del Consiglio di Stato, docente e direttore scientifico dei corsi post-universitari per la preparazione al concorso in magistratura della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata Diritto e Scienza. Bellomo risponde dei reati di maltrattamento nei confronti di quattro donne, tre borsiste e una ricercatrice, alle quali aveva imposto anche un dress code, ed estorsione aggravata ai danni di un’altra corsista. L’ex giudice del Consiglio di Stato è indagato per i reati di calunnia e minaccia ai danni dell’attuale presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte. L'accusa, contenuta nell’ordinanza di arresto per maltrattamenti ed estorsione nei confronti di cinque ex borsiste, risale al settembre 2017, quando Conte era vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa e presidente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo. L’ex magistrato aveva citato per danni dinanzi al Tribunale di Bari Conte e un’altra ex componente della commissione disciplinare, Concetta Plantamura, "incolpandoli falsamente» di aver esercitato «in modo strumentale e illegale il potere disciplinare», svolgendo "deliberatamente e sistematicamente» una «attività di oppressione» nei suoi confronti, «mossa - denunciava Bellomo - da un palese intento persecutorio, dipanatosi in un numero impressionante di violazioni procedurali e sostanziali, in dichiarazioni e comportamenti apertamente contrassegnate dal pregiudizio». Pochi giorni dopo la notifica della citazione e nell’imminenza della seduta del Plenum per la discussione finale del procedimento disciplinare a suo carico, Bellomo avrebbe depositato una memoria chiedendo «l'annullamento in autotutela degli atti del giudizio disciplinare per vizio di procedura» e il suo «proscioglimento immediato» per «evitare ogni ulteriore aggravamento dei danni ingiusti già subiti». Per la Procura di Bari, Bellomo avrebbe così «implicitamente prospettato oltre all’aggravarsi dell’entità del risarcimento chiesto, anche il possibile esercizio di azioni civili in caso di ulteriori danni». Avrebbe quindi minacciato Conte e Plantamura «per turbarne l'attività nel procedimento disciplinare a suo carico - si legge nell’imputazione - e impedire la loro partecipazione alla discussione finale, influenzandone la libertà di scelta e determinando la loro estensione, benché il CPGA avesse votato all’unanimità, ed in loro assenza, l’insussistenza di cause di astensione e ricusazione».
ALLE BORSISTE OBBLIGO DI FEDELTA' - Ad alcune borsiste della Scuola di Formazione Giuridica Avanzata Diritto e Scienza dell’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo era imposto «il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa». È uno dei particolari contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari notificata oggi a Bellomo nella sua casa di Bari per i reati di maltrattamenti ed estorsione. Alle ragazze era imposto un contratto che «imponeva una serie di obblighi e di divieti», come la «fedeltà nei confronti del direttore scientifico» e «l'obbligo di segretezza sul contenuto delle comunicazioni intercorse». Il contratto prevedeva anche "un addestramento del borsista» e «attribuiva un potere di vigilanza e un potere disciplinare alla società in caso di violazione dei doveri, sanzionata con la "censura, la sospensione, la retrocessione, la decadenza", prevedendo la revoca della borsa di studio in caso di inosservanza dei doveri e l’irrinunciabilità della stessa una volta iniziata l'attività» Le borsiste della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, oggi arrestato per maltrattamenti e estorsione, dovevano «attenersi ad un dress code suddiviso in 'classico' per gli 'eventi burocratici', 'intermedio' per 'corsi e convegni' ed 'estremo' per 'eventi mondani'» e dovevano «curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurare il più possibile l’armonia, l’eleganza e la superiore trasgressività' al fine di pubblicizzare l’immagine della scuola e della società». Sono alcuni passaggi del contratto imposto alle borsiste e riportati nell’ordinanza di arresto. L'abbigliamento definito «estremo» prevedeva «gonna molto corta (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + maglioncino o maglina, oppure vestito di analoga lunghezza"; quello «intermedio» «gonna corta (da 1/3 a ½ della lunghezza tra giro vita e ginocchio), sia stretta che morbida + camicetta, oppure vestito morbido di analoga lunghezza, anche senza maniche; il «classico» «gonna sopra il ginocchio (da ½ a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) diritta + camicetta, oppure tailleur, oppure pantaloni aderenti + maglia scollata. Alternati». Il dress code imponeva anche «gonne e vestiti di colore preferibilmente nero o, nella stagione estiva, bianco. Nella stagione invernale calze chiare o velate leggere, non con pizzo o disegni di fantasia; cappotto poco sopra al ginocchio o piumino di colore rosso o nero, oppure giacca di pelle. Stivali o scarpe non a punta, anche eleganti in vernice, tacco 8-12 cm a seconda dell’altezza, preferibilmente non a spillo. Borsa piccola. Trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani di colore chiaro o medio (no rosso e no nero) oppure french».
GIP: MANIPOLAZIONE PSICOLOGICA DELLE VITTIME - Il gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna che ha disposto l’arresto, con concessione dei domiciliari, dell’ex giudice barese del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, parla di «indole dell’indagato in seno al rapporto interpersonale in termini di elevata attitudine alla manipolazione psicologica mediante condotte di persuasione e svilimento della personalità della partner nonché dirette ad ottenerne il pieno asservimento se non a soggiogarla, privandola di qualunque autonomia nelle scelte, subordinate al suo consenso». Nell’ordinanza il giudice analizza quello che definisce «sistema Bellomo», nel quale «l'istituzione del servizio di borse di studio non era altro che un espediente per realizzare un vero e proprio adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell’agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia». Secondo «la concezione bellomiana dei rapporti interpersonali», le vittime sarebbero state prima «isolate, allontanandole dalle amicizie», quindi Bellomo ne avrebbe tentato una «manipolazione del pensiero se non addirittura di indottrinamento» con successivo «controllo mentale, mediante l'espediente di bollare come sbagliate le opinioni espresse o le scelte compiute dalla vittima, in modo da innescare un meccanismo di dipendenza da sé». È anche una delle vittime a definire il rapporto con Bellomo "come se si fosse impossessato della mia testa».
UN CONTRATTO DI SCHIAVITU' SESSUALE - Confidandosi con la sorella, una borsista della Scuola di Formazione dell’ex giudice Francesco Bellomo, disse di aver sottoscritto «un contratto di schiavitù sessuale». Un’altra borsista sarebbe stata «punita» per aver violato gli obblighi imposti dal contratto, finendo in una rubrica sulla rivista della Scuola con «dettagli intimi sulla sua vita privata». Mentre da un’altra ancora avrebbe preteso che "si inginocchiasse e gli chiedesse perdono» per avere violato regole del contratto. Sono alcuni dei particolari contenuti nell’ordinanza di arresto dell’ex giudice del Consiglio di Stato per i reati di maltrattamenti ed estorsione. La ragazza che parlava con sua sorella di schiavitù, si sfogava con un’altra corsista: «Ho rinunciato alla borsa ma sono terrorizzata dalla reazione», «mi stanno facendo paura», «non vogliono lasciarmi andare». Sentita dagli inquirenti della Procura di Piacenza, che aveva avviato un’altra indagine su Bellomo e i cui atti sono stati in parte trasmessi a Bari, la presunta vittima, spiegando il controllo che l’ex giudice aveva sui suoi social network, ha dichiarato di vergognarsi «delle foto che sono stata costretta mettere, mi facevo schifo da sola, mi sentivo messa in vendita». Bellomo l’avrebbe anche accusava di intrattenere relazioni con altri uomini sulla base di scambi di like su Facebook, definendola «scientificamente una prostituta». Dopo la pubblicazione sulla rivista della scuola dei dettagli intimi della borsista «punita» per aver violato gli obblighi imposti dal contratto, Bellomo avrebbe anche bandito un "concorso tra i corsisti lettori» con in palio l’iscrizione gratuita al corso dell’anno successivo «per chi avesse fornito la migliore spiegazione dei comportamenti della ragazza». In uno dei messaggi rivolti invece ad una ricercatrice della scuola «colpevole» di essere uscita di sera senza la sua autorizzazione, scriveva: «Non autorizzerò più uscite serali e mentre attendevo che ti facessi viva, mi sono fatto una lesione al pettorale, perché ho perso la concentrazione. Questo significa avere a fianco un animale. Perché tu sei così». «Gli animali non conoscono dispiacere - scriveva in un altro messaggio - La decisione di uscire ieri sera è l’ennesima riprova del tuo dna malato. Agisci come un selvaggio, ignorando le regole». Bellomo pretendeva «dedizione» come «l'obbligo di rispondere immediatamente alle sue telefonate e messaggi abbandonando qualsiasi attività, anche lavorativa, in cui fosse in quel momento impegnata». Lui doveva essere per lei una "assoluta priorità». All’indomani dell’ennesimo litigio, dopo le scuse della ragazza, lui avrebbe preteso che «si inginocchiasse e gli chiedesse perdono». «Non ha il significato della sottomissione - scriveva in un altro messaggio - ma della solennità. Con le forme rituali».
CONTROLLAVA I LIKE SU FACEBOOOK - L’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, agli arresti domiciliari da questa mattina a Bari per i reati di maltrattamenti ed estorsione, avrebbe instaurato con alcune borsiste «rapporti confidenziali e, in alcuni casi, sentimentali» e, «facendo leva sul rispetto degli obblighi assunti», avrebbe posto in essere «sistematiche condotte di sopraffazione, controllo, denigrazione ed intimidazione consistite nel controllarne, anche nel timore che intrattenessero relazioni personali con altri uomini, le attività quotidiane, le relazioni personali e in genere le frequentazioni, anche attraverso il monitoraggio dei social network», controllando foto e like ai loro post. Alle ragazze sarebbero stati imposti «la cancellazione di amicizie, di fotografie pubblicate», «l'obbligo di immediata reperibilità», il «divieto di avere rapporti con persone con un quoziente intellettivo inferiore ad uno standard da lui insindacabilmente stabilito», l’obbligo di «indossare un determinato abbigliamento e di attenersi a determinati canoni di immagine, anche attraverso la pubblicazione sui social network di foto da lui scelte». «Qualora il loro comportamento non corrispondesse ai suoi desiderata», Bellomo le avrebbe «umiliate, offese e denigrate», anche «attraverso la pubblicazione sulla rivista on line della scuola delle loro vicende personali». Le avrebbe anche minacciate «di ritorsioni sul piano personale e professionale» e di «azioni legali in sede civile e penale».
UNA VITTIMA CHIESE AIUTO A CAROFIGLIO - L’ex pm di Bari Gianrico Carofiglio, poi dimessosi dalla magistratura per dedicarsi alla carriera di scrittore, sarebbe stato contattato da una presunta vittima dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo in quanto suo amico e, stando al racconto della donna, avrebbe poi informato Bellomo della cosa. La donna che riferisce l’episodio di Carofiglio non è tra le quattro presunte vittime dell’inchiesta barese. Il suo verbale è contenuto negli atti del procedimento aperto dalla Procura di Piacenza ma il gup di Bari ne riporta stralci per spiegare la personalità dell’indagato. La donna riferisce vicende risalenti agli anni 2006-2007: «Mi rivolsi spaventata al suo amico Gianrico Carofiglio, allora in servizio alla Procura di Bari, chiedendogli di intercedere e di riportare Francesco alla ragione; lui mi consigliò di rivolgermi a un penalista; poco dopo ricevetti una telefonata furente di Bellomo, che mi disse di essere stato contattato da Carofiglio, che gli diceva che io stavo prospettando fatti di violenza privata, e che la situazione per lui si stava facendo davvero brutta; mi urlava, e mi diceva di lasciar fuori Gianrico e chiunque altro, che avevo passato il segno, e che mi avrebbe scatenato addosso l'inimmaginabile». Carofiglio, dal canbto suo, nega di aver mai chiamato Bellomo. «Molti anni fa, credo nel 2006, una giovane donna chiese di essere ricevuta nel mio ufficio alla Procura di Bari, dove ho cessato di prestare servizio nel febbraio 2007. Mi disse che sapeva che il dottor Bellomo aveva fatto tirocinio con me anni prima e mi chiese un consiglio su una vicenda che riguardava entrambi. Si trattava di una storia confusa nella quale, astrattamente, si potevano configurare estremi di reati perseguibili a querela: lesioni, ingiurie e minacce. Le consigliai dunque di rivolgersi a un avvocato penalista con cui valutare la possibilità di sporgere querela. Escludo ovviamente di aver chiamato Bellomo per raccontargli di questo incontro».
LA DIFESA: BELLOMO NEGA, ARRESTO PER FATTI NOTI. «Il dottor Bellomo nega, nel modo più reciso, di aver mai posto in essere le condotte che gli vengono addebitate, peraltro sulla scorta di elementi acquisiti più di un anno fa e riferibili a fatti risalenti nel tempo». Lo dicono in una dichiarazione all’ANSA gli avvocati Gianluca D’Oria e Beniamino Migliucci, difensori di Bellomo precisando che non ci sono «i presupposti di 'attualità' e 'concretezzà che per legge devono qualificare il pericolo di reiterazione dei reati». «E men che meno - continuano - reputiamo condivisibile che tale 'pericolò possa fondarsi su un giudizio di prognosi che contempli l’astratta eventualità che il dottor Bellomo possa in futuro instaurare nuove relazioni sentimentali che potrebbero offrire occasione per reiterare i reati che gli vengono contestati». «Lo stupore è maggiore - dicono ancora i difensori - considerato che il dottor Bellomo ha sempre manifestato, sin dall’avvio dell’indagine penale (dicembre 2017), un atteggiamento collaborativo con l’autorità inquirente, rendendosi disponibile a confrontarsi con gli elementi in possesso della Procura di Bari e fornendo a più riprese proprie dichiarazioni spontanee, peraltro supportate da pertinente documentazione».
Bellomo, il genio destituito che istruisce le future toghe. Francesco Bellomo a Fiere di Roma dal 4 giugno tiene lezione a migliaia di ragazzi stanno affrontando il concorso per il reclutamento di 330 magistrati ordinari. Simona Musco il 7 giugno 2019 su Il Dubbio. Almeno un centinaio di persone stanno ammassate davanti ad un uomo snello, in giacca nera e maglia bianca, con dei fogli in mano. È Francesco Bellomo, ex magistrato del Consiglio di Stato, destituito per «aver leso il prestigio della magistratura». Non si trova in un posto qualunque, ma a Fiere di Roma, dove dal 4 giugno migliaia di ragazzi stanno affrontando il concorso per il reclutamento di 330 magistrati ordinari. Davanti a lui decine di teste lo ascoltano illustrare le tracce concorsuali. Una, dice chi ha sostenuto l’esame, l’ha anche azzeccata durante il corso che ancora tiene nella scuola di preparazione ai concorsi in magistratura, la “Diritto e Scienza”, con sede a Catania. Una scuola che è finita al centro dello scandalo che lo ha portato ad uscire dalla magistratura, circa un anno fa, dopo la denuncia del padre di una delle sue allieve. Secondo le quali Bellomo aveva imposto minigonne e tacco 12 alle studentesse, costrette, secondo l’accusa, a riferire sulle rispettive vite sessuali e con le quali, in alcuni casi, lo stesso ex magistrato avrebbe avuto rapporti. Che lui, però, nega. Quella scuola, oggi, è sua. E ha corsi non solo a Catania, ma anche a Bari, Roma, Milano ed on-line, tutti rigorosamente accreditati per la formazione forense. Lì, dunque, continua a tenere lezioni, senza, però, quel contratto che gli è costato caro. A riprendere la scena davanti le aule della Fiera di Roma si trova un giornalista del Corriere della Sera, che immortala anche quelli che non gradiscono la sua presenza, urlando dalle scalinate «Vergognati». Ma non solo contro lui, «Anche voi che lo state ad ascoltare». Bellomo, però, non si scompone. Non sente nemmeno gli insulti e dice di non doversi vergognare di nulla. «Io illustro lo svolgimento delle tracce concorsuali, ai miei allievi e a chiunque voglia sentirle», dice al giornalista. Che gli chiede conto del famoso contratto, secondo il quale, stando alle cronache, per non perdere le borse di studio le allieve avrebbero dovuto sottostare ad alcune regole, come divieto di matrimonio, obbligo di gonne corte, tacchi alti, trucco marcato. Pena l’esposizione in pubblico della vita personale della borsista inadempiente, durante le lezioni e negli articoli. «Il contratto che facevo firmare è assolutamente regolare – commenta Bellomo – ma è sospeso da un anno e mezzo». Non è pentito – «non mi posso pentire di cose che non sono scorrette» – e attende il giudizio del Tar, davanti al quale ha contestato la sanzione disciplinare. In attesa di quello, dunque, quel foglio di carta è in un cassetto. «Sarei uno stupido se non tenessi conto di quello che è stato deciso – spiega – ancorché io pensi che si sia trattato di un errore anche abbastanza serio». Dal 31 luglio dello scorso anno, quella scuola, di cui è direttore scientifico, diventa ufficialmente sua all’ 85 per cento, in cambio di una cifra giudicata irrisoria: circa 400 mila euro. Chi ha seguito le lezioni giura che di quei contratti, adesso, non se ne vede più l’ombra. Ma chi si trova lì a fare l’esame si lamenta. «È inopportuno che venga qui a fare proselitismo – dice una ragazza – Sanno tutti per cosa è diventato celebre». C’è però anche chi, pur contestando l’opportunità della sua presenza, gli riconosce il fatto di essere «un genio». Cosa della quale Bellomo stesso, nel curriculum pubblicato sul sito della sua scuola, non fa mistero. «Vincitore di cinque concorsi in magistratura, caso unico nella storia italiana», scrive, laureato con «110 e lode e plauso accademico» e un Qi di 188. Il suo ingresso in magistratura, rimarca, è stato accompagnato da «valutazioni di rilievo assoluto» : chi le ha effettuate ne ha sottolineato «la particolare brillantezza», la «eccezionale preparazione», il «grandissimo valore» e così via. Di quanto capitato nell’ultimo anno nessuna traccia. «Il contratto di borsa di studio valeva per i ragazzi e per le ragazze continua l’ex magistrato – Perché siete fissati con le ragazze? L’abbigliamento cui fate riferimento riguardava eventi mondani, come feste organizzate dalla società, dove è assolutamente ordinario un look di quel tipo. Poi c’erano delle esigenze promozionali, perché i borsisti e le borsiste svolgevano anche attività promozionale». Tutto normale, perché se è vero che «Un magistrato deve essere intelligente, preparato, neutrale», se cura anche la proprio immagine «tanto meglio per se stesso», perché «Ci si fa un’idea anche dall’immagine della persona». E la morale? «È un periodo storico in cui troppo spesso si richiama la morale. Ci sono saperi scientifici di maggior consistenza – conclude – Voi vi attaccate ossessivamente a questa parola».
Antonio Crispino per il “Corriere della sera” il 7 giugno 2019. Sono le 19 circa del 4 giugno. Dai padiglioni della Fiera di Roma escono gli studenti che hanno sostenuto il secondo scritto al concorso per diventare magistrati. Andando via, puntano gli occhi indignati su un gruppo di giovani, per lo più ragazze, riunito in semicerchio ad ascoltare Francesco Bellomo, l'ex toga del Consiglio di Stato destituito per «aver leso il prestigio della magistratura» con lo scandalo del dress code (minigonne e tacchi a spillo) richiesti alle allieve vincitrici di borsa di studio.
Bellomo, non le sembra inopportuna la sua presenza?
«Non mi è chiaro il concetto di inopportuno, me lo spieghi in italiano se ne è capace».
Gli insulti degli studenti li ha sentiti? (urlano «vergogna», «str....», «vergognatevi pure voi che lo ascoltate»)
«Non dica stupidaggini. Nessuno studente si è mai permesso di contestarmi».
Perché viene proprio qui?
«Ci vengo ogni volta che c'è una prova d'esame per illustrare lo schema di svolgimento delle tracce concorsuali ai miei allievi (è direttore della scuola di preparazione al concorso in magistratura Diritto e Scienza, ndr ) e a chiunque voglia sentirli. E venerdì, per l'ultima prova scritta, ritornerò».
Alle sue studentesse fa firmare ancora il contratto dove raccomanda di mettere minigonna e tacchi a spillo?
«No, è sospeso da un anno e mezzo, da quando mi hanno destituito. Ma era un contratto assolutamente regolare».
E allora perché non lo fa firmare più?
«Ho fatto ricorso al Tar ma, nell'attesa, sarei uno stupido se non tenessi conto della sanzione disciplinare».
Pentito per ciò che ha fatto?
«Non mi posso pentire di cose che non sono scorrette. È successo tutto per nulla. Anche se a posteriori avrei evitato il nulla».
Non è dispiaciuto per la frase detta a una studentessa: «Se non confessi tutta Italia saprà che sei una troia»?
«Non la ricordo».
Posso farle rileggere i virgolettati?
«No guardi, ora vorrei andare. Me la mandi via email».
Cosa rappresentano per lei minigonna e tacchi a spillo? Perché li raccomandava? Cosa avrebbero dato in più a un magistrato?
«Innanzitutto non erano magistrati ma studentesse».
Lo sarebbero diventate.
«Ma lei lo chiede anche a chi va in televisione?».
Lì si fa spettacolo, in magistratura si fa altro.
«Certi abbigliamenti non sono presenti solo nei varietà. L'abbigliamento che lei cita riguardava eventi mondani organizzati dalla società Diritto e Scienza dove è ordinario quel look. E poi c' erano esigenze promozionali».
Tipo ragazza immagine?
«Il contratto non riguardava solo le ragazze ma anche i ragazzi. E sì, era previsto che svolgessero anche attività promozionale per la società».
Le capita ancora oggi di avere rapporti sentimentali con le sue allieve?
«Non glielo dico. Per il passato posso dire che frequentando gli stessi posti è più facile fidanzarsi. Anche se a me non piace questa parola».
E come preferisce dire?
«Avere relazioni».
Secondo lei un magistrato deve essere bello?
«Deve essere intelligente, neutrale e preparato. E se cura anche l' immagine, meglio».
Meglio per chi?
«Per se stesso. Anche se poi, come in tutti gli ambienti, dall' immagine si capisce il tipo di persona». (...lo dice vestito con jeans strappati e giacca di pelle).
Come giudice non era tenuto anche a insegnare l' etica?
«Guardi, è un periodo storico in cui troppo spesso si richiama la morale. Ci sono saperi scientifici di maggior consistenza. Voi vi attaccate ossessivamente a questa parola ma i magistrati non devono insegnare l' etica, quello è il ruolo dei filosofi».
IL METOO TI FA RICCO. Nicola Lillo e Gianluca Paolucci per “la Stampa” 13 maggio 2019. Il 31 luglio dello scorso anno, di fronte al notaio barese Annalinda Giuliani, Francesco Bellomo compra l' 85% della Diritto e scienza srl. Il prezzo pattuito è di 400 mila euro. Quindi alla società è attribuito un valore inferiore a mezzo milione.
Lo scandalo stalking-lesioni. Bellomo è un ex magistrato, destituito dopo lo scandalo per il trattamento delle allieve ai corsi di preparazione all' esame da magistrato da lui tenuti e le accuse di stalking e lesioni mosse da alcune studentesse. A vendere è un avvocato, anche lui barese: Andrea Irno Consalvo. La Diritto e scienza invece è la società che organizza i corsi per l' esame da magistrato che tanti guai ha causato allo stesso Bellomo. Irno Consalvo fa mettere nero su bianco che ha deciso di vendere, è scritto nel documento, «non avendo più interesse nell' attività svolta dalla società, anche in relazione alle vicende mediatiche e giudiziarie che l' hanno coinvolta a decorrere dalla fine del 2017, all' incertezza della redditività futura e ai possibili contenziosi che possano coinvolgerla».
I 600 mila euro accantonati. La cosa bizzarra è che con quei 400 mila euro Bellomo si prende una società che pure nell' anno dello scandalo fa registrare dei numeri più che buoni. Fatturato di quasi un milione di euro, una perdita di 65 mila euro ma solo dopo averne accantonati 600 mila per far fronte ai rischi di contenzioso scaturiti proprio dallo scandalo. E soprattutto 2,3 milioni di euro di riserve disponibili. C' è da dire che, prima di vendere, Irno Consalvo si è staccato un dividendo extra di 650 mila euro, che portano il suo incasso complessivo a 1,05 milioni. Ma siamo ancora lontani dagli oltre 2 milioni di euro che avrebbe potuto incassare se la società l' avesse liquidata e si fosse preso la sua quota di cassa (l' altro azionista, con il 15%, è l' avvocato Marika Miglioranza, che è il responsabile degli Affari istituzionali del Pio Albergo Trivulzio di Milano). E, comunque, la Diritto e scienza macina buoni risultati. L' utile netto per anni è stato superiore alla metà del fatturato. I debiti sono pari a poche migliaia di euro, i costi restano costantemente molto bassi. Nel 2017 - ultimo bilancio disponibile - il volume d' affari ha subito una flessione e l' esercizio si è chiuso in rosso di alcune decine di migliaia di euro ma solo, come detto, per effetto dei robusti accantonamenti effettuati per fronteggiare eventuali cause. La clausola Insomma, mettendo tutti i numeri in fila, non si capisce proprio perché Irno Consalvo abbia venduto a quel prezzo. Ai due, compratore e venditore, le ragioni devono invece essere ben chiare, dato che, nell' atto di compravendita, viene inserita una clausola quantomeno anomala per questo tipo di operazioni: «Le parti si esonerano reciprocamente da ogni responsabilità, conseguenza e garanzia relativamente alla consistenza e valore della quota, nonché in relazione alla redditività futura, all' eventuale contenzioso che possa coinvolgere la società, agli impegni contrattuali e relative obbligazioni in atto e future della stessa. Le parti convengono, pertanto, di attribuire espressamente natura aleatoria al presente contratto». In sintesi: Bellomo e Irno Consalvo non intendono rivalersi l' uno contro l' altro per eventuali contestazioni future sul valore della quota ceduta.
Processo in corso. Fino allo scorso anno, Bellomo - attualmente sotto processo a Piacenza dopo le denunce di molestie - risultava «responsabile scientifico» dei corsi della Diritto e scienza. Da magistrato, non avrebbe potuto essere altrimenti. Con l' uscita, evidentemente, ha fatto pulizia tra gli affari.
Inzia il “processo” al pm Nalin, accusato insieme con Bellomo. Il disciplinare al Csm sui corsi con il “dress code”. A porte chiuse gli interrogatori delle stagiste che avrebbero subito richieste di natura sessuale in cambio della ammissione alle lezioni. Giovanni M. Jacobazzi il 10 Maggio 2019 su Il Dubbio. Sono state interrogate a “porte chiuse” le due testimoni chiave del procedimento disciplinare a carico del pm Davide Nalin, accusato di aver fatto da mediatore per procurare indebiti vantaggi, anche di carattere sessuale, tra l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo e alcune aspiranti toghe. E’ stato il procuratore generale della Cassazione Mario Fresa a richiedere che l’udienza di ieri pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm si svolgesse, per tutelare la privacy delle due ex frequentatrici della scuola di formazione giuridica per la preparazione al concorso in magistratura “Diritto e scienza”, diretta da Bellomo, lontano da occhi indiscreti. Le due donne sono state fatte entrare nella sala del Plenum da un ingresso secondario e i giornalisti presenti allontanati. Contestualmente è stata disposta l’interruzione del collegamento con Radio Radicale. Il procedimento disciplinare per i magistrati, va ricordato, soggiace alle identiche regole del codice di procedura penale. E’ un procedimento pubblico che può essere svolto a porte chiuse solo in determinati casi. Nalin, ora sospeso dal servizio ed all’epoca dei fatti, in servizio alla Procura di Rovigo, secondo le accuse avrebbe prospettato ad una frequentatrice del corso che se non avesse dato seguito alle richieste di Bellomo, come quella di mandargli foto intime o di definire il periodo in cui passare insieme le ferie estive, avrebbe commesso reati che le avrebbero impedito di partecipare al concorso in magistratura. L’allora pg Pasquale Ciccolo aveva parlato di «clima di soggezione psicologica» subito dalle corsiste che ambivano ad entrare in magistratura «per la sottoposizione a continue vessazioni anche di carattere sessuale», senza considerare «lo stravagante se non aberrante regolamento ( fra cui il celebre “dress code” per le stagiste voluto da Bellomo: tacco 12, minigonna, trucco vistoso, ndr) della scuola» di cui Nalin era a conoscenza. La vicenda era esplosa nel 2017 a seguito della denuncia da parte di un aspirante magistrato. Le corsiste, a parte l’obbligo del particolare dress code, erano costrette a firmare un "contratto", con clausole pesantemente invasive della vita privata e con penali fino a 100.000 euro. Mentre Nalin è ancora nei ruoli della magistratura, Bellomo è stato destituito lo scorso anno dal Consiglio di Stato. Entrambi erano poi sotto processo a Piacenza, proprio a seguito della denuncia della corsista, per stalking e lesioni gravi. La corsista, lo scorso autunno, è però uscita dal processo dopo aver rimesso la querela. C’è stata «una conciliazione tra le parti all’esito di una vicenda comunque travagliata e di un rapporto affettivo che certamente esisteva», avevano affermato il professor Vittorio Manes e l’avvocato Beniamino Migliucci, difensori dei due imputati, commentato con la stampa dunque il raggiungimento dell’accordo risarcitorio extraprocessuale.
Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui». Sentita al Csm per vicenda Nalin come teste della difesa. Il 9 maggio invece saranno sentite, come testimoni nel procedimento a carico del pm Nalin, le grandi accusatrici dell'ex consigliere di stato barese, sxcrive il 15 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. «A me ha cambiato la vita seguire quel corso, perché insegna a ragionare. Non c'erano riferimenti politici. C'era entusiasmo, molti erano infatuati di Bellomo, in particolare le ragazze». E’ quanto afferma l’avvocatessa Samantha Mendicino,ex corsista della Scuola di preparazione del concorso in magistratura di Francesco Bellomo, l’ex consigliere del Consiglio di Stato destituito per il contratto che faceva sottoscrivere alle studentesse che prevedeva tra le clausole un dress code (minigonne e tacco 12). L’avvocatessa è stata ascoltata come teste della difesa davanti alla sezione disciplinare del Csm nell’ambito del procedimento a carico di Davide Nalin, l’ex pm di Rovigo sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e stretto collaboratore di Bellomo.
«La mia stessa amica Carla Pernice (una delle accusatrici di Bellomo ndr) aveva un’infatuazione intellettuale per lui» ha aggiunto la testimone rispondendo anche alle domande del pg Mario Fresa. Mendicino ha quindi ricostruito la sua esperienza. "Ho frequentato la scuola di Bellomo nella sede di Milano. Nalin mi disse che era meglio frequentare a Milano. Effettivamente ho constatato che durante il corso quando si faceva la fila nel bagno di Roma si parlava di trucco, a Milano invece si parlava di diritto». «Lei non mi disse di avere una relazione sentimentale con Bellomo ma si vedeva che era affascinata. Una volta mi disse: 'lui fa per me, lo seguirò per sempre». E’ quanto affermato dall’avvocatessa Valentina Noce parlando, davanti alla sezione disciplinare del Csm, di Francesca Palladini, una delle grandi accusatrici dell’ex consigliere del Consiglio di Stato -destituito perché faceva sottoscrivere alle studentesse delle clausole che comprendevano anche il dress code- e che sarebbe stata legata sentimentalmente al magistrato. Noce è stata ascoltata come teste della difesa nell’ambito del procedimento a carico di Davide Nalin, l’ex pm di Rovigo sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e stretto collaboratore di Bellomo.
GRANDI ACCUSATRICI DAVANTI AL CSM IL 9 MAGGIO - E’ fissata per il prossimo 9 maggio l'udienza della sezione disciplinare del Csm in cui verranno ascoltate Francesca Palladini e Carla Pernice, le grandi accusatrici di Francesco Bellomo, l’ex consigliere del Consiglio di Stato destituito per il contratto che faceva sottoscrivere alle studentesse che prevedeva tra le clausole un dress code. Le due verranno sentite nell’ambito del procedimento a carico di Davide Nalin, l’ex pm di Rovigo sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e stretto collaboratore di Bellomo.
· «Non cacciate il procuratore Rossi».
Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 22 ottobre 2019. A decidere sarà, domani, il plenum del Csm. Ma al momento il futuro del procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, sembra che sarà lontano dalla città del crac di Banca Etruria. La V Commissione del Csm, con 5 voti contro 1, si è pronunciata per la «non conferma» del pm che ha seguito in prima persona tutte le indagini sull' istituto aretino. Le ragioni elencate da Piercamillo Davigo, relatore della proposta di «non conferma», sono essenzialmente tre: la mancata segnalazione del potenziale conflitto d'interessi per la consulenza al Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi mentre stava indagando su Banca Etruria; l'assegnazione dei fascicoli su Etruria a sé stesso; non aver richiesto l'insolvenza dell' istituto dopo aver ricevuto la relazione degli ispettori di Bankitalia su Etruria, alla fine di febbraio del 2015. Unico voto a favore della conferma, quello del consigliere Marco Mancinetti (di Unicost, stessa corrente di Rossi). Che nella sua relazione sottolinea come tali accuse appaiano, anche alla luce delle date, come un travisamento dell' intera vicenda. Ad opporsi al rinnovo è anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha negato il suo «concerto» - non vincolante - alla nomina. Il magistrato, nominato procuratore capo di Arezzo nel 2014, è arrivato al termine del suo mandato quadriennale lo scorso anno ed è in attesa del rinnovo, che ha già avuto il via libera del Consiglio giudiziario di Firenze nel luglio del 2018. Dopo le notizie sul suo ruolo di consulente del governo e al tempo stesso titolare di indagini che, almeno potenzialmente, avrebbero potuto riguardare il padre di un membro del governo stesso (ovvero Maria Elena Boschi, allora ministro del governo Renzi e figlia di Pier Luigi, vicepresidente dell' istituto), il Csm aveva aperto un' istruttoria per valutare la possibile incompatibilità. Istruttoria archiviata e poi sospesa, prima di essere definitivamente archiviata, dopo che erano emerse una serie di richieste di archiviazione da parte dello stesso Rossi per procedimenti a carico di Boschi.
Da corriere.it il 24 ottobre 2019. Non confermato nel suo ruolo alla guida della procura di Arezzo Roberto Rossi. In plenum al Csm passa con 16 voti, contro 4, e con un astenuto, la proposta di maggioranza della commissione per gli incarichi direttivi. Secondo la delibera - il relatore è Piercamillo Davigo - Rossi avrebbe compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine». E questo per aver proseguito l’incarico di consulenza presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, che gli era stato conferito con il governo Letta e confermato dal successivo esecutivo, anche dopo l’apertura dell’indagine su Banca Etruria del cui consiglio di amministrazione faceva parte Pierluigi Boschi, padre dell’allora ministro Maria Elena. Rossi lunedì aveva inviato al Palazzo dei Marescialli una memoria in cui parla di un «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti».
Csm, “condannato” Rossi, non sarà più procuratore. Giovanni M. Jacobazzi il 25 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il magistrato accusato di “non indipendenza”. Secondo la commissione per gli incarichi ( relatore Davigo) la toga di Arezzo aveva subito «impropri condizionamenti» quando era a palazzo Chigi. La mano dura, durissima, a Palazzo dei Marescialli. Roberto Rossi non è più il procuratore di Arezzo. Il Plenum ha disposto ieri la sua decadenza dall’incarico. Il magistrato aveva provato a resistere, rispondendo alle contestazioni con una articolata memoria. Secondo la Commissione per gli incarichi direttivi, relatore Piercamillo Davigo, Rossi aveva compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine». E questo per aver proseguito l’incarico extragiudiziario di consulenza presso la Presidenza del Consiglio dei ministri anche dopo l’apertura dell’indagine su Banca Etruria del cui cda faceva parte Pier Luigi Boschi, padre dell’allora ministro per le Riforme, Maria Elena. Rossi aveva parlato di «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti», ricordando di essere uscito dal Palazzo Chigi il 31 dicembre 2015, prima del fallimento della banca, datato 11 febbraio 2016. Nessuna contemporaneità e nessuna gestione irrituale del procedimento sul crac della banca toscana: non averne chiesto inizialmente l’insolvenza fu, secondo Rossi, perché Banca d’Italia tentava ancora il salvataggio dell’istituto di credito con l’amministrazione straordinaria. Per quanto concerne l’autoassegnazione del fascicolo, il procuratore aveva spiegato che gli pervenne in base ad un meccanismo di routine, come magistrato dell’area economica. A nulla sono servite, dunque, le manifestazioni di solidarietà dei colleghi e del personale amministrativo della Procura. Il Csm, anzi, sembra si sia molto irrigidito, in particolare per quanto riguarda le attestazioni di stima da parte dell’avvocatura aretina. La decisione del Plenum segna un importante cambio di passo. Un messaggio chiaro a tutti i procuratori e presidenti di Tribunale. È un caso più unico che raro che un dirigente venga rimosso nonostante il parere favorevole, come in questo caso, del Consiglio giudiziario, l’organo ausiliario del Csm nel distretto che, a stretto contatto con i magistrati del territorio, conosce di ognuno pregi e difetti. Rossi comunque, ha già fatto sapere di voler impugnare la decisione del Csm al Tar.
Il procuratore Rossi: «Io, punito ingiustamente dal Csm, onorerò la toga come sempre». Parla il magistrato di Arezzo appena “rimosso”, che incassa la solidarietà dei colleghi. Giovanni M. Jacobazzi il 26 Ottobre su Il Dubbio. «Le attestazioni di stima che sto ricevendo in queste ore mi rincuorano e mi spingono ad andare avanti con maggiore forza», dichiara al Dubbio Roberto Rossi, ormai ex procuratore di Arezzo, all’indomani della decisione del Plenum di non confermarlo nell’incarico. «L’amarezza – prosegue – è tanta ma, come vede, sono comunque in udienza per svolgere regolarmente il mio lavoro». Quando lo contattiamo, infatti, il magistrato è in aula per rappresentare la pubblica accusa in un processo molto delicato, quello sugli illeciti commessi nella realizzazione della variante stradale di Arezzo. Fra i messaggi di vicinanza, il più apprezzato, ci tiene a ricordarlo Rossi, viene dai suoi collaboratori. «Nel doveroso e assoluto rispetto per le decisioni dell’organo dì autogoverno, riteniamo di manifestare al dott. Rossi la nostra gratitudine per l’impegno e la disponibilità profusi in questi anni per organizzare e guidare l’ufficio. Lo ringraziamo per le sue doti di umanità e per la capacità di ascolto e condivisione dei problemi di ciascuno». Così i sette pm della Procura di Arezzo. «La decisione del Csm è – fanno notare al Dubbio fonti qualificate del Palazzo di Giustizia toscano incomprensibile: non si capisce come il Csm possa aver, sulla base degli stessi elementi che erano stati oggetto di una archiviazione per incompatibilità ambientale, decidere la non riconferma del procuratore». Un classico caso di ne bis in idem. La pendenza di un procedimento disciplinare, per altro, non sarebbe neppure ostativa per la riconferma in un incarico direttivo. In questo caso l’archiviazione era stata piena. Il tema riguardava l’eventuale interferenza della consulenza con la Presidenza del Consiglio voluta dall’allora governo Letta e poi Renzi con la gestione del procedimento su Banca Etruria nel cui cda sedeva il padre del ministro delle Riforme dell’epoca, Maria Elena Boschi. Fra le “anomalie” di questa vicenda, il mancato concerto ( il giudizio per la riconferma, ndr) da parte del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, contente giudizi di valore, appunto, sulla conduzione delle indagini sul crac di Banca Etruria. Giudizi di valore ripresi, poi, anche dal Csm per motivare la mancata riconferma. «L‘autonomia e l’indipendenza del magistrato nell’esercizio dell’attività giurisdizionale è sacra», fanno notare sempre dal Palazzo di Giustizia di Arezzo. A microfoni spenti, molti magistrati, si spingono anche oltre. «La non riconferma di Rossi è la prima conseguenza del Palamaragate: l’anti politica ha ormai contagiato anche il Consiglio superiore della magistratura», dichiara chi conosce bene le dinamiche di Palazzo dei Marescialli. L’obiettivo è quello di cancellare un’intera stagione della magistratura associata. Non è un caso che il relatore della delibera con cui Rossi è stato messo alla porta sia stato Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite, da sempre fustigatore dei costumi dei politici e, ora, delle toghe. A tremare adesso sono tanti direttivi e semi direttivi nominati durante la scorsa consiliatura, quella guidata da Giovanni Legnini. Una consiliatura che nominò oltre mille fra procuratori e presidenti di Tribunale. Per tanti di loro la riconferma è divenuta un terno al lotto. Il muro che è caduto, a tal proposito, è quello legato al parere espresso dal Consiglio giudiziario. L’organo a stretto contatto con i magistrati che operano negli uffici giudiziari. Ai Consigli giudiziari si vagliamo le segnalazioni sul lavoro delle toghe e rapporti con avvocatura e colleghi. Nel caso di Rossi il parere era più che lusinghiero. Ma, come si è visto, non è stato sufficiente. A memoria non si ricorda un parere del Consiglio giudiziario smentito dal Csm. Tutta materia, da domani, per il Tar.
Ora i consiglieri del Csm ci spieghino perché non hanno confermato Rossi. Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena, il 29 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Non averlo fatto comporta la creazione di un precedente, in forza del quale sarà consentito al ministro della Giustizia di intervenire su valutazioni discrezionali che competono solo al Csm. Caro direttore, immagino che i sempre puntuali notiziari dei gruppi consiliari vorranno fornirci adeguate spiegazioni in ordine al voto pressoché compatto dei consiglieri togati ( tutti tranne Ciambellini, Grillo e Mancinetti), unito a quello dei laici ( tutti tranne Cerabona, al quale è stato addirittura negato un rinvio per approfondire meglio la vicenda), sulla mancata conferma del dott. Roberto Rossi nell’incarico di Procuratore della Repubblica di Arezzo. La spiegazione è quanto mai necessaria perché, al di là del merito della vicenda, sul quale pure occorre spendere qualche parola e non solo per l’eccezionalità della decisione ( le mancate conferme, fin dall’entrata in vigore della legge n. 160 del 2016, si contano sulla punta delle dita e basta una sola mano), alla proposta di conferma, non approvata dal plenum, si accompagna un concerto negativo del ministro della Giustizia che pare andare ben oltre le prerogative riconosciute allo stesso in tema di nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari. Come può evincersi dagli atti del plenum, il ministro della Giustizia giustifica il concerto negativo sulla base delle modalità di ottenimento da parte del dott. Rossi di un incarico presso il DAGL, delle modalità di assegnazione delle indagini sulla banca Etruria e di gestione della relativa attività investigativa, quindi su profili ben diversi da quelli attinenti all’organizzazione dei servizi della giustizia, sui quali solo può vertere l’interlocuzione del guardasigilli, sulla base di quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 11 l. n. 195 del 1958 e 45 d. lgs n. 160 del 2006, letti alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale n. 379 del 1992 e n. 380 del 2003. Penso che, al di là della volontà, a mio avviso assolutamente ingiustificata, di non confermare il dott. Rossi, il CSM aveva il dovere istituzionale di “reagire” ad un atto di concerto di tal fatta ( non oso immaginare quale imbarazzo debbano provare i magistrati che al Ministero rivestono posizioni apicali), siccome lesivo delle sue prerogative costituzionali in tema di conferimento degli incarichi direttivi e costituente un vero attentato all’autonomia ed all’indipendenza della Magistratura. Non averlo fatto comporta la creazione di un precedente, in forza del quale sarà consentito al ministro della Giustizia di intervenire su valutazioni discrezionali che competono solo al CSM. La spiegazione da parte dei consiglieri è poi necessaria, dato che in precedenza, la maggior parte degli stessi aveva votato a favore della conferma del dott. Rossi. Dal diario di Area del 26.7.19 pare addirittura evincersi un voto modificato in conseguenza del mancato concerto del ministro. Il merito della vicenda può facilmente evincersi dalla lettura combinata delle due proposte portate all’attenzione del plenum, potendosi rilevare molto facilmente la realtà dei fatti e l’occasione persa dall’organo di governo autonomo della Magistratura di difendere un magistrato, strumentalmente attaccato per motivi politici. Il dott. Rossi non è stato confermato nell’incarico nonostante tutti i parametri previsti dalla legge e dalla normativa secondaria in tema di conferma nell’incarico direttivo fossero ampiamente positivi, come risulta dal parere favorevole all’unanimità espresso dal CG di Firenze, notoriamente non particolarmente generoso nelle sue valutazioni. Non è stato confermato perché è stato attinto da una campagna mediatica senza precedenti a seguito della quale è stata aperta una pratica in prima commissione per incompatibilità ambientale ed un procedimento pre- disciplinare; entrambe le iniziative si sono rivelate del tutto infondate, con esclusione di qualsiasi addebito disciplinare o profilo di incompatibilità ambientale o funzionale. Mi sarei aspettato che il CSM, piuttosto che entrare nel merito delle indagini svolte, come a mio avviso ha indebitamente fatto il ministro, avesse difeso questo Magistrato, in favore del quale tutti gli operatori, dagli avvocati, al personale amministrativo ed ai magistrati, hanno espresso significative attestazioni di stima.
Magistrati e avvocati: «Non cacciate il procuratore Rossi». La toga che guida gli uffici giudiziari di Arezzo rischia la rimozione a causa del suo “presunto” legame con la famiglia dell’ex ministra Boschi. Giovanni M. Jacobazzi il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Salvo colpi di scena dell’ultima ora, questa mattina il Plenum del Csm non confermerà nell’incarico il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, per il modo in cui gestì il procedimento sul crac di Banca Etruria ed i legami con la famiglia Boschi. La decisione smentisce di fatto l’operato della scorsa consiliatura che escluse irregolarità nella trattazione del fascicolo e nei rapporti con Maria Elena Boschi, a quel tempo ministro per le Riforme, ed il padre Pier Luigi, vice presidente della banca aretina. «Allo stato non ci sono gli estremi per l’apertura di una pratica per incompatibilità ambientale o funzionale: abbiamo ascoltato un magistrato sereno che dà prova di imparzialità», disse verso la fine del 2015, quando esplose il caso, l’allora presidente della Prima commissione del Csm, il laico montiano Renato Balduzzi, al termine dell’audizione di Rossi. Secondo Balduzzi, Rossi aveva risposto "in modo convincente ed esauriente" a tutte le domande, «manifestando la disponibilità a chiarire tutti gli aspetti sia sull’incarico di consulenza sia sulle indagini in essere. Ed anche manifestando serenità, imparzialità ed indipendenza rispetto ai procedimenti di cui si occupa». Riguardo alla sua consulenza al Dipartimento Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, Rossi sottolineò infatti di non aver mai ritenuto che ci fossero state interferenze anche perché non c’erano componenti della famiglia Boschi tra gli indagati. «Nella nostra valutazione puntualizzò poi il togato di Md Piergiorgio Morosini – ha anche pesato il fatto che l’incarico di consulenza si chiuderà il 31 dicembre. Inoltre è importante tutelare le indagini in corso, per i risparmiatori che hanno subito un danno e che stanno attendendo risposte». Secondo l’attuale Csm, relatore in Commissione Piercamillo Davigo, Rossi invece non può essere confermato perché avrebbe compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine». E questo per aver proseguito l’incarico extragiudiziario di consulenza presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, che gli era stato conferito con il governo Letta e confermato dal successivo esecutivo, anche dopo l’apertura dell’indagine su Banca Etruria del cui cda faceva appunto parte Pier Luigi Boschi. Rossi in una memoria ha chiarito ogni aspetto degli addebiti definendo «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti» ciò che gli viene contestato e ricordando di essere uscito dal Dagl il 31 dicembre 2015, prima dunque del fallimento della banca, che è datato 11 febbraio 2016. Non ci fu, quindi, contemporaneità. Alla contestazione di essersi autoassegnato il fascicolo, il procuratore ha spiegato che il primo fascicolo, quello sull’ostacolo alla vigilanza e che non riguardava Boschi, gli pervenne in base ad un meccanismo di routine, come magistrato dell’area economica. Il non aver chiesto inizialmente l’insolvenza di Banca Etruria, prosegue Rossi, fu perché la Banca d’Italia tentava ancora il salvataggio dell’istituto di credito dal fallimento con l’amministrazione straordinaria. Rossi ha ricevuto in queste ore la solidarietà dei colleghi dell’ufficio e dell’avvocatura aretina. Piero Melani Graverini, già presidente dell’ordine degli avvocati di Arezzo e ora consigliere del Cnf, ha affermato come «sia difficile trovare uno con le sue qualità: con lui la porta è sempre aperta, il confronto costante. Cosa può sperare di meglio un avvocato?». Ieri sera il personale amministrativo della Procura di Arezzo si riunito in una assemblea spontanea, auspicando che «il dottor Rossi possa continuare a svolgere il proprio ruolo», ricordando come una recente ispezione ministeriale abbia certificato che l’ufficio «ha funzionato con costante armonia nonostante le carenze di organico, fornendo un puntuale servizio alla cittadinanza».
Il favorito del signor Rossi. Il magistrato che si è occupato dei casi giudiziari di Pier Luigi Boschi è stato allontanato dalla Procura di Arezzo dal Csm per "compromissione del requisito di indipendenza". Antonio Rossitto il 7 novembre 2019 su Panorama. Il procuratore smemorato ha perso anche la strada maestra. Dopo lunga e impervia istruttoria, Roberto Rossi è costretto a lasciare Arezzo, già feudo di Maria Elena Boschi. L’ha deciso il Csm, letta l’infuocata relazione di Pier Camillo Davigo, principe degli inquisitori di Palazzo dei Marescialli. Quindici pagine che ricostruiscono una storia in cui le gesta del magistrato s’aggrovigliano con il deposto governo renziano. Il tramite è Pier Luigi Boschi, padre della vestale di Italia Viva: come rivelato da Panorama a gennaio 2016, il pm aveva più volte indagato e chiesto la sua archiviazione. Proprio mentre avanzava l’inchiesta su Banca Etruria, che in seguito avrebbe coinvolto pure papà Boschi. E proprio mentre il Dipartimento affari giuridici della Presidenza del consiglio decideva di dare a Rossi due consulenze. La prima da 2.500 euro, per 21 giorni di lavoro. E la seconda da 5 mila euro. «Compromissione del requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti» scrive la quinta commissione del Csm. Deliberando a stragrande maggioranza l’allontanamento di Rossi. Una decisione poi largamente approvata lo scorso 24 ottobre dal plenum di Palazzo dei marescialli. Gli «impropri condizionamenti» del resto erano già stati confermati dall’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il 4 giugno 2019, viste «le molteplici criticità», l’ex guardasigilli negava la riconferma a Rossi. L’incarico extragiudiziale ottenuto in epoca renziana «avrebbe potuto coinvolgere un familiare di un importante esponente del governo», come in effetti accadde a febbraio 2016. Dunque, il procuratore doveva rinunciare alla consulenza. O, in alternativa, al fascicolo. Per capire meglio l’ennesimo groviglio tra politica e magistratura bisogna però tornare all’agosto 2013, quando Rossi riceve il primo incarico, a titolo gratuito, mentre il premier è Enrico Letta. Il togato assicura al Csm: nessuna interferenza sui provvedimenti in corso. Permesso accordato. Ma a gennaio 2014, come ricostruisce la delibera della quinta commissione, cominciano le indagini pure su Banca Etruria. E a maggio 2014, Boschi senior, mentre la figlia è ministro, diventa vice presidente dell’istituto. Poco dopo, a luglio, scade la consulenza del magistrato. Ma anche il nuovo governo vuole continuare a servirsi dei suoi servigi. Gli viene proposta una proroga: stavolta però è previsto un compenso di 2.500 euro. Cifra tutt’altro che disprezzabile, se parametrata alla modesta durata dell’incombenza: appena 21 giorni, dal 10 al 31 dicembre 2014. E in cosa consiste questa prestigiosa e irrinunciabile consulenza? Pareri su diritto e procedura penale. Servivano solo a «colorare» il curriculum, derubricherà l’interessato. Versione che convince poco il Csm. Se era davvero così irrilevante, perché il pm non ha rinunciato alla mansione? Nella relazione Rossi viene criticato anche per la scelta di autoassegnarsi i procedimenti su Etruria. Scelta, spiega però lui al Csm, dettata dal buon animo: «Ho pensato che tra i compiti del procuratore ci sia quello di prendersi le rogne e non di distribuirle ai sostituti». Durante le indagini, Rossi riceve un’altra proroga dal governo renziano. Con un decreto del 24 febbraio 2015, firmato dalla Presidenza del consiglio, viene concessa la terza consulenza, dal 24 febbraio al 31 dicembre 2015. Oltre alla durata, pure l’importo lievita: 5 mila euro. Il doppio di quanto elargito in precedenza. Il bubbone scoppia proprio mentre quell’incarico volge al termine. A fine 2015 l’ombra del conflitto d’interesse s’allunga sul magistrato e il Csm apre un fascicolo per valutare il suo trasferimento. Rossi, ascoltato a Palazzo dei Marescialli il 28 dicembre 2015, dichiara però di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi. Il procedimento s’avvia così placidamente verso l’archiviazione. Ma il 20 gennaio 2016 viene diffusa l’anticipazione di un’inchiesta di Panorama: «Da cui emergeva» scrivono adesso i cinque membri del Csm «la pregressa trattazione da parte dello stesso Rossi di procedimenti penali in cui risultava indagato lo stesso Boschi». Panorama rivela: il pm in passato ha investigato sul padre del ministro, chiedendo poi l’archiviazione. I reati ipotizzati sono turbativa d’asta, estorsione e dichiarazione infedele per l’acquisto della Fattoria di Dorna, un grande podere vicino ad Arezzo. Nell’inchiesta il procuratore ordina persino una perquisizione nella casa di Laterina. E i finanzieri, durante l’operazione, identificano anche moglie e figli dell’ex banchiere. Peccato che il magistrato al Csm avesse assicurato: «Dei Boschi non conosco neanche la composizione del nucleo familiare». Boschi senior viene indagato da Rossi nel gennaio 2010. Il suo ruolo nell’acquisto della tenuta è determinante. Prima, nell’ottobre 2007, da presidente del cda della Valdarno superiore, compra i 303 ettari per 7,5 milioni. Un mese più tardi la sua cooperativa indica che l’acquisto sarà fatto dalla Fattoria di Dorna, azienda agricola creata il 29 novembre 2007. Boschi ne è socio al 90 per cento: la quota, sei mesi più tardi, scenderà al 34 per cento. Le altre azioni sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare calabrese. La Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, lo segnalava come referente, assieme alla famiglia, «di organizzazioni malavitose riconducibili alla ’ndrangheta». La società di Boschi e Saporito, acquistata la tenuta, cede alcuni lotti a privati e istituzioni. Una di queste compravendite convince Rossi a contestare a Boschi senior anche il reato di estorsione. Avrebbe avuto da un acquirente 250 mila euro in nero. Un reato implicitamente ammesso dallo stesso Boschi che, ad aprile del 2014, paga una multa di quasi 40 mila euro all’Agenzia delle entrate. Dopo le rivelazioni di Panorama, l’istruttoria sul pm viene prima riaperta e poi richiusa. E a luglio 2018 il Consiglio giudiziario di Firenze dà il via libera alla conferma del procuratore. La resa dei conti però è stata solo rinviata. Rossi ha annunciato ricorso al Tar. Si dice vittima di una decisione «ingiusta, illogica e contraddittoria». Quella consulenza, sostiene, s’era conclusa prima dell’inchiesta su Etruria. Intanto, il ruolo di Boschi senior nel crac della banca continua a sfumarsi. Due settimane fa, è stata archiviata l’accusa di bancarotta fraudolenta per la mancata fusione con la Popolare di Vicenza. E a febbraio 2019 l’ex vicepresidente dell’istituto era uscito di scena dall’indagine per «falso in prospetto» e «ricorso abusivo al credito». Restano aperti filoni minori. Uno riguarda la liquidazione dell’ex direttore generale Luca Bronchi, per cui però la procura aretina ha chiesto un’altra archiviazione. Mentre lo scorso giugno è stata chiusa l’inchiesta su alcune consulenze da centinaia di migliaia di euro. Un altro rivolo destinato ad asciugarsi, sussurrano nel palazzo di giustizia aretino. Ma Rossi, quel giorno, potrebbe essere già lontano.
· La Procura di Roma insiste: processate l’ex pm Robledo.
La Procura di Roma insiste: processate l’ex pm Robledo. Il magistrato era stato prosciolto dal gip dall’accusa di vilipendio del Senato, dopo la denuncia di Gabriele Albertini. Ma non è detta l’ultima parola, scrive Maurizio Tortorella il 20 febbraio 2019 su Panorama. L’11 gennaio era stato “graziato” dal giudice dell’udienza preliminare di Roma, Valerio Savo. Ma la Procura della Capitale non si arrende e insiste a chiedere il rinvio a giudizio per Alfredo Robledo. Appena abbandonata la toga (alla fine di dicembre ha lasciato la Procura di Torino, dov’era pubblico ministero, ed è andato in pensione) l’ex magistrato, che anni fa era divenuto celebre per alcune inchieste anticorruzione e per la “guerra” aperta con l’ex procuratore di Milano, Alfredo Bruti Liberati, continua a rischiare un processo per l’accusa di vilipendio degli organi costituzionali. Dall’ottobre 2016, infatti, Robledo è accusato di aver spedito a una serie di destinatari un messaggio dal telefonino contro una decisione della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. Nel messaggio, diffuso via Internet e via Whatsapp, Robledo contestava duramente la decisione appena presa dalla Giunta, che aveva votato No alla richiesta di processare l’ex senatore ed ex sindaco di Milano Gabriele Albertini. Nel messaggio, si leggeva tra l’altro: “Si è inventata la bestialità della immunità retroattiva del senatore Albertini nel processo che lo vede imputato di calunnia ai miei danni”. Robledo definiva quella decisione “un abuso da casta bello e buono”, e chiedeva ai destinatari del messaggio di partecipare in massa a una sottoscrizione per opporsi al provvedimento della Giunta. Quel messaggio, però, era arrivato a qualcuno che lo aveva reso pubblico, tanto che Albertini ne aveva avuto notizia. Era così scattata una denuncia, arrivata al pm di Roma, Sergio Colaiocco. L’11 gennaio scorso, arrivati finalmente dopo oltre due anni all’udienza preliminare che avrebbe dovuto imbastire il processo vero e proprio, il giudice Savo aveva stabilito di non dover rinviare a giudizio Robledo. Ma la Procura di Roma ora torna alla carica, con un ricorso alla Corte d’appello: “Il giudice” vi si legge “ha erroneamente ritenuto che gli elementi di prova raccolti nel corso delle indagini abbiano una consistenza che li rende del tutto inidonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Il pm Colaiocco scrive letteralmente che il giudice Savo, nel caso Robledo, avrebbe sbagliato più volte. Il suo primo errore riguarda la “pubblicità” che secondo il giudice non avrebbe avuto il messaggio di Robledo. “Nel caso in esame” scrive Colaiocco “l’appello a firmare la petizione è per sua stessa natura rivolto a una pluralità indeterminata di persone, una circostanza avvalorata dal mezzo di diffusione, cioè la rete Internet”. Il pm conferma poi che “la diffusione, per opera diretta dell’imputato, è stata operata nei confronti di più persone”. Il giudice aveva prosciolto Robledo per un secondo motivo, e cioè aveva ritenuto che non si configurasse il reato di vilipendio degli organi costituzionali: a suo dire, quel tipo di delitto può riguardare soltanto le due assemblee legislative, e non le loro articolazioni interne come la Giunta per le autorizzazioni a procedere. Il pm ribatte, al contrario, che “questa visione non rende giustizia alla circostanza che la Giunta (…) rientra in senso proprio e pieno nel Senato della Repubblica”. Il terzo motivo addotto dal giudice per escludere il processo contro Robledo era stata l’asserita continenza delle frasi utilizzate dal magistrato nel suo messaggio. Ma anche su questo il pm Colaiocco ha argomenti di contestazione: “Appare a dir poco singolare” scrive “ritenere che rientri nel confine della continenza l’uso delle seguenti espressioni: “Non possono sguazzare nei loro privilegi, ricattare le istituzioni con la loro posizione e rimanere sempre impuniti””. Robledo aggiungeva altre espressioni, parlando di “crisi della democrazia”, di “voto di scambio, una cosa che fa orrore”. La parola, adesso, passa alla Corte d’appello.
La vicenda del giudice Robledo, scrive Aldo Funicelli su Uno e Nessuno lunedì 15 gennaio 2019. Quando era a Milano, il giudice Robledo aveva rinviato a giudizio tanti consiglieri per le spese pazze: ha vinto tante battaglie, ma ha perso quella che l'ha visto contrapposto contro il CSM. Iacona ha raccontato la sua vicenda, in un intervista al giudice (oggi a Torino), che era stata già raccontata nel libro “Palazzo d'ingiustizia”. La sua storia insegna quanto è difficile oggi esercitare in autonomia i processi, applicare la legge uguale per tutti, la relazione malata nel CSM tra magistrati e politica. A Milano la procura ha messo processo un presidente del Consiglio: qui si è fatto le ossa Robledo, che ha lavorato con De Pasquale per l'inchiesta sui diritti televisivi, sul fascicolo The family della famiglia Bossi. Nel 2010 iniziano i suoi scontri con Bruti Liberati, nuovo procuratore capo: Robledo ha raccontato di questa guerra al CSM nel 2014, le ingerenze del capo sui fascicoli aperti, il ritardo dell'iscrizione di politici importanti nel registro degli indagati (come Podestà, ex presidente della provincia). Era in gioco il controllo della legalità, con la visione di Bruti Liberati: si viola il principio di uguaglianza, entrano le relazioni nel lavoro del magistrato, questioni di opportunità politica che nulla dovrebbero avere a che fare col lavoro di un magistrato. Se l'obbligatorietà cade, nel lavoro dei magistrati cade il controllo della legalità, si inizia a ragionare su relazioni degli imputati: un fatto quasi eversivo dentro la magistratura. “Tu ricordati che sei stato nominato da un voto di magistratura democratico” gli rinfacciò una volta l'allora capo: ma nella valutazione di un giudice non possono entrare le correnti dei magistrati. Una battuta di spirito, la difesa di B.L. che però non ha accettato di spiegare meglio la questione col giornalista. Tra i casi citati nel libro, il fascicolo sulla vendita delle azioni SEA che coinvolgeva Gamberale. La storia di alcuni poliziotti della Mobile che taglieggiavano gli spacciatori: Bruti Liberati chiese a Robledo di fare le indagini con la polizia. L'inchiesta sui presunti poliziotti infedeli non approda da nessuna parte: le intercettazioni falliscono per problemi tecnici. Una brutta storia che continuerebbe ancora oggi: l'avvocato Piazza ha raccontato che la piazza di Rogoredo sarebbe nelle mani di questi poliziotti. Altro fascicolo, quello su poliziotti della polfer che rubavano sulle perquisizioni di piccoli spacciatori: droga che veniva presa e rivenduta, per esempio, senza dichiararla tutta. Si arrivò a condanna e il Questore si lamentò: “perché nessuno mi ha detto niente”. C'è poi la storia di Expo 2015: l'appalto più importante fu vinto dalla Mantovani con un ribasso forte, Robledo aveva messo sotto intercettazione i principali dirigenti di questa operazione. Ma poi avrebbe subito pressioni da parte del procuratore capo, per sospendere le intercettazioni. Viene poi tagliato fuori dalle inchieste: le inchieste su Expo furono gestite dall'area omogenea e a fine manifestazione arrivarono i ringraziamenti dell'allora presidente Renzi. Le indagini sono state fatte col freno a mano? C'è stata una moratoria da parte della procura su Expo? Ne sono convinti due cronisti di giudiziaria, Cimino e D'Alessandro, che confermano questa notizia riportando voci da magistrati e da imprenditori che volevano denunciare cose che non funzionavano sugli appalti. Bisogna considerare gli effetti delle inchieste che si aprono: di questo sono convinti Legnini e Vietti, due ex vicepresidenti del CSM. La procura di Milano avrebbe solo applicato buon senso: così Robledo si vede respinto l'esposto, arriva poi una lettera di Napolitano al CSM (dove si dice che il capo ha sempre ragione, i sostituti non hanno autonomia). Un intervento fuori luogo, sostiene il procuratore di Catanzaro Gratteri: il potere vero cerca sempre di condizionare chi sta sotto. Robledo finì a Torino, gli furono tolte le funzioni giudicanti: nell'intervista ha puntato il dito contro lo strapotere dei vertici delle correnti dei magistrati, sulle nomine dentro la magistratura. Se vuoi far carriera devi essere vicino, raggiungibile: un sistema mafioso lo considera il giudice del Tribunale di sorveglianza di Verona Mirenda. “Il silenzio assordante dei magistrati è la cosa che più mi addolora”, la chiusura di Robledo. Anche su questo, la politicizzazione delle correnti, il condizionamento della politica, verrà messa alla prova la riforma che il ministro Bonafede ha in mente.
IL LIBRO DI IACONA, L’INGIUSTIZIA NEI TRIBUNALI IN "PRESA DIRETTA", scrive Manuela D'Alessandro il 16 aprile 2018 su "glistatigenerali.com". “Ricordati che al plenum sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, un voto di Magistratura Democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al Csm che Robledo mi rompeva i coglioni e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata nominata la Gatto che poi avremmo sbattuto alle esecuzioni” disse il procuratore Edmondo Bruti Liberati al suo aggiunto Alfredo Robledo che replicò: “Cosa c’entra la corrente di Md con la funzione giurisdizionale, io sono un magistrato, ho giurato sulla Costituzione. Mi meraviglio che proprio tu dica certe cose”. “Sappiano tutti che il mondo va così” la controreplica… “Il tuo va così, non certo il mio” chiuse Robledo. “Palazzo d’ingiustizia”, 208 pagine a firma di Riccardo Iacona, giornalista e conduttore tv, dimostra che quando c’è la possibilità di sapere le cose emerge che la magistratura si delegittima da sola con i suoi comportamenti. E davanti al Csm Bruti poi spiegherà: “Io ho fatto una battuta di spirito… Robledo sembrava lamentare di non essere da me abbastanza amato e dissi che era tanto amato che Md lo aveva entusiasticamente votato. Le frasi in questione è meglio per la dignità di tutti che rimangano dove sono”. Insomma il procuratore, in evidente imbarazzo, invocava gli omissis. “Io penso che questa storia non sia mai stata raccontata per quello che ha realmente significato. Perché non è solo la storia di Alfredo Robledo (declassato nei giorni scorsi da aggiunto a pm a Torino, ndr), è la storia della giustizia italiana e di come non viene esercitata” spiega Iacona. “Altro che scontro tra due personalità esuberanti! Lo scontro è stato ed è molto più importante dei due contendenti e ci riguarda molto da vicino. In ballo c’è l’autonomia del magistrato quando amministra la giustizia, e non è cosa da poco”. Insomma se Robledo non avesse presentato l’esposto al Csm contro il suo capo non avremmo saputo molte cose. Il libro è basato su più incontri tra l’autore e Robledo a partire dai primi di agosto del 2017, da cui sono scaturite decine di ore di registrazione. Ma anche su documenti e resoconti strenografici resi dai protagonisti nel corso delle audizioni davanti al Csm. “Ho chiesto un’intervista ai colleghi magistrati citati da Robledo nei due esposti – scrive Iacona – entrambi non hanno risposto alle mie email”. Ha parlato, e tanto, Bruti anche se non ho voluto domande dirette sui contenuti dell’esposto di Robledo. Gliene va dato atto, così come di non avere mai querelato nessuno che l’ha criticato per le sue scelte quando era procuratore. “L’Expo non doveva esserci, ma si è fatta grazie a Cantone e Sala, grazie a un lavoro istituzionale d’eccezione, al prefetto e alla procura di Milano che ringrazio per aver gestito la vicenda con sensibilità istituzionale” sono parole dette da Matteo Renzi allora capo del governo il 5 agosto 2015 e che saranno poi ripetute a novembre. Il 24 parile 2015 una settimana prima dell’inaugurazione di Expo questo blog, come viene ricordato nel libro, pubblicava un articolo dal titolo: “La moratoria sulle indagini della procura di Milano per Expo”. A Iacona Bruti dice: “Senza quella impostazione del nostro lavoro tale risultato avrebbe rischiato di non realizzarsi. Se si vuole chiamare questo ‘sensibilità istituzionale’ io sono d’accordo. Abbiamo protetto qualcuno? Aspetto che i giornalisti di inchiesta mi dicano chi avremmo protetto, non con chiacchiere ma con elementi precisi utilizzabili processualmente”. E i ringraziamenti di Renzi? “Io non entro nella testa degli altri. Che cosa volesse dire, dovete chiederlo a Renzi”. Iacona ricorda pure “l’intervento a gamba tesa” di Giorgio Napolitano Capo dello Stato secondo il quale “non si possono superare gli elementi di disordine e tensione che si sono creati a Milano senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al capo dell’ufficio”. Cioè, in parole povere, il capo della procura è il padrone e nessuno rompa le scatole. Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è stato mandato a farsi benedire perché la magistratura ha scelto di essere parte del sistema paese e di salvaguardare Expo a tutti costi. Del resto Beppe Sala da amministratore di Expo assegna la ristorazione di due padiglioni a Oscar Farinetti senza gara pubblica. Indagato per abuso d’ufficio viene prosciolto senza nemmeno essere interrogato. Nella motivazione della procura si legge: “Sala favorì di fatto Farinetti ma senza averne l’intenzione, manca il dolo”. Amministratori pubblici, sindaci in testa, vengono processati e anche condannati per molto meno. A prosciogliere Sala provvide uno dei giudici che per i fondi di Expo giustizia contribuì alla scelta di non fare gare pubbliche affidandosi ad aziende “in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione”. Nel libro di Iacona si parla anche del famoso fascicolo “dimenticato” per sei mesi in un cassetto e riemerso a bocce tirate quando la gara d’asta per la Sea si era già svolta e in pratica non si potevano più svolgere indagini. Le carte arrivarono sul tavolo di Robledo troppo tardi per responsabilità esclusiva del suo capo. L’inchiesta fatta a tempo debito avrebbe messo in imbarazzo la neonata giunta di centrosinistra di Pisapia. Anche in questo caso “senso di responsabilità istituzionale”, ma stavolta senza ringraziamenti pubblici. Pensiamo a un pm che dimentica nel cassetto per sei mesi un fascicolo su Berlusconi. Buttano via la chiave della cella. A poche ora dall’uscita del libro, il giudice Andrea Mirenda – che ha denunciato nel libro “il tumore” delle correnti nella magistratura a Danilo Procaccianti, collaboratore di Iacona – è stato colpito da una richiesta di sanzione disciplinare inviata dall’ex membro del Csm Pierantonio Zanettin, attuale parlamentare di Forza Italia. (Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)
TUTTA LA VERITÀ. Alfredo Robledo a Libero, una bomba sulla magistratura: "Perché i giudici mi fanno paura", scrive Dino Bondivalli il 26 Febbraio 2019 su Libero Quotidiano. «Il mondo della giustizia? Oggi con gli occhi del manager lo guardo con maggiore preoccupazione di prima. Intanto perché qui da noi, come ho sempre sostenuto, il processo accusatorio non può funzionare, essendo un modello fatto per il mondo anglosassone, dove vige l'etica protestante che comporta l'assunzione diretta della responsabilità, e dove la percentuale dei processi che giungono a dibattimento varia tra il 5% e il 10%. Noto poi che tra i magistrati vi è sempre maggiore attenzione alla carriera, e sempre più spesso vengono emanate sentenze percepite come non equilibrate, e ricordo a me stesso che l'equilibrio è un requisito che per un magistrato viene ancora prima dell'onestà». Così l'ex Procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, che, nella nuova veste di manager di un’azienda privata, indossata dal mese di gennaio con l'addio alla magistratura e l'ingresso, con la carica di Presidente del Consiglio di amministrazione, nell' Impresa Sangalli, leader italiana nei servizi ambientali, con una presenza in più di 140 comuni e un totale di quasi 1.200 dipendenti, non è certo tenero nei confronti degli ex colleghi. E non solo a causa della sua vicenda personale. Trasferito nel 2014 dalla Procura di Milano al Tribunale di Torino, in seguito al violento scontro con l'allora Procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati (trasferimento per cui ha fatto ricorso alla CEDU), pur confermato dalla Corte di Cassazione nel ruolo di Procuratore aggiunto nel capoluogo piemontese, Robledo è stato destinato a occuparsi di affari dell'immigrazione e di questioni amministrative. Ha così deciso di lasciare la magistratura due anni prima di raggiungere l'anzianità necessaria per la pensione, confrontandosi con una nuova vita, in un'azienda che solo pochi anni fa è stata coinvolta in un'inchiesta per corruzione.
Che effetto le fa questa nuova esperienza?
«In realtà questa esperienza è una sorta di completamento della mia vita precedente, perché continuo a lavorare per garantire la legalità, come ho sempre fatto in passato. Sono andato via dalla magistratura perché non ero più nelle condizioni di fare quello che avevo sempre fatto, e restare due anni in una condizione di limbo non fa parte del mio carattere. Nell'ambito di questa decisione, chiacchierando tra amici mi sono arrivate alcune proposte lavorative, tra cui anche quella di fare l'avvocato, che però non mi avrebbe messo a mio agio. Alla fine ho avuto questa proposta e ho pensato che cambiare lavoro e trovarmi di fronte ad altre scelte, altre responsabilità, mi avrebbe fatto bene».
Quanto ha pesato sulla sua scelta la storia recente dell'azienda e la vicenda giudiziaria che l'ha interessata?
«Se ho accettato la proposta è perché questa società, dopo avere avuto un incidente di percorso, ha avuto la capacità di rialzarsi, rimettersi in moto e fare bene. Questa è una realtà importante che, pur avendo quasi 1.200 dipendenti e 25 centri in tutta Italia, ha mantenuto una struttura familiare. La seconda generazione ha deciso di continuare a lavorare adeguando la società ai criteri di massima legalità: a dicembre hanno ottenuto il rating massimo di legalità, tre stelle, previa interlocuzione con l'Anac. Inoltre, i dipendenti sono rimasti al loro posto anche nei momenti di difficoltà, nonostante alcuni abbiano ricevuto altre offerte, a dimostrazione di un forte attaccamento a un'impresa che rappresenta un esempio positivo per il mondo industriale in un momento in cui la politica sembra obbedire più alle logiche di pancia che a quelle della ragione».
Si riferisce in particolare alla legge anticorruzione voluta dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede?
«Anche. Ritengo che se un'azienda ha sbagliato è giusto che affronti le conseguenze in sede penale e che debba risarcire il danno, ma se poi decide di voltare pagina e ricostruire le strutture nel segno della legalità, deve poter ripartire ed essere premiata. Il Legislatore deve anche considerare che c' è un mondo del lavoro dietro queste vicende che non ha nessuna responsabilità. I dipendenti e gli operai non hanno nessuna colpa se l'azienda ha commesso degli illeciti, e quindi non vi è ragione perché debbano perdere il lavoro. Peraltro, è interesse dello Stato avere aziende che producano lavoro e profitto nella legalità, pertanto dovrebbe premiare i comportamenti virtuosi. La mia impressione, invece, è che oggi sotto questo profilo si obbedisca più a una logica di pancia, della soddisfazione immediata della folla, come ad esempio ipotizzare l'interdizione dei corrotti a vita, prospettiva contraria ai nostri principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena».
Nel settore della gestione dei rifiuti l'illegalità sembra essere un problema enorme.
«Il fenomeno dell'ecomafia esiste, ma c' è anche tutta un'imprenditoria normale che non si vede e che rappresenta un po' l'altra faccia della luna. Si tratta di un mondo che ha riflessi enormi sull' economia e che lavora seriamente, confrontandosi quotidianamente con norme e procedure che troppo spesso appesantiscono i costi per le aziende senza risolvere la questione per cui sono nate. Purtroppo scontiamo il fatto che il Paese non abbia una seria politica energetica, che dovrebbe considerare anche il settore dei rifiuti, e che molte questioni che riguardano questo settore vengano affrontate in maniera ideologica, con una divisione manichea tra buoni e cattivi. Ad esempio, c' è tutt' oggi questa eterna lotta tra inceneritori sì o no, e mentre si dibatte si creano un aumento dei costi dello smaltimento e una conseguente paralisi operativa, che finiscono per dare linfa vitale all'illegalità».
Per il Movimento 5 Stelle, contrario agli inceneritori, la soluzione è raggiungere il 100% di raccolta differenziata.
«È un sogno platoniano. C' è una percentuale importante di rifiuti che non si potrà mai riciclare, ma che si può convertire in prodotto commerciale, creando posti di lavoro. Siamo come a teatro, involontari attori che aspettano Godot, che notoriamente non arriva mai, in attesa perpetua e vana di questo 100% di differenziata. Il risultato è che le attività di smaltimento subiscono un enorme rallentamento, e finiamo per esportare rifiuti in Germania e altrove spendendo una marea di soldi. Non solo. Il decreto "Sbloccaitalia" di renziana memoria, ha consentito di smaltire fuori regione i rifiuti speciali. Poiché gli inceneritori sono pochi e concentrati in Lombardia e in Emilia Romagna, l'aumentata domanda di bruciare i rifiuti provenienti da altre regioni ha fatto lievitare i costi di smaltimento, con l'effetto di sovraccaricare le discariche, che non hanno più ulteriori margini di raccolta. Questo offre alla malavita organizzata l'opportunità di intervenire occupando uno spazio che, invece, dovrebbe essere occupato dalle imprese legali. Una regolazione scientifica, non ideologica, consentirebbe di affrontare il problema curando l'effettiva salute pubblica, toglierebbe l'acqua al bacino della delinquenza e, grazie all' economia circolare, creerebbe risorse ulteriori per tutto il sistema». Dino Bondivalli
· Chiese l'arresto del marito della sua amante, condannato il pm Ferrigno.
Chiese l'arresto del marito della sua amante, condannato il pm Ferrigno, scrive il 24 gennaio 2019 la redazione di Le Iene. Otto mesi di carcere: arriva la condanna per abuso d'ufficio per il pm Vincenzo Ferrigno che, prima ha chiesto per due volte l'archiviazione per un un uomo, poi, dopo essere diventato l’amante di sua moglie, ne ha chiesto l’arresto. Finisce con 8 mesi di condanna la vicenda degna del miglior Boccaccio del pm che aveva richiesto l’arresto del marito della sua amante, che vi abbiamo raccontato per primi due anni fa con il servizio di Filippo Roma. Per questo, per abuso d'ufficio, è stato appena condannato infatti Vincenzo Ferrigno, ex pm di Firenze, ora a in servizio a Spoleto. Il canovaccio immortale di tradimenti, matrimoni e processi questa volta è stato sviluppato davvero in maniera molto particolare, quasi incredibile, se a raccontarlo non ci fossero una sentenza e, prima, quel nostro servizio. Tutto inizia nel 2015 con una separazione complicata, con denuncia della moglie contro il marito per maltrattamenti (“Non l’ho mai menata, non sono un tipo violento”, nega il marito parlando con Filippo Roma nel servizio del 12 febbraio 2017). Il fascicolo viene assegnato al pm Vincenzo Ferrigno, che non giudica fondata l’accusa e chiede l’archiviazione. La moglie insiste con una nuova denuncia, Ferrigno replica con una nuova richiesta di archiviazione. La richiesta questa volta però viene respinta dal gip, che chiede al pm Ferrigno di fare ulteriori accertamenti. E lui evidentemente i suoi accertamenti li fa: conosce la donna, che diventa la sua amante, e improvvisamente cambia idea. Niente più archiviazione, il pm questa volta chiede addirittura l’arresto, ai domiciliari, del marito della sua amante. Che si chiede subito perché ha cambiato idea e assume un investigatore privato. Quello che scopre può ben spiegare l’improvvisa conversione di Ferrigno. Alcuni filmati mostrano l’ex moglie che entra la sera a casa del magistrato per uscire furtiva la mattina dopo. L’ex marito non ha più dubbi: convinto che fra i due sia nata una relazione, presenta l’esposto che porterà alla sentenza di oggi. Un lieto fine di questa storia comunque c’è un po' per tutti. Non solo per l’ex marito, con questa sentenza e il futuro risarcimento nei suoi confronti da stabilire in sede civile. C’è anche per il pm e la donna, che almeno sono rimasti assieme.
Pm voleva arrestare l'ex marito dell'amante, magistrato condannato a 8 mesi. Assolta la donna, anche lei imputata nel procedimento, scrive il 24 gennaio 2019 La Nazione. Arresto per il marito dell'amante: chiesta condanna di due anni per il magistrato. Il tribunale di Genova ha condannato a 8 mesi di reclusione, pena sospesa, il magistrato Vincenzo Ferrigno, accusato di abuso d'ufficio per aver chiesto gli arresti domiciliari per il marito della sua nuova amante, quando era sostituto procuratore a Firenze. L'accusa aveva chiesto la condanna a 2 anni di reclusione. Assolta la donna, anche lei imputata nel procedimento. "Siamo molto contenti e soddisfatti, è una sentenza che ristabilisce la giustizia con la 'G' maiuscola". Così l'avvocato Massimiliano Manzo, che insieme a Francesco Ceccherini assiste il medico dentista costituitosi parte civile nel processo a carico di Ferrigno, commentando la condanna a 8 mesi. «A volte - ha proseguito Manzo - i magistrati possono essere colpiti da delirio di onnipotenza, questa è una sentenza che funzionerà da monito per il futuro. Il mio cliente - ha aggiunto - è commosso per la notizia della condanna». Attende invece la motivazione della sentenza il legale di Ferrigno, l'avvocato Sigfrido Fenyes: «Attendiamo di leggere le motivazioni della sentenza per poi impugnarla, convinti e fiduciosi della bontà dei nostri argomenti difensivi».
LA VICENDA. Nel 2015 la donna aveva denunciato il marito, un medico dentista, per averla minacciata di morte nel corso di una lite. Il fascicolo fu assegnato a Ferrigno, che ritenne non vi fossero elementi per sostenere l'accusa. Il medico, intanto, controquerelò la moglie. Il pm Ferrigno chiese l'archiviazione una prima e una seconda volta. Il gip respinse la richiesta e ordinò nuovi accertamenti. Così Ferrigno conobbe la coppia, quando convocò i due per sentirli. Però, nell'ambito di queste circostanze, secondo l'accusa il sostituto procuratore e la donna intrapresero una relazione e poco dopo il magistrato, cambiando gli orientamenti, chiese gli arresti domiciliari per il marito. Le indagini che hanno portato al processo sono partite dall'esposto dell'ex marito della donna. Gli atti dell'esposto furono poi trasmessi alla procura di Genova competente per le indagini sui magistrati del distretto toscano. A Genova pende un altro procedimento su Ferrigno, per falso, arrivato alla corte di appello dopo che il magistrato è stato prosciolto con sentenza di non luogo a procedere in udienza preliminare. La procura ha fatto ricorso. L'accusa di falso riguarda la relazione che Ferrigno consegnò al procuratore Giuseppe Creazzo dove doveva spiegargli i fatti relativi alla stessa vicenda.
«NEI FILMATI LEI MI TRADIVA CON IL PM CHE CHIESE IL MIO ARRESTO», scrive finoaprovacontraria.it. Il marito accusa il magistrato che lo indaga per maltrattamenti: «L’ho riconosciuto in un video». Aperto un fascicolo per corruzione per l’esercizio delle funzioni. Racconta il dottore, un medico chirurgo fiorentino, padre di due figli minorenni, rinviato a giudizio per presunti maltrattamenti alla moglie, che quando il detective privato gli ha mostrato i filmati, ha avuto un colpo al cuore ed è rimasto senza parole. «In quelle sequenze non solo c’erano le prove del tradimento di mia moglie – spiega – ma che il suo amante era il magistrato che mi aveva inquisito. Un pm che per due volte aveva chiesto il mio proscioglimento (evidentemente prima di avere la relazione con mia moglie) ritenendo che non vi fossero elementi utili per un processo. E poi, improvvisamente, aveva chiesto per me gli arresti domiciliari. Che, per fortuna, il giudice alla fine non ha concesso». È una strana vicenda quella che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, Vincenzo Ferrigno. Da una parte c’ è un procedimento penale per maltrattamenti, dopo la denuncia della moglie del medico, che mercoledì ha determinato il rinvio a giudizio del coniuge. Dall’ altra un fascicolo aperto dalla Procura di Genova (competente a giudicare i magistrati toscani) nel quale si ipotizza contro il pm Ferrigno il reato di corruzione per l’esercizio delle funzioni dopo che il medico ha presentato un esposto. Della vicenda si stanno occupando anche gli ispettori del ministero della Giustizia. Il magistrato non parla, lo fa invece il medico. «Ho avuto una paura terribile, mi sono sentito in gabbia, prigioniero di questa tremenda verità – ricorda – che non potevo neppure rivelare perché temevo mi potessero far chissà cosa contro». Poi la decisione di presentare l’esposto contro il pm. «Con la sicurezza che lui fosse l’amante di mia moglie – continua – perché video e foto non lasciano dubbi. Si vede mia moglie entrare a casa del pm più volte a mezzanotte e uscirne a 6o alle 7 del mattino. Per raggiungere quella casa, mia moglie adottava diversi stratagemmi. Lasciava la macchina in un parcheggio sotterraneo, prendeva un taxi, percorreva una stradina di campagna a piedi per non farsi seguire». Questa è la sua versione. Di certo si sa che il medico è stato rinviato a giudizio per maltrattamenti dopo l’ennesimo litigio con la moglie, e un presunto tradimento questa volta da parte dell’uomo. Si parla di minacce di morte ma anche di schiaffi, pugni e calci. All’udienza non era presente il pm Ferrigno, ma un suo sostituto. «In vent’anni di professione non mi era mai capitata una vicenda del genere – spiega l’avvocato del medico, Massimiliano Manzo -. Sono rimasto sconcertato quando ho visto filmati e foto e mi sono reso conto di come alcune volte le partite, anche in sede giudiziaria, non si giocano davanti a un arbitro imparziale».
· In tribunale per la separazione. L'ex marito si fidanza con la giudice.
In tribunale per la separazione. L'ex marito si fidanza con la giudice. Il caso a Perugia. L’ex moglie si appella al Csm: ora pretendo chiarezza. Erika Pontini il 22 giugno 2019 su lanazione.it. Si separa in tribunale e l’ex marito si fidanza con la giudice civile che ha emesso la sentenza. Che sia stato un colpo di fulmine durante l’udienza, oppure no, sarà ora il Consiglio superiore della magistratura ad accertarlo. Perché da Perugia la vicenda è finita dritta a Palazzo dei Marescialli ai quali la ex moglie ha presentato un esposto chiedendo di fare chiarezza su quanto accaduto per verificare, innanzitutto, se la giudice in questione abbia rispettato i requisiti di imparzialità e terzietà obbligatori per un appartenente alla magistratura. O, viceversa, si sarebbe dovuta astenere. La storia – secondo quanto si apprende – si snoda attraverso il 2018 ma solo nelle scorse settimane il Csm, l’organo di autogoverno delle toghe cui spetta il potere disciplinare e di vigilanza, ha ricevuto l’esposto. I due coniugi, una giovane coppia perugina, genitori di un bambino, si lasciano all’inizio dell’anno. E’ uno dei tanti matrimoni in frantumi se si considera che in appena un anno al tribunale civile di Perugia arrivano 1.063 tra divorzi e separazioni (consensuali o giudiziali). Con la delusione personale arriva l’inevitabile strascico giudiziario. Viene quindi presentata una richiesta di separazione giudiziale al tribunale di Perugia e, dopo l’udienza presidenziale di rito (davanti alla presidente Mariella Roberti) – per i provvedimenti urgenti in tema di mantenimento, affidamento della prole e diritti di visita sul figlio – la causa viene assegnata a uno dei giudici della Sezione famiglia. I coniugi – e i rispettivi legali – sembrano non trovare un accordo extragiudiziale. Come previsto si dovrebbe instaurare un contraddittorio e una causa giudiziale, spesso purtroppo infinita e costosa. Ma in udienza si arriva ad una soluzione all’apparenza condivisa (ruota tutto attorno alla proprietà dell’abitazione) e la separazione si trasforma in consensuale. Appena venti giorni dopo viene depositata la sentenza. Solitamente il tribunale impiega circa 3-4 mesi, in casi analoghi. E siamo a novembre 2018. A dicembre sarebbe stato direttamente il marito – di fatto ormai ex – a comunicare, secondo quanto segnalato al Csm dalla donna, di avere una relazione stabile con una nuova compagna. E poi a svelare che la donna in questione è nientemeno che la giudice che li ha separati appena poche settimane prima. All'iniziale stupore per la notizia e all’idea di una famiglia allargata dell’ex marito e del figlio con la giudice della separazione, subentrano i dubbi sulle tempistiche e, soprattutto, sull’imparzialità del magistrato. Di lì la decisione di segnalare l’accaduto al Csm che ora dovrà svolgere accertamenti.
· Il Csm trasferisce il procuratore aggiunto Antonella Duchini ad Ancona.
Sempre lì. Perugia, il Csm trasferisce il procuratore aggiunto Antonella Duchini ad Ancona. Provvedimento cautelare in via d’urgenza preso nell’ambito del procedimento disciplinare contro il magistrato. Umbria 24 il 6 agosto 2018. Il Consiglio superiore della magistratura, nell’ambito del procedimento disciplinare contro Antonella Duchini, procuratore aggiunto a Perugia, ha deciso, come provvedimento cautelare in via d’urgenza, il trasferimento del magistrato alla corte d’appello di Ancona, in qualità di giudicante. Duchini è indagata dalla procura della Repubblica di Firenze con l’ipotesi di rivelazione di segreti d’ufficio e abuso d’ufficio. Il magistrato è indagato in concorso con il sottufficiale dei carabinieri Orazio Gisabella, già inquisito per corruzione nell’ambito di un’inchiesta siciliana, e di un suo collega. La vicenda Il procedimento sul quale hanno acceso i riflettori gli inquirenti toscani riguarda alcune informazioni relative a uno dei fascicoli del 2017 dei quali è contitolare il magistrato umbro, fino a qualche anno fa in Dda e titolare di alcune inchieste che hanno destato grande clamore. In particolare Duchini avrebbe rivelato ai luogotenenti dell’Arma – Orazio Gisabella e Costanzo Leone, già in servizio al Ros – notizie relative al procedimento avviato a carico di Franco e Giuseppe Colaiacovo. Secondo la magistratura toscana il magistrato avrebbe poi violato il dovere di imparzialità nell’esercizio della funzione pubblica, emettendo un decreto di sequestro preventivo di una quota di una srl del gruppo Colaiacovo. La difesa Alla metà di luglio su ordine della procura di Firenze – con lo scopo di trovare un contatto tra il procuratore aggiunto e i Colaiacovo – sono stati perquisiti la casa e l’ufficio di Duchini. Nella stessa giornata i legali del procuratore, Nicola di Mario e Michele Nannarone, hanno sottolineato in una nota che «ogni addebito contestato al procuratore aggiunto di Perugia, Antonella Duchini, è privo di fondamento giuridico non avendo lei mai rivelato a nessuno, in 37 anni di attività, notizie riservate connesse alla propria funzione né commesso abusi per favorire o danneggiare nessuno».
· Emilio Arnesano. Arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl.
Lecce, arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl. Emilio Arnesano in carcere come il dirigente dell'azienda sanitaria Carlo Siciliano, ai domiciliari il dg Narracci e un'avvocata che avrebbe offerto prestazioni sessuali per far pilotare al magistrato i procedimenti da lei seguiti, scrive Chiara Spagnolo il 6 dicembre 2018 su "La Repubblica". Una piscina abusiva dissequestrata e un'inchiesta nei confronti di un dirigente dell'Asl di Lecce archiviata: è iniziata così l'inchiesta che ha portato in carcere Il sostituto procuratore di Lecce Emilio Arnesano, accusato di corruzione e abuso d'ufficio dalla Procura di Potenza. Il magistrato avrebbe anche chiesto e ottenuto favori sessuali da giovani avvocate, in cambio di aiuto nei procedimenti a loro assegnati e negli esami di abilitazione. In carcere è finito anche Carlo Siciliano, dirigente dell'azienda sanitaria, mentre gli arresti domiciliari sono stati disposti per Ottavio Narracci, direttore generale Asl, Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo, dirigenti Asl, Benedetta Martina, avvocato di Lecce. Per Antonio Salvatore Ciardo è stato disposto il divieto di dimora a Lecce. È stata inoltre sequestrata una piscina in casa di Trianni e la barca di Arnesano, del valore di 18.400 euro che sarebbe il profitto della corruzione. L'inchiesta, condotta della guardia di finanza di Lecce, riguarda numerosi episodi di corruzione, di cui il magistrato si sarebbe macchiato per indirizzare procedimenti giudiziari e lui assegnati in maniera favorevole rispetto a quegli indagati che gli promettevano regalie. Nella richiesta di custodia cautelare, il pm potentino Francesco Curcio parla di "un collaudato sistema di vendita delle funzioni giudiziarie, in cui garantiva favori a dirigenti e medici della Asl". In merito alle contestazioni che riguardano i dirigenti Asl, il pm Francesco Curcio parla invece di "Un collaudato sistema di vendita delle funzioni giudiziarie, in cui Arnesano garantiva reiteratamente favori a dirigenti e medici dell'Asl, a partire dagli amici di Carlo Siciliano". Per quanto riguarda Narracci (che fino al 2015 era stato direttore sanitario dell'azienda salentina e da gennaio scorso ne è diventato direttore generale), per esempio, è stato certificato l'intervento di Arnesano per indirizzare favorevolmente un processo per peculato di cui era protagonista e nell'ambito del quale fu effettivamente assolto. Storia simile per Giorgio Trianni, dirigente dell'azienda, protagonista di un'indagine per la costruzione di una piscina abusiva, marchiavi alta con tanto di dissequestro della struttura da parte del magistrato finito in carcere. In cambio di tale favore, Arnesano avrebbe ricevuto da Trianni un soggiorno con battute di caccia. Altri favori li avrebbe ottenuti dagli altri dirigenti dell'Asl e anche da molti medici. Da Siciliano, per esempio, avrebbe avuto un'imbarcazione di dodici metri a un prezzo di gran lunga inferiore a quello di mercato nonché "mazzette" in contanti su cui sono ancora in corso le indagini. Da medici in servizio nelle strutture sanitarie salentine, invece, avrebbe avuto trattamenti di favore nelle prenotazioni di visite mediche, nella prenotazione di interventi non solo per se ma anche per familiari e amiche. "Ho preso atto dell'ordinanza e voglio specificare che nessuno dei capi di imputazione ha a che fare con le attività dell'Asl di Lecce". Lo ha sostenuto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano che adesso dovrà nominare un commissario per sostituire il numero uno dell'azienda sanitaria locale.
Barca, soldi e sesso per «aggiustare» indagini: arrestato un pm a Lecce. Domiciliari anche per dirigenti Asl. Il magistrato Emilio Arnesano in carcere: avrebbe favorito le cause di una avvocatessa e «venduto» indagini relative ai manager sanitari, scrive La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Dicembre 2018. Emilio Arnesano, pubblico ministero a Lecce, è stato arrestato stamani su ordine del gip di Potenza, nell’ambito di un’inchiesta della Procura della Repubblica del capoluogo lucano su favori e prestazioni sessuali ottenuti dal magistrato. È stato disposto anche il sequestro di un’imbarcazione e di oltre 18 mila euro nei confronti dello stesso magistrato, «in quanto profitto del reato di corruzione». Il gip di Potenza ha posto agli arresti domiciliari altre quattro persone nella stessa inchiesta che ha portato all’arresto del pm di Lecce, Emilio Arnesano. Sono tre dirigenti dell’Asl di Lecce - Ottavio Naracci, direttore generale, e due dirigenti, Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo, e dell’avvocato Benedetta Martina. Inoltre, è stato ordinato il divieto di dimora a Lecce dell’avvocato Salvatore Antonio Ciardo. Arnesano è accusato di «delitti commessi con abuso e vendita delle proprie funzioni» di magistrato. Durante indagini durate circa quattro mesi, sono emersi, a carico del pm di Lecce, «episodi di corruzione in atti giudiziari, di induzione a dare o promettere utilità e di abuso di ufficio». Arnesano avrebbe «venduto, in più procedimenti, l'esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali ed altri favori». In particolare è finito sotto la lente investigativa della Procura della Repubblica di Potenza il «rapporto corruttivo, consolidato e duraturo», con l’avvocato Benedetta Martina (agli arresti domiciliari): il pm «pilotava procedimenti in cui gli indagati erano assistiti dall’avvocato Martina, ottenendo in cambio prestazioni sessuali» dal legale.
LE ARCHIVIAZIONI PER I VERTICI ASL - In relazione agli arresti domiciliari decisi dal gip per i tre dirigenti della Asl di Lecce, Arnesano avrebbe garantito loro «l'esito positivo di procedimenti giudiziari a carico», ottenendo in cambio una barca di 12 metri a piccolo prezzo, soggiorni gratuiti e interventi medici agevolati. Il pm è accusato di aver chiesto (e poi ottenuto dal Tribunale di Lecce) l’assoluzione di Narracci dall’accusa di peculato e abuso d’ufficio, indagine nata a seguito di una denuncia anonima recapitata all’allora governatore Nichi Vendola e relativa all’uso personale, da parte di Narracci (all’epoca direttore sanitario della Asl di Lecce), di un’auto aziendale che avrebbe utilizzato per gli spostamenti personali dalla residenza di Fasano alla sede della Asl di Lecce.
AVEVA ANCHE AGEVOLATO L'ESAME DI UN AVVOCATO - Emilio Arnesano, il pm di Lecce arrestato stamani su ordine del gip di Potenza (la Procura del capoluogo lucano è competente per i reati commessi dai magistrati del distretto della Corte di Appello di Lecce), agevolò anche l’esame orale di avvocato di una «giovane collega" dell’avvocato Martina. Arnesano contattò l’avvocato Ciardo, componente della commissione d’esame, e l’avvocato Federica Nestola superò la prova. Nell’ufficio del pm ci fu un incontro (fra Arnesano, Ciardo e Nestola) in cui furono «definite le domande» da porre alla candidata. Il pm, inoltre, intervenne presso il presidente del collegio di disciplina dell’Ordine degli avvocati di Lecce, Augusto Conte, su richiesta dell’avvocato Manuela Carbone. Anche in tal caso ci fu un incontro fra Arnesano e Conte, durante il quale "la richiesta veniva avanzata e accettata": il pm, poi, chiese all’avvocato Carbone, «in cambio del suo intervento, delle prestazioni sessuali». Le indagini che hanno portato all’arresto, stamani, del pm di Lecce, Emilio Arnesano, sono cominciati con una «singola e specifica notizia di reato» a carico del magistrato da parte della Procura salentina, inviata alla Procura della Repubblica di Potenza. La segnalazione riguardava un provvedimento di dissequestro di una piscina di Giorgio Trianni, dirigente dell’Asl di Lecce, "con successiva richiesta di archiviazione della notizia di reato». Arnesano, in cambio, ottenne da Triani «un soggiorno con annesse battute di caccia». Oggi il gip ha disposto il sequestro della piscina «risultata oggetto di mercimonio» fra Arnesano e Trianni, di una barca e di 18.400 euro del magistrato, «in quanto profitto del reato di corruzione».
EMILIANO: «FATTI NON LEGATI ALL'ATTIVITA' DELLA ASL» - «Ho preso atto dell’ordinanza e voglio specificare che nessuno dei capi di imputazione ha a che fare con le attività dell’Asl di Lecce». Lo ha sostenuto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, parlando oggi a Bari con i giornalisti dei tre dirigenti dell’Asl di Lecce - Ottavio Naracci, direttore generale, e due dirigenti, Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo - posti agli arresti domiciliari su ordine del gip di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’arresto del pm di Lecce, Emilio Arnesano. «Nessuna delle imputazioni ha a che fare quindi con le attività dell’Asl di Lecce e men che mai della Regione Puglia. Sono relazioni personali, per quel che ho capito ed ammesso che - ha spiegato Emiliano - siano provate dagli uffici giudiziari, tra singole persone effettivamente dipendenti Asl con un singolo magistrato. Si tratta di fatti privati che la magistratura esaminerà e giudicherà ma che nulla hanno a che vedere con nostra attività. Ora dovrò nominare - ha concluso Emiliano - un commissario che sostituisca il direttore generale in questo momento agli arresti domiciliari».
Lecce, favori e prestazioni sessuali: arrestato il pm Emilio Arnesano. Ai domiciliari il direttore generale dell’Asl. Secondo l'accusa, il sostituto procuratore ha "venduto, in più procedimenti, l'esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali ed altri favori". Per quanto riguarda il coinvolgimento di tre dirigenti dell'azienda sanitaria salentina, il magistrato ha garantito loro "l'esito positivo di processi giudiziari a carico" ricevendo benefit e trattamenti di riguardo, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 dicembre 2018. Corruzione in atti giudiziari, induzione a dare o promettere utilità a pubblico ufficiale e abuso di ufficio. Con queste accuse, sono state arrestate sei persone a Lecce in un’inchiesta della Procura di Potenza, competente sui magistrati del distretto della Corte d’Appello del capoluogo salentino. Perché tra gli arrestati c’è anche Emilio Arnesano, sostituto procuratore della procura leccese. Due persone, il pm Arnesano e il dirigente della Asl di Lecce Carlo Siciliano, sono finiti in carcere; altre quattro ai domiciliari: sono il direttore generale della Asl di Lecce, Ottavio Narracci, due dirigenti dell’Asl (Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo) e l’avvocato Benedetta Martina. Disposto anche un divieto di dimora nei confronti dell’avvocato Salvatore Antonio Ciardo. Le misure cautelari sono state firmate dal gip del tribunale di Potenza e le indagini sono state effettuate dalla Guardia di Finanza di Lecce. Sotto sequestro una piscina, oggetto di un procedimento penale, e un’imbarcazione ritenuta profitto del reato del delitto di corruzione. L’inchiesta della Procura lucana verte anche su favori e prestazioni sessuali ottenuti dal magistrato. Arnesano è accusato di “delitti commessi con abuso e vendita delle proprie funzioni” di magistrato. Durante indagini durate circa quattro mesi sono emersi, a carico del pm di Lecce, “episodi di corruzione in atti giudiziari, di induzione a dare o promettere utilità e di abuso di ufficio”. Arnesano avrebbe “venduto, in più procedimenti, l’esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali ed altri favori”. Tre gli episodi contestati. In particolare è finito sotto la lente investigativa della Procura della Repubblica di Potenza il “rapporto corruttivo, consolidato e duraturo”, con l’avvocato Benedetta Martina (agli arresti domiciliari): il pm “pilotava procedimenti in cui gli indagati erano assistiti dall’avvocato Martina, ottenendo in cambio prestazioni sessuali” dal legale. In uno dei casi contestati dall’accusa, il pm intervenne presso il presidente del collegio di disciplina dell’Ordine degli avvocati di Lecce, Augusto Conte, su richiesta dell’avvocato Manuela Carbone. Anche in tal caso ci fu un incontro fra Arnesano e Conte, durante il quale “la richiesta veniva avanzata e accettata”: il pm, poi, chiese all’avvocato Carbone, “in cambio del suo intervento, delle prestazioni sessuali”. Secondo l’accusa, Emilio Arnesano agevolò anche l’esame orale di avvocato di una “giovane collega” dell’avvocato Martina. Arnesano contattò l’avvocato Ciardo, componente della commissione d’esame, e l’avvocato Federica Nestola superò la prova. Nell’ufficio del pm ci fu un incontro (fra Arnesano, Ciardo e Nestola) in cui furono “definite le domande” da porre alla candidata. Infine, sempre stando alle indagini, il pm avrebbe chiesto prestazioni sessuali ad un’altra avvocata che gli aveva chiesto di intervenire in suo favore con il presidente del collegio di disciplina costituito presso l’Ordine degli avvocati di Lecce. Per quanto riguarda gli arresti domiciliari decisi dal gip per i tre dirigenti della Asl di Lecce, Arnesano avrebbe garantito loro “l’esito positivo di procedimenti giudiziari a carico”, ottenendo in cambio una barca di 12 metri (sequestrata) pagata in contanti ad un prezzo ritenuto dagli inquirenti di gran lunga inferiore al prezzo di mercato. Oltre all’imbarcazione, per l’accusa il pm ha ottenuto soggiorni gratuiti e interventi medici agevolati, nella prenotazione di visite mediche, nella prenotazione di interventi per familiari, nelle visite a persone di sua conoscenza. Sotto la lente degli investigatori è finito il dissequestro di una piscina di un altro dirigente Asl (Giorgio Trianni, pure arrestato) da parte del pm Arnesano, titolare del procedimento penale di cui lo stesso ha poi chiesto l’archiviazione, che sarebbe avvenuto in cambio di un soggiorno con annesse battute di caccia. Le indagini che hanno portato all’arresto di Emilio Arnesano sono cominciate con una “singola e specifica notizia di reato” a carico del magistrato da parte della Procura salentina, inviata alla Procura della Repubblica di Potenza. La segnalazione riguardava proprio il dissequestro della piscina del dirigente Asl Giorgio Trianni, “con successiva richiesta di archiviazione della notizia di reato”. Oggi il gip ha disposto il sequestro della piscina “risultata oggetto di mercimonio” fra Arnesano e Trianni, di una barca e di 18.400 euro del magistrato, “in quanto profitto del reato di corruzione”.
Favori sessuali in cambio di provvedimenti giudiziari: arrestato il pm Arnesano. Ai domiciliari il direttore Asl Narracci e due primari, scrive Alessandro Cellini Giovedì 6 Dicembre 2018 su Il Quotidiano di Puglia. Terremoto giudiziario nella Procura e nella Asl di Lecce: in manette è finito il pubblico ministero Emilio Arnesano, arresti domiciliari per il direttore generale Ottavio Narracci. In carcere anche Carlo Siciliano, dirigente Asl. Arresti domiciliari per Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo, primari rispettivamente dei reparti di Neurologia e Ortopedia dell'ospedale "Vito Fazzi" di Lecce, e Benedetta Martina, avvocato del Foro di Lecce. L'accusa è di corruzione in atti giudiziari, induzione a dare o promettere utilità a pubblico ufficiale e abuso di ufficio. I provvedimenti sono stati eseguiti questa mattina dai militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Lecce.
I favori sessuali. L'inchiesta, condotta dalla Procura di Potenza (cui è passata, per competenza, visto il coinvolgimento di un magistrato salentino), è durata quattro mesi ed è partita da un'indagine a carico del pm Arnesano e di altre persone avviata dalla Procura di Lecce. Al centro dell'inchiesta, un provvedimento di dissequestro di una piscina disposto dal pm Arnesano, con relativa richiesta di archiviazione del fascicolo a carico di Trianni. Quest'ultimo, poi, avrebbe offerto dei soggiorni con battute di caccia al magistrato leccese. Nel corso degli approfondimenti svolti dalla Procura potentina, poi, sarebbero emersi ulteriori episodi corruttivi a carico di Arnesano. Gli investigatori sostengono che il pm avesse «venduto, in più procedimenti, l'esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali e di altri favori». Il magistrato avrebbe stretto un «rapporto corruttivo» con l'avvocato Benedetta Martina: «In numerose occasioni il sostituto procuratore pilotava procedimenti in cui gli indagati erano assistiti dall'avvocato Martina ottenendo in cambio prestazioni sessuali dalla medesima». E sempre finalizzato a ottenere prestazioni sessuali sarebbe stato l'interessamento per una praticante avvocato, affinché potesse superare l'esame di abilitazione. In questo contesto, Arnesano avrebbe contattato un avvocato componente della commissione d'esame, con il quale si sarebbe incontrato (alla presenza dell'avvocato Martina e della praticante) per concordare le domande all'esame.
Il fronte Asl. «Ulteriore e collaudato sistema di vendita delle funzioni giudiziarie». Così la Procura di Potenza definisce il capitolo relativo ai favori ottenuti dai dirigenti Asl. Avrebbe garantito in favore dei dirigenti indagati l'esito positivo dei procedimenti giudiziari che li riguardavano. In cambio, Arnesano avrebbe ottenuto diverse utilità. Tra queste: una imbarcazione di dodici metri a un prezzo di gran lunga inferiore a quello di mercato, peraltro pagato in nero. Grazie a questo, Arnesano si sarebbe impegnato a far assolvere Narracci (come poi è accaduto) in un procedimento per peculato. Il pm, secondo gli inquirenti, «otteneva non solo, come si è visto, soggiorni gratuiti e imbarcazioni a prezzi di saldo, ma anche trattamenti di favore da parte dei medesimi dirigenti della Asl nella prenotazione di visite mediche, nella prenotazione di interventi per familiari, nelle visite a proprie amiche e così via».
L'intermediazione. Un altro aspetto dell'inchiesta, sempre nell'ambito del filone sullo scambio di favori e prestazioni sessuali, avrebbe visto coinvolta un'altra avvocatessa del Foro di Lecce, che aveva chiesto ad Arnesano di intervenire in suo favore con il presidente del Collegio di disciplina costituito presso l'Ordine degli avvocati di Lecce, l'avvocato Augusto Conte. Questi contatti, effettivamente, avvenivano e avevano esito positivo, secondo la Procura di Potenza. Anche in questo caso Arnesano avrebbe chiesto all'avvocatessa prestazioni sessuali in cambio del suo intervento.
I sequestri. La Guardia di finanza, su disposizione del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza, ha sequestrato la piscina di pertinenza di Trianni (che dalle indagini è risultata oggetto di mercimonio tra il pm Arnesano, titolare del procedimento penale nel quale la piscina era sottoposta a sequestro, e Trianni); l'imbarcazione oggetto della corruzione contestata ad Arnesano, e la somma di 18.400 euro, entrambe al pm leccese.
· Tito Ettore Preioni. Favori per fare carriera.
Tito Ettore Preioni. Favori per fare carriera, nei guai un giudice di Lodi. Perquisizione in Tribunale, i pm di Venezia: corruzione in cambio di una promozione, scrive Carlo D'Elia il 7 settembre 2018 su Il Giorno. Poco prima delle 8 è scattata la perquisizione in Tribunale a Lodi. Alcuni carabinieri in borghese si sono presentati nella sede di viale Milano, nell’ufficio del presidente della sezione civile Tito Ettore Preioni, indagato per corruzione in atti giudiziari. Il giudice di Lodi ha assistito all’attività degli inquirenti che avrebbero anche portato via per analizzarlo un pc dal suo ufficio. Il quadro accusatorio riguarda la nomina a presidente del Tribunale di Cremona cui Preioni, 65 anni, a Lodi dal 2012, avrebbe puntato. Indagato con lui il collega Giuseppe Bersani (presidente di sezione penale e facente funzioni di presidente a Cremona, per anni giudice per le indagini preliminari a Piacenza). Una bufera giudiziaria scoppiata a fine giugno che corre lungo il Po e arriva a scalfire il Consiglio superiore della magistratura (organo di autogoverno dei giudici). Ieri mattina, i carabinieri di Venezia hanno perquisito gli uffici dei due indagati nei rispettivi uffici di Lodi e Cremona. Nella vicenda è finito anche l’avvocato piacentino, curatore fallimentare, Virgilio Sallorenzo che, secondo l’indagine partita da Venezia, procacciava utili incontri a Roma. Secondo la procura di Venezia, Sallorenzo avrebbe pagato una trasferta (con treno, pranzo e albergo) nella Capitale ai due giudici per incontrare un avvocato romano e arrivare a un membro laico del Csm. Si tratterebbe di una spesa totale di circa 2mila euro. Alla trasferta avrebbero partecipato i giudici Preioni e Bersani. Durante la missione romana i due giudici avrebbero dovuto contattare un componente laico del Csm (Paola Balducci, ex parlamentare dei Verdi) per cercare voti fondamentali per garantire a Preioni l’incarico di presidente del Tribunale di Cremona. Un appoggio che poi non è stato trovato. La nomina infatti è andata al magistrato Anna di Martino (ex gup di Brescia) che si insedierà il 10 settembre. Le accuse sono ancora tutte da dimostrare, ma un altro aspetto delicato dell’indagine riguarda il ritorno lavorativo che avrebbe ottenuto il curatore fallimentare. Secondo l’accusa, l’avvocato piacentino avrebbe ricevuto un incarico professionale relativo a curatele e fallimenti proprio dalla toga lodigiana che era in corsa per la promozione.
· Dopo Venezia, il giudice Giuseppe Bersani indagato anche ad Ancona.
Dopo Venezia, il giudice Giuseppe Bersani indagato anche ad Ancona. Nel mirino gli incarichi fallimentari all'amico avvocato, scrive "La Provincia Cr" il 7 settembre 2018. Dopo la procura di Venezia, anche la procura di Ancona indaga per "corruzione per l'esercizio della funzione" il magistrato Giuseppe Bersani, già Gip/Gup e giudice delegato ai fallimenti quando era al tribunale di Piacenza, la città dove risiede, e dal luglio dello scorso anno presidente di sezione a Cremona. In particolare, il fascicolo aperto dalla procura diretta da Monica Garulli e competente sulle indagine delle toghe emiliane, riguarda il filone principale dell’inchiesta nata a Piacenza a carico dell’avvocato Virgilio Sallorenzo e della moglie Marisa Bottazzi, lei commercialista, i quali, per l’accusa, avrebbero distratto centinaia di migliaia di euro dai fallimenti. Dall’amico Bersani, Sallorenzo ha ricevuto numerosi incarichi nelle pratiche fallimentari seguite dal magistrato. Incarichi definiti dai pm anconetani «privilegiati, in cambio di presunte dazioni di denaro». Dall’indagine piacentina sul «caso fallimenti» (pare che siano coinvolti altri professionisti, ndr), sarebbero emersi i tentativi di condizionare, al plenum del Csm, la nomina del presidente del tribunale di Cremona, posto a cui aspirava Tito Preioni, già magistrato a Cremona, presidente di sezione al tribunale di Lodi, in lizza con Anna di Martino, magistrato a Brescia, poi nominata capo dei giudici (arriverà a Cremona lunedì prossimo). E’ il filone dell’indagine aperta dal procuratore aggiunto di Venezia Adelchi D'Ippolito, competente sulle indagini delle toghe lombarde, che contesta ai magistrati Bersani e Preioni la corruzione in atti d’ufficio, in concorso con Sallorenzo. Secondo l’accusa, Sallorenzo ha pagato una trasferta a Roma (2 mila euro tra viaggio e soggiorno in un hotel di lusso) ai due magistrati e avrebbe fatto da intermediario affinché uno dei membri laici del Csm promettesse la nomina di Preioni a presidente del tribunale. Due giorni fa, su delega delle due procure, i carabinieri hanno perquisito la casa di Piacenza e l’ufficio in tribunale a Cremona di Bersani, l’ufficio a Lodi di Preioni e lo studio di Sallorenzo.
Nomine al tribunale: perquisito l'ufficio del giudice Giuseppe Bersani, scrive Sara Pizzorni il 6 settembre 2018 su Cremona Oggi. Era il 27 giugno scorso quando la notizia dell’inchiesta di Venezia su tentativi di condizionare le nomine al tribunale aveva scosso il palazzo di giustizia di Cremona per il presunto coinvolgimento di due magistrati e di un avvocato: il giudice Giuseppe Bersani, attuale presidente della sezione penale, il collega Tito Preioni, ora presidente della sezione civile del tribunale di Lodi, in passato giudice a Cremona, e l’avvocato Virgilio Sallorenzo, tutti indagati con l’ipotesi di accusa di corruzione in atti d’ufficio. Oggi, a poco più di due mesi di distanza, gli uomini della polizia giudiziaria di Venezia, guidati dal procuratore Adelchi D’Ippolito, hanno effettuato una serie di perquisizioni a Piacenza, Lodi e Cremona negli uffici dei due magistrati e in quello dell’avvocato Sallorenzo, oltre che nell’abitazione di Bersani. A Cremona, la polizia giudiziaria, composta da sette persone, si è presentata alle 12,40 nell’ufficio del giudice Bersani, rientrato lunedì dalle ferie. Alla perquisizione, durata un’ora, ha assistito lo stesso magistrato. Già lo scorso mese di luglio gli inquirenti di Venezia avevano effettuato un primo accesso, ma in quell’occasione avevano solo acquisito della documentazione. Al centro dell’inchiesta, la corsa alla presidenza del tribunale di Cremona, vinta il 27 luglio scorso da Anna di Martino, già gip e presidente della sezione penale del tribunale di Brescia e che si insedierà a Cremona il prossimo lunedì. Si indaga su presunti tentativi di condizionare le procedure di nomina dei capi degli uffici giudiziari in favore dell’elezione di Preioni, movimenti che sarebbero stati effettuati fuori dalle procedure ufficiali, e anzi, come scriveva a giugno il Corriere della Sera, “con l’intervento di mediatori esterni che offrono alle toghe – magari alle stesse toghe dalle quali ricevono gli incarichi professionali – opportunità di accesso e di interlocuzione diretta con consiglieri del Csm in vista del voto”. Figura chiave nell’inchiesta sarebbe quella di Virgilio Sallorenzo, mantovano, avvocato e curatore fallimentare con studi a Piacenza e a Mantova, già indagato a Piacenza per abuso d’ufficio, falso e bancarotta per decine di fascicoli inerenti procedure fallimentari. Ipotesi di reato di abuso d’ufficio anche per la moglie Marina Bottazzi, lei commercialista, dimessasi il 9 giugno scorso dalla sua carica di amministratore unico di Tempi, agenzia per il trasporto pubblico di Piacenza. Oggi in procura a Piacenza, il procuratore di Venezia D’Ippolito si è presentato accompagnato da due pm della procura di Ancora, che per competenza si occupa delle indagini riguardanti i magistrati dell’Emilia Romagna. Nell’inchiesta di Venezia Sallorenzo avrebbe organizzato e pagato una trasferta romana dell’aspirante presidente del tribunale di Cremona Tito Preioni e del suo amico Giuseppe Bersani, che nel suo precedente ruolo di giudice fallimentare a Piacenza aveva affidato allo stesso Sallorenzo diversi incarichi come curatore fallimentare. Scopo del viaggio a Roma sarebbe stato quello di caldeggiare con un componente laico del Csm eletto dal centrosinistra (l’avvocato ed ex parlamentare Paola Balducci, che però poi non si era spesa in favore di Preioni) alleanze utili nel plenum per spostare i due voti necessari che sarebbero serviti per far vincere il magistrato in lizza, già fiducioso nei voti dei togati di centrodestra. Durante il viaggio a Roma, Sallorenzo, Preioni, Bersani e la Balducci avrebbero partecipato ad una cena insieme ad Antonio Villani, avvocato cassazionista già socio dello studio legale romano del consigliere Balducci e amico di Sallorenzo. A pagare sarebbe stato proprio il curatore fallimentare, che avrebbe sborsato 2.000 euro tra ristorante, treni e pernottamento per i due giudici in un albergo a cinque stelle di Roma. Pochi giorni prima, peraltro, proprio un collegio presieduto da Preioni aveva assegnato a Sallorenzo un incarico professionale. A dire no alla proposta di elezione di Preioni come presidente del tribunale di Cremona era stato il neo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che aveva informato il Csm dell’inchiesta della procura di Venezia riguardante i due magistrati Preioni e Bersani. “Non ritengo opportuno rilasciare dichiarazioni”, si era limitato a commentare a giugno il giudice Giuseppe Bersani, “confidando di chiarire la vicenda nel più breve tempo possibile”.
· Il magistrato Agostino Abate sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati».
Pm sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati». Il magistrato Agostino Abate è indagato per la gestione di un fascicolo relativo a interessi di imprenditori e politici varesini. È accusato di favoreggiamento. Le testimonianze dei colleghi, scrive Giuseppe Guastella il 16 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". L’ex pm di Varese Agostino Abate, campano di origine, ha coordinato tra l’altro, le inchieste sull’omicidio di Lidia Macchi e sulla morte di Giuseppe Uva. Abuso d’ufficio e favoreggiamento sono reati pesanti sulle spalle di un pm accusato di aver «intenzionalmente» aiutato le persone su cui indagava ad uscire indenni da una sua inchiesta. Un’indagine della Procura di Brescia apre un nuovo squarcio su anni di lavoro nella Procura di Varese del sostituto Agostino Abate, che dal 2015 è stato trasferito d’ufficio dal Csm a fare il giudice a Como con l’accusa di irregolarità nei casi Uva e Macchi. Su Abate si riversa un’inchiesta della Procura di Brescia, competente sui magistrati di Varese, chiusa dal sostituto Mauro Leo Tenaglia e dal procuratore aggiunto S.ndro R.imondi, che ora guida la Procura di Trento. Al centro ci sono alcune indagini sulla gestione della clinica privata «La Quiete» di Varese che vedevano coinvolti i fratelli Enrico Antonio Riva, Michele Riva e Sofia Riva Cristi che, dopo aver ceduto la struttura alla Ansafin dei fratelli Sandro e Antonello Polita, furono denunciati nel 2010 per non aver pagato tasse, contributi e sanzioni per 3,3 milioni, ma non furono iscritti nel registro degli indagati da Abate il quale, omettendo «qualunque approfondimento», ordinò anche a un capitano della Gdf di non lavorare più al caso. Tra le contestazioni c’è anche quella di essere riuscito, sostenendo un collegamento con una sua indagine, a farsi trasmettere dal collega Tiziano Masini un fascicolo con le denunce reciproche tra i Riva e i Polita, trattenuto per due anni senza indagare sui Riva. Per la Procura di Brescia, Abate ha violato la Costituzione che impone ai magistrati imparzialità e l’obbligo dell’azione penale procurando ai Riva un «ingiusto vantaggio» aiutandoli ad «eludere» le indagini e facendogli risparmiare spese legali, sanzioni e danni di immagine. Il ritardo nelle iscrizioni è l’accusa per Abate nei casi Uva, il giovane morto nel 2008 dopo essere stato arrestato e picchiato, e in quello di Lidia Macchi, violentata e uccisa nel 1987, che gli sono costati anche la perdita di 10 mesi di anzianità. «Addebiti basati su dati falsi», ha sostenuto. Le testimonianze agli atti descrivono il «clima anomalo» in Procura, come l’ha definito Masini, pm a Varese fino al 2012, ora aggiunto ad Alessandria. «Chi davvero comandava era il dottor Abate e si doveva tendere a non mettersi in collisione con lui». Luca Petrucci, che a Varese lavora dal 2005 come pm, racconta di quando Abate durante una riunione «minacciò i presenti dicendo: “Attenzione perché io so tutto di tutti”». Abate ha chiesto di essere interrogato dai colleghi bresciani. «Chiariremo tutto, siamo estranei alle accuse e respingiamo ogni accusa», dichiara il suo legale, l’avvocato Alberto Scapaticci. L’indagine è nata dalle denunce di Sandro Polita (per le altre i pm bresciani hanno chiesto l’archiviazione) il quale, assistito dall’avvocato Ivano Chiesa, dice che nonostante il fallimento di Ansafin e la perdita di 16 milioni per queste vicende, continua le sue attività. Ha scritto a ministro della Giustizia, Csm e Pg di Cassazione e di Milano. Chiede «provvedimenti urgenti» per gli anni di «illogica tolleranza» riservati al magistrato.
· Gaetano Maria Amato. Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere.
Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere. Gaetano Maria Amato, 57 anni, era in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria. Il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare. Nel 2009 aveva subito una sanzione dal Csm per i ritardi nella pubblicazione delle sentenze, scrive il 2 ottobre 2017 "La Repubblica". Un giudice in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Gli investigatori non forniscono particolari, a tutela delle vittime. Gaetano Maria Amato, 57 anni, nato a Messina, ha iniziato la sua carriera giudiziaria come pretore a Naso. Si era poi spostato a Messina, prima al tribunale civile e poi a quello fallimentare. Infine, nel 2009, il trasferimento alla corte d'Appello di Reggio Calabria. È padre di tre figli. Il giudice Amato nel 2009, quando era in servizio a Messina, subì un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per presunti ritardi nel deposito degli atti. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppe sentenze del magistrato depositate oltre i termini. Per questi ritardi il Csm lo aveva dichiarato colpevole e sanzionato con l'ammonizione. Il reato di pedopornografia configura vari tipi di comportamento, dalla sola detenzione di materiale pornografico alla cessione e diffusione, fino alla produzione di immagini con lo sfruttamento di minori. Il reato prevede, in caso di condanna, la reclusione fino a 12 anni. Pornografia minorile, tre foto a un unico “amico” della rete. Ecco nel dettaglio l’accusa al giudice Gaetano Maria Amato: qualche settimana prima degli arresti aveva ammesso le chat e l’invio di immagini. Sequestrati personal computer e cellulare, gli inquirenti a caccia di nuove prove e di (eventuali) altri “appassionati” di bambini.
Tre foto di due persone minorenni seminude (due) e nude (una), tutte carpite all’insaputa delle vittime e inviate tra il 2014 e il 2015 a un solo utente della rete con dei commenti a corredo, scrive il 5 ottobre 2017 Michele Schinella. Sono questi i fatti per cui il giudice della Corte d’appello di Reggio Calabria Gaetano Maria Amato, su richiesta della Procura di Messina accolta dal Giudice per le indagini preliminari Maria Vermiglio, è stato arrestato e condotto nel carcere di Gazzi il 3 ottobre scorso. L’accusa per il cinquantottenne è di Pornografia minorile, reato per cui è prevista una pena da 6 a 12 anni di reclusione. Tuttavia, le indagini sul magistrato sono tutt’altro che chiuse. Da quanto si è riuscito a sapere da ambienti vicini agli inquirenti, pochi giorni prima che scattassero gli arresti, a casa del giudice residente a Messina si sono presentati gli agenti della polizia con in mano un provvedimento di perquisizione e di sequestro di supporti telematici e informatici. Nell’occasione della perquisizione, lo stesso giudice ha fatto dichiarazioni spontanee, minimizzando i fatti e ammettendo che in passato aveva intrattenuto delle chat con un pedofilo a cui aveva inviato tre o 4 foto: in sostanza, ciò che gli inquirenti sapevano già e che gli è stato contestato al momento dell’esecuzione della misura cautelare. Gli inquirenti al termine della perquisizione hanno sequestrato e portato via personal computer e telefoni cellulari. La perizia sui supporti informatici permetterà di stabilire se il magistrato ha raccontato la verità e, quindi lo scambio di materiale pedo pornografico è stato occasionale e limitato a quello già accertato, oppure le foto prodotte e inviate sono molto di più e l’interlocutore del giudice non è stato uno solo ma diversi. In quest’ultimo caso, altri interlocutori con la “passione” per le immagine pedo pornografiche potrebbero finire nel mirino della Procura.
Nella rete…della perizia informatica. E’ con lo strumento della consulenza tecnica su strumentazione informatica che – secondo quanto si è riuscito a sapere dagli inquirenti della squadra mobile della polizia di Stato di Bolzano – ci è si imbattuti nel giudice di Messina. Le indagini infatti erano concentrate su un pedofilo che, a tempo pieno, usando diversi account e nick name, navigava sulla rete alla ricerca di materiale pedo pornografico. E’ stata l’accertamento tecnico sul materiale sequestrato a quest’ultimo che ha consentito di individuare tra la miriade di chat e scambio di materiale scottante, le comunicazioni e, soprattutto, le foto che il giudice gli ha inviato. Le carte sono state così trasmesse per competenza territoriale alla Procura di Messina.
La partita giuridica. La normativa che il legislatore ha dettato dal 1998 in poi contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minore, prevede diverse fattispecie di reato, di gravità diversa e quindi punite con pena diversa, i cui confini sono stati oggetto di interpretazioni non sempre univoche da parte della giurisprudenza. Al magistrato Amato, in attesa degli esiti degli ulteriori accertamenti tecnici sul pc e sul cellulare, è contestata la fattispecie più grave (art. 600 ter, primo comma): quella che incrimina chi “utilizzando minori di anni 18, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico”.
Per quanto le foto inviate dal giudice sono state realizzate all’insaputa delle vittime (e, ovviamente, senza la loro minima collaborazione), e sono state inviate a un solo utente, i fatti accertati sembrano rispondere appieno alla interpretazione che la Cassazione (a Sezioni unite) ha offerto della norma. La cassazione nel 2000 (numero 13) ha, infatti, stabilito che la norma “offre una tutela penale anticipata volta a reprimere quelle condotte prodromiche che mettono a repentaglio il libero sviluppo personale del minore, mercificando il suo corpo e immettendolo nel circuito perverso della pedofilia. Per conseguenza il reato è integrato quando la condotta dell’agente che sfrutta il minore per fini pornografici abbia una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto”. Non sarà semplice, ma ciò dipenderà anche dal tipo e dalla natura delle chat, per il giudice Amato difendersi sostenendo che l’aver trasmesso le foto a uno sconosciuto (che quindi non dava alcuna garanzia di riservatezza) non abbia determinato il concreto pericolo di diffusione delle stesse e quindi il rischio di pregiudicare il libero sviluppo personale dei minori raffigurati.
Primi provvedimenti. In applicazione della legge, che sul punto non ammette deroghe e riguarda tutti i pubblici funzionari senza che via la necessità di alcuna richiesta specifica di alcuno, il magistrato in conseguenza degli arresti e sin dal giorno successivo è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Allo stesso modo, è stato avviato nei suoi confronti procedimento disciplinare: si tratta, allo stato delle cose, di un grave illecito disciplinare, rientrante nella categoria degli “Illeciti conseguenti a reato” (e dunque diverso da quello compiuto nell’esercizio delle funzioni o fuori dalle stesse, ma sempre facendo pesare il ruolo di magistrato). Questo tipo di illeciti possono portare alla sanzione (anche della rimozione dalla magistratura) solo dopo la condanna irrevocabile.
I viaggi, il teatro e i chihuahua: chi è il giudice arrestato per pedopornografia. Gaetano Maria Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986. Adesso rischia da sei a dodici anni di carcere per pornografia minorile, scrive il 03/10/2017 "Tribupress.it". Viaggi, teatro, mostre d’arte. Abbondanti foto di due chihuahua di nome Dino e Minou. Sono gli elementi principali del profilo Facebook di Gaetano Maria Amato, il giudice della Corte d’Appello di Reggio Calabria arrestato nelle scorse ore per pornografia minorile. Un’accusa pesantissima, quella avanzata nei suoi confronti dal Procuratore di Messina Maurizio De Lucia e dall’Aggiunto Giovannella Scaminaci, che ha fatto in breve tempo il giro d’Italia. L’ipotesi di reato è quella prevista dall’articolo 600 ter del Codice Penale, che punisce con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa fino a 240.000 euro chiunque produca materiale pornografico o realizzi esibizioni o spettacoli pornografici con protagonisti minorenni. Sulla vicenda gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo a tutela delle vittime. Le indagini sarebbero state svolte dalla Polizia Postale di Catania e riguarderebbero fatti avvenuti a Messina. Nato a Messina cinquantasette anni fa, Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986, con l’incarico di Pretore a Naso, piccolo centro dei Nebrodi. Poi il trasferimento nel capoluogo e gli scatti di carriera, dalla sezione Civile a quella Fallimentare alla Penale. Qui aveva partecipato ai Collegi di Corte di Assise e alla Sezione Misure di prevenzione. Una carriera regolare, quella del magistrato messinese, che adesso oltre al procedimento penale rischia di essere sospeso e messo fuori organico dal Consiglio Superiore della Magistratura. Non sarebbe la prima volta che la toga passa al vaglio del Csm. Già nel 2009, a seguito di un’ispezione avvenuta durante il suo servizio a Messina nell’inverno del 2005, Amato subì un procedimento per ritardi nel deposito degli atti. Troppe sentenze depositate oltre i termini, secondo l’organo di autogoverno della magistratura, che sanzionò il giudice con un’ammonizione. Nel 2016 aveva difeso con altri giudici l’operato di una collega accusata della stessa inadempienza. Fin qui il profilo professionale. Ma l’accusa per la quale Amato è finito in manette attiene alla sfera privata. A dire qualcosa in più del magistrato finito nella bufera resta soltanto il profilo social. Popolato appunto da una grande quantità di foto di viaggi, di pièce teatrali, di cani per i quali mostra grande tenerezza. Foto di Lipari, Istanbul, delle Bahamas raggiunte a coronamento di un lungo viaggio negli States, iniziato a New York con la visita alla collezione Guggenheim. Poi foto in famiglia, qualche considerazione estemporanea sulla società e le sue brutture. E sempre i cagnolini fotografati in tutte le salse, anche sulle carte che il giudice si portava a casa dal lavoro. “Io ho tre vite, la mia, quella che si inventano gli altri e quelli che gli altri pensano che sia la mia vita”, fa dire a Snoopy in una foto condivisa nel gennaio 2015. Quale di queste sia oggetto delle valutazioni degli inquirenti che hanno portato all’arresto sarà compito della giustizia chiarirlo.
· Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Michele Monteleone.
Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Provvedimento non definitivo: il caso riguarda l'acquisto di un immobile, vicenda per la quale è stato archiviato in sede penale e in precedenza prosciolto disciplinarmente, scrive il 12 Febbraio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Il giudice Michele Monteleone è stato destituito dalla magistratura su decisione della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di un provvedimento non definitivo disposto sugli stessi fatti per i quali in passato la precedente consigliatura dell’organo di autogoverno della magistratura aveva «assolto» il magistrato, e per i quali il gip del Tribunale di Lecce, su richiesta della stessa Procura salentina, aveva archiviato la posizione nel procedimento penale. Tutto ruota intorno a una vecchia indagine sulla gestione di alcuni fascicoli fallimentari che il giudice, oggi presidente di sezione del Tribunale di Benevento, curava quando era in servizio nella sezione Fallimentare del Tribunale di Bari. Nel mirino, sostanzialmente, era finita la presunta mancata «sorveglianza» sui mandati di pagamento che sarebbero stati truccati dall’avvocato barese Gaetano Vignola e in cambio dei quali, il magistrato e la sua compagna, commercialista (anche la posizione di quest’ultima era stata archiviata) avrebbero potuto acquistare da Vignola un appartamento nel centro di Bari a un prezzo inferiore a quello di mercato. Il fascicolo era stato aperto a gennaio 2012, quando la procura di Bari aveva trasmesso per competenza uno stralcio dell’indagine sull’avvocato Gaetano Vignola. Nel procedimento penale, però, l’ipotesi iniziale non ha retto visto che al termine delle indagini era emerso come fosse stato proprio Monteleone a denunciare le presunte falsificazioni compiute da Vignola. I pm salentini non avevano dunque ritenuto la sussistenza di elementi di responsabilità a carico di Monteleone, riconoscendo la correttezza del suo operato. Una valutazione condivisa anche dal giudice delle indagini preliminari.
Chiusa la vicenda penale, però, era partita quella disciplinare a carico del magistrato. Nel mirino, sostanzialmente, la sua mancata astensione in procedure per le quali era interessata la compagna e poi un presunto vantaggio legato alla storia dell’appartamento. Un primo procedimento disciplinare, però, si era concluso anche in questo caso con un nulla di fatto. Il Csm aveva infatti «assolto» Monteleone. Una decisione, quest’ultima, impugnata dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione. Il Supremo Collegio, a Sezione Unita, aveva ordinato un nuovo processo disciplinare. E venerdì scorso la Sezione disciplinare del nuovo Consiglio, andando anche oltre rispetto alla richiesta della accusa che chiedeva per Monteleone la perdita di tre mesi di anzianità, ha disposto la sanzione più grave: la rimozione. Un provvedimento, va detto, che non è definitivo, né immediatamente esecutivo.
«Si tratta di una decisione severa e che non ci aspettavamo, ma riteniamo il giudice Monteleone estraneo alla vicenda e per questo impugneremo il provvedimento», fa sapere il dottor Alfonso Pappalardo, presidente del Tribunale di Brindisi e «avvocato» di Monteleone nel procedimento disciplinare. Insomma, la palla torna davanti alla Cassazione.
· Sentenze tributarie truccate, interdetto l'ex presidente del tribunale di Trani Filippo Bortone.
Sentenze tributarie truccate, interdetto l'ex presidente del tribunale di Trani. Lo ha deciso il gip di Foggia, accogliendo una richiesta della Procura che accusa l’ex magistrato ordinario Bortone di truffa e falso in relazione a numerose sentenze tributarie, scrive Massimiliano Scagliarini il 12 Febbraio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il giudice Filippo Bortone, ex presidente del Tribunale di Trani oggi in pensione, è stato interdetto per un anno dalla presidenza della Commissione tributaria provinciale di Bari. Lo ha deciso il gip di Foggia, accogliendo una richiesta della Procura che accusa l’ex magistrato ordinario di truffa e falso in relazione a numerose sentenze tributarie. L’indagine condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Finanza di Bari con i colleghi della Pg presso la Procura di Foggia è una costola di quella che portò a 13 arresti nel novembre 2017, sempre per sentenze tributarie che sarebbero state truccate. L'inchiesta era partita quasi due anni fa da Foggia dopo l'arresto di dieci persone accusate di truccare le sentenze tributari. Le indagini si spostarono poi su Bari dove nel mirino degli inquirenti finì Bortone. All'epoca furono posti sotto sequestro dopo il blitz dei militari lo studio, le abitazioni, i documenti e il computer del giudice. L'accusa di falso si riferisce alle sentenze da lui firmate sui ricorsi in tema di tasse che materialmente sarebbero state redatte da un suo collaboratore mentre quella di truffa riguarda i soldi ottenuti illecitamente come compenso per le sentenze.
Sospeso per falso e truffa in concorso il presidente della Commissione Tributaria di Bari, scrive il 13 Febbraio 2019 Il Corriere del Giorno. Il magistrato Filippo Bortone “sottoscriveva i provvedimenti redatti materialmente da altri, inducendo in errore il Ministero dell’Economia che per ciascun provvedimento giurisdizionale erogava il compenso”. I Finanzieri della Sezione anticorruzione del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari hanno eseguito una hanno eseguito una misura cautelare personale nella notifica della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio della pubblica funzione di Presidente della Commissione Tributaria di Bari, per la durata massima di dodici mesi per tutti i reati contestati (falso e truffa, in concorso), nei confronti di Filippo Bortone, magistrato ordinario in pensione, ex presidente del Tribunale di Trani. La misura è stata disposta dal GIP dr.ssa Carmen Corvino presso il Tribunale di Foggia su richiesta del pm dr.ssa Anna Landi della Procura della Repubblica di Foggia, nell’ambito di una complessa indagine svolta dalle Fiamme Gialle baresi in con la collaborazione la Sezione di Polizia Giudiziaria presso la Procura del capoluogo dauno. L’attività investigativa svolta è una parte di quella più estesa, denominata “Giustizia Privata” diretta dalla Procura di Foggia, che vide coinvolti numerosi pubblici dipendenti e magistrati (togati e non) delle Commissioni Tributarie Provinciale e Regionale, sezione staccata di Foggia, indagati per vari reati quali “corruzione”, “falso” e “truffa”, e culminata con l’arresto di 13 persone nel novembre 2017. Insieme al Bortone sono stati indagati anche il suo segretario Vittorio Marinaccio, il quale di fatto ha redatto ben 415 atti falsi, fra i quali 148 sentenze false nel 2013, 226 sentenze false nel 2014, e 41 sentenze false nel 2015, tutte successivamente firmate dal presidente della Commissione tributaria, ed il commercialista Gaetano Stasi, originario di Castellaneta (TA) attualmente residente a Foggia, che addirittura aveva redatto una sentenza firmata in seguito come propria dal Bortone. A stralcio di quell’indagine, fu avviato un secondo filone investigativo che ha visto coinvolti il Bortone Presidente della Commissione Tributaria Provinciale di Bari, insieme ad altri due indagati già coinvolti nella prima tranche. In particolare, la vicenda penale che li ha visti coinvolti riguarda la circostanza per cui il Presidente, secondo le prospettazioni dell’accusa, negli anni 2013-2016, in quanto Presidente di varie sezioni della Commissione Tributaria Provinciale di Foggia prima e di Bari poi, quale giudice relatore di centinaia di sentenze, sottoscriveva i predetti provvedimenti in realtà redatti materialmente da terzi estranei alla funzione giurisdizionale. Di conseguenza, limitandosi esclusivamente a sottoscrivere le sentenze redatte da altri, induceva in errore il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Ente erogatore del compenso spettante per la redazione di ciascun provvedimento giurisdizionale), in ordine alla genuinità e alla “paternità” delle stesse. Per poter capire meglio come funzionava la giustizia a Trani, riportiamo di seguito le dichiarazioni dei magistrati all’ atto del commiato di Filippo Bortone da presidente del Tribunale di Trani, avvenuto nel settembre del 2016. “Bortone, lascia un segno importante. Le scelte del Presidente sono sempre state condivise da tutti, Trani non è un Tribunale facile. La criminalità in questo territorio è aggressiva ed è per questo che l’impegno della sezione penale è sempre stato rilevante” disse il giudice Giulia Pavese, presidente della Sezione Penale del Tribunale di Trani. Il procuratore facente funzioni, Francesco Giannella, invece esordì con una battuta relativa all’audio nell’aula di Corte d’Assise, che non è riuscito a far sistemare. “In questi anni si sono vissute alcune rivoluzioni e vicende giudiziarie piuttosto complesse, ma le abbiamo potute attraversare anche grazie alla serietà che il presidente ci ha ridato. A nome di tutti noi pubblici ministeri un grandissimo grazie per questo impegno. Un consiglio che mi sento di dare al successore è di continuare con questo percorso che tu hai tracciato”. In aula era presente anche l’ex procuratore Carlo Maria Capristo, nel frattempo diventato capo della Procura di Taranto. “Al tuo successore – disse Capristo – chiedo di continuare il percorso che tu hai tracciato e di continuare a tenere aperte le porte del Tribunale come tu hai fatto. Il Tribunale di Trani deve rimanere un fiore all’occhiello. Trani ha bisogno di persone come te, per questo tu non uscirai mai di scena”. Michele Ruggiero, presidente della sottosezione di Trani dell’Anm, l’Associazione nazionale dei magistrati, disse a sua volta che “tutti i magistrati tranesi vedono nel presidente Bortone un grande maestro”. In quella occasione il Bortone proferì queste parole: “All’inizio consideravo questo mio pensionamento come una forma di dispetto giunto in un momento in cui le mie forze sono ancora intatte e ci sono tanti discorsi avviati. Poi sono entrato in un altro ordine di idee. In fondo il pensionamento è un traguardo. Sono i miei primi 50 anni di studio e lavoro perché non ho intenzione di fermarmi”. Tutte queste parole aiutano meglio a capire il disastro della giustizia a Trani (e non solo…) culminato con l’arresto dei magistrati Savasta e Nardi accusati di avere creato una vera e propria associazione a delinquere, finalizzata a dirottare processi e indagini in cambio di tangenti. Proprio ieri Il Tribunale del Riesame di Lecce ha rigettato la richiesta di annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo, confermando in tal modo l’impianto accusatorio della Procura di Lecce. Resta quindi in carcere Michele Nardi, l’ex giudice di Trani (oggi in servizio come pubblico ministero a Roma ma sospeso dalle funzioni), arrestato il 14 gennaio con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme all’ex collega Antonio Savasta. A seguito della decisione del Tribunale Riesame di Lecce svaniscono per ora le speranze di Nardi di ottenere la libertà e quindi il magistrato è costretto a restare nel carcere di Matera, dove peraltro sta scontando una condanna anche l’ex magistrato della Procura di Taranto Matteo De Giorgio. Il magistrato Antonio Savasta, attualmente detenuto a Lecce, al momento non ha avanzato richieste di scarcerazione e starebbe collaborando con gli inquirenti salentini (il procuratore Leonardo Leone de Castris e la pm Roberta Licci) per cercare di alleggerire la propria posizione processuale. E poi la chiamano anche “giustizia”….
· Carlo Maria Capristo indagato per Falso complotto Eni.
Falso complotto Eni, indagato il procuratore di Taranto. I pm di Messina gli contestano il reato di abuso d’ufficio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 luglio 2019. La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d’ufficio, il procuratore di Taranto Carlo Capristo. Le accuse si riferiscono all’epoca in cui il magistrato era a capo della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell’esposto anonimo su un presunto complotto contro l'Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. «Sono stato già interrogato dai colleghi di Messina alcune settimane fa alla presenza del mio difensore e ho rappresentato loro la correttezza del mio operato». Lo afferma il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, indagato a Messina per abuso d’ufficio per fatti risalenti a quando dirigeva la Procura di Trani sulla gestione di un esposto anonimo su un presunto complotto contro l’Eni e il suo Ad Claudio Descalzi. «Nessuno poteva immaginare all’epoca alcun preordinato depistaggio», sottolinea Capristo. «Quando giunsero gli anonimi a Trani - spiega Capristo - furono assegnati a due sostituti che si occuparono dei doverosi accertamenti sulla loro fondatezza». «Successivamente - rileva - venne formalizzata una articolata richiesta del fascicolo dal PM di Siracusa. La richiesta fu analizzata dai due sostituti che con apposita relazione mi rappresentarono che gli atti potevano essere trasmessi. Vistai la relazione e disposi la trasmissione del fascicolo al Procuratore di Siracusa. Nessuno poteva immaginare all’epoca alcun preordinato depistaggio».
Continua la "guerra" fra Procure. La Procura di Messina indaga il procuratore capo di Taranto. Il Corriere del Giorno il 3 Luglio 2019. Capristo procuratore capo di Taranto iscritto nel registro degli indagati di un’inchiesta della procura di Messina sulla base di un esposto anonimo, arrivato in Sicilia quando il magistrato era alla guida della procura di Trani. Di lui ha parlato in un verbale l’avvocato Piero Amara, il regista del “sistema Siracusa”, che ha raccontato di aver inviato a Trani, quando Capristo era a capo di quella procura, uno degli esposti anonimi che sarebbero dovuti servire ad inscenare il falso complotto ai danni dell’Eni, per sviare le “vere” indagini di Milano sul colosso petrolifero. ROMA – La Procura della Repubblica di Messina ha iscritto il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo nel registro degli indagati, per ipotesi di abuso d’ufficio . I fatti si riferiscono al periodo in cui il magistrato barese era alla guida della Procura di Trani e riguardano la vicenda di un esposto anonimo su un presunto complotto contro l’Eni e il suo amministratore delegato Claudio Descalzi pervenuto alle Procure di Trani e Siracusa. L’esposto inviato da una mano anonima sarebbe stato finalizzato in realtà a depistare un’altra inchiesta, nel frattempo aperta a Milano, su tangenti pagate dall’Eni in Nigeria e Algeria. L’anonimo venne mandato alla Procura di Siracusa e a quella di Trani. Nella procura di Siracusa l’allora pm Giancarlo Longo, avrebbe messo in piedi un’indagine priva di qualunque fondamento, su un falso piano di destabilizzazione del gruppo petrolifero statale e del suo amministratore delegato Descalzi . Alcuni giorni prima di chiedere il patteggiamento l’ex Pubblico Ministero Giancarlo Longo aveva chiesto di essere interrogato dai Pubblici Ministeri di Messina in quanto voleva svelare atti corruttivi commessi da alcuni componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Longo, che poi ha subito una condanna a cinque anni di reclusione, svelò che i suoi amici-complici in svariati illeciti, gli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara, (entrambi successivamente arrestati) avrebbero versato al magistrato Luca Palamara (membro del Csm all’epoca dei fatti) la somma 40 mila euro per “sponsorizzare” ed assicurare la nomina di Longo al vertice della Procura della Repubblica di Gela.
Le manovre per portare Longo alla guida della Procura di Gela. L’ex magistrato Longo, non ancora 50enne, da sostituto procuratore della Procura di Siracusa, avrebbe così avuto la possibilità di far un gran balzo di carriera arrivando a diventare il capo della Procura di Gela. Questa promozione non arrivava casualmente ma era la meta cui ambiva l’avvocato Amara, nell’ambito dei suoi propositi di scalare i rapporti con le gerarchie dell’Eni ed ottenere parcelle di centinaia di migliaia di euro per ogni sua consulenza difensiva in favore dei dirigenti dello stabilimento petrolifero di Gela che finivano sotto inchiesta per inquinamento ambientale o per altri reati. Se fosse andata in porto l’operazione di far nominare procuratore capo di Gela l’ex pubblico ministero Giancarlo Longo , gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore avrebbero avuto la strada libera da ostacoli negli uffici della Procura della Repubblica di Gela in quanto, avendo sul libro paga l’ex pubblico ministero Longo e avendo pagato la sua promozione a procuratore capo, gli avrebbero impedito o lo avrebbero costretto ad affossare tutte le inchieste contro i funzionari di Eni in servizio presso l’impianto petrolchimico di Gela. La promozione di Longo a capo della Procura di Gela sfumò e il magistrato napoletano, dopo essere stato arrestato nell’ambito dell’ “operazione Sistema Siracusa”, su richiesta dei Pubblici Ministeri di Messina, che oltre a lui fecero rinchiudere in carcere anche gli avvocati Amara e Calafiore, nel momento in cui si vide costretto a scegliere tra il giudizio ordinario e il rito abbreviato, optò per il patteggiamento. L’ex pm Giancarlo Longo chiese di patteggiare quattro anni di reclusione, ma si vide sbattere la porta in faccia dai pm Carchietto, Fradà e Rende i quali gli dissero in poche parole: prendere o lasciare, daremo il consenso soltanto per una pena di cinque anni di reclusione, con la cessione del tuo Tfr alle parti offese e la lettera di dimissioni dal corpo della Magistratura. E così avvenne. Con l’incubo di dover ritornare in carcere, Giancarlo Longo tentò anche la carta della disperazione: chiese di essere interrogato per rivelare fatti illeciti di cui era a conoscenza. Quando venne sentito dai pubblici ministeri di Messina, l’ex magistrato accusò di corruzione tre magistrati in servizio al Csm e ha svelato che a rivelargli che nel suo ufficio della Procura di Siracusa fossero stati installati videocamere e “cimici” è stato il suo collega pubblico ministero Maurizio Musco. I verbali contenenti le dichiarazioni di Longo, per il coinvolgimento di tre componenti del Csm, sono stati trasmessi alla Procura della Repubblica di Perugia e adesso sono di pubblico dominio con l’apertura un fascicolo che vede indagati per corruzione il pm della procura di Roma, Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale Magistrati ed ex componente del Csm. Per le accuse a Palamara ed ad altri due suoi colleghi verbalizzate dagli avvocati Amara e Calafiore nei mesi scorsi sono stati arrestati giudici in servizio al Consiglio di Stato, al Cga di Palermo, alla Corte dei Conti di Roma. Nel decreto di perquisizione domiciliare e dell’ufficio di Palamara , si legge che avrebbe ricevuto 40 mila euro dagli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Nell’inchiesta è coinvolto l’imprenditore romano Fabrizio Centofanti, sotto processo a Messina nell’ambito dell’operazione denominata “Sistema Siracusa” per avere anticipato le spese della vacanza natalizia a Dubai all’ex pubblico ministero Longo e alla sua famiglia, nonchè quelle che avrebbero dovuto sostenere gli avvocati Amara e Calafiore. Anche i due avvocati di Siracusa, dal mese di aprile dello scorso anno divenuti “collaboratori di giustizia”, e sono indagati dai magistrati del capoluogo umbro per corruzione. Per favoreggiamento e rivelazione di atti coperti dal segreto sono invece indagati anche altri due magistrati di Roma: Luigi Spina e Stefano Rocco Fava. Dagli atti emerge che parti offese sono l’ex procuratore capo di Roma Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo, nonchè il magistrato di Catania, Marco Bisogni, che, secondo il diabolico piano degli avvocati Amara e Calafiore, avrebbe dovuto essere sottoposto a dei procedimenti disciplinari aperti contro di lui dal Csm in quanto aveva “osato” mettere sotto inchiesta l’avvocato Amara e sua moglie, Sebastiana Bona, per emissione di fatture false e altri reati fiscali. Lo scontro tra Amara e Bisogni avvenne quando quest’ultimo era pubblico ministero alla Procura della Repubblica di Siracusa. Amara, assistito dall’avvocato Calafiore, cercò di far pagare un alto prezzo al magistrato Bisogni citandolo a giudizio, innanzi al Tribunale Civile di Messina, ove gli chiese di risarcirgli un danno economico ammontante a otto milioni di euro. La richiesta fu dichiarata ammissibile dal Collegio giudicante ma, per fortuna del pm Marco Bisogni, successivamente, un altro Collegio, difformemente composto rispetto a quello che aveva dichiarato ammissibile la richiesta dell’avvocato Amara, rigettò la richiesta e fece tirare un grosso respiro di sollievo al Pubblico Ministero Bisogni, che oggi lavora alla Procura di Catania. In relazione alle accuse mosse al magistrato Palamara (che si recò a Siracusa e guidava la commissione disciplinare che avrebbe dovuto decidere la sorte del procuratore capo Francesco Paolo Giordano), dal 2011 l’imprenditore Centofanti gli avrebbe elargito “utilità e vantaggi economici”. A beneficiarne non solo Palamara, ma anche sua sorella Emanuela e la sua amica Adele Attisani. Centofanti avrebbe pagato anche un gioiello del valore di 2mila euro, in una gioielleria di Misterbianco, destinato all’Attisani per il suo compleanno. All’ “amica” di Palamara sarebbe stato pagato anche un soggiorno nel settembre del 2017 all’hotel Jebel di Taormina. Ci sono poi le carte di imbarco per Attisani e Palamara per un volo Roma-Dubai dal 25 al 29 novembre 2016 e due fatture relative a un viaggio a Favignana. L’ex presidente dell’Anm è stato interrogato recentemente per più di 4 ore negli uffici di una caserma della Guardia di Finanza, respingendo con fermezza le accuse. “Sulla mia persona – ha detto ai magistrati di Perugia – si stanno abbattendo i veleni della Procura di Roma, ma ho la tempra forte e non mi faccio intimidire. Sto chiarendo punto per punto tutti i fatti che mi vengono contestati perchè ribadisco che non ho ricevuto pagamenti, né regali, né anelli e non ho fatto favori a nessuno”.
Perche Capristo viene indagato. L’ex procuratore capo di Trani Carlo Maria Capristo, ora alla guida della Procura di Taranto, che è bene ricordare nell’ambito del sistema corruttivo scoperchiato negli uffici giudiziari di Trani non è mai stato coinvolto o sfiorato, è stato sentito le scorse settimane dai pm messinesi, che hanno indagato e processato Longo scoprendo il piano, i quali gli contestano l’anomala trasmissione dell’esposto al collega Longo anziché alla procura di Milano, naturale sede dell’inchiesta sul falso complotto. Di lui ha parlato in un verbale l’avvocato Piero Amara, il regista del “sistema Siracusa“, che ha raccontato di aver inviato a Trani, quando Capristo era a capo di quella procura, uno degli esposti anonimi che sarebbero dovuti servire ad inscenare il falso complotto ai danni dell’Eni, per sviare le “vere” indagini di Milano sul colosso petrolifero. “Sono stato già interrogato dai colleghi di Messina alcune settimane fa alla presenza del mio difensore e ho rappresentato loro la correttezza del mio operato“, ha dichiarato Capristo in proposito. “Nessuno poteva immaginare all’epoca alcun preordinato depistaggio. Quando giunsero gli anonimi a Trani – spiega Capristo – furono assegnati a due sostituti che si occuparono dei doverosi accertamenti sulla loro fondatezza. Successivamente – prosegue – venne formalizzata una articolata richiesta del fascicolo dal PM di Siracusa. La richiesta fu analizzata dai due sostituti che con apposita relazione mi rappresentarono che gli atti potevano essere trasmessi. Vistai la relazione e disposi la trasmissione del fascicolo al Procuratore di Siracusa. Nessuno poteva immaginare all’epoca alcun preordinato depistaggio“. Sentito dal CORRIERE DEL GIORNO il Procuratore Capristo ha smentito di aver avuto qualsiasi contatto o rapporto con gli artefici del “sistema Siracusa” e manifestato la propria serenità “certo di aver sempre rispettato e fatto rispettare il corso della giustizia“, escludendo ogni coinvolgimento e responsabilità personale. “Per me parleranno i documenti” conclude Capristo.
· L’assoluzione di Vendola. Il giudice Susanna De Felice: non si tocca.
Bari, diffamazione al giudice del processo Vendola: condanna per Panorama. Mondarori, ex direttore Mulè e cronista Amadori dovranno risarcire Susanna De Felice per 98mila euro. La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Ottobre 2019. La prima sezione civile del Tribunale di Bari ha condannato la Arnoldo Mondadori Editore Spa, l’ex direttore del settimanale Panorama Giorgio Mulè, attualmente deputato di Forza Italia, e il giornalista Giacomo Amadori al risarcimento di circa 98mila euro (tra ristoro del danno non patrimoniale, sanzione pecuniaria e spese) nei confronti dell’ex giudice barese Susanna De Felice. Il settimanale, tra il 20 febbraio e il 24 luglio 2013, aveva pubblicato sette articoli sul giudice che nell’ottobre 2012 aveva assolto l’allora presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, dal reato di abuso d’ufficio relativo alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo di Bari, insinuando che lo avesse fatto "non perché la cosa prospettata fosse infondata ma perché amica di famiglia». Secondo il Tribunale di Bari, si è trattato "campagna diffamatoria a puntate» attraverso la «pubblicazione di articoli costruiti ad arte sulla base di notizie non vere». Il giornalista avrebbe così «insinuato nell’opinione pubblica il sospetto» di «una forma di giustizia addomesticata a misura di potenti e amici». In quegli articoli il settimanale raccontava di feste e cene - risalenti al 2006 - alle quali il giudice e la sorella di Vendola, in una occasione, lo stesso governatore pugliese, sedevano allo stesso tavolo, corredando gli scritti con foto sulle quali, secondo il Tribunale, sarebbe stato «eretto l'intero castello accusatorio». Per questi fatti il giudice De Felice ha subito anche un procedimento penale a Lecce per abuso d’ufficio, poi archiviato. «L'offesa all’onore e alla reputazione del giudice - si legge nella sentenza - si è realizzata attraverso una pluralità di articoli che hanno storicamente costituito le tappe di una aggressione mediatica via via più violenta, attraverso cui si è cercato di stimolare, con crescente intensità, l’appetito dei lettori fornendo loro notizie di fatti falsi. L’articolista attraverso malevole allusioni, scaltri accostamenti, titoli ad effetto, strategici impieghi del materiale fotografico, offre l'immagine deformata e dequalificante di un magistrato che, abusando della funzione pubblica attribuitale, esercita in modo parziale la giurisdizione penale, assicurando un esito assolutorio ad imputati indirettamente vicini al giudice, in ragione dei rapporti di amicizia o comunque di frequentazione abituale che legano lo stesso giudicante alla famiglia dell’imputato».
Csm, sanzioni in vista per Susanna De Felice? Trasferimento o provvedimento disciplinare in vista per il giudice che ha assolto Nichi Vendola - per la sinistra nulla di male - ecco la foto dello scandalo - Il pranzo di Vendola con il giudice Susanna De Felice. Annamaria Greco su Panorama. Il rischio è concreto per Susanna de Felice, la giudice di Bari che ha assolto a ottobre Nichi Vendola: non solo un trasferimento d’ufficio, ma anche un processo disciplinare. L’accusa alla gup di aver favorito il presidente della Regione Puglia per la presunta amicizia con la sorella Patrizia, appare più consistente al Csm dopo l’audizione davanti alla prima commissione dei pubblici ministeri titolari dell’indagine, Desirée Digeronimo e Francesco Bretone, oltre che del capo dell’ufficio gip-gup, Antonio Diella e del procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno. Sulle loro testimonianze del 12 febbraio c’è ancora il massimo riserbo, ma da Palazzo de’ Marescialli trapela che soprattutto le dichiarazioni di Bretone sarebbero state molto pesanti e circostanziate, tali da mettere nei guai la De Felice e gettare le basi di un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Dopo la settimana bianca, la prossima a Palazzo de’ Marescialli, il 5 marzo la commissione dovrebbe nuovamente riunirsi e decidere di ascoltare altri magistrati pugliesi sulla vicenda. Tutto questo viaggia in parallelo all’inchiesta aperta dalla Procura di Lecce. E intanto sono state publicate da «Panorama» e poi da altri organi di stampa le foto che ritraggono la De Felice e la Vendola insieme ad altri amici. Una conferma di rapporti che appaiono più stretti di quello che la gup ha dichiarato. Il Csm si è mosso, su richiesta di due consiglieri del cartello delle correnti di sinistra Area, per verificare se esistano i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale . Ma a questo punto, ci potrebbe essere di più di questo. Il caso è esploso dopo la lettera riservata nella quale a novembre Digeronimo e Bretone manifestarono i loro dubbi sull’imparzialità della giudice, appunto per la sua presunta amicizia con Patrizia Vendola. Si rivolsero al procuratore generale Antonio Pizzi, al procuratore di Bari Antonio Laudati e per conoscenza all’aggiunto Giorgio Lino Bruno, per «consentire di attivare, ove lo ritengano, i poteri loro attribuiti di vigilanza e controllo». Succedeva subito dopo l’assoluzione del governatore, il 31 ottobre, dall’accusa di abuso d’ufficio, insieme all’exdirettore generale dell’Asl Bari Lea Cosentino. Per Bretone e Digeronimo, la De Felice e la Vendola sarebbero legate da «un’amicizia diretta» e da «frequentazione di amici in comune» e dunque la giudice si sarebbe dovuta astenere dal processo. I due pm scrissero la lettera ai superiori solo dopo l’assoluzione perchè, spiegarono, avevano avuto notizie precise sul rapporto tra la giudice e la sorella di Vendola. La voce girava da tempo a Bari e in Procura, tanto che a settembre la stessa De Felice aveva scritto al capo del suo ufficio, Diella, di conoscere la sorella del governatore ma solo superficialmente, incontrandola ad un paio di cene, senza un rapporto di vera amicizia. E non aveva giudicato necessario astenersi dal caso Vendola. Dopo la denuncia dei pm il Pg Pizzi avviò gli accertamenti, ascoltò i capi degli uffici e trasmise la relazione finale a Lecce e a Roma, al Csm. Il segretario della corrente Magistratura indipendente, Cosimo Ferri chiede ora all’organo di autogoverno della magistratura «chiarezza e trasparenza a 360 gradi» e polemizza: «Perchè il Csm sta guardando solo nella direzione sbagliata? Sul rapporto politica e giustizia e su ciò che è accaduto e sta succedendo a Bari mostra distacco e non interviene». Ma a Palazzo De’ Marescialli, informalmente, si assicura che dopo le importanti audizioni dei pm baresi «anche volendo, non si potrà non fare nulla e ci potrebbe essere un provvedimento disciplinare per la De Felice».
Simone Di Meo per “la Verità”il 19 giugno 2019. Se, come sosteneva Oscar Wilde, la coerenza è l' ultimo rifugio delle persone prive d' immaginazione, possiamo ben dire che l' ex senatore-pm-scrittore Gianrico Carofiglio sia un uomo ricco di inventiva, e non solo per le articolate trame dei suoi libri. Ne ha dato dimostrazione lunedì sera, nel corso della trasmissione di Nicola Porro, Quarta Repubblica, commentando con alti lai lo scandalo delle toghe che sta terremotando il Pd e il Csm. «Io sono un po' turbato da tutta questa discussione», ha detto Carofiglio battibeccando con la collega di partito Alessia Morani, che difendeva Luca Lotti, «perché la mia opinione è che, per esempio, l' onorevole Morani sia in buona fede e questo mi preoccupa parecchio, lo devo dire in modo franco, perché quasi quasi sarebbe meglio se non credesse a quello che dice». Un attimo di suspense da consumato autore noir. «Io credo invece che ci creda e questo ci pone di fronte a un problema molto serio e cioè che noi tutti, collettivamente e individualmente, abbiamo perso una capacità che è fondamentale per la salute della democrazia, e cioè la capacità di vergognarsi». Per essere più diretto, l' ex magistrato spiega: «Dicevo l' incapacità () di vergognarsi di cose che sono vergognose. Ed è vergognoso che un politico, senza alcun mandato del suo partito (chiaro il riferimento a Luca Lotti e a Cosimo Ferri, ndr), in una situazione chiaramente clandestina, vada a trattare di cose di cui non ha nessun titolo per occuparsi, è qualche cosa che è assolutamente fuori da qualsiasi prospettiva di tollerabilità». Parafrasando il titolo di un suo bestseller, L' arte del dubbio, sarebbe interessante sapere se questa integerrima posizione di intransigenza tra politica e giustizia, peraltro giustissima, l' ex senatore-pm-scrittore di Bari l' abbia maturata a proposito degli ultimi fatti di cronaca o se facesse parte del suo patrimonio etico anche negli anni scorsi, quando un nutrito gruppo di uomini di legge pugliesi - egli compreso - transitò nelle fila dei Ds-Pd. Magistrati come Alberto Maritati, senatore della Quercia dal 1999 e sottosegretario nei governi D' Alema I e II (1999-2000), o come Michele Emiliano, sindaco di Bari e attuale governatore della Puglia. Entrambi - Maritati ed Emiliano - nel corso delle indagini s' imbatterono (il primo nell' inchiesta «Operazione speranza», il secondo nel fascicolo «Missione arcobaleno») in esponenti politici del partito che, di lì a poco, li avrebbe candidati e fatti eleggere. O se - continuiamo a esercitarci nell' arte del dubbio - questo rifiuto ideologico a relazioni improprie tra politici e magistrati, che possono essere non di competenza del codice penale ma del codice morale e deontologico, fosse presente in Carofiglio pure in occasione delle conviviali (nel 2007 e nel 2012, date che di certo conosciamo) a cui partecipò insieme all' allora governatore Nichi Vendola e al giudice che lo assolse dall' accusa di abuso d' ufficio, Susanna De Felice. Il secondo incontro si tenne proprio a casa di Carofiglio, mentre il primo fu immortalato da una foto pubblicata nel febbraio 2013 dal settimanale Panorama. Di quest' ultimo episodio conviene ricordare gli strascichi giudiziari che videro coinvolti il giornalista autore dello scoop, Giacomo Amadori, lo stesso pm-scrittore e il cognato di Vendola, Cosimo Ladogana. Dopo la pubblicazione dell' immagine, si attivò infatti un «sofisticato progetto» che provò a far cadere il giornalista in una trappola e a procurargli seri guai giudiziari. Ladogana, fingendosi un appartenente ai servizi segreti, contattò infatti Amadori proponendogli l' acquisto di foto asseritamente rubate dal pc della sorella di Vendola, Patrizia. Scene tra Vendola, la donna e il giudice che aveva decretato l' innocenza del politico con l' orecchino. Il cronista non abboccò all' amo e, dopo un primo incontro, smise di rispondere alle sue pressanti mail. Allora, Ladogana, mosso da «vendicative e non proprio commendevoli intenzioni» (questo lo scrive il pm), pur di arrecare danno al giornalista, si autodenunciò del furto delle immagini e accusò Amadori di ricettazione. Facendolo finire per quasi due anni sotto inchiesta. Dopo l' archiviazione di Amadori, considerato che nessuna foto ipoteticamente rubata era stata acquistata tanto meno pubblicata dal settimanale, la «macchina del fango» innestò la retromarcia e colpì chi, fino a quel momento, l' aveva guidata. Ladogana finì indagato per autocalunnia e Carofiglio, che aveva - secondo l' accusa - offerto un contributo per correggere e limare l' esposto dell' amico -, per omessa denuncia. Peraltro, nella scheda di registrazione del reato, è curioso constatare come l' allora pm dello stesso ufficio, Gianrico Carofiglio, fosse per la Procura di Bari «soggetto da identificare». Il pm Pasquale Drago, il 3 ottobre 2017, archivierà anche questa tranche giudiziaria ritenendo che non ci fu calunnia nei confronti del giornalista autore dello scoop su Panorama perché non si era configurato il reato di ricettazione. Su questi spunti, magari, l' ex senatore-pm-scrittore pugliese potrebbe offrire una sua profonda riflessione in grado di aprire un ulteriore squarcio di consapevolezza all' interno del Pd e della galassia della giustizia. Non vorremmo restare, e qui citiamo un altro bestseller, con Ragionevoli dubbi.
· Magistrati arrestati: Michele Nardi e Antonio Savasta.
Giustizia truccata a Trani, indagato anche ex pm antimafia Seccia. La Procura: «A lui e a un commercialista i soldi di D'Introno». Massimiliano Scagliarini il 20 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il 30 settembre, dieci giorni prima di finire nel carcere di Trani dove sta scontando la sua condanna definitiva per usura, Flavio D’Introno si è seduto per l’ultima volta davanti ai pm di Lecce. E ha raccontato di altre mazzette pagate in cambio di favori mai ricevuti, consegnando a chi indaga una serie di documenti che testimonierebbero i passaggi diretti e indiretti di denaro: in tutto più di 300mila euro. L’inchiesta sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani dunque va avanti, e la notifica di una proroga delle indagini ha comportato la discovery sui nomi e sulle accuse del secondo filone. L’ex pm antimafia Domenico Seccia, barlettano, oggi sostituto pg in Cassazione, è accusato di concorso in corruzione insieme al commercialista barese Massimiliano Soave e allo stesso D’Introno. Soave risponde anche di tentata violenza privata nei confronti dell’imprenditore di Corato. Nella richiesta di proroga che il pm Roberta Licci ha inviato al gip Cinzia Vergine si fa riferimento appunto ai verbali di D’Introno, e agli ulteriori accertamenti delegati ai Carabinieri di Barletta che negli ultimi mesi hanno ascoltato in qualità di testimoni numerose persone. L’iscrizione di Seccia e di Soave (che, con l’avvocato Antonio La Scala, ha già più volte spiegato di ritenersi assolutamente estraneo ai fatti) è avvenuta a maggio scorso, evidentemente dopo le verifiche sulle prime confessioni rese da D’Introno a partire da ottobre 2018, quelle già depositate ma coperte da numerosi «omissis». Nell’ultimo interrogatorio prima dell’arresto, l’imprenditore di Corato avrebbe invece ripreso la vicenda delle cartelle esattoriali da 10 milioni, quelle che aveva tentato di bloccare in ogni modo pagando l’ex pm Antonio Savasta e l’ex gip Michele Nardi (entrambi già a processo con l’accusa di associazione per delinquere). Oltre ad essere il trait d’union tra D’Introno e Nardi, Soave sarebbe stato anche il suo collegamento con il dottor Seccia (ex pm a Trani e Bari, poi procuratore a Lucera e Fermo) all’epoca componente della commissione tributaria provinciale di Bari che annullò le cartelle per un difetto di notifica. Decisione poi ribaltata in secondo grado con definitiva conferma in Cassazione. Un tentativo, quello di bloccare le pretese in sede tributaria, che D’Introno ha detto di aver pagato più di 100mila euro. Soave - ha raccontato l’imprenditore - avrebbe preteso denaro anche per intervenire nel corso del processo di secondo grado per l’usura. Seccia invece, sempre nella versione che l’accusa sta cercando di riscontrare, avrebbe indotto D’Introno anche a intervenire nel procedimento fallimentare che riguardava il cognato del magistrato barlettano attraverso l’acquisto di un credito, operazione poi effettuata dal padre di D’Introno spendendo altri 100mila euro. In quanto alla tentata violenza privata, anche questa da riscontrare, D’Introno ha raccontato un incontro con Soave che - a suo dire - gli avrebbe consigliato di non tirare in ballo Seccia, che altrimenti gli avrebbe «mandato la mafia garganica». L’inchiesta sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani vede al centro dell’accusa i soldi e i favori pagati da D’Introno a Savasta, Nardi e all’ex pm Luigi Scimè: oltre due milioni più regali e viaggi. Il processo con rito ordinario (dove c’è Nardi) riprenderà il 5 febbraio, mentre quello in abbreviato (con Savasta che ha confessato e Scimè) ripartirà il 20 gennaio con le richieste dell’accusa.
Giustizia svenduta, pm Scimè: mai preso soldi, D'Introno mente e Savasta (ex pm) non è lucido. L'ex sostituto di Trani ora in servizio a Salerno smonta di anzi al gup le accuse del suo ex collega e dell'imprenditore sui 20mila euro. Massimiliano Scagliarini il 15 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha respinto con passione l’accusa di aver mai accettato denaro per truccare i procedimenti penali a carico di Flavio D’Introno, negando le due consegne di soldi che sarebbero avvenute a Barletta e a Milano. L’ex pm tranese Luigi Scimè ha parlato per due ore davanti al gup di Lecce, Cinzia Vergine, dove ha scelto l’abbreviato per rispondere di corruzione in atti giudiziari e dove ha smentito sia le confessioni dell’imprenditore di Corato, sia le parole dell’ex collega e coimputato Antonio Savasta: «Il dottor Savasta è in uno stato totale confusionale, non ha detto una sola cosa che abbia un senso perché lui è in uno stato confusionale ancora ora e basta guardarlo». Scimè (con l’avvocato Mario Malcangi) è tuttora in servizio al Tribunale di Salerno. Il Csm ha rinviato al 20 marzo la decisione sulla sua eventuale sospensione, proprio per attendere il responso del processo che riprenderà il 20 gennaio con le richieste della Procura di Lecce. L’ex pm è accusato di aver preso 20mila euro, per ammorbidire le richieste di condanna nel processo Fenerator (usura) a carico di D’Introno e per archiviare le indagini sugli incendi nelle ville dell’imprenditore di Corato, così da consentirgli di incassare il risarcimento dell’assicurazione. In più gli viene contestato di aver apposto il «visto» alla richiesta di sequestro delle cartelle esattoriali di D’Introno preparata da Savasta, così da evitare che fosse vagliata dall’allora capo della Procura di Trani. D’Introno ha raccontato di aver consegnato una busta con 10mila euro a Scimè a Milano, ma senza riuscire a collocare l’episodio nel tempo (ha indicato tre possibili periodi in un arco di quattro anni) né il motivo del pagamento. «Io non ero a Milano - ha detto il magistrato -, ci sono le prove documentali. Non ero a Milano, dopodiché se la cosa è avvenuta per via mentale...Un magistrato di vent'anni non compie l'errore di andare in piazza Duomo da una persona sconosciuta dove ci possono essere centinaia di persone che ti fanno una foto di nascosto a prendere una busta così nel negozio Autogrill. Andate un primo maggio o un novembre a Piazza Duomo e mettetevi non sulla Piazza Duomo, ma a lato della Piazza Duomo e vedete se riuscite a vedere all'interno nel negozio Autogrill». D’Introno ha raccontato che si trovava a Milano insieme a un suo amico, un certo Riganti, che ha confermato. «È un soggetto che io - ha replicato Scimè - avevo arrestato per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina pochissimo tempo prima di quando lui ha reso quelle dichiarazioni». Per quanto riguarda i 10mila euro di cui ha parlato Savasta, Scimè ha battuto sulle contraddizioni del racconto. «La causale dei 10 mila euro non è stata chiarita, non si capisce perché me li avrebbe dati. Nell'interrogatorio del 29 gennaio 2019 senza nessun dubbio lui parla di questa dazione per il fascicolo cosiddetto Frualdo (una denuncia di D’Introno contro due testimoni, ndr). (...) Invece nel successivo interrogatorio che fa Savasta il 19 marzo 2019 (...) diventa quasi pacifico, quasi naturale, quasi normale che tutta questa storia dei 10 mila euro, l’unica storia dei 10 mila euro, viene collegata a un altro fascicolo completamente, totalmente diverso che è quello Fenerator (le accuse di usura a D’Introno, ndr)». Su Fenerator, l’accusa è che Scimè avesse concordato la requisitoria con Savasta in un incontro sul terrazzino di casa dei genitori di quest’ultimo. «E in realtà io non conclusi per l’assoluzione, conclusi per 3 anni di reclusione e peraltro l'ipotesi accusatoria (della Procura di Lecce, ndr) è quella per cui questi reati per i quali io dovevo concludere sono reati di facile prescrizione, si sarebbero prescritti a breve (...). Si sono prescritti perché è durato 2 anni e mezzo il procedimento in Corte d’Appello». Infine, la questione del «visto» per il sequestro delle cartelle esattoriali chiesto da Savasta. «Aveva solo una funzione informativa - dice Scimè - e non era legittimante. Io lo dovevo mettere, perché non c'erano i presupposti per non mettere quel visto. Quel giorno che ero solo in ufficio ne avrò messi dieci di questi visti, nella mia vita professionale ne avrò messi duemila...». Mentre l’abbreviato davanti al gup (dove c’è anche Savasta) riprenderà a gennaio, mercoledì in Tribunale verranno ascoltati come testimoni nel procedimento ordinario contro l’ex gip Michele Nardi gli ex capi della Procura di Trani. Ma non è secondario quello che il gup deciderà su Scimè, perché sarà il primo vaglio sull’attendibilità dei racconti di D’Introno (e di Savasta) su cui si basa l’intera inchiesta di Lecce.
Minacce a testimoni, condannati due ex pm di Trani Ruggiero e Pesce. Michele Ruggiero è stato condannato ad un anno di reclusione per concorso in tentata violenza privata. Pena di otto mesi per lo stesso reato all’altro pm tranese Alessandro Pesce. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Novembre 2019. L’ex pm di Trani (ora in servizio alla Procura di Bari) Michele Ruggiero è stato condannato ad un anno di reclusione per concorso in tentata violenza privata. Pena di otto mesi per lo stesso reato all’altro pm tranese Alessandro Pesce. La sentenza è stata emessa poco fa da una sezione monocratica del Tribunale di Lecce che ha accolto le conclusioni dell’indagine istruita dal procuratore Leonardo Leone de Castris e dal pm Roberta Licci. L’indagine riguarda presunte pressioni fatte dai due pm tranesi, nell’ottobre 2015, su tre testimoni di un’inchiesta per costringerli ad ammettere di essere al corrente del pagamento di tangenti all’ex comandante della polizia municipale di Trani, Antonio Modugno, nella fornitura di photored.
Condannati i magistrati Ruggiero e Pesce ex pm di Trani: "minacce a testimoni". Il Corriere del Giorno il 15 Novembre 2019. Il magistrato Michele Ruggiero è stato condannato ad un anno di reclusione per concorso in tentata violenza privata. Per lo stesso reato all’altro pm Alessandro Pesce anch’egli della Procura di Trani, condannato ad otto mesi. L’ex pm di Trani Michele Ruggiero attualmente in servizio alla Procura di Bari è stato condannato dal Tribunale penale di Lecce ad un anno di reclusione per “concorso in tentata violenza privata”. Pena di otto mesi per lo stesso reato all’altro pm tranese Alessandro Pesce. La sentenza è stata emessa ieri da una sezione monocratica del Tribunale di Lecce che ha accolto le conclusioni dell’indagine istruita dal procuratore capo Leonardo Leone de Castris e dal pm Roberta Licci della procura salentina. I due magistrati all’epoca in servizio presso la Procura di Trani avevano tentato di intimidire Antonio Marzo 80 anni di Manduria (Taranto) e Roberto Scarcella, 62 anni, di Ugento (Lecce) minacciando entrambi di spedirli in carcere a Trani “dove c’è una visuale sul mare stupenda…” con una cella pronta per loro e per i loro familiari, e di disporre anche il sequestro e il blocco delle la loro azienda, la Italtraff di Manduria che da 30 anni si occupa di sistemi di rilevamento delle infrazioni del codice della strada, allorquando il 5 ottobre del 2015 vennero ascoltati dalla Procura di Trani come “persone informate sui fatti” , i cui interrogatori fonoregistrati sono stati acquisiti ed inseriti all’interno del fascicolo aperto dalla Procura di Lecce, che è competente per gli eventuali reati commessi e subiti dai magistrati del distretto di Corte d’Appello di Bari. I magistrati effettuarono anche minacce di fare applicare alla Italtraff una interdittiva prefettizia che di fatto avrebbe escluso qualsiasi possibilità di avere rapporti con la pubblica amministrazione impedendo di partecipare a nuovi appalti . Tutto ciò per di costringere i due imprenditori pugliesi ad accusare Giuseppe Fortunato comandante della Polizia Municipale di Trani di prendere “mazzette” per l’appalto che prevedeva la fornitura di photored al Comune di Trani. La sentenza emessa dalla dr.ssa Alessandra Sermarini, giudice della prima sezione penale del Tribunale di Lecce, prevede il risarcimento danni di 4.800 euro a testa a favore di Marzo e Scarcella entrambi assistiti dall’avvocato Giandomenico Caiazza. La raccolta di indizi effettuata dai magistrati Ruggiero e Pesce sarebbe avvenuta secondo quanto riporta la sentenza in un clima in contrasto ai principi del codice: “Perché le sappiamo già, vogliamo vedere voi che risposte ci dite e se quello che voi ci dite non converge, lei se ne andrà in galera veloce. E lei dice: «Ma io c’ho il coso al cuore…possiamo impegnarci per farla stare con il caldo che fa al fresco. Dovete scegliere da che parte stare: o siete vittime o siete correi“. I magistrati in quell’occasione parlarono con Marzo. E quando fu il turno di Scarcella, facendo allontanare il Marzo in quello che sembrava più un interrogatorio , peraltro svolto senza la presenza di un legale difensore, che di un normale ascolto di persone informata sui fatti, gli dissero: “Tu sei il buono della situazione. sei padre di famiglia, vero? In tutti gli appalti questi si prendevano le mazzette, tutti perché il sistema era questo. Quindi non mi venite a dire che non avete dato niente, perché noi prenderemo le carte che abbiamo qui e vi manderemo dritti in via Andria che sta il supercarcere. Sua figlia, suo figlio, dobbiamo coinvolgere anche loro?“. Il magistrato Pesce rivolgendosi a Marzo gli disse: “Gli elementi per procedere e per sequestrare tutto ce ne sono a bizzeffe. Il collega ha fin troppa pazienza, perché io l’avrei sbattuta fuori, ma in manette, di qua“. Ed il bello (o meglio il peggio) è che certi magistrati questi comportamenti la chiamano anche “giustizia”….
«Nel carcere di Trani, visuale stupenda»: due magistrati condannati per minacce ai testimoni. Erasmo Marinazzo su quotidianodipuglia.it Sabato 16 Novembre 2019. Minacce di farli finire nel carcere di Trani «dove c'è una visuale sul mare stupenda». Una cella pronta per loro e per i loro familiari. Minacce di sequestrare la loro azienda, la Italtraff di Manduria che da 30 anni si occupa di sistemi di rilevamento delle infrazioni del codice della strada. E minacce di fare applicare alla stessa società una interdittiva prefettizia che avrebbe rescisso qualsiasi possibilità di portare avanti o partecipare a nuovi appalti con le amministrazioni pubbliche. Un tentativo, in altre parole, di costringere due imprenditori ad accusare il comandante della polizia municipale di Trani di averli costretti a versare mazzette. Tentativo che non sortì l'effetto di intimidire Antonio Marzo e Roberto Scarcella, 80 e 62 anni, il primo di Manduria e l'altro di Ugento, quando il 5 ottobre del 2015 furono sentiti come persone informate sui fatti negli uffici della Procura di Trani. Ascolti fonoregistrati e finiti nel fascicolo aperto dalla Procura di Lecce (competente per i reati commessi e subiti dai magistrati del distretto di Corte d'Appello di Bari) e che l'altro ieri sera è approdato alla sentenza di primo grado: sono stati condannati i pubblici ministeri che avrebbero prospettato il carcere nonché il sequestro e il blocco dell'azienda. Un anno di reclusione a Michele Ruggiero, 54 anni, di Bari (difeso dall'avvocato Viola Messa), noto per le inchieste sulle agenzie di rating e per aver indagato l'ex premier Silvio Berlusconi per capire se fosse vero che avesse chiesto la chiusura delle trasmissioni televisive di Michele Santoro. Otto mesi sono stati inferti ad Alessandro Pesce, 46 anni, di Roma, all'epoca magistrato di prima nomina (avvocati Andrea Pietracci e Gianluca Filice). Tentata violenza privata, l'ipotesi di reato. Un anno e quattro mesi per Ruggiero ed un anno sono stati chiesti dal pubblico ministero della Procura di Lecce, Roberta Licci. Il dispositivo della sentenza del giudice della prima sezione penale, Alessandra Sermarini, ha inoltre previsto 4.800 euro di risarcimento danni a testa a Marzo ed a Scarcella costituitisi parte civile con l'avvocato Giandomenico Caiazza. Non si è costituito invece Giuseppe Fortunato, ossia il comandante della polizia municipale di Trani per il quale - dicono le carte del processo - i due imputati cercavano le prove per potergli contestare l'accusa di concussione. Negli interrogatori finiti poi al centro dell'inchiesta e del processo di Lecce, avrebbero voluto costringere i due imprenditori a dire di avere versato tangenti a Giuseppe Fortunato per l'appalto che prevedeva la fornitura di photored al Comune di Trani. Quella raccolta di indizi sarebbe avvenuta - ha confermato la sentenza - in un clima contrario ai principi del codice: «Perché le sappiamo già, vogliamo vedere voi che risposte ci dite e se quello che voi ci dite non converge, lei se ne andrà in galera veloce. E lei dice: «Ma io c'ho il coso al cuore...possiamo impegnarci per farla stare con il caldo che fa al fresco. Dovete scegliere da che parte stare: o siete vittime o siete correi», uno stralcio dei quegli ascolti riportato nel capo di imputazione. In quei frangenti i magistrati parlarono con Marzo. Poi Marzo fu allontanato e a quello che sembrava più un interrogatorio (senza la presenza dell'avvocato) che un ascolto di persona informata sui fatti, fu sottoposto Scarcella. «Tu sei il buono della situazione. Sei padre di famiglia, vero? In tutti gli appalti questi si prendevano le mazzette, tutti perché il sistema era questo. Quindi non mi venite a dire che non avete dato niente, perché noi prenderemo le carte che abbiamo qui e vi manderemo dritti in via Andria che sta il supercarcere. Sua figlia, suo figlio, dobbiamo coinvolgere anche loro?». Ed ancora. Il pm Pesce, rivolto a Marzo: «Gli elementi per procedere e per sequestrare tutto ce ne sono a bizzeffe. Il collega ha fin troppa pazienza, perché io l'avrei sbattuta fuori, ma in manette, di qua».
«Sistema Trani», la Cassazione annulla custodia ex gip Nardi. Fu arrestato con l'ex pm di Trani, Savasta. La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Dicembre 2019. La Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza di custodia cautelare a carico dell’ex gip di Trani, Michele Nardi, in carcere dal 14 gennaio scorso (fu arrestato con l’ex pm di Trani Antonio Savasta) nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Lecce sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani tra il 2014 e il 2018. Il ricorso era stato inoltrato dalla difesa di Nardi, sostenuta dal legale Domenico Mariani, dopo che il gip di Lecce e poi il Tribunale del riesame avevano rigettato l’istanza di scarcerazione, discussa dopo la notifica della chiusura delle indagini. L'ex gip resta tuttavia in carcere. Il Tribunale del riesame di Lecce, alla luce dell’annullamento disposto, dovrà ora riesaminare la posizione cautelare di Nardi. Per il Tribunale del riesame, infatti, sussistevano le esigenze cautelari per il rischio di inquinamento delle prove e per il pericolo di fuga. Elementi che secondo la difesa di Nardi non sussistono poiché l’ex gip è stato sospeso dal suo incarico.
Giustizia svenduta a Trani, ammessi 137 testi: non ci saranno Conte e Lotti. Escluso anche Palamara. Testimonieranno i pm di Trani ed esponenti della massoneria. La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Dicembre 2019. Sono 137 i testimoni citati a deporre dalle parti al processo al magistrato tranese Michele Nardi, arrestato nel gennaio scorso assieme al pm di Trani Antonio Savasta con le accuse di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. I due, entrambi detenuti, sono accusati di aver garantito esiti processuali positivi in diverse vicende giudiziarie e tributarie in corso tra Trani e Bari in favore degli imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli e diamanti. Assieme a loro fu arrestato l'ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro. Le accuse risalgono al periodo compreso tra il 2014 e il 2018. Al momento dell’arresto Savasta (che si è poi dimesso dalla magistratura) e Nardi erano in servizio al Tribunale di Roma. Tra i testimoni che deporranno dinanzi al Tribunale di Lecce non ci saranno il premier Giuseppe Conte, tantomeno Luca Palamara, Cosimo Ferri e Luca Lotti, tutti citati dalla difesa di Nardi. Questi avrebbe voluto che Conte smentisse in aula i rapporti che, secondo Savasta, Nardi avrebbe avuto con servizi di intelligence al fine di intimorirlo. Ci saranno, invece, esponenti della massoneria italiana, l’ex procuratore di Trani Carlo Capristo, l’ex procuratore aggiunto Francesco Giannella e l'attuale procuratore Antonino Di Maio. Lo hanno deciso i giudici delle seconda sezione penale del Tribunale di Lecce (presidente Pietro Baffa). I giudici hanno anche autorizzato l’acquisizione dei tabulati telefonici del cellulare in uso all’ex pm Savasta e il tracciato gps che serviranno alla difesa di Nardi per riscontrare i presunti incontri e telefonate intercorse tra i due tra il 15 novembre e il 30 dicembre 2018, periodo in cui Savasta sostiene di aver incontrato e sentito Nardi. Nel processo in corso oltre a Nardi, compaiono anche l’ispettore Di Chiaro, anch’egli agli arresti, l’avvocatessa barese Simona Cuomo, Gianluigi Patruno e Savino Zagaria. Gli altri imputati - Antonio Savasta, il giudice tranese Luigi Scimè, l'immobiliarista Luigi D’Agostino e gli avvocati Giacomo Ragno e Ruggiero Sfrecola - saranno giudicati con rito abbreviato dal gup Cinzia Vergine.
Giustizia svenduta a Trani, cento testimoni per Nardi, anche Conte e Lotti. La difesa dell'ex gip chiama Palamara e tutti i magistrati del comune del Nordbarese. Massimiliano Scagliarini il 12 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il premier Giuseppe Conte e i vertici della massoneria italiana. Ma anche due dozzine di magistrati e i protagonisti del caso nomine del Csm, Luca Lotti, Luca Palamara e Cosimo Ferri, oltre che i parenti dei suoi principali accusatori. Per provare a difendersi dalle accuse che gli potrebbero costare vent’anni di galera, l’ex gip Michele Nardi ha chiesto di poter ascoltare 104 testimoni tra cui molti nomi eccellenti. Sarà il Tribunale di Lecce, nel processo per la giustizia truccata a Trani che riprende domani davanti alla Seconda sezione, a stabilire chi nei prossimi mesi dovrà rispondere alle domande del difensore dell’ex giudice, che da gennaio è rinchiuso in carcere a Matera e - finora - non ha mai parlato. Anche l’accusa, con i pm Roberta Licci, Giovanni Gallone e Alessandro Prontera, vuole ascoltare le testimonianze degli ex vertici della Procura di Trani. Per questo ha chiesto di chiamare Carlo Capristo e Francesco Giannella, il primo ora procuratore a Taranto e il secondo procuratore aggiunto a Bari. A Capristo l’accusa intende chiedere dei rapporti tra Nardi e un altro degli imputati (ha scelto l’abbreviato), l’avvocato Giacomo Ragno, mentre da Giannella vuole sapere dei controlli fatti nel periodo di reggenza della Procura di Lecce sui fascicoli dell’ex pm Antonio Savasta (anche lui, dopo aver collaborato, ha scelto il giudizio abbreviato). E poi il capitolo degli imprenditori. I pm chiameranno due dei fratelli Ferri, Filippo e Francesco, e Francesco Casillo: gli ex re dei grandi magazzini e il re degli outlet, dopo che lo scandalo è scoppiato, hanno raccontato di aver pagato mazzette per evitare l’arresto, fatti ormai troppo risalenti nel tempo. Nardi è ritenuto al centro della rete di mazzette e favori denunciata dall’imprenditore coratino Flavio D’Introno, che ha detto di aver pagato due milioni di euro (oltre a gioielli, viaggi e la ristrutturazione degli immobili dell’ex gip) per tentare invano di evitare una condanna per usura (per quella condanna è in carcere a Trani). L’obiettivo di Nardi è smontare queste accuse. E così, a Lotti, Ferri e Palamara, l’ex gip vorrebbe chiedere riscontro circa le cene che ci sarebbero state a Roma con l’imprenditore coratino. Al gran maestro del Gran Oriente, Nicola Tucci, e Antonio Binni, della Gran Loggia d’Italia, vorrebbe chiedere di confermare la sua estraneità agli ambienti massonici, così come vorrebbe chiedere a Conte se risultino rapporti con i servizi segreti: D’Introno ha raccontato di essere stato minacciato da Nardi che, per convincerlo a pagare, gli avrebbe prospettato appunto gli interventi della massoneria, dei servizi segreti e di Gladio (Nardi vuole ascoltare anche l’ex generale Paolo Inzerillo). Ma l’ex gip vorrebbe portare al banco dei testimoni anche molti ex colleghi. Non solo Capristo e Giannella, ma anche l’attuale procuratore di Trani, Antonino Di Maio, e praticamente tutti i sostituti che sono passati da lì negli ultimi anni. E ancora l’ex capo degli ispettori del ministero della Giustizia, Arcibaldo Miller, il procuratore generale di Bari, Annamaria Tosto, il presidente della Corte d’appello di Bari, Franco Cassano, il presidente del Tribunale di Trani, Antonio De Luce. Ma anche l’ex rettore dell’Università di Bari, Antonio Uricchio, «amico di vecchia data del dottor Nardi», l’ex sindaco di Bisceglie, Francesco Spina e l’attuale Angelantonio Angarano, decine di avvocati del foro di Trani, due psichiatri, due medici e i parenti di D’Introno (il padre Vincenzo, la sorella Lorenza Lara e il fratello Domenico) e quelli dell’ex pm Savasta (la sorella Emilia). Una sorta di contro-processo per provare a dimostrare la falsità dei racconti fatti da D’Introno durante le oltre 100 ore di incidente probatorio. Domani il collegio del Tribunale di Lecce dovrà sciogliere la riserva sulle costituzioni di parte civile: ci sono anche due giudici, Loredana Colella e Ornella Gozzo, componenti del collegio di Appello che si è occupato di D’Introno e per il quale - per l’accusa millantando - l’ex gip Nardi chiese un Rolex e due diamanti. Alla sbarra ci sono anche l’ex ispettore Vincenzo Di Chiaro (pure lui in carcere a Matera), l’avvocato barese Simona Cuomo, il falso testimone Gianluigi Patruno e Savino Zagaria, l’ex cognato di Savasta.
"Toghe Sporche" a Trani. Fra i cento testimoni anche il premier Conte e l'ex ministro Lotti. Il Corriere del Giorno il 13 Novembre 2019. L’ ex gip di Trani Michele Nardi successivamente pm a Roma, attraverso il suo difensore ha richiesto al Tribunale di Lecce di poter ascoltare 104 testimoni tra cui compaiono numerosi nomi eccellenti a partire dal premier Giuseppe Conte ma anche oltre numerosi magistrati, Luca Lotti, Luca Palamara e Cosimo Ferri, i protagonisti dello scandalo sulle nomine del Csm, per finire con i parenti dei suoi principali accusatori. Per provare a difendersi dalle accuse che potrebbero costargli vent’anni di carcere, l’ex gip di Trani Michele Nardi successivamente pm a Roma, attraverso il suo difensore ha richiesto al Tribunale di Lecce di poter ascoltare 104 testimoni tra cui compaiono numerosi nomi eccellenti a partire dal premier Giuseppe Conte ma anche oltre numerosi magistrati, Luca Lotti, Luca Palamara e Cosimo Ferri, i protagonisti dello scandalo sulle nomine del Csm, per finire con i parenti dei suoi principali accusatori. Spetterà quindi al Tribunale di Lecce stabilire nel processo a carico delle toghe sporche degli uffici giudiziari di Trani che riprende domani davanti alla Seconda sezione, chi dovrà rispondere nei prossimi mesi alle domande del difensore del magistrato sospeso dalle sue funzioni, che da gennaio è rinchiuso in carcere a Matera e che finora non ha mai voluto parlare o collaborare con gli inquirenti. Ma anche l’accusa della Procura di Lecce, rappresentata dai pm Roberta Licci, Giovanni Gallone e Alessandro Prontera, vuole ascoltare le testimonianze degli ex vertici della Procura di Trani. Per questo ha deciso di citare come testi il procuratore capo a Taranto Carlo Capristo ed il procuratore aggiunto a Bari Francesco Giannella, a suo tempo procuratore capo ed aggiunto a Trani. L’accusa intende chiedere al procuratore Capristo chiarimenti in merito ai rapporti tra Nardi ed un altro degli imputati l’avvocato Giacomo Ragno (che ha optato per il rito abbreviato), mentre vuole sapere da Giannella dei controlli fatti nel periodo di reggenza della Procura di Trani sui fascicoli dell’ex pm Antonio Savasta che dopo aver collaborato, anche lui, ha scelto il giudizio abbreviato. Dopodichè saranno degli imprenditori a salire sul banco dei testimoni. I magistrati dell’accusa ascolteranno due dei fratelli Ferri, Filippo e Francesco gli ex re dei grandi magazzini , ed il re degli outlet Francesco Casillo i quali dopo che lo scandalo è esploso, hanno confessato di aver pagato mazzette per evitare l’arresto, fatti però ormai troppo risalenti nel tempo e quindi prescritti. Michele Nardi è ritenuto dall’accusa di essere al centro del giro di “mazzette” e corruttele, emerso a seguito delle accuse a verbale rese dall’imprenditore coratino Flavio D’Introno, che ha detto di aver pagato 2 milioni di euro (oltre a gioielli, la ristrutturazione degli immobili dell’ex gip e viaggi) per cercare inutilmente di sfuggire una condanna per usura, per la quale sta sconta una pena in carcere a Trani. L’obiettivo di Nardi è smontare queste accuse. E quindi l’ex gip vorrebbe chiedere riscontro a Ferri, Lotti e Palamara, sulle cene che ci sarebbero state a Roma con l’imprenditore coratino. Al gran maestro del Gran Oriente, Nicola Tucci, ed Antonio Binni, della Gran Loggia d’Italia, vorrebbe chiedere di confermare la sua estraneità agli ambienti massonici, così come vorrebbe chiedere a Conte se risultino suoi rapporti con i servizi segreti. Infatti D’Introno ha raccontato di essere stato minacciato da Nardi che, gli avrebbe prospettato per convincerlo a pagare, gli interventi della massoneria, dei servizi segreti e di Gladio , motivo per cui la difesa di Nardi ha chiesto di ascoltare anche l’ex generale Paolo Inzerillo. Ma l’ex gip del Tribunale di Trani vorrebbe portare sul banco dei testimoni anche suoi molti ex colleghi. Non soltanto Capristo e Giannella, ma persino l’attuale procuratore di Trani, Antonino Di Maio, e tutti i sostituti che negli ultimi anni prestato servizio presso la Procura di Trani . Nell’elenco dei testi di Nardi, compaiono anche l’ex capo degli ispettori del ministero della Giustizia, Arcibaldo Miller, il procuratore generale di Bari, Annamaria Tosto, il presidente della Corte d’appello di Bari Franco Cassano, il presidente del Tribunale di Trani Antonio De Luce. Ma anche l’ex rettore dell’Università di Bari, Antonio Uricchio, ritenuto “amico di vecchia data del dottor Nardi”, l’ex sindaco di Bisceglie, Francesco Spina e l’attuale Angelantonio Angarano, decine di avvocati del foro di Trani, due psichiatri, due medici ed i famigliari di D’Introno, il padre Vincenzo, il fratello Domenico, la sorella Lorenza Lara e quelli dell’ex pm Savasta a partire dalla la sorella Emilia. Nardi vuole imbastire una sorta di contro-processo per cercare di dimostrare la falsità dei racconti fatti da D’Introno durante le oltre 100 ore di incidente probatorio, confutandoli. Oggi il collegio del Tribunale di Lecce dovrà sciogliere anche la riserva sulle costituzioni di parte civile: fra i quali compaiono due giudici, Loredana Colella e Ornella Gozzo, componenti del collegio della Corte di Appello che si è occupato di D’Introno e per il quale secondo l’accusa, millantando, l’ex gip Nardi chiese un Rolex e due diamanti. A processo ci sono anche l’ex ispettore Vincenzo Di Chiaro (anch’egli in carcere a Matera), l’avvocato barese Simona Cuomo, il falso testimone Gianluigi Patruno e Savino Zagaria, l’ex cognato di Savasta.
Giustizia truccata a Trani, lo Stato non dovrà risarcire i danni. Tribunale Lecce decide su richieste per i due ex pm arrestati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Novembre 2019. Il Tribunale di Lecce, sciolta la riserva, ha deciso che i ministeri della Giustizia e dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri non dovranno risarcire danni per la gestione 'criminalè del Tribunale di Trani dal 2014 al 2018, come avevano chiesto alcuni giudici e l’imprenditore coratino Flavio D’Introno. La decisione è dei giudici della Seconda sezione penale, presidente Pietro Baffa, nella seconda udienza a carico dell’ex gip di Trani Michele Nardi, ancora detenuto come l’ispettore di polizia di Corato Vincenzo Di Chiaro. I due Ministeri e la Presidenza del Consiglio sono stati invece ammessi come parti civili, come D’Introno ma non per il reato associativo. Rigettate le richieste dei legali di Nardi, anche quella di spostare il processo a Potenza per il presunto coinvolgimento di due giudici. Nel processo sulla malagiustizia a Trani in quel periodo compaiono anche l’avvocatessa barese Simona Cuomo, Gianluigi Patruno e Savino Zagaria. La prossima udienza è il 4 dicembre. Per gli altri indagati - l'ex pm di Trani Antonio Savasta, il giudice Luigi Scimè, l'immobiliarista Luigi D’Agostino e gli avvocati Ragno e Sfrecola - è stato fissato invece al 20 novembre il rito abbreviato davanti al Gup.
«Giudici corrotti a Trani» inizia il processo a Nardi. L’ex gip è in carcere da gennaio: come il suo accusatore D’Introno. Massimiliano Scagliarini il 04 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’accusa è di aver svenduto la giustizia, coordinando una cricca di persone pronte ad addomesticare processi in cambio di soldi e favori. Dopo oltre 100 ore di incidente probatorio inizia oggi a Lecce il processo agli ex giudici di Trani: visto che gli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè hanno scelto l’abbreviato, davanti alla Seconda sezione comparirà oggi solo l’ex gip Michele Nardi, che da gennaio è in carcere e non ha mai detto una sola parola. Ma in carcere ci è finito, per una storia diversa, anche il suo principale accusatore, l’imprenditore Flavio D’Introno. Nel processo che si apre oggi a Lecce, insieme a Nardi (che rischia vent’anni per 11 diversi capi di imputazione) sono imputati anche l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, pure lui in carcere a Matera, e l’avvocato barese Simona Cuomo. Ai tre la Procura contesta l’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari (di cui Nardi è ritenuto capo, promotore e organizzatore) oltre che, a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità, numerosi episodi di concussione, millantato credito, minacce, calunnia e falso ideologico e materiale. A processo vanno pure Gianluigi Patruno, il «falso testimone» che si sarebbe prestato a costruire le accuse contro i nemici di D’Introno, e Savino Zagaria, l’ex cognato del pm Savasta: rispondono di concorso in corruzione (Patruno anche di calunnia). BARI - L’inchiesta nasce dalle denunce di D’Introno, che ha raccontato di aver consegnato ai tre giudici oltre due milioni di euro, di aver pagato viaggi e ristrutturazioni, oltre che gioielli e elettrodomestici. Un ventaglio di regali che vanno dal diamante ai frullatori, nel disperato e inutile tentativo di sfuggire a una condanna per usura che è poi diventata definitiva nonostante le rassicurazioni di Nardi: i giudici dei collegi di primo grado e appello, quelli che Nardi avrebbe detto a D’Introno di aver corrotto, sono infatti parti offese nel procedimento insieme allo stesso imprenditore coratino che pure resta indagato. La Procura di Lecce ritiene tuttavia che D’Introno abbia effettivamente pagato i giudici Nardi, Savasta e Scimè, con gli ultimi due (il giudizio abbreviato davanti al gup Cinzia Vergine partirà il 20) accusati di aver addomesticato alcuni fascicoli in cambio di denaro: Savasta ha ammesso gran parte delle accuse, si è dimesso dalla magistratura e ha ottenuto gli arresti domiciliari, Scimé si proclama innocente ed attende anche l’esito del procedimento disciplinare aperto dal Csm. Su Nardi ci sono invece le parole di D’Introno e quelle di Savasta, oltre che le intercettazioni: si sarebbe fatto finanziare per anni dall’imprenditore di Corato, che gli avrebbe anche ristrutturato una villa a Trani e una casa a Roma. Nel frattempo il 10 ottobre D’Introno è finito anche lui in galera, proprio per la condanna a quattro anni e mezzo rimediata nel processo «Fenerator» sull’usura. Il Tribunale di Sorveglianza di Bari ha infatti respinto la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali per motivi di cura, e così l’imprenditore coratino (che oggi non sarà in aula) è stato portato nel carcere di Trani: il suo avvocato, Vera Guelfi, che sulla decisione della Sorveglianza aveva pure scritto una lettera aperta al capo dello Stato, ha presentato ricorso in Cassazione.
Lecce, anche due giudici chiedono i danni dell'ex gip Nardi. D’Introno: paghi il ministero di Giustizia. Massimiliano Scagliarini il 5 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Flavio D’Introno e i carabinieri ingiustamente accusati di aver truccato un verbale chiedono i danni al ministero della Giustizia. Ovvero il datore di lavoro dell’ormai ex gip Michele Nardi, il principale imputato del processo per la giustizia svenduta nel Tribunale di Trani che si è aperto ieri mattina a Lecce davanti alla Seconda sezione penale. È stata in realtà una udienza-filtro, dato che il dibattimento si svolgerà con una diversa composizione del collegio. Ma già mercoledì 13 dovranno essere sciolte le questioni preliminari riguardanti, appunto, le costituzioni di parte civile. D’Introno, principale accusatore dei magistrati, ha infatti chiesto di citare come responsabile civile il ministero della Giustizia, sulla base di un ragionamento che suona più o meno così: Nardi - accusato di essere il capo e il promotore di un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari - ha potuto promettere interventi per truccare le indagini proprio in virtù del suo ruolo di magistrato, dunque di dipendente del ministero. Stessa richiesta è arrivata dall’avvocato Francesco Mascoli, che rappresenta altre persone offese dalla cricca dei giudici. Nei loro confronti, oltre che la presidenza del Consiglio, si è costituito anche il ministero dell’Interno per tutelare i militari. Il difensore di Nardi, Domenico Mariani, ha però chiesto l’esclusione dalle parti civili di Palazzo Chigi, dei ministeri e dello stesso D’Introno. Ma la lista di chi chiede i danni a Nardi (che è in carcere a Matera e ieri ha seguito l’udienza dalla gabbia) è molto lunga. Ci sono anche due suoi ex colleghi, i giudici baresi Loredana Colella e Ornella Gozzo, componenti del collegio di Appello che si è occupato del processo «Fenerator» nei confronti di D’Introno: per questa vicenda l’accusa a Nardi è di millantato credito, perché con la scusa di corrompere i colleghi (rappresentati dall’avvocato Michele Laforgia) si sarebbe fatto consegnare un Rolex e due diamanti dall’imprenditore coratino. L’indagine della Procura di Lecce riguarda complessivamente dieci persone. In cinque hanno scelto il giudizio ordinario: oltre a Nardi ci sono l’ex ispettore di Polizia, Vincenzo Di Chiaro (anche lui in carcere a Matera), l’avvocato barese Simona Cuomo, il falso testimone Gianluigi Patruno e Savino Zagaria, l’ex cognato dell’allora pm Antonio Savasta che insieme all’altro ex collega Luigi Scimè ha invece optato per il rito abbreviato (si inizia il 20 davanti al gup Cinzia Vergine). L’avvocato della Cuomo, Francesco Paolo Sisto, ha riproposto anche ieri la richiesta di giudizio abbreviato condizionato che era già stata respinta all’udienza preliminare. L’indagine di Lecce, di cui è stata chiusa soltanto la prima fase, riguarda accuse a vario titolo che vanno dal 2014 al 2018 e spaziano dalla corruzione in atti giudiziari alle minacce e al falso. L’ipotesi della Procura, che è stata già analizzata a fondo nelle oltre 100 ore di incidente probatorio, è che in cambio di soldi (oltre due milioni di euro), viaggi e regali offerti da D’Introno, i tre magistrati, l’avvocato Cuomo e l’ispettore Di Chiaro abbiano manomesso fascicoli giudiziari per salvare l’imprenditore di Corato. Tentativo che non è riuscito, dato che anche D’Introno è finito nel carcere di Trani per scontare la condanna definitiva per usura che avrebbe voluto evitare.
Magistrati arrestati: no servizi sociali a D'Introno, va arrestato ma è irreperibile. Il Tribunale di Sorveglianza dice no all'affidamento ai servizi sociali del grande accusatore Flavio D'Introno, che deve scontare 4 anni e mezzo per usura. Massimiliano Scagliarini il 9 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Flavio D’Introno non ha il diritto di ottenere la sospensione della condanna definitiva per usura, perché la documentazione medica che ne attesta l’alcolismo è troppo risalente per questo. Il grande accusatore dei giudici di Trani, dunque, dovrà andare in carcere per scontare un residuo di pena pari a quattro anni e mezzo. Fino a ieri sera, però, le ricerche dei Carabinieri sono state vane. Il Tribunale di sorveglianza (relatore Simonetta Rubino) ha infatti dichiarato inammissibile la richiesta presentata da D’Introno (avvocato Vera Guelfi) per ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Anche la Procura generale, con il pg Giannicola Sinisi, nell’udienza di lunedì scorso si era opposta alla richiesta sottolineandone l’infondatezza. A ottobre del 2018, come lui stesso aveva raccontato durante l’incidente probatorio di Lecce, D’Introno aveva ottenuto la sospensione dell’esecuzione della condanna a cinque anni e otto mesi per usura, resa definitiva dalla Cassazione, presentando una serie di certificati che ne attestavano l’avvio di un percorso di cura al Sert di Andria per un problema di alcolismo esploso dopo la sentenza di appello. D’Introno era stato arrestato nel 2007 nell’ambito dell’operazione Fenerator. Il nodo principale dell’inchiesta di Lecce sulla corruzione dei giudici del Tribunale di Trani è proprio il tentativo di D’Introno di evitare la condanna per usura e il conseguente sequestro dei beni: per questo l’imprenditore coratino ha raccontato alla Procura di Lecce di aver pagato due milioni di euro all’ex gip Michele Nardi (tuttora in carcere) e agli ex pm Antonio Savasta (ai domiciliari) e Luigi Scimè, e di aver regalato gioielli e viaggi a suo dire destinati ai magistrati. A febbraio 2013 il Tribunale di Trani ha condannato D’Introno a 7 anni di reclusione: l’accusa, sostenuta da Scimè (che aveva ereditato il fascicolo dalla collega Carla Spagnuolo nel frattempo trasferita) ne aveva chiesto la condanna a 3 anni per corruzione ed esercizio abusivo dell’attività finanziaria e l’assoluzione per l’usura e l’associazione a delinquere. In appello la condanna è stata ridotta a 5 anni e 9 mesi (la Procura generale ne aveva chiesto l’assoluzione): anche questo processo, secondo l’accusa di Lecce, sarebbe finito nel mirino di Nardi che avrebbe chiesto a D’Introno di acquistare diamanti da regalare ai giudici (che sono stati ritenuti totalmente estranei e ora sono parti offese nel procedimento a carico dell’ex gip). La Cassazione ha poi ridotto la pena (dicembre 2018) a cinque anni e mezzo, a seguito della prescrizione di alcuni reati, rendendo dunque definitiva la condanna. La difesa di D’Introno aveva tentato di spostare la competenza sull’esecuzione lontano da Bari, ritenendo che «i componenti il Tribunale di Sorveglianza possono essere psicologicamente coartati e comunque non sereni» perché nelle sue confessioni a Lecce l’imprenditore ha parlato anche di un commercialista, fratello di un magistrato all’epoca in servizio alla Sorveglianza. Ma la Cassazione ha rigettato la richiesta di rimessione del giudizio, ritenendola inammissibile in quanto prevista dal codice soltanto per i procedimenti di merito. La Procura generale ha affidato la notifica del provvedimento, con la contestuale esecuzione dell’arresto, ai Carabinieri. Fino a ieri sera, però, D’Introno non è stato rintracciato: non era a casa, a Corato, e potrebbe aver deciso di sottrarsi alla cattura recandosi all’estero. Nei giorni scorsi l’imprenditore aveva definito «molto ingiusta» la prospettiva di un rigetto del ricorso alla Sorveglianza che avrebbe comportato il suo ingresso in carcere, paventando anche l’ipotesi di costituirsi in un istituto penitenziario del Centro-nord così da evitare la detenzione in Puglia. Il processo per la giustizia truccata comincerà il 4 novembre a Lecce: D’Introno ha parlato a lungo durante l’incidente probatorio e resta il più importante testimone dell’accusa.
Magistrati arrestati a Trani, D’Introno si costituisce: è in carcere. Deve scontare 5 anni e 4 mesi per usura. Massimiliano Scagliarini l11 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Da ieri sera Flavio D’Introno è in carcere per scontare i quattro anni e mezzo residui della condanna per usura nel processo «Fenerator». L’imprenditore di Corato, testimone chiave nel processo contro i giudici di Trani, si è costituito nel carcere della Bat. In un primo momento aveva ipotizzato di presentarsi a Matera, dove sono rinchiusi da gennaio l’ex gip Michele Nardi e l’ispettore Vincenzo Di Chiaro con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Ventiquattro ore dopo la decisione della Sorveglianza, che ha detto «no» all’affidamento in prova ai servizi sociali, D’Introno si è dunque consegnato dopo che i carabinieri, mercoledì pomeriggio, non lo avevano trovato in casa.
"Toghe sporche". A processo tutti e 10 gli indagati per il caso Trani. Il Corriere del Giorno il 17 Settembre 2019. Mandati a processo i tre magistrati Nardi, Scimè e Savasta, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso coinvolti nella maxi inchiesta sui processi nel palazzo di giustizia di Trani. Conclusasi questa prima parte dell’inchiesta, i magistrati della Procura di Lecce sono già al lavoro per un secondo filone delle indagini, scaturito dalle alle deposizioni e denunce di altre presunte vittime della “cupola” dei magistrati di Trani. Si è conclusa ieri, nel tribunale del capoluogo salentino, l’udienza preliminare nei confronti di dieci imputati, fra i quale tre magistrati accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso coinvolti nella maxi inchiesta sui processi nel Palazzo di Giustizia di Trani, che venivano manipolati in cambio di importanti di somme di tangenti. I fatti contestati fanno riferimento al periodo tra il 2014 e il 2018. Le indagini sono state coordinate dal procuratore di Lecce Leonardo Leone De Castris, e condotte dai pm Roberta Licci e Giovanni Gallone. I magistrati coinvolti nell’inchiesta sono Michele Nardi, Luigi Scimè ed Antonio Savasta che successivamente ha lasciato la magistratura. Conclusasi questa prima parte dell’inchiesta, i magistrati della Procura di Lecce sono già al lavoro per un secondo filone delle indagini, scaturito dalle dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno ( in una prima fase coindagato ed adesso parte offesa) ma anche grazie alle deposizioni di altre presunte vittime della “cupola” dei magistrati di Trani, i quali dopo che, a gennaio, è scoppiato lo scandalo della “malagiustizia” nel Palazzo di Giustizia di Trani, si sono presentati a denunciare ulteriori fatti oggetto di reato. Il processo inizierà il prossimo 30 ottobre, e successivamente verranno poi fissate le successive udienze. Hanno scelto di sottoporsi al rito abbreviato, che consente loro uno sconto di pena, Antonio Savasta, ex magistrato che dopo essersi dimesso, è stato il primo a collaborare con la Procura leccese, ammettendo le proprie responsabilità, il giudice Luigi Scimé, gli avvocati Giacomo Ragno e Ruggiero Sfrecola, e l’immobiliarista Luigi D’Agostino. Sono stati rinviati a giudizio dinanzi al Tribunale in composizione collegiale l’ex gip del Tribunale di Trani Michele Nardi (successivamente assegnato come sostituto procuratore presso la Procura di Roma, incarico che è stato sospeso dal Csm), il quale aveva annunciato delle dichiarazioni spontanee, che poi ha deciso di non rendere più, il falso testimone Gianluigi Patruno, titolare di una palestra, e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro (che si trova ancora ristretto in carcere), e dell’ ex cognato di Savasta, Savino Zagaria. Rigettata l’istanza di rito abbreviato condizionato ad alcuni approfondimenti istruttori, presentata dall’avvocatessa Simona Cuomo, del Foro di Bari. L’avvocatessa ex “pupilla” dello studio legale Sisto di Bari (estraneo alla vicenda) , si è sottoposta ad un lungo interrogatorio, nel corso del quale ha negato sfacciatamente di avere mai incontrato Michele Nardi, affermando di averlo visto per la prima volta nel corso delle udienze a Lecce. La Procura di Lecce però l’ha smentita depositando un documento prodotto in un processo per calunnia che vedeva Nardi denunciato dall’ex collega Maria Grazia Caserta venendo condannato ad 1 anno e 6 mesi , in un processo tenutosi a Catanzaro alcuni anni fa, circostanza documentale che confuterebbe la Cuomo e dimostrerebbe invece una conoscenza fra i due risalente già a diversi anni or sono. Il processo per chi non ha optato per il rito abbreviato ultimi invece il prossimo 4 novembre. Parte civile si sono costituiti la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero della Giustizia, l’Ordine degli Avvocati di Trani e alcune parti private. Sotto la lente degli investigatori numerose tangenti in denaro, persino di milioni, finalizzate a modificare l’esito dei processi o a pilotare le inchieste. Ma non solo, infatti sono emersi anche importanti tangenti elargite dall’imprenditore di Corato Flavio D’Introno, il principale accusatore nonché corruttore, a favore di Michele Nardi, anche sotto altra forma come un orologio Rolex Daytona in oro del valore di 34.500 euro, due diamanti del valore di 27mila euro, un viaggio a Dubai costato 10mila euro, e per finire la ristrutturazione costata 130mila euro della casa romana del magistrato, e la costruzione della sua villa a Trani per 600mila euro. Importanti tangenti da 600mila euro sono state pagate sempre dall’imprenditore D’Introno a Savasta, oltre a cene, e regali di vario genere. Savasta e Nardi al momento dell’arresto erano in servizio presso il Tribunale di Roma, il primo come giudice ed il secondo come pubblico ministero, trasferiti in via precauzionale dal Consiglio Superiore della Magistratura. I due magistrati dovranno rispondere anche delle accuse a loro carico per aver persino promesso una ricompensa in denaro all’imprenditore D’Introno, consigliandogli di non rivelare il sistema di cui aveva fatto parte, arrivando a consigliargli di fuggire all’estero in Paesi dove non sono applicabili le rogatorie italiane. Durante il corso delle indagini la Procura di Lecce ha ritenuto necessario “blindare” alcune testimonianze nel corso di un lungo incidente probatorio, nel corso del quale sono stati uditi l’imprenditore Flavio D’Introno, per il quale in virtù della sua totale collaborazione prestata agli inquirenti non è stata mai disposta alcuna misura cautelare; successivamente è stata la volta del poliziotto Vincenzo Di Chiaro, e quindi all’ex-magistrato Antonio Savasta che ha ottenuto i domiciliari dopo aver collaborato, mentre Michele Nardi e Di Chiaro dallo scorso gennaio sono sottoposti a detenzione cautelare in carcere, dove potrebbero restare ancora per un anno, grazie alla velocità con cui si è svolta l’udienza preliminare ( prima udienza lo scorso 11 settembre) che ha consentito che non scadessero i termini della custodia cautelare. Gli avvocati della difesa dei vari indagati, ora imputati, durante l’udienza preliminare hanno battagliato persino sull’ammissibilità di alcune costituzioni di parte civile, ma il Gup del Tribunale di Lecce, dr.ssa Cinzia Vergine, non ha avuto alcun dubbio nel rigettare tutte le eccezioni difensive. Ieri la decisione finale: processo per tutti, quale che sia la strada scelta.
Magistrati arrestati: «A Trani altri casi di indagini truccate», interrogato D'Introno. Nuovo interrogatorio a Lecce al grande accusatore, Flavio D'Introno. Massimiliano Scagliarini il 21 Settembre 2019. L’ipotesi è che altre persone siano finite nelle grinfie della cricca delle indagini truccate nel Tribunale di Trani. E che, di conseguenza, ci siano altri casi di sentenze svendute. L’inchiesta della Procura di Lecce, che lunedì ha già portato a processo dieci persone, va avanti con ulteriori approfondimenti. Giovedì l’imprenditore Flavio D’Introno, l’uomo che con i suoi racconti ha fatto scattare a gennaio l’arresto dell’ex gip Michele Nardi e dell’ex pm Antonio Savasta, è tornato a parlare: un interrogatorio fiume davanti alla pm Roberta Licci per rispondere su ulteriori circostanze. La prima tranche dell’indagine è ormai chiusa ed ha visto D’Introno ammettere i pagamenti (oltre due milioni di euro, più regali e viaggi) e Savasta confermare di essersi fatto comprare. Nel frattempo, in tanti si sono rivolti alla Procura di Lecce o ai carabinieri di Barletta per sottoporre altri episodi in cui si potrebbe leggere il sospetto della corruzione in atti giudiziari, la stessa che i magistrati salentini hanno contestato insieme all’associazione a delinquere. E dunque sono scattate le verifiche. Stavolta D’Introno (assistito dall’avvocato Vera Guelfi, visto che anche lui è indagato) avrebbe parlato di altri imprenditori che, tramite lui, sarebbero arrivati a Michele Nardi. L’ex gip, tuttora in carcere a Matera, è stato rinviato a giudizio con l’ipotesi di essere il capo, promotore e organizzatore dell’associazione a delinquere che truccava le indagini: in cambio di denaro, si sarebbe occupato di curare gli interessi giudiziari di D’Introno, spesso millantando (tra le accuse contestate c’è anche questa) e comunque senza mai raggiungere l’obiettivo, dal momento che l’imprenditore coratino è stato poi condannato definitivamente in Cassazione per usura. È possibile, dunque, che qualcun altro si sia rivolto a Nardi per risolvere i propri problemi a Trani. Casi relativamente recenti (dopo il 2013), su cui già ci sarebbe qualche riscontro. Casi che si aggiungono a verifiche già avviate, sempre su «input» di D’Introno, in relazione a rapporti con altri magistrati e con altri avvocati. Ed è molto probabile che la Procura procederà ad ascoltare altri testimoni, o a continuare a sentire D’Introno che sul punto era già stato chiaro il 22 agosto (il relativo verbale è stato depositato dalla Procura in udienza preliminare): «Le vicende che hanno riguardato i Ferri e i Casillo - aveva detto D’Introno riferendosi agli imprenditori della grande distribuzione e ai “re del grano”, le cui denunce sono agli atti -, sono la prova di quanto sostengo circa il fatto che l’associazione aveva scopi che andavano ben oltre la mia persona. Ritengo che ulteriori indagini da parte dell’autorità giudiziari potrebbero far emergere ulteriori vicende analoghe a quelle che mi hanno visto coinvolto». La prima fase dell’inchiesta sulla giustizia truccata a Trani è approdata ora all’atto finale. Il gup Cinzia Vergine ha rinviato a giudizio davanti alla Seconda sezione penale (inizio il 4 novembre) Nardi, l’avvocato barese Simona Cuomo e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro (anche lui in carcere a Matera), oltre a Gianluigi Patruno e Savino Zagaria, ex cognato dell’ex pm Antonio Savasta. Savasta, insieme all’ex pm Luigi Scimè (ora in servizio come giudice a Salerno), all’imprenditore barlettano Gigi D’Agostino ed altri due avvocati tranesi ha invece scelto di farsi giudicare in abbreviato (si parte il 30 ottobre).
Corruzione a Trani, un nuovo verbale inguaia l'ex pm Scimè. L'imprenditore D'Introno e la tangente a Milano: l'incontro nel 2013 o nel 2016. Massimiliano Scagliarini il 18 Settembre 2019 su La Repubblica. Flavio D’Introno soggiornò a Milano dal 31 ottobre al 3 novembre 2013, uno dei possibili periodi in cui - secondo l’accusa - l’imprenditore coratino avrebbe consegnato una tangente di 10mila euro all’ex pm Luigi Scimè. È in un nuovo verbale di D’Introno, che la Procura di Lecce ha depositato in apertura dell’udienza preliminare conclusa lunedì con 5 rinvii a giudizio, che sono contenuti gli elementi a carico di Scimè, oggi giudice civile a Salerno, una delle cinque persone (insieme all’altro ex pm Antonio Savasta) ad aver chiesto il rito abbreviato. D’Introno, l’uomo che con i suoi racconti ha fatto esplodere l’inchiesta sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani, ha parlato con il pm Roberta Licci il 22 agosto, per chiarire una serie di episodi. Un verbale di cinque pagine in cui si parla, appunto, dei viaggi a Milano di D’Introno, cui certo la bella vita non dispiace: di casa sugli yacht e nei locali di Montecarlo, nel 2016 risulta tra gli ospiti dell’esclusivo «Ballo della rosa» insieme ai reali monegaschi. La questione dell’incontro a Milano, che viene recisamente negata da Scimè, riguarda appunto i giorni di presenza di D’Introno in un albergo della città. I carabinieri avevano recuperato la lista ospiti dell’albergo, da cui risultava un soggiorno solo l’1 e il 2 novembre. In realtà, dice D’Introno, il viaggio durò quattro giorni. «Per ragioni fiscali - ha spiegato a verbale - dividevamo il soggiorno con diverse intestazioni facendo intestare le fatture anche ai figli minori o a Resta Viaggi per ovviare a eventuali controlli di redditometro». D’Introno non è stato in grado di collocare con certezza lo scambio di denaro con Scimè a Milano. «Non so se sia avvenuto nel 2013 o nel 2016 - ha detto a verbale - mentre escludo con certezza il 2017, né posso ricordare in quale dei tre giorni di soggiorno sia avvenuto l’incontro». L’imprenditore ha raccontato di aver consegnato all’ex pm, titolare dell’accusa nel processo Fenerator per usura (poi concluso con una condanna definitiva) e di due indagini per altrettanti incendi nelle ville della moglie di D’Introno, una busta con 10mila euro in contanti. «È evidente - secondo D’Introno - che se l’incontro è avvenuto nel 2013, la dazione avrà avuto a che fare con il processo Fenerator, anche se io comunque ricordavo e ricordo un collegamento tra l’incontro a Milano e la questione degli attentati». Sarà ora il gup Cinzia Vergine a stabilire a fine ottobre se questo racconto è sufficiente a condannare Scimè (l’unico dei tre magistrati coinvolti ad essere ancora in attività) per l’accusa di corruzione. L’altro giudice, l’ex gip Michele Nardi, ha invece scelto di andare a processo e sarà giudicato a partire da novembre. Insieme a lui anche l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, che come Nardi è ancora in carcere a Matera. Dagli atti depositati dalla Procura di Lecce emerge che già nel 2017 i magistrati salentini avevano aperto un procedimento nei confronti del poliziotto e di Savasta: i carabinieri a giugno 2017 avevano acquisito documentazione nell’ufficio di Di Chiaro, nel commissariato di Corato.
«Sistema Trani», avvocatessa in lacrime davanti al gup: «Non è vero niente». Slittano le dichiarazioni di Nardi, considerato capo "sistema Trani". La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Settembre 2019. Slittano a lunedì 16 settembre le dichiarazioni di Michele Nardi, ex Gip di Trani arrestato lo scorso gennaio con l’ex collega Antonio Savasta e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro nell’inchiesta della Procura di Lecce sul cosiddetto 'sistema Tranì, e accusato di essere capo, promotore e organizzatore dell’associazione a delinquere che truccava i processi al Tribunale di Trani. L’udienza preliminare davanti al Gup di Lecce Cinzia Vergine é stata occupata oggi dall’esame e contro esame dell’avvocatessa barese Simona Cuomo, interdetta dalla professione per un anno, tra i dieci indagati dell’inchiesta. La professionista, accusata di associazione a delinquere per avere dato «veste legale alle iniziative dell’imprenditore Flavio D’Introno» mediando con Savasta e Nardi, ha respinto ogni addebito cedendo più volte alle lacrime, durante il contro esame del pubblico ministero Roberta Licci. La conclusione dell’esame é fissata per la giornata di lunedì, per poi procedere con le dichiarazioni spontanee annunciate da Nardi.
Trani, magistrati arrestati: anche Nardi pronto a dire la sua verità. Udienza gup su inchiesta corruzione in Tribunale Trani. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Settembre 2019. Dopo l’ex pm di Trani Antonio Savasta, anche l’ex gip Michele Nardi racconterà presto per la prima volta la sua verità sull'inchiesta della Procura di Lecce sul cosiddetto «sistema Trani» che lo vede in carcere dal gennaio scorso con l’accusa di concorso in associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari oltre che, a vario titolo, di minacce, millantato credito, estorsione e truffa aggravata con lo stesso Savasta. É stato lo stesso Nardi, dopo mesi di silenzio, ad annunciarlo nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup di Lecce Cinzia Vergine a carico di 10 indagati. Con i due magistrati è imputato anche il giudice Luigi Scimè, accusato di corruzione in atti giudiziari. L’ascolto di Nardi dovrebbe avvenire nella prossima udienza del 13 settembre. Nardi e Savasta furono arrestati nel gennaio scorso insieme con l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro. L’accusa è di avere pilotato sentenze e inchieste in cambio di mazzette quando erano in servizio a Trani. Oggi hanno chiesto di essere ammessi al rito abbreviato l’ex Pm Antonio Savasta, che è stato il primo a collaborare ammettendo responsabilità e si è dimesso dalla magistratura, dal giudice Luigi Scimé e dagli avvocati Ruggiero Sfrecola e Giacomo Ragno, e dall’immobiliarista Luigi D’Agostino. L’avvocatessa barese Simona Cuomo ha chiesto di essere esaminata venerdì, per poi decidere se ricorrere o meno al rito abbreviato. Sono imputati anche Gianluigi Patruno, titolare di una palestra, Vincenzo Di Chiaro (ispettore di polizia di Corato ancora in carcere) e Savino Zagaria ex cognato di Savasta. Oggi sono state anche presentate 14 richieste di costituzioni di parte civile, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Il Ministero della Giustizia, l’Ordine degli avvocati di Trani, gli imprenditori coratini Paolo Tarantini e Flavio D’Introno (quest’ultimo limitatamente alle posizioni di Michele Nardi e Gianluigi Patruno). D’Introno, che con le sue dichiarazioni ha dato il via all’inchiesta giudiziaria, resta indagato, ma la sua posizione é stata stralciata dalla Procura di Lecce, così come quella del carabiniere Martino Marangia.
Trani, «Giustizia svenduta»: ora Stato e Avvocatura chiedono i danni. Oggi l’udienza preliminare sulle vicende che hanno portato all’arresto di nardi e savasta. Massimiliano Scagliariani l'11 Settembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La presidenza del Consiglio dei ministri chiederà i danni ai magistrati accusati di far parte del cosiddetto «Sistema Trani». Stamattina, nell’udienza preliminare che si apre a Lecce davanti al gup Cinzia Vergine, l’Avvocatura dello Stato si costituirà parte civile nei confronti dell’ex gip Michele Nardi, dell’ex pm Antonio Savasta e del giudice Luigi Scimè (tuttora in servizio), i primi due accusati di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, oltre che – a vario titolo – di concussione, millantato credito, estorsione, truffa aggravata e minacce, mentre Scimè risponde «solo» di corruzione in atti giudiziari. I pm Roberta Licci e Giovanni Gallone hanno chiesto il processo per dieci persone tra cui, per il momento, non figura Flavio D’Introno, l’imprenditore che rappresenta la figura chiave della vicenda: il 46enne coratino, un poliedrico personaggio che continua a frequentare locali vip e resort di lusso (gli stessi in cui ha raccontato di aver portato a proprie spese Nardi e Savasta), ha confessato di aver pagato oltre due milioni di euro per cercare (invano) di salvarsi dai suoi problemi giudiziari, e il suo racconto ha consentito di far scattare gli arresti di gennaio. Ora, in questo troncone, potrà anche lui costituirsi parte civile e chiedere i danni, ma bisognerà capire l’orientamento della Procura nei suoi confronti (D’Introno resta indagato): se intenderà optare per un patteggiamento, oppure se chiederà il processo al termine dell’inchiesta che non è ancora conclusa e che in queste settimane è andata avanti con ulteriori accertamenti e riscontri. Savasta, che ha confessato parlando per ore durante l’incidente probatorio e che per questo ha ottenuto gli arresti domiciliari, dovrebbe chiedere il giudizio abbreviato così da assicurarsi uno sconto di pena. Viceversa Nardi, che non ha mai aperto bocca ed è rimasto in carcere, opterà per il dibattimento ed ha già chiesto l’annullamento della proroga della custodia cautelare che scadrà comunque il 10 ottobre (salvo che non intervenga prima il rinvio a giudizio, nel qual caso ci sono ulteriori sei mesi). E’ in carcere anche l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, anche lui accusato – con Nardi, Savasta e l’avvocato barese Simona Cuomo (attualmente sospesa dalla professione) – di associazione per delinquere. Scimè dovrebbe optare per il giudizio abbreviato condizionato ad alcuni approfondimenti investigativi che il suo difensore, Mario Malcangi, aveva già chiesto in una memoria: la difesa chiederà anche l’interrogatorio del magistrato. Saranno molte le richieste di costituzione di parte civile: oltre a quella dell’Ordine degli avvocati di Trani, anche quella dell’imprenditore coratino Paolo Tarantini (avvocato Beppe Modesti) cui Nardi e Savasta – secondo l’accusa – avrebbero tolto 400mila euro per far sparire una falsa indagine per reati fiscali.
Giustizia svenduta a Trani, un avvocato sotto procedimento disciplinare a Bari. Ragno è accusato anche di corruzione. E mercoledì 11 via all'udienza preliminare a Lecce. Massimiliano Scagliarini il 3 Settembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Mercoledì 11 inizierà a Lecce, davanti al gup Cinzia Vergine, l’udienza preliminare per l’inchiesta sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani. E l’Ordine degli avvocati apre un nuovo procedimento disciplinare, quello a carico del terzo legale coinvolto nel fascicolo della Procura salentina. Si tratta di Giacomo Ragno, 72 anni, di Molfetta, accusato con altri imputati (tra cui l’ex pm Antonio Savasta e l’ex gip Michele Nardi) di concorso in calunnia e falsa testimonianza, oltre che di concorso in corruzione. È una delle vicende finite sotto la lente dell’inchiesta, e riguarda il falso testimone che - secondo l’accusa - sarebbe stato pagato per screditare i testimoni a carico di Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato al centro della vicenda, l’uomo che ha raccontato di aver pagato oltre due milioni di euro a Nardi e Savasta. In questo contesto, Ragno (difeso dall’avvocato Salvatore D’Aluiso) è accusato di aver individuato il falso testimone, Gianluigi Patruno (pure lui imputato), «su sollecitazione di Nardi (...) informando di ciò il D’Introno e Savasta, che provvedeva poi ad escutere personalmente il Patruno mettendo altresì a disposizione il Ragno - cui D’Introno corrispondeva l’onorario - il suo ruolo di legale con il compito specifico di rassicurare il Patruno su eventuali conseguenze penali negative derivanti dalle false dichiarazioni». L’avvocato Ragno - sempre secondo l’accusa, che andrà ora provata in sede di dibattimento - avrebbe poi fatto da mediatore con D’Introno, stavolta su input di Savasta, quando Patruno (che aveva ottenuto da D’Introno la realizzazione di una palestra) ha chiesto denaro per non ritrattare la falsa testimonianza. La Procura, va ricordato, non ha al momento chiesto il rinvio a giudizio di D’Introno, che nel provvedimento di fissazione dell’udienza preliminare è indicato come parte offesa. Il Consiglio distrettuale di disciplina degli avvocati, presieduto da Mariano Fiore, dopo la richiesta di rinvio a giudizio ha chiesto e ottenuto dalla Procura di Lecce l’invio degli atti relativi alla posizione del collega. La procedura in caso di illecito disciplinare prevede la nomina di un istruttore, con il compito di esaminare gli elementi disponibili e, eventualmente, arrivare fino alla formulazione di un capo di incolpazione. Per quanto riguarda l’avvocato Ragno, al momento il Consiglio di disciplina ha proceduto soltanto a comunicare l’avvio del procedimento. A seguito dell’inchiesta di Lecce l’Ordine degli avvocati si era già mosso nei confronti di altri due professionisti. Una, Simona Cuomo, tuttora sottoposta a interdizione per ordine del gip Giovanni Gallo a seguito dell’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, ha presentato ricorso al Consiglio nazionale forense contro la analoga decisione (sospensione per sei mesi) del Consiglio distrettuale di disciplina. Sono invece state revocate tutte le sanzioni a carico dell’avvocato barlettano Ruggero Sfrecola, dopo la revoca dell’interdizione disposta dallo stesso gip Gallo.
Trani, giustizia truccata: processo rapido, l'11 settembre udienza preliminare. Chiesto il rinvio a giudizio, gup accorcia i tempi per evitare scarcerazione per decorrenza termini. Massimiliano Scagliarini il 24 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Indagini aperte o insabbiate in cambio di denaro. Come era previsto, la Procura di Lecce ha chiesto il rinvio a giudizio per la «cricca» dei giudici di Trani, accusata - tra l’altro - di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Ma tra le dieci persone che l’11 settembre dovranno presentarsi davanti al gup Cinzia Vergine non ci sarà Flavio D’Introno, l’imprenditore che con il suo racconto delle tangenti pagate all’ex gup Michele Nardi e agli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè ha fatto esplodere l’inchiesta: la posizione di D’Introno è stata infatti stralciata e, pur rimanendo indagato, il 46enne di Corato in questa fase è qualificato parte offesa. Potrà cioè costituirsi nei confronti degli imputati e chiedere loro i danni. Nella richiesta di rinvio a giudizio urgente che i pm Roberta Licci e Giovanni Gallone hanno presentato lunedì scorso non compare nemmeno il carabiniere Martino Marancia, la cui posizione sembra destinata all’archiviazione dopo l’interrogatorio di chiarimento reso a seguito della chiusura delle indagini. Il gup Vergine ha riconosciuto il requisito dell’urgenza, rilevando appunto che il 13 ottobre scadono i termini di custodia cautelare per Nardi, Savasta e per l’ispettore Vincenzo Di Chiaro (il primo e il terzo sono in carcere a Matera, il secondo avendo confessato ha ottenuto i domiciliari). Dunque una corsia preferenziale per evitare che tre dei principali protagonisti della vicenda possano tornare in libertà prima del rinvio a giudizio. Ma, d’altro canto, è più che probabile che Savasta (difeso dall’avvocato Massimo Manfreda) possa chiedere il giudizio abbreviato, dopo che la sua posizione è stata ormai sviscerata nell’incidente probatorio. Le oltre 100 ore di interrogatori svolte in contraddittorio davanti al gip Giovanni Gallo, che si sommano alle oltre 35mila pagine di atti raccolte nel corso dell’inchiesta dei Carabinieri, sono infatti servite a riscontrare il racconto delle tangenti pagate da D’Introno, che ha parlato di due milioni di euro distribuiti tra Nardi, Savasta e Scimè per tentare di fermare il suo processo per usura (alla fine è stato condannato) e per costruire falsi procedimenti penali nei confronti di chi lo aveva accusato. Accuse inutili: tutte le persone finite nel mirino della «cricca» sono infatti parti offese, come lo sono i giudici baresi Ornella Gozzo, Michele Tarantino e Loredana Colella nei cui confronti Nardi si sarebbe a suo dire speso per far assolvere D’Introno in appello (cosa mai avvenuta: per questo all’ex gip è contestato anche il millantato credito). Parte offesa è anche l’altro imprenditore di Corato, Paolo Tarantini (avvocato Beppe Modesti), messo in mezzo per una stangata che secondo l’accusa sarebbe stata orchestrata da Savasta, Nardi, Di Chiaro e dall’avvocato barese Simona Cuomo: un avviso di garanzia falso per reati fiscali, e 400mila euro (più 25mila euro di materiale elettronico a Nardi e 25mila euro di piante a Savasta) per far sparire la falsa indagine. La Procura di Lecce ha chiesto il processo anche per Scimè, nel frattempo trasferito a Salerno come giudice, accusato di corruzione per aver preso 75mila euro da D’Introno: non è bastata la corposa memoria difensiva prodotta dopo Ferragosto dal suo avvocato, Mario Malcangi, con l’obiettivo di dimostrare l’inconsistenza delle accuse di D’Introno, che ha raccontato tra l’altro una consegna di soldi avvenuta a Milano a novembre del 2013. Nella richiesta di rinvio a giudizio sono contestati anche, a vario titolo, i reati di falso, occultamento di atti, calunnia, minacce, truffa, estorsione e induzione a non rendere dichiarazioni. Le indagini sulla giustizia truccata a Trani non sono però concluse. Il fascicolo è ancora aperto per dare riscontro sia agli ulteriori episodi raccontati da D’Introno, sia alle denunce che da gennaio (la data degli arresti) a oggi sono state presentate da imprenditori e avvocati che ritengono di essere incappati nel «sistema». Un «sistema» cui, come ovvio, è estranea la stragrande maggioranza degli avvocati e dei magistrati, ma che tuttavia ha messo in cattiva luce per anni il mondo della giustizia tranese.
"Toghe sporche" a Trani. Fissata per l'11 settembre udienza preliminare. Il Corriere del Giorno il 24 Agosto 2019. L’inchiesta si basa su oltre 35mila pagine di atti acquisiti dei Carabinieri ed oltre 100 ore di interrogatori svoltisi in contraddittorio davanti al Gip Giovanni Gallo, che sono servite a riscontrare il racconto delle tangenti di 2milioni di euro elargiti a Nardi, Savasta e Scimè dall’imprenditore D’Introno. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Lecce sono contestati anche, a vario titolo, i reati di falso, occultamento di atti, calunnia, minacce, truffa, estorsione e induzione a non rendere dichiarazioni. Le indagini sulla giustizia “truccata” a Trani non sono però concluse. Come previsto i pm Roberta Licci e Giovanni Gallone della Procura di Lecce hanno depositato lunedì scorso la richiesta di rinvio a giudizio urgente, per evitare che tre dei principali protagonisti della vicenda possano tornare in libertà prima del rinvio a giudizio, per i quali il Gup Cinzia Vergine ha riconosciuto il requisito dell’urgenza, verificando che il 13 ottobre prossimo scadevano i termini di custodia cautelare per la “cricca” dei magistrati di Trani Michele Nardi, Antonio Savasta (che attualmente sono entrambi detenuti in carcere a Matera) e per l’ispettore della Polizia di Stato Vincenzo Di Chiaro il quale avendo confessato ha ottenuto i domiciliari, che rispondono oltre alle varie accuse anche di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, per la varie indagini aperte o occultate in cambio di denaro e corrutele varie. Il prossimo 11 settembre dovranno presentarsi davanti al Gup Cinzia Vergine, l’ ex Gup di Trani Michele Nardi l’ ex pm Antonio Savasta ed il magistrato Luigi Scimè attualmente in servizio negli uffici giudiziari di Firenze, che in precedenza prestavano tutti servizio presso la Procura di Trani.Molto probabilmente l’avvocato Massimo Manfreda difensore dell’ormai ex magistrato Savasta opterà per il rito abbreviato, dopo che la sua posizione è stata ormai più che chiarita nell’incidente probatorio. Non comparirà invece come “imputato” l’imprenditore 46enne di Corato, Flavio D’ Introno il quale con le sue dichiarazioni ha fatto “esplodere” l’inchiesta, pur rimanendo indagato in altri filoni dell’inchiesta, e quindi in questo procedimento è ritenuto parte offesa e potrà quindi costituirsi nei confronti degli imputati e chiedere loro i danni. Non compare fra gli imputati anche il carabiniere Martino Marancia, la cui posizione sembra destinata all’archiviazione a seguito dell’interrogatorio di chiarimento reso dopo la chiusura delle indagini. La Procura di Lecce ha chiesto il processo anche per l’ ex pm Scimè, nel frattempo trasferito come giudice al Tribunale di Salerno , accusato di corruzione per aver preteso ed ottenuto 75mila euro da D’Introno. Non è stata sufficiente la corposa memoria difensiva depositata la scorsa settima dal suo avvocato, Mario Malcangi, con il tentativo di poter dimostrare l’inconsistenza delle accuse di D’Introno, che ha raccontato tra l’altro una consegna di soldi avvenuta a Milano a novembre del 2013. L’inchiesta si basa su oltre 35mila pagine di atti acquisiti dei Carabinieri ed oltre 100 ore di interrogatori svoltisi in contraddittorio davanti al Gip Giovanni Gallo, che sono servite a riscontrare il racconto delle tangenti di 2milioni di euro elargiti a Nardi, Savasta e Scimè dall’imprenditore D’Introno, per tentare di fermare il suo processo per usura (nel quale peraltro alla fine è stato condannato, e per costruire dei falsi procedimenti penali nei confronti di chi lo aveva accusato. Tutte accuse di fatto inutili in quanto tutte le persone finite sotto le pressioni della «cricca» di Trani sono di fato ritenute parti offese, così come lo sono anche i giudici baresi Loredana Colella, Ornella Gozzo e Michele Tarantino e nei cui confronti il Nardi a suo dire si sarebbe profuso per far assolvere D’Introno in appello. Circostanza questa peraltro mai avvenuta, motivo per il quale all’ex Gip è stato contestato anche l’ipotesi di reato di “millantato credito”. Tra le parti offese è presente anche un altro imprenditore di Corato, Paolo Tarantini difeso dall’ avvocato Beppe Modesti, coinvolto in una “stangata” che secondo l’accusa sarebbe stata messa in piedi ed organizzata da Savasta, Nardi, Di Chiaro e dall’avvocato barese Simona Cuomo, attraverso un falso avviso di garanzia per reati fiscali, ottenendo 400mila euro oltre a 25mila eurodi materiale elettronico a Nardi e 25mila euro in piante a Savasta, per far scomparire l’ indagine falsa architettata a tavolino. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Lecce sono contestati anche, a vario titolo, i reati di falso, occultamento di atti, calunnia, minacce, truffa, estorsione e induzione a non rendere dichiarazioni. Le indagini sulla giustizia “truccata” a Trani non sono però concluse. Il fascicolo è ancora aperto per il dovuto riscontro sia agli ulteriori episodi raccontati da D’Introno, e per alle denunce che dalla data degli arresti (gennaio) a oggi, sono state depositate da parte di imprenditori e avvocati che ritengono di essersi incagliati nella “cricca”, un «sistema di tangenti ed abusi ai quali chiaramente è da ritenere estranea la stragrande maggioranza degli avvocati e dei magistrati, pur ricoprendo di immeritato fango il sistema della giustizia a Trani.
Giustizia svenduta, ex gip: «Mai soldi da D'Introno, giocavo a scacchi». L'unico interrogatorio di Michele Nardi in carcere da 7 mesi: ha parlato una sola volta, poi il silenzio. Massimiliano Scagliarini il 2 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Michele Nardi ha parlato una sola volta, il 17 gennaio, nell’interrogatorio di garanzia seguito al suo arresto per associazione a delinquere e corruzione in atti giudiziari. Poi l’ex gip di Lecce è rimasto in silenzio. Nardi è in carcere da quasi sette mesi anche perché la Procura di Trani non ha creduto alla sua versione dei fatti: «Mai avuto soldi o regali da Flavio D’Introno», l’imprenditore di Corato che ha detto di aver dato 2 milioni di euro a Nardi e all’ex pm Savasta. Anzi, ha detto in sostanza, era D’Introno a chiedere soldi a lui. A Nardi è contestato, tra l’altro, di aver preteso regali di lusso da D’Introno. Lui smentisce, ammettendo solo un viaggio insieme a Dubai. «Non ho mai chiesto il Rolex e non ho mai ricevuto i diamanti. Non ho mai ricevuto dazioni in denaro liquido da D’Introno, solo quei due assegni che ho versato sui miei conti correnti (si riferisce al pagamento del fitto per una villa di Trani, ndr)». D’Introno ha raccontato anche di essersi recato spesso a Roma a portare il denaro a Nardi. «Perché doveva venire a Roma a portarmi i soldi? Prendere l’aereo, quando il fine settimana io tornavo a Trani, veniva a casa e mi lasciava i soldi se mi doveva lascare i soldi, doveva venire fino a Roma a portarmeli, che senso ha una cosa del genere?». Secondo l’ex gip, era «una copertura» inventata da D’Introno: «Siccome gestiva due o tre amichette contemporaneamente, allora doveva giustificare perché andava a Roma». Per l’accusa, Nardi avrebbe preteso da D’Introno il 10% di tutto ciò che pagava agli altri giudici. «È una cosa studiata ad arte per un motivo molto semplice: coinvolgermi in tutte le porcate che ha fatto con Savasta». E poi, appunto, ci sono i 500 euro al giorno che - secondo D’Introno - servivano a Nardi per il suo «tenore di vita» fatto di viaggi e donne. «Le sembra un tenore di vita da 500 euro al giorno? Ho fatto la doppia cessione del quinto dello stipendio l’anno scorso quando mi sono separato da mia moglie e in banca ho 21 mila euro». Ancora, ci sarebbero i 200mila euro ottenuti dall’imprenditore Paolo Tarantini di Corato, per bloccare una falsa indagine fiscale: secondo D’Introno, la parte di Nardi sarebbe stata consegnata alla sorella in una stazione di servizio. «Vi invito a chiamare questo Tarantini e a fare un riconoscimento, vedere se riconosce mia sorella, mia sorella non guida la macchina e quindi non so come sarebbe potuta arrivare alla Esso».
«GIOCAVAMO A SCACCHI». Nardi racconta di aver conosciuto Flavio D’Introno tramite l’avvocato Mimmo Tandoi, che è imparentato con la famiglia. «Divenni amico di Domenico D’Introno, che è il fratello di questo Flavio, un imprenditore con cui condividevamo questa passione per gli scacchi. Un giorno questo Domenico, forse era nel 2007, mi disse che suo fratello Flavio era stato arrestato, e una volta che ci eravamo visti per giocare a scacchi se ne venne con questo fratello Flavio, il quale era un uomo distrutto da un anno di custodia cautelare in carcere». E Nardi dice di aver sfruttato D’Introno per coprire una relazione extraconiugale. «Per sfuggire all’attenzione di mia moglie quand’ero a Trani usavo questo D’Introno, dicevo “Vienimi a prendere”, mia moglie pensava che stessi con lui a farmi una passeggiata, invece poi insomma stavo in casa di questa mia collega».
«ERA LUI A CHIEDERMI SOLDI». Secondo Nardi, era D’Introno a chiedere denaro a lui. E racconta di un incontro all’interno di un supermercato. «Sembrava in preda alla cocaina, urlava, gridava, diceva: “Sono nei guai perché io ho speso i soldi di mia moglie, mia moglie vuole i soldi indietro perché altrimenti il 20 agosto mia moglie deve essere sentita dai Carabinieri se non gli restituisco i soldi mia moglie chissà cosa...”, ho detto: “Scusa, da me che cosa vuoi?”, “No, ti prego: prestami 60 mila euro perché io devo tamponare mia moglie”». Una scena che si sarebbe ripetuta il 18 agosto scorso, a Roma: «Sotto il portone trovo una macchina parcheggiata, dalla quale scende improvvisamente con la gamba ingessata il D’Introno e la macchina era guidata a un ceffo che stava avanti. (...) Come faceva a giustificare che era venuto il 18 agosto sotto casa mia? Perché era venuto che voleva i soldi da me, ecco perché io poi ho sporto una denuncia per estorsione a Perugia, che è tuttora pendente.
«CAMBIÒ LA SERRATURA...». Il fulcro dei rapporti tra D’Introno e Nardi e nella villa dell’ex gip a Trani, che l’imprenditore ha raccontato di aver ristrutturato a spese sue. Nardi nega, e parla di un accordo per venderla a D’Introno a 600mila euro dopo 10 anni di fitto che, però, non sarebbero mai stati pagati. «Stiamo parlando di una villa di pregio, quindi non un rudere. Era previsto che entrambi possedessimo questa villa per dieci anni, è una villa grandissima, quindi ci potevano benissimo stare due famiglie. (...) Mi ricordo che una volta mia moglie e mia suocera andarono alla villa e trovarono qualcosa come una cinquantina di persone sdraiate sul prato in bikini a prendere il sole. (...) Fino a quando, nell’agosto del 2012, tornati dalle vacanze io e mia moglie, andiamo alla villa e D’Introno aveva cambiato le serrature». Nardi dice che a quel punto si accorda con D’Introno per fittargli la villa a 10.000 euro all’anno, soldi da scalare dal prezzo di vendita che però non ha mai avuto. E ora su quel contratto ci sono accertamenti da parte della Procura di Lecce.
I RAPPORTI CON SAVASTA. Nardi ha detto di non essere mai intervenuto in nessun modo per aggiustare processi: «L’aiuto che io ho dato a D'Introno è stato questo, mi sono letto le sue carte, gli ho detto quello che pensavo della sua situazione processuale». Anche per questo Antonio Savasta, l’ex pm con cui è accusato di aver creato la cricca delle inchieste truccate sarebbe «un doppiogiochista»: «Sì, purtroppo sì. Io quando ho letto queste intercettazioni sono rimasto scioccato, perché lui faceva l’amicone con me e faceva l’amicone con lui, diceva una casa a me e diceva una cosa a lui, è stato un doppiogiochista». Nardi ammette tre incontri a Roma, tutti in chiesa, durante cerimonie mistiche, e dice che i rapporti si sono rotti per via della gestione dell’inchiesta Casillo (il re del grano, arrestato e poi assolto, che ha detto di aver pagato per uscire dal carcere). «L’unica volta che ci siamo incontrati per caso (con Savasta, ndr) è stato il giorno prima che ci hanno arrestati alla stazione perché tutt’e due abbiamo preso casualmente il treno». La mattina dopo Nardi doveva essere a Firenze. Non ci è mai arrivato.
Magistrati arrestati a Trani, dalle agende di Nardi nuove accuse ai giudici. Gli incontri dell'ex gip con Savasta e l'imprenditore D'Introno confermati dal Gps. Massimiliano Scagliarini il 04 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Dalle agende sequestrate a Michele Nardi potrebbero arrivare i riscontri alle accuse più recenti nei confronti dell’ex gip, in carcere da gennaio con l’accusa di essere a capo della cricca di giudici che truccava i processi nel Tribunale di Trani. La Procura di Lecce ha chiesto ai carabinieri di Barletta una serie di accertamenti incrociati sulle dichiarazioni rese dai protagonisti della vicenda: incontri, fascicoli, passaggi di denaro. E in questa analisi rientrano, tra l’altro, gli appunti di Nardi. Al momento dell’arresto Nardi e Savasta sapevano da più di un anno di essere sotto indagine a Lecce per corruzione, avendo ricevuto la notifica un avviso di proroga delle indagini. Dalle agende dell’ex gip, tuttora in carcere a Matera, emergono i tentativi di capire di più su quella indagine. Ma ci sono anche gli incontri con Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che ha raccontato delle tangenti ai magistrati causando il terremoto dell’inchiesta. «Tornato ieri a Roma - annota ad esempio Nardi il 4 luglio 2017 -. Ieri D’Introno mi ha cercato e ha detto che la moglie era stata sentita giovedì scorso dai Cc di Barletta (...) Le hanno chiesto dei rapporti del marito con me e se sapesse di regali fatti». Dalle agende emergono, numerosi incontri con Savasta (di alcuni Nardi ha parlato nell’interrogatorio di garanzia) nell’autunno 2017 ma anche a maggio 2018: «Sav dice che non ha novità». Tuttavia, ricordano gli inquirenti, nell’interrogatorio Nardi ha detto di aver interrotto tutti i contatti con gli ex colleghi di Trani dal giorno del trasferimento a Roma (febbraio 2006): le agende dimostrerebbero il contrario. Allo stesso modo, dalle agende si ricaverebbe che i primi contatti con D’Introno risalirebbero al 2012. A Nardi (oltre all’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, insieme a Savasta, allo stesso D’Introno e ad altre due persone) vengono contestati tra gli altri i reati di millantato credito, estorsione e violenza privata. La prima accusa riguarda i soldi che l’ex gip avrebbe chiesto a D’Introno per intervenire sui giudici della Corte d’appello di Bari dove l’imprenditore è stato poi condannato per usura. Le altre due accuse si riferiscono alle pressioni di Nardi su D’Introno, con le minacce di morte che gli sarebbero state fatte se non avesse continuato a pagare: Nardi nega, ma la Procura di Lecce ha cristallizzato questa ipotesi nell’avviso di conclusione delle indagini di luglio. Lo stesso Savasta, nel corso dell’incidente probatorio, racconta che a un certo punto - cioè quando i due avevano avuto un litigio per fatti personali - Nardi avrebbe tentato di scaricare l’imprenditore: «Sembra che c’era stato un momento in cui tra lui e D’Introno, un momento limitato nel tempo, in cui ce l'aveva con D'Introno per cui mi disse “Tutto quello che è stato fatto è meglio... distruggilo!”». I carabinieri, su richiesta della Procura, hanno sottoposto a verifica anche le dichiarazioni di D’Introno in merito ai rapporti con l’ex pm Luigi Scimè (anche lui indagato), cui avrebbe consegnato l’ultima tranche di una tangente (10mila dei 30mila euro concordati per chiudere le indagini sugli incendi nelle ville della moglie), a Milano durante il ponte del 1° maggio 2016: , circostanza che il magistrato nega: dagli accertamenti è emerso che D’Introno era effettivamente a Milano in quei giorni, in compagnia di un amico, e che anche il magistrato aveva un motivo familiare per recarsi nel capoluogo lombardo. I militari hanno anche acquisito i tracciati del gps della Bmw di Nardi, per chiarire se il 6 dicembre 2013 l’auto dell’ex gip potesse trovarsi nel distributore Esso dove - secondo D’Introno - sarebbero passati di mano 200mila euro: i dati di localizzazione non sono precisi, ma per i carabinieri quel giorno l’auto è effettivamente transitata sulla provinciale Trani-Bitonto in prossimità dell’area di servizio.
"Toghe sporche". Continua il rimpallo di versioni strumentali fra i magistrati di Trani. Il Corriere del Giorno il 3 Agosto 2019. Sul magistrato barese Michele Nardi , il CORRIERE DEL GIORNO ha scoperto anche un episodio a dir poco imbarazzante. In una vicenda giudiziaria a Roma di cui era titolare del fascicolo d’indagine, il pm Nardi dispose una perquisizione infruttifera nei confronti di una donna tarantina, che gestiva un centro estetico a pochi passi da piazzale Clodio, sede della Procura e del Tribunale Penale di Roma. Piccolo particolare una “amichetta” del Nardi era stata licenziata da quel centro in cui faceva la segretaria . Coincidenze? L’ex gip del Tribunale di Trani Michele Nardi , successivamente passato a fare il pm a Roma prima di essere sospeso dal Csm, il Consiglio Superiore della Magistratura, al contrario di Antonio Savasta, che non solo si è dimesso dalla magistratura ma ha collaborato con la Procura di Lecce nel corso delle indagini ammettendo le sue malefatte, ha aperto bocca una sola volta, in occasione dell’interrogatorio di garanzia relativo al suo arresto avvenuto il 17 gennaio scorso, con le accuse di “associazione a delinquere e corruzione in atti giudiziari ”. Dopodichè l’ex gip di Trani si è trincerato dietro un silenzio assordante, restando detenuto in carcere da sette mesi in quanto la Procura di Lecce non ha mai dato credibilità alle sue dichiarazioni. Nardi ha sostenuto da subito di non aver ricevuto soldi o regali da Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che ha denunciato di aver consegnato 2 milioni di euro al duo Nardi – Savasta. Con sfacciataggine Nardi è arrivato a sostenere persino che era D’Introno a pretendere soldi da lui. Le contestazioni della Procura di Lecce a Nardi , comprendono di aver preteso regali “importanti” da D’Introno. Ma il magistrato barese nega, ammettendo soltanto di aver fatto un viaggio insieme a Dubai e dice “Non ho mai chiesto il Rolex e non ho mai ricevuto i diamanti. Non ho mai ricevuto dazioni in denaro liquido da D’Introno, solo quei due assegni che ho versato sui miei conti correnti ” giustificando quel pagamento, come il canone di locazione per una villa di Trani. L’imprenditore Flavio D’Introno nei suoi racconti ai Carabinieri, coordinati dalla Procura di Lecce, ha riferito di essersi dovuto recare spesso a Roma per portare le somme di denaro in contanti a Nardi che nel frattempo era stato trasferito a Roma, dove faceva il sostituto procuratore della repubblica . Ma Nardi ha negato dicendo “Perché doveva venire a Roma a portarmi i soldi? Prendere l’aereo, quando il fine settimana io tornavo a Trani, veniva a casa e mi lasciava i soldi se mi doveva lascare i soldi, doveva venire fino a Roma a portarmeli, che senso ha una cosa del genere?” sostenendo che quei viaggi a Roma erano “una copertura” creata ad hoc da D’Introno, che a suo dire “gestiva due o tre amichette contemporaneamente, allora doveva giustificare perché andava a Roma“. Secondo l’accusa, Michele Nardi avrebbe preteso da D’Introno un sorta di tangente del 10% di tutto quello che pagava agli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta. Ma Nardi per difendersi accusa Savasta: “È una cosa studiata ad arte per un motivo molto semplice: coinvolgermi in tutte le porcate che ha fatto con Savasta“. e per difendersi dalle accuse di D’Introno di aver preteso 500 euro al giorno che gli sarebbero serviti per il suo “tenore di vita” costellato di viaggi e donne. “Le sembra un tenore di vita da 500 euro al giorno? Ho fatto la doppia cessione del quinto dello stipendio l’anno scorso quando mi sono separato da mia moglie e in banca ho 21 mila euro” si è difeso Nardi. Nardi ha negato di essere intervenuto per aggiustare processi: “L’aiuto che io ho dato a D’Introno è stato questo, mi sono letto le sue carte, gli ho detto quello che pensavo della sua situazione processuale“. Ed accusato Antonio Savasta, l’ex pm con cui è accusato di aver creato la cricca delle inchieste truccate, di aver fatto il “doppiogiochista”, dichiarando “Sì, purtroppo sì. Io quando ho letto queste intercettazioni sono rimasto scioccato, perché lui faceva l’amicone con me e faceva l’amicone con lui, diceva una casa a me e diceva una cosa a lui, è stato un doppiogiochista“. Nardi nel suo interrogatorio ha ammesso tre incontri a Roma, avvenuti a suo dire tutti in chiesa durante cerimonie mistiche, sostenendo che i rapporti si erano rotti per via della gestione dell’inchiesta Casillo (il re del grano, che venne arrestato e successivamente assolto, il quale ha dichiarato di aver dovuto pagare per poter uscire dal carcere. “L’unica volta che ci siamo incontrati per caso è stato il giorno prima che ci hanno arrestati alla stazione perché tutt’e due abbiamo preso casualmente il treno” ha detto Nardi riferendosi a Savasta. L’indomani mattina Nardi doveva recarsi a Firenze. Ma non è mai arrivato a destinazione. Su Michele Nardi, il CORRIERE DEL GIORNO ha scoperto anche un episodio a dir poco imbarazzante… In un procedimento giudiziario tuttora in corso a Roma, di cui il pm Michele Nardiera titolare del fascicolo d’indagine, dispose una perquisizione (infruttifera n.d.r.) nei confronti di una donna tarantina, che gestiva un centro estetico a pochi passi da piazzale Clodio, sede della Procura e del Tribunale Penale di Roma. Piccolo particolare, guarda caso, una “amichetta” del Nardi era stata da poco licenziata da quel centro in cui faceva la segretaria-estetista . Soltanto coincidenze? Ma non sono sole le accuse di D’ Introno ad inchiodare Michele Nardi, in quanto gli vengono contestati i 200mila euro ottenuti dall’imprenditore Paolo Tarantini di Corato, per bloccare una falsa indagine fiscale. Secondo le accuse di D’Introno verbalizzate dalla Polizia Giudiziaria, la percentuale spettante al Nardi sarebbe stata consegnata alla sorella in una stazione di servizio. Circostanza questa che viene negata da Nardi: “Vi invito a chiamare questo Tarantini e a fare un riconoscimento, vedere se riconosce mia sorella, mia sorella non guida la macchina e quindi non so come sarebbe potuta arrivare alla Esso“. L’ex Gip di Trani Michele Nardi nel suo interrogatorio di garanzia ha raccontato di aver fatto la conoscenza dell’imprenditore coratino Flavio D’Introno che gli venne presentato l’avvocato Mimmo Tandoi, che ha rapporti di parentela con la famiglia, raccontando a verbale: “Divenni amico di Domenico D’Introno, che è il fratello di questo Flavio, un imprenditore con cui condividevamo questa passione per gli scacchi. Un giorno questo Domenico, forse era nel 2007, mi disse che suo fratello Flavio era stato arrestato, e una volta che ci eravamo visti per giocare a scacchi se ne venne con questo fratello Flavio, il quale era un uomo distrutto da un anno di custodia cautelare in carcere“. Nardi ha ammesso al Gip di aver “sfruttato” D’Introno per nascondere una propria relazione extraconiugale “Per sfuggire all’attenzione di mia moglie quand’ero a Trani usavo questo D’Introno, dicevo “Vienimi a prendere”, mia moglie pensava che stessi con lui a farmi una passeggiata, invece poi insomma stavo in casa di questa mia collega“. Sarebbe stato l’imprenditore D’Introno (secondo Nardi n.d.r.) a chiedere denaro a lui, raccontando di un incontro avvenuto all’interno di un supermercato. “Sembrava in preda alla cocaina, urlava, gridava, diceva: “Sono nei guai perché io ho speso i soldi di mia moglie, mia moglie vuole i soldi indietro perché altrimenti il 20 agosto mia moglie deve essere sentita dai Carabinieri se non gli restituisco i soldi mia moglie chissà cosa…”, e di avergli detto detto: “Scusa, da me che cosa vuoi?”. Secondo la versione data al Gip di Lecce, D’Introno gli avrebbe detto “No, ti prego: prestami 60 mila euro perché io devo tamponare mia moglie”. sostenendo che la situazione si sarebbe ripetuta il 18 agosto 2018, a Roma. Dice Nardi “Sotto il portone trovo una macchina parcheggiata, dalla quale scende improvvisamente con la gamba ingessata il D’Introno e la macchina era guidata a un ceffo che stava avanti. (…) Come faceva a giustificare che era venuto il 18 agosto sotto casa mia? Perché era venuto che voleva i soldi da me, ecco perché io poi ho sporto una denuncia per estorsione a Perugia, che è tuttora pendente“. Il punto centrale dei rapporti intercorsi tra D’Introno e Nardi verte sulla villa dell’ex gip a Trani, che l’imprenditore di Corato (Bari) sostiene di aver dovuto ristrutturare a proprie spese. Una circostanza che Nardi nega, riferendo di un accordo concordato con D’Introno per venderla a 600mila euro dopo 10 anni di fitto che, però, non risulterebbero essere mai stati pagati, che di fatto smentisce la versione dei fatti dell’ ex-Gip di Trani. “Stiamo parlando di una villa di pregio, quindi non un rudere – dice Nardi – Era previsto che entrambi possedessimo questa villa per dieci anni, è una villa grandissima, quindi ci potevano benissimo stare due famiglie. (…) Mi ricordo che una volta mia moglie e mia suocera andarono alla villa e trovarono qualcosa come una cinquantina di persone sdraiate sul prato in bikini a prendere il sole. (…) Fino a quando, nell’agosto del 2012, tornati dalle vacanze io e mia moglie, andiamo alla villa e D’Introno aveva cambiato le serrature». A quel punto dell’interrogatorio Nardi ha sostenuto di essersi accordato con D’Introno per cedergli in locazione la villa a 10.000 euro all’anno, soldi che andavano scalati dal prezzo di vendita convenuto, accordo questo, che come dicevamo, non ha mai avuto seguito. Adesso su quel contratto sono in corso i dovuti accertamenti da parte della Procura di Lecce.
Magistrati arrestati a Trani, l'inchiesta tocca anche Bari. Le dichiarazioni dell'ex pm Savasta: «Nardi intervenne sulla Sorveglianza per non far arrestare D'Introno». Massimiliano Scagliarini il 17 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’ipotesi è che Michele Nardi, l’ex gip ora in carcere con l’accusa di essere il capo della cricca che truccava processi in cambio di denaro, possa essere intervenuto sul Tribunale di sorveglianza di Bari per evitare che Flavio D’Introno finisse in carcere. L’imprenditore di Corato, considerato il corruttore dei giudici tranesi, aveva ed ha sulle spalle una condanna definitiva a cinque anni e mezzo per usura. E questo intervento sulla Sorveglianza fa parte dei nuovi accertamenti avviati dalla Procura di Lecce dopo la chiusura del primo troncone dell’inchiesta. Ne ha parlato lo stesso D’Introno, nei nuovi interrogatori di cui la «Gazzetta» ha già dato conto. E l’argomento è saltato fuori, nella penultima udienza dell’incidente probatorio, durante l’esame dell’ex pm tranese Antonio Savasta. «Nardi - è la domanda posta a Savasta dal pm Roberta Licci - le ha mai riferito di suoi interventi presso la Sorveglianza che si doveva occupare dell’esecuzione della sentenza di D’Introno?». «Sì - è la risposta dell’ex pm -, genericamente [Nardi] mi disse bisogna vedere anche lì, dalla Sorveglianza, se c’è la possibilità di aiutare il D’Introno così magari con il discorso di qualcosa di alternativo rispetto alla detenzione il D’Introno poteva evitare di parlare». Il problema di Nardi e Savasta, nei giorni che hanno preceduto l’arresto di gennaio, era infatti convincere D’Introno a non collaborare con la Procura di Lecce come invece l’imprenditore ha fatto registrando con il cellulare gli incontri con Savasta. D’Introno, che aveva speso due milioni per tentare di non farsi condannare, era invece ossessionato dall’idea di finire in carcere. Cosa poi non avvenuta perché, come lui stesso ha raccontato durante l’incidente probatorio, D’Introno ha ottenuto la sospensione dell’esecuzione per motivi medici. Ecco perché la pm Licci incalza, chiedendo a Savasta se Nardi «ne parlò genericamente oppure ne parlò più nel dettaglio». «Io mi ricordo genericamente - è la risposta -. Non parlò di giudici o di cose, parlò presso la Sorveglianza». L’accusa fa riferimento al colloquio con Savasta che D’Introno registra il 1° novembre 2018, quello (finora coperto da omissis) in cui l’ex pm dice «No è che è in regressione perché Nardi ha detto alla Sorveglianza, ha detto alla Maffei... Ha detto che lui invece ha tentato di aiutarti». «Volevo capire che cosa le disse Nardi in proposito», chiede la Licci a Savasta. «Nardi - è la risposta - mi disse soltanto che avrebbe provato a vedere sul discorso della sorveglianza. Di parlare bene di D’Introno. Però posso dire anche che lì [nel colloquio registrato] aggiungevo, nel senso di rassicurare D’Introno perché anche D’Introno diceva “io finisco dentro”. Accentuavo il fatto che Nardi potesse intervenire per aiutarlo perché non volevo creare una situazione nella quale il D’Introno ad un certo punto dicesse “basta, vado dai Carabinieri e chiudiamo la storia”. Quindi dicevo anche di più di quello che Nardi in effetti mi aveva detto». Tra le domande della Licci a Savasta ce n’è anche una su Nicola Pappalettera, il commercialista rinviato a giudizio a Trani per infedeltà patrimoniale nel caso dell’hotel Salsello di Bisceglie. Un’altra vicenda (la «Gazzetta» l’ha riassunta ieri) finita nel mirino della Procura di Lecce. «Il dottor Pappalettera è stato per un periodo il commercialista mio, personale», ha detto Savasta, raccontando di essersi fatto assistere per «l’affitto della masseria intorno al 2010». Pappalettera è il liquidatore del Salsello, e l’ex pm Scimè aveva chiesto per due volte l’archiviazione di una querela nei suoi confronti sulla base di una perizia di un altro commercialista, Massimiliano Soave, su cui oggi si concentrano le verifiche.
La Procura di Lecce adesso indaga anche sui giudici di sorveglianza di Bari. Il Corriere del Giorno il 17 Luglio 2019. La Procura di Lecce, che indaga sul “ sistema Trani” passa al setaccio l’operato dei magistrati baresi dopo che l’ex magistrato, attualmente agli arresti domiciliari, ha confermato nel corso di un incidente probatorio le accuse dell’imprenditore Flavio D’Introno che per primo parlò del possibile coinvolgimento di giudici della Sorveglianza nel giro di tangenti degli anni passati , “corrruttore” diventato in seguito una sorta di “pentito” passando a fare l’accusatore di tutti coloro i quali in passato aveva corrotto o provato a corrompere. BARI – L’ex pm Antonio Savasta ormai accusa tutti i suoi ex colleghi degli uffici giudiziari di Trani. Questa volta accende i riflettori della procura inquirente di Lecce sull’ operato dei magistrati del tribunale di sorveglianza di Bari. A parlare per primo del possibile coinvolgimento di giudici della Sorveglianza nel giro di tangenti degli anni passati , fu Flavio D’Introno il “corrruttore” diventato in seguito una sorta di “pentito” passando a fare l’accusatore di tutti coloro i quali in passato aveva corrotto o provato a corrompere. E queste dichiarazioni vennero confermate da Savasta in occasione dell’incidente probatorio tenutosi lo scorso 28 giugno. Antonio Savasta incalzato da domande molto dettagliate della pm Roberta Licci della Procura di Lecce, ha così risposto: “Nardi mi disse che bisognava vedere lì alla Sorveglianza” in pratica presso quei magistrati che avrebbero dovuto vagliare la sua posizione dopo la condanna di D’Intronoper usura, ed aggiunse ” Nardi mi disse che avrebbe provato a intervenire presso la Sorveglianza per aiutarlo “. Resta da capire se il tentativo di corruzione si sia concluso, ma su questa circostanza le indagini sono tuttora in itinere. Si è conclusa nel frattempo la prima fase dell’inchiesta, con la notifica dell’ avviso di conclusione dell’indagini a 12 persone: oltre a Michele Nardi, Antonio Savasta, il poliziotto Di Chiaro e Flavio D’Introno, è indagata anche l’avvocato Simona Cuomo per “associazione per delinquere finalizzata alla corruzione” , mentre l’ex pm di Trani Luigi Scimè ora in servizio negli Uffici Giudiziari di Salerno deve rispondere di “corruzione in atti giudiziari e reati connessi” insieme all’immobiliarista Luigi Dagostino, il carabiniere Martino Marancia; il falso testimone Gianluigi Patruno; l’avvocato Pietro Ragno; l’avvocato Ruggiero Sfrecola e Savino Zagaria, ex cognato di Savasta. Le accuse nei loro confronti erano erano state per la maggior parte già contestate in occasione dell’arresto, e nel’ avviso di conclusione delle indagini vengono puntualizzati alcuni capi d’imputazione ed aggiunti dei nuovi reati, come quello di truffa addebitato a Savasta. La vittima sarebbe stata Paolo Tarantini, proprietario di un’agenzia viaggi, dal quale Savasta chiese e ricevette una “tangente” da 60 mila euro per sistemare una falsa indagine nei suoi confronti. Un’altra vittima, Giovanni Gallo, nell’incidente probatorio davanti al gip ha dichiarato ” Ero disperato perchéPatruno voleva raccontare tutto ai Carabinieri. Ho detto a Tarantini che dovevo fare un intervento a mio figlio e quel denaro l’avrei restituito, lui disse “ cerco di racimolare quello che posso”. Ho preso 40 mila euro, ho levato 2 mila 800 euro perché avevo alcuni pagamenti e il resto l’ho dato a Patruno“. Il carosello di soldi che giravano nell’intricato “ sistema Trani” rappresentano una componente dominante delle inchieste. La Procura di Lecce ha contestato che D’Introno avrebbe consegnato circa un milione e mezzo di euro al magistrato (attualmente sospeso dal Csm) Michele Nardi e 500 mila euro ad Antonio Savasta, che ha però negato nell’incidente probatorio di avere ricevuto denaro contante. Persino lo stesso grande “corruttore” Flavio D’Introno a sua volta avrebbe preso soldi . Quando Tarantini gli consegnò la busta per Savasta per l’intervento del figlio, “Tarantini mi disse di avermi mandato 50 mila euro, ma D’Introno me ne consegnò 40mila. Significa che se n’era fregati 10 mila“. Come non dare ragione al povero titolare dell’agenzia viaggi quando si lamentava dicendo: “Mi avete proprio spolpato”?
Magistrati arrestati a Trani, Scimè: «Mai truccato i processi». La difesa dell'ex pm: «Chiesi la condanna per D'Introno, i reati non erano prescritti». Massimiliano Scagliarini il 18 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’ex pm di Trani, Luigi Scimè, dice di non aver mai favorito Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che lo accusa di aver accettato denaro, e smonta la ricostruzione fatta dall’ex collega Antonio Savasta circa le assegnazioni di alcuni fascicoli. Lo ha fatto con una lunga dichiarazione spontanea resa al termine dell’udienza del 28 giugno scorso dell’incidente probatorio davanti al gip di Lecce, Giovanni Gallo. Il fulcro delle accuse a Scimè riguarda il processo Fenerator, quello in cui D’Introno è accusato di usura, fascicolo che Scimè aveva ereditato da un collega trasferito. Savasta ha raccontato di aver studiato lui il fascicolo e di aver fatto in modo che Scimè chiedesse la condanna solo per i reati che sarebbero andati in prescrizione. Ricostruzione che il diretto interessato (difeso dall’avvocato Mario Malcangi - ha però smentito. «Dopo un attento e pesante studio - ha detto - conclusi per una parte di condanna e per una parte di assoluzione. Tanto fui cattivo che la Procura generale, quindi il superiore gerarchico di una Procura, ha chiesto l'assoluzione completa mentre io ho chiesto la condanna per reati che non era vero che si prescrivevano. A maggio 2014 non era prescritto nulla dei reati per cui ho chiesto la condanna. Dopodiché io le conclusioni sul perché poi la Procura generale ha chiesto l’assoluzione e io, invece, avrei avuto dei soldi per chiedere la condanna lo lascio al mio difensore». L’ex pm tranese (oggi giudice a Salerno) smentisce anche l’incontro che sarebbe avvenuto sul terrazzino della casa della madre di Savasta per parlare del processo Fenerator: «Io conosco la casa del dottor Savasta perché da ragazzino l'ho frequentata qualche volta. Non c'è un terrazzino. C'è un piccolo balcone assolutamente inabitabile per fare una riunione dove il giurista D'Introno e il giurista Savasta preparano delle conclusioni». L’altro tema riguarda il visto che Scimè, come sostituito anziano, avrebbe messo sulla richiesta di sequestro delle cartelle esattoriali a carico di D’Introno predisposta da Savasta. «Io apposi il visto non perché ero lì, perché c'era un provvedimento espresso del dottor Capristo che delegava me e il dottor Giannella. Quindi, poiché il dottor Giannella era assente, lo misi io perché lo dovevo mettere io. Una volta controllata la regolarità formale dello stesso [fascicolo], come il dottor Savasta ha detto, io non avevo un'attività illegittima, avevo un'attività doverosa di apposizione del visto. Assolutamente non potevo rifiutarmi». Scimè ha smentito l’esistenza di incontri a tre con gli altri due ex colleghi. «Non sono mai venuti insieme il dottor Savasta e il dottor Nardi. Io non vedo il dottor Nardi dal 2011 - 2012 forse. Non ho mai avuto contatti con lui da quell'epoca, tranne un messaggio quando morì il povero papà». Scimè, come Nardi, Savasta e altre 9 persone ha ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini: gli viene contestata la corruzione per aver preso 75mila euro da D’Introno.
“Toghe Sporche". L’ex rettore Uricchio nei verbali del grande accusatore dei magistrati di Trani. Il Corriere del Giorno il 22 Giugno 2019. L’ex rettore Uricchio faceva parte della commissione tributaria di Bari, che poi annullò le cartelle esattoriali dell’importo di 8 milioni di euro emesse nei confronti di D’Introno il grande “accusatore” delle toghe sporche di Trani. Nei verbali dell’inchiesta sulla giustizia svenduta a Trani è uscito fuori anche il nome di Antonio Felice Uricchio, ormai ex rettore dell’Università di Bari, che momento non è indagato ma compare all’interno delle verbalizzazioni di Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che nell’inchiesta di Lecce compare contestualmente indagato e testimone “chiave” delle indagini in corso. E’ stato infatti proprio alla collaborazione manifestata alla Procura di Lecce che D’Introno non venne arrestato insieme all’ex gip Michele Nardi, all’ispettore di P.S. Vincenzo Di Chiaro e all’ex pm Antono Savasta (che ha successivamente lasciato la magistratura) per le loro presunte corrutele mentre prestavano servizio presso il Palazzo di Giustizia di Trani. Soltanto a Savasta sono stati concessi i domiciliari nel marzo scorso, grazie appunto alla confessione sulle tangenti percepite e sulle dichiarazioni rese sui soldi sporchi ricevuti da altri magistrati. L’ex pm della Procura di Trani è stato il vero “protagonista” davanti al gip Giovanni Gallo del Tribunale di Lecce, nella seconda parte dell’incidente probatorio lo scorso 19 giugno , facendo il nome del quarto magistrato che sarebbe stato coinvolto nel “sistema” delle tangenti giudiziarie di Trani ( oltre a Nardi e Savasta compare indagato anche il pm Luigi Scimè, attualmente in servizio presso la Procura di Salerno). Il quarto è Domenico Seccia, attualmente sostituto procuratore generale in Cassazione, in passato componente della Commissione Tributaria di Bari. Infatti fu proprio Commissione tributaria di Bari ad accogliere i ricorsi di D’Introno contro cartelle esattoriali per 8 milioni di euro. Sono in corso le necessarie verifiche per riscontare la circostanza riferita secondo la quale Seccia avrebbe percepito una tangente dall’imprenditore di Corato a fronte di una pronuncia in suo favore. Un fatto questo affermato a verbale da D’Introno che ha trovato conferma anche nelle dichiarazioni ai magistrati rese da Savasta, il quale ha aggiunto che secondo lui “Seccia era una persona pericolosa” . In quella stessa vicenda della commissione tributaria compare il nome di Uricchio, il quale da qualche giorno non è più rettore dell’Università di Bari, in qualità di componente del direttivo dell’ Anvur , l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca. A coinvolgere Uricchio nell’inchiesta della Procura di Lecce in ballo è stato proprio lo stesso D’Introno in occasione dell’incidente probatorio davanti al gip leccese Giovanni Gallo, per il quale sono stati depositati i verbali. I fatti raccontati si riferiscono all’autunno 2011: ” Insieme con il dottor Nardi stavamo andando a casa del professore Uricchio, che era magistrato della commissione tributaria, ma non si sapeva se il ricorso andava a lui o a un altro magistrato — ha raccontato l’imprenditore — E quindi noi andammo a parlare con lui“. All’epoca anche l’ex rettore Uricchio faceva parte della commissione tributaria di Bari, che poi annullò le cartelle esattoriali dell’importo di 8 milioni di euro emesse nei confronti di D’Introno. Secondo la Procura della Repubblica di Lecce per questa vicenda vi fu un interessamento e coinvolgimento diretto di Nardi su Uricchio, una circostanza sulla quale finora gli inquirenti non si erano soffermati, ma la circostanza e le modalità con cui il nome dell’ ex-rettore dell’ Univa, è stato coinvolto dal D’Introno potrebbe lasciar ipotizzare che Nardi si sia rivolto a lui per chiedere un favore. “Nessun favore, ma soltanto un consiglio”: Antonio Felice Uricchio, ex rettore dell’Università di Bari, giustifica così l’incontro avuto nel 2015 con Michele Nardi, l’ex giudice di Trani accusato di essere stato il capo di un’associazione per delinquere che svendeva indagini e processi. Uricchio tramite il suo legale, professore Vito Mormando fa sapere che l’incontro avuto non era per la richiesta di un favore, ma di un semplice consiglio. Nardi e Uricchio si conoscevano molto bene, avendo frequentato nello stesso periodo l’istituto di Scienze delle finanze dell’Ateneo barese, ed erano rimasti in buoni rapporti. Nardi avrebbe chiesto – secondo la tesi difensiva- un appuntamento ad Uricchio che a quel tempo non era ancora rettore, ma professore di diritto tributario , senza però anticiparne il motivo né tantomeno avrebbe riferito che sarebbe stato accompagnato dal D’Introno. “L’incontro avvenne in un bar” — secondo la versione di Uricchio al vaglio degli inquirenti — “e durò cinque minuti“. Michele Nardi e Flavio D’Introno gli parlarono del ricorso dell’imprenditore in commissione tributaria per l’annullamento di cartelle esattoriali da 8 milioni (poi avvenuto) e chiesero un consiglio. “Non mi domandarono alcun favore né avrei potuto farne — ha spiegato l’ex rettore — perché non ero giudice tributario e quindi componente della commissione che si occupò del caso” . I rapporti con la commissione si limitavano a “pareri”, che avrebbe firmato relativamente ad altri casi, in quanto specialista della materia tributaria. “Nulla che abbia mai riguardato D’Introno” , chiarisce Uricchio. La questione della commissione tributaria resta comunque uno dei punti più importanti dell’inchiesta, perché — secondo la Procura della Repubblica di Lecce — è proprio lì che sarebbero state pagate altre tangenti. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Gallo aveva già evidenziato che “Nardi aveva intessuto insieme con l’avvocato Vito Dettole una rete di rapporti nel contesto dell’Università degli Studi di Bari, dove tutto viene gestito come un favore“. Dettole, che nell’ordinanza viene definito come “un faccendiere” nell’attività professionale è un avvocato tributarista e sempre secondo gli investigatori negli anni scorsi molto vicino all’ex sindaco biscegliese Francesco Spina, del quale fu assessore al bilancio due volte (prima in quota UDC, poi nel 2012 in quota Italia Futura) e successivamente nello staff di Spina alla Provincia con contratto a tempo parziale e determinato. L’ avvocato Dettole si occupa prevalentemente di contenzioso tributario ma che “non trascura la possibilità di condurre affari di vario genere sfruttando e utilizzando le proprie conoscenze, che ricambia ponendosi anch’egli a disposizione degli amici“. Come dicono i magistrati di Lecce: “un faccendiere”.
Trani, giudici corrotti: chiusa inchiesta a Lecce, 12 indagati. In carcere ex gip Trani e ispettore polizia, ex pm a domiciliari. Ecco gli altri coinvolti. La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2019. Sono 12 gli indagati nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla “giustizia truccata” al Tribunale di Trani, con accuse di sentenze pilotate in cambio di mazzette avvenute tra il 2014 e il 2018. Nel provvedimento di chiusura delle indagini a firma dei sostituti procuratori Roberta Licci e Giovanni Gallone compaiono i nomi dell’ex gip di Trani Michele Nardi, ora in carcere a Taranto e considerato «capo, promotore e organizzatore dell’associazione"; dell’ex pm di Trani Antonio Savasta, che ha collaborato ammettendo responsabilità, si è dimesso dalla magistratura e ha ottenuto gli arresti domiciliari; dell’ispettore di polizia del commissariato di Corato (Bari) Vincenzo Di Chiaro, ora in carcere a Lecce. Tutti e tre sono stati arrestati con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso. Il provvedimento è stato notificato anche all’ex pm di Trani Luigi Scimè, all’imprenditore di Corato Flavio d’Introno, all’immobiliarista Luigi D’Agostino, agli avvocati Simona Cuomo, Ruggero Sfrecola e Giacomo Ragno; indagati anche Gianluigi Patruno, titolare di una palestra, Savino Zagaria (ex cognato di Savasta) e il carabiniere Martino Marancia. A Savasta e Nardi - in concorso con Di Chiaro, D’Introno e l'avvocatessa Cuomo - viene contestata l’associazione a delinquere perché, si legge nel provvedimento, «si associavano tra di loro al fine di compiere plurimi delitti contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica e contro l'autorità giudiziaria, avvalendosi di volta in volta della collaborazione di soggetti non facenti parte dell’associazione, per la realizzazione di specifici obiettivi mirati finalizzati a conseguire guadagni illeciti a mezzo dello sfruttamento di disponibilità economiche da parte per lo più di soggetti esercenti attività imprenditoriali coinvolti in vicende giudiziarie che venivano gestite secondo modalità operative consolidate nel tempo ed elaborate in particolare dai due magistrati sin da quando entrambi esercitavano le funzioni nel circondario di Trani».
Magistrati arrestati a Trani, si allarga l'inchiesta: spuntano altri 4 nomi. Nelle carte si parla di 8 giudici coinvolti in totale, un commercialista faceva da tramite. Massimiliano Scagliarini il 21 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Quella di Bari è stata una toccata e fuga. Perché il fascicolo sui magistrati aperto nel capoluogo, nato da uno stralcio inviato dalla Procura di Lecce, è stato rimandato al punto di partenza. Nell’inchiesta, che parte dalle dichiarazioni di Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che ha raccontato dei due milioni di euro dati all’ex gip Michele Nardi e all’ex pm Antonio Savasta per truccare fascicoli penali, ci sarebbero infatti almeno altri tre giudici che potrebbero aver preso o preteso denaro. È stato lo stesso D’Introno a raccontare, durante l’incidente probatorio davanti al gip Giovanni Gallo, di essere stato interrogato a Bari «su altri magistrati». Al plurale. Ad interrogare l’imprenditore, che sostiene di essere stato costretto a pagare senza mai aver ricevuto nessun favore, è stato nelle scorse settimane il procuratore di Bari, Giuseppe Volpe. La decisione di rimandare le carte a Lecce, dunque, sarebbe nata proprio per via del coinvolgimento di altri magistrati in servizio nel circondario della Corte d’appello di Bari.
Uno è, appunto, Domenico Seccia, ex pm a Trani e Bari, poi procuratore a Lucera e Fermo, prima di approdare come sostituto pg in Cassazione nell’agosto del 2018. Seccia è stato anche il giudice tributario che si è occupato come relatore in Commissione tributaria provinciale dei ricorsi presentati da D’Introno tra 2009 e 2010 contro alcune cartelle esattoriali. Ricorsi che furono accolti in primo grado, ma la decisione venne poi ribaltata in Commissione tributaria regionale e in Cassazione, tanto da indurre D’Introno a rivolgersi a Savasta per ottenere il sequestro penale delle cartelle e impedire così che venissero eseguite dall’Agenzia delle Entrate. Ma insieme a Seccia ci sarebbero altri giudici cui D’Introno avrebbe raccontato di aver dato altri soldi per ottenere favori in una diversa fase giudiziaria. E in tutto questo, insieme ad altri tre professionisti, avrebbe avuto un ruolo anche il commercialista Massimiliano Soave, quello che Savasta nell’udienza di martedì ha definito «il tramite della famiglia D’Introno per arrivare a Seccia» ma che, secondo la prospettazione dell’imprenditore, potrebbe aver fatto da tramite anche con altri giudici. «I rapporti con il dottor Seccia sono stati orientati sempre alla massima correttezza e serietà professionale - dice l’avvocato Antonio La Scala, legale di Massimiliano Soave -. Per quanto concerne il D’Introno, Soave è stato suo difensore nel contenzioso tributario a fronte del quale è stato retribuito e ha emesso regolare fattura nell’immediatezza». I nomi di Seccia e Soave erano già emersi nei primi interrogatori sostenuti da D’Introno davanti alla Procura di Lecce, ma erano stati coperti da omissis proprio per non pregiudicare gli ulteriori accertamenti. Che non riguarderebbero, a quanto sembra, solo il contenzioso tributario. Sono state le domande effettuate dalle difese (e martedì anche dalla Procura) in sede di incidente probatorio a far emergere i due nomi, rendendo evidente che Seccia e Soave avrebbero avuto un ruolo e che su di loro sono in corso indagini. Approfondimenti che sono dunque tornati a Lecce, salva la possibilità che alcune carte possano approdare alla Procura di Genova, competente per i magistrati del circondario di Roma, come lo era Nardi al momento dell’arresto. Un altro filone di indagine riguarderebbe invece le minacce che D’Introno dice di aver ricevuto il 4 febbraio da un noto avvocato di Barletta, mentre si trovava all’interno del Tribunale di Trani. «Seccia ti vuole morto», è la frase che l’avvocato gli avrebbe riferito. Ma non sono le parole in sé. Il motivo dell’interesse della Procura di Lecce per quella denuncia di D’Introno è stato spiegato, nel corso dell’udienza dell’incidente probatorio del 28 maggio, dallo stesso pm Roberta Licci. «[D’Introno] Riferisce che si è spaventato perché il giorno dopo, dopo essere stato sentito dal pubblico ministero che era sabato, va a Trani e era lunedì e già sostanzialmente si sapeva e si è spaventato perché ha avuto un’ulteriore conferma del fatto che sostanzialmente tutti sapevano quali erano le mosse». D’Introno era stato interrogato a Lecce il sabato 2 febbraio, e 48 ore dopo qualcuno aveva già saputo cosa era stato detto. «Perché nel primo interrogatorio fatto ai Carabinieri di Barletta - ha detto D’Introno sempre il 28 maggio, a domanda del gip Gallo - io parlo di questo magistrato (Seccia; ndr), poi non se ne parla più e quindi questo avvocato mi parla sempre di questo magistrato dove sono stato sentito presso la Procura di Bari». «E lei si spaventa perché?», incalza il gip. «Perché [l’avvocato] è a conoscenza del fatto che il sabato avevo fatto l’interrogatorio dove avevo detto tutti i fatti come stavano e alle 36 ore già si sapeva e mi sono spaventato». Un ennesimo giallo nel calderone di questa brutta storia.
Magistrati arrestati a Trani, anche avvocati nel mirino delle indagini. Dodici persone attendono il rinvio a giudizio. Massimiliano Scagliarini il 09 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura di Lecce si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per Michele Nardi, Antonio Savasta, Luigi Scimè e le altre 9 persone accusate a vario titolo di aver truccato le indagini del Tribunale di Trani. Ma l’inchiesta sulla giustizia svenduta non è finita e, anzi, prosegue, e la lista delle persone coinvolte - che già si è «arricchita» di almeno altri sei nomi - è destinata ad allungarsi ancora. I carabinieri di Barletta, su delega della pm Roberta Licci, stanno infatti eseguendo altri accertamenti. Si tratta essenzialmente di due filoni. Il primo, gli approfondimenti sulle denunce presentate da avvocati e imprenditori che ritengono di essere incappati nella «cricca» delle indagini truccati. Il secondo, la ricerca di riscontri alle dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno, l’uomo che (pur accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione insieme a Nardi e Savasta) con le sue «confessioni» ha reso possibili gli arresti di gennaio: la pista dei soldi, quelli che D’Introno ha detto di aver distribuito per assicurarsi favori in realtà mai fatti o comunque inutili, potrebbe infatti portare ad altre ipotesi di reato. La prima parte dell’indagine ha esplorato quanto avvenuto all’interno della Procura di Trani con l’attività di Savasta (che ha ammesso di essersi fatto corrompere) e di Scimé (che invece nega e ha presentato una corposa memoria difensiva), accusati di aver accettato di soldi di D’Introno per intervenire su alcuni fascicoli. Ora si passa a quanto avvenuto intorno all’attività dei magistrati, non solo nel periodo in cui Savasta ha operato a Trani (è stato trasferito a Roma a gennaio 2017) ma anche in tempi recenti. All’attenzione della Procura di Lecce ci sarebbero anche episodi accaduti durante le indagini (con tentativi di inquinamento, anche da parte di soggetti esterni) e addirittura dopo gli arresti dello scorso gennaio. Il pm Licci ha già iscritto nel registro degli indagati Emilia Savasta, sorella di Antonio con l’ipotesi il concorso in corruzione (insieme all’ex marito Savino Zagaria) per aver ricevuto denaro e altre utilità (la ristrutturazione di una palestra) da Flavio D’Introno, e di concussione e concorso in falso ideologico e materiale insieme all’ex gip Michele Nardi e al fratello per il caso Tarantini (l’imprenditore di Corato cui è stato recapitato un falso avviso di garanzia per reati fiscali, per estorcergli 400mila euro). Tra gli iscritti nel registro degli indagati c’è anche un imprenditore di Ruvo, cui viene contestato il concorso in abuso d’ufficio e l’indebita percezione di erogazioni pubbliche per una vicenda tangenziale a quella dei regali ai magistrati arrestati. Altre verifiche riguardano professionisti, avvocati e commercialisti, che a vario titolo gravitano o hanno gravitato nell’orbita della Procura di Trani e che potrebbero aver fatto da tramite con i magistrati. Ancora, alcune accuse potrebbero riguardare anche gli imprenditori che hanno denunciato di essere stati costretti a pagare, in quanto sarebbero emerse circostanze differenti rispetto a quelle raccontate. L’inchiesta della Procura di Lecce diretta da Leonardo Leone de Castris ha finora ipotizzato a vario titolo, oltre all’associazione a delinquere, anche le ipotesi di concussione, millantato credito, estorsione, truffa aggravata e minacce. Ne emerge lo spaccato poco edificante di un Tribunale, quello di Trani, in cui bastava pagare per ottenere una corsia preferenziale per le proprie denunce, magari costruite con falsi testimoni prezzolati a loro volta pronti a ricattare gli stessi magistrati.
Magistrati arrestati a Trani, indagata anche la sorella di Savasta. La Procura di Lecce: anche lei e l'ex marito pagati da D'Introno. Massimiliano Scagliarini il 06 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. I soldi presi, tramite l’ex marito, dall’imprenditore Flavio D’Introno. La ristrutturazione di una palestra. Il ruolo nella stangata all’imprenditore coratino Paolo Tarantini. Anche la sorella dell’ex pm Antonio Savasta, Emilia, 46 anni, è indagata nel fascicolo di Lecce sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani. Il pm Roberta Licci ipotizza il concorso in corruzione, insieme all’ex marito Savino Zagaria, oltre che concussione e concorso in falso ideologico e materiale insieme all’ex gip Michele Nardi e al fratello per il caso Tarantini. Un antipasto di quello che potrebbe essere il secondo filone dell’indagine. Antonio Savasta ha tentato in tutti i modi di salvare la sorella, sostenendo che fosse «ignara delle reali ragioni delle dazioni da parte di D’Introno» e accreditando la tesi di una sua relazione sentimentale con l’imprenditore. Circostanza, quella del rapporto sentimentale, che D’Introno ha recisamente smentito nel corso dell’incidente probatorio e che la Procura di Lecce tende a ritenere non veritiera. I carabinieri hanno ascoltato Emilia Savasta come persona informata a marzo, quando risultava già indagata da un mese: le sue dichiarazioni, pur messe a disposizione delle difese degli indagati, non saranno perciò utilizzabili. «Nel corso del rapporto con D’Introno - ha detto la donna -, dallo stesso ho ricevuto diversi regali come normalmente può accadere tra amanti in particolare ho ricevuto somme di denaro che possiamo quantificare in circa 50mila euro che sono serviti per far fronte alla separazione dal mio ex marito. Tra l’altro il denaro è stato versato direttamente nelle mani del Zagaria che in seguito me li ha consegnati. Devo precisare che il denaro è stato utilizzato sia da me che da mio marito per far fronte alle spese di chiusura di una palestra che avevo in via Ofanto ed un lido balneare a Margherita di Savoia. Altre utilità ricevute dal D’Introno consistono nella ristrutturazione della nuova palestra denominata Its Yoga che io aprii nel 2012-2013 in via degli Ulivi a Barletta per la quale vennero impegnati non oltre 30mila euro tutti corrisposti dal D’Introno. Ricordo perfettamente un viaggio a Firenze regalatomi dal D’Introno al quale ha partecipato anche mio fratello Antonio con tutta la famiglia. Ricordo anche un viaggio in Turchia al quale ha partecipato anche Antonio con la sua famiglia». I carabinieri hanno ascoltato anche un quarantenne di Barletta che ha raccontato di aver avuto una relazione «dal 2013 al mese di giugno-luglio 2015» con la signora Savasta, e ha messo a verbale quelle che a suo dire sarebbero state le minacce ricevute da un suo ex datore di lavoro, fatte in nome e per conto dell’ex pm, affinché lasciasse l’Italia. Fatto sta che l’uomo è effettivamente andato all’estero e il 30 dicembre 2018 «ad un anno di distanza dal mio rientro in Italia, sono stato contattato sulla mia utenza mobile dal dottor Antonio Savasta che insisteva per vedermi». L’incontro sarebbe avvenuto in un bar dove l’ex magistrato «si diceva dispiaciuto di quanto successo con sua sorella, rimarcando la sua totale estraneità alle vicende della mia rottura sentimentale con la sorella e (...) mi proponeva, se io ero interessato, di poter intercedere con l’avv. Michele Cianci di Barletta, amministratore unico della società Barsa che gestisce i rifiuti in Barletta, per una assunzione presso la citata ditta. (...) Ritengo che l’anomala proposta, che mi ha letteralmente sorpresa, fosse finalizzata ad accattivarsi la mia simpatia». L’uomo ha raccontato ai carabinieri alcune circostanze, in particolare in relazione all’ex marito della signora Savasta. «Poiché la sua presenza (di Zagaria, ndr) mi dava noia, l’ho incalzata varie volte sul punto e questa mi confessava che Zagaria Savino manteneva rapporto con l’imprenditore D’Introno per ritirare del denaro destinato ad Antonio Savasta il quale, sempre a dire della Emilia, avrebbe dovuto aggiustare dei procedimenti penali pendenti tra lo stesso D’Introno e la sua ex moglie, anche di natura fiscale». L’uomo ha detto di non aver mai visto materialmente un passaggio di soldi, «ma posso affermare con certezza che Antonio Savasta aiutava economicamente, con il denaro “illecito” che percepiva, la mia ex Emilia Savasta». Per quanto riguarda Zagaria, D’Introno aveva raccontato che «si è prestato a fare da corriere per la consegna del denaro a Savasta, anche in relazione ai soldi da me versati per il procedimento delle cartelle esattoriali», facendo una cresta di almeno 40.000 euro. «Il Savasta - aveva detto D’Introno - mi ha chiesto soldi per tutta la sua famiglia a partire dai lavori di ristrutturazione alla palestra compresi tutti gli attrezzi scelti da Emilia Savasta e Zagaria Savino». D’Introno ha poi raccontato di aver allestito una palestra a Corato, in alcuni locali di sua proprietà, gestita in società da Zagaria e dalla compagna avrebbe poi ottenuto l’allestimento della palestra gestita a Corato (in alcuni locali di Nardi) dalla compagna di Gianluigi Patruno, l’uomo che minacciava Antonio Savasta di rivelare le false testimonianze rese per favorire D’Introno.
Giustizia svenduta a Trani, Savasta: «Io abbandonato da tutti». L'ex giudice: «ho perso la famiglia, ma sulle tangenti ho detto la verità». Massimo Scagliarini il 30 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Inizialmente ho cercato di arrampicarmi sugli specchi e difendermi, ma io a questo punto ho perso tutto, ho perso la famiglia, ho perso tutto, almeno la dignità lasciatemela, la dignità è dire le cose come stanno». Se il processo penale è anche catarsi, le parole di Antonio Savasta davanti al gip di Lecce sono il punto di arrivo del percorso dell’ex pm: quasi 24 ore (non consecutive) sotto il fuoco di fila delle domande di accusa e difesa, per arrivare al termine dell’incidente probatorio sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani. Un processo in cui Savasta ha ammesso di essersi fatto corrompere. «Ora - ha detto - mi sento liberato». La fatidica domanda («Lei ha detto tutta la verità?») gliela ha fatta il gip, Giovanni Gallo. «Io - è lo sfogo di Savasta, che dopo l’arresto aveva tentato di ridimensionare le accuse - ho detto tutta la verità, purtroppo - è vero - è stata sofferta, perché, come è stato detto, io non ho più una famiglia, ho perso mia moglie, ho perso mio figlio, non vedo più nessuno, vivo come un cane, senza un euro, mantenuto dalla mia famiglia, i miei fratelli che mi mantengono, ho perso tutto, ma almeno la dignità di dire le cose come stanno! Non bisogna avere la vergogna di dirlo, ormai questo è il fatto, doveva succedere ed è successo. Ho detto le cose che so. Le cose che non so, fino alla morte non le confermerò, non sarò disponibile a dire né una parola di più né una parola di meno». Anche l’ex pm, destituito dal Csm per la vicenda della masseria di Bisceglie, prova ad accreditarsi come una vittima dell’ex gip Michele Nardi, come lui al centro dell’indagine di Lecce ma sempre in silenzio dal giorno di gennaio in cui è finito in carcere: ha accettato di assecondare le richieste di Nardi affinché intervenisse in favore dell’imprenditore Flavio D’Introno - questa la linea di Savasta - sperando che Nardi lo aiutasse a uscire dai guai in cui si era cacciato con il Csm. «È una vita che sto vivendo sempre con questa paura di essere condannato, di finire male, e di difendere posizioni che poi a un certo punto diventano anche un fardello. Anche questo fatto di subire i processi mi ha portato a prendere una strada sbagliata. Avessi accettato la situazione iniziale, tra il 2011 e il 2012, non starei qua, me ne fossi andato via probabilmente non avrei ceduto alle richieste di Nardi, quindi di farmi tutelare, secondo le mie aspettative, in sedi disciplinari, perché bastava semplicemente andarmene, mi tenevo le mie condanne, le mie censure, le mie cose, e tutto quanto si sarebbe risolto, non avrei fatto queste cose e me ne sarei andato via da Trani, c’era l’occasione». Savasta è accusato di aver intascato centinaia di migliaia di euro, ma ha ammesso di averne avuti 120mila: non che un euro in più o in meno faccia differenza. «Avevo una situazione particolare e non ho avuto il coraggio di tagliare e di cambiare vita, e ho pensato che attraverso il discorso di salvarmi dai disciplinari, di tentare il tutto e il possibile, io mi sarei salvato da questa cosa. Invece mi sono incartato ancora di più». E così si è trasformato nell’accusatore di Nardi (la Procura di Lecce lo ritiene il capo dell’associazione per delinquere che truccava i processi) e dell’altro ex pm Luigi Scimè. «Mi dispiace anche di aver coinvolto dei colleghi, perché io sto soffrendo di questa cosa. Però purtroppo se devo dire la verità la devo dire». Le versioni emerse nell’incidente probatorio, però, non coincidono. Ora saranno i giudici a stabilire chi ha detto il vero, e chi merita di essere condannato.
Il Csm rimuove l'ex pm di Trani Antonio Savasta: dichiarò il falso sulla piscina in masseria. Il Corriere del Giorno il 2 luglio 2019. La decisione è stata adottata dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. L’ex magistrato era già stato condannato per la stessa vicenda in sede penale a 2 mesi reclusione. L’ ex pm della Procura di Trani Antonio Savasta, è stato rimosso dalla Magistratura dalla Sezione disciplinare del Csm che in precedenza era stato trasferito dagli uffici giudiziari del barese al Tribunale di Roma, nel gennaio scorso era finito agli arresti domiciliari . La drastica decisione odierna si riferisce a false attestazioni fatte davanti a un notaio, con riferimento alla realizzazione di una piscina in una masseria, “in assenza di titolo abitativo“. Una vicenda questa per la quale peraltro Savasta era già stato condannato in sede penale a 2 mesi reclusione. Savasta è stato ritenuto responsabile del cap A) dell’imputazione per il quale è stato rimosso dagli organismi giudiziari della magistratura, mentre è stato escluso l’addebito per quanto indicato al capo B). L’ex pm di Trani è coinvolto nell’inchiesta sui processi aggiustati in cambio di denaro che oltre a Savasta mandò in carcere anche Michele Nardi l’ex-gip di Trani, poi trasferito presso la Procura di Roma. Le “tangenti” versate tramite consegne di denaro ma anche regali, orologi e pietre preziose, quantificate dalla Procura di Lecce ammontano a diversi milioni di euro, ed hanno svelato l’esistenza di un “sistema” attraverso il quale i magistrati utilizzavano l’uso della giustizia ai loro fini personali ed in cambio chiedevano una corsia “preferenziale” al Csm. Savasta aveva adottato un atteggiamento di collaborazione con il pm Roberta Licci, titolare dell’inchiesta insieme al procuratore capo Leonardo Leone De Castris della Procura di Lecce,..e dopo aver parlato a lungo, ha presentato le dimissioni dall’ordine giudiziario, preludio a una richiesta di scarcerazione) secondo le ipotesi investigative potrebbe aver utilizzato i soldi per accumulare un enorme patrimonio: infatti risulta proprietario da solo (o insieme ai familiari) di 22 unità immobiliari e di 12 terreni nella provincia di Bari, cui si aggiungono altre 8 unità immobiliari (più un terreno) intestati alla moglie dell’ex pm la quale però non risulta indagata). Antonio Savasta in realtà si era già dimesso dalla magistratura, ottenendo gli arresti domiciliari per questa decisione, e per la collaborazione prestata alla Procura di Lecce, , mentre Nardi è ancora in carcere. La decisione del Csm influisce quindi esclusivamente per il lato economico retributivo dell’ex magistrato, che verrà sottoposto ad un altro procedimento fissato per il prossimo 21 novembre. E’ stata la Guardia Finanza di Firenze ad accertare l’entità del patrimonio di Savasta , nell’ambito dell’ inchiesta sui presunti favori all’imprenditore barlettano Luigi D’Agostino, poi trasferita per competenza a Lecce quando sono emersi gli elementi a carico del magistrato in servizio a Trani.
Giustizia truccata, Savasta tira in ballo Seccia: quarto magistrato di Trani. L'ex pm: «Anche Seccia aiutò D’Introno. Nardi intervenne per me sul Csm». Massimiliano Scagliarini il 20 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nella melma della giustizia tranese entra pure una suggestione sullo scandalo del Csm. L’ex pm Antonio Savasta la butta lì, come un sasso nello stagno a risvegliare dal torpore il lungo pomeriggio passato nell’aula del gip Giovanni Gallo per l’ennesima udienza dell’incidente probatorio. «Per uno dei miei procedimenti disciplinari - ha raccontato - Nardi mi assicurò che sarei stato assolto. Ma non so con chi si interfacciasse lui». È un sussulto, non l’unico, dell’interrogatorio cui l’ex pm di Trani è stato sottoposto ier dalla pm Roberta Licci. Che con le sue domande ha favorito la discovery del nome del quarto magistrato su cui sembrerebbero concentrarsi le attenzioni della Procura di Trani. Si tratta di Domenico Seccia, ex pm a Trani e Bari poi procuratore capo a Fermo, prima di approdare come sostituto pg in Cassazione nell’agosto dello scorso anno. Savasta ha confermato che Seccia faceva parte della commissione tributaria che a Bari, tra 2009 e 2010, si è occupata dei ricorsi presentati dall’imprenditore coratino Flavio D’Introno sulle cartelle esattoriali: ricorso accolto in primo grado, sentenza ribaltata in appello e confermata in Cassazione. La posizione di Seccia potrebbe fare parte di quelle trasferite alla Procura di Bari nell’ambito degli accertamenti sulle sentenze tributarie: era stato D’Introno, nell’udienza del 6 giugno, a raccontare di essere stato interrogato a Bari «su altri magistrati». Il fatto che la Procura di Lecce abbia deciso ieri di sollevare il velo su questa parte della storia, coperta da omissis (ma non integralmente) sia nell’ordinanza cautelare di gennaio che nei verbali di interrogatorio di D’Introno fa segnare un punto di svolta dell’inchiesta. Ieri infatti si è parlato anche del commercialista barese Massimiliano Soave, che Savasta ha definito «il tramite» per arrivare a Seccia: Soave ha assistito D’Introno nel contenzioso davanti alla commissione tributaria di Bari. Negli interrogatori davanti alla Procura, Savasta aveva parlato di un «ruolo importante» di Soave nella vicenda delle cartelle esattoriali, che erano state annullate sollevando un vizio di notifica in realtà inesistente. Soave - nel racconto di Savasta - era entrato in scena anche durante il procedimento penale promosso da D’Introno per ottenere - tramite l’ex pm - il sequestro delle cartelle esattoriali, sempre per via dell’inesistente difetto di notifica: Savasta ha raccontato che Soave si era presentato da lui a nome di Nardi e gli aveva proposto il nome di una sua collaboratrice («Io non posso essere nominato») per predisporre una perizia a favore della tesi di D’Introno, perizia poi messa a base della richiesta di sequestro delle cartelle presentata al gip con il «visto» di Luigi Scimè, l’altro ex pm coinvolto in questa vicenda. A proposito di Scimè, Savasta ha confermato di avergli consegnato 10mila euro ottenuti da D’Introno come «saldo» della mazzetta che era stata concordata tra i due. Versione che la difesa di Scimè ha sempre contestato. Tornando alla suggestione dei rapporti nel Csm di Nardi (il suo avvocato, Domenico Mariani, ha contestato le domande su Seccia e Soave), va detto che le intercettazioni disposte dalla Procura e trascritte nell’ordinanza con cui l’ex gip è finito in carcere a gennaio fanno emergere i suoi contatti con uno dei protagonisti delle vicende sul Csm, Cosimo Ferri, il deputato Pd cui fa riferimento la corrente di Magistratura indipendente. «Si è potuto riscontrare che il Nardi - è scritto nell’informativa dei Carabinieri consegnata alla Procura di Lecce - intrattiene rapporti confidenziali con alcuni esponenti del Csm nonché con alti funzionari del Ministero della Giustizia, tra cui il sottosegretario Cosimo Ferri». L’incidente probatorio riprenderà il 28 e proseguirà il 3 luglio, sempre con Savasta.
Giustizia svenduta a Trani, Savasta ammette dal gip: «È vero, ho sbagliato». Durante l'incidente probatorio riguardante l'inchiesta sulle indagini pilotate a Trani. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2019. «È vero, ho sbagliato, ho fatto cose contrarie al mio ufficio, è stato un grande errore». Nel corso dell’incidente probatorio dinanzi al gip di Lecce Giovanni Gallo, l’ex pm di Trani Antonio Savasta ammette ancora una volta le proprie responsabilità riguardo ai fatti contestati nell’inchiesta della Procura di Lecce sulle indagini truccate nel Tribunale di Trani tra il 2014 e il 2018. Savasta - che è ai domiciliari perchè sta collaborando e si è dimesso dalla magistratura - è accusato, insieme con l’ex collega Michele Nardi e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso commessi tra il 2014 e il 2018 per aver pilotato, in cambio di mazzette, indagini istruite dalla Procura di Trani dove Savasta era pubblico ministero. L’ex pm ha confermato di aver falsificato processi e firme dicendo di averlo fatto per farsi amico l’ex collega Michele Nardi, indicato come il capo del sistema. «Avevo bisogno della sua amicizia», ha detto al gip, spiegando come questa avrebbe potuto garantirgli un appoggio in Procura in merito ad alcune questioni disciplinari pendenti a suo carico al Csm. Savasta ha confermato anche il coinvolgimento nella spartizione delle mazzette versate da alcuni imprenditori, anche dell’ex pm Luigi Scimè, al quale avrebbe consegnato lui stesso in macchina una busta contenente una somma di denaro portatagli a casa dall’imprenditore di Corato Flavio D’Introno. «Ho aperto la busta - ha detto - ma non ho visto quanti soldi vi fossero, solo che c'erano mazzette da 200 e 500 euro». L’ascolto dell’ex magistrato proseguirà il 28 giugno e 3 luglio prossimi.
Giustizia truccata, imprenditore D'Introno: «A Bari ho parlato di altri magistrati». Nuovo fascicolo sui procedimenti tributari: «Mi hanno minacciato». Massimiliano Scagliarini il 19 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Per altri magistrati sono stato ascoltato dalla Procura di Bari». Flavio D’Introno lascia cadere lì, durante una delle ultime udienze dell’incidente probatorio davanti al gip di Lecce, Giovanni Gallo, l’ennesimo indizio sulle nuove indagini partite dal fascicolo sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani. Quelle nate dallo stralcio di alcuni atti che il procuratore Leonardo Leone de Castris e i pm Roberta Licci e Giovanni Gallone hanno trasferito, per competenza, ad altre sedi giudiziarie. Sul fascicolo aperto a Bari c’è, ovviamente, massimo riserbo. «Questo non è il luogo in cui si può riferire una circostanza di questo genere», ha tagliato corto il pm Gallone per interrompere il racconto di D’Introno in sede di controinterrogatorio, il 6 giugno, davanti al gup di Lecce. L’incidente probatorio riprende stamattina con Antonio Savasta, l’ormai ex pm che ha confessato di aver accettato soldi da D’Introno per manomettere fascicoli di indagine. Ma, nel frattempo, l’inchiesta va avanti. Lo stralcio di Bari potrebbe riguardare la gestione di alcuni procedimenti davanti alla giustizia tributaria, procedimenti che hanno riguardato lo stesso D’Introno e in particolare le cartelle esattoriali emesse nei suoi confronti per circa 8-9 milioni: queste cartelle furono annullate dalla Commissione tributaria provinciale, in primo grado, sulla base di un’eccezione di inesistenza delle notifiche, ma l’appello dell’Agenzia delle Entrate ribaltò la sentenza poi confermata in Cassazione.
D’Introno ne ha parlato, nel corso dell’esame del 6 giugno, rispondendo alle domande di Francesco Paolo Sisto, difensore di Simona Cuomo, l’ex avvocato dell’imprenditore di Corato sottoposta a interdizione dall’attività professionale. A Mario Malcangi, difensore di Luigi Scimè, l’altro ex pm di Trani coinvolto nell’incidente probatorio (D’Introno dice di aver pagato anche lui, l’interessato smentisce), l’imprenditore ha raccontato «delle minacce da parte di un altro magistrato» di cui avrebbe parlato «presso la Procura di Bari». Una situazione intricatissima, nella quale si inserisce anche delle dichiarazioni che lo stesso D’Introno avrebbe reso il 4 febbraio, raccontando ai carabinieri di Barletta delle minacce a suo dire ricevute da un noto avvocato della città ed in qualche modo riconducibili all’episodio delle cartelle esattoriali. D’Introno è per il momento il perno dell’accusa agli indagati che rispondono di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari: ha raccontato di aver dato due milioni di euro all’ex gip Michele Nardi (che è in carcere) e a Savasta (ai domiciliari), ma anche - in un secondo momento - di 75mila euro dati a Scimè, oltre al coinvolgimento di altri magistrati i cui nomi sono al momento coperti da omissis negli atti depositati. Anche per questo le difese si sono concentrate, oltre che nel far emergere alcune incongruenze nel lunghissimo racconto dell’imprenditore, anche di minare la sua stessa credibilità: facendo emergere che D’Introno è in cura presso il Sert di Andria per problemi di alcolismo che sarebbero esplosi dopo la sentenza di condanna in Appello per l’usura. Sentenza poi divenuta definitiva (cinque anni e mezzo) e finora non eseguita proprio per via del trattamento in corso.
Dell’esistenza di nuove indagini, del resto, c’è traccia nell’ordinanza con cui il gip Gallo ha prorogato di altri tre mesi, al 14 ottobre, le misure cautelari a carico di Nardi, Scimè e dell’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro (anche lui in carcere). Dopo gli arresti di gennaio, ha scritto il gip, sono state presentate denunce «da altri soggetti (imprenditori del luogo e avvocati) che hanno riferito di vicende di natura corruttiva coinvolgenti gli indagati, sui quali sono in corso riscontri particolarmente complessi anche in considerazione dell’epoca remota di datazione dei fatti». Alcuni fatti sembrerebbero essere prescritti, ma in ogni caso - nell’impostazione della Procura di Lecce - dimostrerebbero l’esistenza di un accordo stabile tra i magistrati per svendere la loro funzione in cambio di denaro regali.
Oggi dunque toccherà a Savasta, che nella scorsa udienza ha detto di essere stato «incastrato» da Nardi cui ha dato la colpa di aver inventato il sistema corruttivo.
Caso Csm, c'è un filone pugliese. D'Introno: «Cene romane per salvare Savasta e Nardi». Nuove rivelazioni: secondo D'introno ci sarebbero stati incontri con Luca Lotti e Luca Palamara. Massimiliano Scagliarini il 23 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Cene romane con l’ex ministro Luca Lotti e con l’ex leader dell’Anm, Luca Palamara, per sistemare i guai disciplinari dell’ex pm Antonio Savasta e dell’ex gip Michele Nardi. Flavio D’Introno, l’imprenditore che ha incastrato i ex due giudici arrestati a gennaio, ha riempito altri quattro verbali con chi a Lecce conduce le indagini sul «sistema Trani». E oltre a fare i nomi di altri quattro giudici del circondario di Bari cui dice di aver dato denaro, D’Introno ha tirato fuori un’altra suggestione...
Ex sottosegretario: «Colossale bugia». Nuove rivelazioni: secondo D'introno ci sarebbero stati incontri con Luca Lotti e Luca Palamara. Massimiliano Scagliarini il 23 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Cene romane con l’ex ministro Luca Lotti e con l’ex leader dell’Anm, Luca Palamara, per sistemare i guai disciplinari dell’ex pm Antonio Savasta e dell’ex gip Michele Nardi. Flavio D’Introno, l’imprenditore che ha incastrato i ex due giudici arrestati a gennaio, ha riempito altri quattro verbali con chi a Lecce conduce le indagini sul «sistema Trani». E oltre a fare i nomi di altri quattro giudici del circondario di Bari cui dice di aver dato denaro, D’Introno ha tirato fuori un’altra suggestione: avrebbe aiutato Savasta ad «agganciare» Lotti e avrebbe cenato anche con lui e con Palamara, l’allora componente del Csm finito al centro dello scandalo di Perugia. Affermazioni che andranno riscontrate. Soprattutto per capire se ci sono reati e se il fascicolo dovrà passare alla Procura di Perugia, competente per i magistrati in servizio a Roma come lo è Palamara e come lo era, fino all’arresto, anche Nardi. Ma nel suo racconto al procuratore di Lecce, Leonardo Leone de Castris, D’Introno avrebbe parlato delle cene con dovizia di particolari, fornendo i nomi dei locali e illustrando una serie di circostanze. Spiegando ad esempio che a Lotti sarebbe arrivato tramite alcuni suoi facoltosi clienti (D’Introno all’epoca vendeva piastrelle). E ricordando che in almeno una occasione a quegli incontri avrebbe partecipato anche Cosimo Ferri, magistrato, oggi deputato Pd e leader di Magistratura Indipendente, la corrente cui apparteneva lo stesso Nardi. Cene che sarebbero servite per salvare Savasta, alle prese con una serie di contestazioni in sede disciplinari nate dai procedimenti penali per l’acquisto della masseria San Felice di Bisceglie e da almeno mezza dozzina di esposti anonimi. Cene in cui Palamara, all’epoca dei fatti componente del Csm, secondo D’Introno si sarebbe mostrato «malleabile». È un fatto che dalle contestazioni disciplinari Savasta sia sempre uscito indenne. Archiviato il procedimento per l’acquisto della masseria (quello con il contratto scritto su carta intestata della Procura di Trani) dopo l’assoluzione in sede penale, archiviato quello del 2016 per la gestione dei fascicoli riguardanti la famiglia D’Introno dopo che il pm aveva chiesto il trasferimento come giudice a Roma. Il primo fascicolo è stato recentemente riaperto, dopo che le sezioni unite della Cassazione hanno accolto il ricorso della Procura generale: e dunque, se l’accettazione delle dimissioni arrivate a febbraio non arriverà prima, Savasta (oggi ai domiciliari) dovrà difendersi davanti al Csm per la vicenda del resort di lusso di Bisceglie. Dalle indagini era già emerso che Savasta, tramite l’ex re degli outlet Luigi D’Agostino, era riuscito a ottenere un appuntamento con Lotti a Palazzo Chigi. Apparentemente senza esito. Ma nelle oltre 30mila pagine di atti depositati dalla Procura di Lecce ci sono anche numerose tracce di contatti con il mondo della politica e i vertici del sistema giudiziario. «Si è potuto riscontrare - scrivono i carabinieri nell’informativa - che il Nardi intrattiene rapporti confidenziali con alcuni esponenti del Csm nonché con alti funzionari del ministero della Giustizia tra cui il sottosegretario Ferri». Il 13 settembre 2016, ad esempio, Nardi chiama il giudice Antonio De Luce, all’epoca in corsa per la nomina a presidente del Tribunale di Trani (e assolutamente estraneo all’indagine e a qualunque altro coinvolgimento): «Volevo dirti che ho saputo da fonte molto attendibile che tu stai in buona posizione per Trani eh! (...) Quindi volevo sapere, se tu vuoi, io ti vorrei far incontrare una persona che ti può essere insomma... ti può dare una mano». L’incontro di cui si parla non avverrà, e in una conversazione successiva, il 20 settembre, sempre Nardi riferirà al giudice che «ci sono dei tentativi di inserimento proposti da Md». Il 4 ottobre, il giorno della votazione, è De Luce a chiamare Nardi e chiedergli l’esito della votazione»: «È andata bene, 4 a 2», è la risposta di Nardi che all’epoca era ispettore al ministero. E che poi, al momento dell’ufficializzazione della nomina, chiamerà il giudice per fargli gli auguri. Le conversazioni con De Luce, sottoposte al vaglio della Procura di Lecce, sono state ricondotte nell’alveo di normali rapporti tra colleghi, ma illustrano il modus operandi di Nardi. Dalle intercettazioni emerge pure che Nardi si rivolge a Ferri anche per avere aiuto su un parere negativo emesso a proprio carico. E fa da tramite anche con Savasta, proprio alla vigilia del procedimento disciplinare che riguarda i fascicoli della famiglia D’Introno. «Michele - annotano i carabinieri - gli anticipa di aver saputo che il Csm è male intenzionato nei suoi confronti e nei confronti di Scimè consigliandogli pertanto di chiedere un trasferimento a Roma». Andrà a finire proprio così.
LA SMENTITA DI LOTTI - «Non ho mai conosciuto e quindi mai incontrato l’imprenditore Flavio D’Introno: scrivere di un nostro incontro romano è semplicemente una bugia colossale. Ho dato mandato ai miei legali per tutelare la mia immagine da questa, ennesima, falsità»: è quanto scrive Luca Lotti in una nota stampa.
Il procuratore di Lecce Leonardo Leone De Castris ha dichiarato: «Smentiamo che le cene facciano parte dell’inchiesta».
PALAMARA: «NON C'È STATA ALCUNA CENA» - I legali del magistrato Luca Palamara, gli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti, facendo riferimento all’articolo pubblicato ieri su «La Gazzetta», scrivono: «Secondo quanto riportato nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria tale D’Introno avrebbe dichiarato di aver cenato con il nostro assistito Dott. Luca Palamara. La circostanza, definita una suggestione, è destituita del benché minimo fondamento». E i legali, nel «riservarsi ogni azione a tutela dell’onorabilità» del loro assistito e nel richiedere «la pubblicazione della presente smentita con pari risalto», precisano che Palamara «non ha avuto frequentazioni con D’Introno e con gli altri astanti».
"CI PENSA COSIMO". Carlo Bonini per “la Repubblica” il 24 giugno 2019. Il rumore è assordante e alta è ancora la polvere. Ma se per un attimo si distoglie lo sguardo da Perugia e ci si spinge nel Salento, in quel della Procura di Lecce, si trova la conferma, ammesso ce ne fosse bisogno, che al centro della colata di fango che ha travolto il Csm e la magistratura italiana c' è e resta un toscano di quarantotto anni da Pontremoli che ne è la chiave e che si chiama Cosimo Ferri. Il Mercante in Fiera della giustizia italiana. L' architetto dell' operazione che doveva ridisegnare la geografia giudiziaria del Paese lungo la cosiddetta "TAV" delle Procure Italiane - Milano-Firenze- Roma-Napoli-Palermo - e i suoi affluenti (le Procure che hanno potere di indagine sui magistrati di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo). Un uomo tutt' ora integro nella sua capacità di ricatto politica e corporativa, come dimostra qualche recente intervista da "avviso ai naviganti". E a cui, non a caso, da quando questa storia è cominciata, nessuno ha avuto la forza di chiedere davvero conto. Non il balbettante Pd, di cui è deputato e di cui è stato tre volte sottosegretario alla giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Non la sua corporazione, da cui si è ben guardato dal congedarsi una volta transitato nel Palazzo della Politica e che, in tre settimane, ha visto bene - nonostante il tenore delle intercettazioni che lo coinvolgono - di non interrogarsi (esattamente come il ministro di Giustizia) sulla rilevanza disciplinare (cui tutt'ora è soggetto essendo ancora magistrato sia pure in aspettativa) delle sue mosse. Eppure, appunto, come lo si tocca suona, Cosimo Ferri. Anche qui a Lecce, dove c'è un'altra inchiesta penale che sta illuminando il fondo limaccioso della magistratura italiana. E dove il suo nome - Ferri - torna a rimbalzare nell' inchiesta condotta dal Procuratore Leonardo Leone de Castris e dalla sostituta Roberta Licci, come il "puparo" delle nomine, l'aggiusta faccende delle grane disciplinari, la pantofola da baciare per progredire in carriera. A Lecce, dove hanno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, sono finiti in galera due magistrati le cui trastule, abusi e corruzioni, gli sono valsi l' accusa di associazione a delinquere. Roba da far declassare le disavventure di Luca Palamara a inciampo da educande. Per anni, in quel di Trani, Michele Nardi, gip di quell' ufficio e quindi ispettore ministeriale e pm a Roma, insieme ad Antonio Savasta, pm, hanno venduto processi e utilizzato la custodia cautelare come strumento di estorsione nei confronti dei loro indagati. Michele Nardi è in carcere. Antonio Savasta, reo confesso, è ai domiciliari. Ebbene, negli atti dell' indagine e nei verbali dell' incidente probatorio in corso in queste settimane, la catastrofe dei due magistrati sta investendo altri giudici. Dalla Cassazione ai tribunali ordinari. Ma, soprattutto, nell' informativa finale dell' indagine consegnata dai Carabinieri alla Procura di Lecce torna a fare capolino il nostro uomo. Cosimo.
Cosimo Ferri. «Nardi - annotano i carabinieri nelle 592 pagine dell' informativa - dispone di una fitta rete di conoscenze influenti nell' ambito dei più disparati ambiti professionali e della pubblica amministrazione. Conoscenze, utili e referenziate, a cui si propone direttamente mettendo a disposizione la sua collaborazione per qualsiasi evenienza e da cui, evidentemente, riceve come contropartita, notizie e appoggi».
Nardi, per dire, ha rapporti diretti con i vertici della Massoneria attraverso i quali prova a indirizzare un processo che lo riguarda a Catanzaro. Ma soprattutto - documentano i carabinieri - trova una sponda preferenziale nel "nostro Cosimo", come affettuosamente lo chiama la compagna di Nardi al telefono, suggerendogli di rivolgersi a lui per uno dei suoi guai al Csm. "Il nostro Cosimo". Cosimo Ferri, appunto, con il quale Nardi, si legge ancora nell'informativa, «ha rapporti confidenziali, così come con alcuni esponenti del Csm e con alti funzionari del Ministero di Giustizia». «Dovremmo interessare Cosimo», dice ad esempio Nardi al giudice Antonio De Luce (rimasto estraneo a contestazioni penali nell' inchiesta) che a lui si era rivolto per avere un aiuto nella nomina a Presidente del Tribunale di Trani, cosa che per altro effettivamente otterrà. E soprattutto a Nardi si rivolge il compagno di merende Antonio Savasta per aggiustare i suoi guai disciplinari al Consiglio Superiore. Gli stessi per i quali sarà poi arrestato. «Sapevo che Nardi aveva ottime entrature al Csm», ha raccontato Savasta nel corso dell' incidente probatorio. E che questo - ha aggiunto - gli consentiva di aveva notizie dirette e riservate da Palazzo dei Marescialli. Una circostanza confermata del resto dalle intercettazioni telefoniche condotte per mesi sui due magistrati e che i carabinieri così riassumono: «Nardi dice a Savasta di aver saputo che il Consiglio Superiore della Magistratura è male intenzionato nei suoi confronti e che ha intenzione di fare una pulizia radicale a Trani. Per questo, gli consiglia di trasferirsi immediatamente a Roma». Del resto, che Nardi sia un investimento degno di questo nome per Savasta è nell' esito del suo procedimento disciplinare in Consiglio. Viene assolto dalla commissione in cui in quel momento siede anche Luca Palamara. E per gli stessi fatti per cui sarà successivamente arrestato, reo confesso, a Lecce. Non solo. Riuscirà a sottrarsi a un ulteriore procedimento per incompatibilità in Consiglio con un trasferimento a Roma deciso dalla Prima commissione di Palazzo dei Marescialli e grazie all' appoggio decisivo della corrente "Magistratura Indipendente", quella di cui "l' amico Cosimo" era stato a lungo segretario. Cosimo qui, Cosimo lì. Ferri sembra essere ovunque. E di nulla è chiamato politicamente a rendere conto. Neppure dei suoi rapporti con un' associazione a delinquere in toga per giunta reo confessa. Per la cronaca, è al quarto giro. Già finito nelle inchieste di Calciopoli, della P3, nelle intercettazioni del Trani-gate (insieme a un "gruppo di amici giuristi" doveva mettere insieme gli argomenti giuridici per chiudere "Annozero") è il campione di una classe dirigente evidentemente costruita sul ricatto politico. Ma chi lo ricorda - come ebbe a dire qualche anno fa "il nostro Cosimo" a Panorama - «sono dei maniaci».
Giustizia svenduta, Savasta: «Csm sapeva eppure chiuse la pratica». Il fascicolo disciplinare nato da una lettera anonima nel 2016: fu archiviato dopo il trasferimento a Roma. Massimiliano Scagliarini il 17 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Quella volta si era firmato Mario Rizzi. Altre volte era «Filannino» oppure Nicola D’Aloisio. Chiunque fosse, probabilmente sempre la stessa persona, era molto bene informato. Tanto che la sua lettera del 16 giugno 2016 già raccontava quello che due anni e mezzo dopo avrebbe portato Antonio Savasta dietro le sbarre. «Continua a taglieggiare imprenditori, commercianti e cittadini», scrive l’anonimo che tira fuori poi il nome di D’Introno, l’imprenditore di Corato che sarebbe diventato il principale accusatore dell’ormai ex pm: una «verifica fiscale» e Savasta che si adoperava affinché «venisse archiviata». Ricorda qualcosa? Quella lettera anonima fa parte del fascicolo disciplinare aperto dal Csm (il precedente, guidato da Giovanni Legnini), in cui è confluita anche l’istruttoria svolta dal procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto, e le relazioni dei vertici della Procura di Trani. Un fascicolo pieno zeppo di esposti e di veleni, di procedimenti avviati nei confronti di Savasta dalla Procura di Lecce per la storia della masseria di Bisceglie (quella che l’ex pm comprò con un contratto scritto sulla carta intestata dell’ufficio) e delle conseguenze di altri procedimenti disciplinari aperti fin dal 2012. Le avvisaglie, insomma, c’erano tutte. Il fascicolo disciplinare è finito tra gli atti della Procura di Firenze, che ha indagato - prima di passare la palla a Lecce - sulle trame di Savasta per favorire l’imprenditore barlettano Gigi D’Agostino, l’amico di Renzi che voleva aprire un outlet del lusso anche a Fasano. Il procedimento si è concluso, come noto, dopo la richiesta di trasferimento presentata dallo stesso Savasta. Ma le due accuse mosse all’allora pm - che poi finirà a fare il giudice a Roma, prima di venire arrestato - erano le stesse che poi lo avrebbero portato in carcere. La prima: aver chiesto un sequestro da 7,6 milioni nei confronti dei familiari di Flavio D’Introno. La seconda: aver fatto sequestrare le cartelle esattoriali emesse nei confronti dell’imprenditore per una notifica fasulla che (oggi sappiamo) era completamente inventata. Mancavano all’epoca, certo, le confessioni di D’Introno, che ha raccontato di aver pagato (due milioni, di cui uno e mezzo all’ex gip Michele Nardi e il resto a Savasta) in cambio di quei favori giudiziari. Ma, sostanzialmente, gli indizi di qualcosa che non andava erano già più che evidenti. Partendo dall’anonimo del sedicente Rizzi, il procuratore generale Tosto, nella sua relazione, aveva infatti raccontato al procuratore generale della Cassazione dei fascicoli che Savasta aveva aperto nei confronti dei familiari di Flavio D’Introno. Non solo. Basandosi sulle relazioni dell’allora procuratore di Trani, Carlo Capristo, la Tosto evidenziava che «atti di indagine di particolare importanza» in entrambi i casi erano stati compiuti dall’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, il terzo uomo che a gennaio scorso è finito in carcere insieme a Nardi e Savasta. La richiesta di sequestro dei beni dei familiari di Flavio D’Introno, scrive poi il procuratore generale di Bari, sarebbe avvenuta «in violazione alla legge» anche per l’assenza del «visto preventivo» del procuratore della Repubblica: il provvedimento era stato infatti vistato in assenza di Capristo dall’altro pm Luigi Scimè, cui poi Savasta ha raccontato di aver dato soldi. Ancora un altro elemento centrale dell’attuale indagine di Lecce. La Tosto, audita dalla Prima commissione del Csm a luglio 2016, fu durissima a proposito del clima che si respirava a Trani. Ma tutto si concluse con il trasferimento di Savasta e di Scimè. Tre anni dopo, dopo l’arresto, Savasta ha confessato di aver svenduto la giustizia in cambio di denaro. E colpiscono le parole scritte dall’anonimo: «Uno che è rinviato a giudizio, uno che è condannato, come può ancora oggi svolgere le funzioni di Pm inquirente?».
Giustizia svenduta a Trani, Savasta ammette dal gip: «È vero, ho sbagliato». Durante l'incidente probatorio riguardante l'inchiesta sulle indagini pilotate a Trani. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2019. «È vero, ho sbagliato, ho fatto cose contrarie al mio ufficio, è stato un grande errore». Nel corso dell’incidente probatorio dinanzi al gip di Lecce Giovanni Gallo, l’ex pm di Trani Antonio Savasta ammette ancora una volta le proprie responsabilità riguardo ai fatti contestati nell’inchiesta della Procura di Lecce sulle indagini truccate nel Tribunale di Trani tra il 2014 e il 2018. Savasta - che è ai domiciliari perchè sta collaborando e si è dimesso dalla magistratura - è accusato, insieme con l’ex collega Michele Nardi e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso commessi tra il 2014 e il 2018 per aver pilotato, in cambio di mazzette, indagini istruite dalla Procura di Trani dove Savasta era pubblico ministero. L’ex pm ha confermato di aver falsificato processi e firme dicendo di averlo fatto per farsi amico l’ex collega Michele Nardi, indicato come il capo del sistema. «Avevo bisogno della sua amicizia», ha detto al gip, spiegando come questa avrebbe potuto garantirgli un appoggio in Procura in merito ad alcune questioni disciplinari pendenti a suo carico al Csm. Savasta ha confermato anche il coinvolgimento nella spartizione delle mazzette versate da alcuni imprenditori, anche dell’ex pm Luigi Scimè, al quale avrebbe consegnato lui stesso in macchina una busta contenente una somma di denaro portatagli a casa dall’imprenditore di Corato Flavio D’Introno. «Ho aperto la busta - ha detto - ma non ho visto quanti soldi vi fossero, solo che c'erano mazzette da 200 e 500 euro». L’ascolto dell’ex magistrato proseguirà il 28 giugno e 3 luglio prossimi.
Giustizia truccata, imprenditore D'Introno: «A Bari ho parlato di altri magistrati». Nuovo fascicolo sui procedimenti tributari: «Mi hanno minacciato». Massimiliano Scagliarini il 19 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Per altri magistrati sono stato ascoltato dalla Procura di Bari». Flavio D’Introno lascia cadere lì, durante una delle ultime udienze dell’incidente probatorio davanti al gip di Lecce, Giovanni Gallo, l’ennesimo indizio sulle nuove indagini partite dal fascicolo sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani. Quelle nate dallo stralcio di alcuni atti che il procuratore Leonardo Leone de Castris e i pm Roberta Licci e Giovanni Gallone hanno trasferito, per competenza, ad altre sedi giudiziarie. Sul fascicolo aperto a Bari c’è, ovviamente, massimo riserbo. «Questo non è il luogo in cui si può riferire una circostanza di questo genere», ha tagliato corto il pm Gallone per interrompere il racconto di D’Introno in sede di controinterrogatorio, il 6 giugno, davanti al gup di Lecce. L’incidente probatorio riprende stamattina con Antonio Savasta, l’ormai ex pm che ha confessato di aver accettato soldi da D’Introno per manomettere fascicoli di indagine. Ma, nel frattempo, l’inchiesta va avanti. Lo stralcio di Bari potrebbe riguardare la gestione di alcuni procedimenti davanti alla giustizia tributaria, procedimenti che hanno riguardato lo stesso D’Introno e in particolare le cartelle esattoriali emesse nei suoi confronti per circa 8-9 milioni: queste cartelle furono annullate dalla Commissione tributaria provinciale, in primo grado, sulla base di un’eccezione di inesistenza delle notifiche, ma l’appello dell’Agenzia delle Entrate ribaltò la sentenza poi confermata in Cassazione.
D’Introno ne ha parlato, nel corso dell’esame del 6 giugno, rispondendo alle domande di Francesco Paolo Sisto, difensore di Simona Cuomo, l’ex avvocato dell’imprenditore di Corato sottoposta a interdizione dall’attività professionale. A Mario Malcangi, difensore di Luigi Scimè, l’altro ex pm di Trani coinvolto nell’incidente probatorio (D’Introno dice di aver pagato anche lui, l’interessato smentisce), l’imprenditore ha raccontato «delle minacce da parte di un altro magistrato» di cui avrebbe parlato «presso la Procura di Bari». Una situazione intricatissima, nella quale si inserisce anche delle dichiarazioni che lo stesso D’Introno avrebbe reso il 4 febbraio, raccontando ai carabinieri di Barletta delle minacce a suo dire ricevute da un noto avvocato della città ed in qualche modo riconducibili all’episodio delle cartelle esattoriali. D’Introno è per il momento il perno dell’accusa agli indagati che rispondono di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari: ha raccontato di aver dato due milioni di euro all’ex gip Michele Nardi (che è in carcere) e a Savasta (ai domiciliari), ma anche - in un secondo momento - di 75mila euro dati a Scimè, oltre al coinvolgimento di altri magistrati i cui nomi sono al momento coperti da omissis negli atti depositati. Anche per questo le difese si sono concentrate, oltre che nel far emergere alcune incongruenze nel lunghissimo racconto dell’imprenditore, anche di minare la sua stessa credibilità: facendo emergere che D’Introno è in cura presso il Sert di Andria per problemi di alcolismo che sarebbero esplosi dopo la sentenza di condanna in Appello per l’usura. Sentenza poi divenuta definitiva (cinque anni e mezzo) e finora non eseguita proprio per via del trattamento in corso.
Dell’esistenza di nuove indagini, del resto, c’è traccia nell’ordinanza con cui il gip Gallo ha prorogato di altri tre mesi, al 14 ottobre, le misure cautelari a carico di Nardi, Scimè e dell’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro (anche lui in carcere). Dopo gli arresti di gennaio, ha scritto il gip, sono state presentate denunce «da altri soggetti (imprenditori del luogo e avvocati) che hanno riferito di vicende di natura corruttiva coinvolgenti gli indagati, sui quali sono in corso riscontri particolarmente complessi anche in considerazione dell’epoca remota di datazione dei fatti». Alcuni fatti sembrerebbero essere prescritti, ma in ogni caso - nell’impostazione della Procura di Lecce - dimostrerebbero l’esistenza di un accordo stabile tra i magistrati per svendere la loro funzione in cambio di denaro regali.
Oggi dunque toccherà a Savasta, che nella scorsa udienza ha detto di essere stato «incastrato» da Nardi cui ha dato la colpa di aver inventato il sistema corruttivo.
Trani: «Potrebbero inquinare le prove», arresti prorogati per Savasta e Nardi. La Procura di Trani ha ottenuto la proroga della custodia cautelare fino al 14 ottobre. Massimiliano Scagliarini il 14 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Fu l’ex gip Michele Nardi il «determinatore» delle condotte illecite dell’ex pm Antonio Savasta. È questa la linea che la Procura di Trani ha sottoposto al gip Giovanni Gallo per chiedere (e ottenere) la proroga della custodia cautelare dei due magistrati e dell’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro fino al 14 ottobre. L’ordinanza del gip dà il senso di una indagine, quella sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani, che è ancora in corso e potrebbe rilevare sorprese. Non sono infatti concluse «le analisi dei dati ricavabili dalle agende sequestrate a Michele Nardi, dati da leggere in correlazione anche con le dichiarazioni rese da D’Introno (Flavio, l’imprenditore di Corato le cui dichiarazioni hanno dato il via agli arresti di gennaio, ndr) e Savasta anche in ordine al coinvolgimento del magistrato Luigi Scimè, il cui ruolo di concorrente nelle vicende che interessano il D’Introno appare ovviamente di immediato rilievo». Durante le perquisizioni disposte a gennaio, sono stati effettuati 48 sequestri tra computer, chiavette usb e cellulari su cui è ancora in corso l’esame dei dati. Ma c’è di più. Dopo la notizia degli arresti sono state presentati denunce «da altri soggetti (imprenditori del luogo e avvocati) che hanno riferito di vicende di natura corruttiva coinvolgenti gli indagati, sui quali sono in corso riscontri particolarmente complessi anche in considerazione dell’epoca remota di datazione dei fatti». È ad esempio il caso degli imprenditori Casillo e Ferri, ma anche della vicenda che riguarda l’hotel Salsello di Bisceglie: vicende che «si connotano per la svendita ed il mercimonio della funzione giudiziaria» e giustificano - secondo la Procura - una conferma «al contestato delitto di associazione a delinquere» finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
Toghe sporche, altri 3 mesi di arresti per i magistrati. E uno accusa l'altro. La Procura di Lecce ritiene che fosse in atto «la creazione di false apparenze documentali per screditare D’Introno», fino a tre mesi fa il perno dell’indagine con il racconto dei 2 milioni di euro dati a Nardi e Savasta, poi integrato con i soldi dati a Scimè e ad altre persone le cui posizioni sono ancora al vaglio. Senza la proroga di tre mesi, i tre arrestati sarebbero tornati liberi prima di metà luglio. Secondo il gip Gallo esiste sia il pericolo di reiterazione dei reati sia, soprattutto, quello di inquinamento probatorio: se Nardi, Savasta e Di Chiaro tornassero liberi potrebbero influenzare l’incidente probatorio che riprenderà mercoledì prossimo. Peraltro - aggiunge il gip - «dalle indagini emerge la trama di rapporti intessuti dagli indagati a più livelli, sia a livello locale che nazionali, sia legati alle professioni svolte che esterni al mondo lavorativo». Il riferimento è ai contatti di Savasta (che è ai domiciliari) «con imprenditori di rilievo in grado di rendersi garanti per Savasta stesso», e per Nardi (che è in carcere a Taranto) con il mondo della massoneria: l’ex gip è l’unico degli arrestati che non ha mai aperto bocca, se non per smentire tutte le accuse. Il suo interrogatorio di garanzia, secondo il Tribunale del Riesame, è stato un «ulteriore tentativo di mistificare la realtà».
Toghe corrotte a Trani: per il Gip "gli indagati ancora in grado di influenzare». Il Corriere del Giorno 14 Giugno 2019. Emergono nuove denunce presentate da imprenditori e avvocati, che riguardano il presunto sistema di corruzione della giustizia che avrebbe avuto corso nel Tribunale di Trani. Secondo quanto riportato dal giudice per le indagini preliminari Giovanni Gallo nella sua ordinanza con cui ha confermato le ipotesi accusatorie del pm Roberta Licci, nonostante l’incidente probatorio sia ancora in corso , non sono cessate le esigenze cautelari. A causa della complessità delle indagini che investono tre magistrati, un ispettore di polizia, vi sarebbe ancora il pericolo di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove, motivi per cui la Procura di Lecce ha ottenuto dal gip Gallo la proroga di tre mesi degli arresti del magistrato Michele Nardi, dell’ex magistrato Antonio Savasta che in virtù della collaborazione fornita è stato posto ai domiciliari e del poliziotto Vincenzo Di Chiaro. La Procura di Lecce ha evidenziato nella propria richiesta, che a seguito del sequestro di numerosi documenti, e materiale informatico, in occasione degli arresti eseguiti lo scorso gennaio, sono attualmente in corso le analisi dei dati ricavabili dalle agende sequestrate a Nardi, da leggere in correlazione con le dichiarazioni rese nell’esame dell’imprenditore Flavio D’Introno che in questa inchiesta riveste il ruolo di principale “corruttore“, ma anche quello del grande “accusatore“) e di Savasta, anche in relazione al coinvolgimento del magistrato Luigi Scimè, la cui partecipazione nelle vicende che interessano D’Introno si è rivelato ovviamente di immediato rilievo ed incidenza per i reati ai quali si riferisce il titolo custodiale.
Sono ancora in corso infatti le operazioni di effettuazione della consulenza tecnica forense che comprende 48 supporti tra cui computer, chiavette usb, telefoni cellulari. Inoltre vi sono ulteriori denunce sopravvenute durante il corso delle indagini da altre persone, avvocati ed imprenditori, delle quali da conto la procura. I nuovi denuncianti hanno portato alla luce delle vicende specifiche corruttive che coinvolgono gli indagati per le quali sono in corso riscontri particolarmente complessi anche in considerazione dell’epoca remota di avvenimenti dei fatti emersi a posteriori. L’accertamento di queste ulteriori circostanze che hanno portato alla luce ancora di più la svendita e il mercimonio della funzione giudiziaria, come scrive la Procura di Lecce, potrebbe essere un riscontro dell’accusa sostenuta dalla pm Roberta Linci, sempre più convinta che da parte di Nardi vi fosse un potere di pressione sui comportamenti dei magistrati operanti sul territorio di Trani e della effettiva esistenza e operatività tra gli indagati del vincolo associativo. Il gip Giovanni Gallo nella sua ordinanza ha accolto totalmente le ipotesi investigative della procura, e quindi sussiste giusta causa in relazione alle complesse attività dell’incidente probatorio in corso, che ha già occupato quattro udienze, protrattesi per molte ore. Sono inoltre gravi e ancora attuali le esigenze cautelari, ritiene il Gip , sia per i magistrati Michele Nardi (attualmente sospeso dal Csm a seguito di un procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti) e di Antonio Savasta, dimessosi dalla magistratura e che ha ottenuto i domiciliari dopo aver avviato al fianco dell’avvocato Massimo Manfreda un percorso di collaborazione con gli inquirenti, e per l’ispettore Vincenzo Di Chiaro. Dal corso delle indagini e dall’incidente probatorio in corso, emerge la trama – scrive il gip Gallo – di rapporti intercorsi a più livelli, sia locale che nazionale, legati alle professioni svolte ma anche esterni al mondo lavorativo. È questa la ragione principale per cui viene considerato ancora attuale il pericolo di inquinamento probatorio, collegato alla capacità di influenza che gli indagati possono vantare al di fuori del processo fino alla chiusura delle indagini preliminari . L ‘incidente probatorio proseguirà il 19 giugno prossimo.
Toghe sporche, altri 3 mesi di arresti per i due magistrati. E uno accusa l'altro. L'ex pm Savasta si è detto vittima dell'ex collega Michele Nardi. Ammette anche il poliziotto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Giugno 2019. Il gip del Tribunale di Lecce Giovanni Gallo ha disposto altri tre mesi di custodia cautelare per i magistrati pugliesi Antonio Savasta e Michele Nardi e per l'ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, arrestati il 14 gennaio scorso. Nardi e Di Chiaro sono detenuti in carcere, Savasta, che ha collaborato alle indagini e si è dimesso dalla magistratura, è ai domiciliari. Sono tutti e tre accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso commessi tra il 2014 e il 2018 per aver pilotato, in cambio di mazzette, indagini istruite dalla Procura di Trani dove Savasta era pubblico ministero. Al momento dell’arresto, invece, i due magistrati erano in servizio al Palazzo di Giustizia di Roma. La richiesta di proroga della custodia cautelare per i tre arrestati era stata avanzata ieri nel corso dell’incidente probatorio in corso dinanzi al gip di Lecce. In quella sede il procuratore Leonardo Leone de Castris e il pm Roberta Licci, poiché è in atto un’attività investigativa e i termini di detenzione (sei mesi) sono in scadenza a metà luglio, hanno chiesto al giudice una proroga. L’incidente probatorio è proseguito oggi con l’esame dell’ispettore Di Chiaro. Si è detto vittima del collega Michele Nardi ed ha ammesso di aver chiesto 300mila euro all’imprenditore di Corato (Bari) Paolo Tarantini per archiviare un’indagine che era stata avviata solo per ottenere danaro. Così l'ex magistrato di Trani, Antonio Savasta, durante l’incidente probatorio dinanzi al gip di Lecce nel quale ha detto che la richiesta di 300mila euro sarebbe stata un’idea di Nardi. L'ascolto dell’ex pm proseguirà il 19 e il 28 giugno prossimi. Durante l’incidente probatorio ha ammesso le proprie responsabilità anche l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro. Questi ha detto al gip Giovanni Gallo di non aver mai preso soldi dall’imprenditore D’Introno, né di aver avuto regalie, ma di aver falsificato firme e atti per una sorta di rispetto nei confronti dell’imprenditore, che intendeva favorire.
Trani, Savasta sapeva dell'arresto: «Decisi di non scappare». Il memoriale dell'ex pm di Trani: «Fu Nardi a orchestrare tutto». Massimiliano Scagliarini il 22 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Savasta sapeva che sarebbe stato arrestato su richiesta della Procura di Lecce: «Ho deciso di non fuggire e di attendere il mio inevitabile destino con dignità, trascorrendo il Natale con mia moglie e mio figlio e la mia famiglia recandomi a Roma per gli ultimi giorni di libertà». Anche l’ex pm di Trani ha redatto un memoriale, che la Procura ha depositato nell’ambito dell’incidente probatorio in corso davanti al gip Giovanni Gallo: ad avvertirlo degli imminenti arresti - scrive Savasta, oggi ai domiciliari nell’abitazione di Barletta - fu l’imprenditore Flavio D’Introno, il suo principale accusatore. «Dopo l’incontro del 18 novembre (quello che D’Introno registra, ndr) rividi il D’Introno per consegnargli altri 6mila euro ed in quella occasione (evidentemente non registrata come tante altre nell’ottobre del 2018) mi anticipò le notizie che stavano arrestando il Di Chiaro». È l’ispettore di polizia, al momento in carcere, che sarà sentito nell’ambito dell’incidente probatorio proprio dopo Savasta. «L’informazione - prosegue il memoriale - rappresentava un gesto di gratitudine per gli ulteriori 6mila euro ottenuti. Evidenziava che vi era un elenco di persone da arrestare e che anche io ero a rischio per cui oltre alla sua fuga avrei dovuto pensare anche alla mia. Concludeva il discorso che sarebbe fuggito e che ormai la Procura di Lecce era giunta ad una svolta delle indagini avendo appreso ed acquisito dichiarazioni e riscontri di rilievo su Nardi». Se ci sono state fughe di notizie, l’inchiesta fino ad ora non sembrerebbe averne risentito. Ma proprio dal racconto di D’Introno era emerso come l’ex gip Nardi (in carcere a Taranto, sta mantenendo il silenzio) si vantasse di rapporti con il Vaticano, la massoneria e i servizi segreti. Il ritornello torna anche nelle parole di Savasta, che racconta di aver incontrato Nardi nella sala d’aspetto della stazione di Barletta, il 13 gennaio: entrambi - dice - dovevano prendere il treno per Roma. «In quell’occasione Nardi mi avvisava che non avremmo dovuto più vederci per un certo periodo poiché le indagini in corso a Lecce risultavano in una fase critica. Affermava di aver appreso (da persona operante nell’ambito dei servizi segreti collegato con la pg di Lecce) che il D’Introno aveva ordito un tranello nei suoi confronti» e «mi diffidava dall’avere a che fare con il predetto e di evitare qualsiasi contatto diretto». Gli atti fin qui emersi hanno evidenziato profonde discrepanze nel racconto di ciò che sarebbe avvenuto nel Tribunale di Trani, e che ha portato la Procura di Lecce a contestare ai due magistrati (in concorso con altri, tra cui lo stesso D’Introno) le accuse di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, l’abuso d’ufficio, il falso ideologico. D’Introno ha detto di aver dato un milione e mezzo a Nardi e 500mila euro a Savasta, quest’ultimo ammette solo 120mila euro tra denaro e favori per i suoi familiari. Sarà il prosieguo dell’incidente probatorio (martedì il controesame di D’Introno) a chiarire i fatti. Per ora Savasta ha, nei fatti confessato: «Ammetto la mia responsabilità in ordine ai fatti a me ascritti», negando solo due episodi collaterali. «Ho operato contra legem nella consapevolezza di favorire il D’Introno nell’ambito di una pianificazione ideata dal dottor Nardi in concerto forse con l’avvocato Cuomo e certamente l’ispettore Di Chiaro».
Inchiesta sulla corruzione della giustizia a Trani. L'ex pm Savasta ammette: "Tutto vero commesse irregolarità"... Il Corriere del Giorno l'8 giugno 2019. Il gip Giovanni Gallo del Tribunale di Lecce ha sciolto la riserva sulla richiesta di proroga dei termini di custodia cautelare, confermando che Nardi, Savasta e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, dovranno restare per altri tre mesi agli arresti cautelari, essendo stati tradotti in carcere lo scorso gennaio. Savasta grazie al suo comportamento collaborativo suggellato dall’uscita dalla magistratura, è stato l’unico a ottenere la detenzione domiciliare. L’ex pm di Trani Antonio Savasta, recentemente dimessosi dalla magistratura, sottoposto ieri all’esame dell’accusa nel corso della seconda udienza a seguito dell’incidente probatorio in corso al Tribunale di Lecce, ha cominciato a parlare ammettendo le proprie responsabilità e colpe, e facendo qualche precisazione utile al prosieguo dell’inchiesta. I magistrati Nardi e Savasta coinvolti nell’inchiesta sono chiamati a rispondere di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso per i fatti contestati che fanno riferimento al periodo tra il 2014 e il 2018. Gli inquirenti hanno effettuato accertamenti su numerose cessioni di denaro, alcune milionarie, finalizzate a modificare l’esito dei processi o a pilotare delle inchieste in corso. Si parla anche di costosi regali pretesi ed ottenuti da Nardi all’imprenditore D’Introno : un orologio Rolex Daytona del valore 34.500 euro, due diamanti del valore di 27mila, un viaggio a Dubai costato 10mila euro , la ristrutturazione della casa romana di Nardi per 130mila euro e la costruzione della villa di Trani per 600mila euro. Poi ancora mazzette da 600mila euro versate a Savasta, oltre a cene, e regali di vario genere. Savasta assistito dall’avvocato Massimo Manfreda, ha confermato di aver commesso delle irregolarità, confermando la veridicità delle accuse a proprio carico , anche rispetto alle accuse rivolte al collega Michele Nardi, gip del tribunale di Trani all’epoca dei fatti, successivamente pm presso la Procura di Roma, ed attualmente detenuto in carcere. L’esame dell’ magistrato è iniziato nel tardo pomeriggio di ieri, e conseguentemente non è stato possibile per l’accusa contestare tutte le accuse, da quelle iniziali, a quelle emerse successivamente, a seguito dei diversi interrogatori a cui è stato sottoposto. E’ stato ascoltato anche l’ispettore di Polizia Di Chiaro, che ha sostanzialmente ribadito e confermato quanto già dichiarato. Precedentemente era già stato ascoltato a lungo il principale accusatore dei magistrati, e cioè Flavio D’Introno l’imprenditore di Corato , che ha depositato una memoria di 65 pagine in cui sono contenuti anche dei nuovi fatti. D’Introno rispondendo alle domande del pm Roberta Licci che insieme al procuratore capo della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone De Castris ha coordinato le indagini, ha dichiarato durante il suo esame che il magistrato Michele Nardi “era già a conoscenza che dovevo avere questa custodia cautelare e per evitarla, in pratica, mi chiese 200mila euro , in riferimento a un’altra inchiesta che lo aveva riguardato”, aggiungendo che invece in relazione al fascicolo d’indagine della procura di Lecce che si è trasformato in una vera e propria bufera giudiziaria, che Nardi era a conoscenza che “l’indagine di Lecce era partita da un audio per un altro procedimento della procura di Trani e che lui aveva interessato i servizi segreti, quindi era a conoscenza di qualsiasi cosa“. D’Introno ha aggiunto: “Il dottor Nardi mi disse che nelle sue funzioni svolte presso la procura di Roma (dove era stato trasferito ed in servizio come pm all’atto dell’arresto, ndr), gli era stata affidata questa indagine grossa dove aveva anche ascoltato come teste o come indagato, non lo so, questo signor Inzerillo che io non conosco e che lui disse che era, che faceva parte del sistema Gladio, di questi servizi segreti, quindi se io mai sia avrei detto qualcosa ai Carabinieri di Barletta, lui aveva la mia foto e quindi mi faceva sparire. Questa fu per me come una minaccia di morte“. L’imprenditore di Corato ha fatto dichiarazioni anche sull’ormai ex-magistrato Savasta: “Nardi, prima del primo incontro, mi aveva detto che per quanto riguarda tutti questi sequestri probatori, il dottor Savasta aveva preteso 100mila euro. Io in pratica avevo consegnato questi 100mila euro al dottor Nardi. A detta di Nardi erano per il dottor Savasta. Quando io lo chiesi, nell’incontro che abbiamo fatto personalmente con il dottor Savasta, mi ha detto che in pratica non era così “. Cioè che lui non aveva ricevuto nulla? Ha domandato il pm Licci. “No, non li aveva ricevuti. – ha precisato D’Introno – Quindi se l’era tenuti Nardi“. Il gip Giovanni Gallo del Tribunale di Lecce ha sciolto la riserva sulla richiesta di proroga dei termini di custodia cautelare, confermando che Nardi, Savasta e l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, dovranno restare per altri tre mesi agli arresti cautelari, essendo stati tradotti in carcere lo scorso gennaio. Savasta grazie al suo comportamento collaborativo suggellato dall’uscita dalla magistratura, è stato l’unico a ottenere la detenzione domiciliare. L’incidente probatorio proseguirà il prossimo 19 giugno, in cui si proseguirà con l’esame di Savasta, il quale dovrà sottoporsi dopo per il controesame alle domande degli avvocati.
Trani, ex pm arrestato Savasta: «Mi sono venduto per 120mila euro». Si va verso l'incidente probatorio. La confessione: «Nardi mi ricattava, se mi avessero scoperto era la fine». Massimiliano Scagliarini il 7 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Effettivamente c’è stata la mia deviazione dal punto di vista morale di magistrato e tutto il resto». Antonio Savasta ha ammesso di aver preso circa 120mila euro: un sacco di soldi per vendere la giustizia, eppure quasi nulla rispetto alle molte centinaia di migliaia di euro che sembrerebbero essere passati di mano negli anni in cui nel Tribunale di Trani era in servizio la cricca dei giudici. L’ex pm ha confessato, ammettendo le responsabilità in oltre 200 pagine di verbali: «Ero ai limiti, vi dico sinceramente, del suicidio, vi giuro ho pensato un giorno di buttarmi sotto la metro, non ce la facevo più». Ma ha anche detto di sentirsi «ricattato» da Michele Nardi, l’ex gip tuttora in carcere, e da Flavio D’Introno per conto del quale ha creato procedimenti penali fasulli allo scopo di proteggere l’imprenditore da un processo per usura. È tutto nelle carte che la Procura di Lecce ha depositato in vista dell’incidente probatorio in cui, da lunedì, Savasta, D’Introno e il poliziotto Vincenzo Di Chiaro (anche lui in carcere) verranno messi a confronto con gli altri indagati (tra cui pure l’ex pm Luigi Scimè, ora giudice a Salerno) per trasformare in prove le decine di ore di interrogatori raccolti dal procuratore Leonardo Leone de Castris e dalla pm Roberta Licci. Le parole di Savasta sono il fulcro di tutto.
GLI INIZI. Savasta dice di essere stato avvicinato da Nardi «per mero interesse»: «Aveva l’interesse di tutelare il D’Introno, quindi l'interesse suo era ricavare dal D’Introno quanto più denaro poteva essere e spostare diciamo il sottoscritto per tutta una serie di cose, tenuto conto poi che io in quel periodo poi, perché dal 2012 in poi visto i miei problemi disciplinari, e lui si faceva diciamo “non ti preoccupare, ti aiuterò” e infatti poi dopo successe anche nel 2016 (..) e quindi io stavo in una situazione tale che diciamo in un certo senso mi sentivo in debito nei confronti di questa persona, anche se questa persona non ha fatto niente per me». Ma cosa avrebbe promesso Nardi a Savasta? «Vantava ottimi rapporti con il procuratore (Capristo, ndr), e mi rappresentava che grazie alla sua posizione avrebbe potuto in qualche modo fare andare bene le cose anche per me, tutelarmi o rovinarmi». Ed ecco che, sempre secondo Savasta, Nardi gli chiede di aiutare D’Introno sequestrando alcune cartelle esattoriali milionarie: «“Ma perché ci tieni tanto a questa persona?”, dice: “Sai il D’Introno è una persona che mi sta aiutando nella mia vicenda personale, cioè lui in realtà si presta nei confronti di mia moglie a giustificare il fatto che delle volte io faccio delle scappatelle». Insomma, bisogna fare in modo di bloccare le cartelle esattoriali: «Qui entra in gioco la Cuomo (avvocato di D’Introno attualmente interdetta, ndr) che fece un’istanza nel fascicolo dicendo sostanzialmente che c’era uno soggetto, questo Patruno Gianluigi, che era amico di alcuni messi notificatori...».
«IL RICATTO». È questo, secondo Savasta, il punto di non ritorno. «Feci presente alla Cuomo che probabilmente non avrei chiesto un rinvio a giudizio, loro invece lo volevano (...). E quindi fu lì che il D’Introno diciamo esce fuori una vicenda particolare che è quella che io ritengo diciamo del ricatto. Allora qui dice (D’Introno, ndr) “io ho speso soldi, ho fatto regali a vostro cognato, regali a Nardi, voi siete tutti d'accordo, io cioè in questa situazione non posso essere condannato”. Allora io in questa situazione diciamo ho accettato di fare un rinvio a giudizio, (...) qua si trattava veramente di fare una cosa non giusta, però d'altro canto se questo a un certo punto cominciava a mettere nei guai, cioè a raccontare di queste vicende dalla cartella esattoriale, io in quel periodo ero sotto procedimento disciplinare, ci sono tutte quelle vicende note della masseria e quei procedimenti in questione, cioè una cosa del genere per me avrebbe rappresentato la fine, sostanzialmente da quel momento in poi mi sono asservito a queste richieste del D’Introno». In cambio, per quel primo rinvio a giudizio, intorno a Natale 2014 «il D’Introno mi portò 10.000 euro».
I 120.000 EURO. La Procura di Lecce contesta a Savasta di aver preso circa 300mila euro. Lui, però, rifà i conti e riduce il totale a 120.000, compresi i soldi che D’Introno aveva speso per favorire il cognato del magistrato aprendogli una palestra in locali di sua proprietà, ammettendo anche alcuni viaggi tra cui uno in Turchia: «Vicenda Tarantini 60.000 euro, ristrutturazione della palestra, a dire di D’Introno, aveva speso circa 30-40mila euro, poi le 10.000 euro delle piante che io pensavo fossero regalo di D’Introno invece poi pare che è stato fatturato a Tarantini, i viaggi che lui (D’Introno, ndr) dice “complessivamente ho speso 20mila euro di viaggi tra te, Savino, la sorella, mia sorella... Poi ricordo, come dissi l’altra volta, che a Natale in una busta mise, non ricordo se erano 8-10mila euro come dissi l’altra volta, basta».
LICCI: «Poi c’era altro? Da Trony lei non ha mai comprato niente? Manco un telefonino?».
SAVASTA: «Non mi piacciono i telefonini».
L: «Neanche un televisore?».
S: «No No».
L: «Un frullatore? Niente?».
S: «No no».
LA STANGATA. Una delle accuse riguarda i soldi che Savasta e Nardi avrebbero ottenuto da un altro imprenditore di Corato, Paolo Tarantini, per far sparire una indagine fiscale che era stata inventata apposta: in cambio Savasta dice di aver chiesto 300mila euro, ma di aver avuto molto meno. «A quel punto mia sorella mi consegnò questa cosa, io aprii e dentro stavano circa 60.000 euro. Che questa è la cifra che lui (Tarantini, ndr) ha dato per quanto mi riguarda, naturalmente avendo appreso che Nardi aveva preso 200 eccetera, questo è stato un altro dei motivi per cui dici io cioè questo Nardi, il collega Nardi mi ha messo “nella merda più totale”». Ma da Tarantini arrivano anche i soldi per tacitare un tale Gianluigi Patruno, deferito per falsa testimonianza che minacciava di raccontare del fatto che era stato tutto organizzato da Savasta e D’Introno con l’avvocato Cuomo: «Organizzammo a Corato un incontro a un bar vicino al Duomo di Corato, e li c’era Tarantini, il Tarantini effettivamente diceva all’inizio “io veramente con tutto il rispetto, però non ho in questo periodo... un po’ di difficoltà”, disse “io massimo posso le 40-50.000 euro, non di più”, io dissi “vabbè quello che riuscite a trovare, però io ho necessità con una certa urgenza”, dissi io nella ferocia concordata con il D’Introno, dissi “io è inutile che ritorno a Corato o ci vediamo per prendere soldi eccetera, ve la vedete con D’Introno». E anche D’Introno ci fa la cresta su: «Il D’Introno mi disse questi soldi “allevate” circa 4-5.000 euro da queste 50.000 che mi sono servite perché avevo dei debiti se no mi arrivava a mia moglie delle notifiche", praticamente dice “a parte quello, tutto il resto ho dovuto darglielo al Patruno”. Quindi andai dal Tarantini, il Tarantini disse “io ho dato 50”, dissi “tante grazie ma io non ho ricevuto 50, ne ho ricevuti di meno”, lui disse “Eh si la solita cosa, quel D’Introno”». E poi ci sono i soldi che Tarantini dà a Nardi: «Mi raccontò del fatto che Nardi aveva preso 200.000 con la sorella». L’ex gip avrebbe preso da Tarantini anche altri 30mila euro per truccare un appello di lavoro.
GLI «OMISSIS». Una parte delle dichiarazioni di Savasta è ancora oscurata, perché fa riferimento a ulteriori episodi di possibile corruzione: riguarderebbero sia fascicoli penali che tributari. Tra le persone coinvolte c’è anche un commercialista, Massimiliano Soave, consulente della Procura di Trani in numerosi procedimenti.
IL CASO D’AGOSTINO. Savasta ha escluso di avere ricevuto tangenti, direttamente o per interposta persona, per favorire il re degli outlet Luigi D’Agostino. Tuttavia ha riconosciuto che avrebbe dovuto astenersi dall’indagine, avendo chiesto favori all’imprenditore barlettano.
Giustizia svenduta, Savasta: «Ho dato 10mila euro a Scimè». Così l’ex pm ha inguaiato anche il collega. Ma D’Introno: no, lo pagai io a Milano. Massimiliano Scagliarini l'8 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha detto di aver preso in tutto 120mila euro tra soldi in contanti, regali in natura e favori fatti al suo ex cognato dall’imprenditore Flavio D’Introno. Ma nei tre verbali davanti alla Procura di Lecce, Antonio Savasta ha anche raccontato di aver pagato Luigi Scimè: «Ebbi le 10.000 euro da D’Introno naturalmente e gliele detti a Scimè, gliele consegnai, mi sedetti a fianco alla macchina, cioè al posto diciamo guidatore». Parole che hanno fatto finire nei guai anche l’altro ex pm di Trani, ma che danno il senso del perché la Procura di Lecce abbia chiesto l’incidente probatorio: perché su questo episodio le cose non tornano. D’Introno ha infatti raccontato ai magistrati una storia diversa. Ha confermato di aver dato a Scimè circa 100mila euro in cambio di vari favori. Ha detto di aver pagato anche affinché il pm chiedesse il rinvio a giudizio di alcuni degli accusatori dell’imprenditore di Corato nel processo per usura di cui parleremo tra poco. Ma ha anche detto, D’Introno, di aver consegnato direttamente i soldi a Scimè, in un incontro che sarebbe avvenuto a Milano. Una incongruenza che dovrà appunto essere chiarita quando, a partire da lunedì, Savasta (con l’avvocato Massimo Manfreda di Brindisi) e D’Introno verranno messi a confronto con gli altri indagati davanti al gip Giovanni Gallo. Questa è la versione di Savasta, che alla Procura di Lecce ha offerto un episodio fino a quel momento sconosciuto alle indagini sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani. Il riferimento è appunto a un fascicolo che Scimè aveva aperto per falsa testimonianza, minacce ed estorsione nei confronti di due dei testimoni del processo per usura contro D’Introno. Un fascicolo funzionale all’imprenditore affinché potesse dimostrare l’inattendibilità dei suoi accusatori di cui, dunque, voleva il rinvio a giudizio. «Venne il D’Introno e disse “Dottore andate a parlare con Scimè, tanto Scimè con Nardi sta d’accordo" (...). Il dottor Scimè mi disse “Sì ho parlato con il dottor Nardi di questa questione, provvedere a fare il rinvio a giudizio, però - disse - il tuo amico caro, Michele Nardi - proprio in questi termini - mi aveva promesso, mi aveva promesso delle cose”, del denaro praticamente mi fece capire, “ma non ho avuto niente”, al che io capii che anche su questa vicenda c’era qualche cosa di particolare». A quel punto Savasta dice di essersi incontrato con D’Introno nei corridoi della Procura. «“Scusami ma tu a Scimè hai dato dei soldi?”, allora lui mi disse testualmente “Io i soldi a Scimè direttamente non li ho dati, li ho dati al dottor Nardi che doveva darli al dottor Scimè, quindi se li sarà fregati Nardi”, dice “ma tu quanto hai dato?”. Lui diceva 15, era molto generico su questo fatto, ha detto “Comunque io i soldi li ho dati, doveva darli Nardi”». Scimè però - sempre nel racconto di Savasta - insiste per essere pagato, allora il pm dice di essere tornato da D’Introno: «Ho detto “Senti ascolta facciamo una cosa, dammi un qualcosa e io gliela do a Scimè così finiamo sta cosa”».
LA CONSEGNA. Savasta dice che fu Scimè a passare a prendere i soldi. «A quel punto diciamo cioè mi organizzai in maniera tale che Scimè passò dalle parti di casa mia, non so doveva partire il giorno dopo, qualche giorno dopo, doveva partire perché aveva urgenze insomma, era tardo pomeriggio». I soldi gli erano stati consegnati uno-due giorni prima da D’Introno. «Mi citofonò a casa, lui sapeva come venire quando doveva fare le sue cose insomma, e scesi e in una busta aveva diciamo questi soldi, io c’ho visto che stava 500, le 100, ha detto "Queste sono 10.000", io non le ho nemmeno contate sinceramente». Ma proprio a fronte dell’incongruenza con il racconto di D’Introno di cui abbiamo parlato, il 19 marzo la pm Roberta Licci chiede a Savasta se «ha contezza di un incontro tra D’Introno e Scimè a Milano». «No, assolutamente no» è la risposta dell’ex pm.
IL PROCESSO PER USURA. La Procura contesta a Scimè anche di aver chiesto l’archiviazione dell’indagine per usura a carico di D’Introno, in cambio di 30mila euro. Savasta dice di averne parlato con l’allora collega. «Lui disse, alla fine ridendo disse “Sì sì mi sono sentito con Nardi, mi sono organizzato, si può chiedere l’assoluzione, ci sono gli elementi per chiedere l’assoluzione e quindi la chiederò diciamo da questo punto di vista”, allora mi tranquillizzai perché il collega diciamo aveva riferito di questa cosa e che ne aveva parlato con Nardi, diciamo la cosa un po’ mi insospettì, però il processo io non lo conoscevo, il processo Fenerator, mi aggiunse anche che c’erano delle questioni prescritte, in prescrizione». Fatto sta che D’Introno viene comunque condannato in primo grado.
LA REPLICA DI SCIMÈ. Scimè smentisce in maniera categorica di aver mai preso soldi o di aver mai fatto favori a chicchessia. «Ho fiducia nella giustizia - dice l’ex pm, oggi giudice presso la Corte d’appello di Salerno, tramite il suo avvocato Mario Malcangi - e sono certo che tutte le accuse si riveleranno infondate. Attendo l’esito di questo incidente probatorio avendo verificato che negli atti messi a disposizione si apprezzano profondissime contraddizioni tra gli elementi indicati dall’accusa. La maggior parte di questi elementi possono essere confutati documentalmente, come farò appena mi sarà consentito».
IL RUOLO DI SOAVE. Le pagine non coperte da «omissis» dell’interrogatorio di Savasta lasciano trasparire il ruolo di un consulente della Procura, il commercialista Massimiliano Soave. L’ex pm ne parla a proposito del procedimento inventato per il sequestro delle cartelle esattoriali milionarie recapitate a D’Introno. «In questa occasione entra in gioco il dottor Soave, il quale viene da me e dice “Sa dottore io diciamo sono in buoni rapporti con Nardi”, sempre questo discorso di Nardi avanti eccetera... “Comunque sulla vicenda di D’Introno io non posso essere nominato”, cioè proprio così in maniera extra brutto “Però siccome è una vicenda abbastanza particolare che conosco quindi le questioni possiamo nominare anche una persona che vi indico”. Dice “Vabbè, ma - dice - perché mi dite questa indicazione”, “no, perché così diciamo la questione viene bene inquadrata”. Vabbè avevo capito perché comunque Soave è sostanzialmente anche lui un soggetto implicato in questa vicenda, magari ne parliamo”». Soave aveva seguito il contenzioso tributario per conto di D’Introno, ottenendo in primo grado l’annullamento delle cartelle poi ribaltato in appello. Ma questa parte dell’inchiesta è ancora in corso.
Magistrati arrestati, D'Introno: «Nardi aveva conti in Vaticano, gli ho dato 1,5 mln». L'imprenditore di Corato conferma anche le mazzette a Savasta, oltre a Rolex e gioielli. Soldi prelevati anche in Svizzera. Massimiliano Scagliarini il 14 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un milione e mezzo di euro dati a Michele Nardi, l’ex gip tuttora in carcere che avrebbe ricevuto anche regali in natura tra cui un Rolex, diamanti, viaggi e lavori di ristrutturazione, poi altri 500mila euro all’ex pm Antonio Savasta. Il tutto per provare a sistemare i suoi problemi giudiziari. L’incidente probatorio nell’inchiesta sulla giustizia truccata a Trani si è aperto con la confessione di Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che con il suo racconto è già stato determinante per gli arresti disposti a gennaio dalla Procura di Lecce. E che ieri - confermando il racconto delle mazzette pagate ai giudici - ha depositato un memoriale di 60 pagine con cui ha aperto pure nuovi capitoli: «Nardi - ha detto rispondendo alle domande del procuratore Leonardo Leone de Castris e della pm Roberta Licci - mi disse di avere anche un conto allo Ior, e di temere che i soldi depositati nella banca del Vaticano potessero sparire». Una udienza fiume, quella davanti al gip Giovanni Gallo, udienza che dopo quasi 10 ore è stata aggiornata a giovedì per consentire il controinterrogatorio di D’Introno da parte delle difese degli altri indagati, cristallizzando così le dichiarazioni dell’imprenditore di Corato che avranno valore di prova. Il confronto proseguirà (la successiva udienza è fissata al 28) con gli esami di Savasta (avvocato Massimo Manfreda) e di Vincenzo Di Chiaro, il poliziotto finito in carcere con le stesse accuse mosse ai due magistrati (associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, falso): anche lui, come Savasta (che per questo ha ottenuto gli arresti domiciliari nella sua abitazione di Barletta) ha scelto di collaborare. D’Introno ha risposto a tutte le domande dell’accusa e ha confermato di aver dato ai due magistrati fiumi di contanti, in più occasioni, nel corso degli anni: «Parte dei soldi - ha spiegato - l’ho prelevata da un conto che avevo in Svizzera». L’imprenditore ha poi ricostruito la genesi dei suoi rapporti con Nardi e Savasta, e anche la decisione di collaborare: «Ho reso molti interrogatori - ha detto in sostanza - ma mi riconosco solo negli ultimi, perché solo da un certo punto in poi mi sono sentito protetto dalla giustizia: prima temevo che Nardi e Savasta potessero arrivare anche a Lecce». E così D’Introno, sulla cui testa pende una condanna definitiva per usura che gli costerà il carcere, ha raccontato del conto di Nardi nella banca di Oltretevere: «Mi spiegò di aver scoperto lo Ior in occasione di una indagine sul Vaticano, e di aver compreso quanto fosse conveniente avere un conto lì». In effetti, dopo il trasferimento a Roma come pm, Nardi a partire dal 2012 si è occupato dell’indagine sulla bancarotta dell’Idi che portò a numerosi sequestri nei confronti di alti prelati e di persone vicine alla congregazione dei figli dell'Immacolata Concezione che gestisce l’ospedale specializzato nelle patologie dermatologiche. L’incidente probatorio riguarda 12 persone tra cui anche l’altro ex pm di Trani, Luigi Scimè (avvocato Mario Malcangi), che insieme a Nardi, Savasta, D’Introno, agli avvocati Giacomo Ragno e Simona Cuomo, a Savino Zagaria (ex cognato di Savasta) risponde di vari episodi di corruzione, concussione, falso, calunnia, millantato credito ed estorsione. Ieri in aula erano presenti quasi tutti gli imputati e le parti offese, con i rispettivi difensori. D’Introno ha parlato anche di Scimè, confermando ciò che aveva detto in sede di interrogatorio a proposito dei soldi che avrebbe dato al pm in un incontro a Milano, ma dicendo di non sapere nulla sul «visto» che Scimé avrebbe messo a una richiesta di sequestro presentata da Savasta per alcune cartelle esattoriali.
Giustizia svenduta, D’Introno fiume in piena: «Ho pagato anche Scimè». Lecce, domani prosegue l’interrogatorio di D’Introno: «Fui io a presentare a Nardi l’imprenditore Tarantini». Massimiliano Scagliarini il 15 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non solo l’ex pm Antonio Savasta e l’ex gip Michele Nardi. Flavio D’Introno ha ribadito che anche l’altro pm di Trani, Luigi Scimè (oggi in corte d’appello a Salerno) sarebbe stato pagato per intervenire sui suoi procedimenti penali. L’imprenditore di Corato, che domani pomeriggio continuerà a rispondere alle domande dei pm nell’incidente probatorio davanti al gip di Lecce, Giovanni Gallo, ha confermato tutte le accuse: un milione e mezzo a Nardi (che per questo è in carcere a Taranto), almeno 500 mila euro a Savasta (ai domiciliari a Barletta), circa 75mila euro a Scimè consegnati sia direttamente sia attraverso i primi due. Il dato era già emerso attraverso gli interrogatori di D’Introno, quelli che la Procura di Lecce ha inteso cristallizzare attraverso l’incidente probatorio. L’imprenditore di Corato ha depositato un lungo memoriale che riassume il senso delle numerose dichiarazioni, memoriale che presumibilmente sarà al centro del controesame da parte dei difensori degli altri indagati. Scimè avrebbe ricevuto 30mila euro per chiedere l’archiviazione di una parte delle accuse di usura contestate a D’Introno nel processo «Fenerator» (poi concluso con una condanna definitiva in Cassazione), altri 30mila euro per far archiviare due procedimenti relativi agli attentati incendiari contro le ville della moglie dell’imprenditore (che ha così potuto incassare il risarcimento dell’assicurazione), e infine 15mila euro per chiedere il rinvio a giudizio di una delle testimoni del processo «Fenerator». Anche in questo caso, la questione verte sulle modalità di consegna dei soldi: D’Introno ha raccontato di aver pagato Scimè direttamente nel corso di un incontro a Milano, e di aver saputo che altro denaro gli sarebbe stato consegnato in altre occasioni da Savasta e da Nardi. Accuse che l’ex pm, unico tra i magistrati coinvolti a essere indagato a piede libero, ha fermamente respinto. Nel memoriale di D’Introno si parla anche della stangata all’imprenditore Paolo Tarantini, che a sua volta ha dichiarato di aver pagato 400mila euro per far bloccare una (falsa) indagine per reati fiscali. D’Introno sarebbe infatti stato il «gancio» tra Tarantini, titolare di una agenzia di viaggi a Corato, e Nardi, cui avrebbe chiesto la cortesia di interessarsi al problema dell’indagine. Ma attraverso Tarantini, come già era emerso, D’Introno avrebbe comprato (e pagato) i biglietti per tutti i viaggi effettuati nel tempo da Nardi e Savasta, oltre che da loro parenti e amici. E sempre a proposito di Nardi, D’Introno ha raccontato dei suoi rapporti con il Vaticano: «Aveva un conto allo Ior ed era molto preoccupato della possibilità che i soldi potessero sparire. Lo aveva aperto dopo aver condotto una indagine sul Vaticano», ha spiegato l’imprenditore riferendosi all’attività di pm presso la Procura di Roma, quella che Nardi svolgeva al momento dell’arresto il 14 gennaio scorso. L’inchiesta di Lecce sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani conta al momento una ventina di indagati, e ipotizza tra l’altro le accuse di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso, oltre a vari episodi di millantato credito, minacce ed estorsione. L’ipotesi è che, in cambio di soldi, alcuni magistrati fossero disponibili ad addomesticare fascicoli o a crearne alcuni per screditare testimoni. L’incidente probatorio chiesto dal procuratore Leonardo Leone de Castris e dalla pm Roberta Licci proseguirà con gli interrogatori di Savasta e del poliziotto Vincenzo Di Chiaro, anche lui finito in carcere.
Magistrati arrestati, D'Introno: «Ai giudici escort, mazzette e frullatori». Nel pomeriggio riprende l'incidente probatorio: nel frattempo l'imprenditore è un fiume in piena. Massimiliano Scagliarini il 16 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. A Michele Nardi un milione e mezzo, oltre ai soldi e i regali ottenuti dall’imprenditore Paolo Tarantini. Mezzo milione ad Antonio Savasta e alla sua famiglia. Altri 75mila a Luigi Scimè. «L’accordo coinvolgeva tutti e tre i magistrati», scrive Flavio D’Introno nel memoriale depositato davanti al gip di Lecce dove oggi pomeriggio riprende l’incidente probatorio per la giustizia truccata nel Tribunale di Trani. In 65 pagine c’è il racconto delle tangenti, degli incontri carbonari, di quelle che D’Introno ritiene essere state estorsioni e vessazioni ai suoi danni: «Ero solo un evasore fiscale», dice lui. Ma per la giustizia italiana D’Introno è un usuraio in attesa di scontare una pena definitiva a cinque anni e mezzo, e la Procura di Lecce accusa anche lui di associazione a delinquere finalizzata (tra l’altro) alla corruzione in atti giudiziari. Fatta un’ulteriore premessa (questa è la versione di D’Introno, non la verità dei fatti), leggiamo.
I SOLDI. «Ho versato al giudice Nardi una serie di somme per il pagamento delle sue utenze di casa e della villa, la ristrutturazione dell’immobile di sua proprietà in Roma, la ristrutturazione della villa in Trani della signora Di Lernia, viaggi in Italia ed all’estero, un rolex con cinturino in oro, due brillanti da un carato ciascuno, pagamento dell’Hotel Excelsior e del Grand Hotel Veneto in Roma, denaro in contanti dato in tempi vari per un totale di un milione e 500 mila euro. Ho dato al dottor Savasta (Zagaria Patruno Zaccaro) complessivi euro 500mila in contanti, 160 mila per ristrutturazione ed arredo comprensivo di attrezzi di una palestra». Poi 60mila euro al falso testimone nei confronti dei messi notificatori, Giancarlo Patruno, che minacciava di raccontare tutto, «nonché l’estorsione della scrittura privata che prevedeva l’esenzione del pagamento del canone (della palestra, ndr) per 20 anni (canone mensile di euro 1.400), utenze della palestra da me pagate». E soldi anche al poliziotto Vincenzo Di Chiaro, finito in carcere e anche lui ora testimone («Ha ricevuto circa 70mila euro), soldi e regali al suo avvocato Simona Cuomo: «Ha ricevuto ristrutturazione, l’arredamento e pagamento canone di locazione dello studio legale in Corato alla via Duomo 38, e pagamento delle utenze del detto studio, viaggi in Italia ed all’estero anche con la famiglia, pagamento Cassa Forense, in contanti centomila euro». E ancora, sempre su Nardi: «Aveva un potere superiore in relazione alla vita della Procura di Trani», tanto da avere le tabelle con i turni dei magistrati così da indirizzare l’assegnazione delle denunce. Un giorno si era arrabbiato, racconta D’Introno, dopo che lui ne aveva presentata una non concordata: «Mi disse che mi perdonava solo perché durante il viaggio a Dubai che mi aveva estorto il 9 maggio 2009, dopo le misure cautelari, io era stato gentile con lui pagandogli tutte le sue richieste (escort comprese)». A Nardi dice di aver pagato viaggi a Londra, a Cortina, in Sardegna. A Savasta un viaggio in Turchia per tutta la famiglia «compresa la sorella Emilia, il cognato e un’amica che non so chi sia», nell’unico albergo sei stelle di Istanbul, con trattamento full credit («pagavo io pure gli extra») per una spesa di 20.000 euro.
NARDI. D’Introno dice di aver conosciuto Nardi nel 2006 tramite un geometra della sua azienda (allo stato non indagato) che portò all’allora gip di Trani una copia del suo avviso di garanzia per usura: «In Corato, poi, era noto che anche per il caso Ferri era stato il geometra Attilio De Palma a presentare Nardi alla famiglia Ferri», gli imprenditori di Corato recentemente assolti per prescrizione dall’accusa di bancarotta che hanno raccontato la loro storia alla Procura di Lecce. Il primo appuntamento con Nardi a novembre 2006 in via Tasselgardo, a Trani in un bar nei pressi di Trony, sotto casa di Nardi, posto che diventerà centrale in questa storia: per il solo incontro pagò 30.000 euro. Di solito, dice, si vedevano «nel negozio Trony nel reparto della musica», che era «uno dei posti dove Nardi mi portava quando bisognava parlare di cose illecite perché c’era la musica alta. Mi impose di non comprare un telefono tipo smartphone perché temeva le intercettazioni con i trojan». A febbraio 2017 Nardi «mi chiese 200.000 euro se volevo evitare la custodia in carcere, io non gli credetti (…). Il giorno 8 aprile 2007 si presentarono nella Ceramiche Base il dottor Nardi e il geometra De Palma dicendo che sarei stato arrestato e mi avrebbero sequestrato i beni in via cautelare». È l’indagine «Fenerator», quella per usura: gli arresti scattano, D’Introno non si fa trovare ma si consegna dopo alcuni giorni e finisce in carcere. Ad agosto 2007 «Nardi tramite il geometra chiese 30.000 euro per far convertire gli arresti domiciliari in obbligo di dimora». Il gip Roberto Del Castillo il 17 agosto aveva rispedito Nardi in carcere prima di andare in ferie, il 25 agosto il gip di turno gli concede l’obbligo di dimora. Quando rientra, il 10 settembre, Del Castillo ripristina il carcere. Nardi, dice D’Introno, gli chiese altri 60.000 euro per evitare delle verifiche fiscali che poi puntualmente arrivarono e portarono all’emissione di cartelle esattoriali milionarie. Quelle che poi Savasta si presterà a sequestrare.
SAVASTA. D’Introno dice di aver conosciuto l’ex pm Savasta quando fu sentito a Lecce per il caso Nardi-Caserta. Savasta «mi ha chiesto soldi sia per fare atti normali per il suo lavoro che per assicurarmi di non perseguitarmi». Anche di recente, nel 2018, «Savasta si è interessato alla mia vicenda tributaria in Cassazione, dopo il suo trasferimento a Roma. Parlava con un commercialista che era amico del relatore», un giudice napoletano: l’ex pm riferì a D’Introno che questo giudice non poteva intervenire proprio perché la vicenda era oggetto dell’indagine di Lecce. L’ex cognato di Savasta, Savino Zagaria, anche lui indagato, «si è prestato a fare da corriere per la consegna del denaro a Savasta, anche in relazione ai soldi da me versati per il procedimento delle cartelle esattoriali», facendo una cresta di almeno 40.000 euro. «Il Savasta - prosegue D’Introno - mi ha chiesto soldi per tutta la sua famiglia a partire dai lavori di ristrutturazione alla palestra compresi tutti gli attrezzi scelti da Emilia Savasta e Zagaria Savino». La signora Savasta al momento non risulta indagata e sostiene di essere estranea a ogni accordo illecito.
LA STANGATA. A Paolo Tarantini (che in questa storia è vittima) vengono tolti 400.000 euro per far sparire un (falso) avviso di garanzia per reati fiscali. Il primo incontro di Tarantini con Savasta e Nardi, racconta D’Introno, avvenne a Barletta («In zona Patalini presso la palestra di Emilia» Savasta: «L’ho allestita io interamente per circa 50-60 mila euro»). D’Introno racconta di essere arrivato con Tarantini e di aver aspettato fuori in macchina, e quando l’incontro terminò la sorella di Savasta «mi diede una bustina piccola tipo quelle dei bigliettini di condoglianze, chiusa, dicendomi di darla al signor Tarantini». Dentro la busta, su un bigliettino, era scritta la somma di 400.000 euro. Quando andarono via Tarantini la aprì «e si mise a piangere disperato». D’Introno dice che prestò all’imprenditore 150mila euro per far fronte alla richiesta, soldi che avrebbe poi scontato in viaggi presso l’agenzia di Tarantini. La consegna avvenne in due tranche, sempre con D’Introno accompagnato in macchina da Tarantini. I primi 200mila euro in una stazione di servizio Esso tra Trani e Corato, dove si presentò una Bmw («Era con certezza la macchina utilizzata da Nardi e a bordo c’era la sorella»), la seconda in Corato, «sempre in contanti in una cartellina chiusa, di fronte al magazzino di mio zio», dove D’Introno e Tarantini andarono «sempre su indicazione di Nardi»: «Trovai una macchina alta e scura a bordo della quale si trovava la sorella di Savasta». Dopo una settimana ci fu un incontro a casa di Savasta dopo una settimana con Di Chiaro: «Savasta gli dette una busta con 30.000 euro e disse “divideteveli”», con chi aveva partecipato alla stangata a Tarantini, che tra l’altro fu costretto a comprare da Trony «10-15 telefonini, 4-5 pc portatili, un frullatore a immersione Moulinex». Tutta roba per Nardi.
SCIMÈ. Fu Savasta, dice D’Introno, a preannunciargli le richieste che l’allora pm Luigi Scimè avrebbe fatto a suo carico nel procedimento per usura: lo fece «sul terrazzino di casa della madre di Savasta, a Barletta». Non gratis: «Non avevo avuto alcun contatto diretto con Scimè, la somma venne da me consegnata nelle mani di Savasta il giorno prima della requisitoria: 30.000 euro in banconote da 500 all’interno della “Gazzetta” che consegnai a Savasta all’interno del bar». Per il rinvio a giudizio di una testimone che lo accusava di usura, la Frualdo, «Scimè pretese 15.000 euro, andai sotto casa di Nardi e gli consegnai una busta gialla da imballaggio che Nardi consegnò direttamente a Scimè che era lì ad aspettare» sotto i portici. D’Introno dice di aver assistito allo scambio: poi «Scimè si allontanò e io e Nardi bevemmo l’aperitivo al Bar dello Studente». Infine, i soldi per far archiviare le indagini sugli attentati alle ville della moglie di D’Introno. «Nardi mi disse che dovevo dare 30.000, ma io gli portai solo 20mila» sempre nel solito Trony. Il saldo del debito, dice D’Introno, avvenne a Milano in un bar in zona piazza Duomo. «Giorno e ora dell’incontro me li indicò Savasta. Io mi limitai a dire “buongiorno dottore” e gli consegnai la busta con i soldi». Gli ultimi 10mila euro.
Giustizia svenduta, imprenditore Tarantini: «Ai magistrati ho dato pacchi di soldi». «Savasta mi chiese 400mila euro con un bigliettino da visita». Massimiliano Scagliarini il 10 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’ex pm Antonio Savasta ha ammesso di aver preso 120mila euro tra contanti e regali, per sé e per l’ex cognato. Ma gli altri protagonisti della storia della giustizia truccata nel Tribunale di Trani hanno offerto versioni un po’ di verse, in uno scaricabarile di responsabilità ed in un coacervo di ruoli, cifre e circostanze che non sarà semplice da dipanare. A partire da una delle vicende finite nel mirino della Procura di Trani, quella della stangata all’imprenditore coratino Paolo Tarantini, messo in mezzo dalla cricca dei giudici con una falsa indagine per reati fiscali. Tarantini, proprietario della Resta Viaggi di Corato, in questa storiaccia è parte offesa ed è stato ascoltato come testimone il 31 gennaio: ne è emerso un verbale riassuntivo di 11 pagine che la Procura ha allegato agli atti dell’incidente probatorio che si aprirà lunedì davanti al gip Giovanni Gallo. Tarantini ha raccontato di aver pagato molto più di quanto Savasta abbia confermato nelle sue confessioni: 400mila euro per la falsa indagine (ripartiti tra l’ex gip Michele Nardi e Savasta), 60mila euro a Savasta (che gli chiese un prestito per cure mediche al figlio, ma che poi li utilizzò - come emerge dall’indagine - per pagare uno dei falsi testimoni messi in campo per salvare l’imprenditore Flavio D’Introno), 40mila euro a Nardi dietro la promessa di aggiustare una causa di lavoro (cosa che non avverrà). Mezzo milione di euro, consegnati in contanti e in più di una occasione, all’interno di buste da lettera o in sacchetti di plastica, denaro che in una occasione Tarantini deve farsi prestare. Tutto nasce, ha detto Tarantini, da un bigliettino di Savasta e da un incontro con l’ex pm in una palestra di Barletta. Ma anche qui le cose non tornano.
IL BIGLIETTO DA VISITA. Tarantini racconta infatti di aver ricevuto dalla sorella di Savasta (che non è indagata e che l’altro giorno ha detto alla «Gazzetta» di non sapere nulla delle attività dell’ex pm) un biglietto da visita della palestra di Barletta, quella di via dei Pini. Dietro il biglietto era appuntata, a penna, la cifra di 400mila euro: fu D’Introno - ha detto l’imprenditore - a fargli notare a chi fosse riconducibile quella palestra, per fargli capire da chi venisse la richiesta. L’episodio del bigliettino è stato raccontato anche da Savasta, ma in maniera un po’ diversa, soprattutto sulla cifra. «Mia sorella stava là e non fu resa edotta di niente, stava là ma soprattutto pensava che fosse un amico del D’Introno che era andato a chiedere un consiglio, aprì la palestra, disse “vedi che un amico di D’Introno che vuole parlarti", questo capiva lei». La richiesta di denaro, Savasta la racconta così: «Detti a mia sorella una busta, dissi “Dai questa busta a D’Introno”, chiusa naturalmente, cioè non volevo coinvolgere mia sorella in questa cosa, lei sapeva soltanto che un amico di D’Introno era venuto a chiedere qualcosa, un consiglio, e praticamente gli detti questa busta nella busta era solo indicata la somma, 300». Il pm Licci chiede conferma sulla cifra: «Trecentomila - risponde Savasta - ecco perché dico non è ne 400, ne 600, c’è tutta un’invenzione, però questa indicazione in merito mi fu detta dal Nardi, cioè mi fu detto questo è l’importo che devi chiedere, poi ce la vediamo noi».
I 400MILA EURO. Tarantini ha raccontato che i 400mila euro furono consegnati in due rate. La prima, in una stazione di servizio Esso, dove si era recato in compagnia di D’Introno su indicazione di Nardi: qui trovarono un’auto in cui D’Introno riconobbe la sorella dell’ex gip. La seconda consegna sarebbe invece avvenuta nella zona industriale di Corato, «nei pressi del capannone» di D’Introno, a «una persona» che era a bordo «di una Jeep tipo suv di colore nero, la cui targa comincia per EA»: fu D’Introno a effettuare materialmente la consegna di «un pacchetto» e a riferire che a bordo del Suv c’era «la sorella del giudice Savasta». «So che ci furono due tranche di pagamento diciamo così, la prima tranche che poi fu chiarita nel corso di quel dialogo», ha spiegato Savasta: quel dialogo è il colloquio con l’ex pm che D’Introno registra e porta ai carabinieri. Ma sui secondi 200mila euro, nega: «Non è vero, non è vero questo, non ho preso 400.000, non stavo qua se avessi preso 400.000 forse .alle Seychelles ci andavo io, no sarei rimasto comunque, ma voglio dire le 400.000, ma non è possibile, non ho mai preso 400.000, e forse nemmeno lui le avrà date, io so di 200, queste 200 date a Nardi, queste 60, ma non so altro». La Jeep nera citata da Tarantini - secondo il difensore di Savasta, l’avvocato Massimo Manfreda - non sarebbe in alcun modo riconducibile all’ex pm o alla sorella.
LA STANGATA. Per indurre Tarantini a pagare, la cricca gli fa notificare un falso avviso di garanzia per reati fiscali. Una indagine completamente inventata di cui Savasta dice di aver saputo a cose fatte: la Procura non gli crede perché, pur avendo l’ex pm disconosciuto la firma sotto l’atto, il numero di registro corrisponde a un fascicolo assegnato a lui. Ma Tarantini mette a verbale la chiusura del cerchio, di quello che sembra un raggiro alla Totò e Peppino. «Dopo due o tre giorni dall’ultimo pagamento - dice l’imprenditore di Corato - l’avvocato Simona Cuomo (è l’avvocato di D’Introno che gli era stato imposto dalla cricca, e che è indagata per questo episodio anche per aver preso 12.500 euro di parcelle, ndr) mi dice che entro il 5 dicembre sarei stato chiamato» per far sparire l’indagine. E così avviene: è il poliziotto Vincenzo Di Chiaro (tuttora in carcere a Lecce) - racconta Tarantini - a convocarlo in commissariato a Corato dove «mi viene fatta firmare una revoca dell’avviso di garanzia», con contestuale richiesta di restituire l’atto. Ma Tarantini ne aveva fatto una copia, che ha consegnato alla Procura di Lecce.
IL CONFRONTO. Lunedì, come detto, inizierà l’incidente probatorio per confrontare le dichiarazioni di Savasta, D’Introno e Di Chiaro con quelle dei testimoni (tra cui appunto c’è pure Tarantini, rappresentato dall’avvocato Beppe Modesti) e con le posizioni degli altri nove indagati chiamati in causa dalla Procura, così da trasformarle in una «prova anticipata» utilizzabile a dibattimento. Nardi (tuttora in carcere a Taranto), Savasta (ai domiciliari), Di Chiaro, D’Introno (libero) e la Cuomo (interdetta) rispondono tra l’altro di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
Magistrati arrestati, nuove accuse: «A Savasta e Nardi altri 600mila euro». Va avanti l'indagine sui giudici di Trani: altre mazzette stavolta per coprire una evasione fiscale, scrive Massimiliano Scagliarini il 10 Marzo 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una indagine per reati fiscali aperta da Antonio Savasta a carico del titolare di una agenzia di viaggi che, secondo Flavio D’Introno, fu indotto a pagare centinaia di migliaia di euro per aggiustare quello e altri processi. Dalle rivelazioni dell’imprenditore coratino, al centro della prima parte dell’inchiesta che ha fatto finire in carcere l’ex pm e l’ex gip Michele Nardi, nascono alcune delle nuove accuse mosse dalla Procura di Lecce ai due ex magistrati. Una vicenda su cui sono in corso le verifiche dei Carabinieri, partite - come la «Gazzetta» ha già raccontato - da una stranezza: l’avviso di garanzia a firma di Savasta fu notificato al titolare dell’agenzia dalla Polizia di Stato, che normalmente non si occupa di reati fiscali. Il deposito dei verbali di D’Introno insieme a una prima delega d’indagini firmata dal pm Roberta Licci permette ora di raccontare con maggiore precisione i contorni della vicenda, su cui le ipotesi di reato provvisorie sono corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio. In totale sarebbero stati pagati, a più riprese, circa 600mila euro.
IL REGISTRATORE. A novembre scorso, mentre sta già collaborando con i carabinieri, D’Introno incontra più volte Savasta a Barletta. In tasca ha il telefono di sua moglie e registra le conversazioni che verranno poi consegnate ai militari. Con Savasta parla a lungo della vicenda che riguarda Paolo Tarantini, titolare della Resta Viaggi. D’Introno - spiega - lo conosce perché era un suo vicino di casa, e anche perché la sua agenzia di viaggi di Corato aveva emesso i biglietti per i viaggi chiesti da Nardi cui avrebbe partecipato, una volta, anche un ufficiale della Finanza.
IL MEMORIALE. È proprio per chiarire questa storia che D’Introno redige una memoria consegnata al pm Roberta Licci. «Nel giugno 2014 - si legge nell’atto sottoscritto anche dall’avvocato dell’imprenditore, Vera Guelfi - il dottor Nardi chiese a Tarantini un prestito di 90 mila euro dicendo che ne aveva bisogno perchè stava per separarsi. Il Tarantini aveva aderito a condono fiscale ed a fine ottobre-primi di novembre 2014 ricevette avviso di garanzia per il reato di evasione fiscale e nominò quale proprio difensore l’avvocato Musci e chiese a me di incontrare il dottor Nardi».
«L’EVASIONE FISCALE». «Il Tarantini - prosegue il memoriale - riferì che l’avviso di garanzia era a firma del dottor Antonio Savasta e che egli diede 400 mila euro al dottor Michele Nardi in tre volte. Una di queste volte fu accompagnato da me a consegnare la busta, suppongo con denaro, presso un distributore della Esso carburanti ove telefonicamente Nardi indicò l’auto ove c’erano le persone cui dare la busta ed io riconobbi la sorella del giudice Nardi». Ma non basta. Perché - sempre nel racconto di D’Introno - Tarantini gli riferì di essere stato indotto da Nardi a cambiare avvocato «e di aver dato al dott Antonio Savasta piante per la sua villa, viaggi per le stesso Savasta in Turchia e per il cognato di Savasta signor Savino e 130 mila euro». Ancora, Tarantini mi ha, anche, riferito d’essersi rivolto al dott.Nardi per vincere una causa di lavoro relativa ad un dipendente dell'azienda di trasporti e di aver dato 170mila euro al Nardi ma di aver perso il secondo grado del giudizio. Anche tra agosto e luglio 2013 il Tarantini diede 60 mila euro sempre incontrandosi al bar Duomo con Savasta».
LA PAURA DELL’EX PM. D’Introno scrive il memoriale il 21 novembre. «Ultimamente», aggiunge, «Tarantini (...) mi ha detto di aver incontrato il dott. Antonio Savasta che in relazione all’indagine pendente davanti alla Procura di Lecce doveva strappare tutte le prove dei viaggi da me pagati». Di questa storia D’Introno parla, appunto, con Savasta. «Cioè, quello Tarantini se dice tutto il fatto dei viaggi delle cose sai che merdaio esce!», dice l’imprenditore. «Il merdaio tu non lo devi far... Non conviene... Sto pure io in mezzo», risponde l’ex pm. Savasta (che dopo l’arresto ha deciso di collaborare con gli inquirenti) appare infatti molto spaventato da questa possibilità: «Ma io ho paura di Tarantini. Perché Tarantini è una persona, cioè io l’ho tastata... (...) Ho capito ma travolgerebbe tutti noi (...) e questo non va bene». Tuttavia l’ex pm smentisce di aver preso 400mila euro: «Cioè ma che cosa. Cioè che dice “400 io ho dato per la vicenda mia” quella diciamo delle cartelle esattoriali. Ok. Ma non è così».
LE INDAGINI. D’Introno finora è stato considerato pienamente credibile. Ma per riscontrare anche questa storia, i carabinieri hanno acquisito in Procura a Trani una copia del fascicolo relativo all’evasione fiscale a carico del titolare dell’agenzia di viaggi. Ed hanno ascoltato i due poliziotti, all’epoca in servizio presso il commissariato di Corato e oggi trasferiti, che hanno notificato l’avviso di garanzia all’imprenditore. Ora le indagini dovranno accertare se Nardi e Savasta abbiano percepito quel denaro, se siano davvero intervenuti per aggiustare processi o se, come già accaduto in altri casi passati al vaglio della Procura di Lecce, quello nei confronti di Tarantini sia stato solo millantato credito per spillare centinaia di migliaia di euro.
Giustizia svenduta: altro magistrato nel mirino, si indaga su un albergo e questioni fiscali. Per il Riesame l'ex gip Nardi resta in carcere. Nuovo interrogatorio per l'ex pm Savasta, scrive Massimiliano Scagliarini il 13 febbraio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il tentativo di bloccare un procedimento penale a carico di alcuni imprenditori e di un professionista, accusati di aver «espropriato» i legittimi proprietari della gestione di un importante albergo del Nord Barese. E una serie di procedimenti tributari che sarebbero stati addomesticati in cambio di soldi. Sono due dei filoni su cui si sta concentrando la Procura di Lecce nell’indagine sui magistrati di Trani. Tra le deleghe di indagine che il pm Roberta Licci ha consegnato ai Carabinieri di Barletta, due riguardano proprio questi episodi: dopo l’ex pm Antonio Savasta e l’ex gip Michele Nardi (finiti in carcere a gennaio), gli accertamenti riguarderebbero adesso altri loro colleghi e alcuni commercialisti. Questi ulteriori episodi sono emersi sia dalle dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno, sia da alcuni esposti - molto dettagliati - presentati nel corso degli ultimi mesi. In particolare D’Introno, in una parte del lungo racconto che ha fatto finire nei guai Savasta e Nardi, ha fatto indirettamente riferimento proprio alla vicenda dell’albergo, parlando del professionista in questione e di una perizia che sarebbe stata addomesticata (per favorire il professionista) nell’ambito del procedimento penale innescato da una denuncia presentata a Trani: procedimento inizialmente assegnato a Savasta, che si è astenuto in virtù dei suoi rapporti con questo professionista, e poi approdato a giudizio perché il gip ha disposto l’imputazione coatta dopo due successive richieste di archiviazione formulate da parte del nuovo pm. Dietro ci sarebbe un affare da molti milioni di euro collegato alla gestione dell’importante complesso turistico. Nei giorni scorsi, come la «Gazzetta» ha raccontato ieri, la Procura di Lecce ha fatto notificare una proroga delle indagini per una parte dei fatti oggetto della ordinanza cautelare di gennaio. Su altri le verifiche sono ormai concluse. Altri ancora, però, sono oggetto di valutazione proprio in questi giorni, sia attraverso il riscontro alle dichiarazioni di D’Introno sia di quelle rese, in due distinti interrogatori, da Antonio Savasta. L’ex pm, in carcere a Lecce, avrebbe già concordato altri due interrogatori per chiarire ulteriori circostanze, alcune delle quali lo riguarderebbero personalmente insieme a professionisti molto attivi nel circondario di Trani. Ma nel frattempo la Procura ha già provveduto a iscrivere altri nomi nel registro degli indagati, ipotizzando a vario titolo altri episodi di corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio. Ieri intanto il Tribunale del Riesame di Lecce ha respinto il ricorso presentato da Nardi con gli avvocati Domenico Mariani di Roma e Carlo Di Casola di Napoli. L’ex gip (quando è stato arrestato era pm a Roma) resterà dunque nel carcere di Matera. Secondo l’accusa, Nardi e Savasta (che invece è in carcere a Lecce) avrebbero ottenuto tre milioni di euro, oltre a regali e favori, per addomesticare alcuni procedimenti giudiziari in senso favorevole all’imprenditore D’Introno, e per evitare (il solo Savasta) di coinvolgere in una indagine per evasione fiscale il re degli outlet Luigi D’Agostino. L’inchiesta si sta ora allargando ad altri episodi in cui la giustizia potrebbe essere stata svenduta.
Magistrati arrestati, «Consegnato denaro anche alle sorelle di Nardi e Savasta». Le confessioni di D’Introno. Altro filone di indagine su un concorso a Bisceglie, scrive Massimo Scagliarini l'11 Marzo 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. I soldi delle tangenti finivano anche ai parenti dei magistrati. Decine di migliaia di euro che, nel racconto di Flavio D’Introno, l’imprenditore al centro dell’inchiesta della Procura di Lecce, sarebbero stati consegnati (non solo da lui) alle sorelle dell’ex gip Michele Nardi e dell’ex pm Antonio Savasta. La circostanza emerge dal colloquio del 15 novembre scorso tra D’Introno e Savasta, quello che l’imprenditore registra di nascosto. È una lunga conversazione, da cui è emerso l’incipit della storia che ha innescato alcune delle nuove accuse mosse ai magistrati finiti in carcere: oltre che i soldi di D’Introno, avrebbero ottenuto 600mila euro dal proprietario di una agenzia di viaggi di Corato, Paolo Tarantini, che era finito in una indagine per evasione fiscale aperta da Savasta su cui sono in corso le verifiche della Procura di Lecce. Il 15 novembre, dunque, D’Introno e Savasta parlano di soldi. E della consegna di una parte della tangente di Tarantini, che sarebbe avvenuta alla presenza di D’Introno. Ed emerge che la stessa cosa avrebbe fatto la sorella di Savasta.
D’INTRONO: «Ho capito, però quando venne la sorella di Nardi, alla stazione alla Esso a Corato, stava la sorella di Nardi che si è presa i soldi, eeee da me che vuole».
SAVASTA: «La sorella di Nardi? Pure quella?».
D: «Pure quella. Eh quella si è presa i soldi. A voi non so quanto arrivò, quaranta, cinquanta. Quanto vi arrivò?».
S: «Io non ho mai avuto niente!».
D: «No vabbè. Vostra sorella».
S: «Quella volta li. Eh!».
D: «Ebbe cinquantamila euro. Quaranta».
S: «Io finanziavo anche a loro. Vabbè».
D: «Per?».
S: «Per problemi loro. Però vabbè».
D: «Nooo, vostra sorella».
S: «Ehi sì sì».
D: «Che ve li diede a voi».
S: «non me li dette a me, vabbè comunque non è un problema».
D: «vabbè comunque alla fine li avete avuti, cioè che poi in famiglia non so cosa avete fatto».
S: «va bene, va bene».
D: «cioè, sempre soldi avete avuto, cioè non è che voi non avete avuto niente».
S: «Certo. Certo».
È un confronto drammatico. D’Introno si lamenta per essere stato «messo sotto» dall’ex gip Michele Nardi, di aver dilapidato un tesoretto da due milioni di euro per pagare tangenti, tanto da non avere più i soldi per fare la spesa. A un certo punto Savasta consegna all’imprenditore 1.800 euro, promettendogli di portarne altri 5mila il venerdì successivo. Soldi che sarebbero dovuti servire a permettere a D’Introno di scappare dall’Italia, trasferendosi alle Seychelles per evitare l’arresto dopo la sentenza di Cassazione. A quel punto il magistrato gli dice di dargli del «tu». E si sfoga: «Quando io... quando io ho avuto bisogno di te tu hai fatto solo un errore permettimi nei rapporti tra di noi... Non dovevi mettere in mezzo Tarantini».
D’INTRONO: «Nardi si è fatto i viaggi da tarantini e quindi aveva capito la sua capacità economica. Ebbe un prestito da 90mila euro da Tarantini che non ha mai restituito si è fatto i viaggi gli ha frecato i soldi ha fatto la causa del lavoro ha... cioè io che devo... Nardi a me mi teneva sotto io che devo fare?».
SAVASTA: «Però tu tutto questo me lo dovevi dire in tempi precedenti...».
IL CONCORSO TRUCCATO. Oltre alla vicenda Tarantini, le intercettazioni hanno consentito ai carabinieri di segnalare alla Procura di Lecce altre due ipotesi di reato che riguardano Nardi: un possibile concorso truccato al Comune di Bisceglie e un investimento che l’ex gip avrebbe fatto con persone dal profilo molto dubbio.
La storia del concorso è raccontata in una informativa del 2016. Il 29 aprile 2016 Nardi chiama l’allora sindaco Francesco Spina per prendere un appuntamento. Un pranzo che, annotano i militari, «assume particolare valenza indiziaria se correlato alle evidenze maturate», cioè ai contatti tra il magistrato e la sua amica Grazia D’Agostino, avvocato che aveva partecipato a un concorso ed era stata assunta ma poi era arrivato un ricorso. «La donna riferisce che appena le è arrivato il ricorso lei ha subito informato Spina e che... siccome non gli risponde al telefono appena gli arrivò il messaggio mi rispose immediatamente». Fatto sta che dopo il pranzo con Spina, Nardi chiama la D’Agostino: «Questa (la donna, ndr) riferisce di aver parlato con quelli ed il Comune adotterà la linea favorevole a lei». I carabinieri parlano di «anomale procedure di assunzione della stessa D’Agostino presso l’avvocatura del Comune di Bisceglie, “agevolate” probabilmente proprio grazie all’intervento del Nardi favorito in tal senso dal sindaco Spina in prima persona». «Appare sintomatico - scrivono i militari - l’interesse del Nardi nell’apprendere la notizia che la donna sia stata assunta appunto dal Comune di Bisceglie: “Mi hanno messo all’avvocatura (incomprensibile)... pattuito nel frattempo... e ti dirò non mi dispiace, anzi...”. Nardi risponde testualmente: “Perfetto, va benissimo, questo volevo sapere”».
LA RICHIESTA. Antonio Savasta, sospeso come il suo collega dallo stipendio e dalle funzioni, ha presentato le dimissioni dall’ordine giudiziario. Contemporaneamente, tramite i suoi legali, ha chiesto di poter lasciare il carcere di Lecce dove è detenuto dal 14 gennaio per andare ai domiciliari. Il gip Giovanni Gallo dovrebbe esprimersi oggi. Nelle ultime settimane Savasta ha parlato a lungo con il procuratore Leonardo Leone De Castris e la pm Roberta Licci, fornendo anche riscontri rispetto ad alcune vicende ancora oggetto di indagine. Nardi è invece detenuto nel carcere di Taranto e fino ad ora sembrerebbe aver scelto la strada del silenzio.
Indagini sui giudici di Trani, scintille in aula, Nardi: «D’Introno mente». L’imprenditore a confronto con l’ex gip. Un avvocato si sente male a Lecce. Massimiliano Scagliarini il 29 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Oltre otto ore di udienza non sono bastate a completare il controesame di Flavio D’Introno, finora il principale accusatore degli ex magistrati di Trani coinvolti nell’inchiesta sulla giustizia truccata. È stato anzi necessario sospendere l’incidente probatorio per un leggero malore che ha colpito l’avvocato dell’ex gip Michele Nardi, Domenico Mariani: è dovuta intervenire una ambulanza del 118. Il confronto davanti al gip di Lecce, Giovanni Gallo, riprenderà dunque giovedì 6, sempre con il fuoco di fila delle domande all’imprenditore di Corato che ha raccontato di aver dato più di due milioni di euro a Nardi e agli ex pm Savasta e Scimè. Ma proprio la difesa di Nardi ha cominciato il tentativo di minare la ricostruzione di D’Introno. Ad esempio depositando i tracciati gps della Bmw in uso all’ex gip, che da gennaio si trova in carcere con le accuse di associazione per delinquere finalizzate alla corruzione. D’Introno aveva infatti raccontato così la consegna di 200mila euro da parte di un altro imprenditore, Paolo Tarantino, destinatario di una «stangata» da parte della banda dei giudici (una falsa indagine per reati fiscali: «La prima tranche viene fatta sempre di sera alla Esso tra Trani e Corato, sempre luoghi concordati con il dottor Nardi. In pratica c'era questa Bmw X3 che io sapevo che era di Nardi dove però a attenderci - stavo sempre con il signor Tarantini - c'era la sorella del dottor Nardi». Ricostruzione che la difesa dell’ex gip (quando è stato arrestato era pm a Roma) ha però contestato, provando a dimostrare che l’auto era altrove. A D’Introno è stato chiesto anche come mai non stia scontando la condanna definitiva per usura, quella che ha tentato di evitare pagando i giudici: «Al momento - ha risposto l’imprenditore - non mi è stato notificato il provvedimento di esecuzione». Ma proprio a proposito della «stangata» a Tarantini, D’Introno ha raccontato di non sapere che l’indagine era stata inventata. «Io sapevo - ha detto nella precedente udienza, rispondendo alle domande della pm Roberta Licci - che era un procedimento che esisteva, tant’è vero che lo diciamo anche nei colloqui registrati. Infatti io pensavo, a detta dei magistrati, che il signor Tarantini aveva fatto circa 3 milioni di euro di evasione fiscale e che, quindi, con ciò che aveva dato era andato bene». Insomma, secondo D’Introno, i 400mila euro che Tarantini avrebbe consegnato in contanti a Nardi e Savasta erano un prezzo congruo per evitare un’accusa del genere. Ma l’imprenditore dice di aver saputo solo ultimamente che l’indagine non esisteva: «Quando ha appreso che quel procedimento a carico di Tarantini non era mai stato iscritto?», gli ha chiesto la pm. «Certe volte - ha risposto Tarantini - sono usciti degli articoli sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Parlano sempre di queste storie di Lecce». D’Introno ha parlato anche del ruolo di Vincenzo Di Chiaro, l’ispettore di polizia finito in carcere che - secondo l’accusa - sarebbe stato il braccio operativo di Nardi e Savasta nella costruzione di falsi fascicoli di indagine. Anche Di Chiaro (che sarà il prossimo a essere interrogato nell’incidente probatorio) avrebbe percepito denaro proprio in cambio degli atti di polizia giudiziaria poi confluiti nei falsi fascicoli: «A livello di pretese di denaro all’incirca 70 mila euro. Venivo messo al corrente sia dal dottore Savasta che dal dottor Nardi di tutte queste attestazioni che l’ispettore Di Chiaro aveva fatto». La Procura ha contestato a D’Introno di aver dato una versione diversa in un interrogatorio precedente: l’imprenditore ha spiegato che questo avvenne perché nell’estate 2018 sarebbe stato convocato dall’ex dirigente del commissariato di Corato (nel frattempo rimosso dall’incarico). «Mi disse a chiare note “mi raccomando a quello che dici di Di Chiaro altrimenti ti applico la sorveglianza speciale”». L’incidente probatorio serve a cristallizzare le dichiarazioni rese da D’Introno, Di Chiaro e dallo stesso Savasta, anche per chiarire le numerose incongruenze emerse a proposito dei vari episodi di consegna del denaro: Savasta, ad esempio, ammette solo una piccola parte delle somme, mentre Scimè respinge interamente ogni addebito. Nel frattempo però le indagini della Procura di Lecce vanno avanti, con l’esame di altri episodi ed altre posizioni tra cui quella di un quarto magistrato, chiamato in causa da D’Introno in relazione ad alcuni contenziosi in sede tributaria che potrebbero essere stati truccati. D’Introno ha consegnato alla Procura le copie di queste sentenze.
Magistrati arrestati: scoperto il «tesoro» di Savasta: 22 case e 12 terreni. Oltre agli immobili intestati a lui (anche con i fratelli), ci sono quelli della moglie (non indagata). I versamenti sui conti, scrive Massimiliano Scagliarini il 19 Marzo 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’ex pm del Tribunale di Trani Antonio Savasta, arrestato per corruzione il 14 gennaio scorso dalla magistratura salentina assieme al collega ex gip tranese Michele Nardi, viene nuovamente interrogato stamani nel carcere di Lecce dal pubblico ministero salentino Roberta Licci. Il tesoro di Antonio Savasta, l’ormai ex pm arrestato il 14 gennaio per corruzione in atti giudiziari, potrebbe essere nascosto nel mattone. La vecchia regola dei tempi di Giovanni Falcone («segui i soldi») potrebbe risultare decisiva anche nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla giustizia svenduta nel Tribunale di Trani, inchiesta che ha finora fatto finire in carcere anche l’ex gip Michele Nardi e che nelle ultime settimane si sta allargando con l’esame di numerosi altri fascicoli. L’ipotesi è sempre la stessa: sentenze e indagini potrebbero essere state truccate in cambio di soldi. E Savasta, che nell’ultimo mese ha assunto un atteggiamento di collaborazione (dopo aver parlato a lungo ha presentato le dimissioni dall’ordine giudiziario, preludio a una richiesta di scarcerazione) potrebbe aver utilizzato i soldi per accumulare un enorme patrimonio: risulta infatti proprietario (da solo o insieme ai familiari) di 22 unità immobiliari e di 12 terreni nella provincia di Bari, cui si aggiungono altre 8 unità immobiliari (più un terreno) intestati alla moglie dell’ex pm (che non risulta indagata). A scattare la fotografia del patrimonio di Savasta è stata la Finanza di Firenze, nell’ambito di una inchiesta (quella sui presunti favori all’imprenditore barlettano Luigi D’Agostino) poi trasferita per competenza a Lecce quando sono emersi gli elementi a carico del magistrato in servizio a Trani. Dal 2015 al 2017, gli anni in cui si sono svolti i fatti contestati nella prima parte dell’inchiesta, Savasta ha dichiarato redditi oscillanti tra i 130 e i 140mila euro, più alti rispetto al solo stipendio di magistrato (in quegli anni circa 110mila euro lordi). La differenza è fatta, appunto, dai redditi di locazione. Ma nel mirino dei militari sono finiti i numerosi bonifici e versamenti sui conti del magistrato, che - solo per fare un esempio - da gennaio a marzo 2018 ha versato assegni per 81mila euro ed ha ricevuto bonifici per oltre 21mila euro. Il quadro complessivo, molto complesso, mostra un elevato numero di operazioni finanziarie (spesso con i parenti), ma anche di operazioni immobiliari effettuate direttamente da lui o dalla moglie. Savasta risulta ad esempio aver effettuato un investimento in un immobile turistico nella zona di Polignano a Mare. L’analisi delle risultanze patrimoniali potrà essere un valido elemento di riscontro delle accuse oggi al vaglio della Procura di Lecce. Oltre a quelle di Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che con le sue «confessioni» è stato determinante per l’arresto dei due magistrati (cui ha detto di aver corrisposto negli anni 3 milioni di euro), ci sono numerosi altri casi: ad esempio l’altro imprenditore Paolo Tarantini, di Corato, la cui posizione è all’esame in questi giorni. Ma c’è anche il «re del grano», Francesco Casillo, arrestato nel 2006 su richiesta di Savasta (accolta dal gip Nardi) per lo scandalo del grano all’ocratossina: una inchiesta che nacque dalla denuncia di un esponente della Coldiretti di Spinazzola e si concluse il 4 luglio 2012 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Casillo è stato ascoltato alcune settimane fa dalla pm Roberta Licci. Le sue parole, e la sua stessa posizione, sono adesso in corso di esame. Ieri l’imprenditore ha fornito la sua versione della storia a «Repubblica», raccontando di aver pagato «550mila euro per uscire dal carcere» tramite un intermediario. Oltre a lui, Savasta fece arrestare anche i fratelli Beniamino, Pasquale e Cardenia nell’ambito dell’inchiesta «Apocalisse» sul presunto spietramento della Murgia. L’intermediario avrebbe chiesto ad un amico di famiglia «un milione di euro per risolvere la questione. Promettendo di farlo immediatamente» e alla richiesta di «una prova che, effettivamente, se avessimo pagato saremmo usciti di galera», Francesco Casillo ha raccontato che «mia sorella, incredibilmente, dopo poche ore dal suo arresto fu scarcerata». La storia, come detto, è ora al vaglio. Ma agli atti dell’inchiesta di Lecce c’è una strana intercettazione ambientale del 1° luglio 2016 in cui Nardi parla in macchina da solo. I carabinieri l’anno considerata «un importante spunto investigativo poiché dalle sue parole traspare, in maniera incontrovertibile, la legittimazione dell’operato del pm Antonio Savasta, nonostante al vicenda Casillo si è conclusa con l’assoluzione del re del grano coratino»: «Casillo è meglio che sta zitto perché il vero scandalo è quando Casillo è stato assolto, e no che è stato messo in galera ed è stato assolto da un collegio» in cui, secondo Nardi, uno dei giudici (non indagato e non coinvolto in alcun modo») aveva la moglie che lavorava per Casillo. «Le tangenti saranno state pagate sì - è la conclusione del monologo di Nardi - ma per essere assolto, non certo per essere messo in galera». A novembre 2015 Savasta concluse la requisitoria a carico di Francesco Casillo chiedendo 4 anni di carcere, dopo che a novembre 2008 aveva dato il suo assenso a un patteggiamento che avrebbe comportato solo una multa: l’istanza fu però rigettata dal Tribunale perché ritenuta incongrua.
Giustizia svenduta, il re del grano: «mi chiesero un milione per uscire dal carcere». Poi fu assolto. Nel 2006 l'allora pm Savasta ottenere dal gip Nardi l'arresto dell'imprenditore e dei suoi fratelli: furono tutti assolti. Massimiliano Scagliarini il 31 Luglio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un avvocato che «costava un milione di euro». Cioè 250mila euro per ciascuno dei quattro fratelli Casillo, finiti in carcere nel 2006 per la vicenda del grano contaminato dall’ocratossina. Una indagine enorme, condotta dall’ex pm di Trani Antonio Savasta e in cui gli arresti erano stati disposti dall’ex gip Michele Nardi, e conclusa sei anni dopo con l’assoluzione piena. Anche questa storia è finita tra le carte dell’inchiesta di Lecce su Nardi e Savasta. A raccontarla, in un verbale di febbraio, è Francesco Casillo, il re del grano, che ha ammesso di aver pagato non meno di 400mila euro per uscire dal carcere insieme ai suoi fratelli. E ha giurato di averlo saputo solo a cose fatte.
«ABBIAMO PAGATO». «Proprio mentre si celebrava l’udienza - è il racconto di Francesco Casillo -, chiesi a Savasta se non fosse opportuno chiedere direttamente l’assoluzione e lui non rispose. La stessa mia perplessità la esternai a mio fratello Pasquale il quale, letteralmente sorprendendomi, mi disse testualmente che Savasta non avrebbe mai potuto chiedere la mia assoluzione perché in precedenza vi era stata una richiesta di denaro da parte sua, alla quale la mia famiglia era stata costretta ad aderire». La storia non ha portato a imputazioni di alcun tipo nei confronti delle persone coinvolte, ma viene ritenuta veritiera. Essendo passati più di 10 anni, gli eventuali reati sarebbero infatti prescritti. La Procura di Lecce ha tuttavia ritenuto i fatti interessanti per provare il «clima» del Tribunale di Trani, dove - in base alle numerose denunce ricevute dopo l’arresto di Nardi e Savasta - altre persone avrebbero detto di aver pagato per risolvere problemi giudiziari.
«I DUE AVVOCATI». Francesco Casillo venne arrestato il 10 gennaio 2006 per il grano contaminato, e il giorno successivo riceve una seconda ordinanza di custodia cautelare per lo spietramento della Murgia (il processo si è chiuso in primo grado con la prescrizione). «Mentre ero in carcere, immediatamente dopo il mio arresto - mette a verbale Francesco Casillo davanti ai carabinieri -, Enzo Perrone venne avvicinato da Antonio Longo, capo di una cooperativa di vigilanza privata e che per quanto mi è dato a sapere era molto amico di Savasta e Nardi. Costui anticipò al Perrone che il giorno seguente sarebbero stati arrestati tutti gli altri miei fratelli e gli suggerì di rivolgersi immediatamente agli avvocati Miranda Vincenzo di Trani e Domenico Tandoi di Corato i quali avevano rapporti con i due predetti magistrati». Casillo racconta che il giorno successivo i suoi fratelli vennero effettivamente arrestati: «Mi ha riferito Perrone che lui si recò subito da Miranda, a distanza di qualche ora dalle misure restrittive, e chiese come doveva comportarsi. Miranda gli rispose che lui costava un milione di euro e Enzo non intuì subito a cosa si riferisse. Alle sue legittime richieste di chiarimenti, Miranda affermò che erano necessari 250mila euro a fratello aggiungendo che il suo potere contrattuale gli avrebbe consentito di dare a breve un segnale, ovvero la liberazione di mia sorella che poi in effetti è avvenuta. Enzo, alle richieste del Miranda, contattò subito mio padre con il quale reperì la cifra di 400mila euro che consegnò in diverse tranche ed in diversi momenti al Miranda. Queste ultime circostanze naturalmente le ho apprese direttamente da Enzo Perrone che, con non poche difficoltà, me le ha raccontate».
L’AMICO DI FAMIGLIA. I carabinieri di Barletta hanno sentito anche Enzo, al secolo Vincenzo Perrone, 46 anni, figlio dell’ex senatore Luigi Perrone. L’imprenditore ha sostanzialmente confermato la storia aggiungendo particolari agghiaccianti. Dopo l’arresto di Pasquale, dice, «chiamai telefonicamente Miranda. Una volta incontratolo gli chiesi come dovevo comportarmi e lui per tutta risposta mi disse che il suo onorario costava un milione di euro che, sostanzialmente, corrispondevano a 250mila euro a fratello. Mi disse proprio così». Perrone a quel punto gira la richiesta a Vincenzo Casillo, padre dei fratelli, e apre una mediazione con l’avvocato, chiedendo un «segnale»: «Lui (l’avvocato, ndr) mi rispose che trovava il modo per far scarcerare Cardenia, dandoci così un segnale su quanto era in grado di fare. In effetti Casillo Cardenia venne scarcerata di li a qualche ora e la mattina dopo mi recai nuovamente dal Miranda al quale consegnai una importante cifra di denaro che avevo ricevuto poco prima da Vincenzo e che ora non ricordo a quanto ammontasse, rassicurandolo sul fatto che stavamo recuperando gli altri soldi. Il denaro era custodito in una busta di carta chiusa ed erano parecchie migliaia di euro, non so dirvi esattamente quanti». «La mattina del giorno 11 gennaio 2006 - prosegue il racconto di Enzo Perrone - ho consegnato l’altro denaro a Miranda ed il pomeriggio dello stesso giorno sono stati scarcerati sia Pasquale che Beniamino che furono ammessi agli arresti domiciliari per altre due settimane se non ricordo male. (...) Vincenzo Casillo si impegnò e riuscì a recuperare la cifra di 400mila euro che ho recapitato in diverse tranche e nel giro di una decina di giorni al Miranda. L’ultima tranche l’ho versata il giorno prima che venisse scarcerato Francesco. Miranda si lamentò perché non stavamo mantenendo i patti ed io riferii che non avevo più la possibilità di accontentarlo per quanto riferitomi dal Vincenzo Casillo. Il giorno in cui Francesco è uscito, siamo andati a prenderlo io Beniamino e Pasquale e dopo essere rimasto vicino a loro ancora una decina di giorni dopo mi sono dedicato alla mia attività. So per certo che Pasquale Casillo ha corrisposto in seguito, sia all’avvocato Miranda che al Tandoi, la cifra di 75mila cadauno a titolo di onorario dagli stessi legali richiesti. Mi consta che sia stata anche emessa fattura da parte dei due avvocati».
«400MILA EURO». «Sostanzialmente - è la chiosa di Francesco Casillo - io sono rimasto recluso il tempo necessario a mio padre ed a Enzo Perrone di reperire e recapitare la cifra di 400mila euro al Miranda. Da mio fratello Pasquale ho saputo solo che abbiamo pagato e non ha aggiunto altro, anche per non aprire una ferita che ha segnato indelebilmente la nostra esistenza». La vicenda era già nota, per essere stata raccontata dallo stesso Casillo in una intervista a «Repubblica». Ma davanti ai carabinieri, il re del grano aggiunge un altro tassello al racconto: Savasta gli avrebbe imposto di chiedere il patteggiamento (poi respinto dal gip). «Se non avessi richiesto il patteggiamento, lui avrebbe chiamato tutte le banche per far chiudere i conti alle nostre aziende, avrebbe chiamato il Gico della Gdf per far controllare la nostra azienda e farla rivoltare come un calzino e (...) avrebbe aggiunto altri capi di imputazione in modo da celebrare il processo in corte d’Assise». E non basta. Francesco Casillo racconta ancora che «prima dell’inizio dell’udienza preliminare fui avvicinato da D’Introno Vincenzo padre di Flavio d’Introno. Costui mi venne a trovare in azienda e dopo esserci appartati, mi disse che potevo risolvere il mio processo "pagando" grazie alla sua intercessione. Lo minacciai che se avesse continuato a chiedermi una cosa del genere l’avrei fatto arrestare».
Trani, magistrati arrestati, imprenditore denuncia: «Pagai per la libertà». Francesco Casillo ha raccontato di aver pagato attraverso un intermediario i due magistrati che avevano fatto arrestare lui e i suoi tre fratelli, scrive il 18 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Un imprenditore pugliese, Francesco Casillo, aggiunge un nuovo tassello all’inchiesta della procura di Lecce che ha portato in carcere i due ex magistrati di Trani Michele Nardi e Antonio Savasta, accusati di corruzione in atti giudiziari. Secondo quanto riferisce Repubblica, Casillo nei giorni scorsi ha raccontato alla procura di Lecce di aver pagato attraverso un intermediario i due magistrati che avevano fatto arrestare lui e i suoi tre fratelli nell’ambito di alcune indagini sulla loro attività imprenditoriale. Casillo - secondo quanto riferisce lo stesso imprenditore in una intervista al quotidiano - avrebbe pagato complessivamente 550mila euro ottenendo, ad ogni versamento, la scarcerazione di un fratello. Casillo grosso importatore di grano, era stato arrestato nel 2006 nell’ambito di una indagine condotta da Savasta (Nardi era il gip che convalidò l’arresto) con l’accusa di aver comprato grano contaminato da sostanze cancerogene. La vicenda ebbe una risonanza nazionale e l’imprenditore fu poi assolto dalle accuse nel processo. I suoi fratelli furono arrestati per un’altra inchiesta, riguardante alcuni terreni sequestrati per reati ambientali. L’imprenditore ricorda che, dopo il sequestro dei terreni, fu avvicinato da una persona legata ai due magistrati che gli suggerì di nominare un determinato avvocato, ma lui rifiutò. Successivamente la procura di Trani fece sequestrare un carico di grano che Casillo e altri sei imprenditori avevano comprato dal Canada, ritenendolo tossico. "Un mio collega - sottolinea l’imprenditore - mi disse 'ce l'hanno con te. Ti conviene andare da questo avvocatò». Dopo qualche giorno Casillo fu arrestato e il pomeriggio, ricorda l'imprenditore, un amico di famiglia fu avvicinato da «emissari dei magistrati che - racconta Casillo - gli dicono: domani arresteranno i due fratelli e la sorella di Francesco Casillo per un’altra inchiesta, quella sui terreni». L’indicazione è sempre la stessa, «Andate da questi due avvocati». Il giorno dopo, infatti - racconta ancora l’imprenditore - i tre fratelli furono arrestati e l’amico di famiglia corse da uno dei legali indicati il quale gli disse: «Costo un milione di euro: 250mila a fratello». Casillo spiega che il legale non disse mai chiaramente che i soldi sarebbero arrivati ai due magistrati. L’amico di famiglia, allora, chiese una prova che, pagando, gli arrestati sarebbero stati liberati. «Come in un sequestro», spiega l’imprenditore ricordando che sua sorella, dopo poche ore dall’arresto, fu scarcerata. Alla fine, secondo quanto riferito da Casillo, fu contrattato il pagamento di 400mila euro a nero, più 150mila euro fatturati. "E a ogni versamento, dopo poche ore - conclude l’imprenditore - tiravano fuori un fratello». Quando si andò avanti col procedimento penale, Casillo racconta che il suo avvocato (che non sapeva niente del pregresso), gli disse che Savasta gli aveva suggerito di chiedere il patteggiamento. «Io ero innocente - racconta Casillo - rischiavo 12 anni di carcere ma firmai un patteggiamento per 3mila euro di multa». «Savasta tenne l'accordo nel cassetto per due anni, ma poi il giudice lo rifiutò: se davvero avevo avvelenato mezzo paese, scrisse il magistrato, come potevo cavarmela così?». Quindi si celebrò il processo ordinario e Casillo venne assolto.
Giuliano Foschini per ''la Repubblica'' il 18 marzo 2019. Nel gennaio del 2006 questo signore, Francesco Casillo, uno dei più importanti importatori di grano del mondo, finì in galera con un' accusa orrenda: «Ha comprato grano cancerogeno. E ora tutta la pasta italiana è a rischio» titolarono tutti i giornali e le tv italiane. Quelle accuse si sono poi rilevate infondate, visto che Casillo è stato assolto in un normale processo. Dietro questa storia ce n' è però un' altra, che non è mai stata raccontata fino a oggi. E che Casillo ha messo a verbale nelle scorse settimane davanti alla procura di Lecce. I magistrati che condussero quell' indagine erano il pm Antonio Savasta e il gip Michele Nardi, oggi in galera con l' accusa di corruzione in atti giudiziari. «E io e la mia famiglia - racconta oggi Casillo - abbiamo pagato, attraverso un loro intermediario, 550mila euro per uscire dal carcere». La procura di Lecce ha subito effettuato i primi riscontri al racconto di Casillo. I reati sono prescritti. Ma la testimonianza dell' imprenditore serve a rafforzare l' accusa di associazione a delinquere che viene contesta ai due magistrati.
Casillo, cominciamo dall' inizio. «Mi arriva il provvedimento di un sequestro di alcuni terreni per reati ambientali. Vengo avvicinato da una persona vicina ai due magistrati e mi dice: ti conviene nominare questo avvocato. Io lo mando a quel paese».
Poi che accade?
«Scoppia una polemica per un carico di grano canadese che io e altri sei imprenditori avevamo acquistato dal Canada. Per la procura di Trani è tossico. Noi l' avevamo comprato dal governo canadese, ero certo fosse tutto in regola. Comunque sequestrano la nave, addirittura arrestano i tecnici dei due centri analisi. Noi imprenditori ci riuniamo nello studio di un importante avvocato e un mio collega mi dice: "Ce l' hanno con te. Ti conviene andare da questo avvocato". Capisco che sto finendo in un brutto gioco, ma lascio cadere. Dopo qualche giorno mi arrestano, unico tra gli imprenditori».
Sulla bontà di quel carico di grano ci sono pareri contrastanti. Ci sono state anomalie nel campionamento.
«Non scherziamo. Il grano era buonissimo. Comunque, io sono in galera e fuori accadono delle cose.Quel pomeriggio un amico di famiglia viene avvicinato da emissari dei magistrati. Gli dicono: domani arresteranno i due fratelli e la sorella di Francesco Casillo per un' altra inchiesta, quella sui terreni. La storia è la stessa: "Andate da questi due avvocati". E fanno loro il nome di due legali poco noti ma amici dei due».
Chi sono gli avvocati?
«I nomi sono nei verbali della procura di Lecce».
Poi che accade?
«La mattina dopo, come annunciato, vengono arrestati mia sorella e i miei due fratelli. In carcere. L' amico di famiglia corre da uno dei legali che erano stati indicati per chiedere il da farsi. Quello dice: "Costo un milione di euro, 250mila a fratello"».
Che significa?
«Chiese un milione di euro per risolvere la questione. Promettendo di poterlo fare immediatamente. Aggiunse una cosa: "Questa cosa non deve saperla Francesco", cioè io. Temevano che avrei potuto rovesciare il tavolo».
Disse che quei soldi sarebbero arrivati ai magistrati?
«Da quel che so, mai chiaramente. Ma il sottotesto era chiaro. Anche perché poi accadde qualcosa».
Cosa?
«L' amico di famiglia chiese una prova che, effettivamente, se avessimo pagato saremmo usciti di galera».
Come in un sequestro.
«Come in un sequestro. E mia sorella, incredibilmente, dopo poche ore dal suo arresto fu scarcerata».
Gli altri?
«Contrattarono il pagamento di 400mila euro a nero. Più 150mila euro fatturati. A ogni versamento, dopo poche ore, tiravano fuori un fratello. Uscì anche io».
Le dissero quello che stava succedendo?
«No, l' ho saputo dopo l' assoluzione».
L' hanno comunque portata a processo.
«Il mio avvocato, che nulla sapeva di questa storia, mi disse: "Savasta dice che dobbiamo patteggiare. Altrimenti ti fa chiudere i rubinetti dalle banche e ti manda la Finanza in azienda". Ero certo di essere innocente. Ma i miei fratelli, che sapevano cosa era accaduto, insistettero per chiudere la cosa. Firmai un patteggiamento: rischiavo 12 anni di carcere, chiusi a 3mila euro di multa. Savasta tenne l' accordo due anni nel cassetto. Poi la mandò al giudice per la ratifica. Ma gli tornò indietro: se davvero avevo avvelenato mezzo paese, scrisse giustamente il magistrato, come potevo cavarmela così?».
Quindi?
«Abbiamo fatto regolarmente il processo e sono stato assolto».
Perché ha deciso di denunciare? Ormai per lei era un capitolo chiuso.
«È una ferita che non si chiuderà mai. Ma era giusto che tutti sapessero. Non deve accadere più».
Magistrati arrestati a Trani, i fratelli Ferri: «Ci chiesero 4mln per fermare indagini». Nel 2003 il crac del gruppo, che fatturava 400 milioni di euro. Massimiliano Scagliarini l'1 Agosto 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Ci hanno distrutto, aggredendo anche i nostri beni patrimoniali e lasciando in mezzo alla strada oltre tremila persone e distruggendo una azienda che fatturava 400 milioni di euro l’anno». Nel 2003 il gruppo Ferri aveva 400 negozi. Sedici anni dopo, la Cassazione ha chiuso con la prescrizione il processo per bancarotta a carico dei fratelli di Corato che, solo oggi, hanno denunciato di aver subito una estorsione: un avvocato, lo stesso di cui ha parlato anche il re del grano Francesco Casillo, avrebbe chiesto 4 milioni di euro per salvarli dall’indagine condotta dall’allora pm di Trani, Antonio Savasta, e dagli arresti e dalle altre misure cautelari disposte dall’allora gip Michele Nardi. Così come la denuncia di Francesco Casillo, che ha parlato di un milione di euro versati per far chiudere l’inchiesta di Savasta sul grano contaminato, anche quella dei fratelli Ferri è finita agli atti dell’indagine della Procura di Lecce sulla giustizia truccata nel Tribunale di Trani. Anche le accuse dei Ferri, così come quelle di Casillo, risalgono al 2003 e sono ormai prescritte. Ma mentre il re del grano fu assolto, le accuse di bancarotta ai Ferri sono cadute solo per il troppo tempo trascorso. Ma nel fascicolo che i carabinieri di Barletta hanno trasmesso ad aprile alla procuratore Leonardo Leone de Castris c’è qualcosa in più: una denuncia presentata cinque anni fa dalla gip Maria Grazia Caserta, che segnalava possibili irregolarità da parte di Nardi nella gestione dei compensi ai commissari giudiziali del gruppo Ferri. Una denuncia mai presa in considerazione.
«VERRETE ARRESTATI». L’indagine nacque sulla scorta delle denunce di alcuni dei gestori dei punti vendita del gruppo Ferri. Il resto lo racconta, ai carabinieri, Francesco Ferri. «Una sera dell'ottobre 2003 fui chiamato da mio fratello Filippo che mi chiese di parlarmi urgentemente. Mi raggiunse a casa ed era in compagnia del geometra Attilio de Palma, mi rappresentarono entrambi che per sistemare la crisi aziendale che si stava creando, bisognava rivolgersi all'avvocato Miranda che conosceva bene sia Michele Nardi che Antonio Savasta rispettivamente Gip e pubblico ministero del procedimento penale che riguardava la nostra azienda. L'Attilio de Palma disse subito che per sistemare la situazione erano occorrenti 4 milioni di euro da consegnare al Miranda che a sua volta li avrebbe recapitati ai due magistrati Nardi e Savasta». Ferri dice di aver convocato i fratelli Riccardo e Antonio. «Con loro abbiamo stabilito che avremmo dato un acconto essendo una cifra richiesta esorbitante. Concordammo di versare una prima tranche di 500mila euro e della consegna materiale se ne sarebbe occupato Filippo che aveva rapporti diretti con Miranda». Francesco Ferri sostiene che l’avvocato Miranda «ci fece vedere alcuni provvedimenti restrittivi che riguardavano la nostra famiglia che sarebbero stati eseguiti di lì a breve», come effettivamente avvenne. «L'incontro con Miranda avvenne nel novembre 2003 mentre i primi di dicembre furono eseguiti i primi provvedimenti restrittivi che riguardavano tutta la nostra famiglia. Subito dopo le misure restrittive Miranda ci ha riconvocato e ha detto che erano pronte altre misure più severe che sarebbero andate in esecuzione di li a poco se non avessimo ottemperato alla richiesta di danaro».
«BASTA L’ANTICIPO». Il racconto è confermato anche da Filippo Ferri, che parla dei 4 milioni chiesti da Miranda «per poter salvare l'azienda e far cessare la pressione investigativa da parte dei due magistrati e di conseguenza delle forze dell'ordine», e delle misure cautelari che gli sono state mostrate in anteprima dall’avvocato: «In quel frangente reiterò la richiesta di denaro sostenendo che per calmierare i due magistrati si sarebbe accontentato di una tranche di 500mila euro». Qui però le versioni divergono. «Racimolai la cifra di 215mila euro che aggiunti alla somma di circa 60/80mila euro, non ricordo con precisione, che mi diede mio fratello Antonio, li ho consegnati al Miranda presso il suo studio di Trani».
«DATECI IL TFR». Filippo Ferri racconta ancora che l’avvocato Miranda aveva messo gli occhi sul Tfr degli amministratori del gruppo. «Ci disse che per assicurare la cifra richiesta in origine, cioè i 4 milioni di euro, dovevamo incassare i premi assicurativi, che ammontavano a circa un milione e mezzo di euro e dovevamo consegnarglieli». Il tentativo non va in porto, perché la compagnia rifiuta di liquidare le polizze. Ma questo, sempre secondo Ferri, non placò le richieste. «Fui costretto ad permutare una mia autovettura, una Passat all'epoca di recente immatricolazione e del valore 15mila euro, per consentire al Miranda di acquistare una nuova autovettura».
TV AL PLASMA, CELLULARI, SPREMIAGRUMI: I REGALI AI DUE MAGISTRATI - Un televisore 3D da 60 pollici da 974 euro, un plasma da 64 pollici da 1.433 euro. E poi kit per surround, un paio di cellulari Galaxy S4, alcuni iPhone 5, e ancora climatizzatori, computer portatili, due lavatrici, un aspirapolvere senza fili, un frigorifero americano doppia porta da 1.228 euro, uno spremilimoni... Una marea di oggetti di elettronica, tutti pagati comprati nel 2013 in un negozio Trony e pagati dall’imprenditore di Corato, Paolo Tarantini, così come le piante (8.140 euro) comprate in un vivaio di Ruvo. Sono, secondo l’accusa, i regali che Tarantini avrebbe fatto (l’elettronica) all’ex gip Michele Nardi e (le piante) all’ex pm Antonio Savasta. Le fatture, raccolte dai carabinieri di Barletta, figurano tra gli atti dell’inchiesta messi a disposizione delle difese. L’imprenditore Tarantini, che in questa storia è parte offesa, sarebbe stato oggetto di una «stangata» orchestrata (sempre secondo l’accusa) dai due magistrati insieme al poliziotto Vincenzo Di Chiaro e all’avvocato Simona Cuomo: una falsa indagine per reati fiscali, a firma di Savasta, che sarebbe poi stata insabbiata dietro pagamento di 400mila euro. All’ex pm la Procura contesta anche la truffa, perché avrebbe chiesto altri 60mila euro a Tarantini facendogli credere che servissero per sottoporre il figlio a un intervento chirurgico a New York. Nel verbale davanti alla Procura di Lecce, Tarantini racconta di come sarebbero avvenute le consegne dei soldi. E, oltre che dei viaggi a sbafo, parla pure dei regali. «Sotto Natale del 2013 Flavio D’Introno mi dice che bisogna fare un regalo a Nardi comprando da Trony materiale per circa 25mila euro. Io ho ordinato questo elenco di cose che mi ha detto D’Introno. Della consegna però si è occupato Flavio D’Introno, che appunto mi aveva detto che dovevano essere portati alla villa di Nardi che io però non so dove sia. So che Savasta ha una villa a Polignano (una masseria, ndr) dove sono state mandate delle piante acquistate da un floricoltore di Ruvo di cui non ricordo il nome. Io stesso ho acquistato quelle piante per un valore di circa 8mila euro. Fu Flavio D’Introno che mi accompagno dal vivaista che io non conoscevo e alla mia presenza lo stesso Flavio indicò al vivaista il luogo di consegna delle piante ed il destinatario, indicando appunto la villa di Polignano di Antonio Savasta. Erano due piante grasse, un melograno gigante e poi non ricordo che altro»
L'ex pm di Trani Savasta attualmente in carcere si dimette dalla magistratura. Indagato anche il pm Scimè. Cronaca Giudiziaria, Cronaca Lazio, Cronaca Puglia, Cronache, scrive il 9 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. I due magistrati Nardi e Savasta assieme all’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, attualmente detenuti, vennero arrestati e tradotti in carcere, con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso commessi tra il 2014 e il 2018. Antonio Savasta ex pm del Tribunale di Trani, successivamente trasferito a Roma come giudice, arrestato per corruzione il 14 gennaio scorso dalla magistratura salentina assieme al collega ex gip tranese Michele Nardi, passato il pubblico ministero presso la procura di Roma, ha depositato ieri domanda di dimissioni dalla magistratura. La richiesta di dimissioni dovrà essere ora valutata dal Consiglio Superiore della Magistratura, che a questo punto non potrà che accoglierla e deliberarla. Savasta e Nardi, al momento dell’arresto, erano in servizio al Tribunale di Roma. il primo come giudice, ed il secondo come sostituto procuratore della repubblica. Nell’indagine coordinata dal procuratore di Lecce, Leonardo Leone De Castris, e condotta dal pm Roberta Licci sarebbe indagato anche un altro pm tranese, Luigi Scimè, attualmente in servizio a Salerno. Il suo nome è stato stato iscritto nel registro degli indagati conseguentemente alle dichiarazioni rese da una testimone, Marianna Capogna, che è stata a lungo compagna del pregiudicato Tommaso Nuzzi, il quale era in rapporti d’affari con l’imprenditore Flavio D’Introno, il grande “accusatore” di Savasta e Nardi. La posizione di Scimè appare marginale rispetto a Nardi e Savasta, e non sarebbero stati ancora raccolti indizi di colpevolezza a suo carico. I due magistrati Nardi e Savasta assieme all’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, attualmente detenuti, sono stati arrestati lo scorso 15 gennaio e tradotti in carcere, con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso commessi tra il 2014 e il 2018.
Giudici arrestati, a Savasta pignorato lo stipendio per mega-masseria di Bisceglie. L’ex pm arrestato era stato condannato: «Beffato l’ex socio», scrive Massimiliano Scagliarini il 14 Febbraio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Quando è finito in carcere, il 13 gennaio, l’ex pm tranese Antonio Savasta aveva il quinto dello stipendio pignorato. Poco meno di 1.100 euro al mese che finivano nelle tasche di una signora di Barletta, Filomena Di Lillo. È l’ennesima puntata, presumibilmente non l’ultima, della storia della masseria San Felice di Bisceglie, quella che il pm-imprenditore aveva acquistato a proprio nome nel 2005 per trasformarla in un resort di lusso. E che, con un contratto preliminare vergato nel 2006 su carta intestata della Procura di Trani, si era impegnato a vendere in quota parte alla Di Lillo e al marito, Giuseppe Dimiccoli. La vicenda ha avuto una coda penale a Lecce, con Savasta condannato per falso in relazione alla costruzione di una piscina ma assolto dall’accusa di aver truffato l’ex socio (la Cassazione l’ha però annullata ai soli fini civili). Ma la Corte di appello di Bari, e veniamo al motivo del pignoramento, a febbraio 2018 ha accolto il ricorso della moglie di Dimiccoli, stabilendo che il magistrato avrebbe dovuto dare esecuzione al preliminare per il quale Savasta aveva già incassato l’intera somma pattuita, ovvero 230mila euro. Ma invece di vendere la masseria all’ex socio, come si era impegnato a fare, il magistrato ne aveva donato la nuda proprietà ad un fratello e alla sorella. I giudici di appello (Prima sezione, presidente Cea) hanno però dichiarato inefficace la donazione, stabilendo che Savasta dovesse pagare alla Di Lillo 80mila euro di danni per aver mancato di eseguire la promessa di vendita di una parte della masseria. Secondo Savasta, quel contratto preliminare avrebbe semplicemente avuto la funzione di garantire la restituzione un prestito che gli era stato fatto dall’ex socio e amico Dimiccoli, ma la Corte d’appello è stata di avviso diverso. E così quegli 80mila euro - aggiungendo spese e interessi - sono diventati 147mila, e la Di Lillo (con l’avvocato Pasquale Nasca) ad agosto ha eseguito presso il ministero della Giustizia il pignoramento dello stipendio. In primo grado, i giudici del Tribunale di Trani avevano respinto le richieste della Di Lillo con una sentenza non definitiva (il processo continua per le richieste di Di Miccoli, che chiede al giudice di stabilire quanto sia stato effettivamente pagato per l’acquisto e se aveva il diritto a essere considerato socio dell’attività commerciale che gestisce il resort). Ma in appello la decisione è stata ribaltata. E, per quanto non sia stata accolta la richiesta di esecuzione specifica (cioè di procedere alla vendita), i giudici hanno stabilito che quella scrittura privata era senza dubbio un contratto preliminare: Savasta «per la sua qualità professionale» sapeva senz’altro ciò che aveva firmato. «Il promittente venditore che abbia ceduto il bene promesso a terzi risponde a titolo di responsabilità contrattuale», è detto in sentenza: il danno si quantifica nella differenza tra il valore del bene all’epoca e quello attuale. Lo stesso Savasta aveva dichiarato che la masseria, diventata a colpi di ristrutturazioni un meraviglioso resort («Non è la classica sala ricevimenti, ma è lo splendore, l'eleganza e la raffinatezza di sposarsi in un'antica residenza del XVII secolo», è detto sul sito della società che oggi la gestisce) ha acquisito un valore di oltre un milione di euro, ben più alto dei 230mila previsti nel 2006 per acquistarne circa il 50%. Ma la famiglia dell’ex socio si è accontentata di chiedere 80mila euro, pari al mutuo che ha dovuto accendere all’epoca per versare quanto stabilito nel preliminare. Intorno a masseria San Felice si sono sviluppati una serie di processi penali, nati tutti dalle denunce di Dimiccoli, e in gran parte conclusi con l’assoluzione del magistrato da varie accuse. È invece in corso il processo per lottizzazione abusiva e violazione del codice dei Beni culturali e del paesaggio, in cui sono imputati, sempre a Lecce, anche due dipendenti del Comune di Bisceglie, nonché il gestore della struttura e un fratello e la sorella del magistrato. Dopo la sospensione dallo stipendio e dalle funzioni disposta dal Csm, il pignoramento dello stipendio di Savasta è diventato inutile. E così, mentre il magistrato ha presentato ricorso per Cassazione (è difeso dal fratello Maurizio, che non è direttamente coinvolto nella vicenda), con ogni probabilità Di Lillo e Dimiccoli procederanno con un pignoramento sull’immobile della masseria. Avrebbero potuto tentare, ad esempio di pignorare i canoni di fitto versati dal gestore, ma anche qui sono stati sfortunati: la società cui Savasta ha affidato il resort è finita in concordato preventivo.
Corruzione, arrestati due magistrati in servizio a Roma. Soldi e diamanti per sentenze aggiustate. Il pm Michele Nardi e il giudice Antonio Savasta accusati dalla procura di Lecce per fatti commessi quando erano entrambi in servizio a Trani. Coinvolti imprenditori, avvocati e un ispettore di polizia, scrive Fulvio Fiano il 14 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Un sistema di corruzione in cui due magistrati erano parte attiva. L’ex pubblico ministero del Tribunale di Trani, Antonio Savasta, ora giudice del Tribunale di Roma, e il suo collega Michele Nardi, pm a Roma, ed in precedenza gip a Trani e magistrato all’ispettorato del Ministero della Giustizia, sono stati arrestati dalla sezione operativa dei carabinieri di Barletta su disposizione della procura di Lecce. Le accuse sono di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari per fatti commessi quando era in servizio a Trani. I due avrebbero garantito esiti processuali positivi in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore degli imprenditori coinvolti in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli e diamanti. Gli imprenditori avrebbero pagato per i favori ricevuti e gli avvocati avrebbero svolto il ruolo di intermediari e facilitatori. Coinvolti nell’ordinanza del gip salentino anche un ispettore capo di polizia in servizio presso il commissariato di Corato, due imprenditori di Firenze (Luigi D’Agostino) e Trani, e due avvocati del foro di Bari e ancora Trani. I reati contestati a vario titolo agli indagati includono il falso ideologico e materiale, il millantanto credito e la calunnia. Insieme alle ordinanze sono stati eseguiti decreti di sequestro che hanno riguardato denaro, conti corrente e beni, tra cui un orologio Daytona d’oro e diamanti, trovati nella disponibilità di Nardi. In carcere è finito anche Vincenzo Di Chiaro, ispettore di polizia in servizio al commissariato di Corato. Tutti e tre sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. Delle stesse ipotesi di reato risponde anche l’avvocatessa barese, Simona Cuomo, mentre per l’avvocato di Trani, Ruggiero Sfrecola, si ipotizza il concorso in corruzione. Mentre l’immobiliarista di Barletta Luigi D’Agostino è destinatario di un divieto di esercizio dell’attività imprenditoriale e degli uffici direttivi delle imprese per un anno. Il nome di Savasta era diventato noto alle cronache anche per un’altra inchiesta che fece rumore, quella della lottizzazione di un’antica masseria trasformata ed adibita a resort di lusso senza autorizzazione, anche allora indagava la procura di Lecce, competetene per il barese. Il pm Savasta finì sotto processo, sempre a Lecce, per concussione nei confronti di un imprenditore, indotto a vendere un terreno adiacente alla sua masseria. Il 18 gennaio 2017 il suo trasferimento a Roma. Secondo la Procura di Lecce, l’imprenditore fiorentino Luigi D’Agostino procurò a Savasta un incontro a Palazzo Chigi con l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti. Questo incontro, che Savasta sollecitò a D’Agostino tramite l’avvocato Ruggiero Sfrecola, avvenne il 17 giugno 2015. È quanto scritto nel provvedimento cautelare che ha portato all’arresto dei magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi. All’epoca Savasta indagava su D’Agostino per un giro di presunte fatture false. Per questo fatto, Nardi, Sfrecola e D’Agostino sono indagati per corruzione in atti giudiziari. A Roma (dove è assegnato dal 2001), tra le altre cose, il pm Nardi aveva seguito le vicende della bancarotta dell’Idi, l’Istituto dermopatico dell’immacolata. Ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari nel campo del terrorismo politico (indagine sui detenuti BR del carcere di Trani), è stato giudice a latere del processo c.d. “Dolmen” (relativo a 200 imputati per associazione mafiosa) e in importanti processi per criminalità economica, ambientale e sofisticazioni alimentari (scandalo del grano all’ocratossina).
Tangenti per aggiustare indagini e sentenze, arrestati in Puglia due magistrati e un poliziotto. In carcere Antonio Savasta e Michele Nardi, all'epoca dei fatti in servizio alla Procura di Trani e poi trasferiti a Roma, e l'ispettore Vincenzo Di Chiaro. Tra le inchieste sospette anche quella su Luigi D'Agostino, imprenditore vicino a Tiziano Renzi, scrivono Giuliana Foschini e Chiara Spagnolo il 14 gennaio 2019 su "La Repubblica". Aggiustavano processi e indagini in cambio di denaro. Tanto denaro. E tra le inchieste "sistemate" c'era anche quella a carico di Luigi D'Agostino, imprenditore che per un periodo fu vicino a Tiziano Renzi, padre dell'ex premier Matteo Renzi. Sulla base di queste accuse sono finiti in carcere Antonio Savasta e Michele Nardi, magistrati che sono stati in sevizio alla Procura di Trani (rispettivamente come pm e gip) e attualmente lavorano a Roma, il primo come giudice e il secondo come sostituto procuratore, nonché Vincenzo Di Chiaro, un ispettore di polizia in servizio al commissariato di Corato. Per gli avvocati Simona Cuomo e Ruggiero Sfrecola (dei Fori di Bari e Trani) è stata disposta l'interdizione dall'esercizio della professione per un anno mentre all'imprenditore barlettano D'Agostino è stato notificato un divieto di esercizio dell'attività imprenditoriale e degli uffici direttivi delle imprese per un anno. Le mazzette quantificate dalla Procura di Lecce ammontano a diversi milioni di euro, versate tramite consegne di denaro ma anche regali, orologi e pietre preziose, e svelano l'esistenza di un sistema in cui i magistrati piegavano l'uso della giustizia ai loro fini personali e in cambio chiedevano una corsia preferenziale per avvicinarsi a Palazzo Chigi e al Csm. L'inchiesta è stata condotta dai carabinieri e coordinata dal procuratore della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone de Castris e dalla collega Roberta Lucci. L'ordinanza è stata firmata dal gip Giovanni Gallo. Nardi, Savasta, Di Chiaro e Cuomo sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. L'avvocato Sfrecola e D'Agostino sono accusati di concorso in corruzione mentre altri indagati rispondono di millantato credito e calunnia. L'ispettore di polizia arrestato, Di Chiaro, si sarebbe messo "al servizio dell'imprenditore coratino Flavio D'Introno (tra gli indagati) - a quanto viene riferito - quale momento indispensabile di collegamento con il magistrato Savasta per il complessivo inquinamento dell'attività investigativa e processuale da quest'ultimo posta in essere". La Procura di Lecce ha anche chiesto e ottenuto il sequestro di beni e conti corrente per un valore proporzionale a quello oggetto della corruzione. Nello specifico si tratta di 489mila euro per Savasta; 672mila per Nardi, al quale sono stati sequestrati anche diamanti e un Daytona d'oro; 436mila per Di Chiaro e la stessa cifra per Cuomo; 53mila per D'Agostino e Sfrecola. "Il ricorso alla misura cautelare si è reso indispensabile tenuto conto del concreto pericolo di reiterazione di condotte criminose e del gravissimo, documentato e attuale rischio di inquinamento probatorio", ha scritto in una nota il procuratore di Lecce Leone de Castris. La Procura salentina ha indagato sulla vicenda in base all'articolo 11 del Codice di procedura penale poiché si tratta di reati commessi da magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari, su cui è competente la magistratura salentina.
Rolex, viaggi a Dubai e diamanti: le tangenti prese dai magistrati per aggiustare le sentenze. Tra le carte spunta anche il ruolo di Tiziano Renzi che combinò l'incontro tra l'imprenditore toscano Luigi D'Agostino, Savasta e l'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti, scrive Gabriella De Matteis il 15 gennaio 2019 su "La Repubblica". C'è anche un incontro del pm Antonio Savasta con l'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti nelle carte dell'inchiesta che ha portato in carcere il magistrato e il suo collega Michele Nardi. Secondo quanto ricostruito dalla procura di Lecce, Savasta, all'epoca pm a Trani, alla ricerca di una sponda romana per ottenere il trasferimento, nel 2015 avrebbe chiesto all'imprenditore toscano Luigi D'Agostino (pure lui coinvolto nelle indagini) di incontrare Lotti.
L'incontro con Lotti. E a combinare l'incontro sarebbe stato Tiziano Renzi, il padre dell'ex presidente del Consiglio Matteo. Nell'aprile del 2018 è stato lo stesso imprenditore Dagostino, parlando con i pm toscani, a confermare la circostanza: "Fissai - ha fatto mettere a verbale - un appuntamento con Lotti tramite Tiziano Renzi, dicendogli che volevo portargli un magistrato che aveva interesse a mostrare una proposta di legge". Ad aprile e maggio del 2018 è stato ascoltato anche l'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che ha spiegato: "Ho una conoscenza superficiale di Antonio Savasta sicuramente me l'hanno presentato ma non ricordo chi né in quale occasione", aggiungendo come Dagostino, in generale, gli parlasse "di suoi interessi a Firenze e delle sue attività riguardanti il the Mall e sul fatto che voleva costruire un centro commerciale in Puglia a Fasano". Savasta si sarebbe rivolto a Dagostino per ottenere l'incontro con Lotti e in cambio avrebbe insabbiato le indagini su un giro di fatturazioni false che riguardavano le società dell'imprenditore. E questo è solo uno dei filoni dell'indagine che ieri oltre all'ex pm di Trani ha portato in carcere anche l'ex gip Michele Nardi. Centrale nell'inchiesta è la figura di un altro imprenditore, Flavio D'Introno di Corato che avrebbe corrotto i due magistrati, sperando in una soluzione positiva delle vicende giudiziarie che lo riguardavano. Ed è stato lui stesso alla fine a rivelare lo spaccato di quella che, accusa il gip di Lecce Giovanni Gallo, appare come una "giustizia asservita ai fini personali".
Le tangenti. "Ho consegnato circa 300mila euro in contanti a Savasta, un milione e mezzo comprensivo dei regali di Natale a Nardi" fa mettere a verbale l'imprenditore che racconta delle continue richieste di denaro subite e delle rassicurazioni sull'esito positivo di un processo conclusosi poi con una condanna. E Nardi (in servizio, al momento dell'arresto come pm a Roma) a chiedere, sempre secondo D'Introno, "30mila euro" solo per un primo incontro. E poi ancora un viaggio a Dubai, il pagamento dei lavori di ristrutturazione di un appartamento a Roma. Soldi e regali, come un Rolex Daytona o due diamanti, ricevuti dal magistrato. Più o meno simile il sistema, racconta D'Introno, ideato da Savasta che, ad esempio, riceve 20mila euro per aver avviato un'indagine, basata su false testimonianza, che avrebbe dovuto scagionare l'imprenditore.
Le registrazioni. D'Introno diventa così un testimone chiave dell'inchiesta. Piegato dalle richieste di denaro, decide di collaborare con i pm di Lecce ai quali consegna anche le registrazioni di alcuni colloqui avuti con Savasta a novembre. Il pm è preoccupato, teme l'indagine che poi lo ha travolto. E all'imprenditore consiglia la fuga. "Te ne devi andare, se viene fuori tutta questa roba ce ne dovremmo vergognare a vita....Il merdaio tu non lo devi fare perchè sto in mezzo pure io" dice. Ai carabinieri D'Introna alla fine confessa: "Con Savasta dovremmo incontrarci tra qualche giorno perchè mi ha promesso di racimolare dei soldi, 50-60mila euro, per consentire di fuggire alle Seychelles visto che ormai dal 3 ottobre la mia condanna è divenuta definitiva. Credo sia dispiaciuto per me ma anche preoccupato dal fatto che io possa rendere dichiarazioni contro di lui".
Cosa sappiamo sui magistrati di Roma arrestati per corruzione, scrive il 14 gennaio 2019 Lettera 43. La magistratura salentina ha disposto del giudice Antonio Savasta e del pm Michele Nardi per associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso. I fatti riguardano il periodo 2014-2018 in cui erano in servizio a Trani. Millantando che avrebbe pilotato un solo processo, il giudice tranese Michele Nardi, ora pm a Roma, tentò di farsi consegnare da un imprenditore pugliese due milioni di euro. Somma che non ottenne perché ritenuta dalla vittima troppo elevata. In precedenza lo stesso magistrato, per insabbiare altri procedimenti giudiziari, aveva già ottenuto dallo stesso imprenditore, Flavio D'Introno, lavori di ristrutturazione di una casa romana (per 130mila euro), di una villa (per 600mila euro), un Rolex Daytona in oro da 34mila euro, due diamanti da un carato ciascuno (da 27mila euro ognuno) e un viaggio a Dubai.
IN MANETTE ANCHE IL PM SAVASTA. Secondo la Procura di Lecce, Nardi era il capo dell'associazione per delinquere che a Trani pilotava le sentenze penali e tributarie e insabbiava le indagini a carico di ricchi imprenditori assieme al collega pm Antonio Savasta, ora giudice a Roma. Nardi e Savasta il 14 gennaio sono stati arrestati e condotti in carcere con le accuse di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso per fatti commessi tra il 2014 e il 2018. Con loro ha varcato le porte del penitenziario di Lecce l'ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice di Savasta.
L'INCONTRO TRA SAVASTA E LUCA LOTTI A PALAZZO CHIGI. Sono stati invece interdetti dalla professione due avvocati pugliesi (Simona Cuomo e Vincenzo Sfrecola), ritenuti intermediari, e l'imprenditore fiorentino Luigi Dagostino, che in passato ha avuto rapporti d'affari con il papà dell'ex premier Matteo Renzi. Savasta da anni è al centro di indagini penali e disciplinari, proprio per questo nel 2015 tentò di ottenere un incarico fuori ruolo a Roma, per allontanarsi dai 'pettegolezzi' tranesi. In aiuto di Savasta intervenne l'imprenditore Dagostino che, secondo la Procura di Lecce, procurò al pm un incontro a Palazzo Chigi con l'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti. Questo incontro, che Savasta sollecitò a Dagostino tramite l'avvocato Sfrecola, avvenne il 17 giugno 2015. Per questo fatto, Savasta, Sfrecola e Dagostino sono indagati per corruzione in atti giudiziari. Tutti e tre, infatti, parteciparono all'incontro con Lotti e in cambio Savasta, che indagava su Dagostino per un giro di presunte fatture false, omise volutamente - secondo l'accusa - approfondimenti sul conto dell'imprenditore fiorentino che era il vero beneficiario degli utili del raggiro.
LOTTI: «NON RICORDO COME L'HO CONOSCIUTO». Ma chi riuscì a portare Savasta a Palazzo Chigi? Secondo le indagini sarebbe stato proprio Tiziano Renzi, il padre dell'ex presidente del Consiglio, Matteo. A confermarlo ai pm di Firenze (che hanno indagato sulla vicenda prima di trasmettere gli atti a Trani) è stato lo stesso imprenditore. Interrogato nell'aprile 2018, Dagostino ha riferito di aver chiesto a Tiziano Renzi di incontrare Lotti perché il pm Savasta aveva in mente un disegno di legge sui rifiuti a Roma. Sul punto è stato successivamente sentito due volte lo stesso Lotti, ad aprile e a maggio 2018. «Ho una conoscenza superficiale di Antonio Savasta», ha spiegato Lotti ai pm, «sicuramente me l'hanno presentato ma non ricordo chi né in quale occasione». Lotti dice di non ricordare l'argomento dell'incontro ma «di regola Dagostino», ha aggiunto, «mi parlava di suoi interesse a Firenze e delle sue attività riguardanti il the Mall e sul fatto che voleva costruire un centro commerciale in Puglia, a Fasano».
SEQUESTRATI ANCHE DIAMANTI E ROLEX D'ORO. Ma per capire l'ampiezza dell'indagine sul malaffare tranese coordinata dal procuratore di Lecce, Leonardo Leone de Castris, basta dare un'occhiata ai beni per due milioni di euro sequestrati agli indagati. Al magistrato Nardi sono stati sequestrati 672mila euro, tra cui un Rolex e diamanti; all'altro magistrato Antonio Savasta 490.000 euro; altri 436mila sono stati sequestrati rispettivamente all'ispettore Di Chiaro e all'avvocatessa Cuomo. Dagostino e Sfrecola sono stati privati 'solo' di 53mila euro. La magistratura leccese ha ritenuto di dover disporre il carcere per i due magistrati "tenuto conto del concreto pericolo di reiterazione di condotte criminose e del gravissimo, documentato e attuale rischio di inquinamento probatorio".
Trani, arrestati due magistrati: processi comprati per soldi, Rolex e diamanti. Imprenditore confessa: così pagai milioni. In cella anche un poliziotti. Interdetti anche due avvocati e un imprenditore, scrive il 14 Gennaio 2019 "La Gazzetta del Mezzogiorno". L'ex sostituto procuratore di Trani, Antonio Savasta, 54 anni, attualmente giudice del Tribunale di Roma, e l'ex Gip di Trani Michele Nardi, 53 anni, attuale pm nella Capitale (è stato anche magistrato dell'ispettorato del Ministero della giustizia), sono arrestati oggi dai carabinieri nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Lecce per una serie di reati tra cui associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso ideologico. In manette anche un ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, 58 anni, in servizio al commissariato di Corato (Bari). I provvedimenti sono stati emessi dal gip del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo Msu richiesta del Procuratore Leonardo Leone De Castris. Misure cautelari anche per due avvocati, Simona Cuomo, 43 aani, di Bari, e Ruggero Sfrecola, 53, di Trani, entrambi interdetti dalla professione per un anno mentre è in corso di notifica il divieto temporaneo all'esercizio di attività di impresa per un imprenditore di Firenze. Complessivamente sono indagate 18 persone. Nardi, Savasta, Di Chiaro e Cuomo rispondono di associazione per delinquere finalizzata ad una serie di delitti contro la pubblica amministrazione, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. Gli altri indagati sono accusati, a vario titolo, di millantato credito, calunnia e corruzione in atti giudiziari.
PROCESSI IN CAMBIO DI SOLDI E PREZIOSI - Secondo l'accusa i due magistrati avrebbero assicurato il buon esito di alcune inchieste per vicende giudiziarie e tributarie degli imprenditori coinvolti in cambio di soldi e oggetti preziosi, mentre gli avvocati avrebbero prestato la loro opera a titolo di intermediari e facilitatori. Un ruolo di particolare rilievo avrebbe rivestito l'ispettore di polizia che, secondo i magistrati di Lecce, sarebbe stato al servizio dell'imprenditore coratino Flavio D'Introno "quale momento indispensabile di collegamento con il magistrato Savasta per il complessivo inquinamento dell'attività investigativa e processuale da quest'ultimo posta in essere".
GLI ATTI DA FIRENZE - Un ulteriore filone di indagini è emerso dopo la trasmissione di alcuni atti d'indagine da parte della Procura di Firenze in cui sarebbero venuti fuori altri episodi corruttivi: in particolare l'ex pm Savasta, titolare di un fascicolo su una serie di false fatturazioni, avrebbe omesso di svolgere i dovuti approfondimenti investigativi nei confronti di un imprenditore fiorentino, ottenendo in cambio denaro e altre utilità. I provvedimenti cautelari - secondo i pm salentini motivati da un "documentato e attuale rischio di inquinamento probatorio" - sono il terminale di un'attività investigativa che si è avvalsa di intercettazioni telefoniche, confessioni, dichiarazioni di testimoni, analisi di numerosi procedimenti penali trattati negli uffici giudiziari tranesi, oltre a riscontri patrimoniali. Il Gip di Lecce, su richiesta della Procura, ha risposto il sequestro di immobili, conti correnti, oggetti preziosi per un valore di circa 2 milioni di euro: in particolare a Savasta sono stati sequestrati 489mila euro, a Nardi 672mila (tra i quali un orologio in oro Daytona Rolex e un quantitativo di diamanti), a Di Chiaro e Cuomo beni per 436mila euro, mentre per l'imprenditore fiorentino e Sfrecola 53mila euro.
LA CONFESSIONE DI D'INTRONO - Determinante si sarebbe rivelata la collaborazione dell'imprenditore Flavio d'Introno che a ottobre del 2018 ha deciso di collaborare e vuotare il sacco, dopo che è passata in giudicata una condanna a 5 mesi per usura.
L'imprenditore ha ricostruito la tela dei rapporti con i due magistrati, Saasta e nardi, dicendo testualmente: Ho consegnato circa 300mila euro in contanti a Savasta, circa un milione e mezzo di euro, comprensivo di regali materiali, a Nardi. Ma non è tutto. D'Introno, microfonato, avrebbe successivamente incontrato Savasta il quale, a sua volta, avrebbe fornito dichiarazioni "confessorie" chiamando in correità anche Nardi. Insomma, da quanto è emerso per alcuni anni tra il sostituto procuratore e il gip sarebbe creato una sorta di "ponte" per un mercimonio dei processi.
Quell'incontro tra il pm ambizioso e Lotti organizzato dal papà di Renzi. L'imprenditore Luigi D'Agostino, originario di Barletta, fece incontrare Savasta e Lotti per un dl sui rifiuti a Roma. Il mall a Fasano, scrive il 14 Gennaio 2019 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Per far ottenere un incarico a Roma al magistrato tranese Antonio Savasta, all’epoca dei fatti sottoposto a diversi procedimenti penali e alla richiesta di trasferimento d’ufficio, l’imprenditore fiorentino Luigi D’Agostino - secondo la Procura di Lecce - procurò a Savasta un incontro a Palazzo Chigi, con l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti. Questo incontro, che Savasta sollecitò a Dagostino tramite l’avvocato Ruggiero Sfrecola, avvenne il 17 giugno 2015. E’ quanto scritto nel provvedimento cautelare che ha portato all’arresto dei magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi. All’epoca Savasta indagava su Dagostino per un giro di presunte fatture false. Per questo fatto, Savasta, Sfrecola e D’Agostino sono indagati per corruzione in atti giudiziari. Tutti e tre parteciparono all’incontro con Lotti. Dagostino - come emerso da un’inchiesta della procura di Firenze - era in rapporti d’affari con Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo. Sarebbe stato Tiziano Renzi, il padre dell’ex presidente del Consiglio, Matteo, a combinare l’incontro tra l’imprenditore toscano Luigi Dagostino, l’allora pm di Trani Antonio Savasta e l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti, avvenuto a Palazzo Chigi nel giugno 2015. A dirlo ai pm di Firenze è lo stesso imprenditore, interrogato nell’aprile 2018. Dagostino riferì di aver chiesto a Tiziano Renzi di incontrare Lotti perché il pm Savasta aveva in mente un disegno di legge sui rifiuti a Roma. Sul punto è stato successivamente sentito due volte lo stesso Lotti, ad aprile e a maggio 2018. «Ho una conoscenza superficiale di Antonio Savasta - spiegava Lotti ai pm - sicuramente me l’hanno presentato ma non ricordo chi né in quale occasione». Lotti diceva di non ricordare l’argomento dell’incontro ma «di regola Dagostino - aggiungeva - mi parlava di suoi interessi a Firenze e delle sue attività riguardanti il the Mall e sul fatto che voleva costruire un centro commerciale in Puglia a Fasano», negando - rispondendo ad una specifica domanda del pm - di essere a conoscenza di «interessi» dello stesso Tiziano Renzi nel Mall a Fasano.
Trani, nuova accusa per Savasta: «Inventò indagine per colpire imprenditore». Nuova accusa per l'ex pm. Interrogati due poliziotti: «Notificarono un avviso di garanzia falso per reati fiscali», scrive Massimiliano Scagliarini il 20 Febbraio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un avviso di garanzia per reati fiscali, notificato a un noto imprenditore di Corato. Il sospetto, fortissimo, che possa trattarsi di una indagine fantasma, con un numero di «Rg» che non trova corrispondenza nei registri informatici della Procura di Trani. È l’oggetto di un nuovo filone di inchiesta partito da Lecce sui magistrati arrestati il 13 gennaio con le accuse - tra l’altro - di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio. I carabinieri, su delega della pm Roberta Licci, hanno ascoltato due poliziotti del commissariato di Corato, lo stesso ufficio dove era in servizio l’ispettore Vincenzo Di Chiaro, anche lui finito in carcere con l’accusa di far parte dell’associazione per delinquere che avrebbe truccato le indagini in cambio di soldi da parte dell’imprenditore Flavio D’Introno, il primo «pentito» del «Tranigate». Non l’unico. Perché anche D’Introno, durante un interrogatorio, avrebbe fatto una serie di ammissioni sia a proposito delle contestazioni contenute nell’ordinanza di custodia cautelare, sia su una serie di circostanze nuove. La stranezza del caso oggetto delle verifiche affidate ai Carabinieri di Lecce è proprio l’irritualità della notifica di una indagine per reati fiscali, a firma del pm Savasta, effettuata dalla Polizia di Stato: per questo sono stati ascoltati i due agenti che l’hanno effettuata. Ma soprattutto, del fascicolo per false fatture a carico dell’impresa di cui parliamo, non ci sarebbe traccia al «Re.ge.» della Procura di Trani. I magistrati salentini vogliono chiarire proprio queste circostanze, oltre che il ruolo assunto da un avvocato di fiducia degli imprenditori. Imprenditori che - se i sospetti saranno confermati - assumerebbero la veste di vittime. E se fosse così, non sarebbe la prima volta che Savasta fa ricorso ad atti falsi per ottenere qualcosa da alcuni imprenditori. La Procura di Lecce gli ha già contestato un modus operandi simile nel caso di un’indagine aperta su denuncia di Giuseppe D’Introno, fratello di Flavio, anche lui indagato. Un fascicolo che - sempre secondo l’accusa, riassunta nell’ordinanza di custodia cautelare - sarebbe servito a mettere in piedi un «golpe aziendale». Per questa storia la Procura contesta tra l’altro a Savasta, Di Chiaro e all’altro poliziotto Francesco Palmentura i reati di falso ideologico, falso materiale e soppressione di atti. «Nel maggio del 2016 - ha messo a verbale Flavio D’Introno - mio padre si trovava in Brasile. Approfittando della sua assenza ho tentato di far convocare l'assemblea dei soci per acquisire il controllo dell’azienda San Nicola. L’ordine di convocazione fu emesso da Savasta per farmi un favore perché non rientrava nelle competenze del pubblico ministero. L’ordine di convocazione fu mostrato al commercialista Strippoli perché convocasse l’assemblea. Non doveva essere notificato ma solo esibito». Un «favore» che D’Introno dice di aver pagato 30mila euro a Savasta, nell’ambito dei 300mila che l’imprenditore afferma di aver consegnato all’ex pm. «Effettivamente - annota l’accusa - il 16 ed il 17 maggio 2016 sono state intercettate diverse conversazioni che provano quanto di seguito riportato: Di Chiaro ed il collega Palmentura nei giorni del 16 e 17 maggio si sono recati presso il commercialista e presidente del collegio sindacale Strippoli Cataldo per acquisire della documentazione e fargli convocare l’assemblea dei soci cosi come indicato da D’Introno». Ma dopo che Cataldo si è presentato da Savasta per chiedere spiegazioni su quello strano atto (peraltro inutile, perché Flavio D’Introno non aveva comunque la maggioranza), il magistrato dà tutta la colpa ai poliziotti e li richiama per far sparire la copia dell’atto.
L'interrogatorio fiume di D'Introno: Nardi chiese 2 milioni per pagare i giudici della terna del tribunale. Ma fu condannato a 7 anni, scrive il 14 Gennaio 2019 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Testimoni delegittimati con inchieste ad hoc, denunce false: tutto questo per demolire il quadro accusatorio di una sentenza per usura che avrebbe segnato la fine dell'imprenditore D'Introno. Ma nonostante fiumi di denaro, pochi mesi fa la Cassazione ha reso definitiva - e con essa la confisca dei beni - a 5 anni e mezzo di reclusione inflitta dalla Corte di appello. Di seguito uno stralcio dell'interrogatorio fiume di D'Introno. «Lui (Nardi) aveva diverse amanti a Roma e mi disse che gli servivano arca 500 euro al giorno per mantenere il suo tenore di vita. Quindi io dovevo pagare. Nardi una settimana prima del verdetto di primo grado mi disse che la situazione era grave e che mi avrebbero condannato e che servivano due mi/ioni di euro, perché i giudici erano particolarmente diffìcili, per sistemare fa questione, milioni che dovevano essere ripartiti tra i tre giudici. Io avrei dovuto dare i soldi al NARDI che poi avrebbe provveduto alla consegna però mi rifiutai anche perché non avevo quella disponibilità economica. Certo è che nel corso del processo di primo grado le mie richieste processuali non venivano mai accolte. Dopo il viaggio a Dubai fui mi disse che io dovevo ristrutturare a mie spese fa villa di proprietà della moglie a Trani. Si trattava in realtà di un terreno del valore di arca 120.000 euro e di una costruzione che era praticamente un rudere. Lì ho curato e pagato i lavori di ristrutturazione per circa 600 mila euro, avvalendo della Tre Emme di Corate. Mi occupai, su richiesta specifica di Nardi e sempre a mie spese, della ristrutturazione dell'appartamento di Roma .... ancor prima di iniziare i lavori di ristrutturazione della villa di Trani. Le maestranze utilizzate per la ristrutturazione di entrambi gli immobili erano ....Il valore dei lavori è stato pari a circa 600 - 700 mila euro in totale tra la villa e l'appartamento di Roma. Io a Roma sono andate solo una volta mentre alla villa in più occasioni durante i lavori. Nardi in diverse occasioni ha fatto riferimento ai suoi stretti contatti con i servizi segreti, dicendo che aveva sentito Inzerillo, e che era in contatto con personaggi della struttura Gladio. Questa affermazione la utilizzava anche per spaventarmi quando io non ero disponibile, cosi come ha fatto anche di recente. Questo lo fece senz'altro quando lo rifiutai la consegna dei due milioni di euro prima della sentenza di condanna in primo grado».
Corruzione, gip: “In cambio dell’incontro con Lotti, pm non indagò Dagostino”. Lui: “Fissai la riunione tramite Tiziano Renzi”. Nell'ordinanza del giudice di Lecce l'appuntamento a Palazzo Chigi del giugno 2015 tra l'ex socio del padre di Matteo, il magistrato e l'allora sottosegretario. Secondo le carte, Savasta aveva bisogno di quel faccia a faccia per ottenere il suo trasferimento a Roma. In cambio, non indagò mai l'imprenditore nell'ambito dell'indagine per false fatturazioni per circa 5-6 milioni di euro relative proprio alle sue imprese, scrivono D. Fiori e R. Volpe il 15 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". È l’ex socio a raccontare ai pm che l’appuntamento con Luca Lotti fu fissato “tramite Tiziano Renzi”. Sarebbe stato il padre dell’ex presidente del Consiglio quindi a combinare l’incontro tra l’imprenditore toscano Luigi Dagostino, l’allora pm di Trani Antonio Savasta e l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio avvenuto a Palazzo Chigi il 17 giugno 2015. Interrogato nell’aprile 2018, Dagostino riferì di aver chiesto a Tiziano Renzi di incontrare Lotti perché il pm Savasta aveva in mente un disegno di legge sui rifiuti a Roma. In realtà, secondo quanto emerso dall’inchiesta della procura di Lecce che ha portato all’arresto dello stesso Savasta e del suo collega magistrato Michele Nardi, Savasta chiese a Dagostino quell’incontro perché aveva procedimenti disciplinari e penali a suo carico e voleva trasferirsi a Roma. In cambio, non indagò mai Dagostino nell’ambito dell’indagine per false fatturazioni per circa 5-6 milioni di euro relative proprio alle sue imprese. Sul punto Lotti è stato successivamente sentito due volte, ad aprile e a maggio 2018: le sue risposte sono state viziate da almeno cinque “non ricordo”, per esempio sui presenti a quell’incontro e sul motivo della loro visita a Palazzo Chigi. L’ex pm Savasta, ora in servizio al Tribunale di Roma, era interessato ad ottenere un trasferimento o un incarico che gli consentisse di allontanarsi dalla procura di Trani. Lo rileva il gip Giovanni Gallo nell’ordinanza che ha portato alle misure cautelari e nella quale si sottolinea che Savasta, “consapevole della pendenza a suo carico sia di procedimenti disciplinari” che “penali”, “aveva “urgente necessità di allontanarsi al più presto da Trani e ottenere un incarico a Roma, incarico rispetto al quale l’incontro con Lotti aveva una specifica connessione strumentale”. Dopo Lotti, Savasta chiederà e otterrà nel dicembre 2016 un altro incontro a Dagostino: quello con Giovanni Legnini, all’epoca vicepresidente del Csm ed ex sottosegretario all’Economia sotto il governo Renzi. Mentre era ancora pendente a suo carico il procedimento disciplinare. “Risulta evidente”, scrive il gip in merito all’incontro con Lotti, “che Dagostino fissò questo appuntamento a Savasta su richiesta di quest’ultimo, così procurandogli un’indebita utilità”. Nel frattempo, sottolinea ancora il giudice nell’ordinanza, Savasta gestiva le indagini sulle fatture false in cui l’imprenditore Dagostino “emergeva quale figura principale nell’organizzazione della illecita condotta e che neppure venne mai indagato da Savasta, grazie ad un continuo susseguirsi di omissioni e di iniziative volte a sviare l’attività di indagine con il precipuo scopo di favorire Dagostino”. È questo l’impianto dell’accusa di corruzione in atti giudiziari che i pm di Lecce muovono a Dagostino, Savasta e all’avvocato Ruggiero Sfrecola, emerso come intermediario tra le due figure. Secondo quanto contenuto nell’ordinanza, l’avvocato Sfrecola riceveva dall’imprenditore Luigi Dagostino, re degli outlet ed ex socio di Tiziano Renzi e Laura Bovoli soldi da dividere con Savasta che stava appunto indagando per false fatturazioni relative proprio alle imprese di Dagostino e che avrebbe poi aggiustato le indagini a suo favore, commettendo “plurimi atti contrari ai doveri d’ufficio”. L’ordinanza ricostruisce quelle che vengono ritenute quattro tangenti: in data 8 maggio 2015 la prima da 20mila euro. Altri 25mila il 21 dello stesso mese. Da ultimi, altri 8mila euro in due tranche consegnati a inizio 2016. Ma appunto, non c’erano solo i soldi. Savasta, secondo i pm, voleva sfruttare le conoscenze politiche dell’imprenditore Dagostino per ottenere il trasferimento a Roma. Dagostino che riuscirà a fargli incontrare sia Luca Lotti che, come già scritto, anche Giovanni Legnini, all’epoca vicepresidente del Csm ed ex sottosegretario all’Economia sotto il governo Renzi. L’incontro con a Palazzo Chigi – Interrogato, Dagostino dal canto suo ha sempre negato di aver pagato l’avvocato Sfrecola e il pm Savasta, dicendo anzi di aver incontrato quest’ultimo “per casoun giorno al bar Igloo” di Barletta. Circostanza descritta come del “tutto inverosimile” dal gip alla luce dei collegamenti tra i tre ricostruiti dall’inchiesta. L’imprenditore però non nega l’incontro con Lotti a Palazzo Chigi, ottenuto “tramite Tiziano Renzi”. Secondo Dagostino, quell’incontro gli era stato chiesto da Savasta per parlare a Lotti di “una sua proposta di legge”. A smentirlo però è lo stesso avvocato Sfrecola che, interrogato, racconta invece come Savasta “voleva cambiare aria ed essere quindi trasferito”. Anzi, riferisce che a quel punto lo stesso Savasta “mi disse che era interessato ad avere un incontro con Luca Lotti, io lo dissi a Dagostino e questi lo fissò”. I “non ricordo” di Lotti – Di quell’incontro a Palazzo Chigi del giugno 2015, Lotti però “non ricorda” molto quando viene interrogato dai pm nella primavera 2018. “Ho una conoscenza superficiale di Antonio Savasta – spiegava Lotti ai pm – sicuramente me l’hanno presentato ma non ricordo chi né in quale occasione”. Lotti diceva di non ricordare l’argomento dell’incontro ma “di regola Dagostino – aggiungeva – mi parlava di suoi interessi a Firenze e delle sue attività riguardanti il the Mall e sul fatto che voleva costruire un centro commerciale in Puglia a Fasano”, negando – rispondendo ad una specifica domanda del pm – di essere a conoscenza di “interessi” dello stesso Tiziano Renzi nel Mall a Fasano. “Non ricordo – sottolineò Lotti – se Savasta mi chiese qualcosa per sé perché non ricordo bene come si svolse tale incontro”.
Le tangenti e l’indagine “insabbiata”. È Savasta, a inizio 2015, a chiedere alla collega originariamente delegata che gli venga riassegnato il procedimento della Procura a carico di Dario Dimonte, Ruggiero Rizzitelli e Leonardo Ruggiero Belgiovine, indagati per emissione di fatture per operazioni inesistenti. Fatture che, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Giovanni Gallo, “venivano utilizzate anche da società toscane riferibili tutte all’imprenditore Luigi Dagostino”. Lo stesso Savasta inoltre omette di astenersi dalla trattazione di tali procedimenti, nonostante l’amicizia con l’avvocato Sfrecola, nominato difensore di fiducia dei tre indagati. Si arriva così al 21 maggio 2015, quando il pm Savasta dispone con un provvedimento la restituzione delle somme, del computer e di altro materiale sequestrato a Dario Dimonte. Il tutto, si legge nell’ordinanza, “senza avere mai esaminato né delegato ad alcuno l’esame dei documenti e l’analisi dei computer. Il 21 è lo stesso giorno in cui Dagostino, secondo i pm salentini, consegna all’avvocato Sfrecola la seconda mazzetta da 25mila euro. La prima da 20mila era arrivata l’8 maggio: soldi che il legale doveva in parte tenere per sé, ma soprattutto consegnare a Savasta, stando all’impianto accusatorio. Lo stesso pm che il giorno successivo, il 22 maggio, interroga alla presenza di Sfrecola l’indagato Belgiovine, omettendo di “rivolgergli qualsivoglia domanda in ordine al beneficiario delle false fatture – si legge nell’ordinanza – così favorendo Dagostino che era il reale richiedente”. Infine, Savasta omette di iscrivere nel registro degli indagati gli amministratori delle società utilizzatrici delle fatture false, quindi Luigi Dagostino, la moglie Maria Emanuela Piccolo e la compagna Ilaria Niccolai, e di inviare gli atti per competenza alla procura di Firenze. Come racconta il maggiore della Guardia di Finanza di Barletta, Carmelo Salamone, sentito dal pm di Firenze in data 23 aprile 2018: “Andai da Savasta e gli chiesi se avrebbe iscritto gli stessi trasmettendo gli atti per competenza. Mi rispose prima che intendeva farlo e dopo qualche giorno invece mi disse che non intendeva farlo”. Nessuna iscrizione dunque, né comunicazione alla Procura competente. In cambio, secondo quanto ricostruito dal gip, Savasta ottiene soldi e gli incontri con Lotti e Legnini. Alla fine otterrà anche il trasferimento al Tribunale di Roma.
Ed ancora Magistrati nel mirino dell'impunità.
La Procura della Repubblica di Lecce ha chiesto, per la seconda volta, l’archiviazione del fascicolo d’inchiesta, ma il giudice per le indagini preliminari del capoluogo salentino, Vincenzo Brancato, non ha condiviso le conclusioni dell’ufficio del pubblico ministero e ha ritrasmesso al pm Giovanni De Palma, gli atti per la formulazione dell’imputazione, dunque coatta, a carico di Antonio Savasta, barlettano, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Trani. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I reati ravvisati dal gip sono: appropriazione indebita, esercizio arbitrario delle proprie ragioni e truffa. A quest’ultimo proposito il gip ha inoltre ritenuto che “sussistono le aggravanti, stante la qualità del dr. Savasta e l’oggettiva rilevanza economica del danno patito dalle parti offese”: i coniugi barlettani Giuseppe Dimiccoli e Filomena Di Lillo. I fatti, e dunque le accuse, non riguardano l’attività di magistrato di Savasta, ma vicende personali. Quelle relative al contratto preliminare d’acquisto della masseria San Felice che sorge, e da qualche anno è attiva, nell’agro di Bisceglie dopo una serie di opere di ristrutturazione. Secondo quanto ravvisato dal gip di Lecce, l’appropriazione indebita riguarderebbe “i proventi dell’attività commerciale esercitata presso la masseria San Felice”, nonché il mobilio dei coniugi Di Miccoli-Di Lillo che arredano la masseria, non restituiti nonostante un’espressa richiesta. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, secondo il gip, si sarebbe concretizzato nella sostituzione della serratura del portone d’ingresso d’accesso alla masseria. Infine, l’ipotesi di reato di truffa aggravata sarebbe consistita “nel simulare, attraverso la formazione di un’apposita scrittura privata, la volontà di Savasta di trasferire ai denuncianti Dimiccoli e Di Lillo una porzione della masseria San Felice”. Savasta prima avrebbe indotto in errore i coniugi facendo sì che gli corrispondessero la consistente somma di 400mila euro e poi avrebbe rifiutato la stipula del contratto di compravendita, trasferendo ai suoi familiari la masseria oggetto del contratto preliminare”. Per il gip, gli artifizi e i raggiri si sarebbero realizzati anche “per effetto dell’influenza esercitata dalla caratura e competenza giuridica del promettente venditore (Savasta) e dalla garanzia di affidabilità che ne conseguiva e che egli assicurava”.
L’ex pm Savasta della procura di Trani condannato in appello, scrive il 29 marzo 2017 “Il Corriere del Giorno”. Accusa di falso per lavori ampliamento di masseria a Bisceglie: non dichiarò piscina. Nell’ambito della stessa vicenda Savasta è stato assolto nelle scorse settimane dall’accusa di concussione e sarà processato a partire da luglio insieme con familiari, soci e tecnici comunali per lottizzazione abusiva e violazione del codice dei beni culturali e del paesaggio. La Corte di Appello di Lecce ha confermato nella tarda mattinata di ieri la condanna a 2 mesi di reclusione (pena sospesa e non menzione) per falso nei confronti dell’ex pm di Trani Antonio Savasta, nei mesi scorsi trasferito come giudice a Roma. Si tratta di uno dei procedimenti penali relativi alla trasformazione di una antica masseria di Bisceglie in resort di lusso. Il Procuratore Generale della Corte di Appello di Lecce aveva in udienza chiesto la conferma della sentenza di primo grado.
L’accusa di falso riguarda l’aver falsamente dichiarato dinanzi ad un notaio in due diverse occasioni (nel 2009 e nel 2010) di non aver fatto costruire una piscina, per la cui realizzazione sarebbe stata necessaria specifica autorizzazione edilizia. Nell’ambito della stessa vicenda Savasta è stato assolto nelle scorse settimane dall’accusa di concussione e sarà processato a partire da luglio insieme con familiari, soci e tecnici comunali per lottizzazione abusiva e violazione del codice dei beni culturali e del paesaggio. L’ abuso edilizio contestato all’ex pm di Trani realizzato in concorso con famigliari, tecnici e funzionari pubblici, è relativo alla trasformazione urbanistico-edilizia della Masseria, “immobile di interesse storico, ambientale e paesaggistico, sul quale – riporta imputazione – vigeva divieto assoluto di nuove costruzioni, demolizioni e trasformazione, in una struttura turistico alberghiera” attraverso la realizzazione sprovvista delle previste necessarie senza autorizzazioni “di rilevanti modifiche ed ampliamenti”. Questa non è l’unica vicenda giudiziaria sulla masseria San Felice che vede coinvolto Savasta, giudicato da Lecce per ragioni di competenza, nate in seguito alle controversie fra Antonio Savasta e l’imprenditore barlettano Giuseppe Dimiccoli, attivo nel settore dell’abbigliamento, che nel 2005 acquistò insieme al magistrato la masseria.
Procura Trani sotto lente Csm: "Rete sospetta di conoscenze". Due pm a rischio trasferimento. Sulla base di esposti anonimi, il Consiglio superiore apre un fascicolo sulla condotta dell'ufficio pugliese, già protagonista di indagini sui potenti della finanza: "Intreccio di rapporti con avvocati e imprenditori". Per due magistrati anziani, Savasta e Scimè, possibile spostamento per "incompatibilità ambientale", scrivono Giuliano Foschini e Liana Milella il 05 ottobre 2016 su "La Repubblica". Decine di esposti. Un intreccio di rapporti tra magistrati, avvocati e imprenditori. O, per dirla con le parole del procuratore generale di Bari Anna Maria Tosto, "un'indicazione costante che in quel tribunale ci sarebbe una sorta di rete conoscenze" che indirizzi le indagini, a volte accelerandole a volte rallentandole, per utilizzarle "come ragione di pressione indiretta per conseguire alcuni vantaggi". Che succede alla procura di Trani, il piccolo eppure famosissimo ufficio giudiziario che in questi anni ha indagato, tra gli altri, sui potenti della finanza italiana e internazionale? Se lo chiede il Consiglio superiore della magistratura che, nei giorni scorsi, ha aperto un fascicolo per valutare il trasferimento di ufficio dei due sostituti procuratori anziani, Antonio Savasta e Luigi Scimè, per "incompatibilità ambientale". L'iniziativa nasce al termine di una prima istruttoria effettuata dal Consiglio superiore della magistratura che in questi mesi ha visto protagonista gli uffici giudiziari tranesi, al centro di una rete fitta e incrociata di veleni a tutti i livelli. Tutto è cominciato un paio di anni fa quando un gip in passato in servizio a Trani, Roberto Oliveri del Castillo, dà alle stampe un romanzo, "Frammenti di storie semplici", nel quale racconta le "malefatte" che avvengono proprio in un piccolo tribunale di provincia. I nomi sono di fantasia ma i riferimenti chiari: magistrati che si accordano per far finire "sotto indagine, se non arrestarlo, qualche imprenditore o qualche politico (una volta addirittura un vescovo), per poi estorcere denaro per far morire il processo". Fratelli avvocati che sfruttano le parentele oltre a una lunga serie di malefatte che avvengono in questo tribunale "davanti al mare, in mezzo al castello e alla cattedrale". Proprio come quello di Trani. Il libro di Del Castillo (che sull'argomento è stato ascoltato anche dal Csm, in un fascicolo parallelo) solleva un polverone. Mai alto come quello che si alza a luglio quando è pubblicata la foto di un magistrato della procura, Simona Merra, che si fa leccare il piede scherzosamente durante una festa da un avvocato, Leonardo De Cesare. La foto è del 2012. Ma a luglio, quando viene fuori perché allegata in un esposto inviato al Csm, Merra è una delle titolari del fascicolo sulla strage del treno Andria-Corato, De Cesare l'avvocato del principale indagato, il capostazione Vito Piccarreta, le famiglie delle vittime si indignano, la foto finisce ovunque, sui giornali, sui siti e sulle televisioni e il magistrato Merra preferisce lasciare le indagini per evitare "strumentalizzazioni". Da grande accusatrice, la procura di Trani comincia quindi a sentirsi grande accusata. Al Csm in meno di due anni arrivano una decina di esposti che, scrive oggi il Consiglio nella procedura aperta a carico dei due magistrati, "anche se in alcuni casi generici o provenienti da soggetti che non è stato possibile identificare hanno contenuto analogo". Nelle denunce "si evidenzia l'esistenza di una rete di conoscenze tra sostituti procuratori che da anni operano a Trani, avvocati, appartenenti alle forze dell'ordine, amministratori locali e alcuni imprenditori. Tale "rete" influenzerebbe l'inizio e lo svolgimento delle indagini nel senso che, in alcuni casi, in presenza di persone "amiche" le indagini non verrebbero iniziate o comunque "attivate" e per questo archiviate. In altri casi, all'opposto, le indagini avrebbero costituito uno strumento di pressione per conseguire vantaggi, soprattutto economici, per sé o per altri "sodali" e pregiudizio per gli "avversari"". A Savasta viene contestato il ruolo di un fratello avvocato civile, di un cugino commercialista e di un altro cugino avvocato e alcuni incarichi ricevuti da municipalizzate di Barletta a un avvocato, definito socio occulto del fratello. Inoltre, si parla di "indagini eclatanti" che il pm avrebbe portato avanti, soprattutto nei confronti di banche (Mps, Bnl, Unicredit tra le altre), e finite "sempre con un'archiviazione". Infine si parla dei suo i rapporti con un imprenditore da cui aveva acquistato una masseria oggetto di procedimenti penali poi finiti però con assoluzioni, mentre sarebbero in corso altre due indagini partite da altre denunce. A Scimè, che ha anche un fratello con "rilevanti incarichi in aziende municipalizzate del comune di Barletta", appunta sempre l'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm contesta i rapporti con un altro avvocato e un appuntato dei carabinieri. "Dagli esposti - ha detto in un'audizione al Consiglio il procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto - emerge un clima di oggettivo disagio: la Procura è oggetto di una serie di segnalazioni che comunque dimostrano proprio nella loro sistematicità, l'esistenza di una condizione diffusa di disagio dell'utenza giustizia tranese (...) C'è indubbiamente questa condizione (...) L'indicazione costante è quella che ci sarebbe una sorta di rete tra alcuni sostituti procuratori che da anni operano a Trani, alcuni avvocati e poli economici molto importanti. E in virtù di questa rete di conoscenze, frequentazioni, amicizie, lamentano il fatto che alcune indagini non sono state fatte, che in altri casi vengono fatte indagini solo eclatanti e che altre indagini sono state attivate e archiviate. E che alcune indagini sono state utilizzate come ragione di pressione indiretta per conseguire alcuni vantaggi". "Il Csm non ci ha comunicato nulla e comunque ci troviamo in una fase del tutto iniziale del fascicolo" spiegano sia Savasta sia Scimè che, comunque, avevano già chiesto o stavano per chiedere il trasferimento e quindi bloccherebbero la procedura di trasferimento. Il profilo delle contestazioni non è disciplinare, ma soltanto di natura ambientale. "Io non ho mai avuto una contestazione disciplinare nella mia vita" dice Scimè. "E io sono stato sempre assolto da tutto" aggiunge Savasta. "Non ho più rapporti con quell'avvocato citato dal Consiglio- continua il pm Scimè - da più di quattro anni e la vicenda era già stata archiviata, proprio perché tutto era stato trasparente. La storia riguardava la commissione tributaria, io avevo fornito un parere corretto e per questo ho impugnato al Tar la decisione del consiglio giudiziario perché ingiusto ed errato. E proprio oggi è in calendario la discussione". "Su questi stessi fatti - si difende invece Savasta - ho già ricevuto due assoluzioni dalla procura di Lecce e dallo stesso Csm. Per questo trovo incredibile che si torni a parlare di questa storia per ragioni ambientali, sulla base di esposti anonimi. Storia nella quale mi sembra chiaro di non avere alcuna responsabilità, come dimostrerò senza alcun problema anche questa volta".
Accertamenti del Consiglio Superiore della Magistratura sulla Procura di Trani. Il Consigliere togato di Magistratura Indipendente, Lorenzo Pontecorvo: “non delegittimare pm che indagano su scontro treni”. E presto il Csm si occuperà anche di qualche altra Procura pugliese…scrive “Il Corriere del Giorno” il 25 luglio 2016. Il Csm sta svolgendo accertamenti preliminari sulla Procura di Trani, che sta conducendo l’inchiesta sullo scontro di due treni in Puglia in cui sono morte 23 persone. La pre-istruttoria della Prima Commissione di Palazzo dei Marescialli non riguarda le indagini sull’incidente ferroviario, ma vicende, tutte da accertare, segnalate da “parecchi” esposti a carico di alcuni pm, alcuni su presunte frequentazioni non corrette con avvocati. L’esistenza del fascicolo è emersa ieri nel dibattito sulla delibera che ha disposto l’archiviazione della pratica sul procuratore di Arezzo, Roberto Rossi. Criticando il modo di procedere della Prima Commissione in questo come in altri casi, uno dei suoi componenti – il togato di Magistratura Indipendente, Lorenzo Pontecorvo– ha citato la pratica su Trani e le audizioni svolte in mattinata dell’ex procuratore Carlo Maria Capristo e del Pg di Bari Anna Maria Tosto, avvertendo che “così si sta pregiudicando la serenità di un ufficio giudiziario impegnato nelle indagini sul grave disastro ferroviario”. A sollecitare l’intervento del Csm non sono stati solo “parecchi esposti, tanti dei quali anonimi” su alcuni pm, ma anche un romanzo scritto da un ex gip di Trani, Roberto Oliveri del Castillo: “Frammenti di storie semplici”. Si tratta del diario di un giudice che racconta fatti e misfatti dell’ambiente giudiziario. Nel romanzo si legge per esempio la storia di un masseria comprata da un pm che Oliveri del Castillo chiama “Cricco”. “Non c’è alcun riferimento alla realtà”, ha giurato Oliveri del Castillo, ma il pm Antonio Savasta, uno dei magistrati che coordina l’indagine sul disastro ferroviario, possiede una masseria ed è sotto processo a Lecce per concussione per induzione nei confronti di un imprenditore, indotto a vendere un terreno adiacente. Solo delle strane coincidenze? Un tentativo di stoppare le interpretazioni, riprese e pubblicate anche su un quotidiano nazionale che ha sovrapposto la figura di pm molto noti della Procura di Trani ai protagonisti di “fantasia” del libro. Il magistrato-scrittore quando è stato ascoltato per primo dal Csm ha dichiarato che “è frutto di pura fantasia”. Ma che in realtà non sia esattamente così lo pensa più di qualcuno, e non soltanto perché in quelle pagine ci sarebbe un’eco di qualche fatto di cronaca, ma anche perché ci sarebbe un’affinità con alcune delle vicende riferite negli esposti presentati al Csm, a partire da quelli su frequentazioni ritenute non propriamente corrette tra magistrati e avvocati. Giovedì scorso l’organo di autotutela della magistratura ha ascoltato il procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto, e Carlo Maria Capristo, fino al marzo scorso alla guida della Procura di Trani ed attualmente procuratore capo a Taranto. La Prima Commissione del CSM intende accertare e capire attraverso le audizioni se i fatti, segnalati dagli esposti anonimi, siano credibili o meno. Al momento un dato di fatto è certo: un giudice che ritiene di essere stato danneggiato da un riferimento contenuto nel libro ha citato il gip-scrittore Oliveri del Castillo in sede civile.
Andria, il legale del capostazione bacia i piedi del pm che indaga. Una foto per alimentare i veleni. Non c’è pace per la procura di Trani, alle prese da quasi un mese con la delicata indagine sul disastro ferroviario del 12 luglio, scrive Massimo Malpica, Venerdì 05/08/2016, su "Il Giornale". Una foto per alimentare i veleni. Non c’è pace per la procura di Trani, alle prese da quasi un mese con la delicata indagine sul disastro ferroviario del 12 luglio scorso nel quale hanno perso la vita 23 persone. La prima commissione del Csm ha aperto un procedimento sui magistrati pugliesi a fine luglio e la notizia è trapelata per l’intervento del togato di MI Lorenzo Pontecorvo che aveva messo in guardia dal rischio di pregiudicare «la serenità di un ufficio giudiziario impegnato nelle indagini sul grave incidente ferroviario». Alle attenzioni di palazzo dei Marescialli ci sarebbe in particolare il pm Antonio Savasta, al centro di alcuni degli esposti pervenuti al Csm. Come pure il controverso romanzo dell’ex gip di Trani Roberto Oliveri del Castillo (già ascoltato dal Csm), «Frammenti di storie semplici», che dietro nomi di fantasia racconta storture ed episodi di malagiustizia che sembrano riferirsi proprio alla procura della città a nord di Bari. Ma secondo i rumors, il procedimento si concentra anche sui rapporti tra magistrati e avvocati del distretto giudiziario, che secondo alcuni degli esposti non sarebbero sempre contenuti nei limiti della correttezza. In uno degli ultimi esposti spediti al Csm, l’imprenditore barlettano Giuseppe Dimiccoli, da tempo impegnato in un braccio di ferro giudiziario con il pm Savasta (per una questione relativa a una masseria sfociata in diversi strascichi giudiziari), allega al testo della denuncia una foto (qui a destra) scattata a una festa. La donna a sinistra è la pm tranese Simona Merra, nel pool di magistrati che indaga sull’incidente ferroviario. L’uomo che le fa il «baciapiede» è l’avvocato Leonardo De Cesare, legale del capostazione di Andria Vito Piccarreta, che dell’inchiesta è uno degli indagati. Nel suo esposto Dimiccoli collega l’immagine all’ipotesi sostenuta dal gip nel suo romanzo «che la scelta dei legali da parte degli indagati venga pilotata dalla convinzione che taluni avvocati siano legati da rapporti di amicizia e frequentazione con alcuni pm». Ovviamente Trani è una piccola città, e l’immagine sembra provare solo una certa familiarità tra il pm che indaga e il difensore di un indagato. Ma nel clima rovente della procura tranese anche l’istantanea di una festa può alzare la temperatura.
Quella masseria "magica" del pm indagato per truffa. Denunciato dall'amico con cui aveva acquistato l'immobile, avrebbe moltiplicato i vani della casa e imbrogliato il socio con artifici e raggiri, scrive Massimo Malpica, Giovedì 06/12/2012, su "Il Giornale". Non vanno in archivio i guai giudiziari per il pm di Trani Antonio Savasta, indagato a Lecce per truffa aggravata, appropriazione indebita ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Tutta «colpa» della bella masseria nelle campagne di Bisceglie, comprata nel 2005 insieme all'imprenditore barlettano Giuseppe Di Miccoli, ma intestata solo al magistrato per motivi fiscali. La storia della società - raccontata da questo quotidiano a marzo 2011 - finisce male. Nonostante in una scrittura privata, su carta intestata della procura di Trani e firmata da Savasta a giugno 2006, il pm si impegnasse a vendere all'imprenditore la quota già peraltro pagata (circa 400mila euro), nei fatti Di Miccoli si ritrova nel giro di pochi anni fuori dalla società, e anche dalla masseria. Savasta sostiene, in barba alla sua stessa scrittura privata, che i soldi incassati dall'ex amico erano solo un prestito. E dona la masseria ai fratelli, con un atto in cui i vani dell'immobile risultano moltiplicati rispetto alla compravendita di pochi anni prima. Di Miccoli non ci sta, e denuncia il pm a Lecce, procura competente per Trani. Un mese dopo la pubblicazione sul Giornale della querelle, ad aprile 2011, il pm che indaga sul collega, Giovanni De Palma, chiede al gip di archiviare. L'imprenditore fa opposizione, il gip accoglie, la procura delega i carabinieri a indagare e gli uomini dell'Arma, nell'informativa, danno ragione a Di Miccoli. Su tutto: chiavi cambiate, comproprietà della masseria negata, mobili spariti, scrivono i militari. Che ritengono «del tutto inverosimile» che i 400mila euro fossero un «prestito filantropico» offerto da Di Miccoli a Savasta. Sembra un preludio al rinvio a giudizio per la toga, e invece lo scorso 12 aprile al gip arriva una seconda richiesta di archiviazione, firmata da De Palma e dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. Per le toghe, le indagini dei carabinieri «non apportano alcuna sostanziale modifica al quadro probatorio». Di Miccoli si oppone ancora e il 12 ottobre scorso si arriva al confronto in udienza davanti al gip Vincenzo Brancato tra gli ex soci-amici, il pm e l'imprenditore. Come sia andato il faccia a faccia, lo si intuisce dall'ordinanza con cui il 28 novembre scorso il giudice per le indagini preliminari ha rigettato anche la seconda richiesta di archiviazione, chiedendo ai pm l'imputazione coatta del collega Savasta per truffa aggravata, appropriazione indebita, esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il documento, un preludio alla richiesta di rinvio a giudizio, per il magistrato amante delle masserie è devastante. Il gip rimarca anche come gli «artifizi e raggiri» con cui Savasta avrebbe truffato l'imprenditore, «si sono realizzati anche per effetto dell'influenza esercitata dalla caratura e competenza giuridica» dell'uomo. E proprio «la qualità di pm» di Savasta giustifica le aggravanti, scrive il gip. Che prima dell'imputazione coatta, sintetizza la vicenda: «lucida e compiuta ideazione di un articolato disegno criminoso integralmente realizzato». Di certo, i colpi di scena non sono mancati. I legali di Di Miccoli tra le carte del fascicolo d'indagine hanno trovato la fotocopia di un procedimento avviato contro l'imprenditore su querela di una donna che diceva di essere stata minacciata dall'uomo perché dichiarasse il falso e si unisse alle accuse contro Savasta. Di Miccoli, però, aveva imparato a fidarsi poco. E aveva videoregistrato l'incontro con quella donna, che aveva in passato lavorato nella masseria al centro della contesa, procurandosi un alibi spettacolare: niente minacce. Ora, però, è Di Miccoli che ha denunciato la donna. Per capire «se è stata indotta da qualcuno, e da chi, a denunciare il falso nei miei confronti». Accuse boomerang? Toccherà ai pm di Lecce stabilirlo.
E poi ancora. Inchiesta imbarazzante. Agli atti dell’inchiesta ci sono decine di messaggi e mail di «fuoco» che i due magistrati si sono scambiati mentre la loro relazione terminava, pare, in modo piuttosto modo burrascoso. Parole pesanti, minacce e denunce reciproche che il 28 maggio 2013 approderanno davanti al Tribunale di Lecce. Sul banco degli imputati, citati direttamente a giudizio dal pm salentino Carmen Ruggiero, due magistrati già in servizio presso il Tribunale di Trani. Il giudice M.G.Caserta, ex gip di Trani (trasferita dal Csm a Matera, a seguito della vicenda) che deve difendersi dalle accuse di lesioni e atti persecutori nei confronti del magistrato M. Nardi. Quest’ultimo, oggi in servizio presso il Ministero della Giustizia, è imputato, invece, per minacce nei confronti della stessa Caserta.
Il giudice M.G.Caserta, ex GIP di Trani, è stata trasferita a Matera e per questo motivo è balzata agli onori della cronaca, anche se a suo dire, gli articoli a lei dedicati sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro. Stesso trattamento, d'altronde, riservato ai poveri cristi, che non si possono nemmeno lamentare. Gogna e mancato ristoro in caso di assoluta estraneità ai fatti.
Fin qui la sintesi della vicenda, che da sè sarebbe già allarmante e poco etica. Ma c'è un seguito. Il resoconto è il coordinamento sintetico di articoli pubblicati da vari giornali (di destra e di sinistra, locali e nazionali) con il link di riferimento. Nell'occasione si è omesso il nome della protagonista, che si trova sugli articoli originali, e si sono saltate le questioni più scabrose. Nonostante ciò, con spirito di rivalsa e di censura, la signora, anziché far oscurare le pagine dei quotidiani che riportano gli articoli ha pensato di inviare alla nostra redazione questa diffida: «Spett.le Redazione "ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE" ONLUS C. F. 90151430734 SEDE LEGALE: AVETRANA (TA), VIA PIAVE 127 in persona del responsabile del SITO WEB dott. GIANGRANDE ANTONIO, Ad ogni effetto, la sottoscritta, dott.ssa M.G.Caserta., Magistrato Ordinario, nel proprio interesse e con riferimento agli articoli di cui all’oggetto, comparsi sui siti web in indirizzo; considerato che gli articoli riportati nei suindicati siti web sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro; impregiudicata ogni azione a tutela della propria onorabilità nella sede penale e civile DIFFIDA Il responsabile del sito web in indirizzo affinché provveda all’immediata rimozione dal web degli articoli di cui all’oggetto. Rappresenta sin d’ora che in difetto, si vedrà costretta a convenire in giudizio il responsabile per inibire con urgenza la detta pubblicazione, con ogni conseguenza e riserva, anche a fini di rettifica. Addì, 03 aprile 2012 Dott.ssa M.G.Caserta».
Ed in quest’ottica, non potendo operare azione di censura nei confronti di tutte le altre testate, continuo la mia opera di rettifica ed integrazione sui miei scritti, così nei modi e nei tempi come in precedenza, omettendo il nome del giudice e pubblicando ulteriore sollecito di rimozione da parte del giudice in oggetto. “Ho ricevuto mandato dalla dott.ssa M. G. Caserta, Magistrato, al fine di assisterla nella tutela legale per l’intrapresa di azioni a ristoro dei danni cagionati alla sua immagine personale e professionale dalla permanenza sul web di articoli di contenuto diffamatorio e non conforme agli accertamenti giurisdizionali effettuati nei suoi confronti. Allo scopo, segnalo che sul motore di ricerca Google risultano indicizzate le pubblicazioni sopra indicate e contenenti circostanze non veritiere e manifestamente offensive nei confronti della Dott.ssa M. G. Caserta, da me assistita. Il contenuto di quegli articoli è smentito dagli accertamenti giurisdizionali medio-tempore compiuti in quanto la dott.ssa Caserta è stata assolta da ogni addebito con sentenza del novembre 2013 e, in quanto, con distinto provvedimento del 19/12/2014, il Consiglio Superiore della Magistratura ha prosciolto la mia assistita dagli addebiti mossi in sede disciplinare. Per di più ella risulta attualmente persona offesa dai reati di calunnia, diffamazione e false informazioni al P.M. I procedimenti pendono dinanzi alla Procura della Repubblica di Lecce. La permanenza sul web dei detti articoli (che riportano notizie smentite da una sentenza definitiva) determina una incalcolabile lesione della immagine professionale della dott.ssa C. e ove essi non vengano immediatamente rimossi, mi vedrò costretta ad adire l’autorità giudiziaria per il ristoro dei danni patiti dalla mia assistita. Confido che rimuoverà sollecitamente dal web i pezzi richiamati in oggetto e tutti quelli ad essi collegati. Cordialmente Avv. R. M.”
Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica. Non è certo il tono usato, però, che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conoscono i miei libri, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta e i nostri canali you tube. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato alla signora per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è la signora che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta a livello istituzionale letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. Gli articoli citati dalla signora sono inseriti in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per la signora siano inveritieri e diffamatori, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono frutto di ricerca e di didattica su materiale altrui su cui va indirizzata la volontà repressiva. In questo caso gli articoli citati sono:
La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 novembre 2011
La Repubblica del 15 novembre 2011
“Il Giornale” del 16 novembre 2011 di Gian Marco Chiocci
“Il Giornale” del 5 febbraio 2012
"Il Giornale" del 5 febbraio 2012
"Il Giornale" del 6 febbraio 2012
A questi si aggiungono gli aggiornamenti.
Trani, toghe a luci rosse: sms piccanti e minacce tra pm e gip. La Procura di Lecce indaga per stalking e molestie reciproche. Lei scriveva: "I tuoi figli sono str... come te". Lui: "Io ti distruggo".
Lui è il pm M. N., lei il gip M.G.Caserta. Nei verbali conversazioni durissime e scenate di gelosia. Una storia d'amore (finito) e di coltelli (volati) all'ombra della Procura di Trani, quella per intenderci che vuole alla sbarra le agenzie di rating Fitch e Standard&Poor's. Protagoniste due toghe, lui pm e lei giudice per le indagini preliminari, ex amanti con contorno di sms proibiti, minacce, colluttazioni, schiaffi e aggressioni in pubblico. Un dossier scottante già preso in carico dalla Procura di Lecce, nel quale erano finiti anche dettagli ancora più caldi ma fin qui senza riscontri: video hard, rapporti lesbo, membri del Csm coinvolti. La vicenda la riporta Gian Marco Chiocci sul Giornale e ripresa da “Libero Quotidiano” e la definizione data al Tribunale, "boccaccesco", è decisamente azzeccata. Il pm M. Naedi e il Gip M.G.Caserta sono entrambi imputati e parti lese. La giudice risponderà di "minacce e molestie" nei confronti dell'ex amante sposato: lei, trasferita in provincia di Matera per "carenza di equilibrio", avrebbe procurato a Nardi un "perdurante e grave stato di ansia" generando "timore per l'incolumità sua, di sua moglie e dei figli". Sì, anche dei figli, visto che negli sms di fuoco inviati dalla Caserta ci sarebbero accuse anche nei loro confronti: "I bambini? - scriveva al cellulare la Gip - Sono stronzi, non sono bambini, figli di puttana come il padre, come te". E ancora, riferendosi alla figlia 11enne del pm: "Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa da quanti sarà colto". A verbale, Nardi ha poi parlato di "cinquanta o sessanta aggressioni fisiche": "All'interno di un ristorante e di un centro commerciale, alla presenza di più persone". E poi, riporta Chiocci, il fattaccio in strada a Sassari, quando la Caserta avrebbe colpito violentemente alla testa l'ex amante con una borsettata in fronte. Altri magistrati e un avvocato generale dello Stato avrebbero cercato di fermare la donna, ricevendo una brusca risposta: "Me ne fotto di chi sei, fatti i cazzi tuoi, io sono un gip". Nardi parla di vero e proprio stalking, con la collega che lo avrebbe addirittura "pedinato in vacanza", soggiornando nello stesso albergo della sua famiglia. Dal canto suo, la Caserta ribatte sostenendo di essere stata minacciata dall'uomo, "anche di morte, di persona, in conversazioni telefoniche e con sms". Per esempio, il gip cita un messaggio piuttosto pesante inviatole da Nardi: "Non ti permettere mai più di chiamarmi, io non ti mando più messaggi, io non ti scrivo più e tu non mi contattare più. Ma sappi che io ti distruggerò".
Quegli ex amanti in toga che imbarazzano il Csm, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Odio e amore a Trani, nel Tribunale delle grandi inchieste. Nelle stanze giudiziarie più gettonate dai media, in origine fu il gossip, poi la passione, dopodiché subentrò la gelosia e dunque l'odio. Seguirono minacce, ripicche, sms irripetibili, pedinamenti e appostamenti sotto casa. Quindi i due amanti in toga, perché di questo si tratta, passarono agli schiaffi, alle urla, i pestaggi. Col tempo arrivarono traumi e ferite, ricoveri in ospedale accompagnati da denunce e controdenunce. Di contorno al regolamento di conti venne volantinato anche un esposto anonimo dove si favoleggiava di presunti video hard, mentre nell'inchiesta finivano i pettegolezzi su presunti rapporti «ravvicinati» di un certo tipo con membri del Csm, chiacchiericcio che potrebbe divenire pubblico a breve. Per non parlare di quel che man mano usciva a margine degli accertamenti disposti dall'imbarazzata procura di Lecce: i veleni su storie lesbo, carabinieri amanti di giudici, molestie tra giudici e giudici, tra questi ultimi e avvocati: tutto questo nel boccaccesco tribunale di Trani dove però, scava scava, alla fine non s'è trovata prova di quel che un Corvo raccontava con dovizia di particolari. È da brividi la lettura delle migliaia di carte dell'inchiesta di Lecce che ha portato alla citazione diretta a giudizio di due magistrati protagonisti di una lite sentimentale senza precedenti: di qua il gip M.G.Caserta, di là il pm M. Nardi. Oggi i due sono reciprocamente imputati e parti lese di un intreccio giudiziario che a maggio esploderà pubblicamente in Tribunale. La giudice, trasferita d'urgenza dal Csm da Trani in provincia di Matera per «carenza di equilibrio», deve rispondere di aver «minacciato e molestato» l'ex amante (sposato), reo di aver voluto interrompere la relazione, procurandogli «un perdurante e grave stato di ansia» tale da «ingenerare in lui fondato timore per l'incolumità sua, di sua moglie e dei figli». Anche e soprattutto per effetto della valanga di sms reciproci - trascritti nel procedimento leccese - dove la giudice a sua volta ha riversato perizie tese a dimostrare che in realtà era lui che la martellava e che «le esternazioni erano per lo più reciproche, espresse nell'ambito di una litigiosità ad armi pari». Nardi a verbale fa ripetutamente presente come i messaggi prendevano di mira non solo lui ma anche e soprattutto i suoi più stretti congiunti («I bambini? Sono stronzi, non sono bambini, figli di puttana come il padre, come te». Oppure: «Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa (la figlia di 11 anni, ndr) da quanti sarà colto». A leggere i reati contestati, il pm è stato aggredito verbalmente e pure picchiato tre volte. «All'interno di un ristorante e di un centro commerciale, alla presenza di più persone» e in strada, a Sassari, «colpito alla fronte con la borsa da passeggio» (per quest'ultima ferita, testimonieranno la furia della gip altri magistrati presenti e un avvocato generale dello Stato che racconterà di essere intervenuto per fermare la donna, ricevendo in cambio il seguente complimento: «Me ne fotto di chi sei, fatti i cazzi tuoi, io sono un gip»). A verbale il magistrato ferito preciserà di aver subito «cinquanta o sessanta aggressioni fisiche». L'ira della toga- stalker, continua Nardi, era incontenibile e improvvisa. Esplodeva nelle più impensabili circostanze, a qualsiasi ora del giorno e della notte, tant'è che, dice, «sono stato costretto a pagare un vigilantes per prendere mia figlia a scuola». Non solo: a imperitura memoria, «temendo le azioni vendicative e criminali della Caserta» il poveretto fa presente di essersi mandata una mail al suo indirizzo di posta elettronica: «Non so che fare - scriveva - che Dio mi aiuti e illumini la mente di questa folle». In una di queste mail viene riportata anche una dissertazione della gip sul «Berlusconi dittatore». E ancora. Leggendo gli atti si scopre che la gip l'ha addirittura seguita in vacanza, la famigliola del pm, «soggiornando nel medesimo albergo e pedinando lui e i suoi familiari». Un pressing asfissiante. A cui N. decise di porre fine denunciando l'ex amante. Solo che, controquerelato a sua volta dalla Caserta, pure lui è finito alla sbarra per «eccesso di legittima difesa». Le risposte piccate di quest'uomo stravolto sono state ritenute «condotte intimidatorie» nei confronti dell'ex amante, minacciata «anche di morte, di persona, in conversazioni telefoniche e con sms» del tipo: «Non ti permettere mai più di chiamarmi, io non ti mando più messaggi, io non ti scrivo più e tu non mi contattare più. Ma sappi che io ti distruggerò». Al pm che l'ha interrogato, Nardi ha parlato del desiderio di troncare la relazione quando si è reso conto che il rapporto non era poi così rose e fiori, e che poteva finire male per i suoi figli. Di segno opposto, ovviamente, le dichiarazioni rese a verbale dalla Caserta, che agli investigatori ha raccontato di un Nardi «ossessivo e opprimente», che le impediva «le frequentazioni con colleghi e amici» per cercare così di isolarla. Aggiungendo pure quello che, a suo dire, sarebbe stato un doppio gioco sulla reale situazione con la sua famiglia. «Troppe bugie, così ho deciso di troncare». E sul pestaggio di Sassari? La gip la mette così: «È vero, gli ho dato un calcio, avevo una borsa e la tiravamo quando l'ho mollata, e l'ho colpito (involontariamente) al volto. Ma poi lui, successivamente, mi ha detto che è inciampato probabilmente urtando contro un cassonetto». Sia come sia, è finita male. Laconica la «chiusa» di Nardi in ogni memoria presentata: «È questo un magistrato che può rappresentare lo Stato e lo può amministrare con autorevolezza?» (Ha collaborato Simone Di Meo).
Relazioni pericolose tra magistrati, gip e pm sott'inchiesta: ascoltateci. L'amicizia finita in stalking, minacce e lesioni, con accuse reciproche dei protagonisti finiti indagati, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. Se ne sono dette di tutti i colori, dopo la fine della loro amicizia molto intima. Il giudice M.G.Caserta e il sostituto procuratore M. Nardi si sono minacciati reciprocamente di morte, poi querelati a vicenda, sono finiti sui giornali e i loro nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati, persino il Csm ha deciso di occuparsi di loro, ma hanno ancora voglia di parlare. Questa volta, però, davanti agli inquirenti salentini nel corso di formali interrogatori che saranno effettuati nei prossimi giorni dai carabinieri. A chiedere di essere sentiti sono stati gli stessi protagonisti di una brutta vicenda, iniziata come lite personale e sconfinata in farsa che ha avuto come palcoscenico d'eccezione il tribunale di Trani, dove entrambi prestavano servizio fino a pochi mesi fa. N. e la Caserta, che qualche giorno fa hanno ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini preliminari firmato dal pm Carmen Ruggiero, hanno sollecitato l'interrogatorio per tentare di discolparsi dalle accuse di minacce aggravate contestate a lui e di stalking e lesioni addebitate a lei. Il loro ascolto potrebbe modificare il quadro accusatorio, migliorando o peggiorando la posizione degli indagati (che risultano anche parti offese), e aprendo nuovi scenari investigativi relativi a presunti illeciti che potrebbero essersi consumati negli uffici giudiziari di Trani. Proprio Nardi, infatti, nelle sue denunce aveva ventilato la possibilità che la Caserta fosse venuta a conoscenza di notizie riservate nell'ambito dell'inchiesta sul caso Berlusconi-Agcom-Annozero, per cui non è escluso che gli inquirenti leccesi vogliano approfondire tale aspetto. Di sicuro gli interrogatori imprimeranno una veloce accelerazione all'indagine di cui Nardi e la Caserta sono attualmente protagonisti, nata da denunce incrociate dopo la burrascosa fine di un'amicizia molto stretta. Il primo a denunciare è stato il pm, all'epoca in servizio a Trani oggi a Roma, che ha raccontato di liti furibonde e di colpi di borsetta sferrati in faccia, allegando alla querela sms della Caserta dai toni inequivocabili ("ci penseranno gli altri a fartela pagare", "non smetterò di respirare finché non ti avrò visto nel fango". Il giudice, dal canto suo, ha risposto tirando fuori le presunte minacce subite da N. ("se ti incontro per strada ti devo murare viva") e le prove di vere e proprie aggressioni fisiche. I messaggi al veleno e le testimonianze di diverse persone informate sui fatti sono finiti all'attenzione del pm Ruggiero, che ha ritenuto di formulare contestazioni precise nei confronti di entrambi. Dopo gli interrogatori il magistrato dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio oppure l'archiviazione della posizione dei due colleghi. Le determinazioni della Procura di Lecce dovranno essere inviate anche alla Procura della Cassazione, che ha avviato il procedimento disciplinare nei confronti dei due querelanti-indagati. La Caserta è già stata trasferita da Trani a Pisticci "per aver leso l'immagine della magistratura", ma dopo il trasferimento cautelare potrebbero arrivare ulteriori sanzioni, dalle quali anche Nardi potrebbe non essere immune.
Trani, giudice Nardi calunniò colleghe e avvocato: confermata condanna. Un anno e sei mesi per il giudice che è in carcere da più di un mese per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito di una inchiesta della Procura di Lecce, scrive il 18 Febbraio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. La Corte di Appello di Catanzaro ha confermato la condanna a 1 anno e 6 mesi di reclusione nei confronti del magistrato pugliese Michele Nardi, riconosciuto colpevole di calunnia nei confronti di colleghe e di un avvocato. Nardi è in carcere dal 14 gennaio scorso nell’ambito di una indagine della Procura di Lecce (per fatti risalenti a quando era in servizio a Trani) su una presunta associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari per indagini e sentenze pilotate in cambio di denaro e gioielli. Al momento dell’arresto Nardi era in servizio presso il Tribunale di Roma. I fatti contestati dalla magistratura calabrese risalgono al maggio 2012. Nardi aveva accusato di corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio due magistrati suoi ex colleghi a Trani, Maria Grazia Caserta e Margherita Grippo, e l’avvocato barese Michele Laforgia, dichiarando che avevano pilotato l'esito di un processo per ottenerne un guadagno economico. Circostanze risultate non vere e che Nardi avrebbe falsamente dichiarato per «una predisposizione maliziosa di dati, elementi e circostanze di fatto - scrive a il gup del primo grado - abilmente combinati con elementi inconsistenti, ma tutti funzionali al progetto calunnioso complessivo». Dagli atti dell’indagine della magistratura salentina è emerso che nel 2016, quando ancora non era stata pronunciata la sentenza di primo grado del processo di Catanzaro, Nardi avrebbe anche tentato di avvicinare il giudice calabrese, il gup Antonio Battaglia, che di lì a un anno lo avrebbe giudicato e condannato. Con riferimento a questo episodio il gip di Lecce, nell’ordinanza di arresto, parlava di «una trama vischiosa di rapporti intessuti da Nardi», «una chiara propensione dell’indagato a sistemare vicende giudiziarie facendo ricorso anche espliciti tentativi di corruzione, evidentemente nel caso di specie non andati a buon fine».
I Savonarola di Trani. Come una piccola procura che s’è esibita nell’accusare il mondo ha fatto più che altro buchi nell’acqua, scrive Luciano Capone il 6 Giugno 2016 su “Il Foglio”. Illustrazione per “Il castello di Otranto”, del 1764, considerato il primo romanzo gotico: storia di spiriti e fantasmi, come quelli che sembrano aleggiare, poco più a nord, negli uffici giudiziari di Trani. Nel 1764 Horace Walpole, figlio del primo premier britannico sir Robert, pubblica un romanzo destinato a fare storia, “The Castle of Otranto”. L’intricata trama gira attorno a una profezia che incombe sugli usurpatori del castello di Otranto, su cui aleggia lo spirito del principe Alfonso il Buono. Nel castello accadono cose inquietanti, sbocciano amori, si compiono uccisioni e appaiono spiriti misteriosi, in una serie di scene che diventeranno stereotipi letterari del genere horror. Il libro di Walpole è considerato il primo romanzo gotico, fonte d’ispirazione per la letteratura che va dal Dracula di Bram Stoker al Frankenstein di Mary Shelley, passando per i racconti di Edgar Allan Poe fino ad arrivare ai romanzi di Stephen King. Ma anche la realtà ha preso ispirazione da Walpole. Poco più a nord di Otranto c’è un’altra fortezza, teatro di scene da horror giudiziario, nelle cui mura vaga smarrito lo spirito della Giustizia: il Tribunale di Trani. Gli uffici sembrano stregati, infestati da strani demoni. Negli ultimi anni la procura tranese è salita agli orrori delle cronache per una serie d’inchieste contro l’universo mondo, poi smarritesi in qualche cunicolo sotterraneo o finite nascoste dietro qualche botola segreta. I magistrati accalappiafantasmi, guidati dal procuratore Carlo Maria Capristo (da pochi giorni trasferito a Taranto), con le loro reti vanno a caccia di spettri malvagi che però, come per maledizione, una volta acciuffati si trasformano in persone innocenti. In questi anni i ghostbusters tranesi hanno inquisito presidenti del Consiglio, banchieri, agenzie di rating, sindaci, imprenditori, gente comune e praticamente mai hanno beccato un colpevole. Cosa accade in quel tribunale lo ha scritto in un libro Roberto Oliveri del Castillo, per diversi anni giudice per le indagini preliminari a Trani. Il libro del magistrato “Frammenti di storie semplici” – in cui sono contenuti i contributi di due importanti magistrati progressisti come Domenico Gallo e Armando Spataro – è ispirato dalla cronaca ma è di pura fantasia. Anche se sfogliandolo si riconoscono facilmente fatti e protagonisti reali, a partire dalla location, un tribunale “davanti al mare, in mezzo al castello e alla cattedrale”. Proprio come a Trani. Il racconto si sviluppa sotto forma di diario, in cui un giudice racconta la sua impotenza di fronte alle ingiustizie di cui sono vittime gli sventurati cittadini, la sete mediatica che anima le inchieste dei magistrati (“pieni di se stessi e basta, ansiosi di finire sui giornali per quel famoso quarto d’ora di notorietà”) e la corruzione diffusa tra le toghe: “I due colleghi erano conosciuti nell’ambiente come organizzatori di truffe e corruzioni di alto livello. Uno faceva il pubblico ministero, l’altro il giudice: la tattica preferita era l’intesa, il mettere in mezzo, sotto indagine, se non arrestarlo, qualche imprenditore o qualche politico (una volta addirittura un vescovo), per poi estorcere denaro per far morire il processo”. Tra le tante inchieste clamorose evaporate o sospese, ce n’è stata realmente una nei confronti del vescovo di Trani, accusato di usura per aver comprato un palazzo che secondo la procura avrebbe dovuto pagare il doppio. Il procuratore e i suoi sottoposti vengono descritti come boss che taglieggiano la comunità. Nel romanzo di Oliveri del Castillo c’è la storia di un immaginario “Salvatore Granello”, titolare di un famoso pastificio, arrestato per la vendita di grano contaminato: “Un mese di carcere, poi la scarcerazione, e dopo alcuni anni di attesa, con il processo che non si sapeva che fine avesse fatto, finalmente l’archiviazione... I dati anomali sembravano scomparsi. Intanto Granello era stato arrestato e la sua immagine pubblica compromessa”. Nel racconto l’imprenditore sarebbe stato costretto a sborsare centinaia di migliaia di euro, finiti in gran parte nelle tasche dei magistrati: “C’era solo da incriminare Cricco (il pm, ndr) e i suoi amici per concussione, e risarcire i danni a Granello, che per sua fortuna e capacità era riuscito a rimettersi in piedi e continuare a lavorare”. La storia di fantasia ricalca – concussione a parte – la disavventura di Francesco Casillo, imprenditore leader nella commercializzazione del grano, incarcerato e processato per aver importato secondo il pm Antonio Savasta grano contaminato e cancerogeno. Gran clamore e prime pagine sull’incarcerazione dell’imprenditore-avvelenatore, ma dopo sette anni di processo Casillo viene prosciolto dallo stesso pm che l’aveva sbattuto in galera: le analisi sul grano erano sbagliate. Nei “frammenti” di Oliveri del Castillo, il pm “Cricco” compare in un’altra vicenda, quella di una “masseria acquistata con modalità poco chiare e costata anni di indagini a suo carico, e concluse con una dubbia archiviazione pilatesca”. La storia rievoca i problemi sorti attorno alla masseria San Felice a Bisceglie, di proprietà del pm Savasta e oggetto di diversi processi. Inizialmente Savasta è stato accusato, e poi assolto, di truffa e appropriazione indebita ai danni del socio. Ora è rinviato a giudizio per concussione per aver indotto un imprenditore, su cui aveva indagato, a vendergli un terreno vicino alla masseria sottocosto, facendo leva sul timore che da pm avrebbe potuto riaprire il fascicolo a suo carico. In un altro processo è stato condannato a due mesi per non aver dichiarato la costruzione di una piscina nel relais. Mentre in un procedimento è indagato per abuso d’ufficio il sindaco di Bisceglie, per aver approvato una variante che ha consentito l’ampliamento della masseria-relais del magistrato e il cambio di destinazione del suolo da agricolo a turistico. In questa intricata trama, oltre ai problemi alberghiero-giudiziari, Savasta ha anche un ruolo da comprimario nei processi contro la finanza internazionale. Si può dire che è il Sancho Panza del Don Chisciotte Michele Ruggiero, il pm che sfida i mulini a vento finanziari che complottano contro l’Italia. Ruggiero debutta sul palcoscenico nazionale con il Tranigate: mentre lavora a un’inchiesta sulle carte di credito, tra un’intercettazione e l’altra, arriva ad ascoltare le chiamate dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E così scattano per il Cavaliere le accuse di concussione e minacce per alcune telefonate in cui avrebbe fatto pressioni sulla Rai e l’Agcom per censurare Michele Santoro. Le intercettazioni finiscono sui giornali e Ruggiero finisce davanti al Csm per aver aperto il fascicolo sul premier senza aver avvisato il procuratore Capristo, mentre l’inchiesta finisce per competenza territoriale a Roma, dove si sgonfia e viene archiviata su richiesta della stessa procura. Dal Tranigate in poi sarà un crescendo di inchieste con diversi elementi costitutivi comuni: hanno un forte impatto mediatico per il coinvolgimento di nomi eccellenti, non riguardano la circoscrizione giudiziaria di Trani e si perdono nel nulla. Le prime tracce risalgono al 2004, quando Savasta indaga per favoreggiamento il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex presidente della Consob Luigi Spaventa, chiedendone poi l’archiviazione. Da lì parte l’assalto al cielo della finanza mondiale, con i pm tranesi che mettono sotto inchiesta American Express, banche come Mps, Bnl, Unicredit, Credem e Intesa, la Banca d’Italia, le principali agenzie di rating del pianeta – Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s – accusate di aver ordito un complotto e pure Deutsche Bank, che ha fatto impennare lo spread. L’attivismo su vicende molto lontane dal proprio perimetro d’azione sembra anomalo anche ai colleghi magistrati. Dopo l’apertura a Trani di un terzo filone di indagini su Mps, l’allora procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati sarcasticamente sbotta: “Ci sono uffici di procura dove sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional: c’è stata al riguardo una gara tra diversi uffici, ma sembra che la new entry abbia acquistato una posizione di primato irraggiungibile”. L’insopportabile limite territoriale viene brillantemente superato da Ruggiero negli altri processi su istituzioni finanziarie estere, grazie al fatto che si occupa di ipotesi di reati commessi da stranieri residenti all’estero la procura che per prima apre il fascicolo. Uno spiraglio che consente alla procura di Trani di non avere più confini. Ma come si fa a spiegare questa cosa all’estero? L’ad italiana di S&P’s, intercettata mentre tenta di far capire ai capi americani cosa diavolo sta succedendo e dove dovrebbero andare, la mette giù così: “Trani? E’ una specie di piccolo paese dell’Oklahoma”. Può darsi che a Washington abbiano iniziato a immaginare di che roba si tratta, ma più difficile sarà stato spiegare che l’inchiesta è ispirata dalle intuizioni di Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. C’è in Oklahoma un equivalente di “ospite di Barbara D’Urso e Massimo Giletti”?. Chissà. Intanto le inchieste sulle tre sorelle del rating non hanno portato a nulla. Quella su Moody’s è finita con un’archiviazione. Il processo contro Fitch è diviso in due tronconi, con quello spostato a Milano già archiviato, e quello a S&P’s è avviato allo stesso destino visto che la Corte dei conti ha archiviato un procedimento parallelo. Però è appena iniziato il filone contro Deutsche Bank e la giostra può ripartire. A Trani sono stati chiamati a testimoniare ex ministri come Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, ex presidenti del Consiglio come Romano Prodi e Mario Monti, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, il presidente della Consob Giuseppe Vegas. Ruggiero ha anche chiesto di visionare un rapporto di Barack Obama sulle agenzie di rating ed era pronto a volare a Washington per far testimoniare il Nobel Paul Krugman, ma poi non se n’è fatto nulla. Durante le deposizioni nell’incantato Tribunale di Trani si sono verificati fenomeni paranormali e presagi funesti. Dopo un’attesa di ore prima di testimoniare, si è addirittura visto un Romano Prodi seccato, lui, il semaforo guzzantiano, il simbolo della calma e della pacatezza. Non era mai accaduto prima. Peggio è andata a Vegas, a cui poco prima dell’udienza qualche spirito ha rubato l’auto parcheggiata vicino al tribunale. Ruggiero ha trovato anche il tempo di aprire un’inchiesta che punta al cuore di Big Pharma: la ricerca del nesso tra i vaccini e l’autismo. Sono le teorie spacciate anche da Red Ronnie, ma se hanno creato scalpore le idiozie di un attempato dj in televisione, nessuno si è preoccupato che quelle stesse cose erano materiale di studio di una procura. L’inchiesta di Ruggiero parte dalle teorie di Massimo Montinari, un personaggio screditato che vende a caro prezzo alle famiglie dei bambini malati cure farlocche contro l’autismo. Ruggiero e Montinari si conoscono a Trani in un convegno in cui il “luminare” spiega che i vaccini causano l’autismo, l’opposto di quanto afferma la comunità scientifica mondiale. Ruggiero, con il dovuto equilibrio che caratterizza un magistrato, afferma dal palco del convegno: “Dopo questa sera i vaccini facoltativi non li faccio fare più”. Applausi del pubblico, che assiste anche a una lezione giuridico-scientifica in cui il magistrato illustra il metodo tranese: “I processi sono in gran parte indiziari, non c’è la prova di chi è stato preso con le mani nella marmellata, ma noi facciamo un percorso logico-deduttivo che ci porta a dire queste cose”. Ed è grazie a questo “percorso logico-deduttivo” che un mese dopo, il convegno “Vaccini e autismo” si trasforma in un’indagine condotta da Ruggiero. Dopo qualche anno, proprio pochi giorni fa, Ruggiero scopre ciò che si sapeva, non c’è alcuna correlazione tra vaccini e autismo. Caso archiviato, ancora una volta. Oltre ai problemi di scienza e di finanza, a Trani ci si occupa anche di cose locali. Ma anche in questi casi accadono cose paranormali. Dopo una certosina operazione di intelligence, Ruggiero scova una falsa cieca che percepiva indebitamente una pensione d’invalidità da sei anni. Immediatamente scattano l’accusa di truffa aggravata e il sequestro di 80 mila euro. L’anno dopo però la signora viene assolta, il fatto non sussiste, la donna è davvero cieca e quella di Ruggiero è stata una svista. Non mancano le incursioni nella politica locale, con indagini contro due ex sindaci di centrodestra. L’ex primo cittadino Giuseppe Tarantini viene coinvolto in due inchieste, una sul degrado al cimitero condotta da Ruggiero e l’altra per concussione condotta da Savasta, e in entrambi i casi è stato assolto. Più complicata è la vicenda di Luigi Riserbato, successore di Tarantini alla poltrona di primo cittadino. Il 20 dicembre 2014 Riserbato viene arrestato con l’operazione “Sistema Trani”: sei persone arrestate e altre sette indagate con l’accusa di associazione a delinquere, concussione, corruzione elettorale e altro ancora. L’inchiesta, condotta sempre da Ruggiero, ha una grande eco nazionale, tra l’altro pochi giorni dopo l’esplosione di Mafia Capitale a Roma. Alcuni arrestati passano il Natale in carcere e Riserbato viene liberato solo dopo aver rassegnato le dimissioni, la giunta cade e l’anno dopo si va alle elezioni in cui vince il centrosinistra. La vicenda ha alcuni aspetti particolari. Innanzitutto il giudice che conferma gli arresti, il gip Francesco Messina, è il fratello di Assuntela Messina, all’epoca vice-segretario regionale (ora presidente) del Partito democratico, scelta in quota rosa dal governatore pugliese Michele Emiliano (collega magistrato del di lei fratello). Ma non è l’unica anomalia, perché a distanza di due anni dalla maxi operazione non sono state ancora chiuse le indagini, i termini sarebbero scaduti e non si hanno notizie di proroghe. Semplicemente non si sa cosa fare di un’inchiesta in cui mancano le prove. In questo horror giudiziario, non poteva mancare una storia d’amore da brividi. E’ quella che unisce due magistrati in servizio a Trani, il giudice M.ria G.zia Caserta e M. Nardi, prima amanti e poi travolti dalla loro stessa passione in un vortice di ricatti, minacce, molestie, violenze verbali e aggressioni fisiche. La vicenda finisce in tribunale con N. che denuncia l’ex amante per stalking e lesioni (la giudice gli ha spaccato la faccia con una borsettata) e la Caserta che ha risposto accusando il collega di averla minacciata di morte. Alla fine entrambi vengono assolti. Tutto è bene quel che finisce bene. Non si chiude con un lieto fine il romanzo di Walpole, quello di cui si parlava all’inizio. Al termine di una trama intricata, per punire gli usurpatori lo spirito di Alfonso il Buono scuote il Castello di Otranto, lo fa crollare fino alle fondamenta e appare maestoso e immenso sulle rovine. Si spera che il tanto maltrattato spirito della Giustizia non si vendichi allo stesso modo con il Tribunale di Trani. Pochi giorni fa, in occasione di una visita a Trani, sono giunti sulla piazza del tribunale a bordo della stessa auto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo e il pm Michele Ruggiero. I muri hanno retto.
Csm, prosciolto il giudice Caserta del Tribunale di Trani. Fu trasferita a Matera per un procedimento disciplinare a suo carico, scrive TraniViva Mercoledì 31 Dicembre 2014. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha prosciolto la dottoressa M.ria G.zia Caserta, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani, e ha, conseguentemente, revocato il suo trasferimento al Tribunale di Matera. Il Csm ha, dunque, posto la parola fine al procedimento a carico del giudice Caserta, prosciogliendola dai residui addebiti contestati a seguito delle diverse denunce sporte da un collega. Perciò l'organo autogoverno dei magistrati ha revocato il trasferimento provvisorio al Tribunale di Matera disposto il 20 Ottobre 2011. La decisione della sezione disciplinare del Csm segue di tredici mesi quella del Tribunale Penale di Lecce che aveva assolto Caserta con la formula "perché il fatto non sussiste", escludendo, dunque, le contestazioni a suo carico. Ciò aveva determinato anche il ridimensionamento dell'incolpazione disciplinare, con esclusione degli iniziali e più gravi addebiti. Il procedimento disciplinare era sorto per effetto delle numerose denunce di un altro magistrato, poi indagato per calunnia, diffamazione e false informazioni al pubblico ministero, nonché per la redazione di alcuni esposti anonimi diffusi contro il Gip Caserta. Quest'ultimo procedimento pende dinanzi al Tribunale Penale di Lecce.
Il libro-scandalo del giudice che fa tremare tutta la Bat, scrivono Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini l'11 giugno 2015. C’è un libro che da alcune settimane sta facendo parlare - e molto - gli ambienti giudiziari di Bari e Trani. È uscito per un piccolo editore di Reggio Calabria ad ottobre 2014, e finora trovarne una copia in Puglia è stato molto, molto difficile: se ne parla tanto, ma in pochi sono riusciti a leggerlo, almeno fino ad oggi (è stato presentato ieri sera alla Laterza di Bari). L’autore è un giudice, Roberto Olivieri del Castillo, il titolo è «Frammenti di storie semplici». Racconta storie di processi, ma soprattutto di magistrati che ad un lettore attento potrebbero apparire familiari. Perché se anche Del Castillo, 50 anni, giudice delle indagini preliminari prima a Trani e poi a Bari, prende in prestito una celebre frase di Camilleri («Fatti e nomi sono di pura fantasia. Chi vi si volesse riconoscere commetterebbe solo un inutile peccato di vanità»), tra le sue pagine ci sono alcuni riferimenti che stanno alimentando la fantasia e tante voci. Voci che l’autore, ovviamente, considera infondate. Il protagonista è un giudice con la passione per il calcio e per il rock degli anni ’70, che dopo gli inizi in Calabria arriva in una terra «dove il sole sorge dal mare» e la gente sul treno parla in dialetto barese. Al governo c’è il Cumenda, padrone di canali tv e presidente dei Custodi della Libertà, di cui un giorno si occupa anche il suo ufficio, un Tribunale «che si affaccia sul mare e sulla cattedrale». Qui ci sono il presidente Catino, che per mesi gli ordina di «non arrestare e non scarcerare nessuno» a seguito di un esposto anonimo sul suo conto (che poi verrà archiviato), il procuratore Clammis, i pubblici ministeri Spelli («Sfruttava qualunque occasione, come l’indagine su una nave affondata a Pantelleria, solo perché si era firmata in un posto qui vicino per acquistare grano, ipotizzando chissà quale coinvolgimento della mafia che faceva contrabbando di scorie radioattive, prima di essere costretto a rimettere l’indagine al giudice competente per l’intervento della Corte Suprema»), Cricco (che presentava «richieste taroccate con la copertura di Clammis») e Magno, amico del giudice Biscardi. Cricco e Biscardi «erano conosciuti nell’ambiente come organizzatori di truffe e corruzioni di alto livello»: «La tattica preferita era l’intesa, il mettere in mezzo, sotto indagine, se non arrestarlo, qualche imprenditore o qualche politico (una volta addirittura un vescovo), per poi estorcere denaro per far morire il processo». Il giudice racconta di un mondo autoreferenziale tra magistrati, forze dell’ordine e avvocati, dove tutti sono amici di tutti e le inchieste si fanno e si disfano a tavolino, con una trattativa su nomi e numero delle persone da arrestare. Una «tela di ragno», la chiama: un sistema marcio con una avvocatura compiacente rappresentata dall’avvocato Granchio. «Da pochi mesi si era sposato, e la cerimonia, con ospiti politici e industriali del posto, era avvenuta, con tutti i notabili del luogo, compreso il procuratore Clammis, presso la masseria del pm Cricco, acquistata con modalità poco chiare e costata a questo anni di indagini a suo carico, e conclusa con una dubbia archiviazione pilatesca». Anche Granchio aveva avuto problemi con la giustizia: difeso da Mamello «imparentato, sempre casualmente, col pubblico ministero Cricco» che poi «ne chiedeva l’archiviazione» sottoscritta anche da Clammis: tanto che «ormai nella zona si parlava ironicamente dello “studio associato Mamello-Cricco”». E così racconta dell’archiviazione delle accuse a carico di Salvatore Granello, «il titolare del pastificio omonimo», arrestato «dal gip Biscardi, su richiesta del pm Cricco» con l’accusa di «alterazione di sostanze alimentari con grano contaminato». Granello, racconta il romanzo, «si diceva che avesse sborsato parecchio - chi diceva tre, chi quattro, chi cinquecentomila euro - a degli “amici” che avrebbero curato il buon esito della vicenda». Ce n’è anche per i giornalisti come Mario Lomastro, direttore di una tv locale, che «confezionava articoli politici mistificatori, per lo più al servizio del suo padrino-padrone politico, l’on. Densi, suo concittadino, plurinquisito, fedelissimo figlioccio del Cumenda». Una stampa, secondo il giudice, compiacente con il pm Cricco: «Due volte l’anno fa trapelare notizie sul giornale locale, una notifica, un interrogatorio finto, o un altro motivo qualsiasi. Chi deve leggere la notizia sa che quello è il segnale che significa che una somma di denaro deve essere destinata ad un commercialista amico, che poi farà pervenire la somma a Cricco. E il fascicolo continua a vegetare nei cassetti della Procura».
Magistrati arrestati, Nardi aspirava a una nomina al Comune di Roma: "M5S chiese curriculum". Il gip: "Un esponente politico vicino al Movimento 5 Stelle lo invitò ad inviare un proprio curriculum alla segreteria della sindaca Raggi". Nardi sperò della possibilità di essere nominato vice capo di gabinetto, scrive il 17 gennaio 2019 "La Repubblica". Il magistrato del Tribunale di Roma Michele Nardi, in carcere da due giorni con il collega Antonio Savasta, entrambi all'epoca dei fatti in servizio a Trani, avrebbe aspirato ad un ruolo nella Giunta di Virginia Raggi. È un altro dei particolari che emergono dalle 862 pagine di ordinanza di custodia cautelare della magistratura salentina su una presunta associazione per delinquere finalizzata a pilotare indagini e sentenze giudiziarie e tributarie in cambio di tangenti. "Verso la fine del mese di agosto 2016, - annota il gip - Michele Nardi veniva invitato da un esponente politico vicino al Movimento 5 Stelle ad inviare un proprio curriculum vitae alla segreteria del sindaco di Roma Virginia Raggi poiché la stessa era intenta alla formazione della nuova compagine amministrativa di governo del Campidoglio". In una intercettazione del 2 settembre 2016 è lo stesso Nardi a parlare "della situazione politica di Roma - sintetizza il giudice - e della possibilità di poter essere nominato vice capo di gabinetto al Comune di Roma nella Giunta Raggi, così come proposto da un avvocato, vicino alla predetta Raggi". Una possibilità che non si è mai concretizzata. Il ruolo era ricoperto da Raffaele Marra, l'ex braccio destra della sindaca arrestato per corruzione. Le indagini hanno evidenziato una "trama vischiosa di rapporti intessuti da Nardi - spiega il gip di Lecce - che, sebbene non abbiano diretto riflesso sui fatti oggetto di contestazione o comunque non si traducano in specifiche fattispecie di reato, contribuiscono a delineare la personalità dell'indagato". Nel corso dell'attività investigativa, infatti, "è emerso il coinvolgimento di Michele Nardi in attività ambigue sulla cui liceità si nutrono seri dubbi, - si legge ancora negli atti - dal suo interessamento per l'assunzione di una sua presunta amante presso l'ufficio affari legali del Comune di Bisceglie per il tramite del sindaco pro tempore, Francesco Carlo Spina, al suo coinvolgimento in operazioni finanziarie con soggetti censurati" oltre alla "chiara propensione dell'indagato a sistemare vicende giudiziarie facendo ricorso anche a espliciti tentativi di corruzione, evidentemente non andati a buon fine".
Per questo motivo, forse, cioè per avere un curriculum immacolato e senza macchie da ritrovarsi sul web, che Michele Nardi, Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, chiese al dr Antonio Giangrande, di voler deindicizzare il suo nome dai siti che esso gestiva. Infatti il Nardi premetteva che aveva appreso qualche giorno prima, con suo grande dispiacere, che il Giangrande aveva inserito vicende personali del Nardi in diverse Sue pregevoli pubblicazioni in cui denuncia le storture della Giustizia, definendo l'iniziativa lodevole. Ma poi rimarcava che doveva convenire con lui che le vicende relative ad una relazione sentimentale fra due magistrati non incide sul corretto esercizio della giurisdizione nemmeno quando questa relazione finisce male con denunce reciproche. D'altra parte vedere emergere da internet notizie parzialmente false, smentite dagli atti processuali e dalle sentenze penali e disciplinari, vedersi coinvolti, a distanza di sette anni dai fatti, in una denuncia doverosa e apprezzabile di storture nella amministrazione della giustizia, ledeva irragionevolmente la mia immagine di magistrato di uomo e di padre. Il Nardi confermava infatti che era stato assolto in sede penale e disciplinare dalle accuse mosse dalla collega Caserta e che gli era stata riconosciuta una valutazione professionale positiva in relazione al periodo interessato.
Pm arrestati: trovata agenda con incontri, scrive il 16 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". Appuntamenti con l’ex ministro Luca Lotti, l’ex vice presidente del CSM Giovanni Legnini e Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Renzi. E’ stata l’agenda dell’imprenditore Luigi Dagostino e la sua maniacale abitudine di annotare ogni appuntamento (anche con l’ex ministro Luca Lotti, con l’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e con Tiziano Renzi, papà dell’ex premier Matteo) ed il pagamento di tangenti, che hanno consentito ai magistrati di Lecce di trovare le conferme alle ipotesi accusatorie emerse nel corso delle indagini che ieri hanno portato all’arresto del giudice del Tribunale di Roma Antonio Savasta e del pubblico ministero Michele Nardi in servizio presso la Procura di Roma, i quali all’epoca dei fatti erano entrambi in servizio presso il palazzo di giustizia di Trani. Un ’organizzazione in cui ognuno ha il suo compito, secondo ricostruzione fatta dal procuratore di Lecce Leonardo Leone De Castris e dal pm Roberta Licci: “Nardi è colui che stabilisce le regole organizzative dell’associazione e la ripartizione dei profitti”, “crea i contatti, acquisisce informazioni”; Savasta, “in virtù delle sue funzioni presso la Procura di Trani, concretamente ha il potere di intervenire ed agisce attivando le più disparate iniziative giudiziarie”; Vincenzo Di Chiaro, ispettore presso il commissariato di Corato, “ha il compito di predisporre false relazioni di servizio e comunicazioni di reato, tutte puntualmente ‘canalizzate’ in modo tale da farle pervenire direttamente a Savasta” ed è il punto di collegamento tra quest’ultimo e D’Introno. L’avvocato Simona Cuomo, nella sua veste di avvocato, “fornisce copertura giuridica alle iniziative concordate”, costruendo anche false denunce, ed è proprio sulla base di questa architettura delinquenziale ed associativa che si sarebbe configurata più volte la svendita della funzione giudiziaria, un “asservimento, e la circostanza rende se possibile ancora più squallida l’intera vicenda, che i due magistrati offrono all’imprenditore D’Introno per risolvere i suoi guai giudiziari, imprenditore visto quale una “gallina dalle uova d’oro” a cui spillare denaro e altre utilità in ogni possibile occasione” scrive il gip . Sull’incontro, come scrive il gip, Lotti venne ascoltato dai pm di Firenze il 16 aprile 2018. “Nonostante gli scarsi ricordi di Luca Lotti in merito all’incontro segnato sull’agenda di Dagostino del 17 giugno 2015“, si legge nell’ordinanza, Lotti “rammentava comunque di aver incontrato il pm Savasta”. Nel corso di una perquisizione della Guardia di Finanza nei confronti di Dagostino, accusato di corruzione in atti giudiziari, gli investigatori hanno sequestrato due agende, del 2015 e del 2016, nelle quali l’imprenditore aveva annotato con dovizia di particolari incontri e viaggi, cene e somme di denaro associate a nomi. È proprio dall’analisi dell’agenda, i cui dettagli sono stati poi incrociati con l’esito delle intercettazioni e le dichiarazioni rese durante le indagini, che gli inquirenti ricostruiscono l’incontro a Palazzo Chigi avvenuto nel giugno 2015 tra Dagostino, il commercialista Roberto Franzè, Savasta e Lotti ed i rapporti dello stesso Dagostino con Tiziano Renzi, che nel luglio e nel settembre dello stesso anno si recava in Puglia in sua compagnia per riunioni e cene. Il pm Savasta (a lato nella foto) avrebbe chiesto e ottenuto da Dagostino l’incontro con Lotti per cercare di avere un incarico a Roma ed allontanarsi così dalla Procura di Trani, in quanto era coinvolto in procedimenti penali e disciplinari al Csm. Quest’ultima circostanza è stata documentata anche da Giovanni Legnini allora vicepresidente del Csm il quale, ascoltato come testimone dalla Procura di Firenze nell’aprile 2018, annota il gip nella sue 862 pagine dell’ordinanza, ha anche “prodotto una stampa dei vari procedimenti disciplinari a carico di Antonio Savasta, alcuni dei quali già pendenti dal 2015″. L’avvocato abruzzese Giovanni Legnini, ex senatore del Pd, è candidato alla presidenza per il centrosinistra alle elezioni regionali del prossimo 10 febbraio (quindi in piena campagna elettorale) compare nelle carte delle indagini ma non è indagato. Dalle indagini emerge, infatti, che “già nel corso del 2015 Savasta si attiva per costruirsi appoggi strumentali ad alternative professionali avvalendosi proprio di Dagostino e dei suoi importanti contatti anche in contesti istituzionali”. Nello stesso tempo, però, Savasta indaga su Dagostino per un giro di fatture false, ma per ricambiare il favore non esercita l’azione penale nei confronti dell’imprenditore. Quando Savasta viene trasferito a Roma, il procuratore capo di Trani invia per competenza gli atti a Firenze. Gli appuntamenti di Dagostino con imprenditori e politici, continuano nel 2016 come annotato nelle sue agende. Ad una cena del 6 dicembre a casa di un giornalista che era stato in passato responsabile della comunicazione di Legnini, quando questi era sottosegretario del Governo Letta, partecipò lo stesso Legnini nel frattempo diventato vice presidente del Csm e presidente della commissione disciplinare che aveva in carico una serie di procedimenti su Savasta, e che in quelle settimane avrebbe deciso sul trasferimento d’ufficio del magistrato). Della presenza di Savasta a quella cena, – annota il gip – Legnini “non era previamente informato o comunque a conoscenza” della presenza di uno dei due Giudici indagati e del suo amico imprenditore alla cena alla quale l’ex vicepresidente del Csm era stato invitato. “Se avessi saputo della loro presenza, certamente non sarei andato a quella cena privata con 30 persone a casa di un mio ex collaboratore”, dichiara Legnini in una nota. I due magistrati Savasta e Nardi sono accusati di aver preso parte ad un’associazione per delinquere finalizzata ad intascare tangenti per insabbiare indagini e pilotare sentenze giudiziarie e tributarie in favore di facoltosi imprenditori. Oltre ai due magistrati è finito in carcere l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, mentre sono stati interdetti dalla professione l’imprenditore Dagostino, ex socio di Tiziano Renzi, e gli avvocati Ruggiero Sfrecola e Simona Cuomo (“pupilla” dell’avvocato Sisto) la quale – secondo la Procura salentina – avrebbe avuto il compito di conferire “veste legale” alle iniziative di D’Introno e dei suoi familiari (anch’essi indagati) nei procedimenti gestiti da Savasta. Dalle indagini era emerso come il pm Nardi (a lato nella foto) fosse capace di sfruttare il proprio ruolo di magistrato, per condizionare in maniera illegale gli esiti delle indagini a suo carico, grazie ad una talpa (non individuata) nel palazzo di giustizia salentino, ma grazie anche ad una rete di rapporti con ambienti esterni ma molto bene informati. Infatti il magistrato barese aveva tentato di intimorire e condizionare il pm Roberta Lecci della Procura di Lecce, titolare del fascicolo d’indagine a suo carico, millantando amicizie ed influenza con dei magistrati leccesi. Il gip nella sua ordinanza ha evidenziato come Nardi fosse stato capace di creare e falsificare delle documentazioni inesistenti, nel vano tentativo di giustificare i soldi ricevuti illecitamente. E non solo, infatti il magistrato barese era stato persino capace di procurarsi informazioni riservate e coperte dal segreto istruttorio sul procedimento in questione che lo vedeva indagato. Flavio D’Introno, imprenditore di Corato (Bari) operante nel settore delle ceramiche, era già stato arrestato nell’ambito dell’ “operazione Fenerator” nel 2007, lo scorso ottobre scorso ha cominciato a collaborare con i Carabinieri di Barletta ai quali ha rivelato tutto. L’imprenditore fa di più e nell’autunno scorso per conferire maggiore attendibilità alle sue dichiarazioni, inizia a registrare con lo smartphone i suoi colloqui negli incontri al bar ed altrove. In alcuni momenti i ruoli addirittura si invertono. Savasta evidentemente ha fondati seri timori: lo invita a non dire nulla di loro e gli promette 50mila euro per fuggire alle Seychelles. È il “prezzo del silenzio di D’Introno – riporta nell’ordinanza – così come emerge il pieno coinvolgimento anche di Nardi nella strategia finalizzata a comprare il silenzio, provvedendo a fornirgli i mezzi per fuggire dall’Italia e rendersi definitivamente irreperibile”. Lo scorso 18 novembre 2018, Savasta consegna i primi soldi a titolo di anticipo a D’Introno, perché “diciamo tu ti rendi conto che dovremmo vergognarci di vivere per quello che uscirà fuori di merda”, gli spiega l’ex pm. “Ho consegnato circa 300mila euro in contanti a Savasta, circa un milione e mezzo di euro, comprensivo di regali materiali, a Nardi”, ha detto D’Introno. Il magistrato Antonio Savasta, a sua volta avrebbe “gestito, su specifico mandato diNardi, una serie innumerevole di procedimenti artatamente creati e gestiti al fine di favorire il D’Introno sia nel processo Fenerator che in altri procedimenti penali”. D’Introno microfonato dai Carabinieri, incontrò Savasta il quale, a sua volta, avrebbe reso dichiarazioni “confessorie” chiamando in correità anche Nardi. E sarebbe stato proprio quest’ultimo a “introdurre il D’Introno a Savasta e a chiedergli di occuparsi delle vicende che riguardavano D’Introno”. Inoltre, l’imprenditore D’ Introno ha più volte sottolineato la conoscenza delle indagini in corso presso la Procura di Lecce da parte di Nardi sin dal gennaio 2016, epoca certamente antecedentemente a quella della notifica dell’avviso di proroga delle indagini avvenuta il 28 settembre 2016. Flavio D’Introno decisosi a parlare durante gli interrogatori ricostruisce lo “stillicidio”, perché Nardi ci andava giù pesante quando lui non era disponibile: “Disse che se io parlo allora mi doveva far ammazzare da questi dei servizi segreti, tanto lui a Lecce era molto potente, conosceva gip, capo procura, conosceva tutti, disse: ‘Tu sei un morto che cammina se parli’, disse”. “Quando faccio vedere la tua foto – gli avrebbe detto – faccio uscire a uno e viene qua… io ho i contatti con i servizi segreti. Ho sentito “Inzerrillo” disse su un altro procedimento penale della struttura Gladio”. E lo ripete: “Nardi mi ha minacciato di morte dicendosi capace di fare del male sia alla dottoressa Licci che a me che al luogotenente Santoniccolo per il tramite dei servizi segreti deviati”. L’imprenditore D’ Introno inizialmente riferisce solo dei suoi rapporti con Nardi, cerca di tener fuori Savasta, in virtù del loro “patto d’onore”. Poi però, si apre e piano piano delinea i contorni di quella che lui stesso definisce “associazione a delinquere” finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. “Senza contare la capacità di condizionamento del Nardi anche in virtù del suo ruolo di ispettore del ministero di Giustizia” scrive il gip Giovanni Gallo nell’ordinanza di custodia cautelare, circostanze emerse da quanto riferito dal D’Introno negli interrogatori, nonché i rapporti con la massoneria e con i servizi segreti. In particolare, il magistrato Nardi che era attualmente in servizio pm presso la Procura di Roma avrebbe utilizzato queste sue conoscenze per costringere l’imprenditore D’ Introno a dargli i soldi che chiedeva: “…o mi dai due milioni di euro e vieni assolto o questa è la tua foto… io ho fatto queste indagini grosse al Vaticano… al Gladio… e tu te ne vai…».
Mazzette ai magistrati: ecco come funzionava il "sistema Nardi-Savasta", scrive il 16 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". I militari della Guardia di Finanza raccontano il sistema messo a punto in Procura “Ci escludevano dagli interrogatori”. Le loro testimonianze dei finanzieri sono state rilevanti per l’inchiesta. Si estende l’inchiesta sul sistema di corruzione giudiziaria messo in piedi dai magistrati Nardi e Savasta arrestati lunedì’ mattina per decisione della Procura di Lecce. Anche altri imprenditori, oltre a Flavio D’Introno e Luigi D’Agostino, avrebbero oliato il “sistema” che vigeva negli uffici giudiziari di Trani. E nel palazzo di giustizia di Trani che l’ex giudice per le indagini preliminari Michele Nardi e l’ex pubblico ministero Antonio Savasta, entrambi incredibilmente trasferiti dal Consiglio Superiore della Magistratura in servizio presso il Tribunale e la Procura di Roma, avevano impianto il loro “sistema” di corruzione. Nell’ordinanza del gip leccese Giovanni Gallo che lunedì ha fatto finire in carcere Nardi, Savasta e il poliziotto Vincenzo Di Chiaro è venuto alla luce la struttura di un sistema di corruzione che imperversava da tempo, grazie ad omissioni, se non proprie e vere collusioni, presenti all’interno degli uffici giudiziari di Trani. L’ ordinanza del Gip è pieno di “omissis”, cioè di evidenze coperte dalla Procura di Lecce per tutelare lo sviluppo di ulteriori filoni d’indagine, e non poche novità potrebbero arrivare per i magistrati inquirenti della procura di Lecce, dagli interrogatori dei principali indagati, che cominceranno domani a Lecce. Oltre ai tre soggetti colpiti dalle misure cautelari verranno interrogati anche gli avvocati Simona Cuomo del Foro di Bari, “enfant prodige” dello Studio legale Sisto, e di Ruggiero Sfregola colpiti da un provvedimento giudiziario di interdizione dall’esercizio della professione per un anno, e l’imprenditore Luigi D’Agostino il quale è stato colpito dal divieto di esercizio dell’attività imprenditoriale e degli uffici direttivi delle imprese per un anno. Le persone indagate nell’inchiesta coordinata dal procuratore Leonardo Leone de Castris e dalla pm Roberta Licci e condotta dai Carabinieri, in totale sono 18. Il sistema Nardi viene così definito dal Gip di Lecce: “È un soggetto sempre alla ricerca di imprenditori facoltosi in difficoltà, ai quali dispensare i propri consigli giuridici, che rapidamente si trasformano nell’offerta di scorciatoie giudiziarie, ovviamente dietro lauti compensi”. Un sistema di corruzione che viene illustrato con chiarezza dall’imprenditore D’Introno, con il forte sospetto degli inquirenti che sia stato applicato nella stessa misura anche con altri imprenditori. La prima azione Nardi fu l’impegno a condizionare i giudici del processo per usura a carico di D’Introno, ad aggiustarlo dopo la condanna, ma chiaramente in cambio di cospicue “mazzette” o regali importanti, fino ad arrivare alla pesante richiesta di 2 milioni di euro. Il giudice Gallo scrive nella sua ordinanza che il magistrato Nardi voleva “spremere D’Introno”, reputandolo una “gallina dalle uova d’oro”. “È venuto come un avvoltoio— diceva D’Introno a Savasta durante un incontro registrandolo o di nascosto — diceva di conoscere tutti e io che dovevo fare. Ora me ne sto andando, ma ho perso 2 milioni di euro che lui mi ha estorto: mi ha fatto vivere nella paura”. Sempre nell’ordinanza per questi motivi si legge su Nardi: “È una persona senza scrupoli con personalità spregiudicata e pericolosa e particolare propensione al crimine”. Il sistema Savasta è stato ricostruito grazie alle indagini sulla false fatturazioni di alcune aziende di Barletta dalla Procura di Trani, a quella di Firenze e poi a Lecce. I primi Ad accorgersi per primi che qualcosa non funzionava correttamente furono i finanzieri del Gruppo Barletta, come ha spiegato l’ex comandante, il maggiore Carmelo Salomone, ascoltato a verbale nel corso dell’inchiesta che a giugno 2018 portò all’arresto di D’Agostino disposto dai pm di Firenze. L’ex pubblico ministero Savasta all’epoca dei fatti in servizio presso la Procura di Trani aveva indagato sul giro di false fatture per agevolare l’immobiliarista, senza iscrivere nel registro degli indagatigli amministratori delle società compiacenti. L’ ufficiale della Guardia di Finanza racconta ai pm che “Savasta mi disse prima che voleva iscriverli e poi che non intendeva più farlo né che avrebbe mandato la notizia di reato a Firenze”. Secondo quanto ha ricostruito la Procura di Lecce, l’imprenditore D’Agostino già versava mazzette al pm Savasta per aggiustare le indagini nei suoi confronti. E così applicando il suo sistema di corruzione di evitava il carcere a quanti erano amici dell’imprenditore. Il verbale di interrogatorio dell’ufficiale delle Fiamme Gialle così continua: “Chiedemmo al pm di valutare l’opportunità di chiedere misure cautelari ma non ha mai chiesto le misure né ci ha fatto effettuare altre indagini o ci ha mai dato altre deleghe”. Savasta per sviare le indagini avrebbe anche escluso la polizia giudiziaria dagli interrogatori di alcune persone. Addirittura “uno dei quali sintetizzato in appena 15 righe”, scrive il Gip Gallo, ed “un altro privo delle domande essenziali” e impedendo agli investigatori persino di analizzare il materiale sequestrato in casa di Dario Dimonte, imprenditore complice e vicino a D’Agostino. Il maggiore Salomone continuava: “Dissi al pm che avrei ritenuto utile interrogare gli indagati ma lui lo fece da solo. Inoltre decise di restituire denaro e documentazione a Dimonte senza che l’avessimo analizzata”. Gli avvocati “complici”. Ruggiero Sfrecola risultava difensore d’ufficio di molti indagati nelle inchieste del pubblico ministero Savasta a Trani. Secondo a quanto raccontato dal legale, i due erano amici di lunga data ma non si facevano alcun problema ad occuparsi degli stessi casi. Il magistrato Savasta utilizzando false attestazioni, secondo la Procura di Lecce, quando doveva far contattare un avvocato d’ufficio riusciva a far comparire sempre lo Sfrecola come avvocato di turno. Dai controlli effettuati sui numeri telefonici contattati dalla Procura di Trani è emerso che si trattava di utenze chiuse e non attive dagli anni 2005-2006 ed il nome e l’indirizzo di Sfrecola in molti fascicoli comparivano indicati scritti addirittura a mano dallo stesso pm Savasta. L’avvocato Sfercola era il tramite fra il pm Savasta e D’Agostino, e secondo le ipotesi accusatorie dalle sue mani passarono parecchie “mazzette”, una parte delle quali finì nelle sue tasche. Gli incontri in cui sarebbero avvenuti i pagamenti delle corruzioni giudiziarie sono stati tutti documentati, così come ad esempio un soggiorno romano nella primavera 2015 in cui il passaggio di soldi fra Savasta e Sfrecola, accadde nella stessa camera dell’hotel, nello stesso periodo in cui uno erano l’inquirente e l’altro il difensore di alcuni indagati. Dopo l’arresto disposto a giugno dalla Procura di Firenze, il sequestro dell’agenda di D’Agostinopreoccupò non poco politici ed esponenti delle istituzioni in quanto l’imprenditore come ha verbalizzato durante l’interrogatorio, annotava tutto. E’ stato grazie alle pagine della sua agenda, al cui interno oltre agli appuntamenti, erano riportate le tangenti con cifre e nomi dei destinatari, che i Carabinieri di Barletta hanno trovato conferma della visita del dicembre 2015 a palazzo Chigi avvenuta grazie all’intervento di Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, per consentire l’incontro avvenuto fra il pm Antonio Savasta e l’ex sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti. L’obiettivo del pm di Trani, scrive il gip nella sua ordinanza, “era costruirsi soluzioni per la sua già compromessa (da procedimenti disciplinari e penali) situazione professionale”.
P.G. Cardone e G. Scacciavillani per "Il Fatto Quotidiano" del 16 gennaio 2016. Trani, fine dicembre 2015, inizi di gennaio 2016. Il maggiore delle fiamme gialle Carmelo Salamone entra in un ufficio del tribunale con vista sulla splendida cattedrale e sull’Adriatico. In mano ha delle carte, che mette sul tavolo di Antonio Savasta, il pm titolare di un’indagine su delle fatture false. Emesse da piccoli imprenditori pugliesi (Dimonte, Rizzitelli, Belgiovine), incassate da grossi nomi fiorentini: si tratta di almeno 6,5 milioni di euro per operazioni inesistenti. Ma il magistrato ha deciso che non vuole indagare la sponda toscana dell’operazione. A Salomone qualcosa non torna. E i suoi sospetti aumentano quando, nel dicembre 2015, legge un articolo del Fatto Quotidiano pubblicato il 19 settembre: si dà conto dei progetti di un imprenditore di origini barlettane che ha avuto grande successo in Toscana con gli outlet di lusso del gruppo Kering e ora vuole replicarne il successo a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il suo nome è Luigi Dagostino e si fa accompagnare da Tiziano Renzi, il padre dell’allora presidente del Consiglio, alle riunioni preliminari con i sindaci delle città scelte per l’investimento. Quando Salomone legge il nome dell’imprenditore salta sulla sedia: Dagostino è colui che di fatto gestisce o rappresenta le società toscane che hanno incassato i 6,5 milioni di fatture per operazioni inesistenti. Nelle sue indagini e nell’articolo del Fatto ci sono nomi ricorrenti, di persone e società: Nikila, Mecenate, Tramor, Luigi Dagostino, Maria Emanuella Piccolo, Ilaria Niccolai (rispettivamente moglie e compagna dell’imprenditore nativo di Barletta). Per l’investigatore il quadro è chiaro: stampa l’articolo e lo porta al magistrato Antonio Savasta. “Lo lesse, ma non cambiò idea e disse che non voleva inviare la comunicazione di notizia di reato alla Procura di Firenze per utilizzo di fatture false”, dice Carmelo Salomone il 23 aprile 2018 ai magistrati della procura toscana, che nel frattempo hanno avviato un’indagine sulla vicenda. Un’inchiesta partita proprio grazie a Salomone. L’ufficiale della Guardia di Finanza, infatti, un paio di mesi prima, constatata la volontà di Savasta di non approfondire il caso, chiese il permesso di utilizzare i dati per fini fiscali. Il via libera arrivò: non poteva essere altrimenti. A gennaio 2016, Salomone scrisse ai colleghi di Firenze e inviò loro tutto il materiale raccolto. Dopo due anni e mezzo, il 13 giugno 2018 alle ore 16.47, l’agenzia Ansa scrive: “È l’imprenditore pugliese Luigi Dagostino, 51 anni, diventato in Toscana il ‘re degli outlet’, l’imprenditore arrestato oggi dalla guardia di finanza di Firenze in esecuzione di un’ordinanza del gip Fabio Frangini e su richiesta del pm di Firenze Christine von Borries”. Fatture per operazioni inesistenti, “emesse da società pugliesi, tra cui la Building & Engineering di Barletta srl, amministrata da Leonardo Dimonte, la ditta individuale Ruggiero Rizzitelli di Barletta che il gip nel suo provvedimento definisce ‘cartiera’, la Bielle Costruzioni, Futura Costruzioni e House Builders, tutte di Barletta”. E ancora: “Il gip ha disposto il sequestro preventivo, anche finalizzato alla confisca per equivalente dei seguenti importi, tra somme di denaro disponibili in conti correnti, beni immobili e mobili: 2.943.507 euro a carico di Luigi Dagostino; 533.450 euro a carico di Maria Emanuella Piccolo; 1.139.400 per Ilaria Niccolai. Sequestro preventivo, per l’evasione di Iva e Ires, nei confronti delle società legate, in vario modo a Dagostino (a cui viene ricondotta una ‘galassia’ di 13 società) che utilizzavano le fatture false, ossia Andi (659.357 euro), Mecenate 91 (306.900 euro), Uno Invest (533.450 euro), Nikila Invest (1.139.400 euro), Tramor (334.400 euro)”. I soliti nomi, insomma: il finanziere Carmelo Salomone, da Trani, ci aveva visto giusto. Due anni e mezzo prima. Ma il pm Antonio Savasta, arrestato lunedì 14 gennaio insieme al collega Michele Nardi con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso, aveva preferito non procedere. Nessuna iscrizione di Dagostino nel registro degli indagati, nessuna comunicazione alla procura competente (quella di Firenze). Il motivo, stando all’accusa della Procura di Lecce, è che Savasta, in cambio del silenzio investigativo e di azioni finalizzate ad insabbiare le indagini (leggi l’articolo di Daniele Fiori e Rosanna Volpe) ottiene soldi e gli incontri con Lotti e Legnini, sperando di toccare le corde giuste per ottenere il trasferimento da Trani a Roma. Non è dato sapere se quegli incontri (che ci sono stati) siano andati a buon fine. L’unica certezza è che Antonio Savasta ha lavorato nella Capitale dal marzo del 2017 fino a ieri, quando è stato portato nel carcere di Lecce.
Il magistrato arrestato Nardi chiede il trasferimento dal carcere di Lecce: "Ci sono ergastolani che ho giudicato", scrive il 23 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". Secondo i difensori dei personaggi di spicco della criminalità organizzata potrebbero avere sentimenti di vendetta nei confronti del magistrato pugliese, per il ruolo ricoperto di giudice a latere in Corte d’Assise nel maxi processo “Dolmen” contro la mafia del nord Barese. Gli avvocati difensori di Michele Nardi del sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Roma, arrestato lo scorso 14 gennaio dalla magistratura salentina per corruzione in atti giudiziari assieme al collega Antonio Savasta, hanno chiesto il trasferimento per motivi di sicurezza del proprio assistito, in un carcere diverso da quello di Lecce. La richiesta dei difensori è stata depositata al gip di Lecce Giovanni Gallo, che ha emesso la misura cautelare, ed è subordinata ad una richiesta di applicazione degli arresti domiciliari che, quest’ultima difficilmente potrà essere accolta. L’accusa dei pm leccesi nei confronti dei magistrati Nardi e Savasta, è di aver fatto parte di un’associazione per delinquere finalizzata ad intascare tangenti per insabbiare indagini e pilotare sentenze giudiziarie e tributarie in favore di facoltosi imprenditori. I due magistrati sono stati arrestati con accuse pesanti a loro carico di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale, per dei fatti contestati che si riferiscono al periodo in cui entrambi prestavano servizio al Tribunale di Trani. La richiesta di trasferimento del magistrato dal carcere leccese di Borgo San Nicola ad un’altra struttura detentiva, qualora il gip dovesse rigettare la richiesta di domiciliari, avrebbe giustificazione dalla presenza nel carcere salentino di numerosi detenuti condannati all’ergastolo allorquando Nardiera in servizio a Trani, facendo il giudice a latere in Corte d’Assise nel maxi processo “Dolmen” contro la mafia del nord Barese. Secondo le ipotesi dei difensori i detenuti ristretti nel carcere di Lecce, tutti esp0nenti di “peso” nella criminalità organizzata, potrebbero avere sentimenti di vendetta nei confronti del magistrato pugliese.
I "furbetti della toga" di Trani: gli avvocati dettavano gli atti ed il magistrato Savasta firmava, scrive il 22 Gennaio 2019 "Il Corriere del Giorno". Dalle microcamere installate dai Carabinieri nell’ufficio del pm di Trani vengono registrate delle immagini più imbarazzanti, ed abbastanza eloquenti, che mostrano il legale che il Gip evidenzia essere “noto a causa dei numerosi esposti sui suoi rapporti anomali in Procura” e il magistrato intenti a dettare un atto al segretario di Savasta. L’ex-pm della procura di Trani, Antonio Savasta che è ristretto in carcere per l’accusa di corruzione in atti giudiziari in concorso con il collega Michele Nardi (all’epoca dei fatti Gip del Tribunale di Trani) e il sovrintendente di polizia Vincenzo Di Chiaro, da otto giorni in carcere sta leggendo l’imponente ordinanza di custodia cautelare disposta dal Gip di Lecce Giovanni Gallo, e soltanto questa mattina valuterà insieme ai suoi legali, gli avvocati Guido Calvi e Massimo Manfreda, se richiedere o meno l’interrogatorio di garanzia al sostituto procuratore Roberta Licci della procura di Lecce, che ha condotto l’inchiesta su un presunto giro di tangenti per dirottare indagini e processi a Trani. Ieri l’avvocatessa Simona Cuomo del foro di Bari, a cui sono stati sequestrati bene per oltre 400mila euro, assistita dal suo mentore l’avvocato Francesco Paolo Sisto (a cui la Cuomo è particolarmente legata professionalmente avendo lavorato per 10 anni nel suo studio legale) insieme all’avvocato Andrea Sambati, è stata ascoltata dal pm inquirente presso il Tribunale di Lecce, in un interrogatorio durato oltre tre ore ammettendo di essere stata un pò troppo superficiale nella sua attività in questione, sostenendo di non avere ricevuto soldi, e tantomeno alcuna consapevolezza o conoscenza di accordi illegali eventualmente raggiunti tra l’imprenditore D’Introno ed il pm Savasta. Per la Procura di Lecce in realtà dall’analisi dei fascicoli processuali in cui la Cuomo è presente come avvocato difensore di D’Introno, emerge ben altro. Alcuni magistrati che hanno prestato servizio a Trani, come Michele Ruggiero, il quale ereditò il processo sull’Agenzia delle Entrate evidenziando e segnalando “incongruenza probatoria” rispetto ai reati contestati, in merito agli atti giudiziari effettuati da Savasta. In tale occasione, i “furbetti della toga” , avrebbero messo nei guai due incolpevoli messi dell’Agenzia, i quali dovevano notificare gli atti ingiuntivi a D’Introno e vennero incastrati da “false accuse” , architettate e messe in piedi grazie alla collaborazione dell’avvocatessa e da una serie di conseguenti provvedimenti più che sospetti del pm Savasta, il quale dispose il sequestro delle cartelle esattoriali, in conseguenza del quale, l’ Agenzia delle Entrate “fu privata dei titoli necessari per far valere le azioni risarcitorie” che riguardavano la bellezza di circa 30 milioni di euro.
L’ avvocatessa Cuomo inoltre non ha fornito alcuna spiegazione credibile in merito alle sue affermazioni “Uno se le inventa le denunce, appunto come me le sono inventate io” contenute in una telefonata intercettata nel 2016 proprio con Flavio D’Introno, durante la quale parlavano del “golpe” affaristico effettuato nei confronti delle Ceramiche San Nicola (della famiglia D’Introno). Infatti quelle parole per il Gip Gallo costituiscono un’involontaria ammissione di aver commesso degli atti illeciti, peraltro ripetuti in occasione di numerose vicende giudiziarie delle quali il suo cliente è stato protagonista. La Cuomo viene definita non a caso nell’ordinanza dal giudice, “costantemente coinvolta in molte delle iniziative criminose contestate”. “Attraverso l’abuso della professione di avvocato ha collaborato in maniera attiva al raggiungimento delle finalità illecite del gruppo, costruendo false denunce e creando ad arte false testimonianze – prosegue il giudice Gallo – La ripetitività delle azioni dimostra la non occasionalità delle condotte e la personalità, incline a commettere reati nell’esercizio della professione. Sulla vicenda dell’Agenzia delle entrate, il procuratore Francesco Giannella (a lato nella foto, facente funzioni di capo Trani, a seguito della nomina del dr. Capristo a procuratore capo della Procura di Taranto) chiese delle spiegazioni al pm Savasta, il quale scrisse le proprie note difensive insieme all’avvocato Giacomo Ragno. Dalle microcamere installate dai Carabinieri nell’ufficio dell’ex-pm di Trani vengono registrate delle immagini più imbarazzanti, ed abbastanza eloquenti, che mostrano l’avvocato Ragno che il Gip evidenzia essere “noto a causa dei numerosi esposti sui suoi rapporti anomali in Procura” e il magistrato intenti a dettare un atto al segretario di Savasta, con un comportamento a dir poco illegale in quanto l’avvocato Ragno aveva assistito ed assisteva numerose persone indagate proprio dalla Procura di Trani e quindi conseguentemente in numerosi procedimenti era stato la controparte del pubblico ministero . Le registrazioni video effettuate dai Carabinieri evidenziano una consuetudine di frequentazione dell’avvocato Ragno (a lato nella foto) dell’ufficio del pm Savasta, ed una certa familiarità manifestata nel dettare quanto da scrivere nel provvedimento al segretario del magistrato e anche l’accortezza di sussurrargli di tanto in tanto alcune frasi nell’orecchio, comportamento questo, dice il gip “indice di una particolare prudenza nelle comunicazioni”. Nelle oltre 800 pagine dell’ordinanza cautelare, fra le indagini evidenziate che l’ex pm Antonio Savasta avrebbe falsato per favorire l’imprenditore Flavio D’Introno, è presente anche un’indagine sull’istituto bancario Unicredit. Ed a rivolgersi alla procura di Lecce in tale circostanza fu l’ex procuratore aggiunto Francesco Giannella facente funzioni di capo Trani, a cui arrivarono nel periodo della sua reggenza della procura, una serie di esposti contro il pm Savasta. Secondo quanto emerso dall’ “inchiesta Fenerator” (dal latino “usuraio”) l’imprenditore D’Introno aveva rilevato a Corato da una persona a cui avrebbe prestato soldi con interessi usurai alcuni immobili, e successivamente nel 2014 aveva stipulato un contratto di leasing con il gruppo Unicredit. L’operazione “Fenerator” era partita dalle denunce di alcune vittime strozzate, mentre la seconda trance di provvedimenti (nel 2007) ebbe origine dalle approfondite indagini del G.I.C.O. della Guardia di Finanza che, nonostante la mancata collaborazione di molte delle vittime usurate, è riuscito a risalire alle radici di quello che è ormai definito un fenomeno diffuso. In tale circostanza, a conferma dell’abitudine del D’Introno di circondarsi di legali disposti a tutto, venne indagato a piede libero per il reato di riciclaggio anche l’avvocato Cristoforo Diaferia, per il quale la Procura di Trani aveva richiesto l’arresto, legato a D’Introno in quella vicenda giudiziaria. Flavio D’Introno, l’imprenditore coratino delle ceramiche arrestato nel 2007 per usura ai danni di commercianti del Nord Barese è stato condannato con sentenza definiva dalla Corte di Cassazione che ha annullato, senza rinvio, la sentenza di Appello che aveva condannato D’Introno a 5 anni e 9 mesi nel dicembre 2016, in quanto estinto per prescrizione uno dei capi di imputazione di usura, e rideterminata la pena in 5 anni e 6 mesi di reclusione (per la quale è previsto l’arresto) e 16.500 euro di multa. La Corte di Cassazione ha annullato, senza rinvio, la sentenza di Appello che aveva condannato D’Introno a 5 anni e 9 mesi nel dicembre 2016, in quanto estinto per prescrizione uno dei capi di imputazione di usura, e rideterminato la pena in 5 anni e 6 mesi di reclusione (per la quale è previsto l’arresto) e 16.500 euro di multa. La società di leasing di Unicredit a causa dal ritardato pagamento di tre canoni di locazione previsti dal contratto di locazione finanziaria, aveva sollecitato D’Introno venendo denunciata per usura, attraverso gli atti intrapresi dall’avvocatessa Cuomo che assisteva l’imprenditore di Corato. Non a caso raccogliere la querela-denuncia era stato il sovrintendente della Polizia Di Chiaro, mentre il pm Savasta da parte sua aveva disposto il sequestro immediato del contratto di leasing. Tutto ciò secondo il Gip del Tribunale di Lecce “in modo tale da consentire a D’Introno di sottrarsi al pagamento”. E non solo. A Di Chiaro venne depositata una successiva denuncia della moglie dell’imprenditore D’Introno nei confronti del direttore dell’istituto li aveva bloccato richiesto la restituzione della carta di credito, iniziativa legale a dir poco anomala che venne inoltrata dal poliziotto direttamente a Savasta, tutto ciò “a dimostrazione dell’esistenza di una corsia preferenziale”. Il “triangolo” D’Introno-Savasta-Di Chiaro è emerso in maniera ancora più palese a seguito di un irrituale (e quindi illegittimo) accompagnamento del direttore della filiale di Unicredit, presso la Procura per essere ascoltato, e tutto ciò senza alcuna necessaria (prevista dalla Legge) formale convocazione, che Savasta avrebbe di fatto predisporre solo successivamente, seguito da un ulteriore decreto di acquisizione di documenti presso Unicredit, coinvolgendo anche ad altri funzionari (Raffaele Ruffo e Michele Patella) della banca nell’indagine per presunta usura, con il chiaro probabile obbiettivo di indurli ad un atteggiamento timoroso.
Dopo il trasferimento del pm Savasta con allontanamento dalla Procura di Trani, assegnandolo tribunale del Lavoro di Roma, avvenuto per decisione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, l’inchiesta sul Gruppo Unicredit passò al pm Alessandro Pesce, al quale si rivolse D’Introno – per sua stessa ammissione — tentando e sperando di poter ricevere lo stesso trattamento di favore collusivo. “Sono stato da Pesce – ha verbalizzato l’imprenditore – per sollecitare la definizione del procedimento su pressione di Nardi, ma mi trattò in malo modo. Da lui non ho mai ricevuto richieste di soldi”. Si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti al gip Gallo l’immobiliarista barlettano Luigi D’Agostino arrivato ieri a Lecce da Firenze, dove risiede e svolge la sua attività (è stato interdetto per un anno dall’esercizio di attività d’impresa). D’Agostino fu arrestato, nel maggio scorso, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Firenze, dalla quale sarebbero emersi i suoi legami di amicizia e affari con Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo. Grazie a Renzi senior, D’Agostino, secondo quanto ha dichiarato in un interrogatorio, sarebbe riuscito ad ottenere un incontro a Palazzo Chigi tra l’ex pm Savasta e l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti, che non risulta indagato. Proprio oggi per D’Agostino potrebbe arrivare il rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta di Firenze, che a maggio lo portò in carcere a causa di presunte fatture false emesse da ditte pugliesi per aiutarlo. Giovedì invece la sezione disciplinare del Csm si pronuncerà sulla richiesta di sospensione di Nardi e Savasta dallo stipendio, dalle funzioni e dalla magistratura, avanzata dal procuratore della Cassazione, Riccardo Fuzio, e dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il gip di Lecce, intanto, sta valutando la richiesta di Nardi di poter lasciare il carcere, in cui si trova detenuto dal 14 gennaio. L’avvocato Simona Cuomo del Foro di Bari ed il suo collega Ruggiero Sfrecola del foro di Trani sono stati interdetti per un anno dalla professione.
Ex pm Trani arrestato: «Savasta insabbiò l'indagine su Giancaspro». Altra accusa al pm finito in carcere: «Giancaspro parlò di tangenti, ma il fascicolo su di lui venne archiviato dopo uno strano errore», scrive Massimiliano Scagliarini il 25 Gennaio 2019 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". L’accusa non verrà mai provata in una aula di giustizia, perché i fatti sono ormai troppo datati. Ma il sospetto - forte - è che l’ex pm tranese Antonio Savasta, in carcere per aver favorito l’imprenditore Flavio D’Introno, possa aver insabbiato una indagine sull’ex patron della Fc Bari, Cosimo Giancaspro, coinvolto a Molfetta in una vecchia storia di mazzette che il magistrato avrebbe tenuto in un cassetto fino a farla prescrivere. Per questa vicenda la Procura di Lecce ha iscritto Savasta con l’ipotesi di abuso d’ufficio, rilevando però l’«epoca remota cui risale la gestione di quelle indagini» e dunque la difficoltà di muovere una specifica contestazione. Tuttavia il gip Giovanni Gallo l’ha ritenuta rilevante «sotto il profilo della valutazione delle esigenze cautelari» a carico dell’ex pm, poi trasferito a Roma come giudice. Siamo nel 2011, quando Molfetta fu svegliata dai 30 arresti dell’operazione «Mani sulla città» imperniata sull’allora dirigente dell’ufficio tecnico Rocco Altomare: tangenti in cambio di permessi per costruire. In un rivolo di questa storia incappa anche Giancaspro, all’epoca commercialista di un imprenditore, Mauro Spadavecchia, interessato a sbloccare l’autorizzazione per ristrutturare l’ex hotel Tritone. Nel 2009, Di fronte alle difficoltà con il Comune, Giancaspro avrebbe favorito un incontro tra Spadavecchia e il fratello di Altomare, titolare di uno studio tecnico, sollecitando il primo ad affidare un incarico di progettazione al secondo, oppure a cedere all’Altomare un piano dell’edificio. Sia come sia, a un certo punto la pratica si sblocca e si parla di una mazzetta da 500mila euro che sarebbe stata corrisposta in due tranche. È proprio Giancaspro a raccontare della tangente a Savasta, che nel 2011 lo iscrive con l’accusa di millantato credito. Quando Savasta lascia Trani, i suoi fascicoli vengono passati al setaccio dal pm Giovanni Lucio Vaira, che manda una serie di relazioni alla Procura di Lecce. Una riguarda, appunto, la vicenda di Giancaspro: all’esame degli atti, l’accusa di millantato credito a carico dell’allora commercialista appare infatti «fin troppo prudenziale», mentre quella di corruzione nei confronti di Altomare, di Spadavecchia e di Giambattista Del Rosso (componente della commissione locale per il paesaggio, che nel 2011 era finito ai domiciliari) era stata nel frattempo archiviata. Pur avendo raccontato lui delle tangenti, «assumendo su di sé anche il ruolo di concorrente nel reato» di corruzione, Giancaspro era stato insomma incolpato di essersi messo in tasca il mezzo milione «con il pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale necessario per la realizzazione del progetto edilizio di trasformazione dell’Hotel Tritone». Salvando così gli altri da tutte le accuse. Pur trattandosi di fascicolo del 2011, Savasta lo manda a giudizio nel 2016 ma dimentica di documentare al giudice delle indagini preliminari l’avvenuto invio a Giancaspro dell’avviso di conclusione delle indagini. E gliene manda un secondo. L’udienza preliminare si tiene così a marzo 2017, a sette anni dai fatti (il reato si prescrive in sei). Questo, annota il gip Leone, «fa sì che il Gip chiamato a decidere sulla tardiva richiesta di rinvio a giudizio non possa che dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato» contestato a Giancaspro. Nella relazione mandata da Vaira alla Procura salentina viene rilevata «la mancata trasmissione al Gip (da parte di Savasta, ndr) degli atti relativi alla notifica dell’avviso 415 bis cpp - pur effettuata - con conseguente declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio e la - ingiustificata - nuova emissione di avviso 415 bis cpp con conseguente allungamento ulteriore dei tempi di definizione, che determinavano, come detto, da ultimo una declaratoria di non doversi procedere per prescrizione del reato». E dunque Giancaspro, oggi ai domiciliari per il crac della Finpower, ha evitato di dover rispondere anche di millantato credito.
Lecce, magistrati arrestati: chiesto incidente probatorio. Altro pm indagato. Avvisi di garanzia a quattro nuovi indagati, anche pm Scimè. Scrive il 23 Aprile 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. La Procura di Lecce ha chiesto di cristallizzare in un incidente probatorio le dichiarazioni rese in undici diversi interrogatori, tra ottobre 2018 e marzo 2019, da parte degli indagati Antonio Savasta, ex pm di Trani attualmente agli arresti domiciliari, Vincenzo Di Chiaro, poliziotto attualmente in carcere e l’imprenditore Flavio D’Introno, nell’ambito dell’inchiesta su presunte tangenti in cambio di procedimenti penali favorevoli che nel gennaio scorso ha portato all’arresto dei magistrati pugliesi Savasta e Michele Nardi e del poliziotto Di Chiaro. Al momento dell’arresto Savasta è Nardi erano in servizio al Tribunale di Roma. Dinanzi ai pm di Lecce i tre indagati, sulle cui rivelazioni ora si chiede l’incidente probatorio, hanno ammesso le contestazioni raccontando anche nuovi episodi delittuosi che hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altre quattro persone, il magistrato Luigi Scimè, ex pm a Trani ed ora in servizio a Salerno, l’avvocato Giacomo Ragno, Savino Zagaria, cognato di Savasta, e Martino Marancia. Le nuove imputazioni formulate a carico degli indagati (che hanno ricevuto avvisi di garanzia) riguardano presunti episodi di corruzione, concussione, falso, calunnia, millantato credito ed estorsione. La posizione di altre otto persone, inizialmente presenti nell’elenco degli indagati al momento della notifica dell’ordinanza di arresto, è stata stralciata e nei loro confronti, scrive la Procura nelle imputazioni, «si procede separatamente».
LE ACCUSE A SCIMÈ - Il magistrato di Trani Luigi Scimè, ora in servizio alla Corte d’appello di Salerno, avrebbe ricevuto dall’imprenditore Flavio D’Introno 75mila euro in tre diverse tranche per alcuni procedimenti penali che lo vedevano direttamente coinvolto. Per questo la Procura di Lecce contesta al magistrato il reato di corruzione in concorso con i suoi colleghi Antonio Savasta (che dopo l’arresto si è dimesso alla magistratura) e Michele Nardi, con l’imprenditore D’Introno, con il poliziotto Vincenzo Di Chiaro e con l’avvocato Simona Cuomo. Gli episodi ricostruiti dai magistrati salentini, anche grazie alle dichiarazioni rese dopo l’arresto da alcuni co-indagati, riguardano quattro diversi procedimenti penali istruiti dalla Procura di Trani tra il 2012 e il 2016. In una occasione Scimè, preparando la requisitoria con Savasta di un processo a carico di D’Introno del quale era titolare, formulò - secondo l’accusa su esplicita richiesta di Nardi - «richiesta parziale di assoluzione e di condanna per una parte dei reati per i quali i magistrati ritenevano di poter giungere ad una declaratoria di prescrizione nelle successive fasi di giudizio», ottenendo in cambio 30 mila euro. In un altro processo chiese il rinvio a giudizio per calunnia nei confronti di due accusatori di D’Introno (ottenendo una presunta tangente di 15 mila euro). Ancora, chiese l’archiviazione di due procedimenti relativi all’incendio di due ville di proprietà della moglie dell’imprenditore e al danneggiamento di una delle due ville (in cambio di 30 mila euro complessivi), «sì da favorire D’Introno il quale aveva interesse ad una rapida liquidazione dell’indennizzo da parte dell’assicurazione».
Aumentano le toghe "corrotte" nel Palazzo di Giustizia di Trani. Scrive il 24 Aprile 2019 Il Corriere del Giorno. Il magistrato Scimè viene incluso e coinvolto in episodi di corruzione ed elargizioni di tangenti messo in piedi e gestito da Michele Nardi suo ex- collega a Trani, che è venuto alla luce a seguito dell’inchiesta condotta dalla Procura di Lecce con l’ausilio investigativo dei Carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Barletta. La vicenda giudiziaria che ha travolto la procura ed il Tribunale di Trani sembra ampliarsi a macchia d’olio, grazie all’inchiesta condotta dal pubblico ministero Roberta Licci della Procura di Lecce, con l’iscrizione nel registro degli indagati di un altro magistrato. Infatti, nell’elenco dei 12 indagati indicati nella richiesta di incidente probatorio depositata dalla Procura leccese per “blindare” le confessioni di Antonio Savasta, dimessosi dalla magistratura, ma anche del poliziotto Vincenzo Di Chiaro e dell’imprenditore Flavio D’Introno, è stato inserito anche il nome dell’ ex pubblico ministero della Procura di Trani (ora in servizio a Salerno) Luigi Scimè indagato per corruzioni in atti giudiziari, e di altri tre altri nuovi indagati: l’avvocato Giacomo Ragno, 62 anni, di Molfetta, il cognato di Savasta, il barlettano Savino Zagaria, 55 anni, ed il molfettese Martino Marancia, 54 anni. Il magistrato Scimè viene incluso e coinvolto in episodi di corruzione ed elargizioni di tangenti messo in piedi e gestito da Michele Nardi suo ex- collega a Trani, che è venuto alla luce a seguito dell’inchiesta condotta dalla Procura di Lecce con l’ausilio investigativo dei Carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Barletta. Scimè risponde delle accuse a suo carico accusato di avere ricevuto 75mila euro: 30mila per i procedimenti penali che riguardavano D’Introno , 30milaper aver richiesto al Gip l’archiviazione degli attentati incendiari alle due ville della moglie di D’Introno ed infine 15mila euro per il “processo Frualdo“. Infatti all’interno delle 25 pagine di richiesta di incidente probatorio depositata dal pubblico ministero Roberta Licci al giudice per le indagini preliminari, Giovanni Gallo, si sostiene che il magistrato Scimè si sarebbe prestato a favorire l’imprenditore Flavio D’Introno, che nelle intercettazione viene definito “la gallina dalle uova d’ora“, in processo a suo carico di primo grado chiamato “Fenerator” , in cui rispondeva del reato di usura, processo del quale il magistrato indagato era titolare del fascicolo. Secondo il capo di imputazione Scimè avrebbe preparato la requisitoria insieme a Savasta su richiesta del Nardi per chiedere poi l’assoluzione parziale in quanto per le accuse restanti a carico di D’Introno, si sarebbero avvalsi , per non destare sospetti, della successiva prescrizione che sarebbe intervenuta nei successivi gradi di giudizio. Sempre Scimè si sarebbe attivato a chiedere il rinvio a giudizio di due persone, in realtà risultate vittime nel processo Fenerator, per fare poi confluire tutti gli atti nel dibattimento in corso con il fine preordinato di agevolare la posizione processuale a carico di D’Introno. Sui procedimenti per gli incendi delle ville, sarebbero state chieste ed ottenute le archiviazioni in quanto i procedimenti restarono contro ignoti, non venendo accolte e prese in considerazione le richieste della polizia giudiziaria di intercettare i telefoni di D’Introno e di installare una microspia nella sua autovettura. Sempre a Scimé inoltre viene contestato di avere apposto la sua firma al posto di quella del procuratore capo Capristo , su una richiesta di sequestro presentata da Savasta di circa 9 milioni e 200mila euro, allo scopo di favorire D’Introno. Tutto ciò per evitare il controllo del procuratore aggiunto Giannella. Nella richiesta di incidente probatorio vi sono anche altre nuove contestazioni , come l’accusa di millantato credito contestata a Michele Nardi che voleva far credere di potere incidere sulle decisioni dei giudici della Corte d’Appello e della Cassazione nel processo Fenerator, contestata nello stesso ed in altri procedimenti. Tutto ciò ha indotto il pm Roberta Licci titolare dell’inchiesta sulla giustizia “corrotta” di Trani a garantirsi le confessioni di Savasta, Di Chiaro e D’Introno, che hanno consentito l’applicazione di quanto previsto dal codice di procedura penale, sui requisiti di Legge necessari per poter richiedere l’incidente probatorio e cioè che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga o deponga il falso. Condizioni queste che nella vicenda in questione sono presenti e concrete, come scrive il pubblico ministero Licci: “Che peraltro nel caso di specie appare fuori di dubbio la sussistenza proprio di quest’ultima condizione, alla luce di quanto ampiamente documentato nella fase delle indagini circa le plurime condotte poste in essere dagli indagati, finalizzate all’inquinamento delle fonti dichiarative. Tra cui, offerte e dazioni di denaro come anche pressioni e minacce volte ad assicurarsi il silenzio di Flavio D’Introno. Sino a fornirgli i mezzi economici per riparare all’estero“.
Condanna della Cassazione al giornalista Viviano di Repubblica per avere trafugato documenti dagli uffici giudiziari di Trani. Scrive il 22 Aprile 2019 Il Corriere del Giorno. Il giornalista Francesco Viviano è stato ritenuto responsabile e colpevole di aver trafugato i documenti contenenti alcune intercettazioni dell’inchiesta Rai-Agcom, materialmente asportati dall’ufficio del dott. Roberto Oliveri del Castillo, all’epoca dei fatti Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani. Dalla Procura di Trani retta a suo tempo dal procuratore capo Carlo Maria Capristo, vi erano state delle ‘fughe’ di notizie nell’ambito delle indagini nelle quali si è giunti ad ascoltare le telefonate del premier, Silvio Berlusconi. La prima “fuga” era riferita all’articolo del 10 marzo 2013 sul giornale "Il Fatto quotidiano", che rivelava l’esistenza dell’inchiesta della procura di Trani su presunte pressioni compiute dal Presidente del Consiglio nei confronti di Giancarlo Innocenzi commissario Agcom (in quota Forza Italia) per la chiusura del il programma televisivo “Annozero” condotto da Michele Santoro, ed il coinvolgimento del direttore del Tg1 Augusto Minzolini. La seconda ‘”fuga” di notizie era quella che coinvolgeva due giornalisti del quotidiano ‘la Repubblica’. I due giornalisti che vennero indagati per questa seconda “fuga” erano Francesco Viviano, indagato per furto e pubblicazione di atti segreti, e Giuliano Foschini (a lato nella foto) indagato per ricettazione: i documenti contenenti alcune intercettazioni dell’inchiesta Rai-Agcom, secondo gli investigatori, sarebbero stati materialmente trafugati da Viviano nell’ufficio del dott.Roberto Oliveri del Castillo, Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani . Il fascicolo dell’inchiesta riguardante il premier, indagato per concussione e violenza e minaccia a corpo politico e amministrativo, era in attesa di essere trasmessa al tribunale dei ministri a Roma .Le indagini vennero coordinate dal procuratore aggiunto di Trani, Francesco Giannella, ed affidate al pm Giuseppe Maralfa. Inizialmente la posizione dei due giornalisti Viviano e Foschini del quotidiano La Repubblica era stata considerata identica, interpretando le parole del Procuratore capo Carlo Maria Capristo rispondendo alle domande dei cronisti aveva detto: “sono indagati per furto pluri aggravato e pubblicazione di notizie coperte dal segreto istruttorio i due giornalisti del quotidiano La Repubblica ascoltati ieri dalla Digos a Bari“. Il Procuratore capo Capristo non nascose la propria amarezza perche’ erano stati violati i principi fondamentali di deontologia del giornalismo. Infatti, erano state trafugate delle carte in una stanza del Palazzo di Giustizia. “Non darò tregua alle talpe che hanno suscitato questo scandalo mediatico – aveva promesso il procuratore – non solo nell’interesse della magistratura ma anche nell’interesse dei tanti giornalisti che fanno il loro lavoro onestamente“. Capristo evidenziò che la pubblicazione di alcuni atti dell’inchiesta ha impedito di fatto la lettura di tutto il fascicolo in tempi brevi, e che era diventato molto complicato “valutare in maniera ponderata” tutti gli atti. “Sono infastidito e rammaricato per quanto accaduto, non è una bella cosa, penso sempre al rapporto di correttezza con le persone” commentò il gip del Tribunale di Trani Roberto Oliveri Del Castillo rispondendo alle domande di alcuni giornalisti fuori dalla porta del suo ufficio, dal quale erano sono stati portati via e poi fotocopiati atti dell’inchiesta Rai-Agcom, successivamente riportati al loro posto. “Cosa pensate, che qui ci sia sempre il clamore di questi giorni? Qui dentro potrebbero anche ammazzarci e non se ne accorgerebbe nessuno“, rispose il giudice a chi gli chiese se non fosse stato il caso di avere carabinieri o vigilanza fuori dalla sua stanza. “A volte chiudo la porta – continuava Oliveri Del Castillo – ma per abitudine personale“. Alla domanda sul luogo in cui si trovassero gli atti trafugati, se sulla scrivania, il gip aveva replicato: “Non posso dirlo, non rispondo“. Il gip poi aggiunse di non sapere nulla del video che riprenderebbe l’atto del furto. La stanza del gip si trova al primo piano del Palazzo di giustizia di Trani e vi si accedeva da due diversi corridoi. Francesco Viviano cronista giudiziario palermitano di lungo corso e di grande esperienza, in un primo momento negò di avere “sottratto” i documenti, rivendicando nel corso del processo che dovette subire il proprio dovere di pubblicare quelle notizie, ma venne “immortalato” dalle immagini filmate del Tribunale di Trani, “scaricato” dal suo collega Foschini, venendo processato e condannato ad un anno di carcere per avere sottratto dei documenti custoditi nell’ ufficio del Gip Oliveri del Castillo . Immediatamente e “puntualmente” arrivò in loro soccorso il “sindacato”. Infatti la FNSI si schierò al fianco dei due giornalisti. Scriveva il sindacato: “Come sottolineato dal comitato di redazione e dalla direzione di Repubblica – contestavano Lorusso e Giulietti -, chi esercita il diritto di cronaca nell’interesse esclusivo dei cittadini ad essere informati e nel rispetto della verità dei fatti non può rischiare il carcere. Si tratta di un’anomalia tutta italiana, più volte stigmatizzata anche dagli organismi internazionali. A tal proposito, sarebbe auspicabile che il Parlamento desse seguito alla richiesta dell’Unione europea di depenalizzare il reato di diffamazione a mezzo stampa. La proposta di riforma attualmente in discussione non affronta il problema in modo soddisfacente anche perché nulla dice su un altro fenomeno molto italiano, quello delle querele temerarie, una pratica sempre più diffusa e inaccettabile in un Paese civile perché si trasforma di fatto in una forma di intimidazione ai giornalisti e, quindi, di limitazione del diritto di cronaca”. Ma tutto ciò come sempre non servì a nulla. Infatti il gup del tribunale di Trani Maria Grazia Caserta rinviò a giudizio con le accuse di furto e pubblicazione arbitraria di atti giudiziari secretati il giornalista Francesco Viviano, prosciogliendo invece il suo collega Giuliano Foschini (entrambi del quotidiano La Repubblica) dall’accusa inizialmente formulata a suo carico dalla Procura di Trani di “ricettazione“. “Il proscioglimento di Foschini – dichiarò Guido Columba presidente dell’ UNCI l’ Unione Nazionale Cronisti Italiani – restituisce dignità ad un altrettanto scrupoloso cronista e ristabilisce la verità su una vicenda che suscita amarezza perchè l’autorità giudiziaria è intervenuta in modo inaccettabile nel rapporto con le fonti, importantissimo strumento per chi svolge l’attività giornalistica”. Successivamente anche la Corte di Appello di Lecce confermò un anno fa, la condanna di primo grado ad un anno di reclusione al giornalista Francesco Viviano, andando oltre i 9 mesi richiesti dal pubblico ministero in quanto Viviano era stato condannato precedentemente per essere entrato abusivamente nel centro accoglienza immigrati di Lampedusa per una delle sue inchieste. Viviano, che si è sempre dichiarato innocente per la vicenda di Trani, indicava sulla sua pagina Facebook nel collega Giuliano Foschini (anch’egli di REPUBBLICA) la causa della sua condanna, definendolo “un collega che ha raccontato a dei magistrati delle bugie, che mi ha intercettato (incredibile) etc. etc. e che mi ha fatto condannare ad un anno di reclusione“. Fra Viviano e Foschini sembra non correre più buon sangue, come manifesta lo stesso Viviano sulla sua pagina Facebook dove compaiono delle pesanti accuse ed affermazioni che confermano i rancori esistenti. Scrive Viviano: “mi cancellerò dall’ albo dei giornalisti non solo per il giro ma anche per Giuliano Fascini (ma vuol dire Foschini n.d.r.) che continua a a scrivere”. Il giornalista Francesco Viviano assistito dall’ avv. Michele Laforgia del Foro di Bari, ha presentato ricorso alla Corte Cassazione, ma è stato ritenuto infondato venendo rigettato dalla 6a sezione penale giudicante della Suprema Corte (presidente Di Stefano, relatore Costantini) che ha condiviso il parere del sostituto procuratore generale Francesco Salzano, confermando le due precedenti decisioni del tribunale pugliese, ed ha condannato definitivamente il giornalista siciliano del quotidiano La Repubblica. Adesso tutti i giornalisti italiani, prima di trafugare documenti dai Tribunali e pubblicare degli atti processuali coperti da segreto istruttorio dovranno pensarci due volte. Come sempre il CORRIERE DEL GIORNO mette a vostra disposizione la sentenza integrale.
· Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate.
Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate. Il fascicolo è stato aperto dopo che la procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, nel luglio scorso, aveva trasmesso gli atti per competenza ai magistrati di Salerno. Tra i reati contestati quello di favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari, scrive Giovanna Pavesi, Giovedì 17/01/2019, su "Il Giornale". Erano tutti in servizio nel distretto giudiziario di Catanzaro, con diversi incarichi. Ma oggi, secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, quindici magistrati sono indagati dalla procura di Salerno per favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari. Il giornale indica fra gli indagati il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo, il procuratore di Castrovillari (Cs), Eugenio Facciolla, e il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto.
L'inchiesta. Al centro dell'inchiesta ci sarebbero episodi di favoreggiamento, a beneficio di indagati, e rivelazione di segreto d'ufficio, in relazione a operazioni di polizia, ma anche manipolazione di atti relativi a indagini. Al momento, comunque, non risulterebbero provvedimenti a carico dei magistrati coinvolti.
La testimonianza di Carchidi. Tra le persone ascoltate dai magistrati salernitani ci sarebbe il giornalista Gabriele Carchidi, direttore del sito "Iacchitè", autore di alcuni articoli sulla gestione della procura cosentina. La sua testimonianza sarebbe stata ascoltata l'11 dicembre dai carabinieri del Ros di Salerno, in missione nella città calabrese, per avere informazioni sull'inchiesta in corso.
Il legale di Facciolla: "Solo temi organizzativi". "A Salerno, per quanto riguarda la posizione del procuratore Facciolla, è in corso un approfondimento su temi amministrativi e organizzativi della procura di Castrovillari. Soltanto questo", ha spiegato all'Agi Antonio Zecca, avvocato del procuratore capo, in riferimento all'inchiesta della procura campana. Il legale ha aggiunto: "Ho letto l'articolo che riguarda un grappolo di magistrati calabresi per reati associativi o per collusioni con reati associativi, ma assolutamente nulla ha a che vedere l'indagine che riguarda Facciolla con questi temi. Il dottor Facciolla ha già ampiamente chiarito il suo ruolo e il suo comportamento ma, ripeto, sotto l'aspetto amministrativo e organizzativo dell'ufficio. È a dir poco sorprendente che ci sia una fuga di notizie su questi temi, mi sembra un vero e proprio salto nel passato, quando negli anni Novanta le informazioni di garanzia, gli interessati le ricevevano dalle testate giornalistiche".
L'apertura del fascicolo. Il fascicolo sarebbe stato aperto dopo che la procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, nel luglio scorso, aveva trasmesso gli atti per competenza ai magistrati della città campana. Secondo le prime ricostruzioni, gli uffici coinvolti sarebbero quelli del capoluogo calabrese, di Cosenza e di Crotone.
Sospetti e indagini per 15 magistrati calabresi. Il Fatto rivela una indagine della procura di Salerno su colleghi calabresi: varie ipotesi di reato, dal favoreggiamento alla corruzione, scrive il 17/01/2019 Huffington Post. Quindici magistrati calabresi sotto indagine dei colleghi salernitani. Secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, se le ipotesi dovessero trovare riscontri, ci sarà un terremoto giudiziario in diverse procure della Calabria, investendo magistrati anche con ruoli apicali per reati di vario tipo che vanno dalla corruzione al favoreggiamento mafioso. L'inchiesta è condotta dalla Procura di Salerno, competente per territorio. Secondo quanto risulta al Fatto, tra gli inquisiti c'è il procuratore di Cosenza Mario Spagnuolo, sotto indagine per corruzione e corruzione in atti giudiziari. Secondo una ipotesi accusatoria, tutta da verificare da parte dei pm salernitani, nel 2016 Spagnuolo avrebbe favorito l'indagato Giuseppe Tursi Prato in cambio del suo silenzio sul fratello: Tursi Prato, ex consigliere regionale socialdemocratico ed ex presidente dell'Asl di Cosenza, avrebbe favorito in precedenza Ippolito Spagnuolo per il suo trasferimento dal reparto di psichiatria dell'Asl di Cosenza al servizio territoriale. C'è poi una indagine che tocca l'ufficio di Nicola Gratteri, a carico del procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto. Secondo una accusa, anche questa tutta da verificare, è accusato di rivelazione di segreto d'ufficio. L'accusa di violazione del segreto d'ufficio riguarda notizie su una operazione di polizia che Luberto avrebbe rivelato all'ex vicepresidente della Calabria Nicola Adamo (PD) che si trovata in compagnia di Giuseppe Tursi Prato. Per quanto riguarda l'ipotesi accusatoria di abuso d'ufficio, è connessa a un arresto per mafia nel marzo del 2016. Altro filone d'indagine riguarda invece il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, per abuso d'ufficio. Chiamato in causa da un maresciallo della Forestale di Cava di Melis, Carmine Greco, fatto arrestare per mafia a luglio scorso dalla procura di Catanzaro. Greco sostiene di aver manipolato degli atti una indagine, con il presunto avallo del procuratore Facciolla. "A Salerno, per quanto riguarda la posizione del procuratore Facciolla, è in corso un approfondimento su temi amministrativi e organizzativi della procura di Castrovillari. Soltanto questo". Lo dice all'Agi l'avvocato Antonio Zecca, legale del procuratore capo di Castrovillari, Eugenio Facciolla, in riferimento all'inchiesta della procura campana su 15 magistrati calabresi. "Ho letto l'articolo che riguarda un grappolo di magistrati calabresi per reati associativi o per collusioni con reati associativi - dice l'avvocato - ma assolutamente nulla ha a che vedere l'indagine che riguarda Eugenio Facciolla con questi temi. Il dottor Facciolla ha già ampiamente chiarito il suo ruolo e il suo comportamento - aggiunge il legale - ma, ripeto, sotto l'aspetto amministrativo ed organizzativo dell'ufficio. E' a dir poco sorprendente che ci sia una fuga di notizie su questi temi - conclude l'avvocato Zecca - mi sembra un vero e proprio salto nel passato, quando negli anni Novanta le informazioni di garanzia gli interessati le ricevevano dalle testate giornalistiche".
Bufera sulla giustizia calabrese: indagati 15 magistrati dalla Procura di Salerno. La notizia riportata questa mattina dal Fatto Quotidiano. Le carte scottanti arriverebbero direttamente dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri. A finire sotto inchiesta sarebbero magistrati requirenti e giudicanti di livello apicale degli uffici di Catanzaro, Cosenza e Crotone. Tra questi Mario Spagnuolo, Vincenzo Luberto ed Eugenio Facciolla, scrive giovedì 17 gennaio 2019 lacnews24.it. La notizia lanciata questa mattina dalle colonne del Fatto quotidiano è di quelle destinate a lasciare il segno, anche se va presa con tutte le cautele del caso vista la complessità delle vicende narrate ed i soggetti coinvolti: 15 magistrati calabresi sarebbero iscritti sul registro degli indagati della Procura della Repubblica di Salerno con le accuse, a vario titolo, di favoreggiamento aggravato, corruzione in atti giudiziari e corruzione. Le carte scottanti arriverebbero direttamente dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, che ha trasmesso il fascicolo ai colleghi campani per competenza. A finire sotto inchiesta, riporta l’articolo a firma di Antonella Mascali, sono magistrati requirenti e giudicanti di livello apicale degli uffici di Catanzaro, Cosenza e Crotone. Secondo le informazioni in possesso del Fatto, fra gli inquisiti ci sarebbe anche il procuratore di Cosenza, Mario Spagnuolo, che risponderebbe di corruzione e corruzione in atti giudiziari. L’episodio, risalente al 2016, riguarderebbe «l’indagato Giuseppe Tursi Prato in cambio del suo silenzio sul fratello: Tursi Prato, noto ex consigliere regionale socialdemocratico ed ex presidente dell’asp di Cosenza - scrive il Fatto - avrebbe favorito in precedenza Ippolito Spagnuolo per il suo trasferimento dal reparto di psichiatria dell’asl di Cosenza al servizio territoriale». Da quel che emerge, però, sarebbe coinvolto anche l’ufficio della Procura della Repubblica di Catanzaro. Nel mirino della Procura salernitana, infatti, ci sarebbe anche il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto. Per lui l’ipotesi, sempre tutta da verificare come riportato dal Fatto, sarebbe quella di rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio. Il primo reato ipotizzato riguarderebbe delle notizie riguardanti un’operazione di polizia che «Luberto - scrive il Fatto - avrebbe rivelato all’ex vicepresidente della Calabria, Nicola Adamo (Pd) che si trovava in compagnia di Giuseppe Tursi Prato». Per quanto riguarda l’abuso d’ufficio, invece, il fatto sarebbe risalente ad un arresto per mafia effettuato nel 2016. Ma non finisce qui. Perché, sempre stando al resoconto del Fatto, ci sarebbe un fascicolo riguardante anche il procuratore capo di Castrovillari, Eugenio Facciolla, che risponderebbe di abuso d’ufficio. Facciolla sarebbe stato chiamato in causa dal maresciallo Carmine Greco, comandante della Forestale di Cava di Melis, ed arrestato il 7 luglio scorso dalla Procura di Catanzaro con accuse piuttosto pesanti. Stando a quanto appurato dal quotidiano, Greco avrebbe «manipolato degli atti d’indagine con il presunto avallo del procuratore Facciolla». Il Fatto quotidiano, inoltre, riporta di uno scontro fra il procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, ed il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri. Il primo avrebbe contestato al secondo di «non rispettare le regole di coordinamento con gli altri uffici giudiziari - riporta il quotidiano - e di aver fatto il furbo non inviando, come prevede il codice, elementi di indagine alla Procura di Salerno su magistrati calabresi non appena sono emersi spunti». Il Fatto racconta anche di una audizione al Csm da parte di entrambi nel mese di luglio in cui sarebbero volate delle bordate. Ci sono anche dei virgolettati: «Tutti sono farabutti all’infuori di lui - avrebbe detto Lupacchini riferendosi a Gratteri -nessuno capisce nulla, perché il verbo giuridico è lui a possederlo». Ma il giorno dopo è lo stesso Gratteri a parlare: «Mi si dice che io furbescamente non ho trasmesso gli atti a Salerno. Di me accetto tutte le critiche del mondo - avrebbe riferito Gratteri al Csm - che sono ignorante ecc. ma sull’onestà no». La parola passa ora alla Procura di Salerno che avrà il delicatissimo compito di vagliare il contenuto del fascicolo trasmesso da Gratteri ed appurare se le ipotesi contenute abbiano un qualche fondamento tale da poter condurre ad ulteriori sviluppi.
Il Fatto Quotidiano rivela: Spagnuolo e Luberto indagati per corruzione e abuso d’ufficio a Salerno, scrive Antonella Mascali su Iacchite il 17 Gennaio 2019. Fonte: Il Fatto Quotidiano. Almeno 15 magistrati calabresi sono indagati dalla Procura di Salerno per vicende diverse e per reati diversi, alcuni gravi, come il favoreggiamento mafioso, corruzione in atti giudiziari e corruzione. I pm salernitani, competenti per il distretto di Catanzaro, stanno indagando dall’estate scorsa con carte trasmesse dalla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. A finire sotto inchiesta, magistrati requirenti e giudicanti, pure con ruoli apicali, degli uffici di Catanzaro, Cosenza e Crotone. Se le indagini porteranno la Procura salernitana – che da settembre ha un reggente, il procuratore aggiunto Luca Masini – a chiedere processi, la Calabria potrebbe essere squassata da un terremoto giudiziario dentro la magistratura. Al Fatto risulta che tra gli inquisiti ci sia il procuratore di Cosenza, Mario Spagnuolo, indagato per corruzione e corruzione in atti giudiziari. Secondo un’ipotesi accusatoria, tutta da verificare da parte dei pm salernitani, nel 2016 Spagnuolo avrebbe favorito l’indagato Giuseppe Tursi Prato in cambio del suo silenzio sul fratello: Tursi Prato, noto ex consigliere regionale socialdemocratico ed ex presidente della Asl di Cosenza, avrebbe favorito in precedenza Ippolito Spagnuolo per il suo trasferimento dal reparto di psichiatria dell’Asl di Cosenza al servizio territoriale. Ma le diverse indagini sviluppate da Salerno toccano anche l’ufficio di Gratteri, il procuratore che ha trasmesso atti ai colleghi campani. È indagato, infatti, il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto, che secondo un’ipotesi, anche questa tutta da verificare, è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio. L’accusa di violazione del segreto d’ufficio riguarda notizie su un’operazione di polizia che Luberto avrebbe rivelato all’ex vicepresidente della Calabria, Nicola Adamo (Pd) che si trovava in compagnia di Giuseppe Tursi Prato. Per quanto riguarda l’ipotesi accusatoria di abuso d’ufficio, è connessa a un arrestato per mafia nel marzo del 2016. Un fascicolo riguarda pure il procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, accusato dai pm salernitani di abuso d’ufficio. Nei mesi scorsi, il procuratore è stato chiamato in causa dal maresciallo Carmine Greco, comandante della Forestale di Cava di Melis (Cs), ufficiale di polizia giudiziaria, fatto arrestare per mafia il 7 luglio scorso dalla Procura di Catanzaro. Greco sostiene che con il presunto avallo del procuratore Facciolla avrebbe manipolato degli atti di un’indagine. Ora i magistrati di Salerno devono verificare se ci siano riscontri alla chiamata in correità del maresciallo Greco. È bene specificare che i fascicoli di indagine su magistrati calabresi finora non hanno portato ad alcuna richiesta di misura preventiva né a richieste di rinvio a giudizio. Le indagini della Procura di Salerno continuano e il Csm fa le sue valutazioni su eventuali incompatibilità ambientali.
· Giudice di Napoli: “Aveva legami con la camorra”.
“Aveva legami con la camorra”, arrestato per corruzione un giudice di Napoli. Fermate altre quattro persone. Sono accusati anche di traffico di influenze illecite, millantato credito, tentata estorsione e favoreggiamento personale. Edoardo Izzo il 3/07/2019 su La Stampa. In pieno scandalo Csm, un’altra maxi operazione anticorruzione porta in manette un giudice del tribunale di Napoli accusato di corruzione in atti giudiziari. Si tratta di Alberto Capuano, 60 anni, gip presso il tribunale di Napoli nella sezione distaccata di Ischia. Insieme a lui, tra i destinatari di misura cautelare, ci sono altre quattro persone: il consigliere circoscrizionale di Bagnoli, Antonio Di Dio, di 66 anni, l’avvocato Elio Bonaiuto, di 71 anni, Giuseppe Liccardo, 31 anni, pregiudicato e vicino al clan Mallardo di Giugliano, e il 52enne libero professionista, Valentino Cassini. I reati contestati agli indagati sono la corruzione nell’esercizio della funzione, la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e in atti giudiziari, il traffico di influenze illecite, il millantato credito, la tentata estorsione e il favoreggiamento personale. Dalle indagini della Squadra Mobile, coordinate dall’aggiunto Paolo Ielo, sono emersi legami tra gli indagati e la camorra. Sono in corso perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici degli indagati.
PASTIERE, BOTTIGLIE DI VINO E CONTANTI: ECCO COME SI AGGIUSTAVANO I PROCESSI A NAPOLI. Leandro Del Gaudio per “il Messaggero” il 5 luglio 2019. Recluso nel carcere di Poggioreale, potenzialmente gomito a gomito con altri detenuti che potrebbe aver arrestato o condannato negli ultimi anni. Brutta storia quella del giudice Alberto Capuano: corruzione in atti giudiziari, traffico di influenze sono le accuse più gravi, grazie al virus spia Trojan inoculato sul suo cellulare e su quello del suo presunto socio di affari, parliamo del consigliere della municipalità di Bagnoli Antonio Di Dio, dell'imprenditore Valentino Cassini (indicato come tuttofare in servizio presso il centro estetico della moglie di Capuano), e del pregiudicato Giuseppe Liccardo, ritenuto a sua volta vicino al clan Mallardo. Finisce invece agli arresti domiciliari l'avvocato napoletano Elio Bonaiuto, accusato di favoreggiamento (avrebbe svelato a un indagato i contenuti di una indagine nella quale era stato sentito come testimone). Brutta pagina, quella raccontata dall'inchiesta romana chiamata in modo fin troppo gratuito «Operazione San Gennaro», tra soldi e regali in cambio di qualche toppa ai processi, sempre a metà strada tra realtà e millanteria.
UN SISTEMA CONSOLIDATO. Sessanta anni, giudice a Napoli dopo un recente distacco a Ischia, Capuano era stato coinvolto qualche anno fa nell'inchiesta sulla gestione dei beni del gruppo imprenditoriale Ragosta, vicenda dalla quale era stato archiviato (non senza rilievi sotto il profilo disciplinare). Oggi è il gip romano Costantino De Robbio a firmare i suoi arresti, tracciando un giudizio severo su quanto avviene all'ombra delle torri del Centro direzionale: «Un consolidato sistema» di corruzione in cui un gruppo di soggetti, all'interno del Tribunale di Napoli, era in grado di influenzare in vario modo la sorte di importanti processi penali pendenti in fase dibattimentale o in Corte di Appello».
IL GIUDICE ALBERTO CAPUANO. Inchiesta del pm capitolino Gennaro Varone, sotto il coordinamento dell'aggiunto Paolo Ielo, per il gip non ci sono dubbi: il gruppo era in grado di «sospendere procedure esecutive penali e ritardare verifiche dei crediti fallimentari, provocare la scarcerazione di detenuti ed il dissequestro dei beni di importanti esponenti della criminalità organizzata, fino ad estendere la propria influenza sul concorso in magistratura, il cui esito è stato distorto a favore di una candidata, figlia di uno degli appartenenti al gruppo degli indagati». Sembra sferzante il gip De Robbio, quando si rivolge al collega Capuano: «Un giudice grazie al quale tutto si può ottenere, tutto si può comprare». E ancora: «Può vantare vere o presunte influenze su numerosi altri magistrati del tribunale e della Corte di Appello di Napoli ed è pronto a spendere i suoi rapporti - scrive ancora il gip - in cambio di elargizioni di denaro ed altre utilità anche di entità economica relativamente modesta oltre a lavori di ristrutturazione (nel centro estetico della moglie), di biglietti aerei intercontinentali e pacchetti vacanze in Colombia a prezzi di favore, tre blocchetti da dieci ingressi gratis per la figlia, nella struttura balneare di Bagnoli, ma anche pastiere e bottiglie di vino, fino alle somme di denaro in contanti».
DUE INTERMEDIARI. Secondo gli inquirenti, Capuano avrebbe accettato da due intermediari di Giuseppe Liccardo, pregiudicato del clan Mallardo, la promessa di circa 70mila euro: «20 prima e 50 dopo», in cambio del suo intervento su uno o più componenti un Collegio penale, designato per decidere il processo a carico di Liccardo, di suo fratello Luigi e della madre Granata. In un'intercettazione si sente un intermediario che riferisce a Liccardo le rassicurazioni del giudice Capuano: «Mi ha detto: dì ai ragazzi che stiano tranquilli () il presidente è una cosa loro, già sa tutte cose, ok?».
LUNGA CODA AL TRIBUNALE DI NAPOLI. Millanterie o accordi veri? Non ci sono riscontri sui soldi di cui si parla nelle intercettazioni, anche se Capuano più volte viene intercettato mentre discute con l'amico Di Dio del processo finito ad altro collegio. Altri filoni di indagine riguardano l'ipotesi di condizionamento della prova orale del concorso in magistratura della figlia di Di Dio, per la quale Capuano si impegna a contattare (e a ringraziare per l'esito positivo) una collega presidente della commissione di esami orali.
· Una volpe di Magistrato.
'STO MAGISTRATO E' UNA VOLPE! Paola Fucilieri per Il Giornale.it il 4 luglio 2019. È un club di alto livello, molto ben frequentato, quello in cui hanno fatto irruzione le forze dell'ordine qualche sera fa, tra lunedì e martedì. Il controllo in certi ambienti è d'obbligo: dove c'è denaro, si sa, c'è anche consumo di stupefacenti e le voci girano. Gli uomini in divisa li chiamano «blitz». In realtà i commissariati di zona e la polizia amministrativa sanno benissimo quali sono i posti da monitorare, hanno il polso della situazione, conoscono il territorio. Così nel locale milanese in questione tutto si è svolto come al solito: richiesta di documenti, identificazioni e via di seguito. Alla fine qualcuno che finisce in questura o in commissariato c'è sempre. Così come chi, forse più di altri, non desidera essere «pescato» in luoghi che frequenta in qualità di privato cittadino. Per questo ha comprensibilmente chiesto estrema discrezione il magistrato della Procura di Milano che, proprio in qualità di privato cittadino ma in abiti un po' bizzarri, si è visto chiedere i documenti ed è stato quindi identificato all'interno del locale e riconosciuto. Va sottolineato che la persona in questione è del tutto estranea al consumo di stupefacenti e nulla ha a che vedere con le ragioni per cui al club, al termine dei controlli, è stata sospesa la licenza. Tuttavia il pm era ben conscio che il costume che indossava nel momento in cui le forze dell'ordine hanno fatto il loro blitz nel club dov'era in corso una festa - una sorta di camuffamento carnevalesco peloso, da volpe, con due code - poteva suscitare più di un commento ilare, più di una chiacchiera. E ha preferito non glissare sul «tenetemi fuori da questa storia, visto che non c'entro nulla», ma anzi insistere. Impossibile non accontentarlo.
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Persone scomparse, si cercano ancora 10mila italiani. E uno su cinque è un minore.
Persone scomparse, si cercano ancora 10mila italiani. E uno su cinque è un minore. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. Le denunce di scomparsa sono state 236.256 dal ‘74 a oggi. Nel primo semestre 2019 sono state 6.761. Ci sono nomi eclatanti e famosi come quelli del fisico Ettore Majorana, scomparso misteriosamente la sera del 25 marzo 1938, a 31 anni, e mai più riapparso. O come quello del professor Federico Caffè, economista, uscito dalla sua casa di via Cadlolo, un’elegante strada di Monte Mario, il 15 aprile 1987 senza farvi più ritorno. Ma ci sono storie cariche di mistero come quella di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983; o strazianti come quella di Ylenia Carrisi, la figlia di Al Bano e Romina Carrisi scomparsa il 6 gennaio 1994. E come dimenticare la storia della piccola Angela Celentano, la bimba di 3 anni scomparsa la mattina del 10 agosto 1996 mentre partecipava alla gita annuale al Monte Faito che la Comunità Evangelica di Vico Equense (Napoli) è solita fare ogni estate? O il dramma di Iushra Gazi, la bambina autistica di 11 anni, scomparsa il 19 luglio 2018 nei boschi dell’Altopiano di Cariadeghe a Serle, nel Bresciano. Quello delle persone scomparse è un dramma nazionale (e internazionale), con numeri da capogiro. Per questo dodici anni fa, con un decreto del Presidente della Repubblica del 13 luglio 2007, veniva istituita per la prima volta la figura del Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse, un’istituzione a suo modo unica nel panorama europeo.
La Relazione Annuale stilata dal Commissario Straordinario, il prefetto Giuliana Perrotta, muove da elementi impressionanti. L’analisi approfondita, svolta dall’Ufficio sulla scorta dei dati forniti dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento di P.S., riferiti al periodo 1° gennaio 1974 - 30 giugno 2019, mostra dati che allarmano. «La scomparsa di persone continua a destare preoccupazione nella pubblica opinione per la rilevanza del dato nazionale, attestato su circa 60.000 persone scomparse ancora da rintracciare alla data del 30 giugno di quest’anno. Dall’inizio delle attività dell’Ufficio, nel 2007, sono stati aperti oltre 20.000 fascicoli e sono state registrate dalle forze dell’ordine - dal 1974 al 30 giugno 2019 - 236.256 denunce. Sempre nello stesso periodo sono state raccolte 88.323 denunce di persone di sesso femminile scomparse, delle quali è stato ritrovato l’85% (75.244), anche se 1.020 senza vita. Ne restano da ricercare 13.079», scrive il prefetto Perrotta.
Dal 1974, anno in cui inizia la registrazione delle scomparse, al 2018, le denunce sono aumentate in maniera pressoché costante fino al 2014, allorché si registrano aumenti del 100%. Negli anni 2015-2017 il numero dei minori scomparsi raddoppia, mentre nel 2016 addirittura si triplica. Questo aumento è dovuto al massiccio incremento degli arrivi di migranti e, in particolare, al fenomeno dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) che si allontanano dai centri di accoglienza che li ospitano. Si passa infatti dalle 15.020 denunce di scomparsa (8.135 minorenni, 5.972 maggiorenni e 913 over 65) del 2014 alle 18.093 denunce del 2018 (10.685 minorenni, 6.484 maggiorenni e 924 over 65). Dal 1° gennaio 1974 al 31 dicembre 2018, emerge un sensibile miglioramento delle percentuali di ritrovamento degli scomparsi. Nel 2007, anno in cui è stato istituto il Commissario Straordinario, le percentuali di ritrovamenti erano intorno al 68,5%, ma negli anni successivi aumentano fino al 79,2% del 2015, per attestarsi intorno al 75% circa negli anni successivi. Analizzando i dati del semestre corrente emerge che le denunce totali nel primo semestre 2019 sono state 6.761, con un andamento costante, ad eccezione di un leggero aumento nel mese di giugno; il 66% degli scomparsi è di sesso maschile;il 54% degli scomparsi sono minori. Per quanto riguarda la cittadinanza gli scomparsi italiani sono il 56% a fronte del 44% degli stranieri. Tale percentuale si inverte se si esaminano le denunce di scomparse relative ai minori: i minori stranieri sono il 59% a fronte del 41 % di minori italiani. Le denunce di scomparsa di minori stranieri sono quindi ancora in numero superiore a quelle degli italiani, a dimostrazione che il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati che arrivano nel Paese e si allontanano dai centri senza lasciare traccia è ancora rilevante, benché in diminuzione rispetto agli anni 2015-2017. Al momento, nel primo semestre 2019 si registra una percentuale di ritrovamenti inferiore rispetto agli anni precedenti (63%). Tuttavia, il dato potrà essere valutato solo al termine dell’anno.
Quanto alle motivazioni dei 6.761 casi di scomparsa, prevale l’allontanamento volontario: 5.074 casi, pari al 75%; l’allontanamento da comunità o istituto: 419 casi, pari al 6,2%; possibili disturbi psicologici: 423, 6,2%; sottrazione da coniuge (solo per i minorenni): 55, 0,8%; possibili vittime di reato: 22, 0,4%; causa non determinata: 768, 11,4% . Con l’entrata in vigore della legge n. 203/2012, nel corso degli anni si è consolidata la collaborazione fra le Prefetture e le forze dell’ordine sul tema delle persone scomparse. Ma molto, sottolinea il prefetto Perrotta, resta da fare.
Le persone scomparse, dal 1974 fino al semestre in corso, ancora da rintracciare sono 59.044 di cui 9.907 italiani e 49.137 stranieri suddivisi secondo le seguenti fasce di età: 42.591 minorenni (2.515 italiani - 40.076 stranieri); 14.838 maggiorenni (6.020 italiani - 8.818 stranieri); 1.615 ultrasessantacinquenni (1.372 italiani - 243.stranieri). il 73% circa delle persone che complessivamente devono essere rintracciate è costituito da minori. Dei 42.591 minorenni da rintracciare dal 1974 al 30 giugno 2019, 2.515 sono italiani e 40.076 sono stranieri, che quindi rappresentano il 67% delle persone ancora da rintracciare. I minorenni scomparsi in Italia dal 2014 al 2018 sono stati invece 62.105, di cui ritrovati 31.097, ancora da rintracciare 31.008. Per quanto riguarda i minori italiani con riferimento agli ultimi 5 anni, le denunce sono state 14.793, ne sono stati ritrovati 13.495, mentre ne restano da rintracciare 1.298. Le regioni dove nel corso degli anni il fenomeno ha assunto maggiore consistenza sono la Sicilia (14.350), la Lombardia (4.306), il Lazio (4.236), la Calabria (3.650) e la Puglia (3.326). La valutazione statistica relativa agli ultimi 5 anni (2014-2018) evidenzia un leggero aumento di persone scomparse e quindi di minori ancora da rintracciare (circa 300 casi in più dal 2014 al 2018), anche se è confermato che gli allontanamenti dei minori si risolvono positivamente in breve tempo. Dall’incontro del 21 maggio 2019 per la Giornata internazionale dei Bambini Scomparsi, è emersa la necessità di dare impulso a strategie comuni e a “politiche di contrasto” più incisive per prevenire ed arginare il fenomeno dei minori scomparsi e tutelarli dalle diverse forme di abuso.
Secondo i dati forniti da Europol, nell’Ue spariscono circa 10.000 minori stranieri non accompagnati ogni anno. E solo pochi di loro vengono ritrovati. Le notizie diffuse da Missing Children Europe, il network che riunisce 31 organizzazioni non governative in 27 Paesi Europei, parlano di cifre ancora più alte: le chiamate per bambini scomparsi in Europa nel 2017 sarebbero state più di 189.000. Non è da sottovalutare il rischio di sfruttamento minorile in attività illegali da parte della criminalità organizzata, in particolare nel settore della prostituzione o nel traffico di organi. Dei momenti di formazione e di valutazione destinati agli addetti nei sistemi di accoglienza sono stati organizzati presso 5 Prefetture (Milano, Treviso, Napoli, Reggio Calabria e Ragusa) con la collaborazione dell’Associazione SOS-Il Telefono Azzurro e nell’ambito del finanziamento europeo Justice rivolto alla tutela e alla protezione dei Minori stranieri non accompagnati. Problematico il nodo delle persone di cui sono stati ritrovati i corpi senza che sia stato possibile attribuire loro una identità. A questo fine è stato istituito il “Registro Nazionale dei cadaveri non identificati” che, per la prima volta in Italia, ha consentito di poter visionare le informazioni disponibili alle istituzioni interessate. Dal 1974 ad oggi sono stati censiti 919 casi di cadaveri non identificati. Con il d.P.R. n. 87 del 7 aprile 2016 è stato emanato il Regolamento recante le disposizioni di attuazione della Legge 30.6.2009, n. 85, concernente l’istituzione della Banca dati del Dna. Con l’incremento, negli anni 2013-2016, degli arrivi di migranti provenienti dall’Africa attraverso il Mediterraneo, si è purtroppo registrato un aumento dei naufragi, alcuni particolarmente tragici come quelli avvenuti il 3 e 11 ottobre 2013 a Lampedusa e il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia, rispettivamente con 366 e 800 vittime. Già in precedenza, per l’identificazione dei corpi recuperati a seguito del naufragio di Lampedusa in data 30 settembre 2014, Il Commissario straordinario del governo aveva stipulato un protocollo d’intesa con l’Università di Milano: con tale strumento venivano definite, su base scientifica, le procedure da seguire nel confronto tra i dati ante mortem delle vittime - forniti dai familiari, e i dati post mortem, raccolti dalla Polizia Scientifica sulle salme, e veniva stabilito di contattare i familiari tramite la diffusione di appositi avvisi, messi a punto dall’Ufficio, con il supporto di organismi umanitari e di associazioni. Vista la validità delle procedure utilizzate per l’identificazione delle vittime di Lampedusa, nel luglio del 2015 è stato sottoscritto con l’Università di Milano un ulteriore protocollo d’intesa anche per le vittime del naufragio del 18 aprile 2015. Con il decreto commissariale del 22 maggio 2019 è stata istituita infine la Consulta Nazionale per le Persone Scomparse. Presieduta dal Commissario, la Consulta è composta dai rappresentanti delle Associazioni nazionali dei familiari delle persone scomparse e dalle componenti istituzionali e del volontariato interessate al fenomeno ed ha il compito di assicurare un confronto permanente e continuo sulla tematica in discorso. «In conclusione, è arrivato il momento, dopo 12 anni, di riconoscere che questo non è una istituzione transitoria, per affrontare una emergenza circoscritta nel tempo, ma è una risposta ad un fenomeno in costante aumento che presenta caratteri peculiari per affrontare il quale è necessaria una continua attenzione», conclude il prefetto Perrotta. «Avverto come Commissario la responsabilità di fare tutto il possibile non solo perché neppure un solo caso di scomparsa sia trascurato o sottovalutato e perché aumentino ancora le già alte percentuali di ritrovamenti ma affinché di questo fenomeno si parli nelle scuole, nei convegni, sui media, affinché l’approccio alla complessa problematica che è dietro ogni caso di scomparsa sia sempre più evoluto, efficiente e qualificato e perché si pongano basi solide per un’attività di prevenzione di molti casi di allontanamento».
· Gente di Stato. I Suicidi Impossibili: Maria Teresa Trovato Mazza e Anna Esposito.
Andrea Tornago per “la Repubblica” il 28 novembre 2019. «Per la Procura il caso è chiuso, l' hanno scritto già due volte. Lo Stato che mia figlia serviva, non vuole dirmi com' è morta Sissi». Non si dà pace Salvatore, il padre di Maria Teresa Trovato Mazza, detta "Sissi". Atleta e poliziotta penitenziaria di origini calabresi, 27 anni, cresciuta nell' esercito, prestava servizio nel carcere femminile della Giudecca quando il 1° novembre 2016 è stata trovata riversa a terra in un ascensore dell' ospedale Civile di Venezia, con la testa devastata da un proiettile calibro 9. Per il pm veneziano Elisabetta Spigarelli non ci sono dubbi: l' agente ha tentato di togliersi la vita «senza il coinvolgimento di terzi », rivolgendo la pistola d' ordinanza contro se stessa. Ma il padre Salvatore Trovato Mazza, la madre Caterina e i famigliari sono convinti che non sia stata Sissi a sparare. Quel giorno l' agente Trovato Mazza doveva controllare una detenuta che aveva partorito ed era ricoverata nel reparto di pediatria dell' ospedale veneziano. Le immagini delle telecamere di sorveglianza la riprendono mentre si trattiene nei pressi delle scale come se stesse aspettando qualcuno. Si dirige verso l' ascensore, un punto non coperto dal raggio della telecamera, dove succede tutto in pochi istanti. Due minuti di buio, poi il corpo viene trovato da una passante. Nell' ottobre del 2018 i rilievi avanzati dai legali della famiglia, supportati da autorevoli periti, hanno convinto il giudice a ordinare nuove indagini, al termine delle quali la Procura ha chiesto nuovamente l' archiviazione. Qualche giorno fa l' avvocato dei Trovato Mazza, Girolamo Albanese, ha depositato una seconda opposizione chiedendo alla magistratura di scavare più a fondo: la speranza è che il giudice ordini una superperizia. Perché se di suicidio si è trattato, quello dell' agente Sissi sembra un suicidio impossibile. Il foro di entrata del proiettile si trova in un punto strano del capo, più vicino alla nuca che alla tempia, non proprio la zona scelta da chi si punta una pistola alla testa. E l' arma che ha sparato, la Beretta d'ordinanza, viene ritrovata completamente priva di impronte digitali e ancora in mano alla poliziotta, nonostante il rinculo e le gravissimi lesioni provocate dal proiettile rendessero quasi impossibile trattenerla. C' è poi il dato più pesante: l' assenza di tracce ematiche sulla punta della pistola, «un evento insolito » anche secondo la Procura, considerato che il sangue viene riscontrato «nel 75% dei casi» di colpi sparati a contatto o a bruciapelo. Secondo i consulenti di parte sarebbero immacolati anche il polsino e la manica destra di Sissi, che rientrano in quella zona che gli esperti chiamano di «backspatter», dove dovrebbero depositarsi le gocce di sangue e i frammenti provocati dall' entrata del proiettile: «Una contraddizione insuperabile rispetto alla tesi del suicidio », si spinge a sostenere il generale dei carabinieri Luciano Garofano, biologo ed ex comandante del Ris di Parma, che ha accettato di dare il suo contributo al pool di esperti ingaggiati dalla famiglia. Cos' è successo dunque all' agente Sissi Trovato Mazza? Resta un giallo. Anche perché le indagini presentano lacune irreparabili, come la decisione dei medici legali di non sbendare la testa per verificare la lesione e di rimandare l' esame a un mese dopo, quando ormai sulla poliziotta era stato eseguito un invasivo intervento neurochirurgico. «Ma le pare normale che un genitore debba cercare di dimostrare scientificamente che sua figlia non si è sparata da sola? Nessuno vuole parlare con noi - denuncia il padre Salvatore - . Per lo Stato il caso è chiuso. Cosa c' è dietro? Che cos' è questo muro?».
Lo strano suicidio di un commissario di Polizia: Anna Esposito come Denis Bergamini? Carla Santoro su L'Ora Legale il 9 maggio 2017. Morte di un commissario forse troppo scomodo: una sola frase dai toni forti per introdurre la vicenda di Anna Esposito e della sulla assurda morte, che a tutt’oggi rimane ancora un mistero fitto, nonostante la relativa inchiesta sia stata archiviata per ben due volte. Era il 12 marzo 2001, verso le ore 09:20, quando alcuni agenti della Polizia di Potenza, “insospettiti” per l’assenza di soli 15 minuti della collega, il commissario Anna Esposito, 1°dirigente della Digos locale, decidono di recarsi presso il suo appartamento nella caserma“.
La trovano supina con il collo stretto dentro una cintura di cuoio annodata a sua volta intorno alla maniglia della porta del bagno.
La prima autopsia colloca la morte della donna alle 23 della sera prima.
Il nodo posizionato anteriormente sul lato destro fa apparire sin da subito il suicidio come anomalo; se si fosse trattato di un impiccamento “ordinario” il nodo sarebbe stato posizionato posteriormente.
Inoltre il corpo non risultava totalmente sospeso, ma in una posizione semi-seduta, con le gambe appoggiate al pavimento.
I poliziotti, nel tentativo di rianimarla, la liberano dal cappio. Ma coloro che dovrebbero essere addestrati per lavoro a determinate procedure, fanno tutto a mani nude compromettendo così la scena del delitto.
L’incongruenza più evidente è costituita dalla cintura larga più di 4 cm. Come è riuscita ad entrare, addirittura annodata, entro lo spazio tra la porta e la maniglia? Il magistrato poi viene chiamato con notevole ritardo, oltre 40 minuti dopo; allo stesso un poliziotto dichiarerà di aver slacciato la cinghia perché travolto dall’agitazione e dall’intento di rianimarla, per poi contraddirsi nel verbale in cui afferma che il corpo era già visibilmente in “rigor mortis”...Nonostante il ritrovamento avvenuto alle 10 di mattina, l’Ansa aveva lanciato la relativa agenzia solo nel tardo pomeriggio e con un titolo già ben preciso, ancor prima che fosse stato effettuato l’esame autoptico: “SUICIDA DIRIGENTE DIGOS QUESTURA DI POTENZA”. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio e a tutt’oggi sta conducendo un’estenuante battaglia per scoprire la verità; Anna era una donna forte, sicura di sé, innamoratissima delle figlie, ma anche del suo lavoro, un mestiere che aveva nel sangue: dopo una brillante carriera di studi era riuscita ad ottenere promozioni fino ad arrivare al ruolo di Dirigente appena compiuti i trent’anni……insomma non aveva alcun motivo per compiere un simile gesto. Proprio quel tragico giorno, Anna lo aveva trascorso con la sua famiglia a Cava de’ Tirreni, nel salernitano; aveva pranzato a casa della madre. Aveva fatto i piatti e pulito la cucina, era allegra come sempre, ricorda la madre; dopo pranzo ha sistemato le sue due bambine per una passeggiata in centro; voleva prendere un gelato ed andare al cinema a vedere un film, che non aveva più visto per l’incontro con alcuni cugini, con i quali si era fermata a chiacchierare. Prima di sera, alle 18,40, Anna si mette in viaggio per Potenza; la madre aggiunge inoltre di aver ricevuto in serata una sua telefonata che le comunicava di essere arrivata rassicurandola che il viaggio fosse andato bene. In merito a tale telefonata la signora Olimpia ha sempre dichiarato di aver avuto la netta sensazione che la figlia non fosse sola, anche perché la telefonata fu bruscamente interrotta. Poi il silenzio. La prima inchiesta viene chiusa come suicidio, così sostengono da subito gli inquirenti trovando conferma in alcuni racconti dei colleghi che parlavano di depressione probabilmente dovuta alle vicende sentimentali. A ciò si è aggiunto il disdicevole comportamento del cappellano della Polizia di Stato, don Pierluigi Vignola, che durante la prima indagine, si era recato dal PM dichiarando che durante una confessione, Anna gli aveva parlato delle sue intenzioni suicide, dichiarazione successivamente ritrattate dal prelato. Troppi i dubbi e le incongruenze e tanti gli errori e le omissioni commesse. È il 2013 quando si torna ad investigare su cosa sia successo ad Anna Esposito ammettendo anche le troppe falle della precedente indagine. A partire da quella scena del crimine che non è stata preservata come si doveva. E da quel corpo manovrato e mosso più volte così da rendere impossibile gli adeguati rilievi del medico legale che comunque definì quell’impiccagione con una cintura legata sulla maniglia di una fragile porta del bagno, ad un metro e tre centimetri di altezza, con il bacino della vittima che sfiorava il pavimento, come un impiccagione atipica. Allo stesso modo si trascurarono troppi indizi che avrebbero potuto portare già allora a una soluzione diversa del caso. Ad esempio, l’agenda da cui Anna non si separava mai che fu rinvenuta sulla scrivania nella sua camera con 4 pagine strappate; ed ancora, messaggi di minaccia, bigliettini che l’Esposito riceveva al lavoro e di cui aveva raccontato ai familiari: chi glieli scriveva? E perchè? Cosa vi era annotato su quelle pagine strappate? Né furono considerati gli intrecci con il caso Claps. Infatti, quel 12 marzo, il commissario Esposito avrebbe dovuto incontrare, nel pomeriggio, avendogli dato appuntamento, Gildo Claps, fratello di Elisa, la ragazza di 16 anni scomparsa a Potenza il 12 settembre del 1993 e il cui cadavere venne ritrovato il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità. La Esposito, probabilmente aveva scoperto qualcosa che non la faceva stare tranquilla, tanto da confidare alla mamma in una delle sue ultime visite, che era molto preoccupata in quanto circolavano voci in Questura che qualcuno sapeva dove era il cadavere di Elisa Claps. Purtroppo l’esito della superperizia disposta dalla Procura e depositata il 24 giugno 2015 manda di nuovo a monte la possibilità di giungere alla verità: per il consulente tecnico d’ufficio il Dott. Introna (lo stesso che negò la presenza delle tracce del DNA di Restivo sui resti di Elisa Claps, nonché il medico che escluse l’esistenza di qualsiasi nesso tra il decesso di Stefano Cucchi ed il violento pestaggio a cui fu sottoposto, adducendo la morte del giovane ad improvvisa patologia epilettica) Anna si è suicidata. Lo scorso 24 marzo la Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai familiari confermando l’archiviazione del caso come suicidio. Aspettando di poter leggere le motivazioni con cui la Cassazione ha deciso in tal senso, riporto il commovente sfogo della mamma di Anna, raccolto e testimoniato da Giusi Lombardo, persona vicina alla famiglia, nonché amministratrice della pagina Fb (Giustizia per Anna Esposito) : “Sono una persona semplice e ho sempre creduto che la verità e la giustizia avrebbero, prima o poi, fatto il loro corso. Ma, dopo tutti questi anni di delusioni, non ho più fiducia nella capacità di giudizio dei magistrati. Io non ho mai preteso vendetta ma giustizia. Nessuno mi ridarà la mia dolce Anna, mamma, figlia e persona esemplare ma, anche se sono consapevole di questo, il mio cuore pretende Verità, quella verità che è stata più volte negata e disconosciuta dai giudici che, sottovalutando prove evidenti in loro possesso, hanno potuto affermare che una donna capace, in possesso di grandi valori, orgogliosa della sua carriera e delle sue due splendide bambine, abbia pensato, anche lontanamente , di togliersi la vita. Io so che non lo avrebbe mai fatto, così come lo sanno tutti quelli che l’hanno conosciuta” Arriverà la verità signora Olimpia. Carla Santoro
Giallo Esposito, Amendolara: Suicidio poliziotta non convince. Pubblicato il 3 maggio 2014 da Mary Senatore. “ll segreto di Anna”. E’ un’inchiesta giornalistica su un suicidio sospetto, quello del commissario di polizia Anna Esposito, cavese 35enne, morta a Potenza nel 2001. L’autore è un giornalista lucano de La Gazzetta del Mezzogiorno. Si chiama Fabio Amendolara, ha la stessa età del commissario Anna Esposito e, coincidenza, è arrivato a Potenza il 12 marzo del 2002. “Esattamente un anno prima, il 12 marzo del 2001, Anna moriva in circostanze mai chiarite”, spiega l’autore dell’inchiesta giornalistica. La storia è questa: Anna ha 35 anni e dirige l’ufficio della Digos nella città in cui è scomparsa Elisa Claps. Contatta il fratello della ragazza e gli chiede un appuntamento, ma pochi giorni dopo viene trovata nel suo alloggio senza vita. “Impiccamento atipico”, lo definiscono i medici. Prima ancora che l’indagine giudiziaria venga chiusa, la polizia di Potenza sentenzia: “È suicidio”. In fondo tutti gli elementi sembrano esserci: Anna usciva da una turbolenta storia d’amore e circolavano voci di un precedente tentativo di togliersi la vita. Eppure già poco dopo la morte della poliziotta cominciano a circolare voci secondo cui sarebbe stata uccisa. Questa indagine giornalistica scova discrepanze nei rapporti giudiziari della polizia e mette in evidenza le falle investigative. Indizi tralasciati, reperti non analizzati, impronte mai comparate, testimonianze parziali e mezze ammissioni rendono il caso molto ingarbugliato. Sullo sfondo ci sono le coincidenze che collegano la morte del commissario all’omicidio della giovane Elisa Claps. E’ un libro di giornalismo investigativo all’americana, che ha suscitato interesse nella stampa nazionale: il settimane Oggi ha dedicato due pagine alle scoperte di Amendolara (di recente il giornalista è stato a Istanbul, dove ha partecipato a un Simposio internazionale di giuristi sulle leggi di genere a protezione delle donne). E poi “aperture” di pagina sui grandi quotidiani nazionali. Amendolara non crede al suicidio: “Mi sono accorto subito che le testimonianze non combaciavano e che c’erano aspetti da approfondire”. Lo hanno capito anche gli investigatori, che un anno fa – dopo i primi articoli pubblicati da Amendolara sulla Gazzetta del Mezzogiorno – hanno ripreso a indagare. Ora l’ipotesi non è più suicidio ma omicidio volontario.
· Il mostro di Modena.
Quegli otto femminicidi insoluti: si indaga sul «mostro di Modena» Giovanna, Anna e le altre. Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. A Giovanna spaccarono la testa con una pietra. Annamaria fu uccisa con dodici stilettate al cuore. Filomena morì pugnalata cinque volte. Monica venne soffocata sino a spaccarle l’osso del collo. Donatella fu accoltellata a carotide e cuore. Marina, strozzata con il foulard che indossava. Stessa sorte per Claudia che lottò vanamente con l’aggressore. Fabiana, anche lei strangolata. Antonietta morì in un incendio, ma si scoprì che prima le avevano messo una calza in testa e poi si accertò che le fiamme erano dolose. Femminicidi rimasti senza un colpevole. Però qualche giorno fa la procura di Modena ha deciso di riaprire le indagini sul cosiddetto «mostro di Modena»: ovvero il caso delle otto prostitute uccise tra il 1985 ed il 1995 nella provincia emiliana senza che mai fosse stato individuato un responsabile. Recentemente la vicenda del killer seriale è stata al centro di un docufilm firmato dal regista Gabriele Veronesi che ha ripercorso l’intera indagine sulle «lucciole» ammazzate (l’ultima è la 32enne Monica Abate, nel 1995, morta soffocata). Anche questo videoreportage avrebbe contribuito a portare il procuratore capo di Modena Paolo Giovagnoli alla decisione della nuova inchiesta. Il magistrato ha già chiesto alla Squadra mobile e ai carabinieri di mettere a disposizione gli atti di tutte le inchieste al pubblico ministero Giuseppe Amara. L’intenzione della procura è quella di ripercorrere uno a uno ciascun omicidio per cercare possibili lacune nelle indagini svolte tra il 1985 ed il 1995. I documenti relativi al presunto mostro, digitalizzati, sono stati così accorpati in un unico fascicolo. Con le nuove possibilità di investigazione scientifica — tra cui l’esame del Dna che almeno per i casi iniziali ancora non esisteva — elementi utili all’inchiesta, forse uno stesso filo conduttore, potrebbero emergere. Un primo incontro operativo tra procuratore, carabinieri e polizia si è tenuto nei giorni scorsi. È stato stilato un elenco di reperti da analizzare, tutti ancora in custodia all’Ufficio corpi di reato del tribunale. Ad esempio ci sono i residui di pelle trovati sotto le unghie di Monica Abate che lottò disperatamente prima di essere strozzata il 3 gennaio 1995 nella sua casa in Rua Freda, in centro a Modena. L’assassino le premette la mano sulla bocca fino a soffocarla, causandole la frattura dell’osso ioide. E ancora: la pietra trovata il 21 agosto 1985 accanto a Giovanna Marchetti nella fornace di Baggiovara. Oppure il caso di Donatella Guerra accoltellata in una cava dei laghetti di San Damaso dove venne trovata priva di vita il 12 settembre 1987. Elementi utili potrebbero arrivare da nuovi accertamenti sull’impronta di una scarpa e di un copertone, quello di una Fiat 131. Un reperto è il foulard giallo di Marina Balboni, trovato vicino al suo corpo. gettato in un fossato, il 1° novembre ’87 a Gargallo: potrebbe contenere tracce biologiche dello strangolatore? Interrogativi a cui presto risponderanno le nuove indagini.
· Il mostro di Udine.
Il mostro di Udine, 30 anni fa l’ultimo omicidio del serial killer «dimenticato». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Angela Geraci su Corriere.it. Ha lasciato dietro di sé i corpi straziati di almeno 14 donne, abbandonate come rifiuti in stradine di campagna. Tutte strangolate o sgozzate, tutte fragili e sole. Ha colpito lungo un arco temporale di 18 anni, dal 1971 al 1989, sempre intorno a Udine e sempre di notte. Ma di lui per molto tempo non si è parlato e, lentamente, è diventato un’ombra inafferrabile. Negli anni c’è stato anche un sospetto a un passo dall’essere incastrato ma alla fine del «mostro di Udine» è rimasta traccia solo negli archivi polverosi dei tribunali e dei giornali. Un serial killer «dimenticato», rimasto sempre ai margini rispetto ai grandi casi di cronaca. Forse proprio perché ai margini della società vivevano le sue vittime. Si trattava di donne vulnerabili ed emarginate che, a parte una, si prostituivano e avevano problemi di alcol o droga. Almeno nove di questi delitti presentano delle similitudini importanti, sono quelli di: Irene Belletti (assassinata il 21 settembre 1971); Maria Luisa Bernardo (uccisa il 21 settembre 1976); Jaqueline Brechbuhler (morta il 29 settembre 1979); Maria Carla Bellone (uccisa il 16 febbraio 1980); Luana Giamporcaro (ammazzata il 24 gennaio 1983); Maria Bucovaz (assassinata il 22 maggio 1984); Stojanna Joksimovic (29 dicembre 1984); Aurelia Januschewitz (3 marzo 1985); Marina Lepre (26 febbraio 1989). «Tutte persone che non potevano lasciare tracce - racconta l’ex carabiniere Edi Sanson che lavorò ad alcuni di questi casi - Erano donne che si muovevano nella notte, senza appuntamenti presi in precedenza: era difficilissimo anche solo ricostruire le loro ultime ore». «Tra l’altro in quegli anni non c’erano telecamere - ragiona l’investigatore - né intercettazioni o celle telefoniche: nelle indagini abbiamo fatto il massimo di quello che potevamo fare con i mezzi di allora». Oggi Sanson, andato in pensione e diventato esperto in crimine, è uno dei protagonisti della serie tv «Il Mostro di Udine» - in onda per quattro puntate da mercoledì 22 maggio alle 22.00 sul canale Crime+Investigation (Sky, 119) - che prova a dare un’identità al serial killer puntando alla riapertura del caso. Durante le riprese, infatti, l’avvocata penalista Federica Tosel ha trovato dei reperti finora non analizzati.
· Antonino Sciacca. Uno sparo nella notte.
Uno sparo nella notte, il killer in fuga. I sogni spezzati di Tonino, il benzinaio. Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Suo padre Carmelo a Roma, negli anni ‘50, ci era venuto per farli vivere meglio, i figlioli, non da miserabili, come in Sicilia, che a fine giornata se andava di lusso ci scappava una minestra di fave, altrimenti pane nero e carrube. Gliene aveva regalati cinque, sua moglie, e crescerli a Torre Angela, una di quelle borgate oltre il raccordo dove a volersi bene e a sapersi accontentare si rischia pure di essere felici, gli aveva dato duluri e suddisfazzioni. Le sue pene da capofamiglia, baffoni folti e spalle larghe da manovale, erano i picciuli che non bastavano mai e Luisetta, mischinedda, l’unica femmina che era nata già malata. Ma il giorno che Tonino, il terzo, s’era presentato sotto casa, in largo Prinzivalli, al volante della «Delta integrale» comprata usata, s’era sentito orgoglioso e gli erano venuti pure i lucciconi. A poco più di 20 anni, dopo aver lasciato la scuola in seconda media e lavorato da abusivo ai self service e agli autolavaggi di mezza Roma, il suo sogno l’aveva realizzato: un posto fisso da benzinaio, con i contributi pagati, la malattia e tutto il resto, compresa la tuta col marchio della «Esso», mica una compagnia da quattro soldi... Così, col suo stipendio, Tonino riusciva anche a sostenere la famiglia, visto che lui, invalido all’80 per cento, prendeva solo 800 mila lire di pensione. E un domani, chissà, quel ragazzetto tanto in gamba si sarebbe pure sposato con Tamara, la fidanzatina dal sorriso dolce e i capelli a caschetto...Tutto finito. Sogni spezzati alla vigilia del Natale 1997. «Omicidio a Cinecittà, la vittima è un giovane benzinaio...» La notizia fu diffusa dalla Questura all’alba, in tempo per i primi radiogiornali: Antonino Sciacca, 22 anni, nato a Roma da genitori emigrati, era stato ucciso con una revolverata al cuore mentre svolgeva servizio notturno al distributore «Esso» di via Tuscolana 1530, di fronte agli studios cinematografici. La pallottola era entrata sotto l’ascella. Una ferita lacero-contusa alla testa faceva pensare a un ulteriore colpo sferrato con un crick, o con il calcio della pistola. Di certo Tonino li conosceva, gli assassini: altrimenti non sarebbe uscito dal gabbiotto blindato, adibito a cassa h24. E non avrebbe sussurrato, un attimo prima di morire, come riferito dal personale dell’ambulanza, «sono stati due zingari di Centocelle». Giallo intricato, insomma. «Forza, accelera, sennò i testimoni se ne vanno...» Quel 24 dicembre le prime pagine davano notizia della rivolta al quartiere Aurelio per la concessione degli arresti domiciliari a Erich Priebke. Il cielo era terso, il sole quasi accecante. Sul posto arrivammo a metà mattinata: autista, fotografo, giovane cronista... Scena commovente: un collega di Tonino stava posando un mazzo di fiori sul registratore di cassa, mentre la polizia svolgeva i rilievi accanto alla colonnina della Super, dove l’asfalto era macchiato di rosso. Tonino Sciacca, ucciso a 22 anni durante il turno di notte, con la fidanzata, TamaraLe indagini presero subito una direzione: in poche ore furono setacciati tutti i campi nomadi del quadrante est. E negli stessi minuti Nicolò D’Angelo, l’allora capo della Squadra Mobile rientrato precipitosamente in Questura, si arrovellava a caccia di un movente. Saltò fuori uno spunto interessante: l’amatissima «Delta integrale», a Tonino, gliel’avevano rubata poco tempo prima. Non è che, per tentare di recuperarla, aveva pestato qualche callo in ambienti di malavita? Altra pista: il ragazzo, dal suo posto di lavoro, aveva forse assistito a traffici compromettenti? Uno scambio di refurtiva, di droga? Congetture che, a caldo, sembrarono concretizzarsi: la polizia in serata fermò infatti due nomadi che confessarono di aver rapinato 300 mila lire proprio alla «Esso», un mese prima, quand’era di turno Tonino. Ma la cosa finì lì. Per la notte del delitto i due balordi avevano un alibi robusto, incrollabile...«Possiamo entrare?» Quel pomeriggio passammo anche a largo Prinzivalli 8. Una palazzina gialla tutta scrostata. Ingresso, tre camere e cucina al pian terreno. Clima da tregenda. Urla, pianti, svenimenti. In corridoio si faticava a passare: mezza borgata stava portando le condoglianze. «Figghiu meu, che t’hanno fatto?» gridava mamma Giovanna, baciando le foto di lui e Tamara. «L’affitto si mancia la pensione, la tv ce l’hanno confiscata, mia figlia è handicappata, ma chilli fetusi del Comune la casa popolare non ce la danno, dicono che non abbiamo punteggio», elencava disperato il capofamiglia. Da una stanza uscì un medico con i sali. «Patri, ci mancano i soldi per il funerale!» esclamò Gaspare, uno dei fratelli rimasti, appena rientrato dall’obitorio. Qualcuno pregava, altri imprecavano tenendo i pugni serrati. Pensai alla casa del nespolo durante il lutto per compare Bastianazzo, inghiottito dal mare con tutta la barca, la «Provvidenza». Nella fantasia di Verga la scena non doveva essere stata molto diversa. Solo che il figlio di padron ‘Ntoni trafficava in lupini, non in carburante...La casa dove abitò la famiglia Sciacca, a Torre AngelaPost scriptum. L’altra mattina ci sono tornato, a largo Prinzivalli. Una signora portava a spasso un cane bianco, cieco da un occhio. «Poveracci, una disgrazia dopo l’altra. Nel frattempo è morto anche Mimmo, un altro figlio, di tumore». Abitano ancora qui? «No, hanno avuto la casa popolare sulla Tiburtina». Bella notizia, quando: subito dopo la tragedia? «Macché, sarà stato tre anni fa...» Già, i tempi eterni di Roma. Altri 3 o 4 lustri d’attesa e il problema si risolveva in altro modo.
· Il giallo di Willy Branchi ucciso nel 1988.
Omicidio Willy Branchi: la lettera anonima e la scritta "assassino" su una lapide. Le Iene il 22 novembre 2019. Nuovi misteri attorno all’omicidio di Willy Branchi, di cui ci siamo occupati con più servizi e uno speciale. Una lettera anonima accende nuovi interrogativi sulla morte del ragazzo ucciso 30 anni fa a Goro nel Ferrarese. I suoi abiti mai ritrovati, sostiene il mittente, sarebbero nascosti in una tomba. In quello stesso cimitero intanto è comparsa per qualche ora la scritta “assassino” sulla lapide di uno dei presunti omicidi. “Assassino”. È la scritta comparsa per qualche ora su una lapide del cimitero di Goro, il paese in provincia di Ferrara dove è stato ucciso Willy Branchi. Non abbiamo la certezza che sia riconducibile all’omicidio del ragazzo avvenuto la notte del 30 settembre 1988, ma lì riposano i resti di un uomo che alcuni considerano uno dei suoi possibili assassini. Noi de Le Iene abbiamo raccontato la sua storia e i segreti inconfessabili del paese in cui viveva Willy nello Speciale di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli che vi riproponiamo qui sopra. Dopo la nostra replica dello scorso agosto, il giornalista de Il Resto del Carlino Nicola Bianchi, che ha collaborato con noi per ricostruire questa vicenda, ha ricevuto una lettera anonima. “Qualche giorno dopo la morte di Willy, morì una signora i vestiti mai trovati del ragazzo vennero sepolti nella bara di questa donna. Questo è quello che posso dire”, scrive a mano in tredici righe su un foglio bianco un residente di Goro. La lettera anonima firmata con “un amico” è stata lasciata nella casella della posta di Bianchi. Da quel ritrovamento avvenuto a poche ore dalla messa in onda del nostro Speciale sono passati quasi tre mesi. Il tempo necessario per fare tutti gli accertamenti del caso e mettere la missiva agli atti della Procura che ora sta lavorando per risalire all’autore. La donna deceduta “dovrebbe avere avuto un grado di parentela” con persone finite al centro dell’inchiesta sull’omicidio (ma mai indagate), scrive l’anonimo nella lettera. Non sarebbero però seguiti accertamenti nella bara della defunta. Ma nel cimitero di Goro è avvenuto appunto un altro fatto tutto da chiarire. Qualcuno ha scritto su una lapide la scritta: “assassino”. Qualche ora prima di essere ucciso Willy si sarebbe trovato all’interno di un bar del paese. In quest’occasione sarebbe stato infastidito da un anziano che girava in bicicletta fuori dal locale, lo stesso indicato dai protagonisti di questa storia come il suo presunto omicida. Sulla sua lapide è stata trovata la macabra scritta. Al momento sono due i nomi iscritti nel registro degli indagati per omicidio volontario. Si tratta di due fratelli residenti a Goro, come ci ha rivelato Luca Branchi, il fratello di Willy. A breve saranno ascoltati con una serie di vecchi e nuovi testimoni. Intanto è stato chiuso il fascicolo per calunnia che vede indagato don Tiziano Bruscagin. Il parroco sarebbe un personaggio chiave nella ricerca della verità: nel 2014 ha rotto il muro di omertà parlando proprio con il giornalista Nicola Bianchi. “Lì parlavano che anche i figli avrebbero collaborato con il padre per l’occultamento del cadavere”, dice il don. “Il padre perché l’avrebbe ucciso?”, chiede il giornalista. “Willy era l’amante occasionale, un passatempo…”, conclude il prete. Non solo, il parroco indica anche un’altra figura, quella del sarto del paese, Rodrigo Turolla, che, secondo quanto dice il prete, saprebbe chi è l’autore dell’omicidio. Antonino Monteleone è andato a parlare anche con il sarto. “Quella sera lì io ero a giocare a poker, sono venuto via all’una di notte. Il fatto è successo dopo. Era tutto scuro. In due o tre là al buio intanto che lui veniva a portare la bicicletta lì lo hanno preso e dopo l’hanno ucciso”, dice il sarto. Una descrizione che non sembra affatto vaga. Ma il sarto aggiunge subito: “Me l’hanno detto i vicini che hanno sentito. Ma non parlano”. Il parroco e il sarto sono due personaggi chiave in questa vicenda. Negli uffici della Procura sono stati intercettati mentre parlavano proprio della morte di Willy: “È una questione di droga, per me. Perché dicevano che quel ragazzo lì, essendo non normale, ci davano le bustine da dare in giro. E poi è successo quello che è successo. Quella mattina lì è venuto in casa, subito subito dopo che è morto”, dice Turolla. “Chi?”, chiede il don. “Non faccio il nome. E poi è morto”, risponde il sarto. “È venuto in casa e mi ha detto: ‘Guarda che a lui gli davano il compito di spacciare le bustine’”. Secondo quest’altra ipotesi, Willy sarebbe stato ucciso per un regolamento di conti tra due bande avverse di spacciatori della zona. Le indagini oggi si stanno concentrando anche sulla pista dell’omicidio passionale e in particolare quella dei festini gay a cui avrebbero partecipato anche minorenni. Willy sarebbe stato ucciso per aver detto una frase di troppo: “Ora dico tutto a mio fratello”.
Omicidio Willy Branchi: 2 fratelli indagati? Le Iene il 24 agosto 2019. Nuova svolta nell’omicidio di Willy Branchi a Goro, nel Ferrarese, il 30 settembre 1988. Dopo oltre 30 anni, ci sarebbero due fratelli indagati per omicidio. Con Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli abbiamo ricostruito il brutale assassinio di un ragazzo con deficit mentali e i molti segreti che lo circondano, a partire da un giro di festini gay con minorenni nello Speciale Le Iene andato in onda in replica lunedì 26 agosto su Italia1. Ci sarebbero anche due fratelli di Goro tra gli indagati per l’omicidio di Willy Branchi. A sostenerlo è il quotidiano Il Resto del Carlino. Il 30 settembre 1988, il ragazzo con qualche problema mentale, viene trovato barbaramente ucciso appena 18enne nel paesino in provincia di Ferrara. Dopo 30 anni di bugie e omertà in cui i segreti inconfessabili del paese si sono intrecciati alla storia dei festini gay di pochi in cui venivano pagati ragazzi anche minorenni in cui sarebbe stato coinvolto Willy. GLI INDAGATI. Alle sei persone che negli ultimi mesi sono finite indagate per false informazioni, in queste settimane estive si sarebbero aggiunti due fratelli di Goro. I due nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati, i primi con l’accusa di omicidio, dopo che gli inquirenti hanno incrociato testimonianze di oggi e di allora. Tra i sei indagati precedenti, uomini e donne che avrebbero potuto dare dettagli utili alla risoluzione del caso ma che avrebbero preferito tacere, c’è Carlo Selvatico, un abitante del posto: era stato proprio lui a gettare un’ombra sulla vita parallela e nascosta di un borgo apparentemente tranquillo. Patrizio Mantovani, anche lui di Goro, negherebbe una circostanza fondamentale: Willy era intimorito da un uomo poche ore prima di morire. C’è anche un noto medico di Ferrara, Pierluigi Bordoni, assieme al parroco del paese don Tiziano Bruscagin e a Rodrigo Turolla, il sarto, e sua moglie.
LA TESTIMONIANZA CLAMOROSA. Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli partono dal ruolo chiave avuto per le indagini dal parroco di Goro don Tiziano Bruscagin. Il sacerdote infatti, al telefono con il giornalista del Resto del Carlino Nicola Bianchi, si lascia andare a rivelazioni clamorose: “So chi ha ammazzato Willy”. Per ricostruire quella notte di 30 anni fa vi mostriamo un’intercettazione ambientale registrata negli uffici della Procura di Ferrara dove il parroco viene convocato con il sarto, Rodrigo Turolla. Il sarto ha una sua teoria: Willy sarebbe stato il galoppino di un grosso spacciatore della zona. Si aprono quindi due scenari: sesso o di droga?
IL NOME DELL’ASSASSINO. Il cerchio inizia a stringersi attorno a una persona ben precisa. Chi potrebbe essere l’uomo in grado di commettere un omicidio così violento, magari con l’aiuto di altri? Quanti e quali sono gli indizi che accendono i riflettori su di lui? Il suo nome sarebbe stato contenuto in una lettera e proprio quell'uomo avrebbe importunato il ragazzo qualche ora prima di essere ritrovato barbaramente ucciso (Patrizio Mantovani avrebbe assistito a questa scena, ma nega tutto). I sospetti sono su un uomo sposato, con figli, ma con una vita parallela fatta di relazioni omosessuali neanche troppo nascoste.
IL TESTIMONE ESCLUSIVO. Abbiamo raccolto una testimonianza che mette al centro della vicenda di nuovo il parroco. “Il fratello di Willy deve ringraziare il don. La madre di Willy deve ringraziare il don”: a parlare è un personaggio importante in questa vicenda, che ha seguito parte delle indagini svolte dai carabinieri di Ferrara nel 1996. “Non hai idea di cos’era Goro in quegli anni lì. Erano un branco di maiali, di puttane”. Il parroco, racconta la fonte, nel 1996 inizia a collaborare con i carabinieri di Ferrara come fonte anonima. “Vado dal mio amico del nucleo operativo di Ferrara, dico: "ti porto io a Goro", allora viene su con me, vado dal don. Gli dico: facciamo una cosa, lui ti dice i nomi, tu non dici nomi perché sei legato al segreto confessionale, accenni sì e accenni no. Lui accennava, non ha detto mai sì o no a voce alta ma ci ha fatto capire bene le cose”, dice la fonte.
L’ULTIMA NOTTE DI WILLY. Quella terribile notte sarebbe iniziata in via Buozzi, proseguita in via Cervi e terminata lungo l’argine, sotto il cartello di Goro. Su via Buozzi si affaccia la casa del sarto Turolla che avrebbe visto o sentito qualcosa. Willy viene pestato a sangue e poi “caricato” come riferisce in un’intercettazione. “Lo devono aver portato in via Cervi”, aggiunge la nostra fonte. “Qui c’era un magazzino di rifugio per animali, risultava che ci fossero anche anelli dove ci attaccavano le bestie”. Il corpo di Willy, poi, sarebbe stato abbandonato sotto il cartello del paese solo per scappare il più veloce.
Il giallo di Willy Branchi ucciso nel 1988: ora il prete è accusato anche di calunnia. Pubblicato lunedì, 22 aprile 2019 da Corriere.it. Accusò una famiglia intera dell’omicidio — un «giallo» rimasto insoluto per trent’anni — del diciottenne Willy Branchi, trovato morto il 30 settembre 1988 lungo l’argine del Po a Goro, nel Ferrarese. Ora però si scopre che il parroco Tiziano Bruscagin, 77 anni, si sarebbe inventato tutto. E per questo è indagato per calunnia. Così il delitto — che sconvolse l’Emilia e avvenne su uno sfondo di omertà, reticenze e depistaggi — resta per ora senza soluzione. Questo nonostante il reverendo (oggi prete nel Padovano dopo esserlo stato per trent’anni nel piccolo borgo del Polesine di cui conosceva ogni segreto) lo scorso 10 ottobre, davanti al pm di Ferrara Andrea Maggioni che lo interrogava, fosse stato nettissimo. Bruscagin fece nomi e cognomi, quelli del macellaio di Goro oggi deceduto e dei due figli indicati quali parti lese dalla Procura che ha riaperto il caso. Un’indagine ripartita dopo le insistenze dei familiari del ragazzo ucciso e la pubblicazione di un libro-inchiesta scritto da Nicola Bianchi, giornalista del Resto del Carlino, che per primo pubblicò i nomi fatti da Bruscagin, registrato a sua insaputa durante un colloquio. Willy (che aveva dei deficit cognitivi) venne ritrovato nudo sul greto del fiume, lo avevano picchiato senza pietà e per finirlo gli spararono alla testa con una pistola da macello. Ammazzato perché, fu l’ipotesi giudiziaria mai provata, si oppose a una violenza sessuale. Forse l’ennesima di un giro di pedofilia che lo vedeva vittima. «La sera dell’omicidio — è il racconto a verbale del prete — Willy avrebbe raggiunto in bici il garage del macellaio». Qui avrebbe rifiutato un approccio da parte dell’uomo e per questo sarebbe stato ucciso. «Si diceva che per il trasporto del cadavere si fosse fatto aiutare dai figli» proseguì il reverendo — interrogato quattro volte dal 2015 e anche indagato per falso — che sostenne di aver ricevuto «le informazioni da una serie indistinta di persone». «Voci di popolo», ma niente altro. Tanto che il sospetto della Procura è che il «don» si sia inventato tutto per un depistaggio. E così è stato indagato. «Ora basta con queste accuse inesistenti» sbotta Dario Bolognesi, l’avvocato dei familiari del macellaio che si sono «sottoposti volontariamente al test del Dna perché non hanno nulla da nascondere. Il prosieguo dell’indagine lo dimostrerà». Nei faldoni dell’inchiesta Bruscagin compare, intercettato, mentre zittisce un testimone invitandolo a non parlare per telefono. E poi frasi di questo tenore: «Io so da sempre...». Nei rapporti delle forze dell’ordine c’è scritto anche che nel 1996 un informatore rivelò come Willy, coinvolto «in convegni carnali», volesse ribellarsi, confidarsi. La fonte parlò di «molte persone a conoscenza della verità», ma che «tacciono per paura e omertà». Fece i nomi, otto (tra cui una donna), di coloro che «avevano assistito all’omicidio o sapevano». Fatto sta che trent’anni dopo la morte di Willy resta un mistero.
Willy Branchi, il fratello: “C'è un indagato per omicidio”. Domenica lo Speciale Le Iene. Le Iene il 17 maggio 2019. Luca Branchi, con un post su Facebook dà la notizia che potrebbe significare una vera svolta nella ricerca dei colpevoli della morte del giovane Willy Branchi, trovato morto a 18 anni il 30 settembre 1988. Domenica 19 maggio vi racconteremo tutti i dettagli nello Speciale de Le Iene di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli sul caso ancora avvolto nel mistero. "Ho fatto bene a continuare a credere e sperare. Oggi è una giornata che in parte mi ripaga delle sofferenze e dei dolori che in questi anni io e la mia famiglia abbiamo passato”. Dalle parole di Luca, il fratello di Willy Branchi, emerge tutto il dolore sopportato negli ultimi 30 anni e tutta la soddisfazione nel vedere finalmente uno spiraglio verso la verità sulla morte di suo fratello, mentre con un post su Facebook, appena pubblicato, dà la notizia che aspettava da tanto. “La Procura ha indagato una o più persone per omicidio. Sì, avete capito bene: per l’omicidio di mio fratello”. Willy Branchi è stato trovato morto il 30 settembre 1988 lungo l'argine del Po a Goro, nel Ferrarese. Una morte per cui un nome non è ancora stato scritto nero su bianco. Domenica 19 maggio dalle 21.10 su Italia1 andrà in onda lo Speciale Le Iene in vi racconteremo tutta la storia e tutti i dettagli di questa possibile svolta aggiungendo nuove clamorose testimonianze. Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli nei mesi scorsi hanno ricostruito quanto successo oltre trent’anni fa ascoltando testimoni esclusivi, alcuni dei quali mai sentiti prima dagli inquirenti, come potete vedere dai servizi e articoli che vi riproponiamo qui sotto. Dopo i primi due servizi de Le Iene la Procura ha disposto nuove analisi sulle tracce biologiche del corpo di Willy e almeno 7 abitanti di Goro sono stati convocati per accertamenti, tamponi salivari e impronte digitali. Non solo: sei persone sono indagate per false informazioni al pubblico ministero. “Dopo 30 anni e 8 mesi, dopo tanto dolore, dopo tante bugie, prese per i fondelli, la notizia che è arrivata in queste ultime ore potrebbe davvero essere la svolta decisiva per arrivare a quei bastardi che hanno ridotto in quel modo Willy”, continua Luca. “A me interessa solo una cosa: sapere chi ha ucciso mio fratello. Willy che male aveva fatto per meritarsi una fine così orribile? Spiegatemelo”. In un primo momento, le indagini sulla morte di Willy Branchi si erano dirette verso un pluripregiudicato della zona, Valeriano Forzati. Due anni dopo la morte del ragazzo, però, il giudice dichiara di non doversi procedere contro Forzati per non aver commesso il fatto. Così, sulla vicenda cala il silenzio fino al 2013, quando il fratello di Willy lancia un appello per fare luce sul caso: in tanti saprebbero, ma nessuno vuole parlare. Nel 2014 l’inchiesta sull’omicidio del ragazzo viene riaperta, dopo che il prete del paese, Tiziano Bruscagin, fa importanti dichiarazioni al giornalista Nicola Bianchi. Si apre così una nuova pista verso l’autore dell’omicidio. Don Tiziano gli confida infatti il nome del presunto assassino, che nei giorni successivi all’omicidio sarebbe finito in cura psichiatrica. “Avrebbe ucciso perché Willy era il suo amante occasionale”, confida don Tiziano Bruscagin al giornalista del Resto del Carlino. “Il ragazzo nella sua ingenuità ha detto "ora lo dico a mio fratello"”. Sono state proprio queste dichiarazioni a rendere possibile la riapertura delle indagini da parte della Procura di Ferrara. Ma a quel punto il don ritira tutto. Nella nostra inchiesta, Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli seguono una pista di omertà, bugie e indizi: quella dei festini gay a sfondo sessuale. Secondo questa ipotesi, Willy, ancora minorenne, sarebbe stato sfruttato, anche come amante occasionale dell’uomo indicato dal prete. La stessa persona emerge dalle parole di una donna che abbiamo incontrato e che riferisce importanti dettagli sulle ore precedenti l’omicidio. Sono circa le 18 del 29 settembre 1988. Willy, secondo quanto riporta la donna, si troverebbe con lei in un bar. Insieme a loro ci sarebbe anche Patrizio Mantovani, finito negli ultimi mesi tra gli indagati con l’accusa di false dichiarazioni davanti al pm. La sua versione cozzerebbe proprio con quella di questa donna, che racconta che Willy in quell’occasione sarebbe arrossito dopo aver visto fuori dal bar un uomo in bicicletta che guardava con insistenza all’interno del locale cercando proprio lo sguardo del ragazzo. Willy avrebbe fatto il gesto di nascondersi dietro al bancone e, sempre secondo la versione della donna, Mantovani avrebbe detto: “Guarda che ti sta cercando quest’uomo, lo sai che cosa vuole da te”. Il ragazzo, a questo punto, avrebbe risposto in maniera molto infastidita che non voleva niente dall’uomo in bicicletta e che se quell’uomo si fosse azzardato a fargli del male lo avrebbe detto a suo fratello. L’uomo che la testimone avrebbe visto girare in bici fuori da quel bar è lo stesso al quale fa riferimento don Tiziano Bruscagin nella conversazione con il giornalista Nicola Bianchi. Proprio la frase di Willy "Dico tutto a mio fratello" potrebbe averlo condannato, in un piccolo paese come Goro in cui in molti non volevano far emergere quei rapporti segreti. Un paese in cui ancora oggi si cerca di nascondere la verità sulla morte di un ragazzo di 18 anni, che è stato letteralmente massacrato. Anche il sarto del paese, Rodrigo Turolla, finisce indagato per false dichiarazioni. Con lui Antonino Monteleone ha parlato in uno dei servizi dedicati al caso. “Quella sera lì io ero a giocare a poker, sono venuto a casa all’una di notte”, ha detto subito alla Iena. “Erano in due o tre che l’hanno preso mentre legava la bicicletta e l’hanno ammazzato”. Ci colpisce nelle sue parole la descrizione della scena, troppo ricca di dettagli per uno che dice di non aver visto nulla. Ma subito aggiunge: “Me l’hanno detto i vicini, che non parlano”. E sul suo vicino (il presunto assassino) precisa: “Aveva dei figli, ma era anche omosessuale. Può darsi che prima questo ragazzo, che non era normale, ci andasse insieme”. Il sarto ci porta su un’altra strada: “Non è stata questione di omosessualità, ma di droga. Lui (Willy) la portava. Ma se era tagliata e dopo c’erano delle conseguenze…”. Insomma, secondo questa versione, era al servizio di qualche spacciatore della zona. Poi, l’uomo ci confida il suo timore: “Se poi quelli che lo hanno ammazzato mi incendiano la casa? Lasciamo perdere, meglio starne fuori”. Nell’ultimo servizio di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli dedicato al caso vi abbiamo fatto sentire le intercettazioni esclusive proprio tra il sarto e il parroco, don Tiziano Bruscagin. È il 16 aprile 2015: i due sono convocati in Procura. Qui iniziano a parlare tra loro. “È venuta in casa una parente a dire che quando lui è morto ha trovato una lettera che ha confermato che lui lo ha ucciso. È stato lui”, dice Turolla a don Bruscagin. Così, il cerchio si stringe attorno al presunto assassino. “Ma io non lo dico, non voglio mica immischiarmi”, dice Turolla. E don Bruscagin precisa: “Questo è un segreto”. La svolta nell’omicidio di Willy Branchi potrebbe essere più vicina a 30 anni dal ritrovamento del suo corpo, nudo e con la testa fracassata. E la notizia di più indagati per omicidio ne è una conferma: “Oggi sentire questa notizia mi fa arrabbiare ancora di più”, conclude nel post il fratello di Willy. “Ma dall’altro lato mi apre il cuore di speranza. Dopo le tante falsità dette da un prete e dalle altre persone oggi indagate, ora siamo davvero arrivati alla fase decisiva di questa maledetta storia. E queste persone indagate per omicidio, non conosco nemmeno i loro nomi, dovranno spiegare molte cose. Willy questa giornata è tutta per te, fratello mio”.
Omicidio Willy Branchi, indagato il sarto per false dichiarazioni. Le Iene il 14 febbraio 2019. Il sarto di Goro, in provincia di Ferrara, è indagato per false dichiarazioni nell’omicidio di Willy Branchi. Ad Antonino Monteleone aveva ricostruito la scena del delitto, i possibili moventi, ma gli aveva confidato anche le sue paure. Due nuovi indagati nell’omicidio di Willy Branchi, si tratta del sarto di Goro e di sua moglie. Per loro l’accusa è di false dichiarazioni. Un altro tassello si aggiunge all’omicidio del ragazzo ritrovato morto il 30 settembre 1988 lungo l'argine del Po a Goro nel Ferrarese. Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli nei mesi scorsi hanno ricostruito quanto successo oltre trent’anni fa ascoltando testimoni esclusivi alcuni dei quali mai sentiti prima dagli inquirenti. Proprio il sarto, finito ora indagato per aver rilasciato false dichiarazioni al pm, è stato ascoltato dalla Iena, come potete vedere nel video qui sopra. È don Tiziano Bruscagin, parroco del paese, a indirizzarci in quella sartoria perché il titolare viveva “muro con muro” con il presunto assassino. “Quella sera lì io ero a giocare a poker, sono venuto a casa all’una di notte”, ha detto subito ad Antonino Monteleone. “Erano in due e o tre che l’hanno preso mentre legava la bicicletta e l’hanno ammazzato”. Ci colpisce nelle sue parole la descrizione della scena, troppo ricca di dettagli per uno che dice di non aver visto nulla. Ma subito aggiunge: “Me l’hanno detto i vicini che non parlano”. E sul suo vicino (il presunto assassino) precisa: “Aveva dei figli, ma era anche omosessuale. Può darsi che prima questo ragazzo che non era normale ci andasse insieme”. Il sarto ci porta poi su un’altra strada. “Non è stata questione di omosessualità, ma di droga”. Per lui Willy faceva uso di sostanze stupefacenti? No, la sua verità è un’altra. “Lui la portava. Ma se era tagliata e dopo c’erano delle conseguenze…”. Insomma, era al servizio di qualche spacciatore della zona. L’uomo ci confida il suo timore: “Se poi quelli che lo hanno ammazzato mi incendiano la casa? Lasciamo perdere, meglio starne fuori”. Lui ha una supposizione, ma proprio non la vuole dire per paura di ritorsioni e allora “meglio lasciar perdere tutto”. Oggi però quelle supposizioni dovrà dirle agli inquirenti, già in passato non avrebbe dato risposte o le avrebbe date discordanti rispetto al racconto di sua moglie. Sono ora in tutto sei le persone accusate di aver detto il falso, tra loro c'è anche l'ex parroco del paese, don Tiziano Bruscagin. Ma anche Pierluigi Bordoni e Patrizio Mantovani finiti indagati ai primi di dicembre, pochi giorni dopo la messa in onda dei nostri servizi. La svolta nell’omicidio di Willy Branchi potrebbe essere più vicina a 30 anni dal ritrovamento, nudo e con la testa fracassata. Le nuove indagini erano state ordinate lo scorso anno dal Gip dopo che la famiglia di Branchi, difesa dall'avvocato Simone Bianchi, si era opposta alla richiesta di archiviazione della Procura. Nei due servizi Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli seguono una nuova pista, quella dei festini omosessuali con minorenni. Il prete, Don Tiziano, ha confidato al giornalista Nicola Bianchi il nome del presunto assassino che proprio nei giorni successivi all’omicidio finisce in cura psichiatrica. La testimonianza si aggiunge a quella del medico del paese ai tempi sposato con la sorella del presunto omicida di cui il sarto, ora indagato, pare conoscere davvero tanti dettagli.
Guarda qui sotto i due servizi completi di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli sull’omicidio di Willy Branchi.
Omicidio Willy Branchi, 2 nuovi indagati: li abbiamo incontrati. Le Iene il 6 dicembre 2018. Pierluigi Bordoni e Patrizio Mantovani sono accusati di aver dichiarato il falso davanti al pubblico ministero. Con Antonino Monteleone li avevamo incontrati, per fare luce sull'omicidio del 18enne di Goro. Ci sono due nuovi indagati nell’inchiesta sull’omicidio di Willy Branchi, di cui ci siamo occupati nei due servizi dell'inchiesta di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli, che vi riproponiamo entrambi in fondo a questo articolo. Mentre sono passati trent’anni dalla morte 18enne con un lieve ritardo mentale, il cui cadavere, massacrato, è stato trovato il 30 settembre del 1988 a Goro (Ferrara). Ma un nome non è ancora stato scritto nero su bianco. Nel 2014 l’inchiesta sull’omicidio del ragazzo è stata riaperta, dopo che il prete del paese, Tiziano Bruscagin, ha fatto importanti dichiarazioni al giornalista Nicola Bianchi, aprendo una nuova pista sull’autore dell’omicidio. Don Tiziano gli confida infatti il nome del presunto assassino che nei giorni successivi all’omicidio sarebbe finito in cura psichiatrica. Ed è in parte proprio attorno a questo ricovero che si è ampliata la lista degli indagati. Il medico Pierluigi Bordoni è stato sentito sabato scorso dal pm Andrea Maggioni come persona informata sui fatti finendo però sotto indagine per falso. Infatti, avrebbe riportato davanti al pm dichiarazioni in contrasto con quelle di altri testimoni. Bordoni avrebbe più volte dichiarato agli inquirenti di non ricordarsi del ricovero dell'uomo indicato dal don come l'assassino. Antonino Monteleone, nel servizio del 20 novembre è andato a parlare proprio con questo medico, indicato da alcuni testimoni come colui che aveva preso in cura, dopo la morte di Willy, la persona indicata da don Tiziano come l’assassino. “Io non ho niente da dire, niente a nessuno”, ha detto prima ancora che la Iena potesse fargli qualche domanda. Gli abbiamo chiesto conferma del fatto che dal 1989 al 1990 ebbe in cura quell’uomo. Ma a questo punto ci ha sbattuto la porta in faccia. Siamo andati da una sua parente acquisita e parente dell’uomo che don Tiziano indica come l’assassino (ha sposto uno dei suoi figli). La donna, all’informazione sul ricovero dell’uomo aggiunge un dettaglio: suo suocero “stava in cura al Parco dei Tigli a Padova”. Con la stessa accusa, di false dichiarazioni davanti al pm, c’è anche un secondo nuovo indagato: Patrizio Mantovani, incontrato anche lui dalla nostra Iena. La sua versione cozzerebbe con quella di una donna che riferisce importanti dettagli sulle ore precedenti l’omicidio. Sono circa le 18 del 29 settembre 1988. Willy, secondo quanto riporta la donna, si troverebbe con lei in un bar e insieme a loro ci sarebbe proprio Patrizio Mantovani. La signora racconta che Willy sarebbe arrossito dopo aver visto fuori dal bar un uomo in bicicletta che guardava con insistenza all’interno del locale cercando proprio lo sguardo del ragazzo. Willy avrebbe fatto il gesto di nascondersi dietro al bancone e Mantovani avrebbe detto: “Guarda che ti sta cercando quest’uomo, lo sai che cosa vuole da te”. Il ragazzo, a questo punto, avrebbe reagito rispondendo in maniera molto infastidita che non voleva niente dall’uomo in bicicletta e che se quell’uomo si fosse azzardato a fargli del male lo avrebbe detto a suo fratello. È così che il cerchio comincia a stringersi attorno a una persona ben precisa. Infatti, l’uomo che la testimone avrebbe visto girare in bici fuori da quel bar è lo stesso al quale fa riferimento don Tiziano Bruscagin. Mantovani avrebbe però ribadito più volte, l’ultima ieri agli inquirenti, di non ricordare questo episodio. Antonino Monteleone lo ha incontrato, chiedendogli proprio se ricordasse la scena del bar. “No, non è che non me la ricordo: non c’ero”, risponde alla Iena. E quando gli chiediamo perché la donna avrebbe dovuto dire il contrario, risponde: “C’avrà qualcosa contro di me”. Quella scena, ribadisce, lui non l’avrebbe proprio vista. Tutto il contrario di quello che racconta la testimone, che conferma a Monteleone di essere sicura. “Lui dirà di no sicuramente perché non gli interessa, cioè non vogliono essere in mezzo a questa situazione. Io ho detto quello che so veramente e quello che ho visto ed è così. Ma io non ho paura di niente. Lui nega, ma c’era con me. È inutile…eravamo di fronte”. La nostra inchiesta segue una nuova pista, quella di festini omosessuali con minorenni in cui cui Willy, ancora minorenne, sarebbe stato sfruttato, anche come amante occasionale dall'uomo che lo cercava in bicicletta e che ha indicato il prete. Proprio la sua frase: "Dico tutto a mio fratello" potrebbe averlo condannato, in un piccolo paese come Goro in cui in molti non volevano far emergere quei rapporti segreti e in cui ancora oggi si cerca di nascondere la verità sulla morte di un ragazzo di 18 anni, che è stato letteralmente massacrato. Per capire come siamo arrivati a questa pista e tutto quello che abbiamo man mano scoperto guardate o riguardate qui sotto i due servizi di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli.
Omicidio Willy Branchi: l'identikit del presunto assassino. Le Iene il 20 novembre 2018. Ecco le rivelazioni clamorose che vi abbiamo annunciato nella seconda puntata dell'inchiesta di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli sull'omicidio di Willy Branchi, 18 anni, qualche lieve ritardo mentale, trucidato trent'anni fa a Goro (Ferrara). Si fa più nitido l’identikit del presunto assassino di Willy Branchi a 30 anni dall’omicidio del ragazzo, 18 anni e con un lieve ritardo mentale, ucciso a Goro (Ferrara). Dopo il primo servizio e la decisione in parallelo della procura di Ferrara di disporre nuove analisi del dna, Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli seguono una nuova pista, quella dei festini omosessuali con minorenni. Il prete, Don Tiziano, ha confidato al giornalista Nicola Bianchi il nome del presunto assassino che proprio nei giorni successivi all’omicidio finisce in cura psichiatrica. La testimonianza si aggiunge a quella del medico del paese ai tempi sposato con la sorella del presunto omicida. Si parla di un uomo sposato, con figli e una vita parallela di rapporti omosessuali. Carlo Selvatico ci parla di un certo Enea, ai tempi minorenne, con il quale aveva avuto una relazione nel 1988. Enea che fa una premessa: “Io sono sposato e non sono gay, ma se si trovava qualcuno che ti faceva un bocchino ci stavo”. Enea abita vicino al presunto assassino indicato dal prete. Antonino Monteleone è andato a parlare anche con uno dei due figli di quest’uomo, che però non vuole commentare. Intanto molta altra gente di Goro prova a resistere nell’omertà sulla morte di Willy.
Willy Branchi: dopo 30 anni l'ombra dei festini omosessuali? Le Iene il 13 novembre 2018. Il 30 settembre 1988 Willy Branchi, 18 anni, con qualche deficit cognitivo, viene trovato cadavere a Goro, nel Ferrarese, completamente nudo. Dopo trent'anni ancora non c'è il nome di un colpevole, noi andiamo a cercarlo. Sono passati oltre trent’anni dalla morte di un ragazzone di 18 anni e due metri, con qualche deficit cognitivo, Willy Branchi, dal quel 30 settembre del 1988 in cui è stato ritrovato morto. Siamo a Goro, in Emilia Romagna, un paesino nella zona della bassa ferrarese. Quel giorno, una donna vede una sagoma nell’argine del Po. È il cadavere di Willy, completamente nudo con la faccia immersa in una pozza di sangue. Aveva un foro sotto a un occhio, il volto era completamente tumefatto, a ucciderlo sono stati oltre 30 colpi dati con il corpo di una pistola usata ai tempi per uccidere i maiali. “Secondo me tanti sanno che cosa sia successo”, dice il fratello Luca. Le indagini puntano su Valeriano Forzati chiamato "Il Colonnello", già implicato per rapine, furti e risse e amico di Felice Maniero, capo e fondatore della Mala del Brenta, la "mafia del Nord". Proprio Forzati sarebbe l’ultima persona che viene vista con Willy in una pizzeria di Goro. Lui si dice innocente, ma tre mesi dopo in un night club da alcuni frequentatori viene additato come responsabile dell’omicidio. Lui per reazione fa una strage. Di lui non si sa più nulla finché non arriva una chiamata dall’Argentina: è Forzati che si fa arrestare, in carcere uccide una guardia e viene poi trovato morto. La sentenza gli dà comunque ragione: innocente. L’8 febbraio 1990 viene assolto. Fino al 2013 cala il silenzio, finché il fratello lancia un appello per fare luce sul caso perché in tanti sanno ma nessuno vuole parlare. Ai giornali arrivano lettere anonime e spuntano nuove testimonianze che aprono nuovi scenari, dietro alla sua morte ci potrebbe essere l’ombra di un giro di festini tra omosessuali. Indagando si scopre che Willy la notte scompariva per un'ora, due ore e poi ricompariva con strani regali e vestiti nuovi. Da quel giro Willy pare che volesse uscire, dicendo tutto al fratello: questo potrebbe essere il movente. Chi partecipava, in molti pare, non poteva permettersi questo: il segreto di quei festini non doveva essere divulgato. Antonino Monteleone incontra difficoltà e resistenze, al limite dell'atteggiamento omertoso, nel cercare di ricostruire la storia, che presenta molte contraddizioni anche nelle testimonianze, in particolare a proposito di un'auto che la notte dell'omicidio girava per il paese. Nome dell'omicida, complici, un testimone (il sarto che, quando lo incontriamo, dice e non dice), circostanze e possibile movente vengono fatti da don Tiziano, che ha battezzato Willy e poi celebrato il suo funerale. Li ha detti anche ai carabinieri, la pista non viene seguita. Oggi il sacerdote però si tira indietro.
Omicidio di Willy Branchi, nuove analisi sul dna 30 anni dopo. Le Iene il 15 novembre 2018. Dell’uccisione di Willy, diciottenne con qualche deficit cognitivo, e dei suoi molti lati oscuri ci siamo occupati martedì scorso con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli, con l’emergere della pista di festini omosessuali. La Procura di Ferrara cerca tracce degli assassini. Poco dopo il nostro servizio sull’omicidio di Willy Branchi, un caso irrisolto da 30 anni, emergono in parallelo nuovi sviluppi nelle indagini. La procura di Ferrara ha disposto infatti nuovi accertamenti medico-legali del dna sulla salma del giovane ucciso a 18 anni, nel 1988, a Goro (Ferrarara). L’obiettivo delle analisi con le tecnologie sempre più affinate è quello di cercare tracce di altre persone. Della morte di Willy vi abbiamo parlato martedì scorso, 13 novembre nel servizio di Antonino Monteleone e Riccardo Spagnoli, che vi riproponiamo qui sopra. Il 30 settembre del 1988 viene trovato morto a Goro, completamente nudo, un ragazzone diciottenne e due metri, con qualche deficit cognitivo: è Willy Branchi. Aveva un foro sotto a un occhio, il volto era completamente tumefatto, a ucciderlo sono stati oltre 30 colpi dati con il corpo di una pistola usata ai tempi per uccidere i maiali. “Secondo me tanti sanno che cosa sia successo”, dice il fratello Luca. Le indagini puntano su Valeriano Forzati chiamato "Il Colonnello", già implicato per rapine, furti e risse e amico di Felice Maniero, capo e fondatore della Mala del Brenta, "la mafia del Nord". Proprio Forzati sarebbe l’ultima persona che viene vista con Willy in una pizzeria di Goro. Lui si dice innocente, ma tre mesi dopo in un night club da alcuni frequentatori viene additato come responsabile dell’omicidio. Lui per reazione fa una strage. Di lui non si sa più nulla finché non arriva una chiamata dall’Argentina: è Forzati che si fa arrestare, in carcere uccide una guardia e viene poi trovato morto. La sentenza gli dà comunque ragione: "innocente". L’8 febbraio 1990 viene assolto. Fino al 2013 cala il silenzio, finché il fratello lancia un appello per fare luce sul caso perché in tanti sanno ma nessuno vuole parlare. Ai giornali arrivano lettere anonime e spuntano nuove testimonianze che aprono nuovi scenari, dietro alla sua morte ci potrebbe essere l’ombra di un giro di festini tra omosessuali. Indagando si scopre che Willy la notte scompariva per un'ora, due ore e poi ricompariva con strani regali e vestiti nuovi. Da quel giro Willy pare che volesse uscire, dicendo tutto al fratello: questo potrebbe essere il movente. Chi partecipava, in molti pare, non poteva permettersi questo: il segreto di quei festini non doveva essere divulgato. Antonino Monteleone incontra difficoltà e resistenze, al limite dell'atteggiamento omertoso, nel cercare di ricostruire la storia, che presenta molte contraddizioni anche nelle testimonianze, in particolare a proposito di un'auto che la notte dell'omicidio girava per il paese. Nome dell'omicida, complici, un testimone (il sarto che, quando lo incontriamo, dice e non dice), circostanze e possibile movente vengono fatti da don Tiziano, che ha battezzato Willy e poi celebrato il suo funerale. Li ha detti anche ai carabinieri, la pista non viene seguita. Oggi il sacerdote si tira indietro.
· Raed. Il bimbo fantasma della Norman Atlantic: «Morto nel rogo».
Il bimbo fantasma della Norman Atlantic: «Morto nel rogo». Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Giusi Fasano su Corriere.it. L’ultima volta che suo padre l’ha visto era il 27 dicembre del 2014, nel porto di Igoumenitsa, Grecia. C’era una gran confusione fra i passeggeri che si stavano imbarcando sul traghetto Norman Atlantic in partenza per Ancona. Ahmad Mohammad, 40 anni, siriano in fuga da una vita, guardò suo figlio confondersi fra la folla, lo vide passare i controlli senza che nessuno lo fermasse, lo seguì con lo sguardo mentre si fingeva al seguito di una famiglia araba. Pensò: bravo il mio Raed che è riuscito a entrare. Il piccolino — che avrebbe compiuto sei anni pochi giorni dopo — stava facendo quello che proprio papà gli aveva raccomandato: intrufolarsi in qualche modo su quella benedetta nave. Parola d’ordine: salire a bordo, aveva spiegato Ahmad. Perché solo così si arriva in Italia e dall’Italia si va in Germania da zio Samer (suo fratello) a cercare più vita e più fortuna. Solo che Ahmad non aveva previsto il dettaglio che adesso lo tormenta giorno e notte. E cioè che la polizia avrebbe poi fermato lui, vietandogli l’imbarco. Così è andata. Raed era entrato, d’accordo. Ma Ahmad rimase a terra con l’altro figlio un po’ più grande, Abdulkader, 7 anni. Fra le mani l’unico biglietto acquistato per il viaggio, inutile per un profugo come lui. Raed è morto solo, fra le fiamme, in chissà quale angolo nascosto del Norman Atlantic che, all’alba del giorno dopo, prese fuoco davanti alle coste albanesi. Chekri Charif, un sopravvissuto, dice che l’ha visto vagare da un punto all’altro del traghetto. Solo, appunto. A suo padre sembra di vederlo in ogni momento: se lo immagina terrorizzato, in lacrime, senza nemmeno un adulto che potesse tenerlo per mano e provare a salvarlo mentre il calore scioglieva ogni cosa. Con la famiglia araba alla quale Raed si era avvicinato per salire a bordo, Ahmad aveva preso tempo sperando di riuscire a salire anche lui. A quei due genitori aveva chiesto che per favore si prendessero cura del suo bambino intanto che lui sbrigava le pratiche per l’imbarco. Ma chissà se poi l’avevano fatto, mentre tutto bruciava e c’erano da salvare anche i loro figli. Lui, Ahmad, non si perdonerà mai di averlo lasciato andare, quel giorno. Undici cadaveri recuperati, 18 dispersi più un numero imprecisato di clandestini. Raed era uno di loro, il più piccolo dei clandestini, iscritto nella lista ufficiale dei dispersi soltanto dopo la dichiarazione di morte presunta ma rimasto lo stesso un fantasma, perché il suo corpo non è mai stato ritrovato. Cinque anni dopo il disastro del Norman Atlantic, manca ancora la prova provata che il piccolo fosse salito sul traghetto e dal punto di vista dell’eventuale risarcimento del danno non è un particolare di poco conto, perché certo lo farà valere chi è chiamato a pagare per perdita della sua vita. Non esiste un filmato né una fotografia di Raed a bordo o nel porto, nessuna traccia biologica, non un biglietto venduto a suo nome. Niente. Anche volendo dare per certo che sia salito a bordo nessuno potrebbe mai stabilire se sia morto lì dove si era nascosto oppure se sia finito in acqua. Agli atti c’è soltanto il rapporto dei poliziotti che hanno bloccato suo padre Ahmad per non farlo salire a bordo. Essendo lui un fantasma, il nome di Raed Mohammad non è mai entrato nel processo penale, per il quale è prevista l’apertura dell’udienza preliminare il 6 di maggio. Per il piccolo è invece aperta (e siamo ancora alle questioni preliminari) una causa civile per il risarcimento dei danni. E anche lì: non sarà facile ottenere giustizia, sempre perché parliamo di un bambino clandestino e di cui non c’è traccia. Due particolari sui quali conta chi è chiamato in causa a risarcire: la compagnia di navigazione italiana Visemar, la greca Anek Lines che aveva noleggiato il traghetto, il Rina Services che aveva certificato e classificato la nave e i cantieri Visentini, i costruttori. Il gruppo di avvocati che se ne sta occupando (Marco Bona, Stefano Bertone, Silina Pavlakis, Giulia Oberto) ha ricostruito ogni piccolo dettaglio di quelle ultime ore al porto, e l’atto di citazione della causa civile, per la prima volta, chiarisce i tanti particolari che non sono mai tornati sulla presenza a bordo di Raed. Li racconta suo padre. Chiarisce, per esempio, che quando vide in tivù le immagini del Norman Atlantic in fumo fu lo stesso Ahmad a chiedere a suo fratello Samer di correre a Bari per cercare Raed, gli chiese di dire alle autorità italiane che il bambino viaggiava con la sua mamma, Randa. Per questo si è sempre pensato che non fosse solo. Nello stesso atto di citazione Ahmad racconta la fuga della sua famiglia dalla Siria in guerra, nel 2013, la vita nei campi per rifugiati di Smirne, in Turchia, e il sogno della Germania (dove adesso vive con moglie e figli). In Grecia, a prendere il traghetto per l’Italia, era arrivato con i due figli più grandi lasciando la moglie e i due più piccoli in Turchia. Lei, Randa, in quell’atto ha fatto scrivere che «io, nel profondo del mio cuore, penso che il mio Raed potrebbe essere sopravvissuto, rapito da qualcuno in Italia e che ora stia soffrendo lontano da noi».
· Dopo 46 anni riaperte indagini sul sequestro di Mirko Panattoni.
Il maggiolone nocciola e il covo mai trovato: dopo 46 anni riaperte indagini sul sequestro Panattoni. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da Maddalena Berbenni su Corriere.it. Un Maggiolone nocciola rubato la sera prima in via Corridoni e l’identikit dell’uomo che aveva strappato il piccolo dal marciapiede di via delle Mura, prima della scuola. «Alto, moro, barba, capellone, maglione blu, camicia bianca, occhiali da sole, pantaloni scuri». Era il 21 maggio 1973 e da quei pochi elementi gli inquirenti iniziavano a lavorare sul rapimento di Mirko Panattoni, 7 anni, primo bambino di una stagione di sequestri in Lombardia: 60 in cinque anni. Poi gli appelli, la «Marianna» assediata dai cronisti, una valigia di contanti per il riscatto, il rilascio a Pontida e alcune piste che non portarono mai oltre i sospetti. Un cold case, insomma. Invece no. Quasi 46 anni dopo, tra il più stretto riserbo, l’indagine riparte. La procura ha aperto in questi giorni un fascicolo a carico di ignoti su input della Direzione distrettuale antimafia di Brescia, a cui sono stati trasmessi i relativi atti. Comprensibilmente da parte degli inquirenti la prudenza è massima e nulla di più filtra né tra i corridoi di piazza Dante né ai piani alti del palazzo di giustizia bresciano. Stando alle poche indiscrezioni, la spinta sarebbe arrivata dal racconto di un testimone, ma nemmeno si sa se legato ad altre inchieste, se un pentito o un informatore involontario. L’unico dato che si può dedurre è che la Dda ritenga il nuovo spunto investigativo sufficientemente serio da meritare di essere approfondito anche a distanza di quasi mezzo secolo. Sono le 8.25 quando Mirko, seconda elementare, viene caricato in auto con la forza a pochi passi da Colle Aperto e dalla gelateria che il padre Enrico aveva avviato vent’anni prima dopo essersi trasferito dalla Toscana. Oggi la «Marianna» è molto di più della sua leggendaria stracciatella e Mirko, padre di tre figli, gestisce il marchio con i fratelli. La richiesta per il suo riscatto è immediata, le cronache parlano di cento milioni di lire che poi, a trattativa conclusa, diventeranno il triplo. L’avvocato Mirko Tremaglia è al fianco dei genitori. Il Maggiolone guidato da un complice viene abbandonato in via XXIV Maggio con qualche traccia, ma poco di che. «Sono la madre di Mirko — il messaggio di Oriana Panattoni il 22 maggio —, ridatemi mio figlio, è solo un bambino. Dite quanto volete, ma tenetelo fuori dai pericoli. Fatevi vivi, per carità». Seguono due settimane di tormento, in cui la famiglia supplica di potere anche solo ascoltare la voce del bimbo, mentre lui — racconterà poi — soffre per il distacco da casa chiuso in una sorta di cantina tappezzata di giornali, dove chi gli porta il cibo si nasconde il volto con «una cuffia». Sono passamontagna, ma Mirko non conosce la parola. Tra i suoi carcerieri individua quattro uomini e una donna. In sottofondo sente i rumori di una teleferica, i rintocchi di una campana, il fischio di un treno, bambini piangere e un cane abbaiare. La svolta arriva il 5 giugno quando viene versato il riscatto. La cronaca di due notti dopo sembra uscita da un romanzo con Enrico Panattoni che balza sulla Jaguar amaranto insieme a Tremaglia per volare sulla Briantea, perché il telefono ha squillato all’1.40 e la voce ha pronunciato la frase attesa: «Abbiamo lasciato il bambino a Pontida». Quella che si agita dietro una siepe, al buio, in una strada trovata vagando in paese, è davvero la manina di Mirko, avvolto in un plaid. «Perché non hai risposto al tuo babbo?», lo abbraccia il papà. Alle 2.15 la Jaguar torna in Città Alta, dove ci sono la mamma, la maestra Anna Granelli, una piccola folla e i giornalisti che già sanno, ma per non essere d’intralcio aspettano lì. Un mese dopo l’allora pm Adriano Galizzi indagò il 27enne Achille Lorenzi, di Bergamo, detenuto a Sant’Agata per rapina. Non fu tanto per gli 8 milioni trovati in casa sua, ma per la voce, simile a quella dell’«esattore» della banda, registrata nelle telefonate prima della liberazione. Fu anche eseguita una perizia senza, però, arrivare a un processo. Nemmeno per i due fratelli di Sesto San Giovanni Sergio e Angelo Cavalli né per Elio Carissimi, di Carvico, allora 28enne, implicato nel sequestro Occhipinti. Si era ipotizzato che Mirko fosse stato rinchiuso in una sua casa a Sotto il Monte. Ma anche la prigione è rimasta un mistero. Almeno finora.
La svolta sul sequestro e la prescrizione, Panattoni: «Cercherò la verità per il babbo». Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Maddalena Berbenni su Corriere.it. Via Sylva 5 è un condominio di pochi piani, stessa tinta panna e stesse rifiniture di tutti gli altri alle spalle di piazza Varsavia. Lo costruirono nel 1967 e oggi ha le telecamere puntate agli ingressi, la cassetta per la pubblicità e un cespuglio di oleandri nell’unico angolo di verde. Le saracinesche dei garage seguono il perimetro affacciato sul cortile. A nessuno, nemmeno alla coppia di pensionati che dall’ultima finestra tiene sotto controllo il viavai con le teste all’ombra del sole del mezzogiorno, ricordano qualcosa i nomi dei proprietari dell’appartamento finito sotto la lente degli investigatori tra il 21 maggio e il 7 giugno 1973. Non proprio giorni qualsiasi per Bergamo.
Mirko Panattoni era stato sequestrato a 7 anni, mentre stava per entrare a scuola, lungo viale delle Mura. Con la cartella infilata sulle spalle, aveva appena salutato la mamma alla Marianna. Lo riportò a casa il padre 17 giorni dopo, nel cuore di una notte pazzesca. Di telefonate, giornalisti appostati e jaguar amaranto che volano lungo la Briantea. Era terminata con l’abbraccio tra Mirko e il padre Enrico dietro un cespuglio a Pontida, dove i banditi, soddisfatti del riscatto, avevano rilasciato il bambino. Non ci sarà giustizia per quel reato di 46 anni fa, su cui è calata la prescrizione. Panattoni, imprenditore conosciutissimo per la realtà che è diventata col tempo la Marianna, ne era al corrente e adesso che la notizia è stata pubblicata dal Corriere, commenta attraverso una nota. Otto righe asciutte, con il linguaggio arzigogolato degli avvocati, non fosse per quel «babbo» che racchiude un mondo. Le origini toscane, gli affetti, la scia di dolore lasciata dalla drammatica vicenda. «Sapevo delle indagini — scrive Panattoni — perché recentemente sono stato sentito a sommarie informazioni testimoniali dagli uffici della Questura di Bergamo». Tiene a ringraziare gli investigatori «per i risultati sorprendenti di questa indagine». Cita, in particolare, il questore vicario Edgardo Fabio Giobbi e il capo della Squadra mobile Salvatore Tognolosi. «Provvederò nei prossimi giorni — prosegue — a nominare l’avvocato Enrico Pelillo, con il quale ho già parlato, che si occuperà dell’accesso degli atti d’indagine una volta ostensibili». Cioè quando l’indagine sarà formalmente chiusa dalla Direzione distrettuale antimafia e le carte consultabili dalle parti coinvolte. Non dovrebbe mancare molto. La polizia ha già smesso di lavorare sul caso e il pm Paolo Savio è pronto per chiedere l’archiviazione. «Ho deciso di farlo — il punto in cui la barriera un poco abbassa — nel ricordo del mio amato babbo, che ha vissuto questa vicenda, oltre che con grande angoscia, come una sconfitta personale per non essere mai riuscito a individuare i responsabili». Lo stesso Giancarlo Battilà, il sostituto a cui fu affidato il fascicolo, ricorda le continue pressioni da parte di Enrico Panattoni, durante e dopo il sequestro. Era arrivato a Bergamo vent’anni prima dalla Toscana e aveva avuto l’intuizione di avviare la gelateria di Colle Aperto e d’inventare il gusto stracciatella. Mirko Panattoni era stato sequestrato a 7 anni, mentre stava per entrare a scuola, lungo viale delle Mura. Con la cartella infilata sulle spalle, aveva appena salutato la mamma alla Marianna. Lo riportò a casa il padre 17 giorni dopo, nel cuore di una notte pazzesca. Di telefonate, giornalisti appostati e jaguar amaranto che volano lungo la Briantea. Era terminata con l’abbraccio tra Mirko e il padre Enrico dietro un cespuglio a Pontida, dove i banditi, soddisfatti del riscatto, avevano rilasciato il bambino.
Via Sylva numero 5. È dietro le facciate di questo palazzo di zona Loreto, ai piedi dei colli, che nei giorni concitati del rapimento parte una chiamata ai Panattoni. Gli inquirenti di allora la registrano come sospetta, al punto che qualcuno, tra loro, vorrebbe sfondarla, quella porta. Quale sia il contenuto e perché abbia stuzzicato la loro attenzione non è chiaro, ma con i nuovi elementi portati alla luce, oggi, dagli uomini della Mobile diventa un nodo centrale nella storia. Stringe un doppio filo attorno all’allora guardia giurata dell’Upim, la cui impronta è stata trovata nel Maggiolino Volkswagen usato per prelevare il bambino. La corrispondenza è stata scoperta in questi mesi, il sospetto è che appartenga a chi fece da autista: era su un punto compatibile con la guida. La scienza ha indicato il nome di un pregiudicato di 69 anni, arrivato al Nord da Eboli. Allora lavorava per il grande magazzino di via XX Settembre, ora vive in Brianza ed è tra Monza e Milano che dopo il ‘73 si è fatto condannare per estorsione e assegni scoperti. Prima era incensurato, per questa ragione il match con il database delle forze dell’ordine è stato tardivo. Il campano non è indagato ed è al corrente degli accertamenti eseguiti dagli investigatori su un suo possibile coinvolgimento. Hanno voluto parlarci, in questura. Lui nega, prevedibile. Al di là dei non proprio trascurabili precedenti penali, è interessante il legame con la vecchia proprietaria dell’appartamento di via Sylva. Non abita più lì e nessuno la ricorda. Anni dopo, il figlio del 69enne ha acquistato un immobile da lei, a Milano. Non bastasse, il marito della donna è stato a sua volta coinvolto in un misterioso sequestro d’armi. C’era anche un kalashnikov. Fosse risultata di un tranquillo impiegato, senza ombre e con la fedina penale immacolata, l’impronta ritornata dal passato forse non avrebbe più di tanto agitato gli investigatori. Ma tutto porta a personaggi quantomeno torbidi. A coincidenze allarmanti, come la strana vicinanza tra via Sylva e via XXIV Maggio, dove il Maggiolino, rubato la notte prima in via Corridoni, fu ritrovato quasi subito. Il piccolo Mirko doveva essere appena stato spostato su un’altra auto. E il suo babbo probabilmente già si dannava per come riportarlo a casa. Ci riuscì. Il resto non era suo compito.
· Alessandro Pieri. "Bisigato" e la donna del mistero: morte di un ex calciatore.
"Bisigato" e la donna del mistero: morte di un ex calciatore. Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Lo chiamavano «Bisigato» per i suoi trascorsi da calciatore, tra le due guerre, nella squadretta dell’Alba Roma, salita fino alla serie C, e per la somiglianza con un attaccante ben più famoso: Antonio Bisigato, appunto, bomber della Lazio anni Trenta. Era un trasteverino verace e d’altri tempi: se c’era da far baldoria, non si tirava indietro, però ci teneva a mantenere un suo stile. Sempre gentile, impeccabile. Alessandro Pieri, classe 1916, dopo aver appeso le scarpette al chiodo (molto presto), s’era accontentato d’un concorso al Comune, dove era entrato come autista del Servizio affissioni. Rimasto vedovo, aveva avuto una nuova compagna. Ma poi, nel tratto finale, al tempo della pensione e di una paciosa serenità, era tornato solo nel suo appartamentino a due passi da piazza San Cosimato. Sempre allegro, «Bisigato». «La sua vita eravamo noi, gli amici, soprattutto mio padre: non passava giorno senza vederlo, fino a quella maledetta mattina...»
Alessandro Pieri, l’ex calciatore morto in casa, vittima di uno dei tanti cold case degli anni Novanta a Roma. Già. La storia si tinge di nero. Quel giovedì 19 gennaio 1995 - quattro giorni dopo il secco 3-0 rifilato dalla Juve alla Roma di Carletto Mazzone, due gol di Ravanelli e uno di Vialli - il sor Alessandro, 78 anni ottimamente portati, non si presentò al negozio di accessori auto di fronte a Porta Portese, per andare a pranzo con l’amico Salvatore. «Era un rito, non sgarrava mai. Mio padre gli telefonò, ma non rispondeva...» E quindi toccò proprio a lui, Max Grasso, il figlio all’epoca 25enne, scoprire cos’era successo: «Da qui so’ tre minuti a piedi. Corsi in via Morosini 14 e ebbi un tuffo al cuore: la porta al primo piano era socchiusa. Entrai. Silenzio. Lo chiamai. Nessuna risposta. In salotto lo vidi: era steso sul divano. Morto. Notai il vassoio di paste. Mi precipitai a chiamare il nipote, che abitava nello stesso palazzo, e poco dopo scoppiò il casino, la polizia, i giornalisti, la convocazione in questura...» Il giallo del pensionato «sedotto e avvelenato» da una falsa assistente sociale - di quelle che s’intrufolano nelle case con qualche moina e poi versano il sonnifero in una bevanda - tenne banco per giorni nelle cronache. «Di certo non è stato un semplice malore, altrimenti moriva sul pianerottolo», ragiona Max ancora incredulo. L’uscio aperto non fu il solo elemento a favore dell’ipotesi che «Bisigato», un attimo prima di morire, fosse in compagnia. Non maschile. Il secondo tassello acquisito dagli investigatori della Squadra mobile («Se ci sono loro è stato un omicidio!» gridò spaventata una vicina) fissò un punto fermo: cherchez la femme. Nel portacenere, oltre a quelle della vittima («Fumava le More, scure e sottili, mi sembra ieri!»), c’erano infatti sigarette di marca diversa. E un mozzicone, per giunta, aveva tracce di rossetto. Terzo indizio: i due bicchierini di liquore sul tavolo, mezzi pieni, uno dei quali usato dalla stessa donna dalle labbra vermiglie. Chi lo sa se avevano appena tintinnato per un cin cin. Quarto: i bignè comprati in via Marmorata, a Testaccio, «la migliore pasticceria della zona, come a dare importanza all’ospite femminile...» E infine il quinto tassello: dal dito medio di «Bisigato» era sparito l’anello d’oro, con la testa di Nettuno, a cui lui teneva tanto («quante volte ce l’ha mostrato con orgoglio!»), e dal portapatente una banconota da 100 mila lire che di solito portava con sé. Rapina delle falsi assistenti sociali, dunque, dopo aver sciolto una «polverina» nel liquore? Ricostruzione e movente parevano solidi. Ci si aspettava solo un mandato d’arresto, che però tardava... «La polizia si impegnò sul caso, non dico di no. Io venni convocato più volte in via San Vitale - ricorda Max Grasso - Cercarono tracce in casa, ordinarono perizie, interrogarono i vicini. Ma poi, man mano, l’attenzione scemò...» Gli esami tossicologici si conclusero con esito negativo: nel sangue non risultarono sostanze sospette. Cos’era successo? Un vero enigma. L’occasione fa l’uomo, in questo caso la donna, ladra? Il Pieri aveva avuto un malore durante un incontro con una signora che non aveva resistito all’impulso di portar via qualcosa e che, in preda al panico, non s’era accorta d’aver lasciato l’uscio aperto? «Certo, lui un po’ femminaro lo era... Un invito a casa per pura galanteria ci poteva stare. Però, stranamente, a mio padre non aveva parlato di una nuova fiamma. Mah...» La mancanza di testimoni e di prove certe indusse la Procura a mollare la presa. E così anche il fattaccio di via Morosini finì nella lista dei cold case romani di fine millennio, delitti senza colpevole come quello del detective all’Ostiense, del cartomante di piazza Navona, della commercialista chiusa nell’armadio...Non resta che ricordarlo con nostalgia e una risata, «Bisigato», davanti all’autoricambi di Porta Portese. «Quanto ci restammo male, che dolore grande! Dove lo trovi un personaggio così? Amava la vita. Era un maniaco dell’eleganza, della precisione. A mezzogiorno spaccato si presentava qui al negozio e noi a ride’... Pareva ‘n figurino: giacca, cravatta, scarpe Duilio e Borsalino alla Humphrey Bogart. Salvato’, annamo a magna’? gridava a mio padre. E s’incamminavano verso il Cordaro, il ristorante là dietro...» Max ora si commuove, nel rivederli a braccetto. «Spesso restava con noi il pomeriggio, tanto per ammazza’ il tempo. Fingeva d’esse’ il principale, baccajava coi clienti. E poi la Roma! Quante discussioni, quanti sfottò! Il calcio gli era rimasto nel cuore...» Fino a quella mattina di gennaio, l’ultima di un pensionato felice: un goccetto di cognac, du’ pastarelle, la donna del mistero...
· Il Caso Regeni.
Presidente Al Sisi ricordi la promessa: consegni i colpevoli della fine di Giulio. La lettera dei genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, al capo di Stato egiziano. La Repubblica 10 maggio 2019. Buongiorno presidente Al Sisi, siamo i genitori di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso al Cairo. A marzo di tre anni fa sulle pagine di questo giornale Lei si rivolgeva a noi «come padre prima che come presidente» e prometteva «che faremo luce e arriveremo alla verità, lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio». Sono passati tre anni. Nessuna vera collaborazione c’è stata da parte delle autorità giudiziarie egiziane e dopo l’iscrizione nel registro degli indagati, da parte della procura italiana, di cinque funzionari dei Vostri apparati di sicurezza, la procura egiziana ha interrotto tutte le interlocuzioni. Oggi sappiano che Giulio è stato sequestrato da funzionari dei Vostri apparati di sicurezza e lo sappiamo grazie al lavoro incessante degli investigatori e dei procuratori italiani e dei nostri legali. Lei è venuto meno alla sua promessa. Lei, lo apprendiamo dai media, ha un potere smisurato. Risulta, quindi, difficile da credere che chi ha sequestrato, torturato, ucciso nostro figlio Giulio, chi ha mentito, gettato fango sulla sua persona, posto in essere innumerevoli depistaggi, organizzato l’uccisione di cinque innocenti ai quali è stata attribuita la responsabilità dell’omicidio di nostro figlio, tutte queste persone abbiano agito a Sua insaputa o contro la sua volontà. Non possiamo più accontentarci delle sue condoglianze né delle sue promesse mancate. Generale, Lei sa bene che la forza di un uomo e ancor più di un capo di Stato non può basarsi sulla paura ma sul rispetto. E non si può pretendere rispetto se si viene meno ad una promessa fatta a dei genitori ed a un intero Paese orfano di uno dei suoi figli. Giulio, lo sa bene anche lei, era un portatore di Pace, Giulio amava il popolo egiziano: ha imparato la Vostra lingua e ha fatto diversi soggiorni al Cairo cercando di vivere come un egiziano. Invece, è morto come, purtroppo, muoiono tanti egiziani. Presidente, Lei dice di comprendere il nostro dolore, ma lo strazio che ci attraversa da 39 mesi non è immaginabile. Lei, però, può intuire la nostra risolutezza e la nostra determinazione che condividiamo con migliaia di cittadini in tutto il mondo. Siamo una moltitudine severa e inarrestabile. Finché questa barbarie resterà impunita, finché i colpevoli, tutti i colpevoli, qualsiasi sia il loro ruolo, grado o funzione, non saranno assicurati alla giustizia italiana, nessun cittadino al mondo potrà più recarsi nel Vostro Paese sentendosi sicuro. E dove non c’è sicurezza non può esserci né amicizia né pace. Presidente, Lei ha l’occasione per dimostrare al mondo che è un uomo di parola: consegni i cinque indagati alla giustizia italiana, permetta ai nostri procuratori di interrogarli, dimostri al mondo che la osserva che Lei non ha nulla da nascondere. Lei ha il privilegio e l’occasione di fare giustizia, sprecarli sarebbe imperdonabile. Con l’augurio di verità e giustizia.
La ricostruzione dei pm sul caso Regeni: "Torturato svariati giorni". I pm in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio Regeni: “Torture avvenute a più riprese tra il 25 e il 31 gennaio”. Federico Giuliani, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Giulio Regeni è stato vittima di una tortura “in più fasi” e durata “svariati giorni”, nel corso della quale “gli sono state rotte diverse ossa”. È questo il resoconto emerso dalle audizioni del sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco, e del procuratore facente funzioni, Michele Prestipino, in commissione parlamentare di inchiesta sull'omicidio del ricercatore italiano. Colaiocco ha spiegato che l’autopsia, eseguita in Italia, ha evidenziato che “le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 e il 31 gennaio”. Le analisi effettuate sulla salma del ragazzo lasciano presupporre “una violenta azione su varie parti del corpo”. Gli stessi medici legali hanno riscontrato “varie fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze”. Giulio è probabilmente morto il 1 febbraio in seguito alla rottura dell'osso del collo.
La ricostruzione dei pm alla commissione d’inchiesta. È inoltre emerso che nel corso dell’indagine sull’omicidio di Regeni sono avvenuti quattro depistaggi da parte degli apparati egiziani. Colaiocco ha spiegato quanto accaduto: "Nell'immediatezza dei fatti sono stati fabbricati dei falsi per depistare le indagini. In primis l'autopsia svolta a Il Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale con Regeni che viene fatto ritrovare nudo”. Esistono poi altri due più rilevanti tentativi di sviare le indagini. Il primo, ha proseguito il pm, alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016: "Due giorni prima un ingegnere parla alla tv egiziana raccontando di avere visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato italiano e fissa alle 17 del 24 gennaio l'evento. È tuttavia emerso che il racconto è falso e ciò è dimostrato dal traffico telefonico dell'ingegnere che era a chilometri di distanza dal consolato e dal fatto che Giulio a quell'ora stava guardando un film su internet a casa". L'uomo che ha messo in atto il tentativo di depistaggio ha ammesso “di avere ricevuto quelle istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale che faceva parte del team investigativo congiunto italo-egiziano”. Un depistaggio voluto per tutelare “l’immagine dell'Egitto e incolpare stranieri per la morte di Regeni”. Arriviamo infine al quarto tentativo di depistaggio, legato invece “all'uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani erano stati loro gli autori dell'omicidio".
Roma, «Giulio Regeni torturato in più fasi. E sulla sua morte continui depistaggi». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Laura Martellini. Il sostituto procuratore Colaiocco e il procuratore Prestipino alla commissione d’ inchiesta: «Gli egiziani allontanarono la verità». Giulio Regeni è stato vittima di una tortura in più fasi, durata giorni, nel corso della quale gli sono state rotte diverse ossa: una verità dolorosa, quella rilanciata dal sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco, e dal procuratore facente funzioni, Michele Prestipino. Nel corso dell’audizione in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio del ricercatore, Colaiocco ha spiegato: «L’autopsia eseguita in Italia ha dimostrato che le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 e il 31 gennaio. L’esame della salma depone per una violenta azione su varie parti del corpo. I medici legali hanno riscontrato fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze. Giulio è morto, presumibilmente il primo febbraio, per la rottura dell’osso del collo». Rivelazioni inquietanti, anche sui numerosi depistaggi: «Molteplici sono stati i depistaggi. L’autopsia svolta al Cairo faceva ritenere che il decesso fosse legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio - ha spiegato Colaiocco - è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale. Esistono poi altri due più rilevanti tentativi di sviare le indagini». Il primo si svolse alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016: «Due giorni prima, un ingegnere raccontò alla tv egiziana di aver visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato italiano. È tuttavia emerso - ha proseguito il pm - che il racconto era falso, come dimostra il traffico telefonico del professionista, a chilometri di distanza dal consolato. E Giulio a quell’ora stava guardando un film su Internet a casa». Ancora: «L’uomo ha ammesso di avere ricevuto le istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale che faceva parte del team investigativo congiunto italo-egiziano. Un disegno voluto per tutelare, come ha riferito poi l’ingegnere, l’immagine dell’Egitto, e incolpare gli stranieri per la morte di Regeni. Su questo episodio - ha affermato Colaiocco - non ci risulta che la procura del Cairo abbia mai incriminato nessuno. Il quarto tentativo è legato invece all’uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani erano legati all’omicidio». Così, commossi, commentano gli aggiornamenti e la relazione i genitori di Giulio, Paola e Claudio: «Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in questi quattro anni in sinergia con noi e con la nostra legale. Se oggi abbiamo i nomi di alcuni responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio, e se alcuni di quei nomi sono iscritti nel registro degli indagati, lo dobbiamo a loro». «L’intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale. Pretendere, senza ulteriori dilazioni né distrazioni, verità per Giulio e per tutti noi è un dovere e un diritto inderogabile» concludono. Per Prestipino «l’eccezionalità è che un cittadino italiano sia stato sequestrato, torturato e assassinato in un territorio estero. Alla difficoltà sul fronte delle indagini si aggiungono regole penali in Egitto molto diverse dalle nostre. Siamo riusciti a ricostruire il contesto dell’omicidio, i giorni precedenti al sequestro, l’attività degli apparati egiziani nei confronti di Giulio, culminata col sequestro. Abbiamo sgomberato il campo da ipotesi fantasiose, dall’attività spionistica alla rapina. E iscritto i presunti colpevoli nel registro degli indagati». Un passo dopo l’altro, alla ricerca della verità.
Regeni, i quattro depistaggi del Cairo. I pm: tradito anche dall'amica Nour. I procuratori di Roma al Parlamento: 5 ufficiali dei Servizi egiziani coinvolti. Ora le decisioni toccano a Di Maio. Carlo Bonini e Giuliano Foschini il 17 dicembre 2019 su La Repubblica. Dopo quattro anni, per la prima volta, la Procura di Roma, con i crismi di un atto ufficiale, rassegna di fronte al Parlamento, nell’aula di Palazzo San Macuto dove la Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e omicidio di Giulio Regeni ha avviato ieri i suoi lavori, le conclusioni «univoche» di un’inchiesta il cui destino è ora solo e soltanto nelle mani delle decisioni di Palazzo Chigi, se mai deciderà di assumerne. Sono conclusioni che il procuratore reggente Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco declinano, per oltre due ore, con il rigore dei fatti raccolti in un’indagine che non ha precedenti per contesto, interlocutori, impiego di capacità investigative (Sco della Polizia e Ros dei Carabinieri). Che i lettori di “Repubblica” conoscono bene. E molto semplice da riassumere: quello di Giulio furono un sequestro e un omicidio di Stato. Perché concepito e messo in atto da almeno cinque ufficiali della National Security Agency, il Servizio segreto civile del regime egiziano. E perché sono stati almeno quattro i depistaggi con cui la stessa Nsa ha tentato di coprire le proprie responsabilità. A cominciare dall’autopsia del corpo di Giulio (le cui conclusioni, “morte per emorragia cerebrale”, dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto), per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), con la testimonianza farlocca di un ingegnere egiziano che voleva la morte di Giulio esito di una lite avuta al Cairo, fino alla cruenta messa in scena che, il 24 marzo 2016, doveva accollare la responsabilità della fine di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo che altro non erano che innocenti “fucilati” a freddo dalla Nsa per simulare un conflitto a fuoco. E tuttavia la mattina di San Macuto non è stata una semplice ricognizione del “noto”. Al contrario. E non tanto per l’emersione di alcuni nuovi dettagli che hanno svelato come all’elenco di chi tradì Giulio nei suoi ultimi mesi di vita si aggiunga ora anche quello dell’amica di cui Giulio più si fidava in Egitto: Noura, studentessa conosciuta a Cambridge. Ridotta a delatrice dei suoi spostamenti e incontri (ne riferiva a un operatore turistico del Cairo, tale Rami, che, a sua volta, le girava al maggiore Sharif della Nsa). Ma perché con la testimonianza dei procuratori Prestipino e Colaiocco cade ora, definitivamente, ogni ulteriore alibi per Parlamento e governo. Nessuno potrà più pensare di guadagnare tempo rispetto alle decisioni da assumere con il Cairo. A maggior ragione dopo che Colaiocco ha spiegato come la già difficilissima cooperazione giudiziaria con la magistratura egiziana si sia interrotta a novembre dello scorso anno. Quando «la Procura del Cairo, pur di fronte a circostanze indizianti univoche nei confronti dei cinque ufficiali della Nsa, ha ritenuto che queste non fossero sufficienti a sottoscrivere un comunicato congiunto che desse conto di come l’indagine aveva ormai circoscritto il perimetro delle responsabilità». Da quel novembre di un anno fa, nulla infatti è più accaduto. Nessuno, insomma, da oggi, potrà più dire «lasciamo lavorare la magistratura». Perché quel lavoro è di fatto chiuso. A meno che — e l’ipotesi appare al momento assai improbabile — un annunciato nuovo incontro tra i magistrati egiziani e la Procura di Roma in gennaio non dovesse improvvisamente vedere la consegna di nuovi atti o evidenze. È il tempo delle decisioni, insomma, per vincere l’arrocco egiziano. E il primo a doverle prendere è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. La Commissione, per voce del suo presidente, Erasmo Palazzotto, ha promesso ieri il massimo sforzo («non faremo sconti a nessuno»). La famiglia Regeni, con una nota alle agenzie, ha giustamente ricordato quale è la posta in gioco: "L’intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi, sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale". "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".
Caso Regeni, i pm di Roma: “Quattro depistaggi dagli apparati egiziani. Giulio torturato più volte”. Il Riformista il 17 Dicembre 2019. “L’autopsia eseguita in Italia ha dimostrato che le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 gennaio e il 31 gennaio. L’esame della salma depone per una violenta azione su varie parti del corpo. I medici legali hanno riscontrato varie fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze. Giulio è morto, presumibilmente il 1 febbraio, per la rottura dell’osso del collo”. Questo è quanto dichiarato dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco e il procuratore facente funzioni di Roma Michele Prestipino durante l’audizione in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friuliano ucciso tra il mese di gennaio e febbraio del 2016, ritrovato senza vita il 3 febbraio nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani.
I DEPISTAGGI – Nell’audizione tenutasi oggi è emerso che ci sarebbero stati quattro depistaggi degli apparati egiziani sulla morte del giovane Regeni. “Nell’immediatezza dei fatti sono stati fabbricati dei falsi per depistare le indagini. In primis l’autopsia svolta al Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio – ha spiegato Colaiocco – è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale con Regeni che viene fatto ritrovare nudo. Esistono poi, altri due più rilevanti tentativi di sviare le indagini”. Il primo alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016. “Due giorni prima un ingegnere parla alla tv egiziana raccontando di avere visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato italiano e fissa alle 17 del 24 gennaio l’evento. E’ tuttavia emerso – ha spiegato il pm – che il racconto è falso e ciò è dimostrato dal traffico telefonico dell’ingegnere che era a chilometri di distanza dal consolato e sia dal fatto che Giulio a quell’ora stava guardando un film su internet a casa”.
“L’uomo, che ha messo in atto il tentativo di depistaggio, ha ammesso di avere ricevuto quelle istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale che faceva parte del team investigativo congiunto italo egiziano. Un depistaggio voluto per tutelare, come ha raccontato l’ingegnere, l’immagine dell’Egitto e incolpare stranieri per la morte di Regeni. Su questo episodio – ha spiegato Colaiocco – non ci risulta che la Procura del Cairo abbia mai incriminato nessuno. Il quarto tentativo di depistaggio è legato invece all’uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani era stati loro gli autori dell’omicidio”.
LE PAROLE DEI GENITORI – “Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in questi quattro anni in sinergia con noi e la nostra legale. Se oggi abbiamo i nomi di alcuni dei responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio e se alcuni di quei nomi sono iscritti nel registro degli indagati lo dobbiamo a loro”. Queste le parole di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio. “In questi anni di dolori, fatiche e amarezze in cui abbiamo dovuto lottare contro violenze depistaggi, omertà, prese in giro e tradimentiabbiamo imparato quanto è preziosa la fiducia. Oggi per la prima volta i nostri procuratori hanno potuto rendere pubblici gli sforzi e – sottolinea la famiglia- i risultati del loro lavoro e da oggi chiunque in Egitto e in Italia sa che la nostra fiducia in loro è ben riposta. Il loro e il nostro lavoro di indagine va sostenuto con decisione e onestà dalla nostra politica e da qualsiasi istituzione europea che si professi democratica”. “L’intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale. Pretendere, senza ulteriori dilazioni né distrazioni, verità per Giulio e per tutti noi è un dovere e un diritto inderogabile. Confidiamo che la commissione d’inchiesta sappia sostenere con umiltà, rispetto e intelligenza il lavoro della nostra magistratura e della nostra legale“, concludono.
Carlo Bonini per “la Repubblica” il 12 dicembre 2019. La chiave in grado di aprire definitivamente l'arrocco del regime egiziano a protezione dei responsabili del sequestro e dell' omicidio di Giulio Regeni è qui. A 5.200 chilometri a Sud del Cairo. Nell' africa sub Sahariana orientale. Nella capitale del Kenya, Nairobi. Perché è qui che un poliziotto keniota ha raccontato di aver raccolto le confidenze autoaccusatorie dell' uomo chiave nel sequestro di Giulio, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. L'ufficiale della National Security Agency (l' Intelligence egiziana) che, al Cairo, condusse l' istruttoria che doveva dimostrare ciò che Giulio non era: una spia al soldo degli inglesi. E che per questo è ora indagato per sequestro di persona con altri 4 ufficiali della Nsa dalla Procura di Roma. E' a Nairobi infatti che la scorsa estate, il pm di Roma, Sergio Colaiocco, dopo aver raccolto la testimonianza del poliziotto keniota, ha inviato una rogatoria per fissare e verificare le circostanze di questa confessione e l' attendibilità del testimone. Con un caveat . Del testimone la Procura di Roma non ha rivelato il nome alle autorità keniote, né il contenuto del suo verbale di testimonianza. Per ragioni - è stato spiegato - di incolumità del testimone kenyota e di genuinità nell' accertamento dell' identità dell' ufficiale dell' intelligence egiziana di cui ha raccolto le confidenze. Una partita a scacchi, insomma. Di cui conviene riprendere il filo. Così come documentato nel verbale raccolto dalla Procura di Roma. E' l'agosto del 2017 e, a Nairobi, viene convocata una riunione dei rappresentanti dei servizi di intelligence africani impegnati nelle attività antiterrorismo. La scelta del luogo non è casuale. Perché il Kenya, insieme all' Etiopia, è l' avamposto della guerra che gli islamisti di Al Shabab hanno aperto nel Corno d' Africa, porta di accesso orientale del continente: tra il 2013 e il 2017, il Kenya subisce infatti 373 attacchi terroristici che provocano 929 morti, 1.149 feriti e 666 sequestri di persona. L'ufficiale scelto dalla National Security Agency egiziana per partecipare all' incontro di Nairobi è il giovane maggiore Sharif, 35 anni, le cui credenziali sono documentate dal numero di tessera identificativa 505. Il maggiore, a quanto pare, ha un' inclinazione alla chiacchiera. Si vanta dei metodi spicci dell' intelligence egiziana. E lo fa anche nella coda della "riunione interafricana" degli apparati di sicurezza. Una cena in uno dei grandi alberghi di Nairobi. Il poliziotto keniota racconta di averlo distintamente sentito rivendicare la propria partecipazione al sequestro di Giulio e al breve pedinamento che, la sera del 25 gennaio del 2016, lo precedette, mentre, a piedi, il ricercatore italiano prendeva la metropolitana che da Dokki, il quartiere dove abitava, lo avrebbe dovuto portare a un appuntamento non lontano da piazza Tahrir. Sharif dice qualcosa di più. Conferma che Giulio era stato oggetto di attenzioni della Nsa da mesi. Che il fermo e il suo sequestro fu una decisione presa la sera stessa del 25, nella convinzione che Giulio stesse per incontrare una persona sospetta. «L' abbiamo preso, messo in macchina e picchiato» si lascia andare il maggiore, secondo quanto racconta il testimone keniota. L'importanza della confessione rubata al maggiore Sharif è direttamente proporzionale alla tensione che ha innescato lungo l' asse Roma, Nairobi, Cairo. I rapporti tra l' Egitto e il Kenya sono infatti d' acciaio. In ragione di un' antica amicizia. Dei legami economici che rendono l' Egitto snodo vitale nelle rotte di importazione delle derrate necessarie a soddisfare il fabbisogno alimentare del Kenya. Della forza dell' apparato di intelligence e militare egiziano nel quadrante africano orientale. Insomma aiutare Roma, mettendo il Cairo con le spalle al muro di fronte alla giustizia italiana, significherebbe per il Kenya doversi attrezzare a ritorsioni significative. Non è una decisione da niente. Che pesa sulle spalle del magistrato cui quattro mesi fa è stata consegnata la rogatoria della Procura di Roma: il Director of Public Prosecution (Dpp), la massima autorità inquirente del Paese. Si chiama Noordin Haji. E' un uomo di 46 anni, cresciuto in una delle famiglie più influenti del Kenya (ha otto tra fratelli e sorelle nati dal padre senatore ed ex ministro della Difesa, Mohammed Yusuf Haji). Ha studiato legge e sicurezza internazionale in Galles e Australia, è un musulmano osservante, e, poligamo come il padre, ha due mogli e otto figli. E' stato nominato Dpp nella primavera scorsa dal Parlamento, cui risponde. In pochi mesi, si è guadagnato le prime pagine dei giornali europei per la sua offensiva nei confronti della corruzione dei membri del Governo e dell' amministrazione, una delle piaghe del Paese insieme alla minaccia terroristica. Viene dai ranghi del Servizio segreto - il National intelligence service - di cui è stato, fino alla primavera del 2019, vice direttore. Di quanto accaduto in quell' agosto del 2017, Haji dovrebbe dunque aver avuto piena consapevolezza. E se si dovesse stare a quello che almeno una fonte qualificata interna al servizio keniota riferisce a Repubblica , in quell' agosto del 2017, in quell' albergo di Nairobi, le cose sarebbero effettivamente andate proprio come ha raccontato alla Procura di Roma il poliziotto che teme per la sua vita. E tuttavia, come sempre accade nelle questioni che incrociano le responsabilità dei Servizi, le certezze non esistono e c' è bisogno di dare alle parole un nome e un cognome. E dunque, se c' è un indirizzo, a Nairobi, dove bussare è proprio quello di Haji, il Dpp. Nel quartiere residenziale di Upper Hill, al secondo piano di un compound che è stato a lungo la sede degli uffici dell' Unione europea e che ora è protetto da filo spinato, sorveglianza armata e rigidissimi controlli di sicurezza. Con una domanda in fondo semplice: cosa sa Noordin Haji di quella confessione del maggiore della Nsa egiziana Sharif?
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 18 dicembre 2019. Dopo quattro anni, per la prima volta, la Procura di Roma, con i crismi di un atto ufficiale, rassegna di fronte al Parlamento, nell' aula di palazzo san Macuto dove la Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e omicidio di Giulio Regeni ha avviato ieri i suoi lavori, le conclusioni «univoche» di un' inchiesta il cui destino è ora solo e soltanto nelle mani delle decisioni di Palazzo Chigi, se mai deciderà di assumerne. Sono conclusioni che il procuratore reggente Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco declinano, per oltre due ore, con il rigore dei fatti raccolti in un' indagine che non ha precedenti per contesto, interlocutori, impiego di capacità investigative (Sco della Polizia e Ros dei Carabinieri). Che i lettori di "Repubblica" conoscono bene. E molto semplici da riassumere: quello di Giulio fu un sequestro e un omicidio di Stato. Perché concepito e messo in atto da almeno cinque ufficiali della National Security Agency, il Servizio segreto civile del Regime egiziano. E perché sono stati almeno quattro i depistaggi con cui la stessa Nsa ha tentato di coprire le proprie responsabilità. A cominciare dall' autopsia del corpo di Giulio (le cui conclusioni, "morte per emorragia cerebrale", dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto), per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), con la testimonianza farlocca di un ingegnere egiziano che voleva la morte di Giulio esito di una lite avuta al Cairo, fino alla cruenta messa in scena che, il 24 marzo 2016, doveva accollare la responsabilità della fine di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo che altro non erano che innocenti "fucilati" a freddo dalla Nsa per simulare un conflitto a fuoco. E tuttavia la mattina di san Macuto non è stata una semplice ricognizione del "noto". Al contrario. E non tanto per l' emersione di alcuni nuovi dettagli che hanno svelato come all' elenco di chi tradì Giulio nei suoi ultimi mesi di vita si aggiunga ora anche quello dell' amica di cui Giulio più si fidava in Egitto: Noura, studentessa conosciuta a Cambridge. Ridotta a delatrice dei suoi spostamenti e incontri (ne riferiva a un operatore turistico del Cairo, tale Rami, che, a sua volta, le girava al maggiore Sharif della Nsa). Ma perché con la testimonianza dei procuratori Prestipino e Colaiocco cade ora, definitivamente, ogni ulteriore alibi per Parlamento e governo. Nessuno potrà più pensare di guadagnare tempo rispetto alle decisioni da assumere con il Cairo. A maggior ragione dopo che Colaiocco ha spiegato come la già difficilissima cooperazione giudiziaria con la magistratura egiziana si sia interrotta a novembre dello scorso anno. Quando «la Procura del Cairo, pur di fronte a circostanze indizianti univoche nei confronti dei cinque ufficiali della Nsa, ha ritenuto che queste non fossero sufficienti a sottoscrivere un comunicato congiunto che desse conto di come l'indagine aveva ormai circoscritto il perimetro delle responsabilità». Da quel novembre di un anno fa, nulla infatti è più accaduto. Nessuno, insomma, da oggi, potrà più dire «lasciamo lavorare la magistratura » . Perché quel lavoro è di fatto chiuso. A meno che - e l'ipotesi appare al momento assai improbabile - un annunciato nuovo incontro tra i magistrati egiziani e la Procura di Roma in gennaio non dovesse improvvisamente vedere la consegna di nuovi atti o evidenze. È il tempo delle decisioni, insomma, per vincere l' arrocco egiziano. E il primo a doverle prendere è il ministro degli esteri Luigi Di Maio. La Commissione, per voce del suo presidente, Erasmo Palazzotto, ha promesso ieri il massimo sforzo («Non faremo sconti a nessuno»). Mentre la famiglia Regeni, con una nota alle agenzie, ha giustamente ricordato quale è la posta in gioco: «L' intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi, sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale». I procuratori di Roma al Parlamento: 5 ufficiali dei Servizi egiziani coinvolti. Ora le decisioni toccano a Di Maio Il video Giulio Regeni al Cairo, ripreso dal leader del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah che lo aveva segnalato come "spia" agli 007. Regeni, dopo le torture, fu trovato cadavere il 3 febbraio 2016.
Carlo Baron per "la Stampa" il 10 maggio 2019. «Non rispetta i nostri sentimenti. Questo cantautore ha settant' anni. Potrebbe andare in pensione». A Paola Regeni non piace la canzone che Roberto Vecchioni ha dedicato a Giulio, ucciso al Cairo nel 2016. E non lo manda a dire. La sala del Bookstocks Village è gremita. C' è gente in coda da mezz' ora. Molte scolaresche. Ci sono la mamma e il papà di Giulio. Venuti alla giornata inaugurale del Salone del libro per tenere viva una denuncia e perché non diventi solo un ricordo. Forse è questo che fa male a Paola Regeni. «Non abbiamo bisogno di canzoni su Giulio - spiega - come quella scritta da un noto cantautore settantenne (non citerà mai Vecchioni ndr ) o di scoop giornalistici. Se qualcuno ha qualche informazione utile o qualche scoperta che noi non abbiamo, venga da noi a raccontarla e poi scrive i libri. Chi ha fatto libri su Giulio è gente che ha tempo a disposizione, tempo di fare copia e incolla. A noi i libri copia incolla non servono». «Ci sono rimasto male - replica Vecchioni in un' intervista a Rolling Stone -. Le ho detto che questa è una canzone simbolo, in cui la madre protagonista è in realtà una madre universale. Come Andromaca, la mamma di Cecilia nei Promessi sposi, Ida per la Morante o la Madre coraggio di Brecht. Al centro del pezzo ci sono le mamme del mondo, e i loro figli meravigliosi. Si fa accenno alla vicenda di Giulio, ma in maniera corretta e innamorata, senz' altro dalla sua parte. Per questo non credo di aver leso alcun diritto della signora, che conosco e a cui voglio bene». E, aggiunge, «ho mantenuto la promessa di non cantarla in tv o parlarne con i giornalisti. L' ho cantata in teatro e la farò in tour, ma l' ho tenuta in un angolo. Non l' ho fatta diventare un singolo per rispetto a lei, anche se ci avevo pensato. Non volevo strumentalizzare la vicenda, non so cos' altro avrei dovuto fare». Alla richiesta di Paola Regeni di rinunciare al brano risponde di no, «perché me lo imponeva la mia libertà espressiva, non mi si può togliere una canzone». «Queste parole mi hanno addolorato moltissimo - interviene Sergio Staino -. Sono fin dall' inizio vicino ai genitori di Giulio. Abbiamo organizzato incontri, tenuto accesi i riflettori di una denuncia che deve arrivare alla giustizia e alla verità. Sono anche amico di Vecchioni. Credo si tratti di un' incomprensione. La canzone vuole essere un atto d' amore. Credo sia rispettosa del dolore e dei sentimenti dei genitori di Giulio. Lo capisco quando viene cantata in concerto nei teatri. C' è sempre una standing ovation quando termina il pezzo. E non è per Roberto. Ma tutta per Giulio». Al Salone Paola Regeni ha portato anche i libri che ha trovato nella camera di Giulio. «Volevo farvi una sorpresa così sono andata a sbirciare nella libreria di Giulio, cosa che ho fatto tante volte Ho portato anche Topolino, perché Giulio a 5 anni ne era ghiotto». Un viaggio illuminante nelle letture preferite del giovane ricercatore. E a rileggere oggi i titoli c' è l' idea di un uomo dalla curiosità infinita. Ci sono romanzi e saggi di sociologia ed economia. Il Dio delle piccole cose dell' indiana Arundhati Roy e La scomparsa dell' Italia industriale di Luciano Gallino. Fino alle Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini, friulano come Giulio. Ucciso anche lui. Anche lui con una giustizia che ha faticato a farsi strada. Pier Paolo Pasolini al quale un altro grandissimo, Fabrizio De Andrè, dedicò una canzone: Una storia sbagliata . Paola Regeni mostra anche un libro su Doris Lessing «che Giulio amava in modo particolare e per il cui Nobel fu felicissimo». E 201 Arabic words, uno degli strumenti di lavoro del giovane ricercatore. «Purtroppo lo studio lo ha portato alla morte». (Ha collaborato Giorgia Mecca)
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per "la Repubblica" il 10 maggio 2019. Dopo quella al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la lettera di Paola Deffendi e Claudio Regeni al presidente Al Sisi, la scelta di diffonderla oggi in tre lingue - italiano, inglese, arabo - sul sito di Repubblica e a disposizione dei quotidiani del Consorzio internazionale " Lena", si mangia, dopo 39 mesi, ciò che resta del tempo residuo concesso al regime egiziano per compiere un atto politico che apra concretamente la strada all' accertamento della verità sul sequestro, le torture e l' omicidio di Giulio. E lo fa, non a caso, circoscrivendo la forma e la sostanza di quell' atto, a questo punto non più chiesto ma preteso dalla famiglia, a una dimensione squisitamente giudiziaria, la sola che ora conta. A maggior ragione nella prospettiva aperta dai progressi che la procura di Roma, con un ennesimo e ultimo sforzo, ha ottenuto acquisendo la testimonianza di un funzionario della sicurezza di un paese africano testimone oculare, nell' estate 2017, delle ammissioni di uno dei 5 ufficiali dei Servizi egiziani indagati dalla procura di Roma circa la loro piena responsabilità nel sequestro di Giulio il 25 gennaio 2016. La richiesta ad Al Sisi di « consegnare » e dunque mettere a disposizione della procura di Roma i 5 funzionari della " National security agency" indagati perché vengano interrogati è infatti il corollario, o comunque l' altra faccia, della richiesta di rogatoria che la procura di Roma, venerdì, ha trasmesso al Cairo per ottenere nuove e cruciali informazioni su uno di quei 5 funzionari indagati. Quello indicato dal nuovo testimone. Insomma, se Al Sisi vuole dimostrare di « essere uomo di parola » deve soltanto istruire la Procura generale del Cairo a rimettere in moto un' indagine che ha volutamente e scientificamente affossato ai primi di dicembre 2018. Rispondendo alla rogatoria e lasciando che il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal e il maggiore Magdi Sharif siano nella disponibilità inquirente del pm Sergio Colaiocco. Come è evidente, la scelta di Paola Deffendi e Claudio Regeni di sfidare Al Sisi a una sorta di ultima chiamata per la verità è lo strumento con cui mettere definitivamente in fuorigioco, smascherandolo, il nulla che il presidente egiziano ha continuato a rivogare con il governo del nostro Paese ancora nell' ultimo incontro di Pechino con Conte (27 aprile). E costringerlo, in ogni caso, quale dovesse essere la sua risposta, a impiccarsi a una presa di posizione che sarà, arrivati a questo punto, definitiva. Sia sul piano politico che, appunto, su quello giudiziario. Rispondere alla nuova rogatoria della procura di Roma - e dunque indicare gli spostamenti di uno dei cinque indagati della " National security agency" nell' estate 2017 ( quando cioè il nuovo testimone ne avrebbe raccolto l' involontaria confessione) costringerà infatti comunque gli apparati egiziani a esporsi con circostanze di fatto che la magistratura italiana potrà poi autonomamente verificare come vere o false, con quel che ne consegue. Così come mettere a disposizione i 5 funzionari dell' Intelligence li esporrà all' incognita di contestazioni che sono nella sola disponibilità della procura di Roma. Mossa dunque non da poco e tutt' altro che banale o rituale quella dei Regeni. Da non confondere con la mozione degli affetti o con la supplica al vertice di un regime militare. Non fosse altro perché puntare al bersaglio grosso - Al Sisi - significa anche indirettamente strappare al vuoto delle sue intenzioni prive di concretezza lo stesso Giuseppe Conte. Venerdì scorso, infatti, a dimostrazione di quanto scoperto sia il nervo di chi pensa di uscire da questa vicenda spostando semplicemente l' appuntamento con la verità a data da destinarsi e alla buona volontà dell' interlocutore, il presidente del Consiglio ha voluto mettere immediatamente il cappello ( comunicandone l' esistenza) all' inoltro attraverso il nostro ministero di Giustizia della nuova rogatoria della procura di Roma al Cairo provando a vendere un atto autonomo della magistratura di cui, per legge, l' esecutivo è soltanto tramite, come un atto politico. Ad oggi, assente. A meno di non voler considerare come tale l' insediamento della Commissione parlamentare d' inchiesta che, va da sé, nulla ha a che fare con le prerogative e i poteri del governo. P. S. Anche " Repubblica" è in attesa da parte del presidente del Consiglio di una cortese risposta, quale essa sia, alla lettera aperta con cui il 29 aprile lo ha invitato a considerare la possibilità di assicurare protezione giuridica a chi, cittadino straniero, dovesse rendere alla procura di Roma testimonianza utile ad avvicinarsi alla verità sull' omicidio di Giulio Regeni.
«Regeni l’abbiamo sequestrato noi»: la confessione dell’agente egiziano. Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Oltre agli indizi, ora c’è una confessione, sia pure indiretta. Uno dei funzionari della National security egiziana sospettati del sequestro di Giulio Regeni ha raccontato di aver partecipato al «prelevamento» del giovane ricercatore italiano rapito al Cairo la sera del 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere una settimana più tardi: «Credevamo che fosse una spia inglese, lo abbiamo preso, io sono andato e dopo averlo caricato in macchina abbiamo dovuto picchiarlo. Io l’ho colpito al volto». È la sintesi di ciò che l’agente della sicurezza egiziana ha confidato a un collega straniero nel corso di una riunione di poliziotti africani, avvenuta in un Paese di quel continente nell’estate 2017. A rivelare l’episodio — che può rappresentare una svolta nell’inchiesta condotta dalla Procura di Roma sulla fine di Giulio — è una persona che ha assistito alla conversazione tra il funzionario del Cairo e il suo interlocutore. Un testimone occasionale, presente a un momento conviviale d’incontro, che ha potuto ascoltare e comprendere ciò che diceva l’egiziano perché conosce la lingua araba. Ora questa persona ha deciso di raccontare tutto ai legali e consulenti della famiglia Regeni, coordinati dall’avvocato Alessandra Ballerini che assiste i genitori di Giulio, i quali hanno messo queste dichiarazioni a disposizione dei magistrati romani. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco considerano la testimonianza attendibile, logica e congruente con altri elementi acquisiti nell’indagine, per questo nei giorni scorsi hanno inoltrato al Cairo una nuova rogatoria in cui chiedono informazioni che potrebbero fornire ulteriori riscontri. È l’atto di cui ha parlato ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rivelando di aver avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente egiziano Al Sisi: «C’è una rogatoria da perorare oltre che un aggiornamento della situazione libica». Per i magistrati italiani, che insieme agli investigatori del Ros dei carabinieri e dello Sco della polizia stanno cercando da oltre tre anni di raccogliere ogni elemento utile a scoprire la verità sul sequestro, le torture e l’omicidio di Regeni, con un’inchiesta parallela a quella della Procura generale del Cairo, le nuove dichiarazioni del testimone sono molto importanti. Il funzionario indicato dal testimone, infatti, è uno dei cinque che la Procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di sequestro di persona. Se infatti per gli inquirenti egiziani non ci sono elementi utili ad avviare un processo, secondo quelli italiani ci sono indizi sufficienti a ipotizzare il coinvolgimento del generale Sabir Tareq, del colonnello Uhsam Helmy, del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, dell’assistente Mahmoud Najem (tutti in forza alla Ns) e del colonnello Ather Kamal, all’epoca capo della polizia investigativa del Cairo e coinvolto anche nel depistaggio con cui si voleva chiudere il caso addossando ogni responsabilità a una banda di criminali comuni, uccisi in un presunto conflitto a fuoco. Finora ci si era basati essenzialmente sull’elaborazione dei tabulati telefonici e le testimonianze raccolte in Egitto, a cominciare da quella del sindacalista Mohamed Abdallah, il finto amico di Regeni che l’ha denunciato alla polizia del Cairo. Ora si aggiunge una prova testimoniale — sebbene de relato — che arricchisce la stessa ipotesi investigativa. Anche sul movente del sequestro. La persona che ha ascoltato la confessione ha indicato nome e cognome del funzionario perché l’ha visto consegnare al collega straniero il proprio biglietto da visita. Probabilmente gli interlocutori non sapevano che il testimone conosceva l’arabo, e il discorso è caduto su Regeni nell’ambito di uno scambio di considerazioni sulla repressione degli scontri di piazza. In questo contesto l’indagato egiziano ha rivelato che a gennaio 2016 la sua struttura indagava su Regeni, rapito il giorno in cui al Cairo c’era il timore di manifestazioni anti-regime, perché ricorreva l’anniversario della rivolta di piazza Tahrir. Il protagonista — secondo quanto riferito dal testimone — s’è soffermato sulle modalità dell’operazione, aggiungendo che dopo il sequestro Giulio fu picchiato. Anche da lui. In quel colloquio l’uomo non avrebbe detto nulla sulle successive torture e sull’esecuzione di Giulio, trovato morto il 3 febbraio sul ciglio di una strada. Nella rogatoria inviata in Egitto la Procura romana chiede lumi su altri nominativi individuati attraverso i tabulati telefonici e ulteriori testimoni da ascoltare, ma la parte più importante sono i possibili riscontri alla confessione che conferma e arricchisce il quadro probatorio costruito fin qui.
Regeni, si tace sulle colpe di chi lo espose e si vuole che Trieste eternizzi lo striscione. Un gruppo numeroso di cittadini e di universitari triestini e friulani s’è fatto promotore di una petizione volta a mantenere sul Palazzo della Giunta Regionale lo striscione per Giulio Regeni. Dino Cofrancesco il 27 giugno 2019 su Il Dubbio. Un gruppo numeroso di cittadini e di universitari triestini e friulani s’è fatto promotore di una petizione volta a mantenere sul Palazzo della Giunta Regionale lo striscione per Giulio Regeni. «Da più di tre anni, vi si legge, migliaia e migliaia di persone insieme a enti locali, università, scuole e associazioni chiedono la verità |…| Sembra impossibile che proprio nella città di Trieste, dove Giulio ha studiato, si tolga lo striscione che incita a trovare la verità sulle responsabilità per la sua sparizione, la tortura e l’uccisione». Del caso del ricercatore scomparso al Cairo e assassinato da agenti di polizia o da squadroni della morte, al loro servizio disposti a fare il lavoro sporco, si è parlato molto nel 2016. Ma nessun giornalista era stato più chiaro di Carlo Panella che su ‘ Huffingtonpost’— Le cattive maestre di Regeni del 17 febbraio 2016– aveva scritto : «Cosa si penserebbe di due professori che avessero assegnato a uno specializzando una ricerca sull’opposizione al regime di Pinochet, o di Videla nel periodo della loro massima ferocia repressiva? La risposta è scontata: che esponevano il loro sottoposto ( perché c’è una gerarchia tra professore e specializzando) a pericoli gravissimi e non giustificabili sotto nessun profilo. Bene, il regime di al Sisi è dieci volte più autoritario e pericoloso di quelli di Pinochet e Videla, anche perché combatte concretissimi e attivissimi jihadisti islamici. Ma Maha Abdelrahman dell’Universitá di Cambridge e Rabab El Mahdi dell’American University del Cairo, non si sono fatte scrupoli a spingere Giulio Regeni ad esporsi frequentando riunioni sindacali in cui si progettavano scioperi illegali e lo hanno incitato a prendere contatti con esponenti dell’opposizione. L’hanno usato cinicamente e irresponsabilmente per potere poi pubblicare, apponendo i loro nomi accanto al suo, i loro bei pamphlet accademici di denuncia tanto tanto politically correct e tanto utili per le loro carriere accademiche». ( Un articolo analogo aveva pubblicato sull’Occidentale del 12 aprile 2016, Daniela Coli, Ma l’Italia si mobilita per Regeni o contro Al Sisi? ) Delle colpe di chi ha messo in pericolo la vita di Regeni si continua a tacere mentre rabbia e risentimento sono rivolte al Rais, che si è comportato con un potenziale eversore venuto da fuori come continua a comportarsi con quelli di casa. Ci si chiede: ma cosa vogliono gli studenti di Trieste ( e quei professori che li sostengono?) Che al Sisi ammetta dinanzi alla comunità delle nazioni che il massacro di Regeni si deve, direttamente o indirettamente, a lui? Deve cospargersi il capo di cenere e chiedere perdono al mondo intero per il carattere poliziesco e illiberale del suo regime? E se non lo fa, l’Italia deve ritirare l’ambasciatore e rompere i rapporti col Cairo incurante, per ragioni di principio, della perdita di affari per milioni di euro? A tutti ( a destra come a sinistra) stringe il cuore, pensando alla sorte toccata a Giulio Regeni e si vorrebbe fare qualcosa per la sua memoria e ( soprattutto) per evitare il ripetersi di casi del genere ma c’è da scandalizzarsi se molti, non vedendo vie d’uscita, ritengono che lo striscione vada rimosso una buona volta anche perché di altre vittime da ricordare, a Trieste, ce ne sarebbero tante ( a cominciare dalle ‘ pulizie etniche’ che per qualche intellettuale militante del luogo non sarebbero state tali, dal momento che coinvolsero anche persone con cognomi slavi— slavi, sì, ma italianizzati da quattro secoli!).
Al di là di ogni considerazione di merito, però, sconcerta la pretesa di imporre a un Consiglio Regionale di centro- destra una battaglia ideale che la maggioranza dei suoi membri non sente. Quello striscione dovrà rimanere sulla facciata della Regione Friuli VG a tempo indeterminato, finché non verrà fatta giustizia? Neppure i dreyfusardi o i compagni di Giacomo Matteotti avrebbero forse chiesto tanto. In realtà, sorge il sospetto di una rivincita morale: in Friuli il centro- destra ha stravinto le elezioni regionali e a quanti non l’hanno votato sembra essere rimasta soltanto la gratificazione di sbattere sulla faccia dei vincitori un simbolo di antifascismo, di antisovranismo, di antinazionalismo, di anticapitalismo ( Regeni collaborava al ‘ Manifesto”). Agli uni i voti, agli altri la custodia dei valori repubblicani. Nel ventennio durante le sfilate dei gagliardetti e delle bandiere era imposto ai passanti l’obbligo di togliersi il cappello– anche ( e soprattutto) agli scettici e agli indifferenti. Se ci si riflette bene i tempi non sono cambiati, anche se, per fortuna, alla violenza fisica si è sostituita la gogna morale e la delegittimazione di quanti non onorano Che Guevara e i suoi fratelli. A Trieste si vuole imporre il pensiero fisso di Regeni a tutti indistintamente, anche a quelli che, al di là dell’umana pietas, ritengono la battaglia per «la verità sulle responsabilità per la sua sparizione, la tortura e l’uccisione» inutile o, comunque, non prioritaria. A ragione o a torto. Diventeremo mai liberali?
· Anatomia del complotto.
Anatomia del complotto. La balla verosimile non ha bisogno di prove. Lanfranco Caminiti il 17 luglio 2019 su Il Dubbio. La storia “parallela”. Da Pearl Harbour, a Portella della ginestra, da Marilyn a Lady d fino ai rubli e ai frigoriferi della Raggi. Anatomia del complotto. I politici ormai praticano con una certa familiarità il complotto: per dire, Salvini se n’è lamentato a proposito delle indagini sui traffici petroliferi all’Hotel Metropole durante il suo viaggio in Russia; la Raggi risolve così il problema della spazzatura di Roma. Ma quella del complotto è storia antica. Il complotto paga? Il complotto paga. Almeno, così è andata per Jaroslaw Kaczynski. Quando nel 2010 cadde l’aereo che trasportava Lech, suo fratello gemello, presidente della Polonia, insieme a importanti membri delle forze armate e politici di tutti i partiti, di destra e di sinistra, verso la città russa di Smolensk per visitare il memoriale di Katyn, dove nel 1940 Stalin aveva ucciso ventimila soldati e ufficiali polacchi, all’inizio sembrava credere che lo schianto dell’aereo fosse stato proprio un incidente, come d’altronde le indagini e le prove dimostravano. A poche ore dallo schianto, esperti forensi polacchi erano già sul posto. Erano state recuperate immediatamente le scatole nere e le registrazioni della cabina di pilotaggio spiegavano cosa fosse successo: il presidente, che doveva parlare a Katyn, era in ritardo e quando i controllori di volo russi avevano proposto di deviare la rotta dell’aereo per via della nebbia fitta il presidente non accettò. Secondo il rapporto ufficiale, che fu redatto dai maggiori esperti aeronautici polacchi, l’aereo aveva colpito un albero, poi terra, e poi si era spezzato. Dopo, però, Jaroslaw Kaczynski cambiò idea e usò l’incidente di Smolensk per “dimostrare” che la Polonia fosse sotto il dominio di un potere oscuro che dal 1989 ne determinava i destini. Cominciò a seminare dubbi ( c’erano state delle esplosioni a bordo? c’erano delle bombe?), a rimettere in discussione i risultati delle inchieste, a chiedere nuove commissioni di indagine, a rimuovere i procuratori. Quando accadde Smolensk, Jaroslaw era il capo di un partito dell’opposizione, Diritto e Giustizia, non proprio popolare. Nel 2015, dopo cinque anni di intensa “campagna” su Smolensk, che ebbe la sua apoteosi in un film che raccontava la «vera storia» dello schianto e dell’ «insabbiamento» – Kaczynski ha ottenuto la maggioranza dei voti. Il complotto paga? Il complotto paga. Anche Trump dev’esserne convinto. Nel 2011, alla Conferenza annuale della Political Conservative Action, un think tank, strillò: «Our current president came out of nowhere. Came out of nowhere / nessuno sa da dove venga il nostro presidente». Era il “cuore” della campagna del cosiddetto Birther Movement, quella “opinione” che metteva in dubbio la nascita di Barack Obama in territorio americano ( e un abile “nascondimento” della cosa), e chiedeva la produzione di un certificato di nascita. La cosa incredibile è che c’era davvero una quantità enorme ( repubblicana) di americani che si lasciavano convincere da questa “opinione”. Trump addirittura si spingeva oltre, promettendo di destinare 5 milioni di dollari in beneficenza se qualcuno fosse stato in grado di produrre certificati della frequentazione di Obama alla Columbia University: «The people that went to school with him, they never saw him, they don’t know who he is. It’s crazy / la gente che andava a scuola con lui, non se lo ricorda, non sanno chi fosse. È bizzarro». Beh, anche Trump è andato lontano. Perché la gente crede ai complotti? Perché c’è gente convinta che l’attacco alle Torri gemelle non sia stata opera di bin Laden e al Qaeda ma una “domestica congiura” ( delle agenzie nazionali? del Deep state?), in cui peraltro sarebbero morti più di tremila americani, per consentire al governo di avere mano libera per attaccare l’Afghanistan? Forse per lo stesso motivo per cui c’è gente convinta che Roosevelt sapesse dell’attacco giapponese a Pearl Harbor ma cinicamente lasciò che accadesse per convincere una riluttante America a scendere in guerra contro il nazismo. Prove? Nessuna ( a meno di non considerare “prova” alcune informazioni sugli spostamenti di navi giapponesi e la dichiarazioni di guerra consegnata a attacco già iniziato: e d’altronde, l’ammiraglio Yamamoto basava proprio sulla “sorpresa” dell’attacco la convinzione di potere fare a pezzi la marina americana e metterla fuori gioco). Ma non è questo che conta, per i complottisti, ma la verisimiglianza. È colpa del post- strutturalismo francese? Quella corrente, letteraria, filosofica, per cui non esiste un mondo “vero” ma punti di vista, sguardi sul mondo, e allora il mondo può essere raccontato, ri- raccontato, e di ogni vicenda, di ogni “personaggio” può essere detto tutto e il contrario di tutto, in un circolarità di versioni che si auto- affermano e si auto- contraddicono, perché ogni cosa è vera in quanto narrabile, anzi perché ogni cosa narrabile è perciò stesso vera. D’altronde, in inglese “complotto” si dice proprio “plot”, cioè trama. Il complotto contro l’America. È stato proprio un grande romanziere americano Philip Roth, a raccontare magnificamente un “complotto”, The Plot Against America, in cui immagina che Charles Lindbergh, il grande trasvolatore, abbia vinto le elezioni presidenziali del 1940 e deciso di tenere l’America lontano dalla guerra in Europa e anzi di farne uno stretto alleato della Germania nazista di Hitler e del Giappone dell’imperatore Hirohito. Nel romanzo, Lindbergh ( che nella realtà fu tra i promotori di America First Committee, principale gruppo non- interventista) e il suo staff danno progressivamente spazio all’antisemitismo fino a un “pogrom” e alla scomparsa dell’aviatore. Dopo di che sua moglie chiamerà a raccolta il “suo popolo” contro chi ha ereditato il potere e si svolgeranno nuove elezioni e vincerà Franklin Delano Roosevelt e l’America entrerà in guerra. E tutto riprenderà il suo corso. Qual è l’elemento potente di questo romanzo? La sua verisimiglianza: tutto è completamente inventato, eppure tutto poteva accadere davvero. Leonardo Sciascia disse una volta, a proposito di quello che lui stesso definì “l’affaire Moro”: «Si può sfuggire alla polizia italiana – alla polizia italiana così come è istruita, organizzata e diretta – ma non al calcolo delle probabilità. E stando alle statistiche diffuse dal ministero degli Interni, relative alle operazioni condotte dalla polizia nel periodo che va dal rapimento di Moro al ritrovamento del cadavere, le Brigate rosse appunto sono sfuggite al calcolo delle probabilità. Il che è verosimile, ma non può essere vero e reale».
L’affaire Moro e il bandito Giuliano. E il caso Moro di sicuro è uno di quegli episodi della storia dove le teorie complottiste si sono esercitate alla grande. E non parlo solo di Commissioni parlamentari o di parti politiche o di magistrati, ma proprio del “racconto popolare”. Perché secondo me, questo è un punto, le teorie del complotto sono “pop”. Prendiamo questa storia: una decina d’anni fa, su richiesta di uno storico serissimo, fu scoperchiata la tomba dove si presume siano i resti di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, che nell’immediato dopoguerra diede filo da torcere alla polizia italiana, spadroneggiando nelle campagne siciliane, fino a diventare il “nemico pubblico numero uno”, che però risultò “comodo” quando si trattò di fermare il movimento contadino rendendosi autore ( complice?) della strage di Portella della Ginestra, il Primo maggio del 1947. Lo storico che aveva chiesto la riesumazione non indicava con certezza a chi potessero appartenere gli eventuali resti non identificabili, e si limitava a ricordare che Giuliano, tra i tanti espedienti per depistare chi era sulle sue tracce con malevole intenzioni, aveva sempre un sosia, un giovanotto di Altofonte, a disposizione. Da sempre, un nutrito gruppo di politici e storici sostiene che dietro Giuliano ci fossero i servizi segreti alleati, inglesi e americani, persino fisicamente con i loro uomini, con l’intento di fermare a tutti i costi l’avanzata del «pericolo rosso». D’altronde erano lì sin dallo sbarco del 1943 e persino prima. La strategia della tensione, la perdita dell’innocenza, le operazioni sporche di pezzi dello Stato, nascerebbe tutto da lì, da quell’inestricabile ratking, nido di topi, in cui gli interessi economici s’intrecciavano a quelli politici e militari, condannando l’Italia a essere una nazione a sovranità limitata e allungando la loro ombra scura e perversa per decenni. La tomba di Giuliano e il corpo del bandito finivano così con il rappresentare l’arca di tutti i misteri. È davvero così? Come può accrescere la nostra consapevolezza storica, il fatto che dentro quella cassa ci siano o no i resti di Giuliano? E se si fosse scoperta vuota o si fossero trovate solo pietre sarebbe cambiato qualcosa? E, in quest’ultimo caso, dove sarebbe finito Giuliano? Credo che la storia di Salvatore Giuliano sia importante perché è stata la prima icona pop italiana. A dispetto di ogni evidenza fattuale, intorno la figura di Giuliano si sviluppò presto una narrazione sociale mitologica che ne faceva un “eroe popolare”. Si era a metà degli anni Cinquanta, e il cadavere di Giuliano era ancora caldo – fu ucciso la notte del 5 luglio 1950 –, si può dire. Ma già il suo mito si era consolidato. Inevitabilmente un’aura mitologica, la leggenda, cammina a fianco della storia, la rafforza o la indebolisce: può esserne la consacrazione o il disincanto. L’aura mitologica è un’operazione narrativa che viene sviluppata a volte dalle classi dirigenti – il nostro Risorgimento ne è pieno – e a volte dalla voce popolare. Più interessante è la promiscuità dell’intreccio. Con Salvatore Giuliano fu un’operazione complessa: Giuliano era intervistato e fotografato da inviati speciali di mezzo mondo: la sua storia, quella del bandito che teneva testa a uno Stato intero in nome di un vago separatismo e di una quarantanovesima stella sulla bandiera americana, aveva le copertine dei magazine internazionali. Giuliano era anche bello – una specie di Raf Vallone, attore comunista allora amatissimo – e fotogenico, virile: arrivava per le interviste a cavallo, col suo impermeabile bianco e il completo di fustagno, attraversato da una cartucciera, e la lupara in spalla. I rotocalchi, e non solo, impazzivano per lui: se ne invaghì perdutamente una corrispondente svedese. I giornali, insomma, alimentarono la leggenda del “personaggio” Giuliano, quando serviva l’interesse dei poteri. Ma è solo dopo la sua morte che prorompe il mito popolare: Besozzi ci mise del suo, con il famoso articolo su «l’Europeo» – «Di sicuro c’è solo che è morto» – fondando il filone del giornalismo dei misteri che ha fatto scuola per generazioni di giornalisti. La morte lo riscatta, il tradimento del cugino Pisciotta, che poi finirà avvelenato in carcere come parecchi anni più tardi Sindona, in combutta coi carabinieri lo riscatta, riscatta la storia vera delle sue alleanze coi latifondisti e contro i contadini. Qualunque malvagità avesse potuto fare Turiddu, lo Stato era ancora più malvagio. Ma questa in fondo è la trama del pop. Forse quanto diceva Propp per le fiabe di tutto il mondo, in cui lo schema narrativo ricorre identico a qualunque latitudine e in qualunque lingua o dialetto, potrebbe dirsi del pop.
Che si tratti di Elvis, nelle mani perfide del colonnello Parker, della povera Marilyn, alla mercé di pillole e Fbi, o di Lady D, vittima di un complotto dei servizi inglesi a difesa della famiglia reale, la narrazione pop strappa il personaggio alla sua realtà storica, raccontando una verità parallela, controfattuale, spesso conflittuale e rovesciata – Giuliano diventava l’eroe dei contadini – che ne impedisce l’oblio. Il “falso” sbarco sulla luna. Tutte le analisi condotte da istituti serissimi nel mondo confermano questo dato: crediamo ai complotti perché siamo terribilmente in ansia e in crisi, perché non ci fidiamo dei potenti, e perché raccontarsi una storia “alternativa” semplifica la complessità del mondo e ci fa credere di non essere tanto fessi da berci tutte le cose che ci propinano. La storia del “falso sbarco” sulla Luna è esemplare: nonostante prove e controprove – ci sono anche le immagini di un satellite giapponese che fotografò resti della missione dell’Apollo 11 sul suolo lunare – c’è ancora tanta gente convinta si sia trattato di una operazione messa in piedi dal governo americano per raccontare al popolo americano che erano in grado di reggere e vincere la sfida con i sovietici, ma si trattò solo di un’abilissima messa in scena in un set hollywoodiano. Basterebbe solo chiedere come mai proprio i russi, che allora erano benissimo in grado di “sorvegliare” la situazione, abbiano sempre fatto pippa, invece di mentire clamorosamente questa storia che appunto li danneggiava. L’effetto boomerang. Ma questo è un altro punto: analizzare i dati, portare elementi concreti di certificazione in grado di smantellare ogni falsificazione, non fa indietreggiare il complottista, anzi, pare si instauri un effetto boomerang. Tanto più si smascherano le prove, tanto più significa che chi ha organizzato il complotto s’è fatto furbo. Il complotto è indimostrabile, ma nello stesso tempo non può essere smantellato. Sembra il “paradosso del mentitore: «La frase seguente è vera. La frase precedente è falsa». I politici ormai praticano con una certa familiarità il complotto: per dire, Salvini se n’è lamentato a proposito delle indagini sui traffici petroliferi all’Hotel Metropole durante il suo viaggio in Russia; la Raggi risolve così – verso oscure burocrazie e trasversali resistenze – il problema della spazzatura di Roma, quando non sfiora il ridicolo, il grottesco parlando di “complotto dei frigoriferi” perché aveva “notato” un inusuale aumento di elettrodomestici abbandonati vicino ai cassonetti proprio quando lei tentava di mettere ordine. Il maestro Silvio. Berlusconi era un maestro nel recitare la parte della vittima di un accanimento di indagini sul suo conto – un vero “complotto” di una parte della magistratura, da cui ogni vota usciva innocente e ogni volta si ricominciava. Magari, non aveva sempre torto. E qui è il problema: che a furia di millantare protocolli dei Savi di Sion, piani Kalergi, sopraffazione del miliardario Soros, oscure trame del gruppo Bildeberg, e via di questo passo – si perde di vista il fatto che c’è una realtà dove davvero si organizzano trame. Che è un connotato, come dire, “naturale” della lotta per il potere e della teoria politica connessa, almeno da Machiavelli. Ma che a furia di evocarlo, si finisce con il farne metafisica del potere, con lo stancarsene. Questo dicono molte indagini: che chi è più propenso a credere ai “complotti” è più propenso a abbandonare la vita democratica, quella delle elezioni, della partecipazione civile, della vigilanza e della mobilitazione sociale – che tanto, a che servirebbe? Stanno tutti pappa e ciccia. E qui sta il pericolo.
· 11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia).
11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia). Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. L’Ustica francese. Con i silenzi, le tante verità e niente giustizia. L’11 settembre 1968 un Caravelle in servizio tra Ajaccio (Corsica) e Nizza precipita al largo di Antibes, Francia del Sud-Est. Novantacinque le vittime per un disastro probabilmente causato da un missile. Anche se questo non è il verdetto ufficiale. Come per il mistero del Dc 9 Itavia anche quello francese è stato segnato da ritardi e indagini non accurate. L’inchiesta dirà che il velivolo si è inabissato per un incendio a bordo scoppiato per cause che non è stato possibile accertare. Gli esperti escluderanno la collisione. Spiegazioni che non hanno mai convinto. Nel corso degli anni sono emersi elementi che hanno spinto a considerare uno scenario tragico. Il Caravelle potrebbe essere stato centrato proprio da un missile durante un’esercitazione aeronavale, a tirarlo una nave della Marina francese. Un errore devastante che porta via tanti innocenti. Spunteranno testimonianze, non sempre facili da verificare. Sulla presenza di una scia luminosa in coda all’aereo vista da un pescatore. Su nastri sequestrati. Su rapporti mancanti o svaniti, compreso uno sulla fregata Suffren, in navigazione nel settore dove è avvenuta la sciagura. Non mancheranno racconti sull’uso di un ordigno di nuova generazione che avrebbe colpito il Caravelle. Vi saranno presunte «confessioni» di persone che sapevano o sono venuta a conoscenza di elementi inquietanti che portano in una sola direzione: quella del missile. Tutto circondato da smentite e resistenze. Per questo, un anno fa, il giudice Alain Chemama ha chiesto a Parigi che sia tolto il segreto di stato in quanto vi sarebbero documenti, carte e dati raccolti all’epoca e mai resi pubblici.
· Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità.
Servizi segreti e sospetti, la Repubblica dei gialli infiniti. Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 su Corriere.it da Antonio Polito. La nostra democrazia è nata «a sovranità limitata». E spesso si cerca una ricostruzione «occultista» della storia che deresponsabilizza i vincenti e giustifica gli sconfitti. La sottile linea d’ombra che separa i «Servizi» dai «servizietti» è da sempre un cruccio delle democrazie. Avvolti per dovere d’ufficio dal segreto, è difficile discernere quando agiscano nell’interesse nazionale e quando nell’interesse del governo del momento, o peggio ancora di un governo alleato del momento. Perché i due interessi non necessariamente coincidono. Soprattutto nell’Italia post-ideologica dei nostri tempi, in cui le maggioranze si ribaltano dalla sera alla mattina, e un povero premier come Conte può essere colto dalla richiesta di aiuto da parte di Trump mentre è a metà del guado tra Salvini e Renzi. E così, oltre all’interesse nazionale, può smarrire anche quello politico. Il mistero del caso Conte, il presidente del Consiglio italiano che autorizza il Procuratore generale degli Stati Uniti a fare riunioni con i nostri 007, va dunque ad aggiungersi, seppure in tono (molto) minore, alla lunga trama di misteri di cui è inestricabilmente intessuta la storia della Repubblica. Rilanciando di conseguenza le teorie cospirative più fantasiose, come quella secondo cui l’espulsione di Salvini dal governo sarebbe addirittura paragonabile a quella di Togliatti nel ’47, che De Gasperi fece fuori dopo un lungo viaggio negli Usa. Versione che sorvola sul piccolo dettaglio che è stato lo stesso Salvini a far cadere il governo di cui era parte, favorendo così il complotto di cui si dice vittima. Perché il mistero ha questo di bello: consente una ricostruzione «occultista» della storia patria (una volta, nella ricerca della prigione di Aldo Moro, comparve perfino una seduta spiritica), che giustifica gli sconfitti e deresponsabilizza i vincenti. È infatti ormai storiografia accettata l’idea che la nostra sia nata come una democrazia «a sovranità limitata», dunque «protetta», perché destinata a un Paese trattato nella spartizione del dopoguerra come un semi-protettorato americano. Sono interpretazioni esagerate, che svalutano l’agire politico di grandi masse di uomini e donne sulla scena della storia, per privilegiare il retroscena del potere. Ma è pur vero che fin dall’atto di nascita della Repubblica il mistero la avvolge. I risultati del referendum istituzionale si fecero aspettare così tanto, e sembrarono a lungo così incerti, che i monarchici attribuirono a sicuri brogli la loro sconfitta. E si deve solo al senso di responsabilità di Umberto II, il «re di maggio», (e a chi lo consigliò) se fece le valige e andò in esilio, senza cercare lo scontro. Servizi e militari, che poi spesso coincidono, sono stati protagonisti anche del lungo braccio di ferro tra la democrazia «dissociativa», che voleva tener fuori la sinistra dell’area della legittimità a governare, e quella «consociativa», che invece puntava ad assorbirla. Quando nel ’64 entrò in crisi il primo governo di centrosinistra con i socialisti, e mentre Aldo Moro trattava con Nenni un nuovo programma più radicale di riforme, fu il generale dei Carabinieri de Lorenzo a far sentire al leader socialista quello che lui chiamò «un tintinnio di sciabole», avvisaglie di un potenziale colpo di stato che avrebbe avuto addirittura al Quirinale, nella figura del Presidente Antonio Segni, il suo lord protettore. Fu sulla base dei dossier del Sifar, il servizio segreto militare, che venne compilata la lista delle centinaia di persone da deportare, se fosse scattato il «Piano Solo», a Capo Marrargiu, una base in Sardegna. Mistero su mistero, il giorno dopo la soluzione della crisi, in un tempestoso colloquio sul Colle tra Moro, Saragat e Segni, quest’ultimo venne colpito dall’ictus che l’avrebbe presto indotto ad opportune dimissioni. Il mistero, ahinoi, avvolge ancora molti degli esecutori materiali, ma non più dei moventi, di quella che il giornale inglese The Observer chiamò la «strategia della tensione»: un’incredibile scia di bombe e stragi che condizionò la nostra democrazia negli anni ’70, fino a lasciare poi il testimone al terrorismo rosso e alla sua ferocia. L’obiettivo era quello della «stabilizzazione» della situazione politica. Giovanni Bianconi ha di recente raccontato su La Lettura che, quattro mesi dopo la bomba di piazza Fontana (a dicembre di quest’anno ricorrono i cinquant’anni), un documento dell’amministrazione americana, allora guidata da Nixon, istruiva i servizi segreti su che cosa fare per evitare il «pericolo dell’insorgenza comunista» in Europa occidentale. Il «manuale» suggeriva azioni di destabilizzazione, «violente o non violente», utili a «stabilizzare» i governi. Notate la sottigliezza: l’obiettivo non era il golpe, ma diffondere la paura del golpe, per sconsigliare gli italiani dal tentare nuove avventure politiche. Poiché il mistero è ambivalente, lo si può usare anche rimuovendolo: come fece Andreotti quando nel ’90 rivelò l’esistenza di Gladio, una organizzazione paramilitare promossa dalla Cia, pronta ad agire in caso di invasione comunista dell’Italia. A rileggere oggi la sequenza degli attentati di quegli anni viene da chiedersi come abbia fatto la democrazia italiana a reggere. Nel solo 1974 ci furono due delle peggiori stragi terroristiche della nostra storia, quella di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e quella sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (12 morti). Da allora la «strategia» mutò. Il Pci aveva infatti continuato a crescere, ottenendo la vittoria nel referendum sul divorzio, proprio nel 1974, e poi con lo sfondamento elettorale del biennio ’75-76. Sarà un caso, ma da quel momento al posto delle bombe partì l’attacco delle Brigate Rosse, profeticamente annunciato dal generale Miceli, capo del Sid (Servizio informazioni della difesa) al giudice che lo inquisiva; un ben più sofisticato effetto avrebbe avuto sulle sorti della democrazia consociativa, chiudendone di fatto la storia con l’omicidio di Aldo Moro. Naturalmente l’89, la caduta della Cortina di ferro e la fine dell’Urss e del mondo di Yalta, hanno fatto dell’Italia un paese per nostra fortuna più «normale», non più frontiera tra i due blocchi, crocevia di spie. I nostri Servizi non sono più inquinati da trame eversive. Ma sul nostro territorio si continuano a combattere battaglie, seppure ormai svuotate di ogni motivazione ideologica o geopolitica, e più che altro figlie degeneri di lotte di potere interne alla politica contemporanea: quella tra Trump e il Congresso è una di queste. Il rischio che gli 007 finiscano per essere usati come cortigiani del potere, non è però meno grave per una democrazia che non voglia sentirsi più «protetta». L’abitudine alla «sovranità limitata» è dura da estirpare, soprattutto in certe stanze.
Volevano uccidere la democrazia: il libro dell'Espresso per non dimenticare. I morti sono diciassette, i feriti ottantotto. Ma l'attentato di Piazza Fontana mirava al cuore della Repubblica. Un disegno neofascista che le inchieste del nostro giornale raccontarono in presa diretta. Che fu confermato dalle sentenze. E che è fondamentale rileggere oggi. Con il volume “Gli anni delle stragi - 1969-1984”. Bruno Manfellotto il 5 dicembre 2019 su L'Espresso. Anniversari e commemorazioni rischiano talvolta di tradursi in stanchi rituali fatti di meste celebrazioni e presenze d’obbligo. Viceversa possono diventare occasione di riflessioni più attente, pretesto per rileggere vicende che alcuni vorrebbero semplificare, altri rimuovere, e che invece ancora pesano sul presente. Specie quando si tratta di eventi che hanno frenato progresso, modernizzazione, sviluppo democratico del Paese. Bene, noi abbiamo scelto questa seconda strada, certo più impegnativa ma più sincera, con un libro dell’“Espresso” che i lettori troveranno in edicola da sabato 7 dicembre: “Gli anni delle stragi - 1969-1984”. Il racconto di quindici drammatici anni di terrorismo nero. La data chiave, quando tutto comincia, è il 12 dicembre 1969, giorno in cui una bomba devasta la Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La folla che qualche giorno dopo si raccoglie in piazza del Duomo per i solenni funerali delle vittime testimonia lo sbigottimento di una città dalle solide radici democratiche, ma anche la volontà di non farsi sopraffare dai professionisti del terrore. Il nostro lavoro, però, non si ferma qui, ripercorre infatti la lunga fase che da quel sangue prende il via e si dipana fino al 23 dicembre 1984, cioè fino al deragliamento del Rapido 904, la cosiddetta strage di Natale, l’attentato che chiude il tragico ciclo dello stragismo nero e apre il capitolo oscuro della guerra mafiosa a colpi di bombe. Spesso però alimentata, organizzata o partecipata dagli stessi neofascisti.
"Gli anni delle stragi - 1969-1984”. Sono gli anni in cui si fa strada nel Paese anche il terrorismo rosso che si affida a modalità di morte diverse - non sparare nel mucchio, “colpirne uno per educarne cento” - e che nel 1978 sarà protagonista di un’altra tragedia che segnerà per sempre la storia italiana: il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. I due fenomeni, in un certo senso speculari, trovano comoda giustificazione l’uno nell’altro e si affermano entrambi grazie all’incapacità della politica di arginarli o di tagliare le radici che li alimentano. Anzi, nel caso del terrorismo nero, del quale si occupa il nostro libro, sono addirittura pezzi dello Stato a coprire, ignorare se non spingere all’azione i colpevoli. Per ricostruire quelle vicende ci siamo affidati alle cronache e alle analisi delle grandi firme dell’“Espresso”, testimoni diretti dei fatti, ostinati nello smentire le facili verità ufficiali. Il volume è diviso in tre capitoli principali, illustrati con uno straordinario apparato fotografico: la rabbia e le bombe dei primi mesi del 1969, sorta di prova generale delle tragedie successive; l’ondata nera del neofascismo risorgente nelle piazze e nelle istituzioni; il racconto delle stragi - da piazza Fontana a Peteano, dalla Questura di Milano a piazza della Loggia, dall’Italicus alla Stazione di Bologna alla Strage di Natale - attraverso gli articoli di chi c’era e indagò, come Cederna, Scialoja, Catalano, Giustolisi, De Luca, e i commenti di Bobbio, Valiani, Villari, Bocca. Seguono il punto su com’è andato a finire il lungo e spesso inconcludente iter giudiziario; l’elenco delle vittime, crudo spoon river di quegli anni; una rassegna dei personaggi e interpreti; una cronologia completa; l’indice dei nomi. Ogni capitolo, inoltre, è introdotto da un saggio scritto per noi da tre storici che i lettori dell’“Espresso” conoscono bene. Guido Crainz ricostruisce nel dettaglio lo sfondo sul quale quegli avvenimenti si svolsero, «la stagione riformatrice più incisiva della storia della Repubblica» che la strategia della tensione provò a colpire e a fermare; Benedetta Tobagi indaga invece sul buco nero delle indagini e dei processi, su questi cinquant’anni senza verità pieni invece di sospetti, di indagati assolti, di colpevoli ignorati; Miguel Gotor si interroga invece sul ruolo svolto dai servizi segreti, sulle ambigue commistioni con la politica e sui depistaggi, chiedendosi provocatoriamente se si sia trattato non di deviazioni, ma di decisioni che nascevano dell’effettiva volontà di apparati dello Stato. A questo punto è legittima una domanda: perché tanti anni dopo parlare ancora di sangue, bombe, stragi, fatti lontani? Per più di una ragione. La prima è il dovere di coltivare la memoria: guai a quel Paese che sceglie di dimenticare per non giudicare. Poi c’è la necessità di riflettere ancora sul contesto storico in cui esplode l’orrore. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta l’Italia avvia un periodo importante di cambiamento e di crescita: conquista diritti, pretende riforme, chiede di contare di più. Operai e studenti prendono coscienza del loro ruolo e scendono in piazza, il sindacato si rafforza e si impone (perfino tra i poliziotti). È il sostrato che, una decina d’anni dopo l’ingresso dei socialisti nella “stanza dei bottoni”, porterà la sinistra a una inimmaginabile vittoria elettorale. È proprio contro questo insieme di fermenti e di movimenti, come argomenta molto bene Crainz, che si scatena il terrorismo nero. C’è poi una terza ragione. A cinquant’anni da piazza Fontana, non si conosce tutta la verità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia. Nel libro ne troverete tutta la storia e scoprirete che, per paradosso, la verità che inquirenti e magistrati sono riusciti a ricostruire è ben più ampia di quella ufficiale delle sentenze. Se questo è stato possibile lo si deve anche alla tenacia investigativa di alcuni cronisti, in prima linea quelli dell’“Espresso” che da subito non si fidano delle fonti ufficiali. Una grande lezione di giornalismo. Resta un’ultima constatazione. Per quindici anni l’Italia è stata trasformata in un campo di battaglia da terroristi armati, spesso in combutta con apparati dello Stato. Eppure ce l’ha fatta, perché ha combattuto e vinto difendendo valori condivisi scritti nella Costituzione, e proprio grazie a questi imponendosi. Bisognerebbe ricordarsene ogni volta che qualcuno cerca di rimettere in discussione quelle fondamenta.
Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità, scrive il 4 aprile 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. “Quattro vicende, ottantacinque morti, nessuna verità”. Questa frase, che compare nella presentazione del libro “Segreti e intelligence. Ustica, Ilaria Alpi, Nicola Calipari, Giulio Regeni”, recentemente pubblicato per Mursia da Andrea Foffano, saggista ed esperto di servizi segreti, rende bene l’allucinante situazione di alcuni dei più clamorosi fatti della cronaca italiana dell’ultimo ventennio. Fatti che sono davvero rimasti, almeno per il grande pubblico, senza una spiegazione chiara. Il saggio di Foffano si occupa di provare a fornire delle risposte. “La verità – spiega l’autore - è merce rara e non solo in Italia. Purtroppo, in situazioni nelle quali determinati interessi economici e politici si intrecciano con specifici equilibri sociali nazionali, il raggiungimento della completa, amara e indigesta verità spesso non si trova annoverata tra quegli obiettivi primari, che vengono perseguiti con ogni mezzo e ad ogni costo. Dobbiamo però saper distinguere tra due tipi di verità: quella giudiziaria, il cui raggiungimento è esclusivo compito della magistratura; quella storica, in nome della quale gli analisti e i ricercatori di tutto il mondo lavorano e faticano ogni giorno”. Il libro di Foffano, chiaramente, si focalizza sul ruolo dell’intelligence, che spesso viene accostata alle azioni più turpi e ai segreti più scomodi. “Io credo – prosegue Foffano – che il ruolo dei servizi d’informazione e sicurezza nazionali e internazionali sia stato trasversale in tutte e quattro queste vicende. Ma attenzione: più che di responsabilità, io ribadisco che parlerei di ruolo. Il compito dell’intelligence è sempre stato quello di raccogliere e analizzare le informazioni, confezionando rapporti di previsione o ausilio per il decisore politico. Io credo che nel corso della storia nessun appartenente ad alcun servizio d’informazione e sicurezza si sia mai sognato di uccidere o far uccidere delle persone, specie di propria spontanea volontà. L’intelligence è da sempre un reparto al servizio del Governo nazionale e delle istituzioni democratiche. È quando queste ultime lo diventano un po’ meno, che nasce la possibilità che capitino tragedie come quella che ha coinvolto il povero Giulio Regeni”.
Regeni che, si è ipotizzato, potrebbe aver collaborato con servizi di intelligence stranieri. “Giulio Regeni – commenta al riguardo Foffano – era un giovane ricercatore dell’università di Cambridge. Io ritengo che il modo orrendo in cui è stato ucciso imponga all’Italia di non fermarsi nella continua ricerca della verità. Tutti noi lo dobbiamo alla sua famiglia e a tutti i nostri connazionali che attualmente vivono in Egitto. I rapporti tra i due Paesi hanno subito pesanti ripercussioni dopo l’episodio. Negli ultimi tempi si sta progressivamente andando verso una normalizzazione, ma spero vivamente che la morte di Giulio Regeni non finisca per perdere rilevanza o, peggio ancora, per essere dimenticata. Sarebbe una tragedia nella tragedia”.
Un caso simile è quello di Ilaria Alpi, della quale si disse che aveva trovato delle verità scomode, fatto che potrebbe averne generato l’uccisione. “È stata una delle ipotesi più accreditate nel corso degli anni – spiega Foffano – formulate da diversi tra giornalisti e studiosi. La Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Alpi-Hrovatin, però, ha smentito questa tesi, considerando l’episodio come conseguenza diretta di un atto banditesco. In ogni caso, ancora oggi dubbi e perplessità permangono insoluti nelle opinioni di molti esperti. Nel libro cerco di analizzare l’intera vicenda nella maniera più oggettiva e critica possibile, conducendo il lettore attraverso un intricato labirinto di misteri e mezze verità”.
Per quanto invece riguarda Calipari, commenta l’autore: “il sacrificio di un eroe dovrebbe essere sempre evitato, in tutti i modi possibili. Nicola Calipari è caduto nell’adempimento del dovere. Ha portato a termine la sua missione: ha portato in salvo l’ostaggio. Nel farlo ha perso la vita, in circostanze ancora oggi non completamente chiare, vista la conflittualità che si evince tra la versione italia e quella americana”.
Quello di Ustica, pur se si tratta di un fatto diverso, è un altro mistero irrisolto. Ma, in realtà, dice Foffano: “rispetto a quanto ho scritto nel libro, posso anticipare un dato importante: nella sentenza del Giudice Istruttore Rosario Priore si trovano molti elementi in grado di condurci a ipotizzare cosa accadde realmente quella notte. E’ un documento importantissimo di più di 5mila pagine contenente tabulati radar e perizie legali, da cui sono partito per il mio lavoro”. Un lavoro che si preannuncia come indubbiamente interessante.
Ora basta con le due opposte verità su Ustica. A quasi 39 anni dalla strage, la giustizia penale è certa che si trattò di una bomba, mentre quella civile crede al missile. Un saggio fa chiarezza. Panorama il 26 giugno 2019. Trentanove anni sono trascorsi dal 27 giugno 1980: e forse 39 anni dovrebbero bastare, per ottenere la verità, o almeno per ottenere una sola versione accreditata (e credibile) dei fatti. E invece, nel triste anniversario della strage di Ustica, con i suoi 81 poveri morti, continua l’oscena danza macabra di due opposte verità giudiziarie: ufficiali ma contrastanti. A descrivere la storia, con serietà e studio approfondito dei documenti, ora c’è anche un saggio: ''Ustica i fatti e le fake news" di Franco Bonazzi e Francesco Farinelli. Il saggio (Logisma editore, 368 pagine, 16 euro) conferma gli esiti della sentenza penale, definitiva e inoppugnabile, del 2006. Frutto di una lunga istruttoria, di un processo durato 272 udienze con oltre 4mila testimoni, e di 11 perizie affidate a tecnici di primissimo piano, quella sentenza della Cassazione stabilisce in modo certo che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia, precipitato nel Tirreno lungo la rotta Bologna-Palermo, non cadde per colpa di un missile ma per una bomba. Alla fine di un procedimento che aveva messo insieme quasi 2 milioni di pagine d’istruttoria, con quella decisione di 13 anni fa i supremi giudici hanno assolto dall’accusa di depistaggio i generali dell’Aeronautica militare italiana. Indifferente alle certezze della giustizia penale, esiste però un opposto labirinto di processi in sede civile che ha avvalorato la tesi del missile. Tra le ultime, compare una sentenza della Cassazione del giugno 2017 che ha condannato lo Stato a risarcire con altri 55 milioni di euro i familiari delle 81 vittime. I magistrati della Cassazione civile si sono convinti (a dire il vero con incertezze) che l’incidente del volo Itavia si verificò “a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente a esso, di un velivolo militare nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, e quale diretta conseguenza dell’ esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9”. Uno dei motivi di questa assurda giustizia bifronte va cercato negli effetti risarcitori delle due sentenze: se la causa riconosciuta della strage è la bomba, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza dell'aereo ricade sull'Itavia (fallita); se è un missile, invece, la responsabilità cade tutta sullo Stato italiano, che avrebbe dovuto prevenire ed evitare l'evento. E da tempo lo Stato si è fatto carico dei risarcimenti: nel 2004 i 141 familiari superstiti hanno ottenuto un vitalizio di 1.864 euro netti mensili rivalutabili, per un totale di altri 31 milioni al 31 dicembre 2014. Si stima che lo Stato spenda circa 4 milioni di euro l’anno in vitalizi. Ora il saggio di Bonazzi e Farinelli cerca di distinguere il vero dal falso, e vuol fare giustizia anche della mitizzazione di tante verità senza alcuna prova. È un saggio coraggioso, perché cerca di separare i fatti dalle false notizie attraverso una doviziosa analisi delle fonti e dei documenti maturati in ambito politico, in quello giudiziario e in quello tecnico-scientifico. Ma intanto all’assurdità della giustizia bifronte si è aggiunto un altro capitolo assurdo, se possibile ancora più grave e politicamente rilevante. Nella scorsa legislatura, i parlamentari della commissione d’inchiesta sul caso Moro avevano scoperto l’esistenza di documenti segreti dai quali emergerebbe con chiarezza la possibilità di un coinvolgimento diretto del terrorismo palestinese nella caduta dell’aereo. Secondo quei documenti, insomma, a far cadere il Dc9 sarebbe stata una bomba che il Fronte di liberazione della Palestina avrebbe piazzato sull’aereo come mostruosa ritorsione per l’arresto di alcuni suoi militanti in Italia. Perché non scavare in quella verità alternativa? L’ex senatore e ministro Carlo Giovanardi ha più volte chiesto al governo di togliere il vincolo del segreto di Stato da quelle carte, senza mai ottenere risposta. "È davvero assurdo e vergognoso che le nostre istituzioni continuino a parlare del dovere di ricercare la verità su Ustica " dice Giovanardi “quando il primo a nasconderla è proprio il governo italiano".
· Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).
FU UN ASSASSINIO SU COMMISSIONE? Forse una svolta nel barbaro eccidio di Alcamo. Da indiscrezioni confermata questa ipotesi -1 due CC sarebbero stati uccisi per caso dai malviventi che preparavano un sequestro. Sembra che il personaggio preso di mira fosse l’on. Sinesio, grosso esponente DC - Lo strano comportamento di «Dino u pazzu». Vincenzo Vasile martedì 17 febbraio 1976, pag. 5, L’Unità. C’è una svolta nelle indagini sul barbaro eccidio dell'appuntato Salvatore Falcetta e dell'allievo Carmine Apuzzo, trucidati a pistolettate la notte del 27 gennaio dentro la casermetta di Alcamo Marina: così sembra, stando alle indiscrezioni che circolano alla vigilia della presentazione al magistrato del rapporto elaborato sulla vicenda dal nucleo investigativo dei carabinieri, prevista per domani. Naturalmente, visti i precedenti. bisogna prendere tutto co' beneficio dell'inventario. Però — a quanto sembra — sarebbe innanzitutto ormai i accertato che non era semplicemente «dimostrativo» lo scopo prefissato dal commando composto da Giuseppe Vesco, Giuseppe Ferratelli, Gaetano Sant' Angelo, Giovanni Gulotta e Giovanni Mandala, con l'uccisione dei due militari e l'irruzione. quella tragica notte, nel posto fisso della frazione balneare semideserta di Alcamo. Circola voce. anzi, che il massacro dei due carabinieri sarebbe avvenuto praticamente «per caso» e che cioè uccidere i due militari sarebbe divenuto necessario, una volta che uno dei due carabinieri, svegliatosi di soprassalto, aveva riconosciuto alcuni degli intrusi. La banda — si dice — nella stazione di Alcamo Marina, in realtà, cercava armi, bandoliere, divise e pilette rifrangenti. Quanto occorreva ad un regista accurato — con tutta probabilità esterno al gruppo di « mezze figure » che «sinora sono state individuate — per predisporre un tranello, un sequestro. Dal formicaio di voci che sembra essersi scoperchiato, è uscito anche un nome, quello di un esponente democristiano, il sottosegretario ai trasporti, Giuseppe Sinesio, che sarebbe il « grosso personaggio » da rapire, di cui si è insistentemente parlato in queste ore. In serata, comunque, questa circostanza è stata « fermamente smentita » dagli investigatori. Nel rapporto che sarà consegnato domani all'autorità giudiziaria, figurerebbero. comunque, oltre ai nomi dei cinque, anche altre due o tre persone sulla cui identità, per non intralciare l'inchiesta, vice il riserbo. Ed il fatto è che. indiscutibilmente, delle svariate versioni interpretative che sono circolate in questi giorni sul massacro di Alcamo, nessuna ancora soddisfa e convince pienamente. C'è financo chi ha parlato, a proposito dell'eccidio, di un «delitto gratuito ». Ma come pensare che un «raptus» » inconsulto abbia condotto questi quattro ragazzi e questo botta-sofìsticatore di vini dentro la casermetta di Alcamo Manna ad uccidere, con tecnica da professionisti i due carabinieri? Le «arance meccaniche » non crescono facilmente in una zona di solidi equilibri mafiosi come questa. «La Mafia non c’entra» ha sostenuto qualcuno degli inquirenti all'indomani dell’eccdio. con una fretta ed una sicumera che appare eccessiva, pensando solo a questo scenario che è, come testimonia anche l'inconfondibile « identikit » del p:ù anziano dei banditi, il 34enne sofisticatore di v.ni di Partinico. Giovanni Mandalà, lo scenario ben noto di una zona dove arricchimenti rapidi, violenza criminale, equilibri politici, fortune elettorali recano spesso un'unica matrice mafiosa. I dubbi non sono affatto dissipati: tre delie quattro confessioni, come si ricorderà sono state ritrattate. I giovani arrestati hanno addirittura lanciato accuse contro i carabinieri. Hanno detto di essere stati picchiati, costretti a firmare. Al verbale che è all'esame del magistrato, è stata aggiunta questa dichiarazione di Vincenzo Ferrandoli: « E" tutto falso: mi hanno messo in testa un cappuccio. m'hanno condotto fuori della caserma e hanno detto: ora ti fuciliamo ». I carabinieri hanno replicato sostenendo che gli interrogatori si sarebbero svolti alla presenza dei difensori d'ufficio. Ma rimane ancora da spiegare come e perché, se il fermo di Vesco — quello che ha confessato per primo — e avvenuto mercoledì, la procura e stata lasciata all'oscuro di tutto sino al giorno dopo. « C'è una banda — commenta stupito un investigatore — che si macchia d'un delitto casì infame correndo rischi terribili. E poi. tutto all’improvviso, uno di loro, il Vesco, si fa trovare praticamente con le mani nel sacco; indica i nomi dei complici, infine conduce gli inquirenti quasi per mano nel luogo dove essi troveranno tutti i riscontri obiettivi, tutte le prove; un garage di Partinico, dove c'è mezzo milione in contanti, la refurtiva, rimasto pressoché intatto, e poi le bandoliere e le divise». Un particolare singolare che fa pensare ad un cervello esterno alia banda Vesco Mandalà: Dino u pazzu, custode del garage deposito di Partinico, aveva utilizzato una piccolissima parte del bottino (tremila lire in tutto) per le piccole spese ed aveva annotato il fatto in una specie di «libro mastro». come se, all'occorrenza. esso avesse dovuto essere esibito ad un regista dietro le quinte. Di simili mister è stato contrassegnato anche tutto il complicato e contraddittorio svolgersi delle indagini. Cosi e nata l'inquietante ridda di notizie contraddittorie; di nervose e polemiche smentite e controsmentite a distanza, che le vane polizie che si occupano di questo tragico caso sono andate diramando in questi giorni, malgrado le violente e pubbliche reprimende ad uso interno che sono state fatte dal comandante generale dell'Arma, e dal questore di Trapani, a proposito di presunte, e a tuttora imprecisate « piste terroristiche. Vincenzo Vasile
È doveroso puntualizzare , che le persone, i cui nomi sono citati nell’articolo, che furono accusate all'epoca, sono state tutte assolte.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta). Francesca Scoleri su themisemetis.com il 12 Luglio 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Era la notte del 27 gennaio del 1976 , quando un commando fece irruzione nella casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani e uccise i carabinieri Apuzzo e Falcetta. Le indagini furono condotte dal Colonnello Russo, ucciso un anno dopo a Ficuzza da un commando agli ordini di Totò Riina. Dopo circa quindici giorni dal duplice omicidio, una volante dei carabinieri, fermò un giovane di Alcamo, tal Giuseppe Vesco, monco di una mano, alla guida di una Fiat 127. Era in possesso dell’arma che aveva ucciso i due carabinieri e di una pistola di ordinanza, di uno dei due carabinieri uccisi nell’agguato. Vesco fu interrogato e confessò. Indicò agli inquirenti il covo dove era nascosta la refurtiva, e accusò i suoi complici, tre giovanissimi ragazzi, suoi amici di Alcamo e un suo conoscente di Partinico. Tutti condannati nei processi che seguirono nei successivi anni. Vesco però non arrivò mai al processo, perché un anno dopo, fu trovato impiccato nel bagno dell’infermeria del carcere San Giuliano di Trapani. Nel 2008 il colpo di scena. Un ex carabiniere Renato Olino, che aveva partecipato alle indagini, raccontò che Vesco confessò tutto sotto tortura. Gli avvocati di Giuseppe Gulotta, uno dei quattro condannati, chiedono e ottengono il processo di revisione e alla fine, vengono assolti tutti, inclusi Ferrantelli e Santangelo che, dopo la sentenza in cassazione, erano scappati in Brasile con l’aiuto di Padre Mattarella, cappellano del carcere di Trapani, che a suo dire, illuminato dal Signore, era certo della loro innocenza. Tutto da rifare dunque per gli inquirenti, anche se sono passati 36 anni. Nel frattempo si susseguono le piste sui possibili moventi e mandanti. Un ex poliziotto di Alcamo, Federico Antonio, racconta al sostituto procuratore di Trapani, che nel 1992, un suo confidente, gli raccontò che Apuzzo e Falcetta furono uccisi il pomeriggio del 26 Gennaio, esattamente alle 15.30 perché fermarono un furgone carico di armi, condotto da appartenenti alla Gladio. Dopo un breve controllo, i due carabinieri, invitarono i passeggeri del furgone all’interno della casermetta, e li furono uccisi. Il movente Gladio è stato ripreso da più organi di stampa, inclusa la trasmissione Blu Notte di Lucarelli, ma nessuno ha mai fatto i dovuti riscontri. Stefano Santoro operatore video free lance residente a New York, ha prodotto un lungo video dossier sulla vicenda e ha dimostrato che in realtà, l’ipotesi tanto declamata dagli organi di stampa, dell’omicidio alle 15.30 è irreale. La sorella di Carmine Apuzzo ricorda la telefonata del fratello alle 18.30 , mentre i familiari di Falcetta hanno ricostruito le ultime ore dell’appuntato che nel pomeriggio, dopo aver trascorso alcune ore con i familiari, si recò al comando provinciale di Trapani, poiché doveva ultimare il suo imminente trasferimento a Buseto, per essere più vicino alla madre sofferente. Altro tassello che esclude il posto di blocco all’equipaggio Gladio, con l’immediato duplice omicidio, è la testimonianza a poche ore dalla strage, di due persone che raccontarono agli inquirenti di essere stati insieme ai due militari all’interno della casermetta di Alcamo Marina fino a mezzanotte circa, per giocare a carte. Inoltre i due carabinieri furono trovati in pigiama, Apuzzo ancora a letto sotto le coperte, mentre Falcetta, dopo un tentativo di reazione, rimase incastrato tra il letto e il muro, con le gambe attorcigliate alle lenzuola. Una scena raccapricciante che non lascia spazio a ricostruzioni false e artificiose, di riproduzioni della scena del delitto. Nonostante ciò nessuno ha mai smentito questo inconcepibile teorema, accostato suggestivamente più volte anche al ritrovamento, nel 1992, di un deposito di armi, custodito da due carabinieri . Il professore Romano Davare, noto scrittore, regista teatrale e all’epoca dei fatti corrispondente del Secolo D’Italia, racconta che la sera precedente alla strage, si trovava nei pressi di Trapani, per un convegno del Msi, con ospite il segretario Giorgio Almirante. Il professore Davare scrisse della strage, ma il direttore del Secolo D’Italia gli proibì di parlare del possibile movente, da lui ipotizzato alla luce dei fatti. Sul gruppo Facebook Giustizia per Apuzzo e Falcetta, Stefano Santoro ha approfondito questa ipotesi e scrive “L’assalto alla casermetta a quattro ore dal passaggio di Almirante, in un arco di 365 giorni, e sotto una pioggia torrenziale, fu solo una casualità ? No a mio parere. Gli ingredienti per un sequestro ci sono tutti. Covo pronto a Partinico, divise, (non quelle in grande uniforme lasciate invece a terra nella casermetta) armi, cibo, (preso dalla casermetta) indumenti intimi, soldi, passamontagna, materasso, lenzuola, guanciale, soldi di altri sequestri, stralci di giornali relativi ai sequestri Corleo e Campisi e ancora, cavi di telefono e ruote tagliate dell’auto di Falcetta, per isolarli e avere un vantaggio di tempo, al loro risveglio prima che potessero avvisare i colleghi (Vesco scrisse nelle lettere che non era prevista la loro esecuzione, evidentemente perché dovevano essere sedati), e ancora, la scorta di Almirante non comunicò al segretario del Msi della tragedia, ed infine, la parola fine ai sequestri, in provincia di Trapani ,dopo l’episodio di Alcamo Marina, come se qualcosa si ruppe. Insomma, cosa altro serve, per dimostrare che ci fu un tentativo di sequestro di Almirante.
La domanda è: chi fu il mandante e a quale scopo?” Il professore Davare, sostiene nell’intervista che il direttore del Secolo D’Italia declinò il tentativo di scrivere sul possibile sequestro di Almirante, per evitare uno scontro sociale. Dopo 43 anni è difficile smascherare la verità, ma intanto alla vicenda si è aggiunto un altro enigma. La sorella di Giuseppe Vesco, il giovane trovato impiccato all’interno del carcere, sostiene di avere visto suo fratello nel corso principale di Alcamo, ma aggiunge altri particolari. Racconta, in esclusiva ai microfoni di Stefano Santoro, che al momento del riconoscimento del cadavere, suo fratello non aveva segni di impiccagione al collo , che il corpo del fratello giaceva su una normale barella, che non fu permesso ai familiari di avvicinarsi per un ultimo abbraccio e che, al padre e allo zio del giovane, non gli fu autorizzato di assistere alla saldatura della bara. La sorella ha presentato regolare denuncia al commissariato di Alcamo, ha fatto richiesta per l’apertura della bara, ha appeso per le vie di Alcamo, la foto di suo fratello, per denunciarne l’esistenza in vita, ma non ha ancora ricevuto nessuna risposta. Una persona in cerca di verità e giustizia.
La strage di Alcamo Marina.
Premessa. Vi sto raccontando in queste pagine le storie che hanno riempito di mistero la nostra storia recente. Alcune di queste sono conosciutissime, come quella relativa ad Ilaria Alpi, allo scandalo Lockheed, l’incendio della Moby Prince e così via. Altre invece sono poco conosciute, spesso del tutto sconosciute al grande pubblico, perfino a quello nella cui zona le vicende si sono verificate. Un esempio è l’abbattimento dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e un altro esempio è il fatto di cui vi voglio parlare adesso. É conosciuto come la strage di Alcamo Marina. Ci sono stati due morti, due carabinieri, ma il caso è estremamente intricato e quindi vi consiglio di seguire tutta la puntata con attenzione. In ogni caso potrete riascoltarla con calma visitando il mio sito noncicredo.org, dove trovate tutte le puntate trasmesse negli ultimi anni da questa emittente. E adesso possiamo cominciare. Alcamo è un paese a metà strada tra Trapani e Palermo. Si affaccia sul mar Tirreno. Oggi parleremo di un fatto avvenuto il 27 gennaio 1976 nella frazione Alcamo Marina, località balneare grazie ad una bella spiaggia sabbiosa sul golfo di Castellamare, quella in provincia di Trapani. Nella caserma dell’arma, la Alkamar, quella notte stanno dormendo due militari, l’appuntato Salvatore Falcetta di Castelvetrano (TP) e un ragazzo di 19 anni, il carabiniere Carmine Apuzzo, di Castellamare di Stabia (NA). É una notte di temporale con tuoni e molta pioggia. Del resto siamo in pieno inverno e la località balneare è praticamente deserta di turisti. Verso le 7 della mattina del 27 gennaio, la scorta di Giorgio Almirante, che passava di là, si accorge che qualcosa non va nella caserma. Il portoncino è stato scassinato, usando la fiamma ossidrica. Fanno intervenire i carabinieri di Alcamo, i quali, entrando, si trovano di fronte ad una scena raccapricciante. Carmine è steso nella sua branda crivellato di colpi: non si è neppure accorto di quello che stava accadendo. Salvatore invece i rumori li sente, cerca di prendere la sua pistola, ma non fa in tempo: viene assassinato come il suo collega. Dalla caserma sono sparite pistole, divise e altri oggetti. Perché dedicare un articolo ad un fatto che con ogni probabilità nessuno ricorda, forse nemmeno conosce se non chi è rimasto coinvolto direttamente: i familiari delle vittime, quelle uccise e quelle ritenute colpevoli? In fondo – si potrà dire - si tratta di due morti che non hanno nomi importanti e quindi passano inosservati nell’insieme delle storie che vi sto raccontando. Ma questa vicenda è allucinante per le conseguenze che ha avuto e per il fatto che, ancora oggi a così tanti anni di distanza nessuno sa chi sia stato né il motivo di questo eccidio. Certo, si sono fatte ipotesi e qualche racconto è emerso ed è proprio di questo che voglio parlare questa sera, perché qualche colpevole è stato riconosciuti e sbattuto in galera con sentenze durissime. Peccato che quelle persone fossero innocenti.
I fatti. Cominciamo con il racconto formale dei fatti, quello che scrive Wikipedia, una fonte semplice, ma che può essere controllata dai diretti interessati. Poi entreremo nelle pieghe della storia e cercheremo di capire meglio. Prima di cominciare è bene ricordare in che clima vive il paese in quel periodo a metà anni ’70. Sono anni difficili, anche e soprattutto in Sicilia: il pericolo terrorismo, le brigate rosse, la mafia, i servizi segreti “deviati” presenti in provincia. E poi d’inverno non c’è nessuno su quelle spiagge del Golfo di Castellammare proprio dove si trova la casermetta di Alkamar: un luogo ideale per interi sbarchi di sigarette di contrabbando, di droga e forse anche di armi. Il primo sospetto cade sulle Brigate Rosse, anche se, a dire il vero, c’è una rivendicazione di un gruppo mai sentito prima. Poche ore dopo l’eccidio, infatti, il Nucleo Sicilia Armata, diffonde questo messaggio telefonico con una voce priva di inflessioni al centralinista de La Sicilia. “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro. Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”. Di questo fantomatico gruppo, di evidente matrice rossa, nessuno sentirà mai più parlare, segno che il messaggio aveva una funzione di depistaggio. Ma è altrettanto certo agli inquirenti che chi telefonava era stato sulla scena del crimine o, quanto meno, ne era molto ben informato. Del resto in quegli anni ad Alcamo erano stati ammazzati due altri personaggi pubblici: l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo Francesco Paolo Guarrasi (ex sindaco DC) viene ucciso nel maggio del 1975 con 4 colpi di pistola, mentre scende dalla sua auto proprio sotto casa. La pistola che lo uccide è la stessa calibro 38 che soltanto un mese prima aveva ucciso ad Alcamo il consigliere comunale Antonio Piscitello. E poi di spari contro i carabinieri in piena notte ce n’erano già stati, ma senza provocare feriti. Anche in quell’occasione il responsabile non era stato trovato. Passano solo tre giorni quando, il 30 gennaio, le Brigate Rosse emettono un comunicato, negando con fermezza di aver partecipato ai due assassinii. Nonostante questo la pista che viene seguita è sempre quella del terrorismo rosso. Le indagini sono guidate da Giuseppe Russo, allora capitano del nucleo operativo di Palermo, braccio destro del generale Dalla Chiesa. Mentre si cerca tra i vari gruppi e gruppuscoli dell’estremismo di sinistra, ecco il colpo di scena.
Il colpevole? Qualche settimana più tardi, è il 13 febbraio, ad un posto di blocco viene fermato Giuseppe Vesco, di Alcamo su una fiat 127 verde. É un tipo stravagante, tanto che in paese lo chiamano “Giuseppe il pazzo”. La targa della sua automobile è falsa. Gli manca la mano sinistra, amputata dopo che, un paio di anni prima, aveva fatto brillare un ordigno esplosivo forse trovato in un prato. Lo perquisiscono: ha addosso una pistola calibro 7,65, dello stesso tipo di quella usata per l’eccidio dei due carabinieri. Poi, salta fuori un’altra pistola: una Beretta in dotazione ai carabinieri. La conclusione è quasi immediata: è una delle armi rubate dalla casermetta: Il colpevole è stato trovato. Giuseppe, o Pino, come molti lo chiamano, si chiude in un silenzio ostinato, rotto solo da frasi del tipo: “Mi considero un prigioniero di guerra”, giocando il ruolo del terrorista come quelli veri delle Brigate Rosse. Si dichiara colpevole, ma al processo ritratta. I giornali dell’epoca non danno risalto a questo cambiamento di strategia. Cosa è accaduto tra l’arresto e il processo? Abbiamo la possibilità di usare due fonti. La prima è l’insieme di lettere che Pino scrive dal carcere, anche se a volte non si conosce l’identità dei destinatari. la seconda è la deposizione di un ex carabiniere, che aveva partecipato all’interrogatorio dopo il quale Vesco aveva confessato tutto. Cominceremo ad esaminare la prima fonte. Trovare quelle lettere non è facile. Un paio di esse vengono pubblicate nel 1978 dalle riviste “Controinformazione” e “Anarchismo” e vengono poi raccolte da un’associazione, alla quale si rivolge Roberto Scurto, giornalista che tiene un blog chiamato “Liberi di informare”. Ho già detto all’inizio che seguiamo la vicenda con le informazioni che sono state pubblicate. In ogni caso si tratta di una storia scottante, a volte cruda e pesante, in cui intervengono sevizie e torture e altre questioni poco chiare. Il racconto del carabiniere, avvenuto nel 2007, a 32 anni dai fatti, coincida in larga misura con il contenuto delle lettere non fa che confermarne la veridicità.
Dunque cominciamo. Nella prima lettera Pino assume l’atteggiamento di un guerrigliero che fa della lotta di classe a difesa del proletariato la sua bandiera. Inneggia alla lotta armata ed è chiaro che l’eccidio di Alcamo in questa lotta armata ci starebbe benissimo. Dunque è giustificato che gli inquirenti seguano la pista del terrorismo rosso. Ma il ragazzo ha anche a preoccupazione che vogliano farlo passare per pazzo e rinchiudere in un manicomio, per poi eliminarlo fisicamente. Quello dell’eliminazione è un chiodo fisso come vedremo tra poco. La parte più dura degli scritti di Giuseppe è quella in cui descrive la tortura subita perché si decida a far sapere dove si trova il materiale rubato nella casermetta e a dire i nomi dei suoi complici. La descrizione è di una lucidità estrema, descrivendo non solo il male subito, ma anche gli stati d’animo che mano a mano egli ha attraversato. Immobilizzato su due casse gli viene versato con un imbuto in gola un liquido che lui, perito chimico, stabilisce essere acqua con molto sale, olio di ricino e terra. L’effetto è quello del soffocamento. Resiste un po’ ma poi deve cedere. Tra l’altro non è uno con un fisico bestiale e non ci vuole molto perché quella tortura produca i suoi effetti. Così i carabinieri riescono a trovare quello che cercano: pistole, divise e quant’altro. Poi ritornano e adesso vogliono i nomi dei complici. La tortura riprende e Pino a quel punto fa dei nomi a caso, coinvolgendo quattro amici con i quali è solito passare parte del suo tempo libero. Dalle lettere non si capisce bene se Giuseppe sia coinvolto o meno negli omicidi. Da un lato c’è tuttavia il ritrovamento della refurtiva, dall’altro il fatto che lui continui a dichiarare di non aver avuto niente a che fare con quel fattaccio. Già al processo Giuseppe Vesco dichiarerà che tutte le confessioni gli sono state estorte con la tortura, il che, per la legge, rende inutile qualsiasi deposizione. I nomi coinvolti da Pino sono: Giovanni Mandalà, fabbricante di fuochi di artificio: Vincenzo Ferrantelli, Getano Santangelo, Giuseppe Gullotta. Quattro amici, un paio ancora minorenni che di politica e di lotta armata non sanno proprio nulla. Eppure anche loro confessano. Poi al processo diranno che le loro deposizioni sano il risultato di torture pesanti subite durante gli interrogatori. Si va verso il processo, ma Pino Vesco non fa in tempo a raccontare la sua storia. Lo trovano impiccato nella sua cella. “Suicidio” sentenziano gli inquirenti, ma come abbia fatto a fare il nodo scorsoio con una sola mano resta davvero un grande mistero. Proprio di questo scriveva alla madre: il timore di essere suicidato. La prima sentenza è di assoluzione. Nell’attesa dell’appello, i due minorenni, Ferrantelli e Santangelo fuggono in Brasile, chiedono e ottengono asilo politico. L’appello darà sentenze durissime: ergastolo per i due rimasti in Italia, 20 anni per gli altri. Nel 1995 Santangelo tornerà in patria a disposizione della magistratura, mentre l’altro rimarrà latitante. Mandalà muore in carcere nel 1998 di malattia, mentre Gullotta sconta l’ergastolo, finché …
Io c'ero...Prima di continuare con la storia, passiamo alla seconda fonte, l’ex brigadiere Giuseppe Olindo, che nel 2008 si presenta ai magistrati per fare le dichiarazioni che tra poco ascolteremo. Quelle che ascolteremo di seguito sono le voci tratte da un documento filmato che è facilmente reperibile in rete. Si tratta, tra l’altro anche di alcune deposizioni durante il processo per la revisione della posizione dei condannati, oltre che di interviste e filmati su altri temi che toccheremo. Derivano anche da trasmissioni radiofoniche e televisive, come ad esempio Blu Notte e La storia siamo noi. Ringrazio gli autori di questi documenti che sono fondamentali se non altro per dubitare di quello che viene passato per verità e ci induce ad indagare ancora per cercare di capire, anche se spesso purtroppo non ne siamo oggettivamente capaci. Dunque nel 2008 l’ex brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Olindo si presenta alla magistratura e racconta quanto segue.
Insomma in quella caserma vengono inflitte tremende torture e vengono condannati all’ergastolo degli innocenti; la vita di quattro ragazzi, privati della libertà e condannati ad atroci sofferenze, è rovinata per sempre. Perché i carabinieri usano tanta violenza e tanta ingiustizia? Da chi hanno l’ordine di procedere in quel modo? Perché la squadra antiterrorismo ha così fretta di chiudere il caso?
Lo stesso Olino riferisce che quando arrivano ad Alcamo, non hanno alcuna idea di come muoversi, non hanno una pista da seguire. Ma ad essi viene imposto di indagare nei gruppi dell’estrema sinistra e solo in quelli. Lo stesso Peppino Impastato si interessa della vicenda e raccoglie documentazioni importanti, ma di questo parleremo tra poco. Adesso ascoltiamo di nuovo Olindo.
Peppino Impastato. In effetti Peppino Impastato si occupava in quel periodo delle molte illegalità che avvenivano in Sicilia e quell’omicidio non era certo cosa da poco. Fa uscire un volantino molto duro nel quale sostiene che i carabinieri stavano cercando di depistare l’azione investigativa e che a lui sembrava strano questo accanirsi contro le organizzazioni di sinistra, non prendendo neppure lontanamente in considerazione un’origine mafiosa della strage.
Che i depistaggi di cui Peppino parla ci siano stati è abbastanza evidente. I carabinieri che conducono le indagini vengono dal nucleo anti-crimine di Napoli. Li comanda il capitano Gustavo Pignero, che diventerà generale e dirigerà una sezione dei Servizi segreti militari (il SISMI). Quando il caso viene riaperto, i carabinieri che avevano partecipato alle torture e che facevano capo al colonnello Giuseppe Russo, finiti tutti sotto inchiesta, sono ormai ottantenni e si avvalgono della facoltà di non rispondere. Resta in piedi la domanda senza risposta: chi ha guidato i depistaggi e per quale motivo? Cosa è successo realmente quella notte di gennaio ad Alcamo?
I dubbi e le nuove inchieste. Le ipotesi sono diverse, alcune coinvolgono direttamente lo stato, altre la mafia, altre ancora dei contrabbandieri di armi o di altra merce. Ma quello che emerge è che in tutta la storia ci sono tante, troppe cose che non tornano o che sono, quanto meno, molto, ma davvero molto strane. In effetti c’è il suicidio di Pino Vesco che suona di falso lontano un miglio. C’è il ritrovamento dei corpi che fa storcere in naso. Come è possibile che le guardie del corpo di Almirante passino per caso la mattina seguente l’eccidio e si fermino in una stradina di nessun conto, vedano il portoncino divelto e scoprano i cadaveri? Come mai il tribunale condanna senza mezzi termini quattro balordi che non hanno precedenti di un delitto così atroce e, a ben vedere, effettuato con estrema efferatezza e, passatemi l’espressione, mestiere. Eh già, Gullotta, dopo aver passato 21 anni in carcere, viene riconosciuto innocente, viene liberato e il fatto di aver passato gran parte della vita dietro le sbarre viene compensato con 6 milioni e mezzo di euro. Credo non sia difficile immaginare quanto poco quel denaro abbia alleviato le sofferenze di un uomo che non aveva fatto niente e si è trovato privato del bene più prezioso che abbiamo, la propria libertà. E questa assoluzione si porta dietro altre conseguenze importanti. Prima di entrare nel merito mi sento di fare una considerazione. É curioso che serva un riesame di questa portata per capire che le conclusioni su molti delitti, dei quali la storia del nostro paese è piena, sono state falsate. La gente lo sa, ma servono sempre prove e documentazioni per poter procedere e soprattutto ci volgliono decenni per venirne a capo, le rare volte in cui questo succede. Ecco dunque che la sentenza Gullotta spinge il sostituto procuratore Antonino Ingroia, che lavora nella procura di Trapani, a riaprire due inchieste: quella sulla strage di Alcamo Marina e quella su Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. E, di conseguenza, salta fuori anche una terza inchiesta, quella sul suicidio di Pino Vesco. Secondo la procura tutto quello che è avvenuto è stato fatto con il preciso scopo di evitare che le indagini arrivassero a svelare l’esistenza e soprattutto le opere (certo non benemerite) di un esercito segreto, la struttura segreta Gladio. Certo, Peppino è stato ucciso dalla mafia, dal clan Badalamenti. Per questo il processo ha condannato Tano Badalamenti all’ergastolo e il suo vice, Vito Palazzolo, a 30 anni. É il 2002 e Tano muore due anni più tardi. Il corpo di Peppino viene ritrovato lo stesso giorno in cui le BR (o chi per loro) riconsegnano quello di Aldo Moro. La sentenza è immediata. Per i carabinieri si tratta di suicidio o quanto meno di un incidente mentre il giovane sta mettendo dell’esplosivo sui binari. Un’ipotesi assurda per chiunque conosca Peppino. Lui è un militante di Democrazia Proletaria e soprattutto è responsabile di una radio di denuncia contro la mafia, la radio Aut. Quello che qui interessa è che, in quell’occasione, viene eseguita una nuova perquisizione nella casa di Impastato. Si trova un dossier, con scritto sulla copertina “Giuseppe Vesco”. Questa notizia è certa, perché il ritrovamento dell’incartamento compare nel rapporto redatto dai carabinieri. Ma del dossier o di notizie sul suo contenuto non c’è alcuna traccia, da nessuna parte. Il materiale è semplicemente sparito. E torniamo ancora e sempre alle stesse domande su chi è stato e perché. Sappiamo che sono domande che restano senza risposta. Nel caso appena esaminato è anche evidente come la mafia abbia partecipato direttamente alla strategia. Carabinieri, Servizi segreti, mafia, probabilmente Gladio … ecco la strada indicata da Peppino. I due carabinieri, secondo la sua ipotesi, avevano fermato quella sera un carico di armi che la mafia doveva consegnare a Gladio o viceversa. Per questo vengono fatti fuori e poi viene inscenata tutta la faccenda della casermetta ad Alcamo Marina. E c’è anche la scorta di Almirante che, per caso, passa per una stradina di nessun conto, sperduta nel nulla e scopre il portoncino divelto e tutto il resto … ma dai!
Gladio ... che roba è? Ho accennato a Gladio. Di cosa si tratta? Quando è nato? Come è organizzato e, soprattutto, a cosa serve? Di questo parleremo dopo una breve pausa. A partire dall’esplosione di una bomba nella banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano nel 1969 si susseguono una serie di attentati che spesso non hanno alcuna ragione, come quello in Belgio dove un commando perfettamente addestrato fa una strage di clienti sparando senza alcuna remora anche sui bambini. Non esiste ancora una matrice di terrorismo pseudo-religioso come ai giorni nostri e non si era mai visto prima un bandito uccidere senza pensarci su dei bambini. Gli occhi degli inquirenti, di quelli che riescono a capirci qualcosa, puntano su un’organizzazione militare segreta, che ha sedi in tutta Europa e negli Stati Uniti e ci chiama “Stay behind”, che significa sostanzialmente di rimanere dietro, ma dietro a che cosa? Dopo la seconda guerra mondiale il mondo si spacca in due: da una parte l’Occidente, guidato (il verbo è un eufemismo) dagli Stati Uniti e dall’altro il blocco orientale socialista guidato (anche questo è un eufemismo) dall’Unione Sovietica. Le due superpotenze si fronteggiano in ogni settore della vita pubblica e si armano come se stesse per cominciare una nuova guerra, la terza guerra mondiale, di cui in quel periodo si parla continuamente con grande terrore. Noi italiani viviamo nel blocco occidentale e, anzi, siamo un paese di confine e per questo da tutelare in modo particolare contro il pericolo più grande: l’invasione delle truppe comuniste che arriveranno per mangiare i nostri bambini e fare delle nostre chiese stalle per i cavalli dei cosacchi. Detta così è certamente sarcastica, ma il fatto è che l’esercito sovietico è probabilmente il più potente in quel momento e quindi arrestarne una eventuale avanzata sarà impossibile. Ecco allora l’idea. Creare dei gruppi di specialisti che operino dietro le linee nemiche (di qui il nome Stay behind = stare dietro) e servano da appoggio per azioni da parte delle forze alleate inglesi o americane che arriveranno a salvarci come nei film americani sui cowboy. L'organizzazione di questo esercito è della NATO, l’alleanza atlantica. Ci sono mezzi enormi messi adisposizione sia come addestramento (che avviene a Sud di Londra) che come mezzi in ogni senso: trasporto, armi, e qualsiasi altra cosa. Le formazioni assumono nomi diversi a seconda della nazione. In Italia Stay Behind si chiama Gladio. É chiaro che qualcuno degli ascoltatori a questo punto si chiederà cosa diavolo c’entri Gladio con Alcamo Marina, gli eserciti segreti con i due carabinieri ammazzati nella casermetta siciliana. Arriveremo a rispondere anche a questa domanda: ci vuole solo un po’ di pazienza. Ci sono sicuramente indizi che lasciano pensare che non sia poi così assurdo pensare ad un coinvolgimento di Gladio. I depistaggi e le modalità con cui i carabinieri eseguono le indagini non sono quelle solite dell’arma. E poi, negli anni ’90, viene scoperto ad Alcamo un nascondiglio di armi dentro un seminterrato di una villa. Lo custodiscono due carabinieri. Siano in Sicilia, si può pensare ad un covo della mafia, ma il deposito è davvero molto particolare. La quantità di armi presenti è impressionante e anche la loro tipologia lascia perplessi gli inquirenti. Non solo: c’è anche il materiale e gli strumenti per fabbricare proiettili di vario genere. La procura si affida ad un consulente esterno, il quale certifica che la possibilità della costruzione di munizioni da guerra è la stessa che potrebbe rifornire la polizia di un intero piccolo stato. I due guardiani, Vincenzo La Colla e Fabio Bertotto, si giustificano con la loro passione per le armi e per esercitarsi al tiro, giustificazione del tutto improbabile visto il tipo di arsenale. Tra l’altro il Bertotto faceva parte (anche mentre si occupava dell’arsenale) dei Servizi segreti, come responsabile della sicurezza delle ambasciate estere. Le armi sequestrate sono 422, tra cui un centinaio di armi da guerra, mitra statunitensi, armi degli eserciti dell’Est europeo, duecento pezzi da assemblare, perfino una munizione per contraerea. É piuttosto ingenuo pensare a semplici collezionisti. L’indagine deve adesso scoprire a quale rete tutto questo fa riferimento. In quel periodo è procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Anche lui indaga su questi fatti ed esclude categoricamente che quell’arsenale sia in qualche modo legato alla mafia. Quelli della mafia – dice Ingroia – non solo sono molto diversi come tipologia di armi, ma vengono protetti da profili completamente diversi di guardiani. Insomma c’è dell’altro, ci sono organizzazioni nascoste, come si evidenzierà con l’omicidio Rostagno, di cui parleremo tra poco. Che poi ci siano interazioni tra queste organizzazioni e la mafia è molto probabile ma che sia la mafia ad agire ad Alcamo è, per Ingroia, del tutto fuori discussione.
Mauro Rostagno, Li Causi, la Somalia, le armi e ancora Gladio. E adesso entra in scena un nuovo personaggio, morto ammazzato nel 1993 in Somalia in un agguato per motivi mai accertati. Si chiama Vincenzo Li Causi, trapanese di nascita, militare di carriera e appartenente ai servizi segreti militari. É un nome importante: partecipa alla liberazione del generale Dozier, sequestrato dalla BR a Padova; viene inviato in molte missioni che richiedono abilità e competenza. Insomma è uno che conta. Dal 1987 al 1990 è a capo del Centro Scorpione, una sezione di Gladio a Trapani. Dal 1991 viene mandato più volte in Somalia. In una di queste missioni viene ammazzato nel novembre 1993. La cosa più strana è che il giorno dopo è atteso a Roma per testimoniare su Gladio e sui traffici di armi e rifiuti tossici e radioattivi provenienti da mezzo mondo e di cui abbiamo parlato a lungo nelle puntate di Noncicredo. Tutto questo pochi mesi dopo la scoperta dell’arsenale vicino ad Alcamo. Il nome di Li Causi emerge un anno più tardi quando si indaga sull’uccisione di Ilaria Alpi, di cui egli sarebbe stato un informatore che ben conosceva i traffici sui quali la giornalista romana stava conducendo da anni la sua inchiesta. Un ex appartenente a Gladio, protetto dall’anonimato ci dice quanto segue. La sua voce è contraffatta. I compiti di Gladio in Sicilia non sono tuttora molto chiari. Probabilmente fungeva da collegamento con la Gladio all’estero, che operava nei Balcani, nel Nord Africa e nel Corno d’Africa. C’è anche la questione del traffico di armi che avviene nell’aeroporto militare di Chinisia, località a Sud di Trapani. Qui si trova il giornalista torinese Mauro Rostagno, uno dei fondatori di Lotta Continua, che in Sicilia vive e lotta contro la mafia nell’ultima parte della sua breve vita. Trasmette servizi importanti contro il potere di Cosa Nostra dall’emittente Radio Tele Cine. Uno di questi lo realizza proprio a Chinisia, quando atterra un aereo militare che viene subito circondato da camion militari e molti uomini in mimetica. Torna rapidamente in studio per montare il servizio che quella sera dovrà fare un botto. In effetti quell’aereo trasportava armi da consegnare evidentemente non tanto alla mafia quanto ad una organizzazione militare. Quelle immagini spariranno la sera del 26 settembre 1988, giorno in cui Mauro Rostagno viene ammazzato nella sua auto. Chi è stato? La pista seguita è quella della mafia. Ma i dubbi sono enormi, soprattutto a causa dei modi di procedere con le indagini e degli evidenti depistaggi che avvengono. Questa è un’altra storia che si intreccia con quelle fin qui raccontate. Molte indagini sono state fatte e molte ipotesi sono state avanzate sulla morte di Mauro: la mafia, Gladio, i servizi, la massoneria deviata. Restiamo semplicemente agli atti più recenti, che dicono che, nel maggio 2014, la Corte d'Assise di Trapani condanna in primo grado all'ergastolo i boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara. I legami tra mafia e Gladio vengono rivelati in diverse indagini, di recente è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto far parte della struttura segreta. Lo ha detto il figlio Massimo durante le rivelazioni sulla trattativa tra Mafia e Stato. Giovanni Falcone, mentre sta seguendo piste in merito all’uccisione di Pio La Torre da parte della mafia nel 1982, crede che sia importante confrontarsi con i colleghi romani, che stanno indagando su Gladio, ma si trova davanti un muro posto dal Procuratore Capo. Non si può e non si sa perché.
I pentiti di mafia. Sull’eccidio della casermetta nel tempo ci sono altre voci che intervengono. Quella, ad esempio, di Giuseppe Ferro, un pentito della famiglia di Alcamo, che conferma che la strage non fu certo eseguita dai ragazzotti accusati e incarcerati. Nella sua testimonianza si legge: “Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati. Erano solamente delle vittime, pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto.” C’è poi Vincenzo Calcara, altro pentito di mafia di Castelvetrano, il quale racconta di essere stato compagno di cella di Pino Vesco. Quando arriva l’ordine da parte di Antonio Messina, boss di Campobello di Mazara del Vallo, di lasciare da solo il ragazzo senza una mano. “Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie” dichiara il pentito. É lo stesso Messina a spiegare la situazione a Calcara. Vesco deve morire perché è stato uno strumento e deve sparire. I due carabinieri sono stati ammazzati perché hanno visto cose che non dovevano vedere e è stato impedito loro di fare cose che potevano danneggiare non personaggi di cosa nostra ma anche collegati ad essa. É dunque questa la pista: una connivenza tra mafia e Gladio (o comunque organizzazioni segrete all’interno dello stato) che nel trapanese si sono sempre incrociate e frequentate in un anomalo scambio di favori. Ma l’invasione sovietica, come ben sappiamo, non c’è mai stata e quindi negli anni l’organizzazione Gladio viene utilizzata per scopi diversi. Tra questi un piano elaborato dalla CIA, l’intelligence statunitense, chiamato Demagnetize (Smagnetizzare). Il suo scopo è quello di togliere ossigeno e depotenziare il Partito Comunista Italiano, che negli anni ’70 comincia ad assumere l’importanza di un partito di governo. Questo coinvolge diversi movimenti di estrema destra, che diventano attivi nella strategia della tensione con numerosi attentati in tutta Italia. Abbiamo ricordato quello di Gorizia, per fare un esempio. Ci sono stati anche tentativi di golpe, a dire il vero piuttosto velleitari, in uno dei quali interviene anche una delle famiglie mafiose di Alcamo, la famiglia Rimi. É il 1970 e il fallito attentato alle istituzioni italiane è quello di Junio Valerio Borghese, ex fascista, ex presidente del Movimento Sociale, frequentatore di Pinochet e del suo capo della polizia segreta … insomma un personaggino tutto pepe. Dopo la guerra viene condannato a due ergastoli, ma l’intervento dei servizi segreti americani fa sì che quella condanna si riduca a 12 anni, di cui nove condonati. Sfruttando l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti viene rilasciato immediatamente. Muore nel 1974 in circostanze abbastanza strane in Spagna, dove si è rifugiato. Nella provincia di Trapani le organizzazioni segrete sono ben radicate in quel periodo. In un ambiente in cui conta molto più la mafia dello stato, le attività sommerse sono all’ordine del giorno e può quindi accadere che due carabinieri in servizio si imbattano in un trasporto strano, in qualcosa di più grande di loro. La presenza di Gladio nel trapanese viene certificata ufficialmente solo nel 1990, ma i vertici dell’organizzazione continueranno a ribadire la propria estraneità ai fatti di Alcamo Marina, e a tutte le nefandezze che la popolazione ha dovuto subire in quegli anni. Di questo parla Paolo Inzerilli, responsabile di Gladio dal 1974 al 1986. Un altro personaggio, al quale ha accennato il giudice Casson nel suo primo intervento ha avuto una storia notevole. Si tratta di Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, quella in cui sono rimasti uccisi tre carabinieri e feriti altri due. Vinciguerra non si è mai tirato indietro, considerandosi un “soldato politico”, facendo rivelazioni e non chiedendo mai uno sconto di pena, anzi volendo rimanere in carcere per tutta la sua durata, ritenendolo un mezzo di protesta. Durante il processo, che vedeva come giudica Felice Casson, lo scontro è durissimo. Il giudice cerca in ogni modo di dimostrare che l’esplosivo usato nell’attentato proviene da un deposito di armi di Gladio, trovato vicino a Verona. Si tratta di C-4, il più potente esplosivo disponibile all’epoca, in dotazione alla NATO. Nel 1984, a domanda dei giudici sulla strage alla stazione di Bologna, Vinciguerra dice: « Con la strage di Peteano, e con tutte quelle che sono seguite, la conoscenza dei fatti potrebbe far risultare chiaro che esisteva una reale viva struttura, segreta, con le capacità di dare una direzione agli scandali... menzogne dentro gli stessi stati... esisteva in Italia una struttura parallela alle forze armate, composta da civili e militari, con una funzione anti-comunista che era organizzare una resistenza sul suolo italiano contro l'esercito russo ... una organizzazione segreta, una sovra-organizzazione con una rete di comunicazioni, armi ed esplosivi, ed uomini addestrati all'utilizzo delle stesse ... una sovra-organizzazione, la quale mancando una invasione militare sovietica, assunse il compito, per conto della NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione. Questo hanno fatto, con l'assistenza di ufficiali dei servizi segreti e di forze politiche e militari.» Una posizione personale, ma molto chiara, come quella che esprime a parole. Ma Gladio è stato davvero il demonio responsabile di ogni nefandezza che nel paese si veniva compiendo? Adesso ascoltiamo due testimonianza. La prima, brevissima, è di Francesco Gironda, capo della rete Gladio di Milano, mentre la seconda è ancora di Felice Casson, magistrato chioggiotto e più tardi politico dell’Ulivo e poi del Partito Democratico. Ascoltiamoli, poi chiuderemo il nostro racconto.
Conclusioni. Siamo partiti da un fatto particolare, quello dell’uccisione di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina e siamo finiti a parlare di strategia della tensione, di attentati come quello di Bologna che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’inizio della nostra storia. Questo dimostra quello che in questi mesi ho sempre cercato di sottolineare e cioè che le storie sono tutte legate tra loro, perché è periodo in cui esiste una strategia ben precisa che coinvolge lo stato e le sue istituzioni, per mantenere il potere e fare profitti. Oggi Gullotta è un uomo libero e ricco, libero perché non ha commesso quel reato infamante, così come i suoi amici, quelli sopravvissuti per lo meno. Ma non è libero dagli incubi che nessuno di noi credo possa neppure immaginare di aver passato un terzo della sua vita rinchiuso in un carcere dove non doveva stare. Rinchiuso mentre altre persone e non una sola sapevano perfettamente che era innocente. Prima di chiudere un’ultima osservazione su Gladio. Nell’estate del 2014 viene proposta una legge intitolata: “Riconoscimento del servizio volontario civile prestato nell’organizzazione nordatlantica Stay Behind”. La firma Luca Squeri di Forza Italia. In essa si sostiene che i volontari che hanno prestato servizio all’interno di Gladio devono essere trattati come i partigiani e quindi meritano una legittimazione per aver difeso la patria dal nemico. Nessun riconoscimento in denaro, si intende, un riconoscimento sotto il profilo politico e anche militare. Quindi nessun legame con le trame nere, con brandelli impazziti dell’eversione di stato. Sotto sotto la proposta porterebbe dritto al finanziamento pubblico dell’associazione. Il fatto che, una volta capito che il patto di Varsavia non aveva intenzioni di invadere l’Occidente, questa organizzazione si sia mossa in segreto, sfruttando le risorse dei servizi segreti semplicemente per impedire l’accesso al governo del Partito Comunista Italiano è un fatto riconosciuto anche da due dei politici più dentro le questioni delle segrete stanze, come Andreotti e Cossiga. Del resto quella di Squeri non è la prima volta di una simile richiesta strampalata. La prima in assoluto è del 2004 e porta la firma, guarda caso, di Cossiga. Iniziativa seguita, pochi mesi dopo alla Camera, da un testo identico presentato dal forzista Paolo Ricciotti. Ma Cossiga torna alla carica ancora altre volte: nel 2006, nel 2007, nel 2008 e nel 2009. Sempre nel 2009 un testo identico viene presentato a Montecitorio da Renato Farina, quello famoso per aver partecipato coi servizi segreti alla diffusione di notizie false contro Romano Prodi. Condannato per vari reati e radiato dall’ordine dei giornalisti, oggi collabora con Il Giornale e sarebbe difficile pensare il contrario. Insomma per la destra istituzionale (Forza Italia, PDL e tutte le altre sigle berlusconiane) Gladio è una organizzazione di eroi positivi, che hanno cercato di fare il bene del nostro paese. Non mi sembra il caso di aggiungere alcun commento. Termino qui. É stato un articolo forse più faticoso del solito, che ha cercato di raccontare una storia poco conosciuta in cui, ancora una volta, si mescolano affari loschi, mafia e reparti deviati della repubblica, ma, in questo caso, ben conosciuti e sostenuti dallo stato. Alcamo Marina in fondo non è stata nulla come tributo di sangue rispetto a molte altre tragedie di cui vi ho raccontato: penso alle bombe della strategia della tensione: piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Bologna o alle tragedie di cui sappiamo poco o nulla perché occorre che non si sappia chi andava coperto, come nel caso dell’elicottero Volpe 132, della Moby Prince, di Ustica. Purtroppo si potrebbe continuare l’elenco. Purtroppo ...
Strage alla caserma “Alkamar”, ecco come venne riaperto il caso. Il racconto del cronista trapanese Maurizio Macaluso, la sua inchiesta portò alla revisione del processo. Michele Caltagirone su Blasting News Italia il 27 gennaio 2016. Il giornalista Maurizio Macaluso lavorava nella redazione del settimanale “Il Quarto Potere”, diretto da Vito Manca. Nel 2007, in una rubrica da lui curata su fatti di cronaca ancora avvolti nel mistero, iniziò ad occuparsi della strage alla caserma “Alkamar” del 27 gennaio 1976, sollevando dubbi sulla reale colpevolezza di Giuseppe Gulotta, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà, i quattro giovani condannati per il duplice omicidio dei carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. “Mi recai anche ad Alcamo – ricorda Macaluso, contattato dalla redazione di Blasting News Italia – ad intervistare Marta Ferrantelli, sorella di uno dei presunti colpevoli. Tra i miei obiettivi c’era ovviamente quello di contattare direttamente Vincenzo Ferrantelli, tanto lui quanto Gaetano Santangelo all’epoca si trovavano in Brasile. Entrambi, a qualche settimana di distanza, fecero pervenire una e-mail in redazione raccontando la loro versione dei fattiche venne pubblicata sul nostro settimanale. In risposta ricevetti anche un’altra e-mail con parole di fuoco da parte dei familiari di Salvatore Falcetta che contestarono il contenuto dell’articolo. Per quasi un anno non ci furono altre novità sul caso”.
Contattato dall’ex brigadiere Olino. “A quasi un anno di distanza – prosegue Maurizio Macaluso – ricevetti una mail anonima. Qualcuno sosteneva di essere a conoscenza della verità, affermando che erano stati condannati quattro innocenti. Si faceva riferimento anche alla mail dei familiari di Falcetta, ‘chissà cosa direbbero se sapessero la verità’, tra le parole che mi vennero scritte. Il misterioso mittente rivelò successivamente la sua identità, si trattava dell’ex brigadiere Renato Olino che aveva assistito agli interrogatori dei giovani arrestati nel 1976. Ci incontrammo successivamente a Trapani, venne in redazione e mi espose ifatti ai quali aveva assistito. Si trattò di confessioni forzate; ad esempio, nel caso di Giuseppe Vesco, le confessioni gli vennero estorte nel corso dell’interrogatorio con latorture. Da quel momento la stragedi Alcamo Marina divenne un tormentone del nostro giornale, mi sforzavo settimana dopo settimana per mettere insieme nuovi elementi. La Procura, che conservava anche le copie dei miei articoli, raccolse poi elementi a sufficienza per riaprire il caso”.
C'è un altro segreto. Maurizio Macaluso Linea Rossa 12 anno 3 - numero 45. Un giovane alcamese, Giuseppe Tarantola, fu ucciso nel 1976 nel corso di un conflitto a fuoco con i Carabinieri. Si disse che era in possesso di una pistola ma un ex brigadiere rivela che non era armato. Un altro morto che attende giustizia. Un'altra storia scomoda che riemerge dal passato. Si chiamava Giuseppe Tarantola. Aveva venticinque anni ed era di Alcamo. Morì trentuno anni fa durante una sparatoria con i carabinieri. Si disse che era armato, che voleva uccidere i militari, che era pronto a compiere una strage. Un testimone rivela però ora che in realtà Giuseppe Tarantola non era armato. Che la pistola sequestrata sarebbe stata apposta dai carabinieri per coprire le responsabilità di colui che aveva sparato. A rivelare il nuovo sconvolgete episodio è un ex brigadiere, lo stesso che, due mesi fa, ha parlato dell'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo. Lo stesso che ha sostenuto che Giuseppe Vesco e gli altri giovani coinvolti nelle indagini sull'uccisione dei due carabinieri furono picchiati e seviziati e costretti a confessare. Giuseppe Tarantola fu ucciso nel corso della notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1976 alla periferia di Alcamo nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Erano trascorse due settimane dall'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. L'assassino dei due carabinieri aveva destato grande scalpore. La vicenda era arrivata anche in Parlamento. Qualche giorno prima, nel corso di una seduta parlamentare, l'onorevole Giomo aveva presentato un'interrogazione ai ministri dell'interno e della difesa. "Chiedo di conoscere - aveva detto il parlamentare - se ritengano rendere edotta l'opinione pubblica ed il Parlamento sull'offensiva che si sta attuando da parte di forze extraparlamentari contro i carabinieri, offensiva culminata nel selvaggio agguato contro la caserma di Alcamo Marina dove hanno perso la vita due giovani militari. È ormai noto a chi segue la cronaca quotidiana che nei soli mesi di dicembre e gennaio nelle città di Milano, Roma e Genova sono state attaccate più volte caserme di carabinieri con bombe a mano, bottiglie incendiarie e raffiche di mitra, che hanno portato alla distruzione di automezzi militari e danneggiamento di edifici pubblici. Si è passati ora in questa escalation di guerriglia contro l'Arma, che ha il difficile compito della tutela dell'ordine pubblico, all'assassinio. L'interrogante chiede se di fronte alla brutale e violenta campagna istigatrice di odio contro i carabinieri organizzata dalla stampa extraparlamentare con le conseguenti offensive di guerra che in questi ultimi mesi sono state scatenate, il governo intenda intervenire con tutti i mezzi a sua disposizione rendendo note all'opinione pubblica tutte le informazioni in suo possesso sull'attività dei mandanti e degli esecutori di questi gruppi sovversivi paramilitari che operano nel paese". L'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo aveva generato preoccupazione nella popolazione di Alcamo. La gente era allarmata. Temeva che la morte dei due carabinieri potesse essere soltanto l'inizio di una lunga serie di omicidi. Gli investigatori erano intenzionati a chiarire al più presto il contesto in cui era maturato il delitto. Bisognava fare presto e restituire serenità ai cittadini. Interrogatori e perquisizioni si susseguivano giorno e notte. Tutte le persone sospette venivano fermate. La notte tra il 10 e l'11 febbraio una pattuglia dei carabinieri intercettò un'auto sulla quale viaggiavano quattro giovani. Alla vista dei militari il conducente proseguì la corsa senza fermarsi. Dopo un lungo inseguimento per le vie della città, l'auto sbandò finendo contro un edificio. I quattro giovani, inseguiti dai carabinieri, scesero dalla vettura e tentarono di fuggire a piedi. Scoppiò un conflitto a fuoco. Giuseppe Tarantola fu colpito da una raffica di mitraglia. Il giovane, gravemente ferito alla gola ed al petto, morì mentre veniva trasportato in ospedale. Gli investigatori sostennero che, dopo essere stato bloccato, Giuseppe Tarantola era sceso dall'auto e si era lanciato contro i carabinieri con una pistola in pugno pronto a far fuoco. L'arma, una pistola calibro trentotto, era stata rinvenuta dopo la sparatoria sull'asfalto. L'auto sulla quale viaggiavano i quattro giovani era rubata. Due dei tre sopravvissuti, interrogati dagli investigatori, confessarono di avere rubato, qualche giorno prima, anche un'altra vettura. Le auto erano destinate ad un meccanico di Alcamo che avrebbe dovuto smontarle e rivendere i pezzi. I tre giovani furono arrestati. La morte di Giuseppe Tarantola destò grande scalpore ad Alcamo. Ventiquattro ore dopo però i carabinieri arrestarono Giuseppe Vesco. Nella città si diffuse immediatamente la notizia che il giovane aveva confessato. Che aveva ammesso di avere ucciso i due carabinieri. Che aveva indicato i nomi dei complici. La gente si precipitò dinanzi la caserma. La morte di Giuseppe Tarantola fu presto dimenticata. Trentuno anni dopo, però, c'è però chi sostiene che c'è un'altra verità. Che Giuseppe Tarantola non era armato. Che non voleva compiere alcuna strage. Che la sua morte va inserita nel clima di tensione che in quei giorni si respirava ad Alcamo. "Non si fermò all'alt", racconta l'ex brigadiere, che in quei giorni si trovava ad Alcamo per partecipare alle indagini sull'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. "Dopo un breve inseguimento finì contro un muro. Scese dall'auto e tentò di fuggire. Un brigadiere esplose alcuni colpi di mitra uccidendolo. Dopo la sparatoria fu rinvenuta sotto l'auto una pistola a tamburo. La magistratura archiviò il caso ritenendo che il brigadiere avesse operato legittimamente. Ma in realtà quel giovane non era armato. Fui io a collocare la pistola su ordine di un ufficiale prima dell'arrivo del magistrato". La clamorosa rivelazione getta nuove ombre sull'operato dei carabinieri. L'episodio è stato riferito dall'ex brigadiere nel corso dell'intervista rilasciata al nostro giornale due mesi fa. Avevamo deciso di non pubblicarla in attesa di effettuare le necessarie verifiche. La ricerca si è rivelata più lunga del previsto. Ad Alcamo nessuno ricorda più questa storia. Tutte le persone interpellate non hanno saputo fornirci alcuna informazione in merito alla vicenda. La tragica morte di Giuseppe Tarantola è stata rimossa dalla memoria collettiva. Abbiamo quindi effettuato una ricerca negli archivi della biblioteca di Paceco ed abbiamo accertato che l'episodio riferito dall'ex brigadiere è realmente avvenuto. Il 12 febbraio del 1976 il Giornale di Sicilia pubblicò un articolo in prima pagina nel quale era riportata la cronaca degli avvenimenti che avevano condotto all'uccisione di Giuseppe Tarantola. "Alcamo - Tragica fine di un giovane ladro. Scappa all'alt. Ucciso dal mitra di un carabiniere - Arrestati i tre ragazzi che erano con lui in auto". Nell'articolo si riferiva che Giuseppe Tarantola non si era fermato all'alt dei carabinieri e che dopo essere stato bloccato era sceso dalla vettura con una pistola in pugno pronto a far fuoco contro i militari. Una raffica di mitra lo aveva fermato uccidendolo. La rivelazione dell'ex brigadiere potrebbe ora riaprire il caso. Intanto le dichiarazioni dell'ex sottufficiale sui presunti pestaggi subiti da Giuseppe Vesco e dagli altri giovani alcamesi coinvolti nelle indagini sull'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo hanno aperto un ampio dibattito. Numerosi alcamesi si sono ricordati della tragica fine dei due militari. Tanti sono tornati ad interrogarsi. Anche numerosi giovani stanno seguendo con grande attenzione gli sviluppi della vicenda. Roberto Scurto ha ventuno anni. "Sono passati tantissimi anni, è ora che finalmente si faccia giustizia", scrive in un articolo pubblicato sul portale Alcamo.it. "Chi sa qualcosa parli! È incredibile come questa storia possa ancora dare fastidio a qualcuno dopo tutto questo tempo. E se qualcuno pensasse che non interessa a nessuno si sbaglia". Il suo appello è stato accolto da tanti concittadini che sono intervenuti nel blog. C'è chi pone domande, chi avanza dubbi. C'è chi, come Anna, chiede di sapere perché l'ex brigadiere si è deciso soltanto ora a parlare. Perché per trentuno anni è rimasto zitto. L'ex sottufficiale ha voluto chiarire, intervenendo personalmente sul blog, la sua pozione. "Per motivi di opportunità al momento molte domande restano senza risposta. Grazie al giornalista Maurizio Macaluso oggi, dopo trentuno anni, qualcuno mostra finalmente interesse su questa brutta storia. Quando venni a conoscenza che Giuseppe Vesco si era impiccato portando con sé tutti i segreti di questa tragedia, rimasi profondamente ferito e ritenni di non essere più degno di portare la divisa. Lasciai l'Arma dei Carabinieri senza alcuna spiegazione. Ho sempre pensato che la tortura non porta alla vera verità. Mi rivolgo a tutti quei colleghi che quella notte erano presenti a sostenere la mia testimonianza. Voglio ricordare che il giuramento di fedeltà alla Repubblica, alle Leggi di questo Stato, alla Costituzione vennero quella notte calpestate da chi era posto dalle stesse alla difesa ed al rispetto. Gli stessi militari che quella notte, ritenendo di fare Giustizia usarono metodi cileni, sono gli stessi che nel corso dei successivi trent'anni hanno dato la vita per combattere la mafia. Questo mio appello, questa mia decisione di contribuire alla ricerca della verità può solo dare dignità all'Arma dei Carabinieri ed a coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno per il rispetto della legalità". Tra coloro che scrivono c'è però anche chi va controcorrente. Chi non si scandalizza, chi invita a riflettere, a considerare il contesto in cui maturò la vicenda. "Non mi scandalizzerei più di tanto.... anche perchè chi uccide, chi ruba chi estorce non si fa di certo scrupoli", scrive un ex carabiniere. "Con questo non voglio dire che voglio difendere l'operato delle forze dell'ordine, però vorrei evidenziare come ogni qual volta succede qualcosa di negativo operato dalle forze dell'ordine si strumentalizzi.... Io penso che bisogna considerare i contesti storici, politici del momento che spingono a certi comportamenti. Sicuramente nella strage citata, ci sono molti risvolti oscuri, ma non credo che si sia volutamente operato per non far emergere la verità.... Ps. Sono un ex carabiniere e sono orgoglioso di esserlo stato". "Questa equazione mi sconcerta", risponde Zagor. "Se i delinquenti non si fanno scrupoli... neanche le forze dell'ordine se ne debbono fare!!! Sicuramente non gli sarà mai capitato di essere dall'altra parte della scrivania, quando con metodi da boia - questa è la giusta definizione - si estorcono le verità che perseguono gli inquirenti, non certamente la verità assoluta. Potrebbe essere vero che non si voleva occultare la verità in quel caso, questo però non esclude che si volessero trovare velocemente dei colpevoli a caso e non i reali colpevoli!". "Poveri ragazzi, loro hanno perso la vita, hanno sacrificato l'unica vita che avevano per garantire lo Stato e proteggere noi cittadini, e noi anziché pensare a loro parliamo dei metodi poco ortodossi che usano a volte le forze dell'ordine nei riguardi dei delinquenti", scrive Caterina, invitando tutti a non dimenticare il sacrificio dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo, vittime di questa tragedia. "Non dico che si dovrebbe fare dente per dente, ma certo non riesco a provare tutto questo falso buonismo su chi non rispetta le leggi. A mio avviso noi stiamo confondendo il perdono dalla giustizia, perdonare non significa che non venga fatta giustizia, e chi sbaglia paga o in questa o nell'altra vita". C'è anche chi scrive alla nostra redazione. Chi pone altre domande, chi avanza altri sospetti. "Come mai ancora oggi si sentono casi di barbare torture per estorcere confessioni, come in certi paesi incivili?", chiede Lydia Adamo "Come mai uno Stefano Santoro s'indigna per le foto da lei pubblicate e non batte ciglio per "lo stupro della legalità" commesso dai carabinieri? La tortura è illegale in Italia, giusto? Ultimo ma non meno importante, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo sono morti si, ma siamo certi che fossero davvero innocenti? O forse erano incappati in qualcosa più grande di loro e andavano eliminati? Poi, come la storia ci ha dimostrato, tutto viene messo a tacere torturando quattro sventurati.... ". Un altro dubbio, un altro inquietante sospetto di questa torbida storia. Maurizio Macaluso
Alcamo e la strage della casermetta. Rino Giacalone il 14 luglio 2008 su liberainformazione.org. Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire, o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo, per far diventare la Sicilia stato americano. In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Era la notte del 26 gennaio 1976, la mattina successiva due agenti dell’allora «squadra politica» della questura di Palermo di scorta al segretario Msi Giorgio Almirante passando da Alcamo Marina videro il cancello aperto e la porta della stazione sfondata, diedero l’allarme dentro furono trovati i corpi di Carmine Apuzzo, carabiniere semplice, e Salvatore Falcetta, appuntato, crivellati a colpi di pistola. Al delitto di mafia pensò subito la Polizia, i Carabinieri con le loro indagini presero altre direzioni, inquadrarono il movente nella vendetta di una sorta di anarchico, Giuseppe Vesco, lo arrestarono, lui accusò altre 4 persone, poi ritrattò e disse che altri erano stati i suoi complici, prima di uccidersi in carcere. Vesco aveva fatto i nomi di Giovanni Mandalà, Giuseppe Gulotta e due minorenni, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Secondo il racconto di Vesco Mandalà avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica, a sparare sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, Ferrantelli avrebbe solo messo a soqquadro le stanze. I 4 arrestati confessarono dopo estenuanti interrogatori successivi al loro arresto avvenuto il 13 febbraio successivo all’eccidio dei carabinieri della «casermetta», ma davanti al procuratore ritrattarono, raccontarono delle torture subite e delle confessioni estorte. Vesco nel frattempo cambiava versione e assumeva ogni colpa su di se rilevando che «altri soggetti erano stati suoi correi». Fu trovato morto, suicida, in carcere. Erano trascorsi pochi mesi dalla strage e dall’arresto. Privo di una mano Vesco riuscì ad impiccarsi con una corda sistemata in una finestra della cella a due metri da terra. Erano dei balordi, questa la conclusione di un tormentato iter giudiziario, concluso da condanne, scaturite da una serie di atti contenuti in faldoni dove oggi le indagini riaperte non hanno tardato a riconoscere che ci sono elementi più per assolvere che per condannare. Giovanni Mandalà di Partinico, è uscito da questa storia perchè deceduto,Vesco come si diceva si è suicidato prima ancora di presenziare al processo di primo grado (che si era concluso con le assoluzioni per tutti tranne che per Mandalà), Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo sono fuggiti via dall’Italia e sono in Brasile al sicuro dall’estradizione (condanne definitive rispettivamente a 14 e 22 anni anche per la loro minore età all’epoca del duplice delitto), unico a finire a scontare la pena, l’ergastolo, Giuseppe Gulotta: lui ha presentato istanza di revisione del processo (con l’avvocato Pardo Cellini), indicando la persona che lo (li) scagiona, un ex brigadiere dei carabinieri che ha svelato che in quei giorni a tavolino fu deciso di incolpare quei ragazzi della morte dei due carabinieri, torturati e minacciati, costretti a confessare. È stato il quotidiano «La Stampa» e il giornalista Francesco La Licata a raccogliere il suo racconto dopo che una puntata della serie «Blu Notte» di Carlo Lucarelli, ha rilanciato i misteri di quella strage «Nel 1976 – raccontò l’ex brigadiere a La Licata – facevo parte del Nucleo Anticrimine di Napoli e fui mandato ad Alcamo per indagare sull’uccisione dei due militari. Mi porto dentro un peso che non sopporto più. E’ vero che i giovani fermati furono torturati. Io stavo lì e ho visto. A Vesco, che poi accusò gli altri, gli fecero bere acqua e sale e lo seviziarono. Fece ritrovare anche alcuni oggetti e due pistole. Ma non bastò, volevano i nomi dei complici. Anche le confessioni di questi furono ottenute in quel modo». «Ci sarebbe – svela La Licata in un suo articolo riprendendo ancora la confessione dell’ex brigadiere dell’Arma – anche una registrazione audio dove è impressa la voce dell’ufficiale che quella notte dirigeva le operazioni». Giuseppe Gulotta da tempo ormai vive in Toscana, con moglie e un figlio, ha trascorso 17 anni in carcere, da poco ha ottenuto il regime di semi libertà. la sua storia e complessivamente quella della strage è stata anche ripresa e ricostruita da una settimanale locale a Trapani, «QP» e dal giornalista Maurizio Macaluso. Gulotta pochi giorni addietro hanno riferito i quotidiani «La Stampa» e «La Sicilia» è stato sentito in procura a Trapani: ha detto ai magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di non avere mai ucciso nessuno. «Mi sono commosso – ha raccontato Gulotta a La Licata per “La Stampa” – quando ho riproposto il film del mio arresto. Io che non capivo perchè mi mettevano le manette, io che venivo picchiato per confessare quello che non avevo fatto. Mi sono commosso quando ho ricordato la sentenza definitiva, coi carabinieri di Certaldo che mi sono venuti a prendere a casa. Piangevano pure loro, perchè mi conoscevano e sapevano che non avrei mai potuto commettere quei crimini. Piangevano, quando hanno dovuto strapparmi dal collo il mio bambino, che allora aveva un anno e mezzo». È partita una sorta di caccia – investigativa – su chi può avere ucciso i due carabinieri. Sui depistaggi e le torture, svelati dall’ex carabiniere, niente si può più fare, reati prescritti, ma su chi ha sparato, ancora è possibile indagare. Si stanno rileggendo vecchi atti giudiziari, ma anche verbali non proprio antichi, ce ne sono anche risalenti al 1999. Pentiti che parlando di quegli anni ’70 hanno confermato l’esistenza di piani di attacco allo Stato concordati tra mafia, eversione di destra, settori deviati dello Stato. Circostanze che non sono nuove raccontando di quell’Italia del 1976, travolta dalla cosiddetta «strategia della tensione», anni dopo si scoprirà che c’erano «poteri forti» come la massoneria, servizi segreti che servivano infedelmente lo Stato, a disposizione di politici rimasti nell’ombra, avevano stretto «patti» con uomini del terrorismo, della mafia, delle organizzazioni criminali. Uno «scambio di favori» per il quale tantissima gente è finita vittima innocente di bombe e attentati. La mafia fece parte di quel piano, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. Ciò che avvenne in quei giorni di gennaio ad Alcamo sembra proprio frutto di una strategia. Vennero dapprima uccisi un sindacalista socialista, Antonio Piscitello e poi il democristiano Francesco Guarrasi; la notte dell’omicidio Piscitello, in una strada di Alcamo furono trovati anche 14 candelotti di dinamite che non esplosero per caso. Nella notte del 26 gennaio vennero trucidati i due carabinieri. Per gli omicidi Piscitello e Guarrasi nel 1977 la polizia avrebbe arrestato tre personaggi che diventeranno famosi anche per altro, Armando Bonanno, Giacomo Gambino e Giovanni Leone che nel giro di qualche anno si sarebbe scoperto essere uomini d’onore, legati a quelle cosche invischiate in delitti ancora più gravi. Leone si trovò coinvolto nel sequestro dell’esattore Luigi Corleo, imparentato con i Salvo di Salemi, i potenti esattori, rapito e mai restituito alla sua famiglia. La banda Vannutelli si scoprì essere bene in contatto con ambienti della destra eversiva. Un quadro esatto di quello che accadeva in quegli anni in provincia di Trapani lo scrisse in un rapporto, del 2 dicembre 1976, il capo della squadra Mobile Giuseppe Peri: mafia ed eversione di destra alleate, colpevoli dei crimini del tempo, forse anche dell’incidente aereo del Dc9 caduto a Montagna Longa. Nella vicenda della strage della casermetta spunta anche il nome di Peppino Impastato, il giornalista ucciso nel 1978 dalla mafia a Cinisi. I carabinieri andarono anche nella sua abitazione a fare perquisizioni cercando prove di un coinvolgimento della sinistra extraparlamentare in quella strage e da Impastato fu trovato un volantino sulla strage della casermetta e che raccontava altro, denunciava che le indagini erano apposta pilotate verso ambienti politici della sinistra, un volantino scomparso, nei faldoni del processo per la uccisione dei carabinieri Falcetta e Apuzzo non se ne trova traccia, c’è il verbale di perquisizione in casa Impastato, ma quel volantino non c’è. In fin dei conti in questa vicenda questo sembra essere il passaggio più marginale. Ce ne sono di altre cose strane, anomale, alle quali la procura di Trapani oggi sta provando a fare chiarezza. Muovendosi doppiamente in maniera cauta, per il riserbo investigativo ma anche perchè i protagonisti di questa storia sono ancora «operativi». Ci sono indagini che in questi anni hanno riproposto scenari aggiornati rispetto a quelle commistioni del 1976, il «sistema» è rimasto in piedi, magari ha cambiato funzionamento e addentellati, si può anche essere chiamato «Gladio» o qualcos’altro, può avere avuto trovato utili riferimenti nelle logge massoniche di Palermo e Trapani o anche di Mazara del Vallo, dove c’erano comunque dei «punciuti» o per i riti esoterici o per quelli mafiosi, o per tutte e due le cose. Mentre Giuseppe Gulotta è tornato in Toscana alla sua semilibertà, e Ferrantelli e Santangelo stanno in Brasile. L’ultima volta furono rintracciati dai carabinieri, alcuni anni addietro: i militari partiti apposta da Trapani pedinando un sacerdote che faceva il fattorino per conto delle loro famiglie avevano, annunciato il loro arresto poi però negato, niente estradizione. Anche allora Ferrantelli e Santangelo dissero che loro non hanno mai ucciso nessuno.
Le memorie dal carcere di Giuseppe Gulotta, "mostro" d'innocenza. Accusato ingiustamente dell'omicidio di due carabinieri, ha passato vent'anni in galera. E ora li racconta in un libro. Matteo Sacchi, Venerdì 03/05/2013, su Il Giornale. È una storia da brividi. Uno strano incrocio tra gli eventi narrati ne La colonna infame di Manzoni e il caso Dreyfus. Eppure non è accaduto nel Secolo di Ferro o nella Francia dell'Ottocento. È accaduta in Italia, in Sicilia, in pieno regime di democrazia. Ed è costata più di un ventennio di galera a un innocente, come ha stabilito una sentenza della Corte d'Appello di Reggio Calabria il 13 febbraio 2012. Ora Giuseppe Gulotta che a lungo ha dovuto convivere con l'infamia di essere considerato il mostro di Alcamo, ha deciso di raccontare (con Nicola Biondo) la propria storia in un libro prossimo all'uscita: Alkamar. La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere). Ecco i fatti. Il 27 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, la stazione dei Carabinieri viene attaccata. Agli inquirenti la scena si presenta così: la porta della casermetta è stata abbattuta usando una fiamma ossidrica. Nelle loro brande giacciono, freddati, due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e l'appuntato Salvatore Falcetta. Sembra siano stati colti nel sonno, soltanto uno ha avuto un accenno di reazione. Da subito le indagini si rivelano complesse. L'attacco sembra un lavoro da professionisti, il fatto che i carabinieri siano colti nel sonno è poco spiegabile. Per non parlare del movente. Due le piste battute: quella mafiosa (l'anno prima erano stati uccisi l'assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Francesco Paolo Guarrasi, e il consigliere comunale Antonio Piscitello) e quella dell'attacco terroristico (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br). Viene spedita sul posto in maniera piuttosto informale una squadra investigativa dei carabinieri comandata da Giuseppe Russo (colonnello dei carabinieri poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d'oro al valor civile). Poi finisce nelle mani degli inquirenti un certo Giuseppe Vesco. È un carrozziere della zona, monco di una mano, viene trovato in possesso di armi e oggetti che sembrerebbero provenire dalla Stazione di Alcamo. La pista sembra buona e gli uomini di Russo si fanno prendere la mano. Come rivelerà, troppi anni dopo, uno di loro, Renato Olino, usano le maniere forti, molto forti. Vesco per sfuggire al dolore fa i nomi di una serie di ragazzi di Alcamo tra cui Giuseppe Gulotta. Olino non è convinto, vorrebbe attendere i riscontri della scientifica, gli altri vogliono giustizia subito, portano in caserma quelli nominati da Vesco. Secondo Gulotta, all'epoca manovale diciottenne che aveva appena fatto il concorso per entrare in Finanza, anche a loro tocca la linea dura. Ecco che cosa racconta nel libro: «Schiaffi, tre, quattro, a mano aperta... Mani coperte di guanti neri continuano a colpirmi... Il ferro freddo mi scortica la parte sinistra della faccia: è una pistola. Il clic del cane che si alza e si abbatte a vuoto». L'interrogatorio per cui non è stato fatto nessun verbale e a cui non presenzia l'avvocato dura diverse ore. Alla fine Gulotta cede: «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete». Nella testa di questo ragazzino terrorizzato ciò che conta è farli smettere. Non capisce che firmare una confessione può distruggergli la vita. Quando arriva al carcere di Trapani e finalmente incontra i magistrati prova a dire la sua verità: «Lei conferma quello che ha detto a verbale?. Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tutta la notte». Secondo Gulotta gli rispondono: «È impossibile che per le botte si confessi un omicidio». Gli fanno una visita medica, risultano delle contusioni, ma secondo i Carabinieri purtroppo è caduto...E da questo punto in poi la storia giudiziaria di Gulotta oscilla fra la sua testimonianza iniziale, le prove labili, e la modalità in cui si sono svolti gli interrogatori. Anche perché Vesco, il testimone chiave che ha coinvolto gli altri, in carcere si suicida. Pur essendo monco riesce a impiccarsi a una grata altissima e, per non disturbare, si posiziona anche un fazzoletto in bocca. La prima sentenza della corte di Assise di Trapani assolve Gulotta per insufficienza di prove. Però è vaga sulle violenze. Per ciò che è avvenuto nella caserma di Alcamo si limita a un «critico giudizio» e parla di «maltrattamenti e irregolarità». Nel 1982 si passa alla Corte d'Appello di Palermo che ribalta la sentenza: Gulotta è condannato all'ergastolo. Si accumuleranno i processi, sino a che il 19 settembre 1990 la sentenza diventa esecutiva. Gulotta deve entrare in prigione, per lo Stato è un assassino. Per un attimo ha la tentazione di fuggire, poi rinuncia. Entra in carcere, affronta il calvario cercando di essere un detenuto modello, per uscire il prima possibile. Nel 2010 arriva la libertà vigilata. Intanto qualcuno ha dei terribili rimorsi di coscienza. È l'ex brigadiere Renato Olino. Aveva già provato a raccontare di quegli interrogatori, soprattutto di quello di Vesco. Non trovò sponda istituzionale e nemmeno in certi giornalisti, che non vollero saperne delle sue verità. Poi però sul caso torna la televisione con la trasmissione Rai Blu notte - Misteri italiani, ricostruisce la storia anche se con alcune inesattezze e Olino via web si fa avanti per raccontare. Così la magistratura di Trapani apre un'inchiesta e arriva anche il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d'Appello di Reggio Calabria ha chiesto il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscioglimento raggiunto in via definitiva il 13 febbraio 2012. Sulle cause di un'indagine condotta così male si indaga ancora. Giuseppe Gulotta, che ha chiesto allo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro, racconta di essere tornato sul luogo dove c'era la stazione dei carabinieri di Alcamo Mare. Ora li c'è un cippo per i due carabinieri morti. A loro nessuno ha ancora dato giustizia, a lui l'hanno data con 36 anni di ritardo. Anni che non torneranno più.
Stefano Santoro pagina Facebook 15 novembre 2019 alle ore 22:20 ha condiviso un link. Vesco in contatto con Curcio .Fogli con stemma delle Br trovati nelle perquisizioni ad Alcamo nel 76., lo stato maggiore delle Br a Catania un mese prima della strage di Alcamo Marina, ovvero gli uomini del sequestro Moro. Una autovettura intercettata a Cefalù con dei brigatisti. Un tentativo di attentato con uomini vestiti da carabinieri, nei pressi di Messina, dopo la strage. Puzza di Br a Cinisi. Vesco disse nelle sue lettere, che chi fece quella incursione, non aveva esperienza di guerriglia.....Fossero stati estremisti di destra ,oggi ne parlerebbero tutti i giornali e si aprirebbero fascicoli contro ignoti. Viva la democrazia sinistriota!
MISTERI CATANESI. Aureliano Buendìa Sud Press 9 Luglio 2013. Lentamente, le timide scoperte delle indagini della Magistratura da una parte e il contributo di vari autori storici dall’altra, viene emergendo il ruolo strategico della città di Catania in alcuni Misteri italiani. Una città affidabile la nostra, che tiene per decenni i segreti nel suo ventre molle, un po’ come la lava che sembra inghiottire tutto ma che talvolta invece conserva in una sorta di bolla senza distruggere. Allo stesso modo alcuni ambienti hanno saputo nascondere, coprire e ricattare grazie a verità insopportabili. D’altra parte, Catania è periferia, persino rispetto a Palermo, e qui l’afa soffoca tutto, qui lo Stato, salvo qualche episodico errore, manda funzionari levantini, annoiati, preoccupati di passare indenni sotto l’Etna per poi incassare il premio alla loro omertà.
Quali sono questi ambienti e cosa nascondono e cosa hanno avuto in cambio? Si tratta di fatti delicatissimi, per alcuni dei quali non sarebbe ancora intervenuta alcuna prescrizione, ma noi del resto ce ne occupiamo per quel piacere della verità che coltiviamo non come esteti ma come cittadini che non dimenticano, come debito che manteniamo nei confronti di quanti hanno pagato con la vita. In questo pezzo ci occuperemo del delitto Moro e prima ancora dei contatti delle Brigate Rosse a Catania. Pochissimi sanno che il 12 dicembre del 1975 presso il centrale Hotel Costa – in via Etnea – alloggiavano Giovanna Currò con il suo compagno. In verità si trattava di Mario Moretti, capo storico delle BR, e della sua compagna Barbara Balzerani.
Cosa facevano i due brigatisti a Catania? Sono oramai centinaia i documenti che attestano come gli esponenti delle BR abbiano in diverse occasioni “preso un caffè” con i rappresentanti di Cosa Nostra e Catania aveva la sua influente Famiglia, della quale non a caso si ricorderà il Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa riprendendo la sua attività svolta come Generale e come responsabile delle carceri italiane. Sempre Moretti tornerà a Catania, nelle settimane successive, questa volta alloggiando all’Hotel Jolly di Catania, e cioè a 200 metri dal Palazzo di Giustizia e dal Comando provinciale dei Carabinieri. A Catania operava già un Nucleo di Lotta Continua, che era stato organizzato fino al 1976 da Franca Fossati, appositamente trasferitasi nella nostra città appunto per organizzare il gruppo etneo ed è noto che alcuni militanti di Lotta Continua passeranno alle Brigate Rosse proprio in quegli anni. Allo stesso modo sono più o meno noti gli spostamenti che la Faranda, storica carceriera brigatista, poi dissociatasi e che pare si sia opposta alla sentenza di morte nei confronti di Aldo Moro, effettuava da e verso Catania, godendo di una certa libertà. Nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro a Catania succedeva qualcosa di particolarmente grave, su cui non si è mai fatta piena luce, e cioè, mentre gli uomini di Dalla Chiesa si occupavano di prendere contatto nelle carceri con quei detenuti, anche appartenenti a Cosa Nostra, che potessero collaborare con lo Stato per dare informazioni utili alla liberazione dello statista e la Mafia da parte sua non vedeva l’ora di rendersi utile, agli uni (chi trattava) e agli altri (che volevano morto l’On. Moro), il 3 aprile – 16 giorni dopo la strage di via Fani ed in pieno rapimento – ignoti gambizzavano il Comandante delle guardie carcerarie di piazza Lanza. Qualcuno, ed anche chi scrive, ricorda nitidamente l’arrivo dei Carabinieri in assetto antisommossa entrare in forze dentro la Casa circondariale mentre altri uomini cinturavano letteralmente piazza Lanza e le vie limitrofe.
Cosa era accaduto? Cosa si cercava? Chi era detenuto a Catania in quel momento? Qualcuno voleva interrompere quel tentativo trattativista? Non risulta, di contro, che mai collaboratore di giustizia abbia chiarito la circostanza, probabilmente trattandosi di questione troppo alta e delicata per essere trattata da pentiti comunque di piccolo cabotaggio ed in ogni caso terrorizzati per le conseguenze. A Catania, si vivevano gli anni dello splendore dei Cavalieri mentre la Democrazia Cristiana – sul libro paga dei primi – era targata Andreotti, con il suo luogotenente l’on. Nino Drago, ed era fermamente contraria alla trattativa. Erano gli anni in cui un capomafia in piazza Università, alla fine di un comizio si era permesso, e si poteva permettere, di schiaffeggiare ostentatamente il rappresentante andreottiano e ciò accadeva senza che alcuno tra le forze dell’ordine osasse intervenire. Santapaola completava la sua scalata, eliminando di lì a poco proprio quel capomafia schiaffeggiatore. Pippo Fava osservava e scriveva, e sarebbe interessante indagare anche in questa direzione, su cosa cioè il coraggioso giornalista avesse scoperto della complicità tra mafiosi e settori dello Stato, in quella che sarebbe stata la madre di tutte le trattative ed anche di quella più scellerata che si sarebbe consumata 15 anni dopo. L’omicidio di Fava fu un fatto eclatante che non portò bene ai mafiosi e quindi non si può escludere che in quel 5 di gennaio del 1984 – siamo a meno di 6 anni dall’omicidio Moro, in piena celebrazione di uno dei tanti processi su quel mistero della Repubblica (il processo era cominciato il 14 aprile 1982), ad appena due anni dalla eliminazione “mafiosa” (la pista catanese?) del Prefetto Dalla Chiesa – qualcuno abbia fatto un favore a qualcun altro, secondo la teoria dei cosiddetti cerchi concentrici. I Siciliani di Fava, di Orioles e degli altri "ragazzi", scrivevano di Ciancimino, degli esattori di Salemi, dei rapporti con i Cavalieri del Lavoro; Calogero Mannino diventava segretario regionale della DC, Rocco Chinnici insisteva sul terzo livello. Il cav. Costanzo e Mario Ciancio Sanfilippo nel 1981 acquistavano il 16% del Giornale di Sicilia. Incredibile, quanti uomini della trattativa si incontrino già in quegli anni. Tornando all’anno del sequestro Moro – il 1978 – dobbiamo registrare un altro episodio inquietante, che assume i contorni di un messaggio probabilmente indirizzato alle alte sfere della Politica nazionale: il 14 di settembre di quell’annus orribilis diversi colpi di pistola attingono il segretario della federazione socialista di Catania. I socialisti di Craxi erano stati favorevoli alla trattativa per liberare l’on. Aldo Moro e Craxi aveva ricevuto dal Gen. Dalla Chiesa informazioni riservatissime sul rapporto delle BR a Catania con ambienti malavitosi organizzati e con i potentati cittadini che si apprestavano a conquistare l’Italia. Qualche mese dopo Salvo Andò veniva eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, rompendo il predominio democristiano che in Sicilia aveva visto fino ad allora i socialisti di Capria subalterni agli andreottiani. Interessante, sulle relazioni pericolose mafia-terrorismo, saranno anche le rivelazioni di un funzionario di polizia come Giovanni Palagonia, mentre più di tutti al cerchio magico catanese si avvicinerà, dopo Chinnici, Falcone e Borsellino, il PM Carlo Palermo, scampato all’attentato in cui persero la vita una mamma con i suoi due bambini trovatisi nel momento sbagliato nel luogo sbagliato. Catania, quindi, in quei giorni del rapimento Moro aveva il suo ruolo e le inconfessabili trame di quei giorni testimoniano il livello dei contatti catanesi, la commistione tra apparati dello Stato e crimine organizzato, il ruolo di alcuni imprenditori che avevano mostrato appoggi ed ambizioni smisurate, osservatori che avevano forse intuito tutto e che sarebbero caduti negli anni successivi sotto i colpi di quell’Anti Stato mentre altri avrebbero fatto e, pensiamo, alcuni continuano a fare carriera nelle Istituzioni. D’altra parte sono passati appena 35 anni, un tempo breve per i nostri longevi politici. Certi segreti, fino a tanto che rimangono tali, pesano sulla coscienza di una città e sul suo futuro come macigni, ciclopi di lava che tutto coprono ma non distruggono, perché i segreti come la lava si ingrottano. E tutto scorre. Le Brigate Rosse a Catania, i contatti con la Mafia, i Cavalieri e Dalla Chiesa…Autore Aureliano Buendìa
Stefano Santoro pagina Facebook 14 novembre 2019 alle ore 19:20 ha condiviso un post. Fabio Lombardo è il figlio del maresciallo Lombardo trovato morto nella sua auto, all'interno del cortile, del comando regionale dei carabinieri a Palermo. Alcuni giorni prima era stato attaccato dal sindaco Leo Luca Orlando, nello stesso modo, come era stato fatto con Falcone. Nell'auto del sottufficiale non c'era traccia di polvere da sparo. Si parlò di suicidio.
Fabio Lombardo pagina facebook 14 novembre 2019 alle ore 15:15. Negli ultimi 24 anni ho incontrato tanti giornalisti, la stragrande maggioranza dei lecchini e vigliacchi. Tra questi, 3 palermitani sono stati codardi: Salvo Palazzolo (La Repubblica ), una volta ha scritto un pezzo sulla borsa di mio padre scomparsa dall'auto. Ricordo di averlo incontrato dopo qualche mese e gli dissi: Salvo, perché non hai più scritto? Perché non ti sei fatto più sentire? Risposta: "Da quando ho scritto quell'articolo, i giudici non mi fanno più entrare negli uffici....quindi DEVO LAVORARE. Ah bene!
Salvo Sottile, dopo il 4 marzo 95 chiamava decine di volte al giorno perché voleva notizie, dicendo che era un amico e che il caso lo aveva toccato tanto....Infatti! Qualche anno fa ha inviato un suo giornalista per fare un servizio sulle irregolarità del caso Lombardo. La puntata non andò mai in onda. Perché? Un mistero.
Infine la nostra iena palermitana Ismaele La Vardera, direi più un gattino che gioca a fare il giornalista. Quest'estate mi contatta dicendo che vuole realizzare un servizio sul caso Lombardo, come quello Cucchi o Rossi. Intanto quando parlavo con lui mi sembrava di avere di fronte un bambino, perché, vista l'età, non conosceva i personaggi e diceva sempre: ma vero? Stai scherzando? Io penso che la redazione delle Iene non sapeva nulla su questa sua iniziativa. Chiedeva documenti particolari, nomi particolari...per fare cosa? Mi viene da ridere quando mi trovo giornalisti come questi. Un altro giornalista palermitano mi ha intervistato ma, prima di iniziare la conversazione gli chiesi se potevo parlare di Orlando. Risposta: No perché a Palermo ci devo lavorare....e Minchia! I giornalisti che hanno seriamente affrontato questa storia hanno dovuto pagare con la giustizia italiana... E ci tengo a ricordare Daniela Pellicanò, Giammarco Chiocci e Roberta Ruscica.
Stefano Santoro 13 novembre 2019 alle ore 06:10 pagina Facebook ha condiviso un link. Ecco chi è NICOLA BIONDO, colui il quale chiama bestie in divisa i carabinieri di Alcamo , ecco a chi ha affidato Giuseppe Gulotta, la stesura del suo libro. Leggete l'articolo. Mitrokhin, “palestra” per manipolatori occulti Il caso Nicola Biondo di Gabriele Paradisi – Gian Paolo Pelizzaro – Sextus Empiricus il 24 ottobre 2011. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin ha fatto da palestra ad alcuni manipolatori più o meno occulti. Come abbiamo più volte scritto, il caso più eclatante di manipolazioni multiple riguarda il “Documento conclusivo” di minoranza, presentato il 23 marzo 2006 dai commissari di centrosinistra. A quella relazione lavorò un agguerrito pool di consulenti, composto da magistrati, storici, ricercatori, giornalisti e aspiranti tali, fra cui tale Nicola Biondo. Durante i lavori della Commissione, Biondo ha vissuto in una sorta di totale anonimato. Raramente è uscito allo scoperto, mai è stato delegato a svolgere attività istruttorie come ricerche d’archivio, in Italia o all’estero, rare le sue comparsate durante le audizioni, sporadiche le sue presenze a Palazzo San Macuto per lo svolgimento di quelle attività di studio e lettura degli atti. Questa sorta di apatia, però, ha subito uno scossone nel luglio del 2005 quando Gian Paolo Pelizzaro, dopo 25 anni di totale segreto, ha trovato negli atti della Questura di Bologna il nome di Thomas Kram, ossia del terrorista tedesco presente in città il giorno della strage. Da quel momento, Biondo ha ritrovato il fuoco sacro del lavoro di ricercatore, vestendo immediatamente i panni di un inflessibile e zelante investigatore. Ha iniziato ad estrarre copia degli atti depositati in Commissione, ha fatto le ore piccole a leggere, studiare e congetturare. Si è documentato, a modo suo, facendo una sorta di corso accelerato sulla storia del superterrorista Carlos e della sua organizzazione “Separat”, scaricando da internet intere rassegne stampa e quant’altro. Da un giorno all’altro, si è trasformato in un “grande esperto” di terrorismo internazionale e in particolare di quello di matrice arabo-palestinese (per il quale ha tradito una “passione” molto speciale), capace di dispensare – a destra e a manca – patenti e certificati di attendibilità di questo o quel documento, su questa o quella ricostruzione dei fatti. Il personaggio, dall’alto della sua profonda conoscenza e suprema competenza, ha iniziato ad esprimere giudizi e a sparare sentenze su questo o quell’argomento: l’importante è che si parlasse di Carlos e del suo ipotetico ruolo (come capo di “Separat”) nell’organizzazione della strage alla stazione di Bologna. Obiettivo: demolire, anche con informazioni e notizie fasulle, ogni ipotesi di collegamento tra il gruppo del terrorista venezuelano, il terrorismo di matrice arabo-palestinese e l’attentato del 2 agosto 1980. Lentamente, ma inesorabilmente Biondo, da anonimo e svogliato collaboratore della Mitrokhin, si è tramutato in un infaticabile censore e castigatore. Uno dei più severi e spietati. Meglio tardi che mai, si potrebbe obiettare. Il suo nome è venuto fuori prepotentemente un anno dopo la scoperta del nome e del ruolo di Kram a Bologna e quattro mesi dopo la formale chiusura dei lavori della Commissione Mitrokhin, in due articoli-fotocopia pubblicati il 28 luglio del 2006 dai quotidiani di sinistra Liberazione e l’Unità, basati su un medesimo elaborato, proprio a firma Biondo. Gli articoli erano titolati “2 agosto strage di Bologna: smentita la pista araba” (Saverio Ferrari, Liberazione”) e “Quanti depistaggi per coprire la strage fascista” (Vincenzo Vasile, l’Unità) e cercavano, partendo proprio dalle avventurose “ricostruzioni” di Biondo, di dimostrare l’esistenza di un fantomatico piano da parte di alcuni esponenti di An per depistare (non si sa cosa, visto che su Bologna dal 1995 c’è il giudicato della Cassazione), dalla matrice fascista della strage. In uno degli articoli si leggevano frasi di questo tenore: «Smascherato l’ultimo depistaggio di Alleanza nazionale costruito con documenti mai esistiti». Non solo temerari, ma pericolosamente superficiali. Ebbene, grazie a Biondo e alle sue teorie, i direttori responsabili dei due quotidiani, così come gli estensori degli articoli, sono stati tutti querelati e rinviati a giudizio per diffamazione aggravata dal mezzo stampa. C’è un processo in corso davanti al Tribunale Penale di Roma e la prossima udienza dibattimentale è fissata al 7 novembre 2011 (per un approfondimento sulla vicenda, si veda anche l’articolo “Un omicidio senza colpevoli”, LiberoReporter, febbraio 2011). Anche con un certo coraggio (vista la palese violazione delle norme e delle regole sulla tenuta del segreto e sulla riservatezza alle quali si devono attenere coloro che hanno fatto parte delle commissioni d’inchiesta), Biondo è citato come teste da parte degli imputati. Vedremo cosa dirà, sotto giuramento, il nostro castigatore. Intanto, abbiamo scoperto un altro prezioso riscontro al metodo scientifico impiegato da Biondo per svolgere il suo lavoro di ricercatore attento e scrupoloso. Abbiamo così preso in esame l’edizione italiana del libro di Emmanuel Amara, “Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra” (Cooper, febbraio 2008, pp. 205), con introduzione di Giovanni Pellegrino, traduzione di Alice Volpi e curato proprio da Nicola Biondo. Per apprezzare la qualità e la raffinatezza dei suoi interventi, è però necessario procurarsi l’edizione originale francese del libro di Amara, “Nous avons tué Aldo Moro” (Patrick Robin Éditions, novembre 2006, pp. 175). Mettendo a confronto i due testi si rileva una serie impressionante di modifiche che spesso cambiano il senso del discorso. Interventi, questi, che non possono certo essere imputati alla traduzione. Volendo farne una dettagliata classificazione, possiamo riconoscere:
1. L’aggiunta di 46 note a pie’ di pagina, intervento in apparenza migliorativo, ma non segnalato come tale (nel testo originale francese non vi è infatti alcuna nota).
2. L’eliminazione di brani (significativa ci sembra la soppressione delle cinque pagine di testo con le dichiarazioni di Giulio Andreotti sul caso Gladio dell’ottobre 1990).
3. Traduzioni modificate mediante aggiunte o sottrazioni di parole o manipolazioni di testo.
4. Trasformazioni di parti di testo virgolettate (ossia citazioni degli intervistati) in brani apparentemente attribuiti all’autore (ossia Amara).
Va dato atto che Biondo, a pagina 14, ha avuto l’accortezza di preavvisare i lettori con una dichiarazione pedagogico-programmatica: «La versione originale di questo volume ha subito alcune modifiche nell’edizione italiana. Ciò è dipeso dalla necessità di rendere il testo quanto più comprensibile a coloro che non hanno vissuto direttamente quella storia e a chi l’ha dimenticata. Altre modifiche si sono rese necessarie a causa dell’emergere di documenti e testimonianze successive alla pubblicazione dell’opera in Francia». Il lettore dell’edizione italiana non è tuttavia in grado di identificare nessuna delle modifiche apportate dal curatore. Volendo anche seguire il ragionamento di Biondo (excusatio non petita?), non si capisce nemmeno quali siano i nuovi documenti emersi tra la pubblicazione in Francia del lavoro di Amara (novembre 2006) e la pubblicazione in Italia dell’edizione curata da Biondo (febbraio 2008). Ad ogni modo, veniamo al dunque per fare apprezzare alcuni eclatanti e macroscopici esempi di “chirurgia giornalistica”, veri e propri “trapianti multipli” eseguiti da quel ligio e solerte “gendarme della memoria” di Nicola Biondo. Cerchiamo ad esempio di verificare cosa c’era nel testo originale francese di così poco fruibile per il pubblico italiano. Presto detto: c’erano alcuni “organi” decisamente corrotti e impresentabili che andavano assolutamente e tempestivamente rimossi e sostituiti con organi “sani”. Qui di seguito alcuni esempi.
Testo originale edizione francese
Testo manipolato edizione italiana
[p. 15] “L’OLP de Yasser Arafat fournit des armes de tous calibres aux Brigades rouges et le magistrat [Ferdinando Imposimato] y voit également une connexion entre le KGB et les brigadistes.”
[traduzione] “L’OLP di Yasser Arafat fornisce armi di tutti i calibri alle Brigate rosse e il magistrato [Ferdinando Imposimato] vede anche una connessione tra il KGB e i brigatisti.”
[p. 31] “Una fazione dell’Olp di Yasser Arafat riforniva le Brigate rosse di armi di ogni calibro e il magistrato [Ferdinando Imposimato] si chiede se attraverso questi rapporti accertati le Br siano entrate in contatto con i servizi segreti di altri Paesi.”
Subdolo intervento di sublime maestria. L’Olp di Yasser Arafat, icona della sinistra fin dagli anni Sessanta, non poteva certo essere citata e messa sul banco degli imputati come responsabile dei traffici di armi con le Brigate rosse. Quindi era meglio coinvolgere qualche imprecisata fazione palestinese, magari eretica ma pur sempre in termini generici, senza calcare la mano su Arafat. Poi, la certezza di un magistrato [“che vede connessioni”] si trasforma in una semplice domanda [“si chiede se esistano connessioni”]. Ma il finale indubbiamente ha qualcosa di straordinario, di funambolico. Il famigerato Kgb, che però dobbiamo ricordare è stato pur sempre il potente servizio segreto della Grande Madre Sovietica “sol dell’avvenire”, è eliminato dal testo e soppiantato da più rassicuranti e imprecisati “servizi di altri Paesi” (quali poi? non è dato saperlo), con la speranza che nella testa di un lettore qualsiasi possa spuntare anche l’idea della Cia, perché no. Ora viene da domandarsi se l’autore del libro, Amara, sia stato consultato e se abbia concordato con Biondo queste manipolazioni che, da un punto di vista tecnico, alterano in profondità il significato originale. Biondo nello stesso libro si è adoperato anche in difesa di un’altra “sacra icona” della sinistra, ovvero il mitico Sessantotto. In questo caso il trapianto ha comportato anche un leggero spostamento temporale.
Testo originale edizione francese
Testo manipolato edizione italiana
[p. 29] “Depuis la fin des années 60, L’Italie est plongée dans le chaos”.
[traduzione] “Sin dalla fine degli anni Sessanta, l’Italia è immersa nel caos”.
[p. 50] “Dalla metà degli anni Settanta l’Italia è piombata nel caos”. Tutto questo non può essere derubricato come un banale caso di (scorretta o errata) esegesi. È qualcos’altro. Nasconde dell’altro. Ha altre e più inquietanti implicazioni. Il mettere mano ai testi, ai documenti, manipolare il contenuto, alterare il loro significato è un’attività non casuale, non banale, non innocente. È un’attività che ha delle finalità. Tutto questo nasconde una volontà e un movente. Tutto questo deve avere un perché. Ciò che stupisce e inquieta è l’assoluta mancanza di rispetto del dato reale. In Italia, c’è un piccolo esercito di “gendarmi della memoria” che lavora per imbrogliare, occultare e manipolare i fatti. C’è ancora chi, a distanza di 22 anni dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo dei regimi dell’Est, teme la verità come fosse un morbo mortale per la coscienza collettiva. Per questi signori, cresciuti nelle menzogne della propaganda ideologica, la verità deve essere funzionale al dato politico. Altrimenti va estirpata come una pianta malata.
Pillole di saggezza «La cultura, la lingua, la forma mentis del falsario finiscono sempre per fare capolino, anche nelle più sagaci fabbricazioni». (Luciano Canfora, “Il viaggio di Artemidoro”, Rizzoli, Milano 2010, pp. 313). (Dal nostro portale tematico segretidistato.it)
Stefano Santoro pagina facebook 27 ottobre 2019 alle ore 15:09. Il movente, solo il movente resta il mistero sulla morte di Salvatore e Carmine. Di recente ho appreso ,da fonte autorevole, che in Calabria la stessa notte, in una casermetta di campagna , un plotone di carabinieri era pronto ad affrontare una incursione di alcuni terroristi. Non accadde nulla, o meglio, una strage avvenne ad Alcamo Marina, e quei carabinieri si spostarono ad Alcamo per i rastrellamenti. Rimane il mistero sulla figura di Giuseppe Vesco, i suoi rapporti con i Nap, le sue lettere inviate al più grande anarchico italiano, Alfredo Maria Bonanno, che non solo pubblicò le lettere sulla rivista Anarchismo, ma commentò il "fatto" . Perché Bonanno le pubblica , e ne trae spunto per esprimere le sue idee , e perché Vesco fa riferimento a Sansone ,ex brigatista e ai compagni ? Chi conosceva Vesco, nell'ambiente anarchico? Siamo certi che non aveva una preparazione letteraria, anarchica ideologica, tale , da non poter scrivere quelle lettere ? Perché Giuseppe Vesco , tentò di arruolare ad Alcamo, suoi coetanei , proponendo una lotta di classe (vedi intervista nel dossier Ammazzaru du sbirri) . È chiaro che i carabinieri non approfondirono all'epoca, la figura di Vesco . Quali soggetti , quali mandanti, o quali complici Vesco coprì durante le sue rivelazioni ? Perché i carabinieri si spinsero fino a Cinisi, a casa di Peppino Impastato , dopo aver perquisito attivisti di sinistra e di destra , nel territorio tra Alcamo e Castellammare ? Chi aveva l'interesse di "suicidarlo" ? Esiste ancora oggi qualcuno, che potrebbe dare risposte a queste domande ? Voi che leggete come al solito rimarrete muti , si dice in gergo alcamese..."mi fazzu lu me filaru". Siamo un popolo a cui hanno imposto una cultura del mutismo, dinanzi a certe situazioni. La libertà di ogni uomo, è anche partecipazione, senza la paura di dover esprimere la propria opinione. Questa società d'altronde, ci ha lasciato solo la libertà di opinioni, e poco, pochissimo potere decisionale sulla vita pubblica. Grazie per la lettura.
· Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.
GIALLI: BORSELLINO, ROSSI, PANTANI: E’ DEPISTAGGIO CONTINUO. Andrea Cinquegrani su lavocedellevoci.it l'8 Luglio 2019. L’eterno giallo sulla strage di via D’Amelio. La vergogna di una verità non raggiunta, di una giustizia che non arriva. E lo scandalo di un maxi depistaggio di Stato, orchestrato proprio da chi avrebbe dovuto operare per mandare in galera killer e mandanti: ed invece ha coperto, occultato, sviato. La più colossale menzogna costruita calpestando la memoria del giudice coraggio Paolo Borsellino, il simbolo, con Giovanni Falcone, nella vera, autentica lotta alle mafie e ai loro riciclaggi stramiliardari. I cittadini sono ormai stufi di marce, marcette, sbandierate e sceneggiate: vogliono la verità su quei morti, e vedere finalmente sotto processo tutti quelli che fino ad oggi l’hanno fatta franca. Siamo alla seconda puntata sui Misteri d’Italia, che sono in piedi da decenni, come tanti sepolcri imbiancati. Abbiamo parlato del caso clou, quello che ha visto l’assassinio a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E adesso siamo al giallo della strage di via D’Amelio, che guarda caso ha non pochi punti in comune.
QUEL DEPISTAGGIO CHE HA NOMI E COGNOMI. In primo luogo perché, come nel giallo Alpi, siamo in presenza di un clamoroso Depistaggio di Stato. Sul quale fino ad oggi non si sono levate proteste, in mezzo ad un totale, complice silenzio politico e istituzionale. Nessuna forza politica, infatti, è scesa in campo per dire una parola su quel depistaggio, né il governo gialloverde, né l’impalpabile opposizione, né s’è udita una sillaba da parte del presidente mummia Sergio Mattarella. Una vergogna. Un depistaggio sul quale s’è aperto un processo: alla sbarra tre poliziotti che facevano parte, all’epoca delle prime indagini, del team guidato dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Un uomo anche dei Servizi segreti, La Barbera, sul quale è stata scaraventata tutta la responsabilità per il depistaggio, vale a dire il taroccamento del pentito Vincenzo Scarantino. Adesso La Barbera non può difendersi, perché da una quindicina d’anni è passato a miglior vita. Non può quindi più raccontare se ha fatto tutto di testa sua, se ha organizzato la tragica sceneggiata da solo, oppure se ci sono stati interventi dall’alto, ad esempio dei magistrati dai quali funzionalmente e gerarchicamente dipendeva.
Il falso pentito Vincenzo Scarantino: A questo punto sorge spontanea la domanda: riuscirà mai il processo in corso sul depistaggio a chiarire quale effettivo ruolo hanno giocato i magistrati? Vorranno e potranno raccontare quello che è veramente successo i tre poliziotti ora alla sbarra? Sarà verità oppure omertà? Staremo a vedere. Il nodo sta tutto nella costruzione a tavolino del pentito Scarantino. Una costruzione emersa mano a mano, attraverso non poche testimonianze. La verbalizzazione sulla strage di Scarantino era servita a far condannare 7 innocenti che hanno scontato la bellezza di 16 anni di galera. Proprio come è successo per il giovane somalo che ha scontato sempre 16 anni (sembra un macabro rituale) per un omicidio mai commesso, quello di Ilaria e Miran, sulla base della testimonianza taroccata di un altro somalo, alias Gelle. Nella sua ultima verbalizzazione Scarantino (e così poi ha fatto la moglie) ha descritto per filo e per segno tutta l’operazione-taroccamento. E’ stato minacciato, intimidito, convinto non certo con metodi anglosassoni ad imparare un copione a memoria. Ogni giorno, prima delle udienze processuali, veniva istruito come uno scolaretto, gli veniva fatta ripetere la parte. Gli era stato anche detto che in caso difficoltà avrebbe potuto chiedere di andare in bagno, lì dove avrebbe trovato un poliziotto pronto a ricordagli la parte e imbeccargli le risposte. Ai confini della realtà.
Nino Di Matteo: Tutto questo è ormai storia. Ora occorre arrivare agli autori del testo della sceneggiata. In che misura e con quali ruoli sono coinvolti i tre magistrati che ne hanno “gestito” il pentimento, ossia Anna Maria Palma, Carmine Petralia e Nino Di Matteo? La figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, ha più volte puntato l’indice nei confronti dei magistrati che fino ad oggi non hanno subito alcuna conseguenza, né civile, né penale. Chiede con la forza e la passione civile che la animano di accertare per ciascuno le precise responsabilità. Potranno saltare fuori dal processo che vede alla sbarra i tre poliziotti? Da tener presente un elemento non da poco. Uno dei tanti magistrati che hanno seguito le prime piste per far luce sulla strage di via D’Amelio è stata Ilda Boccassini. Toga di gran prestigio, la quale ha potuto valutare l’attendibilità di Scarantino. E prima di passare alla procura di Milano, ha inviato una memoria ai suoi colleghi – evidentemente Palma, Petralia e Di Matteo in prima fila – per metterli in guardia da un pentito del tutto inattendibile e inaffidabile come Scarantino. Ma di tutta evidenza i colleghi non hanno tenuto in alcun conte le sue parole. Sarà possibile approfondire tale circostanza nel corso dell’odierno processo per il maxi depistaggio?
DAVID ROSSI. GENOVA INDAGA SU SIENA (?) Passiamo ad altri due gialli senza mai alcuna risposta. Nemmeno parziale. Con il concreto rischio che vadano a finire definitivamente in naftalina. Stiamo parlando dei casi di David Rossi e Marco Pantani. Accumunati, anche stavolta, da non poche, tragiche somiglianze. Una cortina di silenzio sta sempre più avvolgendo la morte dell’ex responsabile delle comunicazioni per il Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, volato giù dal quarto piano della sede centrale in via dei Salimbeni, a Siena. Un caso che la procura di Siena ha più volte cercato di archiviare, sostenendo la tesi del suicidio. Una tesi che non sta in piedi, manifestamente infondata, per tutta una serie di anomalie che anche uno scolaretto delle elementari sarebbe in grado di vedere. Per questo oltre un anno fa il fascicolo è passato alla procura di Genova, che dovrebbe indagare anche sulle stesse indagini farlocche portate avanti a Siena. Ma da Genova non arrivano notizie. Tutto fermo, a quanto pare. Come mai? C’è forse qualche remora nel cavar fuori scomode verità sulle inerzie, quanto meno, dei colleghi senesi? Periodicamente saltano fuori alcune news, soprattutto per i servizi mandati in onda dalla Iene. Ed emergono di volta in volta notizie su festini, attività massoniche, strani intrecci all’interno del Monte dei Paschi, interventi vaticani. Poi di nuovo cala il silenzio più assordate. Una scena del crimine che parla da sola, come documentano alcune perizie. Quella sulla dinamica della caduta del corpo, da cui risulta chiaro come si sia verifica una spinta e non si possa essere trattato di una caduta da suicidio Poi la perizia grafologica, per dimostrare come le due lettere lasciate ai familiari da David Rossi fossero state scritte sotto coazione. E soprattutto quella medica che evidenzia segni di colluttazione sul corpo, da trascinamento e da sollevamento: che fanno letteralmente a pugni con ogni ipotesi di suicidio. Senza contare uno degli elementi base. I vertici MPS – già teatro di diverse altri morti sospette di funzionari in quei bollenti anni di “crisi”, come viene documentate nel libro “Morte dei Paschi di Siena” di Elio Lannutti – erano a conoscenza del fatto che a brevissimo David Rossi si sarebbe recato dai magistrati per raccontare la sua verità sugli scandali targati Mps. Una testimonianza che poteva risultare devastante. Per questo David non doveva parlare.
GIALLO PANTANI, COME E’ MORTO IL PIRATA? Le Iene il 25 ottobre 2019. Com’è morto davvero Marco Pantani? Si è trattato del suicidio di un uomo disperato e tossicodipendente oppure è stato ucciso per ragioni da chiarire? Come abbiamo visto nelle precedenti parti del nostro speciale sulla morte di Marco Pantani, sono ancora tante le cose che sembrano non tornare nella ricostruzione ufficiale della vicenda. In questa sesta parte, che potete vedere qui sopra, vi raccontiamo tutto quello che abbiamo scoperto indagando sul caso con Alessandro De Giuseppe. Sulla tragedia sono state fatte due differenti indagini: la prima, subito dopo la morte del Pirata, concluse che Marco era morto in maniera quasi accidentale, come un tossicodipendente che aveva esagerato con la cocaina. Furono condannati Fabio Miradossa e Ciro Veneruso per avergli procurato la droga, ma non si indagò per omicidio. Nel 2014 un esposto della famiglia di Marco spinse le autorità a riaprire il caso. Fu avviata una indagine per omicidio a carico di ignoti, ma si giunse alle medesime conclusione: Pantani si sarebbe ucciso perché depresso dopo le accuse di doping e dipendente dalla cocaina. Nelle due ricostruzioni però sembrano esserci molti punti che non tornano. “La realtà ufficiale si discosta completamente dal racconto di molti testimoni che non si conoscono neppure tra di loro” dice l’avvocato della famiglia Pantani, De Rensis. Ed in effetti le cose che non tornano sembrano essere parecchie, come potete vedere nel video qui sopra. Qui vi riproponiamo un breve riassunto: la stanza in cui Marco viene trovato è tutta a soqquadro, ma non c’è nulla di rotto. Com’è possibile? La mattina della morte, inoltre, Pantani chiama più volte alla reception del residence dove si trova chiedendo l’intervento dei carabinieri: nessuno, però, li chiama. Nel sangue del Pirata viene trovata una quantità di cocaina altissima, almeno dieci volte più alta della dose minima necessaria a causare la morte per overdose. Il suo corpo, inoltre, sembra essere stato spostato prima che venisse ritrovato. Nessuno ha rilevato le impronte digitali sulla scena, nessuno ha mai cercato e interrogato le persone che sostengono di averlo visto nelle ore e nei giorni precedenti alla morte, quando secondo la ricostruzione ufficiale Marco non avrebbe mai lasciato la stanza del residence. I primi soccorritori a intervenire non vedono cocaina intorno al corpo e non vengono mai chiamati a deporre. Tre diversi testimoni dicono di aver visto il lavandino del bagno della camera divelto e buttato sul pavimento: nel video della scientifica, però, il lavandino è regolarmente alloggiato nella sua posizione originaria. Alla fine abbiamo fatto incontrare la mamma di Marco Pantani con Fabio Miradossa, lo spacciatore che riforniva il Pirata nell’ultimo periodo della sua vita. “Non cerco il perdono però ho bisogno di chiederle scusa”, ha detto Miradossa ad Alessandro De Giuseppe. Secondo lo spacciatore Marco aveva con sé c’erano almeno 20mila euro, che non sono mai stati ritrovati. Vi avevamo già anticipato alcuni dubbi sulla morte del Pirata nella prima parte del nostro speciale. Dopo aver ripercorso la sua strepitosa carriera ciclistica, dagli esordi fino al trionfo delle doppietta Giro-Tour del 1998, vi abbiamo portato nel suo inferno iniziato il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Tra giri di scommesse clandestine e possibili intromissioni della criminalità, sono emersi alcuni dubbi sull’attendibilità delle analisi che lo hanno costretto a fermarsi in quel Giro d’Italia: sono state manipolate? E se sì, da chi? È possibile che ci sia stato un interesse economico da parte della camorra nel far precipitare il Pirata fuori dalla Corsa rosa? Quel momento ha segnato indelebilmente la vita di Marco, che non è mai riuscito a uscire dalla depressione e dalla tossicodipendenza. Noi pensiamo che la verità su Marco Pantani non sia ancora stata trovata: siamo convinti che continuando a cercare prima o poi qualcuno sarà in grado di trovare le risposte che ancora mancano. Lo abbiamo detto anche alla Commissione parlamentare antimafia, quando ha deciso di ascoltarci sul caso. Speriamo davvero che mamma Tonina e tutti i tifosi del Pirata possano trovare la pace della verità.
Speciale “Com'è morto Pantani?”: mamma Tonina incontra lo spacciatore. Le Iene il 22 ottobre 2019. Giovedì 24 ottobre su Italia1 a partire dalle 21.15 Alessandro De Giuseppe ci racconta tutte le cose che non ancora tornano sulla ricostruzione ufficiale della morte di Marco Pantani, con nuove interviste e testimonianze esclusive. E l’incontro tra mamma Tonina e Fabio Miradossa, lo spacciatore che riforniva il Pirata di cocaina. E che è certo: “Marco è stato ucciso”. Quelle di mamma Tonina e di Fabio Miradossa non potrebbero essere storie più lontane tra loro. Ma hanno una cosa in comune: sono le uniche due persone ad aver finora “pagato” per la morte di Marco Pantani, una tragica vicenda su cui non si è ancora davvero fatta luce. Alessandro De Giuseppe, nello speciale de Le Iene “Com'è morto Marco Pantani” in onda giovedì 24 ottobre su Italia1 dalle 21.15, affronta tutti i punti oscuri della morte del Pirata, trovato senza vita nella camera del residence Le Rose di Rimini, il 14 febbraio 2004. Una vicenda alla quale abbiamo dedicato numerose inchieste, e che continueremo a seguire fino alla verità: come e perché è morto Marco Pantani. Mamma Tonina e lo spacciatore Fabio Miradossa, che riforniva Pantani di cocaina, non si erano mai incontrati prima. “Non cerco il perdono però ho bisogno di chiederle scusa”, ha detto Miradossa ad Alessandro De Giuseppe. E poco dopo quella intervista, che vedrete nello speciale de Le Iene, mamma Tonina, che non lo ritiene responsabile della morte del figlio, accetta di incontrarlo. È un momento molto emozionante, al termine del quale Tonina convince Miradossa ad andare a visitare per la prima volta la tomba di Marco. “Sono vent’anni che lotto, quello che voglio da te è una mano”, gli dice subito Tonina non appena i due si appartano tranquilli. E Fabio Miradossa ribadisce quello che già aveva detto al nostro Alessandro de Giuseppe: "Io mi sto autoaccusando, ma le sto dicendo che occorre seguire i soldi. I soldi non li ho presi io, mancano dei soldi. Sa cosa mi è stato risposto? Ci stai prendendo per il culo, i soldi li hai presi tu. E allora ho deciso di patteggiare, non la vogliono la verità…”. Miradossa ci aveva raccontato di quei 20mila euro che Pantani aveva prelevato poco prima di morire, e che servivano per pagare una nuova fornitura di droga e vecchi debiti che aveva con Miradossa. Soldi mai ritrovati in quella stanza e dunque sottratti da qualcuno. E sulle cause della morte di Marco Pantani lo spacciatore napoletano era stato nettissimo: “Marco non è morto per la cocaina: Marco è stato ucciso. Non sniffava la roba ma la fumava e in quella stanza del residence c’è solo traccia di cocainomani che sniffavano. Chi ha creato quella situazione non era informato bene…”
"MARCO PANTANI E’ STATO UCCISO". Da Le Iene l'8 ottobre 2019. Stasera a Le Iene su Italia1 a partire dalle 21.15 Alessandro De Giuseppe torna sulla morte del campione di ciclismo Marco Pantani, deceduto ufficialmente per un arresto cardiaco da abuso di droga e farmaci. Ma Fabio Miradossa, lo spacciatore che gli vendette l’ultima dose di cocaina e che parla per la prima volta, è sicuro: “Marco non è morto per questo, è stato ucciso”. Alessandro de Giuseppe torna ad occuparsi della misteriosa morte di Marco Pantani nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1 dalle 21.15. Il corpo del Pirata viene ritrovato senza vita il 14 febbraio 2004 nella sua stanza d’hotel al residence Le Rose di Rimini. Il campione di ciclismo, vincitore del Giro d’Italia e del Tour de France nel 1998, squalificato per livelli di ematocrito troppo alti rilevati nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999 (clicca qui per il servizio, sempre di Alessandro De Giuseppe, sui molti dubbi anche su questa storia), aveva 34 anni. La giustizia ha chiuso il caso parlando di morte per overdose da cocaina. Il decesso sarebbe la conseguenza di comportamenti ossessivi di Pantani, che dopo aver esagerato con la droga avrebbe sfasciato tutta la stanza facendosi del male da solo e poi sarebbe morto per un arresto cardiaco causato da un cocktail di cocaina e farmaci. Le Iene intervistano in esclusiva Fabio Miradossa, lo spacciatore di cocaina che vendeva la droga al Pirata e che gli avrebbe procurato anche l’ultima dose: quella che l’avrebbe portato alla morte. E Miradossa, che dopo essere uscito dal carcere non ha mai parlato con nessuno, ci racconta una storia completamente diversa quella ufficiale. “Marco non è morto per cocaina. Marco è stato ucciso. Magari chi l’ha ucciso non voleva farlo, ma è stato ucciso. Non so perché all’epoca giudici, polizia e carabinieri non siano andati a fondo. Hanno detto che Marco era in preda del delirio per gli stupefacenti, ma io sono convinto che Marco quando è stato ucciso, quando è stato ucciso, era lucido. Marco è stato al Touring, ha consumato lì e quando è ritornato allo Chalet (il Residence Le Rose, ndr.) Marco era lucido”. Guardate tutte le altre dichiarazioni esclusive fatte da Miradossa, dopo che anche il nostro Alessandro de Giuseppe è stato sentito in commissione Antimafia, alla quale ha riferito tutti gli elementi in suo possesso, nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1 dalle 21.15
MARCO PANTANI. GIRI E GIRONI INFERNALI. Così come non avrebbe mai dovuto parlare Marco Pantani sugli scandali del doping nelle corse e sulle mani delle scommesse pilotate dalla camorra in occasione del Giro d’Italia del 1999. Un giallo che dovrebbe tornare ancor più di attualità oggi, dopo le recenti rivelazioni su un altro giallo, la morte del calciatore David Astori. La fine di Pantani resta avvolta in una cortina di nebbia su cui la magistratura non ha voluto far luce. La scena del crimine, quel 14 febbraio 2004 al residence Le Rose di Rimini, parlava in un modo che più chiaro non si può. Una stanza sottosopra, il letto squarciato, un giubbotto non si sa chi di chi e soprattutto un corpo che racconta di ferite, trascinamento, tracce ematiche, tutto evidente frutto di una colluttazione. E ancora, una pallina di pane e coca che avrebbe dovuto subito indirizzare gli inquirenti verso una pista ben precisa: Pantani venne “abboffato” con palline di pane e coca, tali da provocargli un arresto cardiaco. Ma quella scena del crimine è stata subito inquinata: indagini fatte con i piedi e, per fare un solo esempio, tracce di un cornetto Algida nel contenitore dei rifiuti, lì lasciato – così scrivono i magistrati – da chi ha subito fatto le indagini: forse per concentrarsi meglio…Cento e passa anomalie, ha denunciato con amarezza il legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis. Che si è dovuto arrendere davanti alla richiesta di archiviazione sancita dalla procura di Forlì e poi ratificata dalla Cassazione. Sotto il mero profilo tecnico resta in vita una flebile inchiesta alla Procura di Napoli, affidata al pm antimafia Antonella Serio. Lo stesso De Renzis, ingoiata la sentenza della Cassazione, ha cercato di far riaprire il caso del Giro d’Italia 1999, quello che decretò la fine sportiva e anche umana del Pirata. Un Giro chiaramente comprato e taroccato dalla camorra, che aveva scommesso miliardi di lire, all’epoca, sulla sconfitta del campione. Il quale fu fermato, infatti, al tappone di Madonna di Campiglio. Per uno ematocrito troppo elevato, frutto di una combine, proprio perché la camorra aveva effettuato quelle maxi scommesse. Non ci volle molto a “convincere” con metodi non proprio inglesi i medici dell’equipe ad alterare quei dati. “Oggi il ciclismo è morto”, disse quel giorno il capo equipe, un medico svedese, Wim Jeremiasse, dopo qualche mese “affondato” in un lago austriaco. Della combine aveva parlato un camorrista in carcere a RenatoVallanzasca, e da lì partì l’indagine della procura di Forlì. Che identificò quel camorrista, il quale confermò la sua versione, poi ribadita da diversi altri pentiti di camorra. Ma che fa la procura di Forlì? Se ne frega, ritiene le prove non sufficienti e archivia! De Renzis chiede alla procura di Napoli la riapertura del caso quasi tre anni fa: proprio perché è coinvolta la camorra e hanno parlato dei pentiti. Ma da allora di quel fascicolo giudiziario non si sa più niente. La giustizia è sempre in fase di archiviazione.
Speciale Le Iene su Pantani 1: perché c'è chi pensa a un omicidio. Le Iene il 24 ottobre 2019. Nella prima parte dello speciale di Alessandro De Giuseppe “Com’è morto Marco Pantani?” parliamo delle molte incongruenze che sembrano esserci nella ricostruzione ufficiale della morte del Pirata, trovato senza vita nella sua stanza in un hotel di Rimini il 14 febbraio 2004. La morte di Marco Pantani, una delle più grandi e amate leggende dello sport italiano, è ancora oggi, a distanza di oltre 15 anni, avvolta da numerosi dubbi. Il 14 febbraio del 2004, attorno alle 20.30, il cadavere del Pirata viene ritrovato in una camera d’albergo del residence Le Rose di Rimini. Marco aveva solo 34 anni. Stiamo parlando di uno dei più grandi ciclisti degli ultimi anni, vincitore di Giro d’Italia e Tour de France nel 1998 e poi fermato per i livelli di ematocrito troppo alti nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999, quando stava per vincere il suo secondo Giro: lì inizia la sua parabola discendente tra depressione e uso di droghe. L’inchiesta sulle cause della sua morte, nel 2004, porta a concludere che il decesso di Marco sarebbe stata causato da comportamenti ossessivi e violenti, dopo aver esagerato con la cocaina. Marco, in preda a un delirio da stupefacenti e farmaci, avrebbe sfasciato tutto all’interno di quella stanza, facendosi del male da solo e poi sarebbe morto per un arresto cardiaco causato da quel mix letale. Tutti gli amici e le persone che lo hanno avvicinato negli ultimi tempi (compresi gli spacciatori che gravitavano attorno a lui) negano però che Marco avesse mai manifestato intenzioni suicide. E la stanza non sembra essere stata distrutta da un uomo delirante. L’avvocato De Rensis, legale della famiglia Pantani, spiega: “Tutto è appoggiato per terra e non rotto come farebbe pensare un delirio. Nel bagno c’è uno specchio che sarebbe stato divelto da una persona in preda a un delirio psicotico, ma appoggiato per terra, intatto. Tutto è appoggiato per terra, ma niente di rotto”. La tesi dell’autolesionismo si basa su un assunto accettato dal primo processo: negli ultimi giorni prima di morire Marco si sarebbe completamente isolato, non sarebbe uscito né avrebbe ricevuto visite. Una tesi che però sembra cozzare con le testimonianze esclusive raccolte da Alessandro De Giuseppe, che hanno dimostrato come non solo Marco poteva uscire ed entrare dall’hotel utilizzando una porta secondaria che dava sui garage, ma che il Pirata il giorno prima di morire sarebbe andato a prendere un caffè in un locale di Rimini. C’è inoltre la clamorosa testimonianza di un altro ragazzo secondo cui Marco, i giorni prima della morte, avrebbe dormito in un altro hotel e chiacchierato con altre persone, tra cui una ragazza. Dieci anni dopo il processo del 2004, che aveva concluso per l’ipotesi sopra citata, la famiglia è riuscita a far riaprire le indagini con l’ipotesi di omicidio a carico di ignoti. Ma anche la nuova inchiesta non ha fatto emergere elementi che farebbero pensare all’omicidio. Eppure ci sono tante cose che sembrano non tornare. A partire dallo stato in cui viene trovata la stanza quel 14 febbraio 2004. Una prima anomalia è la pallina di cocaina ritrovata di fianco al cadavere di Marco, che i primi a entrare nella stanza però non vedono. Anselmo Torri, l’infermiere del 118 che era in servizio quella notte, sostiene che intorno al cadavere non c’era niente. E pure l’autista e il medico del 118 entrati nella stanza di Pantani dicono di non averla vista. È stata aggiunta dopo la sua morte da qualcuno? E se sì, perché? Le Iene hanno raccolto testimonianze esclusive di persone mai sentite nel corso del processo, e persone che mai avevano parlato pubblicamente di questa vicenda. Come il napoletano Fabio Miradossa, il fornitore di cocaina di Marco e che ha scontato 4 anni e 10 mesi di reclusione per la sua morte. E Miradossa non ha alcun dubbio: “Marco non è morto per la cocaina: Marco è stato ucciso. Non sniffava la roba ma la fumava e in quella stanza del residence c’è solo traccia di cocainomani che sniffavano. Chi ha creato quella situazione non era informato bene…”. E indica una pista da seguire, su cui secondo lui nessuno ha mai voluto approfondire. Miradossa racconta infatti ad Alessandro De Giuseppe che Pantani avrebbe prelevato 20mila euro poco prima di morire, per pagargli una nuova fornitura di cocaina e per vecchi debiti che aveva con lui. Soldi mai ritrovati in quella stanza e, sostiene Miradossa, sottratti da qualcuno, forse proprio chi avrebbe ucciso il Pirata. Una pista che Miradossa sostiene con forza anche quando Le Iene lo fanno incontrare con mamma Tonina, per la prima volta dalla morte di Marco. “Non cerco il perdono però ho bisogno di chiederle scusa”, aveva detto al nostro Alessandro De Giuseppe. E poco dopo quella intervista mamma Tonina, che non lo ritiene responsabile della morte del figlio, accetta di incontrarlo. Il momento è davvero molto emozionante e alla fine dell’incontro Tonina convince Miradossa ad andare a visitare per la prima volta la tomba di Marco. “Sono vent’anni che lotto, quello che voglio da te è una mano”, gli dice subito Tonina non appena i due si appartano tranquilli. E Fabio Miradossa ribadisce quello che già aveva detto al nostro Alessandro De Giuseppe: "Io mi sto autoaccusando, ma le sto dicendo che occorre seguire i soldi. I soldi non li ho presi io, mancano dei soldi. Sa cosa mi è stato risposto? Ci stai prendendo per il culo, i soldi li hai presi tu. E allora ho deciso di patteggiare, non la vogliono la verità…”. Sono davvero troppe le cose che sembrano non tornare in questa vicenda, come anche la storia della richiesta di aiuto che Marco avrebbe fatto alla reception del residence Le Rose, diverse ore prima di morire. Alessandro De Giuseppe avvicina Lucia Dionigi, la receptionist che ha ricevuto due richieste di intervento da parte di Pantani, che si diceva disturbato dalla presenza di alcune persone. Una richiesta però mai girata alle forze dell’ordine. “Mi dispiace, non mi va di rispondere”, ha detto Lucia Dionigi alla Iena. Interrogata dalle autorità, la Dionigi aveva raccontato di avere sentito subito il proprietario del residence, e d’accordo con lui di essere salita a controllare nella stanza di Marco, senza però chiamare i carabinieri. Ma la donna, avendo trovato la porta d’ingresso della stanza di Marco ostruita e non avendo ricevuto risposta, sarebbe tornata in reception disinteressandosi di quella richiesta d’aiuto. “In quale hotel del mondo il signor X chiama la reception chiedendo di avvertire i carabinieri e spiegando che ci sono persone che lo disturbano, per due volte, e nessuno decide di entrare fino alle 20.30?”, chiede l’avvocato De Rensis? Sandro De Luigi, proprietario del residence Le Rose, avvicinato da Alessandro De Giuseppe, si rifiuta di rispondere sul perché non avvertì le forze dell’ordine. “Non so cosa dirle”. Sta nascondendo qualcosa?
Morte di Marco Pantani: in esclusiva il video integrale della polizia scientifica. Le Iene il 24 ottobre 2019. Pubblichiamo il video integrale girato il 14 febbraio 2004 dalla polizia scientifica all’interno della stanza del Residence “Le Rose”, dove è appena stato ritrovato il cadavere di Marco Pantani. Qualcuno di voi è in grado di segnalarci nuovi elementi che non tornano nella versione ufficiale o di chiarire alcuni dei troppi dubbi che ancora persistono? Il 14 febbraio del 2004 il corpo di Marco Pantani viene ritrovato senza vita all’interno del residence Le Rose di Rimini, attorno alle 20.30. Quindici anni fa moriva uno dei più grandi ciclisti degli ultimi anni, vincitore di Giro d’Italia e Tour de France nel 1998 e stasera, dalle 21.15 su Italia1, dedicheremo lo speciale de Le Iene ai dubbi che ancora persistono intorno alla morte di Marco Pantani. Secondo le versioni ufficiali uscite dal processo del 2004, Pantani sarebbe morto per suicidio: ad ucciderlo sarebbero stati comportamenti ossessivi e violenti, dopo aver assunto un mix di farmaci e cocaina. Il Pirata avrebbe sfasciato tutto all’interno della stanza d'albergo, facendosi del male da solo e morendo poi per un arresto cardiaco. Alessandro De Giuseppe, nei numerosi servizi che ha dedicato alla misteriosa morte di Marco Pantani, ci ha raccontato delle tantissime incongruenze che ci sarebbero analizzando innanzitutto la scena del ritrovamento del cadavere. Abbiamo deciso di pubblicare il video integrale della polizia, nella speranza che qualcuno possa fornire elementi utili a chiarire i troppi misteri ancora esistenti. Misteri che ora proviamo ad analizzare uno alla volta. Quello che vi mostriamo in esclusiva è il filmato girato dalla polizia scientifica all’interno della stanza di Marco Pantani, circa due ore dopo che è stato dato l’allarme. Come vedete dal video, il corpo di Pantani viene ritrovato sul soppalco, vicino al letto, a testa in giù e in una pozza di sangue. Proprio al centro di quella pozza, come potete vedere, gli inquirenti trovano una pallina di cocaina. La cosa incredibile è che più testimoni, intervenuti in quella stanza per soccorrere Pantani e lo stesso personale del residence, negano di averla vista al loro arrivo. Qualcuno l’ha portata in quella stanza tra l’arrivo dei soccorritori e l’arrivo della polizia? Il secondo punto che sembra non tornare è sempre legato alla droga. Ce lo fa notare Fabio Miradossa, lo spacciatore di cocaina che riforniva il Pirata di droga, e che viene intervistato in esclusiva da Alessandro De Giuseppe: “Marco non è morto per la cocaina. Marco è stato ucciso. Non sniffava la roba ma la fumava e in quella stanza del residence c’è solo traccia di cocainomani che sniffavano. Chi ha creato quella situazione non era informato bene…”. La terza incongruenza è legata alle condizioni in cui viene trovata la stanza del residence Le Rose. Secondo il processo, poco prima della morte, Pantani è in una condizione di fortissima alterazione psicofisica, in preda a un delirio da farmaci e droga. Un delirio che l’avrebbe portato a sfasciare la sua stanza. La pensa diversamente il legale della famiglia Pantani De Rensis, che spiega: “Tutto è appoggiato per terra e non rotto come farebbe pensare un delirio. Nel bagno c’è uno specchio che sarebbe stato divelto da una persona in preda a un delirio psicotico, ma appoggiato per terra, intatto. Tutto è appoggiato per terra, ma niente di rotto.” E arriviamo alla quarta incongruenza che riguarda i soldi. Di quei soldi che Pantani avrebbe prelevato poco prima di essere trovato morto, ci aveva parlato lo spacciatore Fabio Miradossa: “Marco aveva prelevato 20 mila euro per pagare una nuova fornitura di cocaina e per dei vecchi debiti che aveva con me. Quei soldi non sono mai stati ritrovati nella stanza. Bisogna seguire la pista di quei soldi.” Miradossa, sulle cause della morte di Marco Pantani, non ha alcun dubbio: “Marco è stato ucciso.” Il quinto elemento che sembra non tornare è la tesi su cui si basa il processo che ha stabilito che Pantani non è stato ucciso: per i giudici, il Pirata visse gli ultimi giorni in quella stanza in totale isolamento, senza uscire né ricevere visite. Un isolamento che però contrasta con le testimonianze esclusive raccolte da Le Iene. Non solo avevamo dimostrato che Pantani poteva uscire ed entrare dall’hotel utilizzando una porta secondaria che dava sui garage, ma alcune testimonianze hanno riferito una storia molto diversa: il Pirata il giorno prima di morire sarebbe andato a prendere un caffè in un locale di Rimini. Ma non solo: un altro giovane ha raccontato a Le Iene che, giorni prima della sua morte, Pantani avrebbe dormito in un altro hotel e chiacchierato con altre persone, tra cui una ragazza. Alessandro De Giuseppe avvicina Lucia Dionigi, la receptionist che poche ore prima di ritrovare il corpo di Marco, aveva ricevuto da lui due richieste di aiuto, perché c’erano alcune persone che gli davano fastidio. Una richiesta però mai girata alle forze dell’ordine. “Mi dispiace, non mi va di rispondere”, ha detto Lucia Dionigi alla Iena. Interrogata dalle autorità, la Dionigi ha raccontato di avere sentito subito il proprietario del residence, e d’accordo con lui di essere salita a controllare nella stanza di Marco, senza però chiamare i carabinieri. Ma la donna, avendo trovato la porta d’ingresso della stanza di Marco ostruita e non avendo ricevuto risposta, sarebbe tornata in reception disinteressandosi di quella richiesta d’aiuto. “In quale hotel del mondo il signor X chiama la reception chiedendo di avvertire i carabinieri e spiegando che ci sono persone che lo disturbano, per due volte, e nessuno decide di entrare fino alle 20.30?”, chiede l’avvocato della famiglia Pantani, Antonio De Rensis. Sandro De Luigi, proprietario del residence Le Rose, avvicinato da Alessandro De Giuseppe, si rifiuta di rispondere sul perché non avvertì le forze dell’ordine. “Non so cosa dirle”. Sta forse nascondendo qualcosa? Vi abbiamo raccontato i principali elementi che sembrano non tornare nella scena del ritrovamento del corpo di Marco Pantani.
Marco Pantani: l'Antimafia ascolta i medici del prelievo di Madonna di Campiglio. Le Iene il 24 ottobre 2019. La mattina del 5 giugno 1999 tre medici riscontrano in Marco Pantani un valore dell’ematocrito di 53 punti, tre oltre il limite consentito. La sera prima però il dato di Marco era 48 e sei ore dopo il prelievo di Madonna di Campiglio è di nuovo 48. Quel dato fu alterato per squalificare il Pirata? L’Antimafia oggi sentirà i tre medici che fecero il prelievo, di cui ci racconta anche Alessandro De Giuseppe nello speciale “Com’è morto Marco Pantani?” in onda questa sera su Italia1 a partire dalle 21.15. Dopo aver ascoltato il nostro Alessandro De Giuseppe e il legale della famiglia Pantani, oggi la commissione Antimafia sentirà i medici che effettuarono i prelievi del sangue a Marco Pantani. Michele Partenope, Michele Spinelli ed Eugenio Sala il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, rilevarono il contestatissimo dato dell’ematocrito nel sangue del Pirata: 53, oltre la soglia consentita di 50. E fecero di fatto scattare la squalifica di Marco Pantani, che a due tappe dalla fine del Giro d’Italia aveva un vantaggio in classifica generale di 6 minuti sugli altri. Ma solo sei ore dopo l’esplosione dello scandalo il Pirata rifà le analisi in un laboratorio di Imola e il suo valore è di nuovo nella norma, 48. È uno dei punti più oscuri dell’assurda vicenda che ha coinvolto Marco Pantani, e della quale parleremo questa sera su Italia1 a partire dalle 21.15 nello speciale “Com’è morto Marco Pantani”, condotto dalla Iena Alessandro De Giuseppe. E proprio sul dato dell’ematocrito di Pantani il suo massaggiatore e amico Roberto Pregnolato ricorda i controlli interni della sera prima: “È inutile essere ipocriti, in quel periodo ognuno si aiutava, ma il valore dell’ematocrito era 48”. E ricorda un episodio strano avvenuto a cena la sera prima del prelievo ufficiale dei tre medici. “Tra i commensali a un certo punto inizia a girare una voce: “Sai che domani uno della Mercatone Uno non parte?” E Marco Velo, compagno di squadra di Pantani, ricorda qualcosa di più: “Si diceva che Pantani non sarebbe partito per ematocrito troppo alto”. Ma come faceva qualcuno a sapere dell’ematocrito alto di Marco se il prelievo fu fatto solo la mattina del giorno dopo? Al nostro Alessandro de Giuseppe un ematologo del San Raffaele, che ha lavorato per anni nell’antidoping, ha spiegato che analizzando tutti i valori le due analisi non tornano. “Il campione di Madonna di Campiglio potrebbe essere stato alterato” dice, e ci spiega che è molto semplice farlo, basta aspirare il plasma. Ma c’è ancora da fare una osservazione di semplice logica: i controlli antidoping, di cui si sapeva già con larghissimo anticipo, quel mattino arrivano con qualche ora di ritardo, dopo le 11, creando malumori tra gli atleti che volevano fare colazione e preparasi per la gara. Se Marco Pantani avesse avuto la coscienza sporca avrebbe potuto fare colazione, e impedire così di fatto l’effettuazione di quel prelievo di sangue. Ma non lo fece. E avrebbe inoltre potuto anche abbassarsi da solo il livello dell’ematocrito, assumendo una maggiore quantità di liquidi o facendosi una flebo di fisiologica. Ma anche questo “stratagemma” Pantani non lo adottò. E si sottopose al controllo che, racconta ancora Pregnolato, lo “fucilò pubblicamente”. Seguite questa sera su Italia1 a partire dalle 21.15 lo speciale de Le Iene “Com’è morto Marco Pantani?”, che racconterà tutti i dubbi e le possibili incongruenze nella ricostruzione procedimentale della morte del Pirata, con testimonianze esclusive ed inedite raccolte da Alessandro De Giuseppe.
Speciale Le Iene su Pantani 2: i trionfi del Pirata. Le Iene il 24 ottobre 2019. Dal dominio tra i dilettanti ai tanti infortuni, dalla doppietta Giro-Tour nel 1998 alla discesa all’inferno: Alessandro De Giuseppe ripercorre la leggendaria carriera di Marco Pantani nella seconda parte dello speciale de Le Iene dedicato alla sua morte. Per comprendere da dove derivano i dubbi sulla morte di Marco Pantani, di cui vi abbiamo parlato nella prima parte del nostro speciale, bisogna partire dalla carriera del Pirata: la sua storia ciclistica nasce quando Marco ha 12 anni e si unisce al gruppo Fausto Coppi di Cesenatico: già a quell’età comincia a far vedere tutto il suo talento. Nel 1989 Marco passa dagli Juniores ai Dilettanti, e nel 1992 vince il Giro d’Italia dei dilettanti. Nel 1993 partecipa alla sua prima corsa rosa tra i professionisti, ma è una delusione: è costretto al ritiro per una tendinite, non rispettando le grandi aspettative intorno a lui e alimentando gli scettici del suo talento. La delusione però lo carica: “Qualche settimana prima del Giro del 1994 mi disse ‘o vado come dico io, o vado a vendere piadine con mia mamma’”, ricorda l’attuale ct della Nazionale di ciclismo Davide Cassani. Ma a vendere le piadine Marco Pantani non ci andrà mai. In quegli anni il dominatore indiscusso delle corse a tappe è Miguel Indurain, lo spagnolo che nel 1993 aveva centrato la doppietta Giro-Tour. Al Giro però il protagonista è il Pirata: a Merano vince la sua prima corsa da professionista, dopo uno scatto in salita e una incredibile discesa fino al traguardo. Il giorno dopo, con arrivo sull’Aprica, Marco stacca tutti e va a vincere la seconda tappa. Alla fine del Giro sarà secondo: il mito del Pirata è appena iniziato. “Quando staccò Indurain la gente si innamorò a prima vista di Pantani”, racconta Davide Cassani. Un mese dopo Marco è al Tour, dove viene accolto come una star. All’Alpe d’Huez, leggendaria ascesa della Grande Boucle, segna il record di velocità della salita. Il giorno dopo il Pirata cade, è vicino a ritirarsi ma rimonta e vince la tappa. Finisce il suo primo Tour de France in terza posizione, facendo innamorare i tifosi di tutto il mondo. Il 1995 è però un anno nero per Pantani: a pochi giorni dall’inizio del Giro Marco ha un brutto incidente. È costretto a saltare la Corsa rosa, ma al Tour de France vince nuovamente la tappa dell’Alpe d’Huez. A ottobre, quando il peggio sembrava alle spalle, viene investito da una macchina: frattura di tibia e perone, muscolo inciso, carriera appesa a un filo. Il Pirata però non molla, e dopo soli cinque mesi torna in sella alla bici. La Mercatone Uno decide di scommettere sul suo pieno recupero, e per la stagione del 1997 costruisce una squadra su misura per il Pirata. Il Giro d’Italia quell’anno lo vince Ivan Gotti, ma Pantani mostra evidenti progressi dopo un anno lontano dalle corse. Al Tour vince ancora all’Alpe d’Huez, e alla fine arriva terzo. Sembra un ottimo risultato visto il grave infortunio, ma Marco non è soddisfatto: ha 28 anni, e non ha ancora vinto una grande corsa. L’inverno tra il 1997 e il 1998 riesce finalmente a prepararsi per le corse a tappe senza infortuni o incidenti, e i risultati si vedono: il Pirata vince il Giro d’Italia e il Tour de France nello stesso anno, impresa riuscita a pochi ciclisti prima e a nessun’altro dopo. A 21 anni da quel trionfo, Pantani è tutt’ora l’ultimo ad aver centrato la doppietta più prestigiosa del ciclismo. A 28 anni è in cima al mondo: tocca il paradiso con un dito, in attesa di tante nuove prevedibili vittorie. L’anno dopo però inizierà la sua discesa all’inferno.
Speciale Le Iene su Pantani 3: il dramma a Madonna di Campiglio. Le Iene il 24 ottobre 2019. Nella terza parte dello Speciale di Alessandro de Giuseppe “Com’è morto Marco Pantani” vi raccontiamo i misteri dei controlli del sangue a Madonna di Campiglio che fermarono il Pirata e lo fecero precipitare nella depressione, segnando l’inizio della sua fine. Qualcuno alterò i risultati di quell’esame per cacciare Marco da un Giro d’Italia che aveva praticamente già vinto? Nella prima parte dello speciale vi abbiamo elencato tutti i misteri che avvolgono la morte di Marco Pantani; nella seconda parte vi abbiamo invece raccontato della carriera del Pirata, culminata con i trionfi a Giro e Tour del 1998. Il 5 giugno del 1999 ha inizio la drammatica parabola discendente di Marco Pantani, culminata 5 anni dopo con il ritrovamento del corpo del Pirata nel residence Le Rose di Rimini. Quel giorno del 1999, dopo la tappa vittoriosa del giro d’Italia a Madonna di Campiglio, mentre aveva un vantaggio mostruoso in classifica generale di 6 minuti sugli altri, Pantani viene fermato perché il tasso del suo ematocrito risulta fuori norma. Il Pirata non ci sta, e parla subito di complotto. Nei giorni precedenti il Pirata si era fatto portavoce della protesta dei ciclisti, che non accettavano controlli ulteriori e straordinari oltre quelli già stabiliti dall’unione ciclistica. Una protesta collettiva, spiegava il Pirata anche in televisione, che sarebbe stata portata fino al rifiuto dei ciclisti di prendere parte alle prossime tappe. Proprio sul punto dell’ematocrito alto il massaggiatore e amico Roberto Pregnolato, che dice che “Marco è stato ucciso davvero quella mattina lì”, ha raccontato ad Alessandro De Giuseppe come la sera prima controllò i suoi valori ed erano normali: “È inutile essere ipocriti, in quel periodo ognuno si aiutava, il valore dell’ematocrito era 48”. Il limite consentito era a 50. La mattina dopo, ai controlli del sangue, il suo valore è 53: scatta la sospensione a due tappe dalla fine e il dramma sportivo e umano per Pantani, che si sentì “fucilato in pubblico”, come ricorda ancora Pregnolato. Sei ore dopo l’esplosione dello scandalo il Pirata rifà le analisi in un laboratorio di Imola e il suo valore è nella norma, a 48, come la sera prima. La cosa strana, riferisce Pregnolato, è che durante una cena, la sera prima di essere travolto dallo scandalo, tra i commensali gira una strana voce: “Sai che domani uno della Mercatone Uno non parte?” Marco Velo, compagno di squadra di Pantani, ricorda: “Si diceva che Pantani non sarebbe partito per ematocrito troppo alto”. Ma come faceva qualcuno a sapere dell’ematocrito alto di Marco se il prelievo fu fatto la mattina del giorno dopo? All’epoca la camorra gestiva l’enorme flusso di scommesse clandestine, anche sul ciclismo e lo stesso boss Augusto La Torre raccontò: “Con la vittoria di Pantani la camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi di lire in scommesse clandestine e si rischiava la bancarotta”. Il famoso criminale Renato Vallanzasca, una settimana prima di Campiglio, mentre si trova in carcere, viene avvicinato da un detenuto napoletano che gli dice di non scommettere sulla vittoria di Pantani. E l’uomo gli fa capire che il vero affare sarebbe stato scommettere su Pantani perdente. Come è possibile che sapessero già quello che sarebbe accaduto? Un ematologo del San Raffaele, che ha lavorato per anni nell’antidoping, sostiene, analizzando tutti i valori, che le due analisi non tornano. “Il campione di Madonna di Campiglio potrebbe essere stato alterato” dice, e ci spiega come è semplicissimo e veloce farlo, aspirando plasma. Lo stesso medico della squadra aveva detto, durante un’intervista televisiva, che i controlli interni della sera prima avevano dato un esito assolutamente regolare. Ma c’è ancora una cosa da dire. I controlli antidoping, di cui si sapeva già con larghissimo anticipo, quel mattino sono arrivati con molto ritardo, creando malumori tra gli atleti che volevano fare colazione e prepararsi per la gara. Se Marco avesse avuto la coscienza sporca avrebbe potuto fare colazione e impedire così l’effettuazione del prelievo di sangue. Ma non lo fece. O avrebbe potuto anche abbassarsi da solo il livello dell’ematocrito, assumendo una maggiore quantità di liquidi o facendosi una flebo di soluzione fisiologica. Ma anche questa cosa, Pantani, non la fece.
Speciale Le Iene su Pantani 4: il Pirata fregato dalla camorra? Le Iene il 24 ottobre 2019. Il test di Madonna Di Campiglio che ha distrutto la carriera di Marco Pantani potrebbe essere stato alterato dalla camorra. Il giro di scommesse clandestine attorno alla sua vittoria nel giro sarebbe stato troppo sbilanciato: o perdeva Pantani o perdeva la camorra. Alessandro De Giuseppe ci racconta tutto nella quarta parte dello Speciale. Quarta parte dello Speciale Le Iene dedicato a Marco Pantani: continuiamo a parlarvi dei dubbi sull'esclusione dal Giro del 1999 e dei possibili legami con la camorra come abbiamo fatto nella terza parte. Nella prima vi abbiamo riassunto i motivi che fanno pensare a un omicidio del Pirata e nella seconda i suoi trionfi nonostante la sfortuna che lo perseguitava. Ripartiamo dell’esame del sangue di Madonna di Campiglio che costa l’esclusione a Pantani dal Giro d’Italia del 1999: mostra delle anomalie. Pantani aveva 53 di ematocrito ma dopo poche ore, durante un altro esame a Imola, l’ematocrito scende a 48. Ancora più strano è il dato delle piastrine, a Campiglio sono 117 mila mentre a Imola sono 162 mila. Due oscillazioni nei valori che richiedono una spiegazione. Alessandro De Giuseppe la cerca nei tre medici che hanno fatto quell’esame del sangue a Pantani: Eugenio Sala, Mario Spinelli e Michele Partenope. I primi due non dicono nulla. Partenope invece, dopo qualche resistenza risponde alle nostre domande. Riguardo l’ematocrito, “Pantani potrebbe semplicemente aver bevuto e quindi aver diluito il valore” dice Partenope. Questo spiegherebbe il passaggio da 53 a 48 di ematocrito, ma sarebbe incompatibile con l’innalzamento del valore delle piastrine. Quindi quella risposta non risolve i risultati di Imola. Per uscire dall’impasse, Partenope dice: “Per me Imola non esiste. Non sono due dati confrontabili. Posso dire solo che quello di Campiglio è corretto”. L’intera vicenda del test del sangue si conclude quando il giudice Monica Calassi respinge la richiesta dei carabinieri di richiamare i medici a deporre. Lo fa con una relazione conclusiva in cui si legge: “Una moltitudine di riscontri fanno emergere il ragionevole dubbio che il campione ematico di Marco Pantani sia stato manipolato al fine di ottenere la sua squalifica al Giro D’Italia del 1999. Ma a causa dell’omertà di alcuni soggetti, della genericità di alcune informazioni, della non procedibilità di alcune violazioni per intervenuta prescrizione, non si è potuto proseguire oltre nell’attività investigativa”. Dopo Campiglio tutta Italia parla di Marco Pantani. La madre Tonina ci racconta di come casa loro, in quei giorni fosse sotto assedio dai giornalisti: “Sono uscita per andare a prendere da mangiare, si sono buttati sul cofano della macchina”. La madre, il massaggiatore e il fisioterapista del campione ci raccontano il suo stato d’animo in quei giorni terribili. “Non riusciva a credere di essere passato da esempio per tutti a una specie di ladro. Si chiedeva perché nessuno avesse messo in dubbio che ci fosse stato un errore nelle analisi”. Dopo qualche tempo, il Pirata rompe il silenzio e rilascia una storica intervista a Gianni Minà. “Rabbia, frustrazione, vergogna, sono diverse sensazioni che ho dentro. La mia coscienza era a posto ma non potevo fare nulla”, racconta Marco. “Non mi hanno riesaminato, non esiste una contro analisi, se avessi avuto la coscienza sporca avrei potuto pulire il mio sangue prima delle analisi di Campiglio, qualcuno mi ha voluto fregare. Non so come o perché ma sicuramente l’uomo è corrompibile e nel ciclismo si scommette molto”. Quell’anno Marco decide di non presentarsi al Tour de France. “Lui era orgoglioso di essere un esempio per tutti con le sue vittorie. L’hanno portato a vergognarsi di vincere”, ci dice il suo fisioterapista Fabrizio Borra. Da Campiglio in avanti tutti sembravano cercare nel suo corpo la sostanza che non avevano mai trovato. In questo vortice di sospetti Pantani soffre e dedica molte energie a fronteggiare le polemiche, energie che poi mancano quando deve fronteggiare gli avversari. “A Campiglio l’hanno fregato”, dice la mamma. Resta da capire chi possa essere stato. Forse la risposta è da cercare nel giro di scommesse attorno al ciclismo: 200 miliardi di lire sono solo quelle ufficiali, poi ci sono le scommesse sommerse gestite dalla camorra. La criminalità organizzata nel 1999 aveva la possibilità di guadagnare fiumi di denaro se solo Pantani non avesse vinto quel Giro. In caso di vittoria, avrebbe rischiato la bancarotta per ripagare tutti gli scommettitori. Il più celebre bandito d’Italia, Renato Vallanzasca, nella sua autobiografia conferma tutto questo: “Ero nel carcere di Novara. Un camorrista mi ha avvicinato e mi ha detto di scommettere su Pantani perdente”. Sette giorni quella conversazione il Pirata viene fermato a Madonna di Campiglio. Il Boss Rosario Tolomelli viene intercettato durante una telefonata con un familiare, conferma tutto: “La camorra ha fatto perdere il giro d’Italia a Pantani facendolo risultare dopato”. Parole poi confermate da Augusto Latorre esponente della criminalità organizzata di Mondragone che nel 2014 ha raccontato ai carabinieri: “L’esclusione di Pantani era stata voluta da clan operanti su Napoli. Altrimenti la Camorra avrebbe dovuto pagare troppi soldi agli scommettitori com’era successo con Maradona”.
Speciale Pantani 5, il calvario: l'ombra del doping e la cocaina. Le Iene il 25 ottobre 2019. La discesa agli Inferi di Marco Pantani tra processi, depressione e cocaina: la quinta parte dello Speciale Le di Alessandro De Giuseppe. Il calvario di Marco Pantani ha inizio la maledetta mattina del 5 giugno 1999, quando l’esame del sangue di Madonna di Campiglio rileva che l’ematocrito del Pirata è di 3 punti in più rispetto al limite consentito, che di 50. L’esame non evidenzia la presenza di alcuna sostanza dopante nel sangue di Marco, ma subito la Procura di Trento e la stampa lo accusano di essersi dopato. Marco è comprensibilmente turbato da quella notizia, soprattutto perché poche ore prima e poche ore dopo quel prelievo, due differenti analisi confermavano un ematocrito di 48, quindi pienamente in regola. Il Pirata è scoraggiato: “In questo momento non penso né al Tour né alla Vuelta né altro, ma solo di fare un po’ di chiarezza dentro di me” e annuncia di volersi ritirare. Ma il richiamo del ciclismo è troppo forte e 8 mesi dopo si rimette in pista, alla Vuelta valenciana. Il pubblico è quello delle grandi occasioni e Marco è ancora amatissimo dagli appassionati del ciclismo di tutto il mondo. Ma dopo qualche tappa alla Vuelta valenciana portata a casa con tempi di tutto rispetto, decide comunque di ritirarsi e di saltare altri numerosi impegni ciclistici. Marco ormai ha iniziato la sua drammatica parabola discendente, che lo porterà 5 anni dopo al tragico epilogo di Rimini. Il pubblico continua a seguirlo come ai tempi del Giro d’Italia, anche se le sue prestazioni sono ormai lontane dal mito. E il 16 luglio del 2000 arriva l’ultima vittoria per Marco Pantani, a cui segue pochi giorni dopo un nuovo ritiro dalle corse. E con la fine delle gare tornano ad inseguirlo anche i guai giudiziari, come il processo per frode sportiva per valori dell’ematocrito fuori norma risalenti al 1995, processo in cui viene condannato a tre mesi di reclusione (anche se nel suo corpo non è stata rintracciata alcuna sostanza proibita). “È stato condannato per doping, cioè senza che esista una legge che preveda che questo reato”, dice il fisioterapista del Pirata, Fabrizio Borra. “Un’altra mazzata!” E non contribuisce certo ad alleviare l’umore di Marco il clima di tensione attorno alle gare a cui partecipa, come quando gli ispettori trovano sostanze come caffeina, anabolizzanti e cortisonici negli hotel che ospitano gli atleti durante una gara. Che ormai il Pirata abbia questa maledetta “aura” del dopato addosso, lo testimonia il ritrovamento nel 2001 in un cestino del corridoio di un hotel di Montecatini di una siringa con tracce di insulina, proibita per regolamento. Nonostante non ci siano testimoni e non si possa procedere alla prova del dna, la siringa viene comunque attribuita a Marco Pantani. Il fantasma del doping continua a inseguirlo e a tormentarlo. “Lui cercava di tornare su ma ogni volta che ci provava arrivava qualcosa. Marco è arrivato un giorno a dirmi che era come avere la testa sott’acqua e ogni volta che la vuoi tirare su c’è qualcuno che la tira giù”, racconta ancora il suo fisioterapista. Mentre è ancora indagato per la siringa di Montecatini, Marco viene assolto per la frode sportiva, ma ormai con la testa è lontanissimo dal mondo del ciclismo. “Non era più il mio Marco”, dice mamma Tonina, “e anche se lui non mi diceva niente ho scoperto che usava cocaina". Quando Marco, per la terza volta, prova a rimettersi in carreggiata con risultati sportivi degni di attenzione, per la terza volta arriva l’esclusione al Tour de France, nel 2002. “Quelle esclusioni hanno peggiorato di nuovo la situazione e lui è ritornato a riprendere la strada sbagliata”, dice in un’intervista tv il padre di Marco, Paolo. "Da allora credo che non sia più riuscito a risollevarsi”. Nell’autunno del 2003 Marco torna a rifugiarsi nella cocaina e si lascia anche con la fidanzata storica Christine, iniziando a frequentare persone e situazioni poco raccomandabili. Un amico medico prova ad aiutarlo e lo convince a farsi curare in una clinica di Padova, ma quando esce tutto torna tragicamente come prima. Isolamento e cocaina. Anche se a un certo punto arriva l’assoluzione definitiva sia per Campiglio che per gli altri processi per frode sportiva, Marco non reagisce: il ciclismo sembra non interessargli più. “Ho visto Marco prima di morire, l’ultima volta, a Milano, perché la sua manager ci aveva detto di andare là”, racconta mamma Tonina. “Marco era molto incazzato e diceva che non avrebbe mai scritto un libro. Va via e da allora non l’ho mai più visto vivo”. La manager lo sente, per l’ultima volta, il 7 febbraio del 2004, 7 giorni prima della morte in quella stanza del residence Le Rose di Rimini. Mamma Tonina non ha dubbi: “La prima cosa che ho detto quando ci hanno chiamato è che me l’hanno ucciso e adesso sono ancora qui a dirlo: me l’hanno ucciso”. Nella prima parte dello speciale vi abbiamo raccontato di 15 anni di misteri; nella seconda parte abbiamo ripercorso la carriera in bici del Pirata; nella terza vi abbiamo invece riportato al giorno in cui Marco viene fermato dopo un controllo antidoping; nella quarta abbiamo iniziato a parlarvi di cosa potrebbe celarsi dietro al calvario del Pirata.
Speciale Le Iene su Marco Pantani 6: suicidio o omicidio? Le Iene il 25 ottobre 2019. Restano ancora molti dubbi sulla morte di Marco Pantani. Con Alessandro De Giuseppe vi abbiamo raccontato i suoi trionfi, quella provetta (alterata dalla camorra?) che ha stroncato la sua carriera nel 1999 e i vani tentativi di riemergere da depressione e tossicodipendenza. Con una domanda: il Pirata si è suicidato o è stato ucciso? Com’è morto davvero Marco Pantani? Si è trattato del suicidio di un uomo disperato e tossicodipendente oppure è stato ucciso per ragioni da chiarire? Come abbiamo visto nelle precedenti parti del nostro speciale sulla morte di Marco Pantani, sono ancora tante le cose che sembrano non tornare nella ricostruzione ufficiale della vicenda. In questa sesta parte, che potete vedere qui sopra, vi raccontiamo tutto quello che abbiamo scoperto indagando sul caso con Alessandro De Giuseppe. Sulla tragedia sono state fatte due differenti indagini: la prima, subito dopo la morte del Pirata, concluse che Marco era morto in maniera quasi accidentale, come un tossicodipendente che aveva esagerato con la cocaina. Furono condannati Fabio Miradossa e Ciro Veneruso per avergli procurato la droga, ma non si indagò per omicidio. Nel 2014 un esposto della famiglia di Marco spinse le autorità a riaprire il caso. Fu avviata una indagine per omicidio a carico di ignoti, ma si giunse alle medesime conclusione: Pantani si sarebbe ucciso perché depresso dopo le accuse di doping e dipendente dalla cocaina. Nelle due ricostruzioni però sembrano esserci molti punti che non tornano. “La realtà ufficiale si discosta completamente dal racconto di molti testimoni che non si conoscono neppure tra di loro” dice l’avvocato della famiglia Pantani, De Rensis. Ed in effetti le cose che non tornano sembrano essere parecchie, come potete vedere nel video qui sopra. Qui vi riproponiamo un breve riassunto: la stanza in cui Marco viene trovato è tutta a soqquadro, ma non c’è nulla di rotto. Com’è possibile? La mattina della morte, inoltre, Pantani chiama più volte alla reception del residence dove si trova chiedendo l’intervento dei carabinieri: nessuno, però, li chiama. Nel sangue del Pirata viene trovata una quantità di cocaina altissima, almeno dieci volte più alta della dose minima necessaria a causare la morte per overdose. Il suo corpo, inoltre, sembra essere stato spostato prima che venisse ritrovato. Nessuno ha rilevato le impronte digitali sulla scena, nessuno ha mai cercato e interrogato le persone che sostengono di averlo visto nelle ore e nei giorni precedenti alla morte, quando secondo la ricostruzione ufficiale Marco non avrebbe mai lasciato la stanza del residence. I primi soccorritori a intervenire non vedono cocaina intorno al corpo e non vengono mai chiamati a deporre. Tre diversi testimoni dicono di a ver visto il lavandino del bagno della camera divelto e buttato sul pavimento: nel video della scientifica, però, il lavandino è regolarmente alloggiato nella sua posizione originaria. Alla fine abbiamo fatto incontrare la mamma di Marco Pantani con Fabio Miradossa, lo spacciatore che riforniva il Pirata nell’ultimo periodo della sua vita. “Non cerco il perdono però ho bisogno di chiederle scusa”, ha detto Miradossa ad Alessandro De Giuseppe. Secondo lo spacciatore Marco aveva con sé c’erano almeno 20mila euro, che non sono mai stati ritrovati. Vi avevamo già anticipato alcuni dubbi sulla morte del Pirata nella prima parte del nostro speciale. Dopo aver ripercorso la sua strepitosa carriera ciclistica, dagli esordi fino al trionfo delle doppietta Giro-Tour del 1998, vi abbiamo portato nel suo inferno iniziato il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Tra giri di scommesse clandestine e possibili intromissioni della criminalità, sono emersi alcuni dubbi sull’attendibilità delle analisi che lo hanno costretto a fermarsi in quel Giro d’Italia: sono state manipolate? E se sì, da chi? È possibile che ci sia stato un interesse economico da parte della camorra nel far precipitare il Pirata fuori dalla Corsa rosa? Quel momento ha segnato indelebilmente la vita di Marco, che non è mai riuscito a uscire dalla depressione e dalla tossicodipendenza. Noi pensiamo che la verità su Marco Pantani non sia ancora stata trovata: siamo convinti che continuando a cercare prima o poi qualcuno sarà in grado di trovare le risposte che ancora mancano. Lo abbiamo detto anche alla Commissione parlamentare antimafia, quando ha deciso di ascoltarci sul caso. Speriamo davvero che mamma Tonina e tutti i tifosi del Pirata possano trovare la pace della verità.
Pantani, procuratore Rimini: "Nessun elemento nuovo, la morte di Marco non è un giallo". Audizione in Commissione parlamentare antimafia di Elisabetta Melotti: "Coinvolgimento della criminalità organizzata? Quando morì erano passati 5 anni dall'esclusione dal Giro. Non c'è alcun collegamento". La Repubblica il 26 settembre 2019. "Sulla causa di morte di Marco Pantani, rispetto a ciò che ha già valutato il giudice, non ci sono elementi nuovi di nessun genere: gli elementi sono stati già tutti esaminati dal giudice". Lo ha detto Elisabetta Melotti, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini in audizione alla Commissione parlamentare antimafia, rispetto alle dichiarazioni rese nell'aprile scorso da Umberto Rapetto, consulente della famiglia Pantani, già generale di brigata della Guardia di Finanza, davanti all'Antimafia parlando della morte del ciclista.
Le due indagini della Procura di Rimini. E' stata prospettata una "alterazione della scena crimine: non è una accusa da poco", ha rilevato Melotti in Antimafia, riferendosi alla relazione del generale Umberto Rapetto. Ma "non si sa bene da chi né quando, né come. Sotto questo aspetto c'è una prospettazione illogica". Il magistrato davanti alla Commissione parlamentare presieduta dal senatore Nicola Morra (M5S) ha ripercorso tutte le fasi delle due indagini che hanno riguardato la Procura da lei guidata da poco più di un anno. "Le indagini che riguardano la Procura di Rimini sono state due: la prima riguardante il decesso di Pantani, la cui morte è stata ritenuta addebitabile a intossicazione acuta di cocaina. La causa era accidentale. Le indagini portavano a escludere l'azione di terzi. Le indagini hanno individuato le persone che hanno ceduto la cocaina, tre persone in tutto, due hanno patteggiato (quattro sono state le cessioni di droga dal 2003 a febbraio 2004, proprio nel residence in cui si trovava Pantani al momento della morte); il terzo è stato condannato in primo grado e in appello, in Cassazione è stato assolto ma solo per carenza di prove sul ruolo del soggetto, ruolo secondario e una assoluzione non incrina l'attività probatoria degli altri due soggetti", ha spiegato il magistrato.
Melotti: "Morte di Pantani? Nessun elemento nuovo". La seconda indagine nel 2014 è nata in seguito all'esposto dei familiari di Pantani, secondo i quali la morte era dovuta all'intervento di terzi, era dunque frutto di omicidio. All'esito di varie indagini - ha ricordato il procuratore - il Pm ha chiesto la archiviazione, il gip in un articolato decreto, concludeva per l'archiviazione e nell'ultimo capitolo evidenziava che l'ipotesi omicidiaria era sostanzialmente "fantasiosa". "Quando viene depositata una nuova relazione "è mio dovere valutarla - ha ribadito infine Melotti - posso concludere che a quello che ho visto finora non sono emersi elementi nuovi rispetto a quelli già evidenziati".
"Coinvolgimento criminalità? Pantani era fuori da 5 anni". Il procuratore presso la Repubblica di Rimini, Elisabetta Melotti, in Commissione Antimafia si è soffermata anche sul presunto coinvolgimento della criminalità nell'ipotesi di omicidio del ciclista, nesso prospettato proprio dal generale Umberto Rapetto. "Tutte le considerazioni che riguardano le analisi del '99 su un ipotetico intervento della criminalità organizzata sono circostanze che attengono altri uffici giudiziari e sono influenti rispetto al procedimento di Rimini e quindi all'ipotesi di omicidio - ha detto il magistrato - Ma erano decorsi 5 anni e non è prospettato quale interesse potesse esserci essendo Pantani stato eliminato dal Giro d'Italia già dal '99" per doping. "Nella relazione del generale non ho alcun visto di collegamento tra il 1999 e il 2004 mentre secondo lui c'è un collegamento che non è evidente, Pantani era fuori da 5 anni. Non c'è un movente, non c'è nulla. Sono stati valutati tutti gli elementi ora riproposti dal generale Rapetto, si può essere d'accordo o no ma è così. Non ci sono elementi nuovi, neppure rispetto all'ipotesi che ci fossero altre persone in camera al momento della morte di Pantani. Si chiede una rivisitazione degli stessi elementi. A distanza di 15 anni è oggettivamente difficile avere elementi originali", ha concluso il magistrato.
LE OMBRE SU QUEL 19 LUGLIO 1992. I buchi neri della Strage di via D’Amelio: ecco tutti i misteri irrisolti. Davide Guarcello il 17 Luglio 2019 su La Sicilia. La prima svolta nelle indagini sulla Strage di via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino è arrivata col “Borsellino quater” che ha certificato nel 2017 il colossale depistaggio (“uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”) messo a segno probabilmente dalle “menti raffinatissime” di cui parlava Falcone. E mentre il processo sulla Trattativa Stato-mafia si è concluso in primo grado con condanne pesantissime, nel 2019 è arrivata la seconda svolta: per quel depistaggio sono sotto accusa anche due pm che all’epoca gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino: Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Sono quindi ancora tante, oggi, le domande senza risposta e i misteri attorno alla strage del 19 luglio 1992. Oltre alla matrice mafiosa, si cercano anche i cosiddetti “mandanti occulti” e i depistatori di Stato. Ecco una carrellata sui quesiti rimasti aperti, i “buchi neri” di via D’Amelio.
L’UOMO MISTERIOSO NEL GARAGE. Il primo e tra i più inquietanti aspetti mai indagati a fondo è la presenza di un uomo misterioso, esterno a Cosa nostra, di cui parla il pentito Gaspare Spatuzza quando racconta del furto e della preparazione della Fiat 126 con 90 chili di tritolo. In un garage di via Villasevaglios 17 c’è anche questa oscura presenza, mai individuata con certezza. Nel 2009 Spatuzza lo aveva indicato come un appartenente ai servizi segreti, e indicandolo in Lorenzo Narracci, braccio destro di Bruno Contrada e 007 del Sisde, il cui numero di telefono è presente anche in un foglietto rinvenuto nei pressi del cratere di Capaci. Lo 007 era pure residente in via Fauro a Roma, teatro della strage del ’93. Tre singolari coincidenze o qualcosa di più? Spatuzza lo riconoscerebbe durante un confronto all’americana, salvo poi fare un leggero passo indietro nel 2010, parlando solo “di una certa somiglianza” con quell’uomo misterioso. Ad oggi questo “uomo nero” resta senza un volto e un nome.
IL TELEFONO INTERCETTATO. Come facevano i mafiosi a sapere gli orari e gli spostamenti esatti di Borsellino di quella domenica? Il giudice aveva l’abitudine di andare a trovare la madre in via D’Amelio (colpevolmente lasciata senza zona rimozione, altro “buco nero”), ma la visita di quel giorno fu imprevista. Tanto che Borsellino avvertì per telefono del suo arrivo. La Procura di Caltanissetta incaricò il commissario Gioacchino Genchi di svolgere una perizia sul telefono di casa di Rita Borsellino, la sorella del giudice che abitava con la madre in via D’Amelio: dalle testimonianze emerse che c’erano stati precedentemente strani rumori di fondo nelle telefonate, oltre ad “alcuni squilli anomali”. Per il consulente, il telefono quindi poteva essere stato intercettato. A confermare questa pista, dopo tanti anni, nel 2013, lo stesso Totò Riina, intercettato al carcere di Opera. A colloquio con la sua “dama di compagnia” Alberto Lorusso, Riina rivelò: «Sapevamo che Borsellino doveva andare là perché lui ha detto: ‘Domani mamma vengo’». Fu realmente intercettato quel telefono? E da chi? Secondo le indagini il sospetto autore fu Pietro Scotto, un tecnico della società telefonica Sielte, fratello di Gaetano Scotto, boss dell’Arenella considerato trait d’union fra i vertici di Cosa nostra e ambienti dei servizi segreti deviati. Gaetano Scotto è tra i mafiosi condannati all’ergastolo per la strage e poi rimesso in libertà insieme agli altri 6 boss: Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana e Vincenzo Scarantino. La sua posizione però sembrerebbe diversa rispetto a quella degli altri ingiustamente accusati della strage: su Scotto peserebbero altre ombre, come l’Addaura e i presunti contatti con Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro“.
CHI AZIONÒ IL TELECOMANDO? Dopo tanti anni ancora non si è riusciti a identificare con assoluta certezza chi azionò l’ordigno piazzato sulla 126. In base alle testimonianze dei collaboratori di giustizia Tranchina e Ferrante, sarebbe stato Giuseppe Graviano ad azionare la carica dal giardino-agrumeto che delimita via D’Amelio. Ma è realmente possibile che abbia deciso di esporsi al rischio dell’onda d’urto in un luogo così vicino? Poteva essere facilmente visto da qualche condomino del palazzo. E finora manca una prova tangibile del luogo esatto da cui partì l’input del telecomando. Riina invece dice che fu piazzato direttamente nel tasto del citofono. Fu davvero così? Ancora è un mistero.
LE CICCHE E IL VETRO SCUDATO. Un giallo anche il ritrovamento sul tetto di un edificio di fronte a via D’Amelio di cicche di sigarette e un vetro scudato. Il complesso “Iride“, cioè il palazzo dei “fratelli Graziano“ a 11 piani all’epoca in costruzione, sito a pochi metri dal luogo e con una visuale perfetta sulla strada, venne perlustrato da due agenti della Criminalpol di Catania: Mario Ravidà e Francesco Arena. È la mattina del 20 luglio 1992: sono passate circa 12 ore dalla strage. I due poliziotti individuano il palazzo dei Graziano come possibile punto per azionare l’autobomba. Mentre uno interroga sulle scale uno dei Graziano (legati ai Madonia e ai Galatolo), l’altro poliziotto sale sul tettodell’edificio e trova 26 piante ad alto fusto a mo’ di copertura, un vetro spesso scheggiato poggiato sul parapetto, molti mozziconi di sigaretta e dei numeri di cellulare. All’improvviso giunge un’altra squadra di poliziotti che blocca i due colleghi della Criminalpol: “Tutto ok, ci pensiamo noi”. Così i due se ne vanno, stilando una relazione di servizio dettagliata. Relazione che inspiegabilmente scompare. Su quei reperti non fu mai fatta l’analisi del DNA, che avrebbe potuto portare a chi verosimilmente pigiò il telecomando da lì o a chi faceva da vedetta.
IL CASTELLO UTVEGGIO. Un’altra ipotesi sull’azionamento dell’esplosivo riguarda Castello Utveggio, da cui si ha una visuale ad ampio raggio sul luogo della strage. Agnese Borsellino ha raccontato che suo marito le raccomandò una volta di non alzare la serranda della camera da letto, perché avrebbero potuto spiarli dal Castello Utveggio. Chi c’era lì? Oltre a essere la sede del Cerisdi, per Genchi era una sorta di sede occulta del Sisde (servizio segreto civile) a Palermo: “Con mio disappunto – rivela Genchi – La Barbera convocò Verga (direttore del Cerisdi) palesandogli l’oggetto dell’indagine. Tali soggetti di lì a poco smobilitarono dal castello”. I tabulati telefonici per Genchi dicono che con certezza il Sisde operò da lì, nonostante abbia più volte smentito questa circostanza.
I SERVIZI. Arnaldo La Barbera [ANSA]Oggi sappiamo che Arnaldo La Barbera era a libro paga del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, definito come il “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio”. Notevole il ricordo del Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Maggi arrivò tra i primi, circa dieci minuti dopo il botto delle 16,58: «Uscii da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa… proprio senza una goccia di sudore». Era «gente di Roma» che lo stesso Maggi conosceva di vista, appartenenti ai Servizi Segreti. Che ci facevano lì in così poco tempo? Guardando attentamente le immagini dell’epoca si vedono in effetti diverse figure losche aggirarsi tra i corpi fatti a pezzi. Si faccia quindi chiarezza identificando questi soggetti, per capire le ragioni del loro vagare con fare sospetto in via D’Amelio.
I 100 SECONDI. L’esplosione è fissata esattamente alle ore 16:58 e 20 secondi. Dopo appena 100 secondi, alle 17 in punto, Bruno Contrada – in barca con l’amico Gianni Valentino e lo 007 Narracci – chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma e, a suo dire, ottiene conferma dell’attentato. In mezzo a quei cento secondi però c’è stata un’altra telefonata: quella che ha avvertito Valentino dell’esplosione. Dunque, in soli 100 secondi: esplode l’autobomba in via D’Amelio; un misterioso informatore (Contrada dice la figlia dell’amico) avvisa da un telefono fisso (non identificabile dai tabulati) dell’accaduto; Valentino a sua volta informa Contrada e gli altri sulla barca; Contrada dal suo cellulare chiama il Sisde e ottiene la conferma sull’attentato. Tutto in soli cento secondi. Come poteva sapere la figlia di Valentino, a pochi secondi dal botto, che – parola di Contrada – “c’era stato un attentato”? E come potevano sapere al Sisde che era esplosa una bomba in via D’Amelio già 100 secondi dopo lo scoppio? Fino alle 17:15 le forze dell’ordine parlavano genericamente di “esplosione” e “incendio in zona Fiera”. Valentino e Contrada, però, in alto mezzo al mare, già alle 17 sapevano tutto. Contrada per tre volte sarà indagato per concorso in strage e tutte e tre le volte archiviato.
L’AGENDA ROSSA. Il mistero dei misteri resta la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Su questo aspetto si sono scritti fiumi di inchiostro: una telefonata anonima ad un giornalista nel 2005 permise di far trovare una foto finita nel dimenticatoio per 13 anni; nel celebre scatto di Franco Lannino, l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, con la borsa in mano. Arcangioli fu poi indagato e assolto in via definitiva. Sappiamo comunque che l’ex pm Giuseppe Ayala fu tra i primi ad arrivare in via D’Amelio. Le sue molteplici versioni sulla borsa di Paolo Borsellino sono considerate “contraddittorie” da Fiammetta Borsellino. Di recente Ayala ha replicato nervosamente alla figlia di Borsellino. E in aula si è scontrato duramente con l’avvocato Fabio Repici(legale di parte civile di Salvatore Borsellino) che puntava a dimostrare l’inattendibilità del teste. “Il collega Ayala – ha detto il pm Nico Gozzo – ha reso diverse versioni… non so quanto tutto questo appartenga al modo di essere di Ayala oppure evidentemente a una voglia in qualche modo di depistare le indagini. Saranno i colleghi di Caltanissetta a stabilirlo”. In un recente editoriale, il cronista Saverio Lodato scrive: «Ripetutamente interrogato sul punto, Giuseppe Ayala, avanti negli anni come tutti noi, a spiegazione di una quasi mezza dozzina di versioni differenti su questa circostanza, si è dichiarato pronto a rendere conto a Dio quando sarà, visto che su questa terra la memoria non lo aiuta più, nel ricordare a quali mani affidò la borsa delle discordia». L’unica cosa certa è che quella borsa tornerà improvvisamente dentro l’auto, ancora fumante e con qualche focolaio da spegnere. Poi la nuova asportazione. La borsa sarà per oltre 6 mesi nell’ufficio di Arnaldo La Barbera, abbandonata. E non appena Lucia Borsellino chiese chiarimenti per l’assenza dell’agenda rossa, fu presa per pazza.
IL DEPISTAGGIO. Infine il depistaggio sulle indagini, ormai certo. Chi ha tradito Borsellino? Chi istruì Scarantino suggerendogli bugie condite da elementi di verità? Sono stati solo i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, oggi sotto indagine? O come sostiene Fiammetta Borsellino, alle spalle ci sarebbero alcuni magistrati?
BORSELLINO. LA PISTA “MAFIA-APPALTI” DENUNCIATA DA GIUFFRE’ 13 ANNI FA. Paolo Spiga su lavocedellevoci.it l'8 Febbraio 2019. Giallo Borsellino. La pista “Mafia-Appalti” per individuare il vero movente delle strage di via D’Amelio prende sempre più corpo. Giorni fa ha puntato i riflettori Fiammetta Borsellino ai microfoni di “Che tempo che fa”. Ferdinando Imposimato la indicò addirittura nel 1995 firmando un vero e proprio j’accuse con la relazione di minoranza alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Tiziana Parenti. Ricostruzione ancor più dettagliata nel volume “Corruzione ad alta velocità” scritto nel 1998 dallo stesso Imposimato insieme a Sandro Provvisionato. Ora stanno emergendo altre ricostruzioni fino ad oggi misconosciute. Eccoci, ad esempio, all’audizione, sempre in Commissione Antimafia, del procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci. Paci fa riferimento all’epoca in cui Borsellino era procuratore capo a Marsala: “Allora – rammenta Paci – di quel rapporto ‘Mafia-Appalti‘ Borsellino chiese copia quando si trova ancora a Marsala. Altro dato che emerge inquietante è che spesso ci siamo soffermati a pensare a quest’aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest’attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D’Amico, i capi della famiglia di Marsala. Muoiono perchè si oppongono all’eliminazione di Borsellino a Marsala”. Continua Paci: “Che cosa ha fatto Borsellino nel 1991 di particolare? Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato nei nostri approfondimenti. Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto Mafia-appalti a Pantelleria. Evidentemente viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano anche la De Eccher, il rapporto con imprenditori del Nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l’amministratore della società, comunque legato mani e piedi al mondo politico romano”. Quindi il filo rosso mafia-politica nazionale. Non solo la Rizzani-De Eccher, comunque, fra le società più che border line nel dossier “Mafia-Appalti” finito a febbraio 1991 sulla scrivania di Giovanni Falcone e, scopriamo ora, di Borsellino a Marsala. Ma anche la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi che fa esclamare a Falcone “la mafia è entrata in Borsa”; la Fondedile–Icla tanto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino; la Saiseb”. Insomma, la mafia stava penetrando in modo massiccio tra i big del mattone. Non solo, ma nell’inchiesta di Falcone e Borsellino c’è la chicca dei maxi appalti per la TAV, quell’altra velocità che stava già diventando il colossale business degli anni a venire e su cui hanno acceso i riflettori Falcone e Borsellino. Per questo “Dovevano Morire”. Non è certo finita, perchè del rapporto “Mafia-Appalti” come movente almeno per la strage di via D’Amelio, ha parlato anche uno dei pentiti ai quali è stata sempre riconosciuta la massima attendibilità, Antonino Giuffrè. Le sue parole pronunciate nel 2006 davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Catania vengono riportate nella sentenza del Borsellino quater. Ecco cosa, già 13 anni fa, verbalizzava Giuffrè: “Un motivo è da ricercarsi, per quanto io so, nel discorso degli appalti. Perchè si sono resi conto che il dottor Borsellino era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia, politica e appalti. E forse alla pari del dottor Falcone”. E ribadisce: “Il dottor Borsellino stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare per quanto riguarda il discorso degli appalti”. Ricorda il fatto che la pericolosità di Borsellino era ancor più elevata perchè avrebbe potuto diventare procuratore nazionale antimafia. Quindi rammenta l’isolamento totale (anche sul fronte dei colleghi magistrati) sia di Falcone che di Borsellino. Nella motivazione del Borsellino quater, infatti, si legge: “L’inquietante scenario descritto dal collaboratore (Giuffrè, ndr) trova precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Borsellino e la sua convinzione che la sua esecuzione sarebbe stata resa possibile dal comportamento stesso della magistratura”. Parole che pesano come macigni. E ancora, tanto per chiudere i cerchi, scrivono le toghe: “Falcone e Borsellino erano pericolosi nemici di Cosa Nostra per la loro persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti”. E poi qualcuno dubita ancora del movente “Mafia-Appalti”?
· Il Mistero di Piazza della Loggia.
Che senso ha vietare a uno stragista i funerali della figlia? Niente permesso per i funerali della figlia a Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia, scrive Damiano Aliprandi il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ieri non ha potuto assistere al funerale della figlia di 18 anni Magda Francesca Nyczak, morta nel sonno giovedì scorso. Parliamo di Maurizio Tramonte, che sta scontando l’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un permesso negato, quello nei confronti dell’ex informatore dei Servizi che sta scontando la condanna al carcere di Fossombrone. «Non hai mai odiato né invidiato. La tua onestà e la tua semplicità sono sempre state la tua ricchezza ed è questo che ci lasci in eredità», sono le parole di Maurizio Tramonte che sono riecheggiate ieri nella chiesa di Sant’Andrea a Concesio durante le esequie. Ha potuto mandare solo questa lettera, senza essere presente. Nel suo messaggio ha ricordato il giorno della nascita di Magda Francesca e di come «nel silenzio del sonno e senza disturbare ti sei ritrasformata nella più lucente stella». E poi: «Franci, la tua vita è stata breve ma non sei stata una meteora. Il tuo affetto, i tuoi sorrisi, la tua luce e la tua semplicità rimarranno nel mio cuore. Arrivederci tesoro mio». Una decisione, quella del permesso negato, che ha trovato disapprovazione anche da parte di Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime della Strage e marito di una delle vittime. «Non condivido la decisione – ha spiegato Milani – di non concedere a Maurizio Tramonte di partecipare alle esequie di sua figlia adottiva. A un padre, come in questo caso, non può essere negata la possibilità di assistere al seppellimento della figlia». Parole, quelle del presidente dell’associazione vittime della strage che colpiscono al cuore di uno Stato diventato sempre più cinico. «Ci sono occasioni – ha concluso Milani – per compiere gesti umani che uno Stato democratico dovrebbe sempre rispettare anche nei confronti di chi ha commesso reati». Eppure anche gli ergastolani, così come anche nei confronti di chi rientra nel 41 bis, hanno il diritto al permesso di necessità. Non mancano sentenze della Cassazione, come quella riguardante un detenuto al 41 bis al quale morì un fratello, fissando il principio di diritto per cui: «Rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’articolo 30 secondo comma della legge 254 del 26 luglio 1975, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa». Quando innescò l’ordigno di Brescia, Maurizio Tramonte aveva solo 21 anni ma già poteva contare diversi anni di militanza nel movimento neofascista di Ordine Nuovo, nato nel dicembre 1969 pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano. Originario di Camposampiero, paese alle porte di Padova dove era nato nel 1952, Tramonte è attivista dell’Msi sin dalla prima adolescenza. Dopo la militanza nell’estrema destra parlamentare di Ordine Nuovo a cavallo tra gli anni ‘ 60 e ‘ 70 sarebbe entrato in contatto con i settori deviati dei servizi segreti del Sid (Servizio informazione difesa), di cui diviene informatore con il nome in codice ‘ Tritone’. Con questo ruolo Tramonte avrebbe innescato l’ordigno a Brescia, mischiandosi tra la folla della manifestazione sindacale indetta quel giorno di 43 anni fa. Poco dopo la strage si trasferisce a Matera, terminando l’attività di informatore ed iniziando una serie di attività imprenditoriali che lo porteranno a guai giudiziari per bancarotta, finendo ai domiciliari all’inizio degli anni 90. Solo nel 1993, a quasi vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, sarà interrogato per il suo ruolo di esecutore materiale dell’attentato terroristico di Brescia. L’iter giudiziario lo vedrà imputato assieme al mandante, il neofascista Carlo Maria Maggi. Inizialmente assolto nei primi due gradi di giudizio, Tramonte sarà condannato in via definitiva nel 2015 dopo che la Cassazione aveva istruito un nuovo processo, durante il quale una complessa perizia antropologica lo aveva riconosciuto in un’istantanea scattata accanto al cadavere di una delle vittime. La sentenza che lo condanna all’ergastolo arriva nel giugno 2017. Pochi giorni prima Tramonte era andato in Portogallo attraverso la Francia e la Spagna. Viene arrestato a dicembre del 2017 a Fatima, durante una visita al Santuario. Maurizio Tramonte si dichiara però ancora innocente.
«La mia Livia, sparita nel fumo di Piazza della Loggia, 45 anni fa». Pubblicato sabato, 25 maggio 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it. La sera prima sono a cena tutti insieme. Manlio e Livia, Clementina e Alberto, Lucia e Giorgio. Quasi tutti insegnanti. Hanno attorno a trent’anni. Passano insieme molte ore, coppie giovani, unite dagli stessi valori, dalle stesse rabbie, dagli stessi sogni. Quella sera discutono della manifestazione del giorno dopo. Il comitato provinciale antifascista l’aveva convocata, promuovendo uno sciopero provinciale, a seguito di una lunga serie di violenze che avevano insanguinato la città e la provincia. Qualche giorno prima , dopo una catena di attentati a sedi sindacali e politiche, era morto, per l’esplosione della bomba che portava sulla moto, un terrorista di estrema destra e, ai suoi funerali, c’era stata una selva di braccia levate in segno di saluto romano e una aggressione alla sezione del Pci. C’era un clima brutto, in quei giorni di maggio del 1974. Quella sera Manlio e Livia vanno a trovare i genitori che abitano nella loro stessa palazzina. La mamma di Livia appare preoccupata: «Non è che domani succede qualcosa? State attenti». Manlio la tranquillizza. «I pericoli non ci sono mai quando le manifestazioni sono così grandi». Manlio è l’unico che non insegna. Lui viene da una famiglia umile. Ha cominciato a lavorare a dieci anni, a quattordici aiutava il proiezionista del Supercinema. Portava con la bici le bobine da un cinema all’altro della città. Ricorda che quando proiettavano i melò italiani, «Tormento» e «Catene», la sera non dovevano pulire a terra perché le lacrime degli spettatori avevano dilavato il pavimento. Poi aveva lavorato due anni, con contratti mensili, nell’azienda di trasporti. Il suo contratto era da muratore, faceva la stessa mansione degli elettricisti, ma costava la metà degli altri. Non poteva ribellarsi perché il rinnovo del rapporto di lavoro dipendeva dai capi. Non poteva ribellarsi da solo. Dei suoi soldi a casa c’era bisogno. Suo padre era disoccupato. Lo chiamavano per asfaltare La Maddalena, la strada fatta dai disoccupati. «Quando non pioveva pensavo: oggi si mangia!». Una volta, con i soldi dei primi lavori, Manlio si comprò un pollo. Disse alla madre che voleva mangiarselo tutto lui, che aveva fame e se lo meritava. La mamma lo cucinò e glielo mise sul piatto, a tavola, davanti al suo posto. «Entrai nella sala, vidi i miei fratelli con la solita zuppa e, insomma, dividemmo il pollo». Da solo Manlio non poteva ribellarsi. Ma con altri sì. Per questo «in un giorno solo decisi di iscrivermi alla Cgil, al Pci e di dichiarare, a me stesso, che ero ateo. Io, che avevo vinto da piccolo il premio del catechismo, davo seguito ai miei dubbi». Piove forte a Brescia, quella fine di maggio. Fa freddo. Gli amici si mettono in corteo. Giorgio, il marito di Lucia, esce presto per fare i picchietti davanti alle fabbriche. Lui si occupa del servizio d’ordine sindacale. Lucia è la sorella gemella di Clementina. Gemelle non monozigote, neanche nei caratteri. «Clem era più determinata di me, più capace di farsi ascoltare e rispettare, anche in casa, anche da mio padre». Si mettono nel corteo. Clem parla con dei ragazzi delle scuole. Arrivano in piazza della Loggia. Sono quasi le dieci di quel 28 maggio di quarantacinque anni fa. Ora dobbiamo fermarci e immaginare. I testimoni, o meglio i sopravvissuti, che ho ascoltato nella casa di Lucia, raccontano la loro storia di quei momenti. Dice Lucia: «Stavamo in mezzo alla piazza. La pioggia era forte, fastidiosa. Qualcuno ha suggerito di spostarci verso i portici. Lo abbiamo fatto. Alberto, Clem, Livia ed io eravamo vicini l’uno all’altro, quasi pressati. Una persona, credo fosse Bartolomeo Talenti, si era appoggiato ad un cestino. Chiacchieravamo su quello che avremmo fatto dopo. Alle dieci ha iniziato a parlare Franco Castrezzati, della Cisl. Poi sarebbe toccato a Adelio Terraroli, del Pci, a nome dei partiti». Manlio: «Ero con Livia. Stavamo cercando gli altri, in piazza. Li abbiamo visti, sotto i portici. Un compagno mi ha fermato per chiedermi qualcosa. Gli ho risposto. In quel momento ci siamo separati. Lei è andata verso Clem, Alberto, Lucia. Dopo aver risposto mi sono diretto anche io verso di loro. Livia mi ha visto, i nostri occhi si sono incrociati. Io le ho sorriso, l’ho salutata. Lei ha alzato la mano per ricambiare». Redento Peroni lavorava nella stessa ditta di Manlio. Aveva fatto sciopero contro il fascismo. «Io prendevo 100.000 lire al mese, ne pagavo 27.000 di mutuo. Perdere un giorno di salario era un sacrificio grosso. Quel giorno non lo facevo per i miei diritti, ma per la libertà di tutti. Scioperavo per gli altri, non per me stesso. Quella mattina un collega mi indica un fascista che era in piazza. Strano, penso. Comincio a seguirlo. E nel frattempo guardavo nella fontana, nelle griglie a terra, se c’era qualcosa. Poi l’ho perso di vista. Ero sotto la pioggia, vicino al cestino. Poi un uomo, in dialetto, mi ha detto «ragazzo vieni sotto i portici, non ti fradiciare. Mi sono spostato». Franco Castrezzati ha appena detto la parola «Milano». È lì che la strategia della tensione è cominciata. Il finto anarchico Bertoli, che si scoprirà essere stato informatore di Sid e Sifar e affiliato alla Gladio, aveva seminato solo un anno prima il panico con una bomba tirata alla questura.
La questura di Milano, città martire dello stragismo. Dopo quella parola, «Milano»...
Manlio: «Vidi il volto di Livia sparire nel fumo di uno scoppio terribile. Quando ho capito mi sono messo a cercarla, in mezzo ai corpi martoriati. L’ho trovata, le ho sollevato la testa, non mi vedeva, non mi parlava. Una foto riprende quell’istante. Pensavo solamente a lei, ai nostri anni insieme. Ero disperato. In quel momento per me, in quella piazza devastata, esisteva solo lei. Ho dimenticato tutti gli altri. Provo da allora un grande senso di colpa per questo. Cercavo un’ambulanza, nell’illusione che quel corpo a brandelli potesse ritrovare la vita perduta».
Lucia: «Ho sentito quel botto terribile e mi sono trovata sotto a un mucchio di corpi. Non riuscivo a muovermi. Ho pensato di aver perso le gambe. Ma poi ho sentito che rispondevano. Ho visto a terra un braccio staccato. Ho pensato, in un flash, che fosse di un compagno che quella mattina mi aveva mostrato il suo nuovo giaccone blu. Ricordo un silenzio assurdo. Nella mia testa. Vedevo le persone che si agitavano, sembravano urlare, ma io non sentivo nulla. La bomba mi aveva sfondato il timpano. Nessuno veniva a tirarmi fuori. Sono svenuta. Mi sono svegliata per il dolore degli schiaffi. Ho sentito che dicevano: “Questa è l’unica sopravvissuta”. In ospedale mi hanno mentito, dicendomi che Clem e Alberto erano in rianimazione. Mio marito era al bar, si è precipitato in piazza. Era sconvolto. Diceva a tutti che era sicuro che io fossi andata a casa. Mi ha visto mentre mi mettevano in ambulanza, ma non mi ha riconosciuto».
Redento: «Quando è scoppiata la bomba il corpo dell’uomo che mi aveva fatto spostare, Bartolomeo Talenti, e quello di Euplio Natali mi hanno fatto da schermo, salvandomi. Avevo i timpani rotti, schegge ovunque, ero fradicio di sangue. I miei colleghi mi hanno detto che mi hanno visto rialzare e cominciare a correre urlando. Ho fatto trecento metri, loro mi inseguivano per fermarmi. Io piangevo e urlavo. Ricordo solo che mentre correvo ho sbattuto su qualcosa che mi ostacolava. Pensavo fosse un pezzo di legno. Era un braccio. Poi i miei amici mi hanno placcato e con un secchio d’acqua mi hanno lavato, mentre piangevo. Quello che non riesco a perdonarmi è di essere scappato, di aver corso lontano. Ero lì, potevo aiutare, forse salvare qualcuno. Magari Bartolomeo, il cui figlio Paolo oggi è un pezzo della mia vita».
Adelio Terraroli, ora ottantottenne, aveva preparato la sera prima, nella casa in cui mi riceve, il suo discorso. Quello di cui restano appunti a mano, come usava una volta, e basta. Perché quelle parole non sono mai state pronunciate. «Avevo avuto un’ischemia nel 1973. Quello sarebbe stato il mio primo comizio da allora. Eravamo tutti angosciati dal clima che c’era nel nord. La piazza era piena. Dopo lo scoppio pensai fosse un petardo. Ci precipitammo sotto i portici. C’erano decine di corpi a terra. Sangue ovunque. I feriti, i manifestanti che erano scappati, tornavano indietro per aiutare. Noi non sapevamo se ci fossero altre bombe e dicemmo a tutti di andare a Piazza della Vittoria. Capimmo subito quello che era avvenuto. Io avevo mia moglie e mio figlio in piazza, Castrezzati vide il fratello portato via. Eravamo noi, ci conoscevamo tutti. Ci riunimmo in provincia, allora presieduta da Tarciso Gitti. Durante la riunione lui venne sapere che tra le vittime c’era la moglie del suo assessore Luigi Bazoli, Giulietta Banzi, anche lei insegnante. Organizzammo la presenza nelle fabbriche e l’autogestione della piazza che uno sciagurato vice questore, non so se incapace o complice, aveva fatto ripulire subito dopo l’attentato, impedendo la raccolta di elementi decisivi per l’inchiesta. Nulla fu più come prima, dopo Brescia».
Quella bomba scosse il Paese. La testimonianza sonora dello scoppio che interruppe il comizio antifascista rese ancora più forte l’impatto emotivo. Ma c’era qualcosa di più. Nell’Italia che solo due settimane prima aveva celebrato la vittoria del No al referendum sul divorzio per la prima e unica volta, nella storia del dopoguerra, una bomba devastante viene fatta esplodere durante una manifestazione politica. Gli stragisti avevano e avrebbero colpito banche, treni, stazioni, monumenti. Ma mai erano stato compiuto un attentato in una piazza. Era un salto di qualità. I funerali rispecchiano questa coscienza.
Lucia: «In ospedale ho voluto vedere alla tv i funerali. Sono stati un modo per sentirmi meno sola. Per alleviare la mia disperazione. I volti lividi di Leone e Rumor subissati di fischi erano lo specchio della coscienza, poi confermata nelle sentenze definitive, che quella strage non fosse solo di fascisti, ma avesse una rete di collaborazioni e forse persino l’ideazione in pezzi dello Stato che lavoravano contro la democrazia».
Redento: «Il giorno dei funerali avevano cambiato le lenzuola e tirato a nuovo le stanze. Noi feriti ci eravamo messi d’accordo. “Quando vengono Leone e Rumor, il primo di noi che gli stringe la mano non la deve più mollare. Ci devono guardare negli occhi, dire la verità”. Una suora aveva sentito e riferì. Ci spostarono tutti. Io mi ritrovai nel reparto maternità.
Per anni non ho mai parlato della strage, neanche con mia moglie. Poi un giorno i mei nipoti seppero dalla madre che ero stato tra i feriti. Mi chiesero di raccontargli. Io inventai una scusa. Poi però li invitai a fare una passeggiata in montagna. Fu così che mi aprii. Ricordo che la sera me li misi vicino, nel lettone, e risposi a tutte le loro domande. Da allora non smetto di girare per le scuole. È il mio modo di onorare le vittime”.
Manlio: «Io non accettai l’obitorio, mi sembrava assurdo che la vita di Livia dovesse finire lì. Il pomeriggio tornai, solo, in Piazza della Loggia. Il dolore non ha finito di inseguirmi. Per mesi ho dormito con la luce accesa. Alla fine il segretario della Fiom, Claudio Sabattini, venne a stare da me. La mamma di Livia per anni ha avuto una grande foto della figlia nel salone. Le parlava. Si era convinta che fosse fuori per un po’. Che sarebbe tornata, prima o poi. Non accettava quella morte inaccettabile. In tutti questi anni mi sono battuto per la verità. Sono diventato vecchio ma ora, con la sentenza della Cassazione, è stata fissata la verità storica. È stata dura, ho avuto anche momenti di frizione con il mio partito, il Pci, che all’inizio sposò un’inchiesta sbagliata della magistratura. Ma ora c’è una sentenza definitiva. Nel condannare Maggi e Tramonte la Corte scrive: “Dagli atti processuali emerge, in effetti, la prova certa di comportamenti ascrivibili ai vertici territoriali dell’Arma dei Carabinieri e ad alti ufficiali del S.I.D., che sono incompatibili con ogni principio di lealtà e fedeltà ai compiti istituzionali loro affidati... L’ottica seguita, almeno per ciò che riguarda i Servizi segreti, non è stata certo quella di consentire agli inquirenti di fare luce sull’accaduto, sulle trame sottostanti, sui responsabili. È doveroso domandarsi: cui prodest?
La risposta è fin troppo ovvia, ove si tenga conto del contesto politico dell’epoca e dell’attenzione che pezzi importanti dell’apparato, civile e militare dello Stato, e centrali di potere occulto prestavano all’evoluzione del quadro socio-politico del Paese, condividendo l’interesse - comune a potenze straniere che godevano di un osservatorio privilegiato grazie alla massiccia presenza sul territorio di basi militari e di operatori dei Servizi di intelligence — a sostenere l’azione della destra, anche estrema, in chiave anticomunista”. Non sappiamo chi ha messo materialmente la bomba, chi ha deciso che l’attentato si facesse. Ma conosciamo i responsabili della trama che ha portato all’attentato ed è codificato un giudizio storico. Noi non vogliamo vendetta. Io da anni ho avviato, con Agnese Moro, Benedetta Tobagi ed altri , un dialogo con i terroristi che hanno riconosciuto le loro colpe. Ci siamo incontrati, abbiamo usato le parole. Quelle che le armi e le bombe fanno tacere per sempre. Ho dedicato la mia vita alla verità. Cerco ancora. Lo faccio per Giulia, Clementina, Alberto, Euplo, Bartolomeo, Luigi, Vittorio. E per Livia. L’ho sognata, una notte. Lei era in casa, con altri amici. Aveva una grossa valigia in mano e camminava senza mai fermarsi. Vagava con un moto circolare, senza pause, senza meta. Vorrei poterle dire un giorno: “Fermati, riposati. Questa è la verità. Ci siamo arrivati”».
· Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati.
Strage di Piazza Fontana, Valpreda era innocente: 18 anni di ingiustizie e tormenti. Tiziana Maiolo l'8 Dicembre 2019 su Il Riformista. 1969 Archivio Storico Pietro Valpreda (Milano, 29 agosto 1933 – Milano, 6 luglio 2002) è stato un anarchico, scrittore, poeta e ballerino italiano, noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto. Nella foto: processo anarchici, Pietro Valpreda e Roberto Gargamelli. Come per un effetto ottico, quando ho visto le immagini dell’arresto di Massimo Bossetti, lui come un animaletto ferito, impaurito, e i suoi inseguitori che gridavano «prendilo prendilo!» mi è tornato alla mente un viso di tanti anni fa, quello di Pietro Valpreda. Storie e persone molto diverse. Se non altro perché uno, forse non colpevole, è stato condannato all’ergastolo, l’altro, sicuramente innocente, è stato assolto. Alla fine. Dopo diciotto anni di ingiustizie e tormenti. Un concetto non riesce a staccarsi dai mei pensieri: capro espiatorio. L’analogia qui comincia e qui finisce. L’Italia della fine anni sessanta, quella con la democrazia cristiana sempiterna e anche con il movimento degli studenti e l’autunno caldo, fanno da sfondo alla sorte di un ragazzo di ringhiera un po’ anarchico e un po’ baùscia, cioè fanfarone, che sognava di fare il ballerino e a causa di un morbo che gli rallentava i movimenti si era dovuto adattare a confezionare lampade in stile Liberty, mettendo insieme pezzetti di vetro colorati. Una vita niente di che, che non gli sarà più restituita, dopo quel accadde a Milano in una bella piazza dietro al Duomo, che si chiamava piazza Fontana ed era sempre bagnata da tanti zampilli. Era il 12 dicembre del 1969, ore 16,30 quando ancora molti impiegati sono negli uffici, tranne chi lavora in banca, perché gli istituti di credito chiudono prima. In genere, tranne quel giorno alla banca dell’agricoltura di piazza Fontana, quando scoppiò la bomba e nella banca c’era tanta gente. La strage di piazza Fontana cambiò la storia di tutti noi, di noi giovani e del paese intero. E soprattutto quella del giovane anarchico Pietro Valpreda. Ci eravamo conosciuti proprio lì in quella piazza, così come ci si conosceva tutti, in quegli anni. Il 28 novembre del 1968 c’era stata una grande manifestazione di studenti, che al termine era sfociata proprio lì, dove c’era un vecchio albergo, l’hotel Commercio, da tempo disabitato e la cui proprietà da un paio di anni era stata rilevata dal Comune. Il Commercio quel giorno fu occupato, nonostante il dissenso del Movimento studentesco guidato da Mario Capanna che avrebbe preferito un’invasione simbolica di palazzo Reale. Lo stabile divenne da quel momento una sorta di casa dello studente per i tanti ragazzi che venivano a Milano a frequentare l’università e a lavorare. L’occupazione ebbe una forte componente anarchica, di cui anch’io facevo parte. Quando, con una sorta di piccolo golpe estivo, il 19 agosto 1969, il Commercio fu sgomberato e immediatamente raso al suolo, ebbi persino un piccolo momento di gloria. Ma la mia mamma pianse mentre era al mare con le amiche aprendo l’Espresso con le sue lenzuolate nel vedere un’enorme foto che mi ritraeva seduta per terra con i lunghi capelli e il viso un po’ corrucciato mentre stringevo tra le ginocchia un megafono. L’immagine era stata scelta come simbolo dello sgombero di quel “covo di anarchici”. Le ruspe avevano annientato quello che era stato definito “un pugnale nel cuore della città” e che aveva dato parecchio fastidio alla giunta di sinistra del sindaco Aniasi. Piero (nessuno di noi l’ha mai chiamato Pietro) era un anarchico vero e lo è stato fino all’ultimo giorno della sua vita. Non è mai stato serioso né intransigente come spesso erano all’epoca molti militanti politici. Lo si poteva incrociare all’hotel Commercio come al circolo della Ghisolfa o in giro per librerie. Era protetto da una famiglia a forte componente femminile molto solidale, il che non gli gioverà, quando tutti i suoi parenti saranno incriminati per falsa testimonianza perché avevano osato confermare il suo alibi quando fu arrestato e accusato di aver messo la bomba. La sua prima immagine dopo l’arresto è quella di un uomo stravolto e anche stupito, quando, davanti a una selva di flash, un fotografo lo aveva apostrofato in modo crudele: “Alza la capoccia, Mostro!”. Era stato battezzato. Ormai per tutti era il Mostro. Dopo l’occupazione del Commercio era andato a vivere a Roma. Ma la sua famiglia era sempre a Milano. E saranno proprio loro, facendogli sapere tramite un avvocato di una convocazione per una testimonianza davanti a un giudice istruttore per un volantino anticlericale, a farlo decidere ad arrivare nel capoluogo lombardo proprio per il 12 dicembre. La convocazione in realtà era per il 9, inoltre la sorella di Valpreda che l’aveva ricevuta e firmata, non aveva saputo specificare di che cosa si trattasse, tanto che lui, un po’ spaventato, si era rivolto a un legale in quanto temeva di esser stato incriminato per vilipendio al papa. La sua preoccupazione era tutta lì, un normale pensiero da anarchico anticlericale. Ma il clima era già pesante, poche ore dopo lo scoppio della bomba alla banca dell’agricoltura di Milano. I 17 morti e gli 88 feriti erano stati immediatamente messi in conto al mondo anarchico, anche se gli inquirenti in realtà non avevano in mente altri se non un mandante illustre, niente di meno che l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Una pista che furono costretti ad abbandonare poi in gran velocità. Ma il vestito cucito addosso a Piero Valpreda ha avuto per un certo periodo successo proprio perché lui era un anarchico che non veniva difeso neanche dalla sinistra. Tanto che neanche il quotidiano comunista L’Unità gli riconobbe la dignità del suo essere “compagno”, visto che nella foto in cui lui appariva con il pugno chiuso il braccio veniva regolarmente moncato dalla censura di partito. Non fa parte del nostro album di famiglia, dicevano quei tagli nelle foto. Mentre qualcuno metteva la bomba, Piero era a casa di zia Rachele, una prozia in realtà, quella che di più lo ha difeso con le unghie e con i denti. Anche perché era lei il suo alibi più solido. Il nipote, mentre in piazza Fontana scoppiava quell’inferno che nessuno di noi potrà mai più dimenticare, era proprio nella sua casa, a letto e mezzo influenzato. Non era lui l’uomo con la valigetta nera di cui parlò il tassista Rolandi e che sarebbe salito sulla sua auto in piazza Beccaria per percorrere cento metri e poi compiere l’attentato. Ammesso che quella persona sia mai davvero salita su quell’auto gialla. Ma i magistrati di Roma e Milano che si palleggiarono l’inchiesta, prima fecero una ridicola ricognizione di persona e infine costrinsero il tassista a una testimonianza a futura memoria prima della morte. Per poter incastrare Pietro Valpreda. C’è da domandarsi perché una persona così poco importante agli occhi delle istituzioni sia stata presa di mira in modo così pervicace. I casi sono solo due: o lui è stato solo un capro espiatorio preso per caso, oppure, visti i numerosi depistaggi e le frequenti smemoratezze che colpirono gli uomini delle istituzioni al processo di Catanzaro, altri, i veri responsabili, furono tenuti nascosti e protetti. Ma questo non possiamo saperlo perché per la magistratura quella strage non ha avuto colpevoli. La mia amicizia con Piero Valpreda è nata qualche anno dopo, quando ero cronista giudiziaria al Manifesto ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che dal primo momento avevano creduto alla sua innocenza. Abbiamo svolto un lavoro certosino, giorno dopo giorno, sugli atti processuali, senza che nessun magistrato ci passasse le veline come si usa oggi. Abbiamo studiato e scarpinato, come si dice a Milano. Nel 1972 il Manifesto ha anche tentato la carta elettorale, candidandolo capolista a Roma e svolgendo una campagna elettorale appassionata (ho avuto di nuovo l’occasione di usare il megafono per gridare “Valpreda è innocente, la strage è di Stato!”), ma purtroppo abbiamo mancato il quorum. Piero è uscito da carcere grazie a una legge ad personam, con la quale si consideravano scaduti dopo un certo periodo i termini di custodia cautelare anche per i reati gravi come la strage. Ed è stato infine assolto al processo di Catanzaro e nei tre gradi di giudizio. In quegli anni era riuscito ad aprire un piccolo bar in corso Garibaldi, nella zona di Brera. Ed è stato lì, in quei giorni, che ho potuto conoscere meglio la persona, quello che era stato il suo pervicace ottimismo, ma anche le sue malinconie. Ero diventato un simbolo, diceva, mi hanno appiccicato addosso un’etichetta, ma dei miei sentimenti non importava niente a nessuno. Non aveva acrimonia. Raccontava la sua vita così, come se tutto fosse stato, in un modo assurdo, “normale”. I suoi sentimenti stavano in quel recinto di persona come le altre.Ma anche uno che sognava l’anarchia, la libertà, l’antiautoritarismo. Ero diventato ballerino, mi diceva, perché dopo la guerra ascoltavo la musica americana e mi ero messo a ballare il boogie-woogie. Il momento più emozionante, raccontava, era stata la nascita del figlio, che aveva voluto chiamare Tupac come un condottiero rivoluzionario peruviano. Piero Valpreda è morto a Milano nel 2002, nella sua modesta casa di corso Garibaldi. Negli ultimi tempi scriveva gialli in collaborazione con il giornalista Piero Colaprico. Un’attività imprevista e lontana da lui. Ma non dalla sua vita come gli era stata cucita addosso. Per caso o per complotto?
Piazza Fontana, 50 anni fa la strage. Il 12 dicembre 1969 a Milano una bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura provoca 17 morti e 88 feriti. Primo atto della "strategia della tensione". Edoardo Frittoli il 12 dicembre 2019 su Panorama. Milano, Venerdì 12 dicembre 1969. In Piazza Fontana, a pochi metri dal Duomo, la sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura è gremita di clienti. Il venerdì pomeriggio è giorno di operazioni per molti agricoltori e allevatori della provincia. Il chiasso del grande salone della banca è interrotto improvvisamente alle ore 16,37 quando un potente ordigno posizionato al centro della sala esplode. Sul pavimento della sede devastata restano 17 morti. Poi il silenzio è di nuovo rotto dai lamenti dei feriti, molti di quali gravissimi, e poco dopo dall'urlo delle sirene dei soccorsi. Gli 88 feriti vengono smistati negli ospedali milanesi. La città di Milano è atterrita dalla violenza della prima strage che caratterizzerà gli anni della "strategia della tensione". Dopo i funerali solenni delle vittime in piazza Duomo, a cui partecipa una folla immensa tra la nebbia e il freddo di quei giorni, inizia la vicenda giudiziaria ad oggi non risolta. La prima pista seguita dagli inquirenti è quella anarchica, che porterà all'arresto di Pinelli e Valpreda, poi fu la volta della "pista nera" dell'eversione neofascista di Freda e Ventura. Quel tragico 12 dicembre 1969 farà poi altre due vittime indirette: Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. La lunga notte degli "anni di piombo", come il cielo di quel dicembre 1969 a Milano, era cominciata.
Piazza Fontana: cronaca dei 30 giorni prima della strage. Dagli scioperi continui alle battaglie nelle piazze tra opposti estremismi. I primi morti degli anni di piombo, la violenza degli extraparlamentari alla vigilia della bomba. Edoardo Frittoli il 10 dicembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa, il 12 dicembre 1969, si consumava uno dei più gravi attentati della storia italiana: la bomba in Piazza Fontana nel cuore di Milano, che provocò 17 vittime e più di 80 feriti tra i clienti della Banca nazionale dell'agricoltura. L'ordigno esplose in uno dei momenti di massima tensione politica e sociale del Paese, investito dalla violenza di piazza innescata dalle schiere dei movimenti "extraparlamentari" di sinistra e destra e paralizzato dalla lunga stagione degli scioperi nelle fabbriche nota come l'"autunno caldo". Esaminiamo dalle cronache dell'epoca quell'escalation di violenze che fecero da premessa alla strage di Piazza Fontana.
Il mese di ottobre del 1969 era stato caratterizzato da un crescendo della conflittualità nel mondo operaio, alimentata anche dall'azione combinata degli studenti in lotta dall'anno precedente e dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare che si erano unite ai lavoratori nelle assemblee, nelle manifestazioni e negli scioperi per il rinnovo contrattuale delle varie categorie. In particolare i Marxisti-leninisti, i "filo-cinesi", il gruppo di "Potere operaio" avevano spinto per una radicalizzazione della lotta in fabbrica mirata alla preparazione di una auspicata "rivoluzione armata delle masse operaie" in netto contrasto con le sigle sindacali nazionali e soprattutto con il Pci, considerato dagli estremisti come alleato del "governo borghese". Le conseguenze della pressione politica sugli operai in lotta non si fece attendere: all' inizio del novembre 1969 la direzione della Fiat sospese 85 lavoratori in seguito a gravi episodi di violenza e sabotaggio negli stabilimenti di Mirafiori dove un dirigente, l'ingegner Luigi Stellacci, fu aggredito e percosso da un gruppo di scioperanti. A poche ore di distanza dal grave episodio, a Milano il corteo dei lavoratori del settore chimico degenerava in guerriglia urbana, con un funzionario di PS finito in ospedale e decine di feriti e fermati. Alla Pirelli, dove i Cub avevano inaugurato l'"autunno caldo" la produzione era paralizzata da settimane. L'episodio più grave, che può considerarsi assieme alla morte dell'agente Antonio Annarumma come prime tra le vittime degli scontri tra "opposti estremismi" si consumò a Pisa il 27 ottobre durante una manifestazione sfociata in violenza a cui avevano preso parte gruppi di Potere Operaio. Durante l'assalto alla sede del Msi della città toscana rimase ucciso lo studente Cesare Pardini, colpito in pieno petto da un lacrimogeno sparato dalla Polizia.
L'ultimo mese prima della strage di Piazza Fontana.
12 novembre. Anche Napoli fu investita dai disordini, quando si consumarono gravi scontri tra missini e manifestanti di sinistra in occasione di un comizio dei sindacati. Una bomba carta esplose ferendo uno studente e gli arresti furono una trentina. Durante le indagini furono trovate armi ed esplosivi nella sede locale del Msi. A Torino trecento operai Fiat aggredivano gli impiegati che non avevano aderito allo sciopero. Bloccati negli uffici, saranno liberati dall'intervento della Polizia che agì sotto un fitto lancio di bulloni e porfido.
14 novembre. La Fiat identifica e denuncia 50 lavoratori per i disordini dei giorni precedenti, mentre alla Lancia un gruppo di operai blocca la produzione divulgando propaganda contro il sindacato dei metalmeccanici. A Bologna viene ferito il Vice-questore dopo scontri con gli studenti tra i quali si erano infiltrati militanti di Potere Operaio. A Roma si consuma lo strappo tra il Pci e il gruppo de "Il Manifesto", che viene accusato dalla dirigenza comunista di "frazionismo" nel giorno della manifestazione per la pace in Vietnam, a cui prese parte anche Paul Getty Jr.
16 novembre. Viene proclamato lo sciopero generale per la casa, quello durante il quale sarà ucciso Antonio Annarumma. La discussione principale riguardava la "legge sui fitti", ossia il futuro "equo canone".
19 novembre. In via Larga a Milano, durante gli scontri in occasione dello sciopero generale, muore l'agente Antonio Annarumma, colpito da un tubolare di ferro scagliato dai manifestanti. E'la prima vittima degli anni di piombo. La guerriglia si estende anche molte città italiane come Torino, Genova, Alessandria, Catania. A Venezia viene occupata la sede delle Assicurazioni Generali. Duro attacco dei gruppi extraparlamentari contro i comizi dei sindacati nazionali, mentre a Bologna gli studenti in sciopero devastano l'aula magna dell'Università. L'Istat dichiara che nei primi sei mesi dell'anno sono state perse oltre 93 milioni di ore di lavoro a causa degli scioperi. Il Presidente del Consiglio Mariano Rumor arriva a Milano per omaggiare la salma di Annarumma, mentre i maoisti e gli studenti sono ancora asserragliati all'interno dell'Università Statale.
21 novembre. Nel giorno dei funerali di Annarumma gli studenti del Movimento Studentesco chiedono davanti a San Vittore il rilascio dei fermati per gli incidenti di via Larga. In San Babila i missini di Giovane Italia intonano canti del ventennio e scatenano tafferugli con gli studenti di sinistra. Al corteo funebre di Annarumma partecipano migliaia di cittadini. Giunti presso la chiesa di San Carlo, a due passi da San Babila, un militante inneggia a Mao Tse-Tung sventolando un fazzoletto rosso. Viene bloccato da un gruppo di missini che iniziano a percuoterlo. Viene separato dalla Polizia che lo porta all'interno di un cinema, poi cinto d'assedio dai giovani di destra. Si scatena la guerriglia che causerà 28 feriti. Durante la funzione funebre il ministro dell'Interno Restivo ribadisce fermamente il ruolo delle Forze dell'Ordine e la presenza necessaria della Polizia nelle manifestazioni, dichiarando che soltanto negli ultimi mesi erano state registrate più di 1.000 denunce per turbamento dell'ordine pubblico. Alle 15.30 un gruppo di missini si era dato appuntamento al Policlinico, dove era stata allestita la camera ardente dell'agente ucciso. Poco più tardi il drappello si mosse verso la vicina Università Statale riuscendo a penetrare nell'androne di ingresso dove fu asportato materiale di propaganda maoista. In Tribunale si svolge una accesa discussione tra gli avvocati riguardo lo svolgimento dei processi a carico degli anarchici arrestati nell'aprile precedente per le bombe alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale.
23 novembre. A Cosenza si tiene un comizio del deputato Msi Nino Tripodi, futuro direttore del Secolo D'Italia. Durante la manifestazione vengono a contatto giovani di estrema sinistra e giovani missini. Vengono sparati anche alcuni colpi di pistola. A Roma manifestano i baraccati dell'Esquilino, appena sgomberati da due edifici pericolanti che avevano occupato, impedendo lo svolgimento di uno spettacolo teatrale.
24 novembre. Mentre a Milano è un giorno di tregua apparente, iniziano gli interrogatori dei 19 fermati per l'omicidio di Annarumma. A Roma invece sono colpite dalle molotov due sedi del Pci e la caserma dei Carabinieri di piazza del Popolo. Lungo la linea ferroviaria Siracusa-Catania gli operai bloccano i binari in solidarietà ai colleghi che avevano occupato una cartiera. In Calabria, a Bovalino, una bomba al plastico devasta la sede del Msi.
26 novembre. I fondatori del gruppo de "Il Manifesto" (Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri) sono esplusi dal Pci, mentre alla Camera passa il primo voto sul divorzio (legge Fortuna-Baslini). Incomincia il processo a Francesco Tolin, direttore di "Potere Operaio". Era stato inquisito per una serie di articoli comparsi sul giornale della formazione di estrema sinistra che inneggiavano apertamente alla "violenza rivoluzionaria" nelle piazze e nelle fabbriche. Parallelamente all'interno dell'avvocatura si genera una spaccatura dove gli avvocati di "Magistratura Democratica" esprimono solidarietà a Tolin. Il processo è istruito a Roma davanti al Sostituto Procuratore Vittorio Occorsio, che ne aveva convalidato l'arresto.
27 novembre. A Milano scioperano i bancari e commercianti compresi quelli della grande distribuzione, nel giorno in cui nel quartiere popolare di Baggio viene colpita con bombe molotov la locale sede del Msi. Roma è paralizzata da 50mila operai in corteo nel giorno della stretta finale sul contratto dei metalmeccanici del settore pubblico. Il secondo numero del giornale "Lotta Continua" esce con un violento attacco contro i sindacati. Alla Fiat i dati divulgati dall'azienda parlano di 220mila auto prodotte in meno a causa delle continue agitazioni.
3 dicembre. All'indomani delle dichiarazioni sulle perdite della Fiat durante l'ennesimo sciopero si verificano gravi scontri con due operai feriti e decine di auto danneggiate nei parcheggi di dirigenti e impiegati. L'azienda annunciava sospensioni disciplinari per gli incidenti causati da elementi extra-sindacali. Sottoposto alle pressioni di una parte di Magistratura Democratica e dagli appelli di intellettuali e personaggi dello spettacolo durante il processo a Francesco Tolin di "Potere Operaio", Vittorio Occorsio si dimette. Il giudice romano sarà Sostituto Procuratore durante i primi interrogatori di Pietro Valpreda dopo la strage di Piazza Fontana.
4 dicembre. Proseguono feroci gli scioperi alla Fiat, durante i quali vengono danneggiate due tonnellate di ingranaggi. Le trattative per il contratto dei metalmeccanici del settore privato si arenano di fronte al Ministro del lavoro Donat Cattin. A Genova si fermano tutti gli operai del bacino, che bloccano in porto due navi da crociera della Costa. L'armatore minaccia la messa in disarmo delle imbarcazioni.
5 dicembre. Scioperano medici e infermieri, cortei di scioperanti impongono la chiusura dei grandi magazzini milanesi nei giorni degli acquisti pre-natalizi.
7 dicembre. E'il giorno della prima della Scala, dove era in programma l'"Ernani" di Giuseppe Verdi diretto da Claudio Abbado (fu il debutto di Placido Domingo). Come l'anno precedente, i contestatori attendevano gli ospiti sulla piazza omonima. Le personalità dell'imprenditoria, della politica e dello spettacolo si presentarono con minor sfarzo dopo l'esperienza dell'anno precedente. Ciò nonostante, intorno alle 20:30 circa 500 contestatori cinsero d'assedio gli spettatori in arrivo protetti dai Carabinieri. I manifestanti erano capeggiati da Potere Operaio, da esponenti anarchici e del Movimento Studentesco. Il commissario Luigi Calabresi intervenne personalmente per scongiurare danni all'albero di Natale di piazza della Scala, che l'anno precedente era stato distrutto dai contestatori. Durante la giornata alla Camera, l'ordine del giorno era stato il dibattito sull'ordine pubblico. Dopo una seduta accesissima, la stessa durata del monocolore Dc guidato da Rumor veniva messo in discussione con numerosi appelli al ritorno ad una nuova esperienza di centro-sinistra ( che avrebbe dovuto prevedere il dialogo con il Pci per isolare la violenza extraparlamentare).
8 dicembre. A Milano marciano i terremotati del Belice, all'addiaccio da quasi due anni, nel giorno della paralisi della scuola per lo sciopero dei docenti delle medie inferiori e superiori. L'autunno caldo giunge al giro di boa con la firma del contratto dei metalmeccanici del settore pubblico. Per quelli del settore privato invece la strada appare ancora lunga e tortuosa, con oltre un milione di lavoratori in estrema tensione per la lunga attesa. Rimanevano senza contratto anche altre categorie ad alto tasso di conflittualità, come gli autoferrotranvieri e i braccianti agricoli.
9 dicembre. il Ministro dell'Interno Franco Restivo, parlando durante il lungo dibattito sull'ordine pubblico, ribadiva fermamente il ruolo delle forze dell'ordine e del radicamento nel Paese delle istituzioni democratiche e la loro "resistenza agli urti" provocati dalla violenza politica nelle piazze. Mancano solo tre giorni alla strage di Piazza Fontana.
11 dicembre. Alla vigilia della strage di Milano, a Roma si consumano violenti scontri davanti alla sede del Provveditorato agli studi. Due agenti rimangono seriamente feriti durante la manifestazione degli insegnanti aderenti ai sindacati autonomi. Viene approvato dal Senato il testo dello Statuto dei Lavoratori, che entrerà in vigore nel 1970. A Bruxelles il Consiglio d'Europa condanna i Colonnelli greci, che in risposta all'azione dei governi europei si ritirano dal Consiglio. Ventiquattro ore dopo, l'Italia era sconvolta dalla bomba di Piazza Fontana.
1969/2019, Piazza Fontana, cronostoria di una strage. Il Dubbio il 12 dicembre 2019. Le date fondamentali per capire una vicenda che ha attraversato 50 anni della storia italiana.
12 dicembre 1969: alle 16.37 esplode una bomba al tritolo nel salone centrale della Banca dell’Agricoltura, a Milano. Muoiono 17 persone e 87 rimangono ferite.
15 dicembre 1969: muore in circostanze ancora non chiarite, precipitando dal quarto piano della questura, l’anarchico Giuseppe Pinelli, indagato come esecutore della strage.
16 dicembre 1969: vengono arrestati gli anarchici Pietro Valpreda e Mario Merlino ( neofascista infiltrato nel circolo anarchico). La provenienza delle borse per l’esplosivo, però, apre la «pista nera».
13 aprile 1971: vengono arrestati i militanti dell’estrema destra padovana di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura.
23 febbraio 1972: si apre a Roma il primo processo per la strage contro Valpreda e Merlino, trasferito poi a Milano e infine a Catanzaro per motivi di ordine pubblico.
17 maggio 1972: il commissario di polizia Luigi Calabresi viene ucciso a Milano da un commando di militanti di Lotta Continua.
20 marzo 1981: a Catanzaro si conclude il processo di appello con l’assoluzione dei neofascisti per insufficienza di prove ( confermata anche dalla Corte d’assise d’Appello di Bari nel 1985).
11 aprile 1995: inizia l’inchiesta di Milano di Guido Salvini.
30 giugno 2001: vengono condannati all’ergastolo per strage Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni.
12 marzo 2004: gli imputati vengono assolti in appello per insufficienza di prove.
10 giugno 2005: la Cassazione conferma le assoluzioni degli imputati ma nelle motivazioni scrive che la strage fu organizzata da Ordine Nuovo, capitanato da Freda e Ventura, non più processabili perchè già assolti.
Piazza Fontana, Mattarella accusa: «Stato colpevole per depistaggi». Il Dubbio il 13 dicembre 2019. 50 anni fa la strage di piazza Fontana. Il presidente della Repubblica: «Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana». «L’attentato di piazza Fontana è stato uno strappo lacerante recato alla pacifica vita di una comunità e di una Nazione, orgogliosa di essersi lasciate alle spalle le mostruosità della guerra, gli orrori del regime fascista, prolungatisi fino alla repubblica di Salò, le difficoltà della ricostruzione morale e materiale del Paese». Il capo dello Stato Sergio Mattarella celebra con queste parole il cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana. Una ricorrenza che il presidente ha voluto onorare accanto alla signora Pinelli e Calabresi. «Nel momento in cui facciamo memoria delle vittime di piazza Fontana e, con loro di Giuseppe Pinelli, del Commissario Luigi Calabresi, sappiamo di dover chiamare le espressioni politiche e sociali del Paese, gli uomini di cultura, l’intera società civile, a un impegno comune: scongiurare che si possano rinnovare in Italia le fratture terribili in cui si inserirono criminalmente quei fatti», ha infatti dichiarato Sergio Mattarella durante il suo intervento. «Il destino della nostra comunità non può essere preda dell’odio e della violenza – ha aggiunto . Per nessuna ragione la vita di una sola persona può essere messa in gioco per un perverso disegno di carattere eversivo» «L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato – ha poi accusato Mattarella – è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana».
Strage di Piazza Fontana, viaggio nei sotterranei di un processo senza colpevoli. Dai depistaggi alle testimonianze dirette, un documentario rivisita la storia dolorosa della strage realizzata dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo. Gianluca Di Feo il 10 dicembre 2019 su La Repubblica. Quella della strage di Piazza Fontana è una storia dolorosa, che ha condizionato mezzo secolo di vita italiana. L’esplosione nella Banca nazionale dell’Agricoltura ha cambiato tutto: la strategia della tensione ha partorito gli anni di piombo, chiudendo nel sangue i sogni di un decennio. Dalla crescita economica del boom e dai successi sindacali conquistati con gli scioperi dell’Autunno caldo, si è passati alla crisi e alla stagione degli omicidi, rossi e neri, ma egualmente crudeli. Con una parte dello Stato che ha soffiato sul fuoco, aizzando gli scontri di piazza e negando ogni giustizia. Il risultato è che oggi esiste una verità storica su quell’eccidio, realizzato dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo e depistato da ampi settori dei servizi segreti, ma non esiste una responsabilità processuale: nessuno ha pagato per la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Adesso che l’anniversario porta di nuovo a parlare di Piazza Fontana, è importante che molti comprendano gli snodi di una vicenda tanto complessa e importante. Un valido aiuto arriva da un documentario che verrà trasmesso mercoledì 11 dicembre alle 21.50 da History Channel: una ricostruzione chiara dei cardini di questa trama, con le testimonianze dirette di molti protagonisti a partire dai superstiti e dai familiari delle vittime. Uno dei punti di forza del filmato è la suggestione dei sotterranei degli archivi di Perugia dove, dopo avere girato l’Italia, sono finiti milioni di documenti originali dei tanti processi che hanno segnato questo procedimento. E’ come se l’onda d’urto dell’ordigno dalla sala cilindrica - dove quel venerdì pomeriggio si ritrovavano gli imprenditori agricoli del milanese per chiudere i contratti con una stretta di mano - avesse assunto una potenza incredibile, stravolgendo tutti i livelli delle società italiana. E infliggendo un colpo irreparabile alla credibilità delle istituzioni. Ne parla Ugo Paolillo, il primo pubblico ministero dell’inchiesta e il primo a dubitare della pista anarchica immediatamente accreditata dagli apparati di sicurezza, tanto da venire sollevato dall’indagine. I ricordi dell’ingresso nei locali distrutti scorrono sulle immagini terribili di corpi straziati e si accompagnano alle memorie di figli che non hanno mai ottenuto giustizia. E tra tanti interventi di rilievo - come quello di Guido Calvi, legale di Pietro Valpreda; della storica Benedetta Tobagi; dell’avvocato Federico Sinicato che ha assistito le famiglie delle vittime; di Martino Siciliano, ordinovista che ha preso parte alle prove dell’attentato – sorprende la sobrietà delle parole di Roberto Gargamelli, all’epoca anarchico diciannovenne del circolo 22 marzo, arrestato e processato ingiustamente assieme a Valpreda. Nonostante nel suo caso persino l’unico testimone ne avesse negato il riconoscimento.
Piazza Fontana "vista" attraverso il ricordo dei parenti delle vittime. In prima serata Rai, Giovanna Mezzogiorno dà voce al dolore di chi non ha avuto giustizia. Laura Rio, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. Un'intera vita spesa alla ricerca della giustizia, mai arrivata. Almeno non nelle aule dei tribunali. È l'esistenza dei familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana, di cui proprio domani ricorre il cinquantenario. E nel giorno dell'anniversario Raiuno manda in onda la docu-fiction Io ricordo che, dopo tante inchieste, libri, programmi che hanno tentato di fare luce sulla strage, sui processi, sui servizi segreti, sui depistaggi, sulle parti deviate dello Stato, vuole invece puntare i riflettori su mogli, figli, fratelli, genitori di chi ha avuto la vita spezzata entrando in banca il 12 dicembre 1969 e non uscendone mai più. Io ricordo, presentato ieri mattina a Milano in un incontro commovente con alcuni dei parenti di quelle 17 vittime, ripercorre più di trent'anni di storia giudiziaria principalmente attraverso gli occhi di Francesca Dendena, figlia di Pietro, diventata presidente dell'Associazione dei familiari. A dare parola e volto a Francesca una intensa Giovanna Mezzogiorno (Nicole Fornaro nel ruolo di lei da ragazza) che ha preso molto a cuore la causa. Io ricordo - regia di Francesco Micciché, produzione Aurora Tv - non è una fiction e neppure un documentario, è un mix di entrambi: le parti sceneggiate sono intervallate da interviste a magistrati, avvocati, giornalisti e ai medesimi parenti. Cercando di tenersi lontano dalla retorica, riesce in due ore nel difficile compito di riassumere una complicata e intricatissima storia giudiziaria che è diventata storia del nostro Paese, la strage che ha segnato l'inizio della strategia della tensione. «Il nostro obiettivo fondamentale - spiega Eleonora Andreatta, responsabile di Rai Fiction - era raccontare ai giovani cosa è stata e cosa ha rappresentato quella strage. I ragazzi di oggi non sanno neppure cosa sia o ne hanno una idea assai vaga. La memoria è fondamento identitario del nostro Paese e questo è il ruolo che deve avere la televisione pubblica». Il racconto segue il filo della vita di Francesca, che quando il padre morì aveva 17 anni. Io ricordo è l'inizio di un telegramma che inviò al Presidente della Repubblica dopo i tanti Non ricordo detti dai politici italiani che sfilarono al processo di Catanzaro. Da quel 12 dicembre 1969, quando il padre seduto al tavolo sotto cui fu piazzata la bomba saltò in aria, ha passato tutta la vita a chiedere giustizia, con fiducia ed entusiasmo, fino alla delusione finale della sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 2005 che nonostante attribuisse la strage al gruppo eversivo neofascista di Ordine Nuovo, dichiarò non punibili Freda e Ventura in quanto già assolti in via definitiva anni prima. «È stato un onore ma non è stato facile - racconta Giovanna Mezzogiorno - interpretare Francesca e ripercorre con i suoi occhi la storia della strage, piena di date, di fatti, di punti oscuri. Io ricordo piazza Fontana perché negli anni '90 ero al Liceo e partecipavo alle manifestazioni e ai cortei studenteschi. C'è stato e c'è qualcosa sopra di noi, sopra le nostre teste che non è venuto e non viene a gala. Mi auguro che questa fiction abbia successo perché la gente non deve dimenticare». Per l'attrice anche una condivisione del dolore. «Posso ben capire cosa voglia dire perdere un padre da ragazza, io il mio (Vittorio Mezzogiorno) l'ho perso in sei mesi, Francesca in pochi secondi, è un buco nero che rimane per sempre». La disperazione per la verità giudiziaria mai arrivata, non ha fermato i familiari che si sono trasformati da vittime in testimoni. Il fratello di Francesca (scomparsa nel 2010) Paolo, i figli, gli altri parenti girano ancora le scuole per parlare agli studenti, e sono stati e saranno presenti alle cerimonie di questi giorni. «Perché il cancro di questo Paese - conclude Paolo Silva, figlio di Carlo - non è solo l'indifferenza dei giovani, ma di molti italiani che si chiedono cosa vogliono questi qui dopo tutti questi anni...». La docu-fiction resterà su Raiplay ed è disponibile per le scuole e le associazioni.
Piazza Fontana 1969, il film “Romanzo di una strage” è un fake. Vladimiro Satta l'11 Dicembre 2019 su Il Riformista. Quando un film avente ad oggetto una vicenda storica nonché giudiziaria si annuncia mediante una pubblicità che ripete spesso: «la verità esiste» ed il regista dichiara che «il vero senso del film è spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età», allora l’opera deve essere valutata secondo criteri storiografici, oltre che cinematografici. È il caso di Romanzo di una strage, diretto da Marco Tullio Giordana. Intorno a Romanzo di una strage, al libro Il segreto di Piazza Fontana del giornalista Cucchiarelli da cui il film è stato «liberamente tratto» e ai temi ivi trattati si è aperto un ampio dibattito. Al film e al libro –tra i quali esistono differenze, ma secondarie rispetto alle analogie – i commentatori hanno mosso numerosi rilievi. La peculiare tesi di Cucchiarelli prima e di Giordana poi è che le bombe di Piazza Fontana fossero non una ma due; la prima di bassa potenza, simbolica o quasi, piazzata da qualcuno (Valpreda secondo il libro, manovalanza fascista secondo il film) il quale ignorava che altri avrebbero affiancato alla sua un secondo ordigno destinato invece a fare una strage. Il segreto cui allude il titolo del libro di Cucchiarelli e che viene rappresentato nel film di Giordana è un presunto patto tra Moro e l’allora Capo dello Stato Saragat stretto il 23 dicembre 1969, e da allora sempre rispettato da apparati pubblici e forze politiche sia di maggioranza, sia di opposizione, che avrebbe impegnato l’esponente Dc a occultare la verità in cambio della dismissione di qualsivoglia tentazione eversiva da parte del Quirinale. Come ha osservato Stajano, Giordana «ha imboccato la via del realismo nutrita di finzione», commettendo così un errore «in cui non sono caduti né Francesco Rosi né Gillo Pontecorvo». Rosi, a proposito di Romanzo di una strage, ha dichiarato che «quando si trattano avvenimenti che riguardano la nostra vita pubblica, l’unica cosa che bisogna tener presente è la verità giudiziaria, bisogna procedere senza mai perderla di vista». Viceversa, Giordana si è discostato spesso e volentieri dalle sentenze e ha eletto quale suo principale riferimento un libro che dagli esperti aveva ricevuto molte più stroncature che consensi. Il dissenso rispetto ai giudicati penali è un diritto, ma andava esplicitato ed evidenziato, altrimenti lo spettatore poco informato è indotto a credere erroneamente che la ricostruzione cinematografica sia in linea con le ricostruzioni giudiziarie. In mezzo alle tante scene sufficientemente corrispondenti a episodi documentati ce ne sono altre, formalmente indistinguibili dalle prime, inventate di sana pianta o che deformano la realtà storica introducendovi elementi spuri. Le falsità prodotte dall’intreccio tra storia e fiction talvolta sono di poco conto, talaltra no. Ad esempio, che Junio Valerio Borghese abbia telefonato irato a non si sa chi, lamentando che l’attentato non avesse provocato la proclamazione dello stato di emergenza, è un’invenzione cinematografica la quale suggerisce un’ipotesi sul movente e sugli autori della strage mentre Borghese, che fu alla testa del colpo di Stato abortito tra il 7 e l’8 dicembre 1970, è invece estraneo al massacro di Piazza Fontana. Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale, fu accusato di essere il mandante della strage ma fu assolto con formula piena, dunque non si spiega la sua ricorrente presenza nel film. Sono fantasie i colloqui tra Moro e un ufficiale dei Carabinieri il quale il 20 dicembre gli avrebbe promesso un rapporto contenente la verità sulla strage, che l’uomo politico avrebbe portato tre giorni dopo a Saragat – in un incontro altrettanto privo di riscontri – e sarebbe stato da loro insabbiato di comune accordo. Il deus ex machina che nel film informa Moro poteva avere smascherato Freda e Ventura entro il 20 (o 23) dicembre 1969? No. La pista Freda-Ventura fu originata dalla testimonianza di Lorenzon, verbalizzata il 15 gennaio 1970, e decollò soltanto dopo il fortuito ritrovamento di armi a Castelfranco Veneto di fine 1971, che diede i primi sostanziosi riscontri alle dichiarazioni del titubante teste. Moro, nel memoriale vergato durante il sequestro di cui fu vittima, disse anzi di non essere «depositario di segreti di rilievo» in materia di stragi: «quanto a responsabilità di personalità politiche per i fatti della strategia della tensione non ho seriamente alcun indizio. Posso credere più a casi di omissione per incapacità e non perspicace valutazione». Per di più, un incontro tra lui e Saragat il 23 dicembre avrebbe potuto decidere ben poco, sia perché Moro all’epoca era in minoranza nella Dc, sia perché già il 15 i partiti di centro-sinistra avevano risposto politicamente all’attentato rafforzando i legami di coalizione e impegnandosi a formare un nuovo governo. L’immagine dell’antifascista Saragat alleato con i fascisti stragisti è una tragicomica montatura. Sul piano metodologico, fonti anonime non vanno bene né nei tribunali, né nei libri di storia. Di conseguenza, è squalificato il contributo proveniente da un fascista ignoto (inesistente?) cui si richiama Cucchiarelli. Il principio vale anche per il volume Il segreto della Repubblica da cui ad ottobre 1978 partì l’idea – recepita da Giordana – che l’inchiesta su Piazza Fontana fu depistata dal patto tra Moro e Saragat di cui sopra. Infatti, Il segreto della Repubblica si basa su confidenze che sarebbero state fatte a Fulvio e Gianfranco Bellini da un fantomatico “conoscente inglese” di cui Fulvio, interrogato dal giudice Salvini, ha sostenuto di non avere mai saputo né nome né cognome. L’ipotesi della doppia bomba, la quale, per coerenza, richiede pure due attentatori, due taxi che li accompagnarono sul luogo, due cordate di mandanti, due scopi – in pratica, «doppio tutto» – fu criticata già nel 2009 da Giannuli e altri. Nel 2012 fu la volta di Boatti, che tuonò contro il «delirio di sdoppiamento» prolifico di «soggetti che si moltiplicano con geometrica espansione», e di Sofri che attaccò il «Raddoppio Universale» con una serie di contestazioni. Da ultimo, la Procura di Milano sancì «l’assoluta inverosimiglianza» della teoria della doppia bomba. Romanzo di una strage e Il segreto di Piazza Fontana sfiorano anche altre drammatiche vicende degli anni 70, prospettandole in modi assai discutibili. Qui non si può rettificare tutto quel che si dovrebbe, ma almeno un paio di cose sì. La prima riguarda Feltrinelli, che morì accidentalmente mentre manipolava esplosivo. Nel film, mediante la trovata di una telefonata, si insinua un’immotivata incertezza sull’episodio. La seconda concerne l’omicidio del commissario Calabresi, delitto per il quale furono condannati alcuni esponenti di Lotta Continua. Il film dà pochissimo spazio alla lunga campagna diffamatoria contro Calabresi svolta da Lotta Continua e molto invece a un’indagine su un traffico di armi e di esplosivi e ad un immaginario colloquio tra lui e il prefetto D’Amato, inducendo a sospettare un nesso causale con il delitto. Non ci si inganni (…) il colloquio Calabresi-D’Amato alla vigilia della morte del primo è doppiamente falso; perché non si verificò, e perché a D’Amato si attribuiscono frasi che in parte sono di Taviani, in altra parte riflettono le opinioni di Cucchiarelli e sono agli antipodi di quel che D’Amato abbia mai detto. L’Italia superò la prova del terrorismo (…) spacciarla per una Repubblica fondata sul fango è ingiusto, prima ancora che oltraggioso nei confronti della Repubblica stessa, degli uomini che furono in prima fila a difenderla e del popolo intero che, ribadendo fedeltà alle istituzioni e voltando le spalle agli eversori, creò il fondamentale presupposto affinché le minacce fossero sventate. Hanno invitato, inascoltati, «con urgenza il potere giudiziario» a «una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione». La questione è la solita: come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle? In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Lava Jato sono le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, escono dal carcere appena indicano il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi esce e di chi entra dalla cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione, sembra fondato. Nel bel mezzo della guerra in corso, anche dentro l’avvocatura brasiliana si è scatenata più di una battaglia. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata, spuntano come funghi avvocati che si stanno specializzando nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora. Benefici che, a volte, somigliano a un regalo. Prendiamo il caso di Joesley Batista, il proprietario della principale azienda mondiale per l’esportazione di carne, la Jbs. Incastrato da intercettazioni pesanti, Batista ha confessato e descritto il giro vorticoso di tangenti che gli ha consentito, tra l’altro, di evadere tutte le tasse sull’export. Il contratto di delazione premiata da lui firmato gli ha permesso di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni – destra, sinistra, centro, più alcuni giudici – pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti, e di scampare illeso dal processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. Ha confessato crimini clamorosi ed è improcessabile. La notizia non è stata presentata come scandalosa e non ha fatto scandalo. Il biglietto da pagare per lo show.
Brano tratto da “La strage di piazza Fontana tra storia e fiction” in “Nuova storia contemporanea” (numero 3/2012)
Strage piazza Fontana: 50 anni tra depistaggi, innocenti puniti e terroristi fascisti liberi. Il 12 dicembre del 1969 una bomba neofascista uccideva 17 persone a Milano. I responsabili, protetti da settori dello Stato, l'hanno fatta franca. Paolo Biondani su L'Espresso il 10 dicembre 2019. Una chiesa ottagonale, molto bella, al margine del parco di una storica villa veneta, accanto all’antica via Postumia. Il muro di cinta della proprietà, in pietre chiare contornate da strisce di mattoni, prosegue lungo una stradina laterale, per circa 200 metri. Alla fine c’è un casolare bianco, con la facciata esterna senza finestre. Il terrorismo politico in Italia è nato qui. Le bombe nere che nel 1969 hanno per la prima volta insanguinato la nostra democrazia sono state fabbricate in questo piccolo rustico alla periferia del comune di Paese, fra Treviso e Castelfranco Veneto. Dove oggi i vicini sono increduli, ignari di questo pezzo di verità ormai accertata da definitive sentenze giudiziarie. Gli stessi proprietari hanno scoperto solo con le ultime inchieste di aver ospitato, nel casolare dietro la loro villa, il covo segreto dei terroristi neri. Dalla strage di piazza Fontana sono passati 50 anni. Mezzo secolo di giustizia negata, depistaggi dei servizi, innocenti perseguitati, processi scippati, colpevoli impuniti. Il 12 dicembre 1969 una bomba in una banca di Milano uccide 17 innocenti e fa precipitare l’Italia nel terrorismo. Prima di spegnersi il giudice Gerardo D’Ambrosio spiegò così, all’Espresso, quella “strategia delle tensione”: «Alla fine degli anni ’60 alcuni settori dello Stato, e mi riferisco al servizi segreti, al Sid, ai vertici militari e ad alcune forze politiche, pianificarono l’uso di giovani terroristi di estrema destra per fermare l’avanzata elettorale della sinistra, che allora sembrava inarrestabile. Le bombe servivano a spaventare i moderati e l’effetto politico veniva amplificato infiltrando e accusando falsamente i gruppi di estrema sinistra». Prima e subito dopo la strage di piazza Fontana, gli apparati di Stato rafforzano la strategia arrestando decine di anarchici, poi tutti assolti. Il loro ipotetico arsenale, localizzato (da un infiltrato neofascista) a Roma sulla via Tiburtina, si rivela solo una buca vuota. Agli anarchici milanesi non viene trovato neanche un petardo, neanche una fionda. Solo quando i giudici di Treviso e Milano incriminano i neofascisti veneti, arrivano le prime prove vere, con i riscontri più pesanti: gli arsenali di armi ed esplosivi. Già nel primo, storico processo di Catanzaro, il neonazista mai pentito Franco Giorgio Freda e il suo complice Giovanni Ventura, morto in libertà dopo la fuga in Argentina, vengono condannati in tutti i gradi di giudizio per ben 17 attentati del fatale 1969. Bombe all’università di Padova (15 aprile), alla fiera e alla stazione di Milano (25 aprile, 10 feriti). Bombe nei tribunali di Torino, Roma e Milano (12 maggio e 24 luglio). Bombe su dieci treni delle vacanze (notte tra l’8 e 9 agosto 1969, venti feriti). Per l’eccidio di piazza Fontana, entrambi vengono assolti in appello, per insufficienza di prove. E abbondanza di depistaggi, che costano una condanna definitiva per favoreggiamento a due ufficiali (piduisti) del Sid. Anche le tante indagini successive si chiudono senza alcuna condanna, però alla fine convincono tutti i giudici, compresa la Cassazione, che Freda e Ventura erano colpevoli anche della strage di Milano, ma non sono più punibili perché ormai assolti. Nell’ultimo processo, concluso nel 2006, l’imputato più importante, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi, segue la stessa sorte: condanna all’ergastolo in primo grado, assoluzione in appello e Cassazione, motivata dall’insufficienza dei riscontri alle accuse del pentito Carlo Digilio. «L’incoerenza più grave», per i giudici innocentisti, era proprio «il mancato ritrovamento del casolare di Paese»: la fabbrica delle bombe di Freda e Ventura. La caccia al covo nero riparte con l’ultima indagine sulla strage di Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) e sembra la trama di un giallo. L’unico indizio sono i ricordi del pentito. La chiesa sulla strada. Il muro in pietra. Il casolare senza finestre. Un rustico sullo sfondo, tra i campi. I primi inquirenti erano partiti dalla chiesa principale, nel centro di Paese, senza trovare nulla. A fare centro è un tenace ispettore capo della polizia, Michele Cacioppo: la chiesa descritta da Digilio è la cappella privata di villa Onesti-Bon. All’epoca la proprietà era gestita da Sergio Bon, morto nel 2004, che aveva affittato quel casolare retrostante proprio a Giovanni Ventura. Il terrorista, sulla sua agenda del 1969, aveva annotato “Digilio” e “Paese” accanto al nome di un avvocato di Treviso, Giuseppe Sbaiz. Sentito dal poliziotto, il legale chiude il cerchio: «Sergio Bon mi aveva incaricato di sfrattare Ventura, perché aveva visto che nascondeva armi nel casolare». Anche gli eredi di Bon confermano l’affitto all’editore trevigiano complice del padovano Freda. Oggi il luogo è irriconoscibile. Il casolare è stato ristrutturato, ampliato e diviso in tre abitazioni. Ed è circondato da villette e palazzine. Una vicina con i capelli bianchi conferma però che «qui, 50 anni fa, era tutta campagna: c’era solo quel casolare». E dietro il parco c’è ancora il vecchio rustico che vedeva Digilio, ora nascosto da un labirinto di case. Digilio, secondo le sentenze definitive, è un pentito a metà, che ha cercato di minimizzare le sue responsabilità nelle stragi. Felice Casson fu il primo magistrato a farlo condannare come terrorista e armiere di Ordine Nuovo, subordinato proprio a Maggi. Indagato a Milano, solo nel 1998 Digilio ammette di aver aiutato Freda e Ventura a fabbricare ordigni esplosivi. E confessa, in particolare, di aver preparato le bombe sui treni dell’agosto 1969 proprio nel casolare di Paese. Ventura replica di non averlo mai conosciuto: «Il nome di Carlo Digilio non mi dice assolutamente nulla». Invece lo ha anche pagato, perfino il giorno prima delle bombe sui treni, come dimostra una serie di assegni recuperati dall’ispettore Cacioppo, ne pubblichiamo uno in questa pagina. Il casolare di Paese diventa così un nuovo prezioso riscontro alle dichiarazioni di Digilio, che nel 2017 portano alla condanna definitiva di Maggi per la strage di Brescia. La sentenza riguarda anche piazza Fontana e conclude che, dal 1969 al 1974, le stragi hanno lo stesso marchio: Ordine nuovo. Ma se il terrorismo rosso era contro lo Stato, all’epoca gli stragisti neri erano dentro lo Stato. E sono stati protetti per anni da diversi apparati, scatenati sulla falsa pista anarchica di Valpreda e Pinelli, l’innocente precipitato da una finestra della questura. Mentre gli arsenali neri venivano nascosti. Il primo si scopre subito dopo la strage di piazza Fontana. Il 13 dicembre Ventura si tradisce con un amico che vorrebbe reclutare, Guido Lorenzon: gli confida che la bomba di Milano non ha provocato l’atteso golpe, per cui lui e Freda programmano altri attentati sanguinari. Spaventato, Lorenzon ne parla a un avvocato che lo porta dal giudice Giancarlo Stiz, il primo a indagare sui terroristi neri. Il 20 dicembre 1969 viene perquisita la casa di Ventura a Castelfranco Veneto, dove spuntano «un fucile, una bomba a mano e un pugnale della milizia, mai denunciati». Lui nega tutto: mai fatto attentati o violenze, il “fucile da caccia” era del padre, la “granata” sarebbe «un cimelio di guerra custodito come oggetto ornamentale». Nella stessa casa, alla periferia di Castelfranco, vive ancora la sorella, Mariangela Ventura. È identica a lui. E non sente alcun bisogno di nascondersi: il cognome è sul campanello. «Non sarà mica qui per l’anniversario di piazza Fontana?». Indovinato. «Mio fratello è morto. Piazza Fontana è stata una tragedia, durata trent’anni, anche per la mia famiglia». Si figuri per le vittime. «Ora basta. Arrivederci». Peccato. La sorella fu una testimone seria: fu lei a consegnare ai magistrati la famosa chiave del Sid, che apriva tutte le porte del carcere di Monza, per far evadere Ventura nel 1973, quando era crollato confessando a D’Ambrosio tutti gli attentati del 1969, tranne la strage. E l’arsenale di Paese? Dopo la prima perquisizione a casa, Ventura e Freda imboscano le armi e gli esplosivi. E avvertono subito i capi di Ordine Nuovo: non solo Maggi, ma anche Pino Rauti, il leader nazionale, arrestato per pochi giorni e poi prosciolto, quindi eletto parlamentare del Msi. Il casolare di Paese torna ai proprietari. E le indagini deviate dai servizi puntano sempre sulla pista anarchica. Che frana per caso, il 5 novembre 1971, quando si scopre un grosso arsenale nero in una soffitta di Castelfranco: cinque mitra, otto pistole, oltre mille cartucce, 27 caricatori, quattro silenziatori e una bandiera nera con il fascio littorio. Qui, in piazza Giorgione 48, in un palazzo d’epoca di fronte al castello, vive ancora un signore di 78 anni che ha assistito a quella svolta: «Un vicino stava ristrutturando la casa. Un muratore ha aperto un foro nella soffitta comune, per controllare la canna fumaria, e ha trovato i due borsoni con quell’arsenale». Il giorno stesso il custode delle armi confessa che appartengono a Giovanni Ventura, che le ha fatte portare lì, nel 1970, dal fratello Angelo e da un suo dipendente, Franco Comacchio. Che conferma: erano di Freda e Ventura, era un arsenale di una loro «organizzazione segreta», eversiva, che collocava anche «ordigni esplosivi sui treni». Comacchio e la sua convivente aggiungono che prima, «nella primavera 1970», l’arsenale fu portato a casa loro «in una cassa»: tra le armi, videro anche «candelotti di esplosivo». Impauriti, li nascosero alle pendici del Monte Grappa, «in una fenditura tra le rocce». Nel punto indicato, la sera del 7 novembre, i carabinieri trovano «35 cartucce di esplosivo: 20 di colore marrone, 15 blu scuro». Il perito di turno ne accerta «l’avanzata decomposizione e l’estrema pericolosità», ordinandone «la rapida distruzione, senza poter prelevare campioni». Impossibile, dunque, fare confronti con la bomba di piazza Fontana, che secondo l’intero collegio dei periti era composta proprio da due tipi di esplosivo: «dinamite-gelatina da mina», contenuta in «cartucce», e «binitro-toluolo», un’altra sostanza «di frequente uso militare». Non a caso, la chiamavano strage di Stato. Oggi, nel bar al centro della piazza, di fianco al palazzo che custodiva l’arsenale, sono seduti otto universitari, tutti di Castelfranco. Due ammettono, imbarazzati, di sapere «poco o niente» di piazza Fontana. Gli altri sei conoscono la matrice politica: «Terroristi neri, destra». Solo un ragazzo con la barba sa che fu arrestato «anche uno di Castelfranco, Ventura». Ma «neofascisti o brigatisti» gli sembrano «una storia superata»: «Il terrorismo, nero o rosso, appartiene al passato, il nostro è un mondo diverso». Speriamo.
“LA GUERRA TRA PROCURE CI HA IMPEDITO DI FARE GIUSTIZIA”. Dagospia il 12 dicembre 2019. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista rilasciata dal giudice Guido Salvini a Panorama Storia, lo speciale in edicola dedicato alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario. Quel giorno alle 16.37 una bomba, nascosta in una valigetta con sette chili di tritolo e un timer, esplose scavando una buca profonda nel pavimento della filiale della Banca nazionale dell’agricoltura, a pochi passi dal Duomo di Milano. I morti furono 17, 84 i feriti. Da quel giorno l’Italia entrò nella cupa stagione del Terrore. Il giudice Salvini, che riuscì a individuare il filo che legava tutti gli attentati del sanguinoso quinquennio 1969- 1974, torna sui depistaggi e sulle gelosie tra Procure che ostacolarono le indagini. Estratto dell’articolo di Maurizio Tortorella per “Panorama”, pubblicato da “la Verità”. Per un quarto di secolo ha condotto indagini sul terrorismo rosso e nero. Alla fine degli anni Ottanta, da giudice istruttore, è stato lui a riaprire l' inchiesta su Piazza Fontana. E nonostante l' assoluzione degli imputati indicati come autori materiali della strage, è sempre grazie a lui se la responsabilità dell' attentato del 12 dicembre 1969 è stata attribuita al gruppo neonazista Ordine nuovo. Guido Salvini, 65 anni, è il magistrato italiano che ha trovato il filo della «strategia della tensione», il sanguinoso quinquennio tra il 1969 e il 1974 che vede l' Italia colpita da cinque stragi, mentre un' altra mezza dozzina fallisce solo per caso. A lui Panorama ha chiesto di raccontare quale sia la sua visione di quegli orribili anni di sangue. Partendo proprio da quella strage su cui - nel cinquantenario - è in libreria il suo La maledizione di Piazza Fontana (Chiarelettere).
Dottor Salvini, in che atmosfera avviene la strage del 12 dicembre 1969?
«Al governo c' è un debole monocolore Dc, guidato da Mariano Rumor. Il clima sociale è incandescente. Il rinnovo dei contratti mobilita centinaia di migliaia di operai. Anche in Italia, con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese, inizia la dura protesta studentesca. E in Parlamento si avviano riforme importanti: lo Statuto dei lavoratori, le Regioni, la legge sul divorzio...».
E a livello internazionale?
«Richard Nixon è il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, lancia la famosa "dottrina" in base alla quale i governi italiani e i partiti di centro devono respingere ogni intesa con i comunisti e con la sinistra socialista. Il 27 febbraio 1969, mentre Roma s' incendia per la protesta studentesca, Nixon incontra al Quirinale il presidente Giuseppe Saragat. Si è da poco consumata la scissione del Psi e attorno al Psdi, di cui Saragat è il leader, si radunano le correnti più contrarie al proseguimento del centrosinistra».
Che cosa si dicono, i due?
«Secondo un dossier negli archivi di Washington desecretato pochi anni fa, Saragat e Nixon concordano sul "pericolo comunista". Il nostro presidente afferma che agli occhi degli italiani il Pci si fa passare per un "partito rispettabile", ma in realtà è dedito agli interessi del Cremlino».
Questa è verità storica: il Pci ha continuato a incassare i dollari dei sovietici fino alla fine degli anni Ottanta. Ma come si arriva a Piazza Fontana?
«Sì, quella era la guerra fredda, l' epoca della contrapposizione tra due blocchi: ora ci sembra tanto lontana che si stenta a ricordarla. In un simile quadro, quella del 1969 è stata una lunga campagna stragista. La bomba del 12 dicembre è preceduta da una sequenza di 17 attentati: colpiscono tribunali, università, uffici pubblici e la Fiera di Milano».
E qual è l' obiettivo di questa campagna?
«Vincenzo Vinciguerra, esponente di Ordine nuovo, ha spiegato in sede giudiziaria che tutto puntava a un' adunata indetta dai neofascisti del Msi per domenica 14 dicembre, a Roma, enfaticamente propagandata come "appuntamento con la nazione". Vinciguerra rivela soprattutto che la scelta della data era collegata a ciò che i "livelli più alti" sapevano sarebbe avvenuto due giorni prima».
Cioè la bomba alla Banca nazionale dell' agricoltura «Esattamente».E nei piani che cosa sarebbe dovuto accadere?
«Quarantott' ore dopo la strage, un tempo perfetto per far montare al massimo la tensione, Roma sarebbe stata piena di militanti di destra pronti allo scontro, che invocavano interventi contro la sovversione. Sarebbe bastata una scintilla per scatenare incidenti incontrollabili: assalti alle sedi dei partiti di sinistra, con l' inevitabile reazione da parte dei loro militanti, e quindi scontri con la polizia, magari con morti tra le forze dell' ordine».
Lo scopo?
«Rendere inevitabile la dichiarazione dello "stato di emergenza": era quello il vero obiettivo della strage».
E che cosa blocca il piano?
«Il 13 dicembre, quando Vinciguerra con gli ordinovisti arrivati da ogni parte d' Italia è già a Roma, il ministro dell' Interno, Franco Restivo, vieta la manifestazione e cade il tentativo di far precipitare la situazione. E la determinazione e la compostezza con cui la borghesia e gli operai milanesi presenziano ai funerali delle vittime fanno definitivamente fallire il piano». [...]
Come mai è stato tanto difficile indagare su queste stragi, e perché la verità giudiziaria in molti casi resta incompleta?
«Ci sono tanti motivi. Il primo è il muro che, almeno sino alla fine degli anni Ottanta, è stato opposto alle indagini dell' autorità giudiziaria dai servizi di sicurezza e da una parte dei vertici degli organi investigativi, polizia e carabinieri. Ostruzionismo e depistaggi sistematici». [...]
Ma c' è altro: ostracismi e guerre tra Procure. Lei ne sa qualcosa, no?
«Di certo, tra i magistrati che negli anni Novanta indagavano sui vari episodi di strage, ci sono state gelosie e invidie: in certi casi sono andate ben oltre la semplice mancanza di collaborazione».
Immagino lei si riferisca al pm veneziano Felice Casson. Come scoppiò il conflitto tra di voi?
«La Procura di Venezia non aveva gradito che le nuove indagini milanesi, nei primi anni Novanta, non confermassero il presunto coinvolgimento di Gladio nelle stragi: una tesi sostenuta con enfasi, anche se più in forma mediatica che giudiziaria. Il pm Casson non aveva apprezzato nemmeno che le nostre indagini avessero fatto breccia proprio sull' ambiente ordinovista di Venezia e Mestre, che la sua Procura aveva indagato negli anni precedenti, ma con risultati molto inferiori».
Il risultato è stato devastante: una delle prime guerre tra Procure.
«Nel 1995 accadde qualcosa che oggi può apparire incredibile, eppure è successo così come lo racconto. Casson coltivò i contenuti di un esposto contro gli investigatori milanesi, ispirato e pagato dal latitante Delfo Zorzi e presentato dal capo ordinovista Carlo Maria Maggi, tra gli indagati per la strage di Piazza Fontana».
Cosa capitò, a quel punto?
«Il risultato fu l' incriminazione mia e dei carabinieri che lavoravano con me sul fronte dell' eversione nera, da parte dello stesso Casson. Seguì una serie di segnalazioni disciplinari al Csm, tutte rivelatesi false e infondate. Ci fu addirittura il tentativo di farmi trasferire d' ufficio da Milano, un tentativo in cui si distinse la Procura di Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D' Ambrosio cui, dopo non aver fatto nulla sulla strage di Piazza Fontana, per anni, non dispiaceva appropriarsi dei miei atti e dei miei interrogatori».
Accuse forti. Quale risultato ebbero, queste iniziative?
«Il risultato fu la delegittimazione dell' istruttoria milanese agli occhi di testimoni e indagati, e il rallentamento della nostra indagine sulla strage. L' esito fu una ciambella di salvataggio per gli ordinovisti imputati a Milano. Maggi per Piazza Fontana è stato assolto». [...]
Per finire, ci sono altri episodi tragici di quegli anni di cui non si sa ancora tutto: per esempio l' omicidio del commissario Calabresi, che è collegato alla morte di Pinelli e quindi alla strage di Piazza Fontana.
«Per quell' omicidio c' è una sentenza definitiva nei confronti degli esponenti di Lotta continua che nel 1972 organizzò l' agguato, e su questo non ci sono dubbi. Ma ancora, a causa del silenzio dei suoi capi, non sappiamo molte cose. Non si conosce, se non in parte, come l' omicidio fu deciso e nemmeno tutta la fase esecutiva».
Il figlio di Luigi Calabresi, Mario, si è incontrato di recente con Giorgio Pietrostefani. Che cosa ne ha pensato?
«Pietrostefani, latitante da molti anni, era il capo militare di Lotta continua. Lui certamente sa tutto: sa com' è stata presa quella decisione. È gravemente malato e certo non mi auguro il carcere per lui. Ma credo abbia il dovere morale di raccontare, anche senza far nomi, che cosa è successo: come maturò quell' omicidio commesso in nome di tanti giovani che, ottenebrati da un clima di violenza, nelle strade inneggiavano alla morte di Calabresi. Non sappiamo che cosa il figlio del commissario ucciso e l' ex dirigente di Lotta continua si siano detti quel giorno. Aspettiamo».
Quella sera in piazza Fontana. Il 12 dicembre 1969 scoppia in piazza Fontana a Milano la bomba che uccide 17 persone e dà il via alla strategia della tensione: ecco il racconto che ne fece, a distanza di 40 anni, Giorgio Bocca. La Repubblica l'11 dicembre 2019. Nel 50esimo anniversario della strage di Piazza Fontana pubblichiamo un articolo scritto da Giorgio Bocca sulle pagine di Repubblica l'11 dicembre del 2009, per ricordare le vittime della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano 40 anni dopo la bomba che ha cambiato la storia d'Italia. Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza. Ma il mio studio stava nell'interno e non avevo sentito il fragore dell'esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: "Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale". C'erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c'era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle. A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo. Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. "Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?". A bruciapelo risposi: "I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti". "Tu dici?", fece Pietra che conosceva l' arte dell' understatement, e aggiunse: "Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici". Era cominciata l'umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell'eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall'arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura. Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della Prima Repubblica, finita l'unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell'impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l'ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni. La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l'inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l'impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell'impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina. Cosa c'era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l'ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l'ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell'utopia socialista, delle richieste dell'impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie. Di certo c' è solo che quella febbre c' era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L'unica spiegazione non spiegazione, l'unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l'ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: "Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C'è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica". Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: "Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l'uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati". Ma c'era un'utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c'era l'utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, "spostare a destra il governo della repubblica italiana". Anche nell'estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l'avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l'opposizione operaia era debole o inesistente.
Pino Nicotri su blitzquotidiano.it il 13 dicembre 2019. In occasione del 50esimo anniversario della strage milanese di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e delle bombe fatte esplodere in contemporanea anche a Roma sono stati pubblicati libri e inchieste giornalistiche riassuntive riguardanti sia la strage e le altre bombe di quel giorno sia il contorno che le aveva precedute nel corso dell’anno. Con l’occasione, ho deciso di ripubblicare il libro Il Silenzio di Stato che ho scritto nel ’72 e che condusse i magistrati a scoprire finalmente che la verità era a Padova. Per essere reperibile in tempo per il 12 dicembre il libro Silenzio di Stato l’ho pubblicato con Il Mio Libro, di Kataweb, con una nuova copertina che ricalca quella originale. La riedizione l’ho arricchita con una sostanziosa e DOCUMENTATA introduzione, che spiega meglio varie cose alla luce di quanto avvenuto dal ’72 ad oggi. Nei vari libri in uscita in occasione del 50esimo quell’episodio cruciale è citato solo dal magistrato Guido Salvini, nel suo libro recentissimo intitolato La maledizione di Piazza Fontana: l’unico che ha fatto rilevare un particolare tanto strano quanto grave, del quale parleremo tra poco. Vediamo cosa è successo a suo tempo. Intanto notiamo che le bombe erano contenute tutte in borse di similpelle della ditta tedesca Mosbach&Gruber, particolare accertato grazie al fatto che un ordigno, quello piazzato nella filiale della Banca Commerciale (Comit) in piazza della Scala a Milano, non era esploso ed era stato ritrovato pertanto intatto, alle 16:25, compresa la borsa che lo conteneva. Borsa che risulterà identica a quelle contenenti gli altri ordigni, tutte caratterizzate dalla chiusura laterale metallica di colore giallo recante impresso il disegno del profilo di un gallo: il logo della ditta tedesca Mosbach&Gruber. La borsa conteneva una cassetta metallica marca Juwel, che a sua volta conteneva l’esplosivo fortunatamente non esploso. Pochi minuti dopo tale rinvenimento in piazza della Scala un altro ordigno composto da circa sette chili di esplosivo saltava in aria, alle 16:37, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La più grave strage italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dai reperti rinvenuti sul luogo della strage di Milano i periti hanno potuto stabilire che la bomba era contenuta in una cassetta metallica marca Juwel nascosta in una borsa di similpelle marca Mosbach&Gruber. Gli inquirenti e quindi i giornali e la Rai, all’epoca le radio e le tv private non esistevano ancora, sostennero immediatamente e in coro compatto che quel tipo di borse erano in vendita solo in Germania e che in Italia non se ne trovavano. Un modo per insinuare che gli anarchici subito accusati della strage non fossero un gruppo di balordi milanesi e romani, ma avessero invece ramificazioni e rapporti con altri Paesi, quanto meno con anarchici e terroristi tedeschi. Una versione pubblica durata ben 33 mesi, vale a dire poco meno di tre anni. La strage era avvenuta nel pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969. Ma solo dopo il 10 settembre del 1972, cioè dopo ben tre anni meno tre mesi, si scoprirà che la vulgata delle Mosbach&Gruber inesistenti in Italia era assolutamente e sfacciatamente falsa. E che erano sicuramente in vendita in almeno due negozi della città di Padova. Uno dei negozi padovani aveva venduto a un unico acquirente proprio quattro borse di quel tipo due giorni prima della strage. E la commessa che le aveva vendute, signora Loretta Galeazzo, era corsa a dirlo in questura non appena aveva appreso dalla Rai e dai giornali i particolari del ritrovamento nella filiale della Banca Commerciale. A riconoscere Freda era stata anche la collega della Galeazzo in valigeria, che aveva chiacchierato con l’acquirente mentre un commesso andava a prendere dal deposito le altre tre borse. E quando a Padova hanno arrestato per istigazione dei militari all’eversione Giorgio Franco Freda, neonazista di Ordine Nuovo, la stessa commessa è corsa di nuovo in questura per dire che dalle immagini in televisione e sui giornali locali aveva riconosciuto in Freda la persona che aveva comprato le borse. Due testimonianze che avrebbero potuto far arrestare gli autori della strage nel giro di pochi giorni. E che invece sono sparite…Questa assurda negligenza del mondo dell’informazione giornalistica è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di diventare giornalista. Ero uno studente di Fisica, fuoricorso perché per studiare e campare facevo vari lavori saltuari, ero il presidente dell’Assemblea d’Ateneo e abitavo dal ’65 o dal ’66 in un appartamento di cinque stanze più bagno e cucina, preso in affitto all’ultimo piano di via Oberdan 2, in pieno centro storico di Padova, affianco al famoso caffè Pedrocchi. La stanza più grande la utilizzavo come ufficio, non aperto al pubblico, dell’Italturist, l’agenzia turistica del PCI specializzata in viaggi soprattutto di gruppo nei Paesi comunisti dell’est europeo. Due stanze le avevo affittate a due studenti di Treviso: Giorgio Caniglia, che studiava Ingegneria, e Carla, che studiava Lettere. Il venerdì nel primo pomeriggio se ne tornavano entrambi a casa dei rispettivi genitori a Treviso, cosa che fecero anche quel venerdì 12 dicembre della strage, per tornare a Padova la domenica sera, cosa che fecero anche la domenica successiva alla strage, cioè il 14 dicembre sera. Sabato pomeriggio sono arrivati a casa mia i carabinieri con tre mandati di perquisizione, uno per me, uno per Giorgio e uno per Carla, assenti perché andati a casa loro a Treviso come sempre per il fine settimana. Il giorno dopo, sabato 13 dicembre, in serata sono poi arrivati come al solito anche Giorgio e Carla. Appena entrato in casa Giorgio mi ha mostrato la sua borsa di similpelle nera, quella che usava ogni giorno anche per andare a lezione e che avevo visto in varie occasioni dentro e fuori casa. Con una mano me la mise davanti agli occhi dal lato della chiusura di metallo e con l’altra mi indicò il disegno che ne caratterizzava la borchia: era il disegno di un gallo preso di profilo. Era cioè proprio il logo delle Mosbach&Gruber. Poi Giorgio mi disse: “Non capisco perché radio, televisione e giornali dicono tutti in coro che queste borse in Italia non si trovano. Io l’ho comprata qui a Padova”. Ho detto a Giorgio: “Beh, domattina va in questura, mostra la borsa e racconta dove l’hai comprata. Così, se non ti arrestano accusandoti della strage, capiscono che in Italia si vendono. E che si vendono anche a Padova, dove c’è quel gruppo di fanatici nazifascisti capitanato da Giorgio Franco Freda e Massimiliano Facchini con base alla libreria Ezzelino di via Patriarcato”. Lunedì sera Giorgio mi ha raccontato che era uscito di casa poco dopo le 10 con la sua borsa per andare a farla vedere in questura, distante più o meno 200 metri, ma dopo pochi passi aveva incontrato un poliziotto della squadra politica della questura, quello che era solito tenere d’occhio l’area del caffè Pedrocchi e del Bo, compreso il portone di casa nostra, e di avere mostrato subito a lui la borsa e il logo della Mosbach&Gruber. Ricevendone come tutta risposta un ben strano: “Ah, ma ormai non ci interessa, sappiamo già chi è il colpevole, uno di Milano”. Se il poliziotto fosse stato meno menefreghista e più professionale i colpevoli della strage e delle altre bombe del 12 dicembre, oltre che degli altri mesi dello stesso anno, potevano essere individuati nel giro di 48 ore. Ripeto: a quell’epoca ero studente universitario e il giornalismo non sapevo neppure cosa fosse. Inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare a quell’epoca obbligatorio, era detto “nàia”, motivo per cui temevo che se avessi reso pubblico a gran voce, magari con una apposita assemblea d’Ateneo, lo scandaloso falso delle borse tedesche introvabili in Italia e annesso menefreghismo del commissario della squadra politica, sarebbe potuto capitarmi per vendetta di un qualche apparato statale qualcosa di grave durante la nàia. Decisi così di restare zitto, aspettare di fare il servizio militare, che all’epoca durava 18 mesi, e di scrivere solo in seguito un libro per raccontare come a Padova Freda e i suoi erano stati protetti sistematicamente da organi dello Stato, fino all’iperbole del falso sulle borse introvabili in Italia e del rifiuto del funzionario della squadra politica di prendere in considerazione quanto gli aveva detto e mostrato il mio amico e inquilino Giorgio. Il libro volevo intitolarlo significativamente Il Silenzio di Stato. E poiché ero ben lontano dal pensare di poter fare il giornalista decisi di non firmarlo col mio nome, ma come Comitato di Documentazione Antifascista di Padova, che in realtà ero pur sempre io. Col mio nome mi sarei limitato a formare la poesia che avevo composto per dedicare il libro a quattro miei amici. E in effetti, finito il servizio militare, iniziato a metà del ’70 e concluso verso la fine del ’71, mi sono messo all’opera raccogliendo anche materiali d’archivio della stampa locale riguardanti i rapporti Freda/magistratura/polizia/carabinieri, uno strano suicidio probabile omicidio, altri attentati nel corso del ’69 e molto altro ancora. Ad agosto del’72, ormai ben documentato e pronto a scrivere, mi sono ritirato nella isolatissima casa di montagna dei miei suoceri vicino a Gallio, poco più di mille metri di altezza sull’altipiano di Asiago. Tramite la moglie di un giovane docente universitario, andata per qualche giorno da amici a Roma, la notizia che stavo preparando un libro sulle bombe del 12 dicembre ’69 è arrivata alle orecchie di Mario Scialoja, giornalista del settimanale L’Espresso, già molto famoso. Stavo lavorando nel silenzio più assoluto al terzo piano della casa, un pezzo di casera di montanari in un posto isolato, quando verso le 11 ho sentito arrivare dall’ingresso e cucina al pian terreno un baccano di porte aperte e richiuse con forza e sedie spostate senza tanti complimenti. Mi sono affacciato piuttosto allarmato alla tromba delle scale e ho visto un signore trafelato, con barba biondastra e un grande naso rosso come un pomodoro, che guardando in alto mi gridava:
“Buongiorno! Sono il giornalista Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”.
“Buongiorno! Io sono Napoleone Bonaparte. Mi dica”.
“Ma io sono davvero Mario Scialoja!”.
“E io sono davvero Napoleone Bonaparte. Osa forse mettere in dubbio la mia parola, qui in casa mia? Guardi che la caccio via. Perché è entrato, facendo ‘sto fracasso? Cosa vuole?”.
“Cerco Pino Nicotri, che mi hanno detto sta scrivendo un libro anche con la storia delle borse delle bombe del 12 dicembre ’69, borse che a quanto pare lui sostiene si vendessero anche a Padova”.
La mia lunga amicizia fraterna con Mario e il mio inopinato ingresso nel giornalismo sono iniziati così. Sempre correndo come un pazzo e bevendosi una dozzina di tornanti in discesa come fossero tutti rettilinei, Mario mi ha portato a Treviso, dove a casa sua Giorgio mi ha venduto per 5.000 lire la borsa. E così l’ho regalata a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio, che in veste di giudice istruttore a Milano conduceva l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana senza risultati apprezzabili. Ringraziandolo calorosamente, ha ricevuto la borsa dalle mani di Mario già il mattino successivo, 2 settembre. Mario nel numero de L’Espresso datato 10 settembre ha pubblicato il grande scoop che raccontava della consegna della borsa al magistrato e di come ne avesse avuto notizia dal sottoscritto. D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69. Scoperta clamorosa, che non solo ha fatto crollare rumorosamente la pista anarchica di Valpreda&Co, ma che ha anche permesso di scoperchiare l’incredibile verminaio delle protezioni statali a favore di Freda&Co, arrivate a fare scomparire non solo le due testimonianze della commessa della valigeria Al Duomo. E io finalmente pubblicai, con Sapere Edizioni, il libro. Con il titolo che avevo in mente da tempo: Il Silenzio di Stato. Conservo ancora alcune copie del libro con la dedica di Valpreda, che venne a Padova per la presentazione del libro e che non ha mai smesso di ringraziarmi. Per risparmiare sulle tasse il libro è stato edito come numero del periodico InCo, acronimo di Informazione e Controinformazione, periodico registrato presso il tribunale di Milano, avente come editore Sapere Edizioni e come direttore responsabile un sindacalista, non ricordo se della CISL o delle ACLI. Il fatto che fosse stato pubblicato come periodico mi ha infine convinto a farmi rilasciare dal direttore responsabile la dichiarazione firmata che tutti i singoli capitoli erano miei articoli e che mi erano stati pagati. E’ stato così che quando mi sono iscritto come pubblicista all’albo dei giornalisti ho allegato anche quelli – vale a dire, tutti i capitoli de Il Silenzio di Stato – assieme ai vari articoli pubblicati su giornali veri negli ultimi 24 mesi prima della domanda di iscrizione. Ho voluto che fosse documentato in modo incontrovertibile, anche per tabulas e non solo per la firma della mia poesia di dedica ai miei amici, che quel libro era totalmente ed esclusivamente frutto del mio lavoro.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 dicembre 2019. Caro Dago, e dunque fanno cinquant’anni esatti che ci giriamo attorno a quella stramaledetta bomba di Piazza Fontana e alle sue ripercussioni sulla successiva storia italiana. E comunque bellissime le parole del sindaco Giuseppe Sala, il quale a nome dello Stato e di Milano ha chiesto perdono agli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Meritoria la decisione dell’amministrazione comunale di Milano di piantare in un parco di San Siro una quercia rossa in memoria della ”diciottesima vittima” di Piazza Fontana, ossia il ferroviere milanese Pinelli caduto innocente dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Bellissima - ai miei occhi - la foto di Licia Pinelli seduta a Palazzo Marino accanto a Gemma Calabresi, una delle donne più squisite e discrete che io abbia mai incontrato. Accanto a Gemma c’era suo figlio, Mario, l’ex direttore di “Repubblica” , il quale nel suo ultimo libro racconta di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani, il militante di Lotta continua condannato come l’organizzatore dell’agguato mortale al commissario Luigi Calabresi. Ho molto apprezzato l’eleganza di Calabresi figlio, che non ha riferito una sola virgola di quello che si sono detti. E comunque Calabresi non è la “diciannovesima” vittima di piazza Fontana, è la prima vittima di un fenomeno successivo e che in un certo modo ne discende, il terrorismo omicida nato a sinistra. Mi spiego meglio. Sono un cittadino della Repubblica che nel guardare la foto di quelle due donne -entrambe segnate dalla tragedia - che seggono accanto, non tifa per l’una o per l’altra, non ritiene più notevole il dolore dell’una o dell’altra. Di quella cui Giampaolo Pansa e altri giornalisti bussarono a casa a dirle che suo marito il ferroviere era andato giù dalla finestra, o di quella che era incinta del suo terzo figlio quando bussò alla porta suo padre e dalla sua espressione lei capì che il marito trentatreenne era stato appena assassinato sotto casa sua. Ai miei occhi non c’è nessun derby del dolore fra queste due pur differenti figure femminili. L’una e l’altra specchiano le tragedie recenti del nostro Novecento, e la tragedia di Piazza Fontana è di quelle che perdurano e fanno male nella nostra memoria. Nessun derby, all’una e all’altra i segni del mio più profondo rispetto. Non credo che sia l’atteggiamento di tanti, specie fra quelli della mia generazione. Le stimmate di 50 anni fa molti di loro le conservano intatte. Una campagna contro “il torturatore” Calabresi, una campagna durata quasi due anni e mezzo, non s’è asciugata come si asciuga l’acqua dopo una pioggia notturna. Molti di loro continuano a crederci alla balla sesquipedale che il commissario Calabresi fosse in qualche modo responsabile della morte di Pinelli. Non hanno un particolare, non hanno un elemento che giustifichi questa convinzione, solo che non demordono. E difatti nell’articolo di oggi sul “Fatto”, l’articolo che è arredato dalla foto di Licia Pinelli e di Gemma Calabresi di cui ho detto, vengono riferite le parole che la vedova Pinelli ha pronunciato ancora in questi giorni: “Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. Io non mi aspetto niente da nessuno. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”. Parole che Licia Pinelli ha tutto il diritto di pronunciare, non fosse che annullano in parte il significato di quella foto e della toccante cerimonia a Palazzo Marino. Perché lasciano intendere, senza beninteso addurre il minimo elemento concreto, che è vera quell’altra narrazione, la narrazione che in questi 50 anni ha fatto da sottofondo della memoria di tanti: che nella stanzuccia della questura Pinelli fosse stato aggredito, colpito, scaraventato giù. E dunque che una qualche ragion d’essere i due colpi sparati alla testa e alla schiena di Calabresi ce l’avessero. O no?
Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 13 dicembre 2019. Un ineccepibile Giuseppe Sala è riuscito a spezzare, quest' anno, i rituali di routine degli anniversari di piazza Fontana. Cinquant' anni dopo, ha piantato una quercia rossa in un parco di San Siro, in ricordo della diciottesima vittima della strage, il ferroviere Giuseppe Pinelli, morto cadendo da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la strage, mentre era detenuto illegalmente e accusato ingiustamente per la strage. Sala ha chiesto "scusa e perdono a Pinelli, a nome della città, per quello che è stato". Poi ieri, nella seduta straordinaria del consiglio comunale convocata in occasione del 12 dicembre, il sindaco ha ripetuto e raddoppiato: "Dobbiamo scusarci, per la persecuzione subita, con Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli", anarchici ingiustamente accusati della bomba nera scoppiata in piazza Fontana. Accanto al sindaco di Milano, c'era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha voluto partecipare alla seduta straordinaria del consiglio comunale milanese. "Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia", ha detto Mattarella. "L' attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent' anni dall' entrata in vigore della sua Costituzione. L'identità della Repubblica è segnata dai morti e dai feriti della Banca nazionale dell' agricoltura. Un attacco forsennato contro la nostra convivenza civile prima ancora che contro l' ordinamento stesso della Repubblica". La verità cercata per cinque decenni - e rimasta incompleta sul piano giudiziario - è ora scritta nella formella che il Comune ha voluto porre in piazza Fontana, insieme ad altre 17 che ricordano i nomi delle vittime della strage. Sulla prima formella è scritto: "12 dicembre 1969. Ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine nuovo". Quel che ancora manca è stato aggiunto da una signora in un foglio scritto a mano con il pennarello e appoggiato accanto alla formella: "e dallo Stato (Ufficio affari riservati)". È toccato poi al presidente della associazione delle vittime della strage, Carlo Arnoldi, ricordare che qualcosa aveva cominciato a muoversi lo scorso anno, quando il presidente della Camera Roberto Fico aveva per quattro volte chiesto scusa a nome dello Stato ai famigliari delle vittime. "Oggi lo Stato è più vicino? Sì", ha risposto Arnoldi, "con la più alta carica dello Stato che per la prima volta dopo cinquant' anni viene a Milano, ci incontra privatamente, ci invoglia ad andare avanti, e dice che effettivamente in quegli anni qualcuno dello Stato voleva portare a deviazione i processi per non arrivare alla verità". Ad ascoltare le parole di Mattarella c' era anche Licia Rognini, vedova di Pinelli, con le figlie Claudia e Silvia. Poco distante, Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi che aveva fermato Pinelli, con il figlio Mario. "Ho deciso partecipare anch' io, oggi", ha spiegato Licia Pinelli a Radio Popolare. "Quello di quest' anno è un passaggio importante, è una svolta. Ogni parola del presidente della Repubblica sarà un incentivo ad andare avanti per la democrazia. Parlare di mio marito Pino in un certo modo è anche un tassello per la democrazia. Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. È stato un bel gesto, che ci restituisce qualcosa. Io non mi aspetto niente da nessuno, quello che arriva arriva, come è avvenuto in questi cinquant' anni. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà". Mattarella, nella sala gialla di Palazzo Marino, ha incontrato e salutato Licia Pinelli e Gemma Calabresi. Poi un corteo, con i gonfaloni di Milano e di altre città e gli striscioni dei famigliari delle vittime, si è mosso da piazza della Scala per raggiungere piazza Fontana, dove sono stati ricordati i morti, alle 16.37, l'ora dell' esplosione, con un minuto di silenzio e la deposizione delle corone di fiori. Nel tardo pomeriggio c'è stato il corteo degli anarchici e dei gruppi antifascisti, da piazza Cavour fino a piazza Fontana, slogan centrale: "La strage è di Stato". In serata, un concerto dedicato alle vittime della strage e, al circolo Arci Bellezza, l'incontro-concerto "I pesci ci osservano". Il 15 dicembre ci sarà la catena umana musicale in ricordo di Pinelli dalla questura di Milano a piazza Fontana.
Piazza Fontana, quando l'Isola del Giglio si ribellò a Freda e Ventura. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Ogni anno, ogni 12 dicembre. Gabriello Galli apre la busta dove tiene i ritagli di giornale dell'epoca e ne estrae un cartoncino rosa. Tanti anni fa era quello il colore delle comunicazioni giudiziarie. Gli arrivò il 27 gennaio 1977 all'Istituto dei Salesiani di Livorno, dove studiava. «Si invita la Signoria vostra a nominare un difensore di fiducia... in quanto pendente presso questo Ufficio — era la procura di Grosseto — il procedimento penale nel quale Ella è indiziato del reato blocco del porto, commesso il 28 e 29 Agosto 1976 in Isola del Giglio». Dopo la citazione dell'articolo, del comma, del decreto legge, c'era una postilla. «Commesso in concorso con +31», che significa con altri trentuno. Erano molti di più, la mattina del 28 agosto 1976 all'ingresso del porto. Il giorno prima, la corte d’Appello di Catanzaro aveva scarcerato per decorrenza dei termini di Giovanni Ventura e Franco Freda, imputati per la strage di Piazza Fontana, disponendo per loro il soggiorno obbligato nell’Isola del Giglio. Si mobilitarono, tutti, abitanti e turisti. Tesero un cavo di acciaio che rese impossibile l'attracco alle motonavi che collegano l'isola a Porto Santo Stefano per protestare contro l'arrivo dei due neofascisti. Non riuscirono a impedirlo, dopo due traghetti rispediti al mittente le forze dell'ordine riuscirono infine a far sbarcare i due imputati. Nell'impossibilità di prendere le generalità a tutti, il mare davanti al Giglio fu per due giorni una distesa di barche e barchini, i carabinieri fecero rapporto citando solo le persone che conoscevano. «Il più vecchio era un marittimo ottantenne, che al processo costrinse il giudice a gridare, perché era quasi completamente sordo. C'erano studenti come me, commercianti, pescatori, tutti gigliesi. Sapevamo di non avere speranze, ma almeno riuscimmo a far capire cosa pensavamo, noi e l'isola, di quei due».
Il «muro» di barche contro l'approdo di Freda e Ventura. I giornali dell'epoca diedero grande risalto alla notizia dell'isola che si ribella, che solo nel 2012 tornerà sulle prime pagine, per ben altra vicenda, il naufragio della Costa Concordia, avvenuto a pochi metri e una spiaggia di distanza dal porto dove andò in scena la protesta. Poi, come spesso accade e come forse è inevitabile, se ne dimenticarono. Era una nota a margine nella storia della strage di piazza Fontana. Ma per molto tempo Gabriello Galli e gli altri trentuno furono le uniche persone condannate per fatti in qualche modo collegati alla bomba che cambiò la storia d'Italia. L'8 marzo 1978, il processo «Stato italiano contro Giovanni Andolfi +30» si concluse con una condanna a trenta giorni di reclusione per tutti. Il reato era stato derubricato, passando da blocco del porto a interruzione di pubblico servizio. L'articolo del Corriere della Sera Sarebbe rientrato nell'amnistia concessa da Sandro Pertini poco dopo la sua elezione, avvenuta il 9 maggio 1978. Ma al processo d'appello, che si svolse a Firenze il 20 novembre di quell'anno, venne di nuovo applicato il reato di blocco navale. Ai venti gigliesi condannati, altri undici andarono assolti, toccò una pena di cinque mesi e dieci giorni, con la condizionale. Il ricorso in Cassazione venne respinto per vizio di forma. Galli, che di quei trentuno fu il più giovane con i suoi 18 anni, ricorda un senso di incredulità che dura ancora oggi, che è un tranquillo pensionato, ex bancario, ex consigliere comunale. «La strage, le bugie e i depistaggi, le complicità. E alla fine gli unici o quasi a pagare siamo stati noi, un gruppo di paesani che poi furono costretti a subire per mesi la vista di Freda e Ventura in giro per le strade del Giglio. Vivevano in un residence di lusso, sempre scortati da una ottantina di carabinieri. Non abbiamo mai capito perché decisero di mandarli proprio a noi». Le ragioni per cui nel processo d'appello ci furono dieci assoluzioni, per posizioni sostanzialmente simili, e nei confronti di gente che si dichiarava rea confessa, forse risiedono proprio nel momento dell'identificazione, a protesta in corso. I venti gigliesi condannati, secondo il rapporto dei carabinieri, avevano tutti «spiccate simpatie socialiste, comuniste ed anarchiche». Sugli altri, invece, nulla da segnalare.
Dagospia il 16 dicembre 2019. Mario Calabresi su Facebook: Ieri sera, appena tornato a Milano da Roma, sono andato a vedere l’albero che è stato piantato per ricordare Giuseppe Pinelli. È di fronte alla mia scuola media, a pochi metri da dove sono cresciuto. Le nostre vite continuano ad incrociarsi. Giuseppe Pinelli, detto Pino, ferroviere anarchico, marito di Licia e padre di Claudia e Silvia, morì esattamente cinquant’anni fa, cadendo dalla finestra dell’ufficio di mio padre nella Questura di Milano. Una morte tragica e insensata che cambiò la vita della sua famiglia e della mia. So con certezza che Giuseppe Pinelli morì da innocente, così come sappiamo che mio padre non ha responsabilità nella sua morte e che non era in quella stanza. Molti erano lì ma non lui. Mezzo secolo dopo credo che finalmente si possa essere liberi di ricordare questi due uomini senza più contrapporli. Mia madre e Licia Pinelli sono due donne serene, capaci di comprendersi, la vita le ha segnate ma le ha anche rese delle persone notevoli. Pochi reduci, tra loro chi porta la colpa dell’omicidio di mio padre, continuano a gettare fango e a spargere veleni, ma non vale la pena dare loro retta, meglio concentrarsi su ciò che serve a ricucire le ferite della nostra società. Quell’albero, una quercia rossa, farà radici e vivrà più a lungo di tutti noi, ricordando a chi si fermerà nella sua ombra una persona mite e perbene.
I retroscena. La storia di Pino Pinelli, 18esima vittima della Strage di Piazza Fontana. Tiziana Maiolo il 10 Dicembre 2019 su Il Riformista. «E a un tratto Pinelli cascò» oppure «una spinta e Pinelli cascò»? Nelle due versioni della Ballata, diffusa nel 1970 su un 45 giri “parole e musica del proletariato”, c’è la storia di un uomo, della sua vita e della sua morte. Giuseppe Pinelli, detto Pino, anarchico, ferroviere e staffetta partigiana. Brava persona, bravo padre di famiglia, bravo militante. “Suicida” secondo il questore e i suoi uomini che in quella notte del 14 dicembre di cinquant’anni fa l’avevano in custodia eppure non ne seppero proteggere l’integrità fisica. “Suicidato”, secondo le certezze di coloro che ne conoscevano personalmente le passioni che non contemplavano quel mal-di-vivere che può portare al desiderio di morire. Poi ci sono tutti quei testimoni dell’epoca, i sopravvissuti di un giornalismo curioso che con puntiglio voleva guardare dentro i fatti al di là delle versioni ufficiali. Coloro che non si sono mai arresi a una verità giudiziaria che non è una verità, che ha tormentato a lungo lo stesso magistrato, il giudice Gerardo D’Ambrosio, autore ed estensore di una sentenza che crea disagio. Prima di tutto in chi l’ha scritta. Che cosa sia esattamente un “malore attivo” non lo sa nessuno. Quel che è certo è che un corpo, in una notte di dicembre milanese degli anni in cui ancora c’era la nebbia e tanto caldo non poteva esserci, è volato da una finestra del quarto piano, ha poi rimbalzato due volte sui cornicioni ed è precipitato a terra dopo una traiettoria diritta, come fosse stato un pacco. Invece era un uomo, si chiamava Pino Pinelli, era uno degli ottanta anarchici fermati la sera del 12 dicembre dopo la bomba di piazza Fontana. Quell’uomo, nella terza sera trascorsa in questura senza l’avallo di alcun magistrato, a un certo punto nella stanza del commissario Calabresi dove lo stavano interrogando, non c’era più. Era giù, nel cortile della questura di via Fatebenefratelli. Volato via dalla finestra aperta. Oggi possiamo dire, tutti dicono, che l’anarchico del Ponte della Ghisolfa è stato la diciottesima vittima della strage alla banca dell’agricoltura. Ci voleva il cinquantesimo anniversario per arrivare a questo riconoscimento. Ma nel 1969 valevano le parole del questore, a Milano: «Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto». Aggiungendo in seguito, in una conferenza stampa, che «il suo alibi era crollato». Nulla, neanche i morti di piazza Fontana, le sedici bare in una piazza Duomo grigia uggiosa e smarrita, nulla ha diviso la città, i suoi pensieri, le sue grida rabbiose, come i fatti di quella notte in questura e quel corpo giù nel cortile. Lo spettacolo di Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”, visto e rivisto da migliaia di persone all’interno di un triste capannone, la grande tela del pittore Enrico Baj ( “I funerali dell’anarchico Pinelli”), e poi i tanti libri e il grande lavoro di quel gruppo di giornalisti che non si è mai arreso all’ipotesi del suicidio. E poi un’altra notte, ancora fredda, con il buio squarciato dalle luci di grandi fari, eravamo tutti lì, in quello stesso cortile, ad assistere alla prova del manichino: buttato e poi caduto, e ancora buttato e poi caduto. Il cuore stretto, magistrati, poliziotti, giornalisti. Una cosa fu certa, Pino Pinelli non poteva essersi suicidato, la caduta verticale lo escludeva. Il corpo che era precipitato nel cortile era un corpo morto (pur se non in senso letterale), esprimeva un certo abbandono, una certa passività. Ma non si poteva neppure dimostrare che qualcuno avesse afferrato quel corpo e lo avesse buttato giù. E per quale motivo, poi? Perché, in quella stanza, dove insieme ai poliziotti stranamente c’era anche un ufficiale dei carabinieri, era successo qualcosa di pesante, qualcuno si era sentito male e qualcun altro aveva perso la testa? Non si saprà mai, e tutti coloro che erano in quella stanza, pur con le loro testimonianze contraddittorie, furono assolti. Il commissario Calabresi, capo dell’ufficio politico della questura, non era in quell’ufficio, che pure era il suo, in quel momento. Ma nelle piazze si gridò a lungo “Calabresi assassino”, lo si scrisse sui giornali, lo si raccontò nelle vignette in cui il commissario era sempre vicino a una finestra aperta. Ci fu una denuncia per omicidio presentata da Licia Rognini, vedova Pinelli e ci fu una querela per diffamazione di Calabresi nei confronti del quotidiano Lotta continua. E poi, mentre il caso Pinelli era stato archiviato dal giudice D’Ambrosio con quell’ipotesi di “malore attivo” che in definitiva scontentava tutti, il commissario Calabresi fu assassinato con due colpi alla nuca in via Cherubini, di fronte alla casa dove abitava. È il 1972, non sono passati tre anni da quella notte del dicembre 1969 e qualcuno pensa che giustizia sia stata fatta. Nel modo peggiore possibile. Non sarà così, ovviamente. Di nuovo con le sentenze non ci sarà pace su questa vicenda. E la condanna di Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l’omicidio Calabresi lascia l’amaro in bocca come tutte le sentenze frutto di processi indiziari. Sarebbe meglio non delegare più alle toghe il ricordo di Pinelli. Come ha già fatto con un grande gesto l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano che nel 2009, nel giorno della memoria, ha riunito al Quirinale le due donne simbolo della sofferenza, Licia Rognini, vedova Pinelli, e Gemma Capra, vedova Calabresi. E ad altre due donne, le figlie del ferroviere anarchico Claudia e Silvia, il merito, la capacità, l’intelligenza di aver preparato per questo 14 dicembre 2019 la “catena musicale” che unirà anche fisicamente (pur nell’assenza degli anarchici) piazza Fontana con i suoi morti e la questura con la sua diciottesima vittima, Pino Pinelli.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 15 dicembre 2019. Ma a un condannato per l'omicidio di un commissario di polizia, che per meriti giornalisti ha ottenuto vari benefici, compreso quello di passare una parte della pena ai domiciliari, è consentito di diffamare a mezzo stampa lo stesso commissario di polizia che ha contribuito a far ammazzare? La domanda me la sono fatta ieri, dopo aver letto l' articolo di Adriano Sofri su Il Foglio. L'ex fondatore di Lotta continua è da anni un collaboratore del quotidiano fondato da Giuliano Ferrara. Lo è dal tempo in cui il pentito Leonardo Marino confessò di aver fatto parte del commando che uccise Luigi Calabresi, indicando lui come mandante. La sinistra giornalistica, quella che per anni ha dettato legge nei giornali (come ha magnificamente spiegato Michele Brambilla in L'eskimo in redazione), mentre Sofri era dietro le sbarre pensò di risarcirlo elargendogli varie rubriche, oltre che sul Foglio, su Panorama e su Repubblica, e ciò ha consentito al leader di Lc di elevarsi al rango di maître à penser. Ovviamente tutti, anche un ex carcerato condannato per omicidio, hanno diritto di dire la loro. Ma che a distanza di cinquant'anni dai fatti, Sofri getti a mezzo stampa altre ombre su una tragedia come quella di piazza Fontana, di Pino Pinelli e di Luigi Calabresi, è francamente inaccettabile. Già in passato Sofri, che pure è stato ritenuto colpevole in vari gradi di giudizio, ha provato a riscrivere la storia. Dieci anni fa, ad esempio, compose per Sellerio un pamphlet dal titolo La notte che Pinelli, cercando di alimentare il sospetto di un brutale omicidio del povero Pinelli. Peccato che ci sia una sentenza, per di più pronunciata da un giudice come Gerardo D'Ambrosio, certo non sospettabile di partigianeria per i fascisti, i servizi segreti o la polizia, che dice il contrario. Pinelli non fu ucciso dagli agenti della Questura guidati da Luigi Calabresi: cadde dalla finestra per un malore. Lo so che all'ex fondatore di Lotta continua questa sentenza non piace e la vorrebbe confutare e riformare per dimostrare che no, l' anarchico fermato dai poliziotti dopo la strage di Piazza Fontana non morì cascando da solo dalla finestra, ma fu brutalmente picchiato dagli agenti del servizio politico i quali forse, dopo essersi accorti di averlo manganellato troppo, per liberarsi dall' accusa di omicidio lo presero e lo buttarono giù dal quarto piano. Ma la tesi alimentata dai giornalisti di sinistra, dai compagni, da Lotta continua fu ed è smentita dagli atti. Dall' autopsia, dalle perizie che furono eseguite, dalle indagini, dalle testimonianze e, infine, da una sentenza. So altrettanto bene che per Sofri, uno che si proponeva di abbattere lo Stato borghese, le sentenze sono carta straccia. Da anni infatti ripete che la sua, quella che lo ha condannato a 22 anni di carcere come mandante dell' assassinio Calabresi, è sbagliata, anche se è stata confermata in Cassazione, riaffermata dopo la revisione del processo e pure certificata dalla Corte europea dei diritti dell' uomo. Sì, per Sofri ci sono stati ben sette gradi di giudizio, ma lui si ritiene vittima, tanto che si è sempre rifiutato di chiedere la grazia, pretendendo che fosse lo Stato a risarcirlo di un' ingiusta detenzione, liberandolo. Ma in uno Stato di diritto le sentenze si rispettano, soprattutto quando sono definitive. Vi chiedete però perché l'ex leader di Lotta continua insista tanto nel gettare ombre sul caso Pinelli? La risposta è semplice. Perché se Pinelli è stato buttato giù, se in quella stanza c' era Luigi Calabresi, beh allora il commissario non era quel santo che dipingono e dunque chi lo ha assassinato è sì un assassino, ma con meno responsabilità di quelle che gli si possano addebitare. Se l'anarchico, invece di essere caduto per «un malore attivo», è finito giù dal quarto piano dopo essere stato ammazzato di botte e Calabresi era lì, perché l' anarchico Pasquale Valitutti dice che c'era, allora quella campagna criminale che Lotta continua fece contro il commissario non era così sbagliata. Dopo la morte di Pinelli il giornale di Sofri, come molti ricorderanno, scatenò una vera e propria caccia all' uomo contro il vice capo dell' ufficio politico della Questura, dipingendolo come un picchiatore e un agente della Cia. Contro di lui fu fatto anche un manifesto, pubblicato su l'Espresso e firmato da centinaia di sedicenti intellettuali, molti dei quali poi sono finiti a dirigere giornali o a occupare posti importanti nelle redazioni, e alcuni hanno ospitato gli articoli di Sofri. Il giorno in cui il commissario fu ucciso da un commando che lo attese fuori casa, Lotta continua titolò: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell' omicidio di Pinelli». Sulla prima pagina seguiva un commento in cui si ribadiva che il commissario era un assassino e si concludeva nel seguente modo: «L'omicidio politico non è certo l'arma decisiva per l'emancipazione delle masse dal dominio capitalista, così come l'azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l'uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Basta per capire che a distanza di mezzo secolo Sofri prova ancora a lavarsi la coscienza gettando fango su Calabresi?
Estratto dell'articolo di Adriano Sofri per “il Foglio” il 15 dicembre 2019. Calabresi, Pinelli: ancora? Ancora, e ricominciando daccapo. Intanto comincerò da una cronaca. Roma, un' aula della Sapienza, mercoledì 4 dicembre. […] Era una "Giornata di studi sulla strage di piazza Fontana", titolo: "Noi sappiamo, e abbiamo le prove", organizzata dall' Archivio Flamigni e dall' Università. […] A questo punto una voce dal pubblico […] ha chiesto compitamente di fare una domanda. L'ha fatta. Vorrei sapere, ha detto, come fate a sostenere che Calabresi era uscito dalla stanza. […] Era Pasquale "Lello" Valitutti […] è l' anarchico ventenne che aspettò il suo turno seduto accanto a Pino Pinelli nel salone comune al quarto piano della questura milanese, quando già tutti gli altri fermati erano stati mandati a casa. Ed era seduto nel salone comune ad aspettare che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra. Valitutti è quel genere di persona di cui gli oratori di un convegno non possono fare a meno di dirsi: "Eccolo, questo rompicoglioni!". Dunque, ha potuto parlare. Ha detto quello che dice da sempre, e qualcos' altro. Dice che dal suo posto "vedeva perfettamente la porta dell' ufficio del dottor Allegra, capo della sezione politica della questura, e la porta dell' ufficio del dottor Calabresi". Che "circa 15-20 minuti prima della mezzanotte il silenzio venne rotto da rumori nell' ufficio di Calabresi, come di trambusto, di una rissa, di mobili smossi ed esclamazioni soffocate. Poi un incredibile silenzio". Che nei minuti precedenti "nessuno era uscito dall' ufficio e tantomeno entrato in quello di Allegra". Che a mezzanotte udì "un tonfo, che non ho più dimenticato e che spesso mi rimbomba". Che "un attimo dopo ho sentito uno smuoversi di sedie e passi precipitosi". Che "due sbirri si sono precipitati da me e mi hanno messo con la faccia al muro". Che subito dopo è arrivato Calabresi e gli ha detto: "Stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si è buttato". Che la mattina dopo l' hanno rilasciato. Che ha ripetuto la sua testimonianza al processo Calabresi-Lotta Continua e che il difensore di Calabresi non l' ha neppure controinterrogato. Che durante il sopraluogo del tribunale nella questura ha mostrato al giudice Biotti i segni sulla parete che dimostravano come una macchina distributrice fosse stata spostata nel frattempo per far credere che ostruisse la sua vista la notte che Pinelli. Che il giudice D' Ambrosio non lo chiamò mai a testimoniare, benché fosse l' unico testimone civile presente quella sera. Che Calabresi e gli altri presenti nella stanza, "tutti assassini di Pinelli", avevano tutti mentito, e che la beatificazione di Calabresi è inconcepibile, eccetera. Benedetta Tobagi […] Ha anche detto - lasciandomi qui interdetto - che la presenza degli uomini degli Affari Riservati nella questura milanese, che è la più rilevante acquisizione ultima dell' indagine e della ricerca, può confermare che Calabresi fosse uscito dalla sua stanza, per andare non da Allegra ma da Russomanno e dagli uomini degli Affari Riservati. "Ma Calabresi ha detto che è uscito per andare da Allegra, e ha mentito", ha ovviamente replicato Valitutti. Tobagi: ma abbiamo detto che Calabresi ha mentito, su Pinelli tutti hanno mentito. Poiché le mie citazioni non sono testuali, invito caldamente a vedere e ascoltare la registrazione sul sito di Radio Radicale, dibattiti, 4 dicembre. […] […] di tutti gli sviluppi della ricerca attorno al 12 dicembre della strage degli innocenti e al 15 dicembre della defenestrazione di Pinelli, il più importante, e sbalorditivo, è la notizia (una vera "ultima notizia", di quarant' anni dopo) dell' arrivo da Roma alla questura milanese di un manipolo di funzionari dell' Ufficio Affari Riservati - "fra i 10 e i 15" - guidati dal vice di Federico Umberto D' Amato, Silvano Russomanno. Costoro presero da subito il comando pieno dell' indagine, direttamente sopra il capo dell' Ufficio politico, Antonino Allegra, e il giovane commissario dell' ufficio politico addetto all' estrema sinistra e agli anarchici, Luigi Calabresi. Questa dirompente notizia è diventata pubblica per la prima volta nel 2013, quando l' anarchico Enrico Maltini, fondatore della Croce Nera, che dal 15 dicembre del 1969 non aveva mai smesso di dedicarsi a Pinelli (è morto nel marzo del 2016) e Gabriele Fuga, avvocato penalista, pubblicarono un libretto intitolato "E a finestra c' è la morti" (Zero in condotta), ripubblicato poi, rivisto e arricchito di nuovi documenti, nel 2016, col titolo "Pinelli. La finestra è ancora aperta" (ed. Colibrì). Così esordivano gli autori: "Nel 1996 dagli archivi di via Appia si scopre che almeno altre 14 persone facenti capo al ministero dell' interno e mai sentite dai magistrati si aggiravano in quel quarto piano della questura di Milano la notte in cui Pinelli morì". […]dunque per 44 anni, si è discusso, denunciato, giudicato e condannato di una questura di Milano spigionata di quei "10 o 15" signori dagli Affari Riservati, Russomanno, Catenacci, Alduzzi e la sua "squadra 54" Farò un esempio risentito: nel 2009 scrissi un libro cui tenevo molto, "La notte che Pinelli" (Sellerio). Studiai con tutto lo scrupolo di cui ero capace le carte dei processi che avevano riguardato Pinelli, e specialmente quelle che avevano preteso di mettere la parola fine al "caso" della sua morte, firmate da Gerardo D' Ambrosio. Argomentai, al di là della inaccettabile tesi che passò sotto il nome di "malore attivo", errori documentabili del giudice, che aveva per esempio frainteso il racconto dell' ultimo giorno che costituiva l' alibi di Pinelli. Era il 1975, a D' Ambrosio premeva liberare la memoria di Pinelli dalle accuse mostruose che l' avevano colpito, e insieme liberare quella di Calabresi: lo fece consacrando la versione secondo cui Calabresi era uscito dalla stanza per andare dal suo capo, Allegra, e che in quella sua assenza Pinelli, col quale erano rimasti altri quattro poliziotti e un ufficiale carabiniere, era precipitato. Nel mio libro, tenni certo conto della testimonianza, così precisa (e mai smentita, quanto alle circostanze e alle parole dette a lui da Calabresi), di Valitutti. Scrissi che doveva "almeno" essere considerata quanto quella di ogni altro testimone. Tuttavia io stesso mi volli persuadere che nel tempo non breve dell' interrogatorio di Pinelli l' attenzione di Valitutti avesse potuto attenuarsi e impedirgli di notare il passaggio di Calabresi da un ufficio all' altro. Nell' ultima riga risposi alla domanda su che cosa fosse successo quella notte nella questura di Milano: non lo so. Mi costò quella risposta. Il giudice, poi parlamentare, D' Ambrosio, commentando il mio libro, si lasciò sfuggire un lapsus impressionante. A confermare che Calabresi uscì dalla stanza, disse, c' è anche la testimonianza oculare del giovane anarchico Valitutti. La sua memoria aveva benevolmente rovesciato la cosa. Mi colpì allora e mi colpisce di più oggi. […] Perché tacere, come un sol uomo, la presenza di quei capi degli Affari Riservati, non è un' innocua omissione: è una menzogna. […] Perché qualcuno, prima dell' anarchico Maltini e dell' avvocato libertario Fuga, era venuto a conoscenza di quel dettaglio, l' esproprio della questura milanese e dell' indagine ac cadaver, perinde da parte degli Affari Riservati. Precisamente, due magistrati (almeno, e i loro superiori): Grazia Pradella, giovane sostituto della Procura di Milano che condusse dal 1995 fino al 1998 una nuova inchiesta su piazza Fontana, col collega Massimo Meroni. La signora Pradella ottenne dai suoi interrogati informazioni clamorose. Lo stesso Russomanno, interrogato lungamente e rigorosamente, dichiarò di essere stato a Milano "quando morì Pinelli".[…] Dal 1996-97 al 2013, quando per la prima volta il pubblico, "gli Italiani", come si dice infaustamente oggi, ricevono la notizia sugli Affari Riservati nella Milano che impacchetta Valpreda e defenestra Pinelli, sono passati almeno sedici anni. Per sedici anni, "gli Italiani", quelli che hanno interesse alla cosa, hanno rimisurato metro per metro, passo per passo di poliziotti e anarchici, il quarto piano di via Fatebenefratelli senza urtare i 10 o 15 pezzi grossi. C' è una spiegazione? Erano forse tenuti, i magistrati che avevano raccolto quella notizia sconvolgente, al segreto? E D' Ambrosio, superiore di Pradella e corresponsabile dell' inchiesta e antico firmatario di una indagine e una sentenza su Pinelli che questa notizia inficia da capo a fondo, non ne è stato informato? E quando D' Ambrosio e Pradella vengono ascoltati a Roma dalla "Commissione sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi", presieduta da Giovanni Pellegrino, il 16 gennaio 1997, e non ne parlano nemmeno lì (salvo che io mi sbagli), a che cosa è dovuto il loro silenzio? […] Esiste dunque un segreto di Stato, e poi dei segreti di cui non si riesce a immaginare l' origine e il movente. […]
50 anni fa la strage di Piazza Fontana: è ancora mistero. Tiziana Maiolo il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a onorare con la sua partecipazione oggi pomeriggio il consiglio comunale di Milano e poi a guidare il breve corteo che da piazza della Scala porterà in piazza Fontana il ricordo della strage di cinquant’anni fa alla Banca dell’agricoltura. I diciassette morti (cui ci sembra giusto aggiungere come diciottesima vittima l’anarchico Pinelli) e gli ottantotto feriti non possono, non devono essere dimenticati, fanno parte della storia di Milano e della storia d’Italia. Questo va ben oltre le cinque istruttorie, i dieci processi che hanno popolato trentasei anni della nostra vita e nessuna sentenza che abbia in modo definitivo sancito chi ha messo le bombe, le cinque bombe che furono collocate, tre a Roma e due a Milano, il 12 dicembre del 1969. Il processo più lungo nella storia della Repubblica italiana. Ma è importante chiarire un altro punto. Chi ha a che fare con esplosivi, chi mette le bombe per motivi politici, fosse anche in luoghi disabitati e come puro gesto dimostrativo, compie comunque un atto tragico che non va giudicato solo nei tribunali ma anche nella società e nella storia. Per questo, e anche perché tutti gli imputati – prima gli anarchici e poi i fascisti – sono usciti indenni dai processi, non ha più molta importanza se mandanti ed esecutori volessero o meno uccidere, come pensano e hanno pensato tante persone degne e non sospettabili di complicità con gli attentatori. Il ragionamento è elementare, e fa ormai parte della storiografia: se le bombe erano cinque e sono state messe per uccidere, come mai solo una ha avuto effetti tragici? E se le banche chiudono gli sportelli alle 16, ma quel venerdì gli agricoltori si erano attardati per le loro transazioni commerciali, è possibile che chi ha fatto esplodere la bomba alle 16,37 non sapesse dello spostamento di orario? Sì, è possibile. Ma questo non cambia niente. I morti e i feriti ci sono stati. E questa è realtà. Milano ha subìto uno squarcio ben più profondo di quello che ha sfondato il pavimento della banca dell’agricoltura. E questo è un dato storico. Ma non significa che qualcuno possa arrogarsi, in modo arbitrario e soggettivo, il diritto a conoscere e a raccontare, magari a ignari ragazzini, “la verità”, con la V maiuscola, a modo proprio e anche alterando la storia. Lo ha spiegato bene su questo giornale due giorni fa il professor Vladimiro Satta a proposito di Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordano, che andrà in onda su Rai 2 questa sera, tratto liberamente dal libro di Paolo Cucchiarelli. Ancor prima del 1974, quando sul Corriere della sera apparve lo scritto di Pierpaolo Pasolini “Io so”, ma non ho le prove e neanche gli indizi, in molti si sono (ci siamo) esercitati sui “misteri” di piazza Fontana. Ancora oggi quella non è una piazza normale, con una banca, l’arcivescovado, la fontana, la sede dei vigili urbani, il capolinea del tram numero 24. Non solo per la targa e le formelle messe pochi giorni fa a ricordo di ogni vittima, citati per nome uno a uno, come è giusto. Ma per l’impossibilità a rassegnarsi. Rassegnarsi al fatto che la realtà probabilmente è stata più semplice, ben diversa da quella immaginata dall’ideologia del complotto politico-eversivo che ha nutrito tanti di noi giovani democratici del tempo. “La strage è di Stato”? Nessuno oggi può dirlo. E se non sono state sufficienti le bugie e le reticenze al processo di Catanzaro del presidente Andreotti e degli altri politici venuti a testimoniare, ha ancor meno senso oggi accusare l’ex presidente Saragat piuttosto che Mariano Rumor di aver tentato di organizzare un colpo di Stato. Sono argomenti che non hanno solidità neppure per chiacchiere da bar. Certo, qualche piccola certezza la storia ce l’ha consegnata, anche attraverso le migliaia di pagine dei dieci processi. Che il Veneto sia stato culla dell’eversione di destra di Ordine Nuovo e di quella singolare coppia di intellettuali che si chiamavano Freda e Ventura, l’uno che si trastullava con i timer e l’altro che confidava a un amico che “qualcosa di grosso” sarebbe potuto accadere, è stato scritto e riscritto. Ma non è stato sufficiente per esser giudicato prova di colpevolezza di autori di strage. E ci sono ancora persone convinte che qualche “pasticcetto” (come l’ipotesi della bomba dei buoni, il secondo ordigno del libro di Cucchiarelli) l’abbia combinato anche Valpreda, visto che i tanti magistrati che l’hanno giudicato sono ricorsi in gran parte ad assolverlo per insufficienza di prove. Invece, se c’è stata una testimonianza granitica fin dal primo momento a favore della sua estraneità è stata sempre quella della zia Rachele: io so che Piero è innocente, perché quel giorno era a casa mia a letto ammalato e non in piazza Fontana. Non è stata creduta, e anche questo è un fatto storico. Sono dunque stati inutili i tanti libri pubblicati in questi anni e i film e poi le commemorazioni e il ricordo dei tanti 12 dicembre fino a questo cinquantesimo? Assolutamente no. Tutti saremo in piazza, oggi. Per ricordare le vittime e per gridare che ci hanno ferito, ma che saremo sempre lì per impedire, nei limiti del possibile, che un’altra bomba ferisca ancora così la città di Milano e l’Italia intera. Solo per questo, senza esser depositari di nessuna “Verità”. Ma non è poco.
Piazza Fontana, le carte segrete del presidente del Consiglio Rumor: «No a un governo sulle bombe». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Maurizio Caprara su Corriere.it. È stato descritto come «uno dei veri padroni della politica italiana tentati dalla suggestione autoritaria», per usare a titolo di esempio una definizione impiegata da Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin nel libro del 1999 La Strage. Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli editore. Per descrivere il suo ruolo nel 1969, i due autori aggiunsero: «Neofascisti e circoli atlantici oltranzisti contano su di lui per una svolta tanto attesa». La tesi ricorre in varie pubblicazioni. Sta di fatto che da carte sepolte dal tempo e tornate alla luce 50 anni dopo i fatti può uscire un profilo anche un po’ diverso di Mariano Rumor, presidente del Consiglio italiano quando morte e dolore il 12 dicembre 1969 irruppero con un’esplosione nella Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano (Qui tutto lo speciale interattivo del Corriere, con foto, ricostruzioni e commenti). Un ritratto quanto meno integrabile del democristiano vicentino della corrente dorotea nota per una sua familiarità con il potere. «Personalmente dico no a un Governo sulle bombe. Se c’è qualcuno che pensa a cogliere occasione per involuzioni, questi non può essere nella Democrazia Cristiana, e ancor di meno la Democrazia cristiana», si legge nella minuta di un discorso che Rumor preparò per una riunione di dirigenti della Dc. Contenuti in una cartellina color senape con l’intestazione «SEGRETERIA PARTICOLARE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI» i fogli non sono datati, ma più elementi portano a ritenere che fossero stati battuti a macchina per la riunione della Direzione del partito di maggioranza relativa del 19 dicembre, una settimana dopo la strage. In un’altra versione dello stesso testo che Rumor conservava tra i suoi appunti, con più correzioni a mano e dunque probabilmente precedente a questa, la presa di posizione è formulata così: «Il problema, dunque, non è quello di formare un Governo quasi di salute pubblica. Personalmente dico ‘no’ ad un Governo sulle bombe». Un’annotazione a penna sembra suggerire approfondimenti delle due frasi: «Sviluppare un po’».
Uno dei passaggio dei documenti riservati, in cui Rumor promuoveva la ricostituzione del centro-sinistra per creare un ampio fronte politico in grado di contrastare gli attacchi del terrorismo. Queste pagine appartengono al Fondo Rumor conservato a Palazzo Giustiniani. Sono state ottenute da chi scrive dopo che il presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico del Senato, Gianni Marilotti, ne ha accennato in una sua lettera a Claudia Pinelli, figlia del ferroviere morto nella questura di Milano mentre era ingiustamente accusato della strage. Dal 2016, quando il fondo è stato «versato» a Palazzo Giustiniani, come si dice in gergo, nessuno studioso risulta averle consultate. Prima non erano catalogate. Non sono i soli documenti che aggiungono dettagli alla ricostruzione del periodo storico nel quale venne compiuta la strage. Da un’altra lettera che Rumor conservava emerge che il mese prima dell’attentato il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, in via riservata, faceva presente il «possibile verificarsi di una situazione da ritenere di assoluta emergenza» nelle forze armate. Al capo del governo e al ministro della Difesa Luigi Gui, in quel messaggio, il generale Luigi Forlenza segnalava un «grave malcontento» dei militari verso un «riassetto» in programma che li avrebbe messi in condizioni di «notevole inferiorità rispetto agli altri dipendenti dello Stato». Con un tono che è improbabile sia stato abituale da parte di alti ufficiali verso chi era al governo, il comandante avvisava: «Ove tale fatto si verificasse, ciò sarà valutato dall’opinione pubblica qualificata e dai componenti delle FFAA (Forze armate, ndr) come concreta dimostrazione di scarsa considerazione da parte della classe politica dirigente verso tutti i militari». Ancora di più: «Tale malcontento, di cui ritengo superfluo sottolineare a V. S. On. le l’estrema pericolosità, sarà rivolto verso il governo e verso le alte gerarchie militari a cui si farà addebito di non aver voluto o saputo rappresentare, in forma adeguata, le necessità dei propri dipendenti. Verrà, quindi, a mancare quel rapporto di fiducia verso i capi che è elemento indispensabile per la coesione e l’unità delle FFAA, che il Paese ritiene custodi insostituibili delle libere Istituzioni democratiche della nostra Patria». Come se a Rumor venisse ipotizzato uno scenario di ammutinamenti multipli, se non peggio. Altro che un rispetto uniforme della massima «usi a obbedir tacendo». Non va tenuto conto soltanto del cosiddetto autunno caldo, stagione di imponenti proteste sindacali, per avere un’idea del clima nel quale vengono messe nero su bianco queste righe. In un mondo diviso in due tra un’area di influenza sovietica e una americana, il 1969 in Italia è anche l’anno che precede il colpo di Stato tentato, e poi abortito sul nascere, nella notte tra 7 e 8 dicembre 1970. A prepararlo fu Junio Valerio Borghese, già comandante della X Mas e fascista che i servizi segreti di Regno Unito e Stati Uniti avevano salvato da una probabile fucilazione da parte di formazioni partigiane. Borghese puntava sui militari nella speranza di raddrizzare con mano forte uno spostamento dell’Italia verso sinistra. Di certo Rumor era uno degli uomini di governo e della Dc che più era in grado di percepire quanto poteva muoversi nelle Forze armate. Una parte della pubblicistica su piazza Fontana attribuisce al presidente del Consiglio di aver cambiato idea sull’appoggio a una svolta autoritaria, rinunciando ad avallarla, dopo la mobilitazione operaia scattata a Milano in occasione dei funerali delle vittime. Le carte delle quali riferiamo non affrontano questo aspetto, ma almeno nelle tracce del suo intervento Rumor non lascia trasparire titubanze in un orientamento a promuovere un ricompattamento della maggioranza Dc, socialisti, socialdemocratici e repubblicani allora sfibrata dalle divisioni tra Partito socialista italiano e Partito socialista unitario. Nei testi per la Dc Rumor citava l’«autunno caldo», «la morte del giovane Annarumma», ossia la guardia della Celere Antonio Annarumma morto a 22 anni durante scontri di piazza, e «di uno studente» oltre a «tentativi di portare fuori dal suo ambito proprio la dialettica sindacale». Il presidente del Consiglio proseguiva così: «I fatti più recenti possono darci oggi una visione esatta delle cause e sottolineare, com’è doveroso, il senso di responsabilità e lo sforzo fatto dai sindacati per non consentire il gioco pesante ed oscuro di elementi estranei e di gruppi eversivi. Oggi è chiara a tutti quella che ieri poteva apparire una preoccupazione eccessiva; e cioè che c’è la tentazione diffusa di gravare di violenza le tensioni sociali e politiche, che pur rientrano nella varia e positiva manifestazione della vita democratica, ad opera di gruppi che sotto l’una o l’altra etichetta puntano allo scardinamento dello Stato democratico». Poi un’aggiunta a penna: «E della fiducia dei cittadini». Segue una valutazione inquietante sullo stato d’animo dell’Italia del momento: «Il rischio di uno sbandamento psicologico, dunque, c’è». Nulla di tutto questo sconvolge il quadro storico o aggiunge elementi di prova a carico o a discarico dei colpevoli di una strage compiuta da fascisti non certo colpiti con tempestività dallo Stato. Uno Stato in quei giorni ancora proiettato nel perseguire gli anarchici innocenti Pietro Valpreda e Pinelli. Quest’ultimo morì il 15 dicembre. Sarebbe il caso tuttavia di non perdere d’occhio le sfumature e i dettagli che possono venire fuori da documenti del genere e da declassificazioni ancora non avvenute. Dianese e Bettin intanto nel loro ultimo libro La strage degli innocenti hanno sfumato quanto era stato attribuito a Rumor e hanno messo in risalto che erano neofascisti a ritenerlo responsabile di una «retromarcia» su una dichiarazione di stato d’emergenza. Per quanto riguarda i timori di spinte a destra favoriti dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura, chi scrive può ricordare ciò che gli spiegò molti anni più tardi a Montecitorio Elio Quercioli, nel 1969 dirigente del Partito comunista milanese. Per contrastare tentazioni autoritarie, e favorire un clima adatto all’«unità delle forze democratiche», innanzitutto comunisti e democristiani, il Pci ricorse tra l’altro a un espediente. Predispose lungo il percorso di una troupe della Rai durante i funerali delle vittime di piazza Fontana una serie di persone pronte a dichiarare che la minaccia terroristica richiedeva impegno unitario dell’arco costituzionale, ossia delle forze antifasciste. Anche in questo consisteva la propaganda politica di allora. La sera del 15 dicembre Rumor aveva ricevuto in casa sua a Milano i segretari della coalizione di governo che si era frantumata: il democristiano Arnaldo Forlani, il socialista Giuseppe De Martino, il repubblicano Ugo La Malfa e il socialdemocratico Mauro Ferri. Il comunicato ufficiale sull’incontro riferiva che i quattro si erano «impegnati ad approfondire, sentiti gli organi dirigenti dei rispettivi partiti, la proposta del presidente del Consiglio per una ripresa organica della collaborazione di centro-sinistra». Collaborazione organica significava un’autentica, e nelle intenzioni duratura, coalizione di governo. Il governo monocolore Rumor II rimase in carica fino al 27 marzo 1970. Poi lo sostituì il Rumor III che aveva all’interno ministri dei quattro partiti. Di centro-sinistra. Perché la svolta autoritaria non ci fu. Il 17 maggio 1973 Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico che frequentava neofascisti, uccise con una bomba a mano quattro persone e ne ferì 52 davanti alla questura di Milano in via Fatebenefratelli. Lì, fino a pochissimo prima, si trovava Rumor, non più presidente del Consiglio bensì ministro dell’Interno.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 6 dicembre 2019. “Polizia. Deve venire subito a palazzo di giustizia. C' è da fare un confronto. Si tratta di Valpreda». Piazza Fontana per Guido Calvi cominciò così, quattro giorni dopo la strage. Mentre diventava l' avvocato di Pietro Valpreda (e poi protagonista di tanti processi chiave della storia italiana, da Pasolini a Moro), aveva 29 anni e tutt' altro per la testa. «Insegnavo filosofia del diritto. Se non avessi risposto a quella telefonata, tornato a casa dopo una lezione su Leibniz, non avrei mai fatto l'avvocato».
Che scena si trovò di fronte nel palazzo di giustizia?
«Nella stanza, da una parte il giudice Occorsio, il teste Rolandi, il capo dell' ufficio politico della Questura di Milano, Allegra. Dall' altra cinque poliziotti sbarbati e ben vestiti accanto a Valpreda in pantaloncini e canottiera, coi capelloni, la barba incolta e la faccia stravolta da due notti insonni».
Parlò con Valpreda?
«No, tutto era pronto per il confronto. Chiesi solo al testimone se qualcuno gli avesse già mostrato una foto di Valpreda. Rolandi negò tre volte, poi ammise: il questore mi ha mostrato la foto di Valpreda, dicendomi che era l' uomo che dovevo riconoscere».
Che cosa accadde dopo?
«Prima di uscire andai da Valpreda e gli dissi: tranquillo, abbiamo vinto».
Ma il tassista Rolandi aveva riconosciuto Valpreda come l'uomo che aveva portato in piazza Fontana.
«Dopo la frase sulla foto, il riconoscimento valeva zero. Avevo capito che il processo era tutto lì. Ma non che avremmo impiegato quasi vent'anni per una verità giudiziaria e storica».
Che cosa accadde dopo?
«Nell' istruttoria l'avvocato non aveva nemmeno il diritto di assistere all' interrogatorio del suo assistito. Per fortuna un giornalista mi passava i verbali di nascosto».
Com'era Valpreda?
«Personaggio singolare. Ballerino, anarchico, esibizionista, ma mite e inoffensivo. Un marginale. Che uscito di prigione, rifuggendo la vanità, si sposerà, farà un figlio e aprirà una paninoteca».
Com' era il vostro rapporto?
«Quando andavo a trovarlo in carcere, mi contestava perché ero socialista "e non avevo capito niente"».
Mai avuto dubbi su di lui?
«Qualcuno lo insinuò. In realtà li avevo su me stesso. Era il mio primo processo. Solo contro tutti. Cercai un collega più esperto per farmi affiancare, ma in tutta Roma non ne trovai uno disponibile, a parte Lelio Basso».
Perché?
«Cautela, se non paura».
Lei no?
«Avevo l' età in cui ci si può permettere di non averla. Nonostante i proiettili, le minacce, l'isolamento».
In che senso?
«Insegnavo all'università di Camerino, ma in mensa non potevo sedermi al tavolo dei professori, perché ero l'avvocato degli anarchici».
Si fece pagare da Valpreda?
«Non ho mai preso una lira per quel processo».
Come fece quando il processo fu spostato a Catanzaro?
«Il sabato sera prendevo una cuccetta di seconda classe, da sei posti. A Lamezia aspettavo i giornalisti, che avevano il vagone letto, per un passaggio in taxi. A Catanzaro dormivo su una brandina in un corridoio della federazione del Pci. Poi l' Anpi fece una colletta, almeno per albergo e ristorante».
Di piazza Fontana sappiamo tutto?
«Sì».
Fu strage di Stato?
«No, strage neofascista agevolata dallo Stato dirottando e depistando le indagini».
In che modo?
«Prima distruggendo la prova regina, la seconda bomba inesplosa alla Banca commerciale. Poi puntando sulla pista anarchica, come scrisse il ministro dell' Interno Restivo in un appunto».
Perché scelsero Valpreda?
«Probabilmente il primo obiettivo era Pinelli, con una struttura politica superiore».
Che idea le fecero i depistatori?
«Reazionari, rozzi, cialtroni. Guida, questore di Milano, era stato direttore del carcere di Ventotene sotto il fascismo. Motivo per cui Pertini, in visita di Stato a Milano, si rifiutò di stringergli la mano. Nel processo di Catanzaro, gli chiesi come avesse avuto la foto di Valpreda. Disse di non ricordarlo perché era un accanito fumatore e il fumo annebbia la memoria».
Quale fu il ruolo del Viminale?
«Centrale. Russomanno, vicedirettore dell'Ufficio Affari Riservati che guidò le indagini andando a Milano, in gioventù era nella Repubblica di Salò e poi si era arruolato in una formazione militare tedesca».
Come gestì il peso politico del processo?
«Nella prima fase il consenso popolare contro gli anarchici era diffuso. Alzando subito il tiro, evocando i colonnelli greci o la Cia, saremmo andati contro un muro. Puntai sui dettagli. Fu una lenta costruzione».
Come fu possibile?
«L'episodio decisivo fu il funerale delle vittime nel Duomo di Milano. Dietro le bare tutte le autorità. Di fronte centomila operai in tuta blu. Era un messaggio: attenti, difenderemo la democrazia».
Fu colto?
«Si aprirono contraddizioni nella magistratura, nei giornali, nella polizia. Lo Stato contro lo Stato: da una parte forze vecchie e intrise di fascismo; dall' altra energie nuove e democratiche».
Quando capì che stavate vincendo?
«Quando cadde la P2 e fu svelato il doppio Stato, secondo la definizione di Bobbio. In quel momento la magistratura si legittima come baluardo costituzionale. Il che spiega ciò che è successo dopo».
Letterine per Piazza Fontana. Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonio Castaldo. Angoscia e timori: trovati in un archivio i pensieri per le vittime spediti a Milano da bambini sardi nel 1969. C’era il sole quella mattina a Barega. I bambini usciti in fila da scuola entrarono a casa della bidella, la signora Gisa. L’unica nei dintorni con la tv. Era il 15 dicembre 1969, la Rai trasmetteva dalla gelida Milano i funerali di piazza Fontana. La nebbia sfumava i contorni del Duomo, una distesa di paltò scuri, signore avvolte nei foulard, e ragazzi appesi ai lampioni con lo sguardo alla sfilata di bare. Le immagini di quel dolore misurato nei toni ma oceanico nelle dimensioni colpirono l’Italia. A Barega, minuscolo borgo dell’Iglesiente, i bambini erano rapiti dallo schermo in bianco e nero. Tornati in classe, ancora scossi, scrissero un tema. Qualcuno a bordo pagina disegnò coroncine di fiori rossi. Cinquant’anni dopo, la studentessa Clara Belotti, impegnata a preparare la sua tesi in archivistica, ha trovato negli archivi del Comune di Milano un faldone con su scritto: «Piazza Fontana». E dentro cartoline, telegrammi, lettere scritte a mano o battute a macchina su carta velina. Erano i messaggi di solidarietà che il sindaco di Milano Aldo Aniasi ricevette dopo la strage del 12 dicembre. E tra questi c’erano anche i temi di Barega, che la maestra Lydia Siddi spedì a Milano, pensando, forse a ragione, di regalare un sorriso al sindaco che era stato partigiano e vedeva la sua città tornare in guerra. «La gente piangeva, una signora stava per svenire e la figlia l’ha mantenuta, se no sarebbe caduta», scriveva Antonella Cocco, classe IV, che oggi ha sessant’anni, e nella sua casa di Tortolì prepara i culurgiones. «Certo che ricordo quel giorno — racconta —. La maestra ci prese per mano e ci portò dalla signora Gisa. Le parole del vescovo ci commossero tutti». Antonella lavora al ministero della Sanità, sua sorella Paola, di un anno più grande, era con lei quel giorno. «Sono passati cinquant’anni — dice — ma molte cose sono rimaste uguali. Quasi tutti i compagni d’allora sono ancora in paese. Molti lavorano la terra che i nostri genitori ci hanno lasciato. Proprio come chi morì in quella strage». E nelle sue parole si avverte la vicinanza di ambienti e abitudini tra la bassa padana delle vittime e l’entroterra sardo degli alunni di allora. «Che vivono la stessa vita dei familiari colpiti dall’ultima disgrazia», scrisse la maestra nel biglietto accluso al pacchetto. Erano infatti allevatori, mediatori, agricoltori le vittime, riunite nella Banca dell’Agricoltura per il mercato. Il direttore della Cittadella degli archivi, Francesco Martelli, ha raccolto il materiale trovato nel fondo Aniasi dedicato alla strage, finito in una mostra curata da Marco Cuzzi ed Elia Rosati a Palazzo Marino e in un documentario realizzato dalla «3D produzioni» che sarà presentato nell’anniversario dei funerali: «Mi sono commosso per le lettere dei bambini — spiega Martelli — si ha la percezione di un’Italia diversa dalla nostra: il senso di un’empatia impressionante». Un sentimento che segna un passaggio d’epoca. «Paura, ecco cosa provai», ricorda Tore Colomba, contadino. La cerimonia lo colpì al punto che scrisse: «I feretri sono stati trasportati in ogni posto della Lombardia», come se in quella piazza fosse radunata l’intera regione. «Oggi a Milano tirava vento e pioveva, e il cielo era grigio», annotava invece Rosa Moi, ora impiegata comunale a Carbonia: «Sulle bare c’erano rose e garofani», particolare che ha poi disegnato. «Immagini che tornano spesso alla memoria», spiega ora. «Avevo 8 anni e non capivo cosa fosse successo. Ma fu la prima di una serie di stragi. La prima tragedia. Quelle venute dopo, non so perché, sono volate via. Piazza Fontana è rimasta».
Piazza Fontana, la strage nera. Il dovere della memoria. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonio Carioti. Le inchieste, i testimoni, l’ombra dei servizi:50 anni dopo. resta l’intreccio tra eversori e apparati dello Stato. L’Italia repubblicana conosceva da sempre la violenza politica, ma la bomba esplosa cinquant’anni fa a Milano, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, segnò una svolta agghiacciante. Il 12 dicembre 1969 vennero assassinate e ferite, a tradimento e a caso, persone innocenti e ignare, alle prese con gli impegni del lavoro e della vita quotidiana. Si colpiva nel mucchio, senza alcun riguardo. Da quel momento nessun cittadino poteva più ritenersi al sicuro. Mezzo secolo dopo, il bilancio che se ne può trarre è duplice. Da una parte la democrazia italiana ha respinto con successo l’aggressione del terrorismo, cominciata allora. Dall’altra non vi è stata giustizia: l’eccidio resta senza colpevoli, anche se dalle inchieste giudiziarie e dalle ricerche storiche emerge con sufficiente chiarezza che la responsabilità va addebitata all’estrema destra neonazista. Molti interrogativi però rimangono aperti, specie in riferimento al ruolo equivoco svolto da alcuni apparati di sicurezza. E resta il dovere della memoria verso le vittime e i loro cari, verso coloro che furono ingiustamente accusati (come l’anarchico Giuseppe Pinelli, morto mentre era trattenuto illegalmente dalla polizia), verso la città e il Paese intero. Su questi due versanti si muove il libro La strage di piazza Fontana (in edicola da sabato 7 dicembre), aperto da una prefazione di Giangiacomo Schiavi, con il quale il Corriere della Sera ha voluto portare un proprio contributo al dibattito. Abbiamo cercato di ricostruire i fatti: un contesto storico segnato da forti tensioni; la meccanica dell’azione terroristica, con cinque attentati (due a Milano e tre a Roma) in poche ore; l’avvio delle indagini, la perdita di credibilità della pista anarchica e l’affiorare di quella nera, con la scoperta di rapporti inquietanti tra eversori e servizi segreti. Inoltre abbiamo ripercorso, con Luigi Ferrarella, il tortuoso iter giudiziario, il controverso trasferimento del processo da Milano a Catanzaro, le condanne in primo grado e le assoluzioni in appello, la riapertura dell’inchiesta negli anni Novanta, le nuove sentenze, gli ultimi filoni battuti dagli inquirenti. Abbiamo puntato i riflettori anche su alcuni aspetti particolari: Giovanni Bianconi narra la sorte di tre coraggiosi magistrati (Vittorio Occorsio, Emilio Alessandrini, Antonino Scopelliti) che si occuparono degli attentati avvenuti nel 1969 e poi vennero assassinati per altre ragioni; Gianfranco Bettin esplora l’ambiente in cui maturò la trama criminale, l’estremismo di destra del Nordest. Abbiamo dato la parola ai testimoni: il nostro collega Giacomo Ferrari, che era nella banca in cui esplose l’ordigno; un maestro del giornalismo come Corrado Stajano, che fu tra i primi ad accorrere sul posto. E poi ci siamo rivolti, con Giampiero Rossi, all’Associazione delle famiglie delle vittime di piazza Fontana (17 furono in tutto i morti), che si è battuta coraggiosamente per ottenere giustizia e da parecchi anni svolge un lavoro encomiabile per evitare che vada dispersa la memoria di quanto accadde. Sul punto più spinoso, cioè sulle ragioni dell’eccidio e su quanta responsabilità portino alcuni settori dello Stato, specie per la mancata individuazione dei responsabili, abbiamo chiamato a confrontarsi due studiosi di opinioni diverse, Aldo Giannuli e Vladimiro Satta, che hanno dato vita a una discussione a tratti polemica, ma pacata e civile nei toni. Piazza Fontana è un evento lontano, ma denso d’insegnamenti. Bene hanno fatto il Comune e il sindaco Giuseppe Sala, nel cinquantesimo anniversario, a preparare una nuova installazione nel luogo dell’eccidio e a programmare una serie d’iniziative commemorative, alla quali parteciperà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Milano ha superato quella terribile prova, ma non la dimentica. E il Corriere con lei.
Piazza Fontana, per sempre «incisi» su targhe i nomi delle diciassette vittime. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. Diciassette nomi. Diciassette formelle. E una targa che ricorda quello che è successo il 12 dicembre di cinquanta anni fa quando intorno alle 16 una bomba devastò il salone della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana uccidendo 17 persone e ferendone 88. Ma a differenza della lapide commemorativa posata dieci anni dopo la strage che si limita a indicare un generico «attacco eversivo», quella fortissimamente voluta dall’Associazione dei familiari delle vittime di piazza Fontana punta il dito contro gli autori dell’attentato terroristico, anche se paradossalmente mai condannati: esponenti di Ordine Nuovo, la formazione neofascista che ebbe un ruolo chiave nella cosiddetta «strategia della tensione». Quel giorno Milano perse l’innocenza ma non ha perso la memoria e il 9 dicembre, a poche ore di distanza dall’anniversario della strage, il Comune, per volontà del sindaco Beppe Sala, poserà intorno alla fontana da cui la piazza prende il nome le 17 formelle. Ognuna porterà il nome di una vittima. Giovanni Arnoldi, 42 anni, Giulio China 57, Pietro Dendena 45, Eugenio Corsini 65, Carlo Gaiani 37, Calogero Galatioto 37, Carlo Garavaglia 71, Paolo Gerli 45, Luigi Meloni 57, Vittorio Mocchi 33, Gerolamo Papetti 78, Mario Pasi 48, Carlo Perego 74, Oreste Sangalli 49, Angelo Scaglia 61, Carlo Silva 71, Attilio Valè 52. Ognuno con la propria storia, con la casualità che accompagna e si incrocia con il destino. C’è chi come Mocchi si reca in banca per chiudere la trattativa su due trattori Ford. Chi, come Arnoldi, quel giorno non aveva intenzione di andare a Milano. La nebbia e un malessere gli avevano fatto rimandare tutti gli appuntamenti. Il destino si è presentato con un trillo del telefono. Un agricoltore di Lodi lo chiama e insiste, c’è da chiudere un affare per una cascina nel Milanese. «Mio padre cerca in qualche modo di rimandare ma l’agricoltore insiste e lui a malavoglia accetta, saluta mia madre prende l’auto e si dirige a Milano. Per mia madre sarà l’ultima volta che vede vivo mio padre» scrive il figlio Carlo che nel ’69 aveva 15 anni e oggi è presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime. Tante storie strazianti raccontate sul sito della Casa della Memoria. Dove prologo e conclusione accomunano figli, mogli e genitori. «Quel giorno, dopo lunghe ricerche negli ospedali senza esito — scrive Paolo, figlio di Carlo Silva — dopo aver chiesto direttamente sul luogo della strage, vedendo quello che era accaduto, mi sono recato alla questura centrale dove ho incontrato mio fratello Giorgio anche lui coinvolto nelle medesime angoscianti ricerche. In tarda serata siamo stati accompagnati all’obitorio per l’eventuale riconoscimento; abbiamo purtroppo riconosciuto, in quel cadavere dilaniato e mutilato, nostro padre Carlo». Sono parole molto simili a quelle di altri parenti delle vittime. Lo stesso copione con la telefonata che avverte dello scoppio di una caldaia nella banca, che ci sono dei feriti, delle corse inutili negli ospedali cittadini. Si parlano da un anno il sindaco Sala e l’Associazione dei familiari. E ai primi di ottobre il sindaco ha riunito la sua giunta e ha approvato la delibera per la realizzazione e la posa delle formelle e della targa. Perché come dice il sindaco Sala nella lettera inviata al Corriere, «Milano ricorda e fa memoria di ogni singolo evento che ha sporcato con la violenza e la morte la sua anima democratica e pacifica».
Piazza Fontana: storia di "altre bombe". La piazza della strage del 12 dicembre 1969 fu bombardata nel 1943. Nel 1949 alla Banca nazionale dell'agricoltura fu trovato un ordigno. Nell'aprile 1969 le molotov ferirono due giovani. Edoardo Frittoli il 30 novembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa piazza Fontana fu teatro della sanguinosa strage che aprì la lunga stagione della "strategia della tensione". La lunga storia della piazza alle spalle del Duomo racconta di tre momenti in cui altre bombe furono protagoniste nel medesimo luogo, tra il 1943 e il 1969.
Una nuova piazza per i Milanesi. La prima grande metamorfosi per piazza Fontana avvenne nel 1782 con uno degli ultimi atti del governatore austriaco di Milano, Carlo Firmian. Fino ad allora lo spazio alle spalle del Duomo era stato sede del mercato ortofrutticolo della città, il famoso "verziere". La riqualificazione dell'area caotica e popolare prevedeva anche il rifacimento della facciata del palazzo dell'Arcivescovado e la costruzione della prima fontana artistica di Milano, alimentata dalle acque del fiume Seveso tramite un complesso sistema di condotte e meccanismi alloggiati nell'albergo Biscione affacciato sulla piazza. Il disegno della fontana fu affidato al prestigio dell'architetto Piermarini, che si occupò anche di riorganizzare gli spazi attorno al nuovo monumento divenuto il fulcro della piazza rinnovata. Anche il perimetro della piazza, allora molto più raccolta di oggi, fu soggetto a sostanziali modifiche attraverso l'abbattimento dell'antico edificio della Scuola delle Quattro Marie, pio istituto per fanciulle oltre ad una chiesetta sull'angolo della oggi scomparsa via Alciato. Durante il secolo XIX piazza Fontana fu luogo di eventi pubblici e spettacoli, con ascensioni di aerostati, esposizione di bestie feroci ed esotiche, corse equestri. Alla metà del secolo si sviluppò la presenza di alberghi, tra cui il maestoso Albergo Commercio che occupava buona parte del lato settentrionale della piazza. L'ultimo intervento urbanistico di rilievo avvenne alla fine degli anni '20, quando al posto di vecchi edifici commerciali (dove aveva sede il consorzio agrario cittadino) fu costruito il grande palazzo della Banca nazionale dell'agricoltura, teatro della strage del 1969. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale la piazza era popolata dai tanti agricoltori che si riunivano attorno alla fontana nei pressi del consorzio dove trattavano i propri affari prima di ufficializzare gli accordi presso la banca di piazza Fontana, la cui vita e il cui volto cambierà per sempre una notte di metà agosto del 1943.
Le bombe dal cielo: ore 00:31 del 16 agosto 1943. La città bruciava già da due giorni, martoriata dai bombardamenti a tappeto ad opera di centinaia di quadrimotori del Bomber Command della RAF. L'area bombing, così definita dal comandante Sir Arthur Harris (detto "the butcher" - il macellaio), aveva sfigurato Milano. Erano state colpite innumerevoli abitazioni civili, oltre ad edifici monumentali, fabbriche, scuole, ospedali. I Vigili del fuoco stavano ancora lottando contro le fiamme degli spezzoni incendiari e la pressione dell'acqua crollata per i danni alla rete idrica quando la sirena suonò di nuovo mezz'ora dopo la mezzanotte. Questa volta i "Lancaster" inglesi erano 199 ed aggiunsero distruzione a distruzione. Quella notte una bomba dirompente sfondò il tetto e devastò i palchi del Teatro alla Scala, simbolo universale di Milano. Anche il Duomo fu danneggiato con il crollo di alcune guglie. Pochi istanti dopo sarà devastata anche piazza Fontana. Una pioggia di bombe dirompenti ed incendiarie rasero al suolo i vecchi edifici che si trovavano al centro della piazza, provocando la cancellazione dalle mappe della antica via Alciato che dalla piazza portava all'ingresso dell'attuale Comando della Polizia Locale di piazza Beccaria, anch'esso semidistrutto dall'incursione di quella notte. L'ultimo bombardiere abbandonò il cielo di Milano attorno alle 2 e 20 del mattino del 16 agosto, acceso di rosso dal bagliore degli incendi visibili a decine di chilometri di distanza. Quando finalmente albeggiò, la piazza Fontana appariva irriconoscibile, spianata dagli scoppi. Si era salvata la fontana del Piermarini, mentre un'ala del grande albergo Commercio era ridotta ad un cumulo di macerie, come altri edifici adiacenti. L'area della piazza non ritornerà mai più quella originale, nè saranno ricostruite le case che la rendevano pittoresca e raccolta. Fino alla fine della guerra la fontana sarà protetta dalle stesse macerie delle case dai cui balconi era stato possibile ammirarla, ammassate attorno al suo perimetro.
"C.L.N. 25934": la bomba dell'ex partigiano. (31 maggio 1949). Nella camera blindata della Banca nazionale dell'agricoltura due funzionari si apprestavano ad aprire una delle cassette di sicurezza del caveau sotto piazza Fontana. Da oltre un anno cercavano di contattare i due titolari che l'avevano riservata durante la guerra -nel dicembre del 1943- senza però ottenere alcuna risposta. Scaduti i termini di legge, gli addetti furono autorizzati all'ispezione per prolungata morosità. All'interno dello scomparto blindato fu ritrovata una scatola di sigarette in latta, alla quale era fissato un talloncino con la scritta "C.L.N. 25934". La sigla fece scattare le misure di sicurezza, perché a soli quattro anni dalla fine della guerra tutti sapevano cosa significassero quelle tre lettere, iniziali del Comitato di Liberazione Nazionale cioè il comando delle forze partigiane. I funzionari chiamarono immediatamente le forze dell'ordine, che mandarono in piazza Fontana una squadra di artificieri. I militari ebbero conferma che in quella scatola di latta era nascosto un ordigno ed anche molto potente. Si trattava di una bomba al T-4 (trinitrotoluene o TNT) ad alto potenziale, che fu aperta con cautela dagli artificieri e fatta brillare poco più tardi in aperta campagna. Gli intestatari della cassetta di sicurezza erano Camillo Gaggini e Ugo Massa, due individui con una lunga lista di precedenti penali per furto, truffa e rapina. Il primo aveva militato nella resistenza sin dal 1943 e dopo la guerra era entrato a far parte della cosiddetta "Polizia ausiliaria", il reparto di pubblica sicurezza nato dalle file dei partigiani dopo la fine della guerra. il 22 novembre 1945 il tenente Gaggini fu scoperto dalla Polizia giudiziaria in una bisca clandestina a poca distanza da piazza Fontana, in un appartamento di via Silvio Pellico. L'ufficiale della Polizia partigiana fu colto in flagranza di reato mentre estorceva una percentuale sui proventi illeciti del gioco. Il giorno dopo il ritrovamento della bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura fu scoperto presso il campo d'aviazione della Breda (attuale aeroporto civile di Bresso) un vero e proprio arsenale con armi in piena efficienza. Nelle vecchie trincee nelle vicinanze dei rifugi antiaerei erano stati nascoste mitragliatrici pesanti Breda 37 e 30, fucili, 26 bombe a mano e addirittura granate anticarro tedesche modello "panzerfaust". Poco dopo il ritrovamento dell'arsenale clandestino, fu rintracciato anche Camillo Gaggini che all'epoca dei fatti era detenuto nel carcere di Forlì per numerosi reati pregressi.
Le bombe molotov all'albergo Commercio: 12 aprile 1969. I bombardamenti dell'agosto 1943 cambiarono per sempre il volto della piazza progettata dal Piermarini. Il vuoto creato dal crollo delle case che affacciavano sulla scomparsa via Alciato non fu mai più colmato e nel dopoguerra piazza Fontana appariva come un'ampia spianata estesa dall'Arcivescovado sino alla sede dell'ex Tribunale - oggi Comando del Polizia Locale - anch'esso sfigurato dalle bombe. Nel 1953 il Comune di Milano avanzò una proposta di ricostruzione dell'antica via cancellata dalla guerra, che dieci anni dopo i bombardamenti era rimasta un'area desolata e polverosa accerchiata dagli edifici con le ferite di guerra ancora in mostra. Il progetto affondò, lasciando spazio ad un parcheggio dove presero posto le automobili negli anni del boom economico. Si salvò il grande edificio dell'Albergo Commercio, che rimase in esercizio fino alla fine del 1965 e di cui fu proposto l'abbattimento in seguito all'abbandono dell'attività. Tre anni più tardi, il 29 novembre 1968, lo stabile fu occupato da studenti e anarchici e ribattezzato "nuova casa dello studente e del lavoratore". Il Comune di Milano, proprietario dell'edificio, tergiversò e lasciò gli occupanti nelle camere dell'ex albergo di piazza Fontana. Poco dopo l'occupazione iniziarono a frequentare il Commercio anche alcuni anarchici vicini alla corrente degli "Iconoclasti" di Pietro Valpreda quando all'esterno il clima politico si faceva rovente con continui scontri di piazza tra opposti estremismi e con le forze dell'ordine. L'11 aprile del 1969 a Milano si scatenò la guerriglia urbana in occasione dello sciopero indetto in seguito ai gravi scontri tra lavoratori e Polizia a Battipaglia (Salerno) di due giorni prima, che avevano causato la morte di due operai. Accanto al corteo silenzioso dei sindacati scesero in piazza i maoisti e gli anarchici, che giunti in piazza del Duomo assieme agli studenti iniziarono a provocare durante il comizio dei sindacati. Le violenze andranno avanti per tutto il giorno, con lanci di molotov, pietre e bastoni. Verso sera, dopo aver lasciato 88 feriti tra le forze del ordine, un gruppo di filo-cinesi diede l'assalto alla sede della Giovane Italia, l'organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano in corso Monforte. Dalle finestre della sede i giovani di destra risposero con le molotov, fino all'intervento della Polizia. La ritorsione non si fece attendere e la notte stessa si concentrerà sulla "centrale anarchica" individuata nell'ex-albergo occupato di piazza Fontana. Erano circa le 23 quando due giovani estranei ai fatti della giornata e neppure frequentatori della "nuova casa dello studente" si fermarono di fronte all'androne di ingresso dell'ex albergo. Sergio Bergamini e Luciano Treu tornavano dopo una serata alla "Crota piemunteisa" di Piazza Beccaria dove avevano trascorso la serata e si erano soffermati per alcuni minuti a leggere i cartelli affissi dagli anarchici dopo gli scontri. All'improvviso furono assaliti da un gruppo di uomini vestiti con maglioni neri che in un istante lanciarono due bombe molotov verso i due ragazzi. La prima bottiglia incendiaria esplose ed investì in pieno Bergamini, che divenne una torcia umana. La seconda fu scagliata quando Treu stava cercando di spegnere i vestiti dell'amico e lo colpì di striscio ustionandolo ad un braccio, mentre il commando faceva perdere le proprie tracce fuggendo a bordo di un'auto parcheggiata in piazza. L'assalto all'albergo fu il preludio alla scomparsa dello storico edificio di piazza Fontana. Lo sgombero fu effettuato all'alba del 19 giugno 1969 dalla Polizia, che alle 5:45 fece irruzione. All'interno furono rinvenuti, oltre alle bottiglie molotov, anche esplosivi e armi. Tra gli anarchici fermati figurava Aniello D'Errico, detto "baby" per la sua giovane età (aveva solo 17 anni). Rilasciato pochi giorni dopo, sarà poi accusato di essere stato l'artificiere della strage di piazza Fontana, di poco successiva allo sgombero dell'ex albergo. Sarà fermato assieme ad un compagno del gruppo "iconoclasti" di Valpreda, Leonardo Claps, dopo una breve latitanza a Canosa di Puglia. La demolizione dello storico albergo di piazza Fontana fu deliberata appena dopo lo sgombero ed eseguita in fretta a partire dalla fine dell'agosto del 1969. Quando ormai non rimaneva che lo scheletro dell'edificio ottocentesco sopravvissuto alla guerra e alla ricostruzione, il 12 dicembre 1969 di fronte al suo rudere esplose la bomba nell'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura. Nella piazza che ancora una volta cambiava faccia, quel maledetto giorno era cambiata anche la storia dell'Italia repubblicana.
Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati. Sono nato a Milano mentre scoppiava la bomba. Quando cominciò il buio che avvolge l’Italia. E tutti ne siamo figli. Giuseppe Genna il 12 dicembre 2018 su L'Espresso. È il 12 dicembre 1969, ore 16.37, Milano. Succede questo: un’esplosione a pochi metri dietro il Duomo, nella nebbia una vampata di luce. È cominciata la storia d’Italia, per l’ennesima volta, una vicenda che si trascina come un ferito nelle nebbie di un dopobomba perenne. È scoppiata la bomba di piazza Fontana. Un giovane vicecommissario si trova davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove l’ordigno ha devastato uomini donne bambini e cose. È Achille Serra, destinato a evolvere nel tempo in un prefetto leggendario. Entra a pochi secondi dall’esplosione, in un luogo che costituirà la scena primaria della nazione, che è sempre una scena del crimine: corpi sciolti, a brandelli, un bambino urla, cadaveri tra le macerie. Serra si precipita al telefono in una cabina, chiede l’invio di cento ambulanze. Non gli credono, lo prendono in giro, poi mandano davvero cento lettighe sul posto. Su una barella, che fa il suo ingresso nella banca, c’è accidentalmente il corredino di un neonato, che è nato proprio alle 16.37, insieme con la madre di tutte le stragi. Quel neonato sono io. Ho, dunque, due madri: la mia e quella di tutte le bombe. Io avvengo insieme a piazza Fontana, crescerò avendo per fratelli tutti i fantasmi, i morti, gli assassinati successivi, gli accusati, gli innocenti, i commentatori, i leggendari giornalisti, le spie, i neofascisti, gli anarchici - il teatro umano che da quasi cinquant’anni si muove intorno a una strage, rimasta senza colpevoli fino al 2005, quando i responsabili sono stati identificati da una sentenza di Cassazione, nell’impossibilità di processarli, perché assolti in precedenza.
Nasco insieme a piazza Fontana. Cresco con l’ossessione della strage. Il sospetto è per me un obbligo. Appena capace di consapevolezza, scruto ossessivamente le foto in bianco e nero, scattate poco dopo l’esplosione. Al centro della scena, sotto un tavolo pesante, sbalzato dalla conflagrazione, si è creato un buco nel pavimento. Il Buco diviene l’emblema nazionale. È il buco dei proiettili nel corpo inerte di Aldo Moro, rannicchiato nel baule della Renault 4, essa stessa un ulteriore buco, orizzontale, che sfigura la memoria di tutti i bambini come me. È il buco in cui sprofonda e resterà invisibile, piangente nel pozzo artesiano, il piccolo Alfredino Rampi a Vermicino, foro su cui si china il capo dello Stato e in cui finiamo tutti, a favore delle televisioni unite. È il buco in cui scompare infinitamente Emanuela Orlandi.
È un Paese con il Buco, l’Italia. Buchi ovunque, a partire da quelli che costellano le indagini. Il giovane Bruno Vespa compare, nel permanente bianco e nero, microfono in mano, a dare in diretta la notizia della colpevolezza indiscutibile dell’anarchico Pietro Valpreda. Quando Vespa inaugura l’oscenità televisiva, svezzando la nazione, io ho quattro giorni di vita, come la strage. Il giorno precedente è stato assassinato Giuseppe Pinelli, volato dalla finestra della questura per un evento catalogato come “malore attivo”, durante un interrogatorio, mentre il commissario Luigi Calabresi si trova fuori dalla stanza - il momento enorme in cui Calabresi incomincia a morire, il 17 maggio 1972, per mano di terroristi che non avevano compreso nulla o forse avevano compreso troppo.
Aldo Moro, nell’istante in cui io nasco e la bomba deflagra, si trova a Parigi e nelle lettere dal carcere brigatista, pressato dall’angoscia, sbaglia il ricordo e colloca l’esplosione al mattino del 12 dicembre. L’allora ministro degli Esteri, autentico artefice della Repubblica, è autore di una controinchiesta, che svela da subito responsabilità, connivenze, scenario in cui la strage si è prodotta. Un ulteriore memoriale Moro. Che annoterà dal carcere Br: «Personalmente ed intuitivamente, non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e manifestare) almeno come solida ipotesi che questi ed altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (tale è proprio la caratteristica della reazione di destra), allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Era tutta la verità. I fantasmi si scatenarono, dagli schermi dei televisori invasero le menti degli italiani, che si allenavano a diventare un popolo di spettatori. Quella fosforescenza in bianco e nero è una forma della Repubblica.
Si rivedono in bianco e nero i funerali delle 17 vittime (i feriti furono 88, tra cui un bambino a cui verrà amputata la gamba: un altro fantasma personale e generazionale), partecipati da “una folla composta” e oceanica, nel gelo decembrino milanese e nel clima glaciale che andrà a ossessionare non soltanto me, ma tutta l’Italia, per anni. In bianco e nero avviene l’apparizione sconcertante dell’imputato Franco Giorgio Freda, ordinovista, stalagmite nazimaoista, nel 1977, quando sto alle elementari e il processo per piazza Fontana è stato trasferito da Milano nella città di Catanzaro, che io e i miei coetanei scopriamo esistere come luogo in cui compare questo anti-Moro dai capelli precocemente imbiancati, il golf chiaro a collo alto accecante come la sua cofana, il volto scolpito e il lessico antisalgariano, tutto metafore taglienti e verbi squadrati (nel confronto con l’agente segreto Guido Giannettini, secondo Freda costui «afferma una menzogna con notevole impudenza» e deve «estrinsecarsi»). Freda sarà assolto per insufficienza di prove, ma resterà stampato nell’orrendo Parnaso italiano del terrore. Mi tornerà addosso quando io e la strage compiamo vent’anni, come reggente del Fronte Nazionale, una formazione extraparlamentare di estrema destra, che ha per simbolo una svastica a metà e aggredisce l’invasione dei migranti, chiamandoli “allogeni extraeuropei”. In quel caso, a difendere Freda sarà Carlo Taormina, avvocato pop nell’arco della seconda Repubblica, in cui, rivestendo la carica di sottosegretario agli Interni, attaccherà i procedimenti su piazza Fontana, che continuano a perseguire una verità inaccertabile.
L’Italia rovinava con i suoi misteri, ombrosi a chiunque e chiarissimi a tutti. Io e la strage invecchiavamo insieme. Non mi riusciva di dire, come Pasolini nella memorabile poesia “Patmos”, «oppongo al cordoglio un certo manierismo». La strage era un’esplosione inestinta, che non smetteva di esplodere, così come la ragazza Orlandi non smetteva di scomparire, Alfredino non smetteva di inabissarsi, Moro non smetteva di parlare la sua lingua precisa e articolata. Non smettevano di morire. Le bombe erano due o erano una? E gli americani? Adriano Sofri precisava davvero la realtà dei fatti nel suo “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”? Perché non cessava di rimbombare l’inchiesta di Camilla Cederna su Pinelli? Fino a questi giorni, alla catatonia dell’attuale vicepremier Luigi Di Maio davanti a Mario Calabresi che contesta l’incredibile causa che il Movimento gli ha intentato, denunciando Luigi Calabresi. Un ulteriore e sconcio buco: il Buco diventa lo spazio abissale in cui la memoria affonda, la verità e la menzogna non hanno interrotto il loro eterno lavorìo tutto italiano, mentre l’oblio è un nuovo valore collettivo. Io, noi, invece: ricordo, ricordiamo. I giudici Calogero e Stiz, D’Ambrosio che indaga i fascisti e poi diviene uno dei volti dell’affaire Tangentopoli, Ventura che in Argentina pubblica le poesie di Zanzotto, l’inchiesta di Franco Lattanzi detto Sbancor che viene trovato morto mentre sta scrivendo un testo cruciale sulla strage, l’agente neofascista internazionale Guérin Sérac, Pietrostefani e Bompressi, il questore Guida, quelli del Sid, i supposti pentiti Digilio, Delfo Zorzi, il giudice Salvini, le vedove, i parenti delle vittime, gli agenti in sonno di Gladio - la danse macabre di Piazza Fontana attraversa la storia italiana. Da quarantanove anni io sono lì, il 12 dicembre alle 16.37, in piazza Fontana. Da decenni ci vado fisicamente, misuro l’estinguersi progressivo della folla che interviene al pubblico ricordo, sono sempre meno, non si alzano più i pugni, nel giardinetto davanti al comando dei vigili c’è la lapide a Pinelli, “ucciso innocente”. La notte della Repubblica era questa: le tenebre della violenza e poi il buio della dimenticanza.
A mia madre, che mi aveva partorito in quel momento tragico, ridiedero il corredino, ritrovato come uno straccio tra i ruderi, accanto al buco al centro della Banca dell’Agricoltura. Il cognome rammendato a filo azzurrino aveva permesso di riportare in ospedale il reperto. Il ricordo, come tutti i ricordi, era santo e raccapricciante. Il cotone bianco era macchiato di sangue coagulato. Il loro sangue era ricaduto su di me: su noi tutti.
La verità, vi prego, su Pinelli. Un saggio di Paolo Brogi aggiunge un nuovo tassello per ricostruire le circostanze in cui morì l'anarchico precipitato da una finestra della Questura di Milano dopo la strage di piazza Fontana. Silvana Mazzocchi il 27 giugno 2019 su La Repubblica. Depistaggi e montature hanno segnato i tanti processi sulla strage di Piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969. A cinquant’anni dall’eccidio, zone d’ombra mai chiarite impediscono ancora la verità sulla morte di Giuseppe Pinelli, detto Pino, 41 anni, ferroviere e anarchico che a pochi giorni dalle bombe, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, precipitò dal quarto piano della Questura di Milano. Una morte allora archiviata come conseguenza di un “malore” e una verità giudiziaria che, fin da subito, non sembrò coincidere con la verità sostanziale. Mentre silenzi, omissioni, menzogne e contraddizioni hanno a lungo impedito di ricostruire con esattezza il quadro in cui, nella Questura milanese, avvennero i fatti. Oggi, un libro, Pinelli l’innocente che cadde giù, firmato da Paolo Brogi, giornalista e scrittore, aggiunge un tassello utile a illuminare almeno la cornice in cui avvenne la morte di “Pino”. Si tratta di un verbale, finora inedito, che racconta come alcuni uomini dell’Ufficio Affari Riservati , il servizio segreto del Viminale, trasferiti da Roma a Milano all’indomani del 12 dicembre, divennero subito di casa in Questura, diventando di fatto i veri “padroni delle indagini”, utili per collegare gli ambienti anarchici alla strage. Il verbale, che contiene la deposizione di un dirigente dell’Ufficio Affari Riservati, (ne parla Paolo Brogi nell’intervista che segue), è oggi pubblico grazie alla Direttiva Renzi che, nel 2014, chiese alle istituzioni di riversare nell’Archivio di Stato tutte le carte riguardanti le stragi. Il contenuto del verbale è importante, è una tessera significativa di un mosaico ben più vasto che intreccia segreti e depistaggi e che aiuta a delineare, attraverso un documento ufficiale, lo scenario che cinquant’anni fa dette inizio alla stagione delle stragi e alla lunga catena dei misteri italiani rimasti in gran parte insoluti. Il libro affronta anche la vicenda umana della famiglia Pinelli e contiene la testimonianza di Claudia e Silvia, le figlie di Giuseppe Pinelli, allora bambine. Oggi donne decise a non dimenticare.
Qual è stato il ruolo dei servizi segreti nella morte di Pino Pinelli?
“La Questura di Milano in quel dicembre del 1969, quando morì l’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dal quarto piano mentre era in corso il suo interrogatorio, pullulava di agenti segreti. Il paradosso, a partire dalle inchieste condotte allora sulla morte di Pinelli, è che di questi uomini degli Affari Riservati – almeno una dozzina arrivati da Roma - non si trova traccia. Fantasmi, che riemergeranno a distanza di venticinque anni quando giudici di Venezia e Milano chiederanno loro conto di quelle giornate milanesi del ’69. Ma a ridosso degli avvenimenti nessuno se ne occupa. Eppure il potente organismo che sarebbe stato finalmente sciolto nel 1974 dopo la nuova strage di Brescia a Piazza della Loggia era lì per dirigere le indagini. Come? Con il teorema anarchico, che la Questura milanese adottò senza incertezze. A guidare il gruppo era Silvano Russomanno, numero due del servizio, un ex repubblichino che dopo l’8 settembre si era direttamente arruolato in un reggimento tedesco e che alla fine della guerra era stato poi portato nel campo di concentramento di Coltano. Al povero Pinelli, che a 15 anni era stato staffetta partigiana, veniva contestato un attentato compiuto il 25 aprile del 1969. Un attentato per il quale sono stati poi condannati i fascisti ordinovisti. Ecco qual era il ruolo dei servizi.”
Il libro contiene un verbale rimasto sepolto tra le carte dell’Archivio Centrale di Stato. Che cosa rivela di quanto accadde mezzo secolo fa?
““A Milano portai io la lista degli anarchici”. Si chiama Francesco D’Agostino e in una deposizione al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni l’ex alto dirigente degli Affari Riservati ha spiegato, nel 1997, cosa successe subito dopo la strage di Piazza Fontana. Il documento appartiene all’inchiesta su un altro attentato del 1973, ma il giudice s’informa anche su Milano nel ‘69. Grazie alla Direttiva Renzi che nel 2014 ha chiesto a tutte le istituzioni di riversare all’Archivio centrale dello Stato i documenti sulle stragi, anche il verbale di D’Agostino è oggi consultabile. Che quadro ci rivela? L’arrivo a Milano, a poche ore dalla strage di Piazza Fontana, di D’Agostino e di Silvano Russomanno. I due alloggiano all’hotel Aosta e sono di casa in Questura, dove spiega D’Agostino il capo dell’Ufficio Politico Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi erano ancora incerti sulla pista da seguire. In sintesi da questo verbale come da quello di altri interpellati viene fuori che gli Affari Riservati erano i “padroni” dell’inchiesta, soggiornavano in Questura dalla mattina alla sera, disponevano di fonti come quella su cui è stato costruito il teorema anarchico.”
Pino Pinelli nella testimonianza di Claudia e Silvia , le figlie allora bambine.
“Claudia e Silvia Pinelli avevano allora solo otto e nove anni. La loro è la storia di un’infanzia rubata, dove Pino è il padre che spesso le andava a prendere a scuola e magari al ritorno disegnava su un muretto l’A cerchiata anarchica, un uomo vivace che come caposquadra ferroviere lavorava spesso di notte e rientrava al mattino, in una casa popolare a San Siro dove la porta era sempre aperta e arrivavano studenti e professori della Cattolica a far battere le loro tesi alla mamma Licia. Di Pino ricordano la piccola moto Benelli che accomodava da solo giù nel cortile sotto casa, la passione per la cucina e i suoi risotti, l’interesse per i libri come la famosa Antologia di Spoon River un cui pezzo è inciso oggi sulla sua tomba a Carrara. Un uomo poco più che quarantenne, impegnato tra incontri, manifestazioni, difesa dei compagni incarcerati. E piuttosto idealista, come hanno ricordato i docenti della Cattolica che frequentavano la sua casa o come lo descrive il primo obiettore di coscienza del servizio militare, il cattolico Giuseppe Gozzini. Uno a cui non piaceva la violenza, da giovane – ha ricordato sua madre Rosa - aveva lasciato la boxe perché non gli andava di picchiare qualcuno.”
Chi era Giuseppe Pinelli. Ferroviere anarchico, aveva partecipato alla Resistenza. Morì in circostanze poco chiare durante un fermo di polizia, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969. L'Espresso il 15 gennaio 2009. Giuseppe Pinelli era un ferroviere anarchico milanese, che da ragazzo aveva partecipato alla Resistenza. Negli Anni Sessanta, svolgeva attività politica con gli anarchici milanesi, in particolare con il Circolo Ponte della Ghisolfa, luogo di animazione storico dell'anarchismo in città. Dopo lo scoppio di una bomba in una sede della Banca nazionale dell'Agricoltura nel centro di Milano (Strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969), Pinelli venne fermato insieme ad altri anarchici milanesi. La Questura di Milano riteneva infatti che l'attentato potesse avere una matrice anarchica, e aveva accusato in particolare Pietro Valpreda (che poi verrà assolto).
Il 15 dicembre, tre giorni dopo la strage, Pinelli si trovava negli uffici della questura milanese, al quarto piano di via Fatebenefratelli, dove si era recato da solo - con il proprio motorino - convocato dal giovane commissario Luigi Calabresi, che Pinelli già conosceva. Nell'ufficio di Luigi Calabresi, Pinelli fu interrogato per ore dallo stesso commissario e da altri ufficiali, tra cui Antonino Allegra, responsabile dell'ufficio politico della questura. Il questore di Milano era Marcello Guida, già direttore del confino politico cui venivano condannati gli antifascisti a Ventotene. Nella serata del 15 dicembre, attorno a mezzanotte, il corpo di Pinelli precipitò dalla finestra e si schiantò nel cortile della questura.
Ma quale fu la reale dinamica di quella morte? Cadde? Fu buttato? si suicidò?
In una prima fase la polizia riferì che Pinelli si era suicidato, gettandosi dalla finestra. Più avanti cambiò versione, parlando di una caduta accidentale. Successivamente a una serie di inchieste e dopo la riesumazione del cadavere, la magistratura stabilì che Pinelli era caduto per un "malore attivo", cioè si era avvicinato alla finestra e a seguito di un malore aveva perso l'equilibrio ed era precipitato. Una violenta campagna di stampa dell'estrema sinistra, e in particolare di "Lotta Continua", indicò il commissario Luigi Calabresi come assassino di Pinelli.
Il 15 maggio 1972 Luigi Calabresi venne ucciso a Milano. Nel luglio del 1988 la Procura di Milano arrestò quattro ex membri di Lotta Continua: Adriano Sofri, Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Leonardo Marino. L’accusa si basava sulle parole di Marino, che sosteneva di aver svolto la funzione di autista in quell'omicidio, mentre Bompressi sarebbe stato l'esecutore materiale, Sofri e Pietrostefani (che di Lotta Continua erano i dirigenti) i mandanti. Dopo diversi processi, nel 2000, la Cassazione ha reso definitiva l'ultima sentenza della Corte d'Assise di Appello che aveva condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri a 22 anni (per Marino 11 anni, con prescrizione). Attualmente Adriano Sofri si trova in detenzione domiciliare per motivi di salute. Bompressi è stato graziato da Napolitano. Pietrostefani vive in Francia ed è ufficialmente latitante.
Piazza Fontana, quando morì Pinelli, in questura c’erano i depistatori dei servizi segreti. Le manovre per incastrare l’anarchico e proteggere i terroristi neri. L’interrogatorio fatale con almeno nove agenti segreti. Il poliziotto «graffiato». E l’appuntato in ambulanza con il moribondo. Un libro-inchiesta riapre il mistero della «diciottesima vittima» della strage di piazza Fontana. Paolo Biondani il 13 giugno 2019 su L'Espresso. Nella notte in cui morì Pinelli, in questura a Milano non c'erano solo i normali poliziotti. C'era anche uno squadrone di agenti e alti dirigenti del servizio segreto civile dell'epoca, l'Ufficio affari riservati, inviati da Roma con una missione di depistaggio: incastrare gli anarchici milanesi per la strage di piazza Fontana e per l'intera catena di attentati esplosivi del 1969, che inaugurarono gli anni del terrorismo politico in Italia. Una pista rivelatasi falsa, totalmente demolita dalle indagini e dai processi che negli anni successivi hanno comprovato le responsabilità dei veri criminali di opposta matrice ideologica: l'estrema destra eversiva. In questi tempi di leader politici e ministri che sdoganano movimenti apertamente neofascisti, giovani che si lasciano irretire da ex terroristi neri condannati per banda armata, neonazisti che tornano alla violenza e inneggiano al razzismo, anarchici delinquenti che spediscono pacchi-bomba per ferire o uccidere, la storia dell'innocente ferroviere Giuseppe Pinelli, arrestato ingiustamente per un eccidio infame e morto misteriosamente dopo un interrogatorio costellato di accuse false, andrebbe spiegata nelle scuole, ai tanti ragazzi che poco o nulla sanno di piazza Fontana e delle troppe vittime dirette e indirette degli anni di piombo. A raccontare tutto quello che si sa, oggi, sulla «diciottesima vittima» della prima strage nera è un libro di Paolo Brogi (“Pinelli, l'innocente che cadde giù”, editore Castelvecchi), giornalista e saggista che ha lavorato per anni al Corriere della Sera: un lavoro di ricostruzione che non azzarda improbabili scoop storici, ma mette in ordine fatti documentati, testimonianze inedite, carte inoppugnabili, recuperate negli archivi di polizie e tribunali. Che offrono poche, solide certezze: non tutta, ma almeno un pezzo di verità e di giustizia. Per i lettori più giovani, conviene partire dall'inizio. Giuseppe Pinelli è un ferroviere milanese che viene arrestato il 12 dicembre 1969, poche ore dopo la strage di Piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), nella stessa retata che colpisce decine di innocenti, tutti poi scagionati. Un poliziotto onesto oggi racconta che «per fare numero, ci dissero di fermare anche i barboni». Pinelli viene trattenuto illegalmente per tre giorni in questura, senza avvocato, senza alcuna autorizzazione dei giudici. Tra il 15 e 16 dicembre, poco dopo la mezzanotte (ma anche l'ora è controversa), alla fine di un lunghissimo interrogatorio, precipita da una finestra della questura e muore. La notte stessa il questore Marcello Guida, in una conferenza stampa improvvisata, dichiara che Pinelli si sarebbe lanciato dalla finestra «con un balzo felino» perché era colpevole: «Era un anarchico individualista, il suo alibi era crollato, si è visto perduto: è stato un gesto disperato, una specie di auto-accusa». Queste parole, oggi, risultano totalmente false: Pinelli non era colpevole, non si è suicidato, non era neppure un anarchico individualista, ma un pacifista di famiglia partigiana, amico del primo obiettore di coscienza cattolico che rifiutò le armi e il servizio militare.
Quella notte in Italia nasce anche la prima squadra di giornalisti d'inchiesta capaci di mettere in dubbio e contraddire la versione ufficiale. Il libro cita maestri oggi scomparsi come Marco Nozza e trascrive per intero la storica cronaca di Camilla Cederna, grande penna dell'Espresso, che quella notte fu «tirata giù dal letto da Giampaolo Pansa e Corrado Stajano». Giornalisti straordinari, di testate diverse, che lavorano insieme e firmano un libro-inchiesta profetico, «Le bombe di Milano», il primo a parlare di stragi nere. Per anni gli apparati dello Stato continuano invece ad incolpare solo gli anarchici. Alcuni sono in carcere già da prima della strage, con l'accusa, anch'essa falsa, di aver organizzato gli attentati esplosivi del 25 aprile 1969 in stazione e alla fiera di Milano. Lo stesso Pinelli, nel fatale interrogatorio, si vede contestare di aver collocato le bombe precedenti, nascoste su otto treni nell'agosto 1969. Pietro Valpreda, arrestato come stragista la mattina del 15 dicembre, resta in carcere per più di tre anni, fino all'approvazione della legge sui termini massimi di carcerazione preventiva, che porta il suo nome. È l'unico imputato ad essere assolto già in primo grado.
La pista anarchica frana solo a partire dal 1971, quando a Castelfranco Veneto si scopre un arsenale di armi ed esplosivi del gruppo nazi-fascista guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura. La svolta fa riemergere altre prove fino ad allora ignorate, come le intercettazioni eseguite da un ottimo poliziotto di Padova (nel frattempo rimosso) e la testimonianza di un insegnante veneto, Guido Lorenzon, a cui lo stesso Ventura aveva confessato la strage del 12 dicembre 1969, pochi giorni dopo, organizzata «per favorire un golpe». A quel punto le indagini passano a Milano, dove il giudice Gerardo D’Ambrosio, con i pm Luigi Fiasconaro ed Emilio Alessandrini (poi ucciso dai terroristi rossi di Prima Linea), raccolgono prove gravissime contro quella cellula veneta di Ordine nuovo. L’inchiesta milanese accerta, tra l'altro, che Freda ha acquistato una partita di «timer a deviazione» identici a quelli della strage (e delle altre 4 bombe del 12 dicembre '69). Nel 1973, dopo l’arresto (e prima della provvidenziale fuga in Argentina), Ventura arriva a confessa tutti gli altri attentati esplosivi del 1969, tranne piazza Fontana. Quindi è il gruppo Freda che ha collocato le bombe in stazione, in fiera e sui treni delle vacanze, per cui furono invece incarcerati ingiustamente gli anarchici milanesi.
Quando i magistrati milanesi scoprono i rapporti tra i terroristi neri e il servizio segreto militare (il famigerato Sid), la Cassazione sposta il processo a Catanzaro. Dove Freda e Ventura, dopo la condanna in primo grado, vengono assolti per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi) per la strage, ma condannati con sentenza definitiva per gli altri 17 attentati del 1969. Compresi quelli attribuiti falsamente a Pinelli. Nei successivi processi di questi anni, da Milano a Brescia, le sentenze dichiarano dimostrata, grazie a nuove prove, la responsabilità storica anche per piazza Fontana degli stessi terroristi neri Freda e Ventura, non più processabili perchè ormai assolti.
Sulla morte di Pinelli, invece, non c'è ancora giustizia. Il libro di Brogi ricostruisce però importanti pezzi di verità. Partendo da un verbale dimenticato, ritrovato nell'archivio di Stato, si scopre che in questura a Milano, durante il fatale interrogatorio, c'erano almeno nove agenti segreti, guidati da Silvano Russomanno, un ex fascista repubblichino diventato il numero due dell'Ufficio affari riservati. Sono gli stessi agenti che con la «squadra 54» hanno creato la falsa pista anarchica. Ed è Russomanno in persona che ha raccolto i falsi elementi contestati a Pinelli, nel vergognoso tentativo di incastrarlo per le bombe sui treni. Il saggio rilegge criticamente tutte le indagini sulla morte dell'anarchico. La prima inchiesta che insabbiò il caso, sposando la tesi del suicidio del colpevole, senza neppure ordinare l'autopsia. La preziosa istruttoria in tribunale, in un processo per diffamazione. E l'indagine successiva del giudice D'Ambrosio, che a distanza di anni arrivò a dimostrare con certezza i primi pezzi di verità: Pinelli non era colpevole di nessun attentato; e non si è suicidato. Dopo la vedova Licia, che firmò un famoso libro con Piero Scaramucci (“Una storia quasi soltanto mia”), in questo saggio parlano per la prima volta le figlie di Pinelli, Claudia e Silvia. Che raccontano la tragedia familiare vissuta da bambine. L'emozione per l'invito al Quirinale per il “giorno della memoria”, nel 2009, quando l'allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, inserisce anche Pinelli tra le vittime del terrorismo, mentre la vedova stringe la mano ai familiari di Luigi Calabresi: il commissario di polizia che fu ucciso da un killer rosso per ordine dei capi di Lotta Continua, proprio perché sospettato (ingiustamente: non era neppure nella stanza) della morte dell'anarchico. Claudia Pinelli rivela anche una sofferta confidenza di D'Ambrosio. Sempre nel 2009, a una commemorazione per piazza Fontana, l'ex giudice le si avvicina per chiederle scusa a nome dello Stato: «Mi devo giustificare con lei. Ho fatto quello che ho potuto. Sono stato il primo magistrato a fare i rilevamenti, tre anni dopo, ma avevo tutti contro».
Il libro contesta il verdetto finale di D'Ambrosio, che in mancanza di qualsiasi elemento per parlare di omicidio, dopo aver escluso il suicidio, ipotizza una caduta involontaria di Pinelli, stremato da tre notti insonni con arresti illegali e interrogatori truccati. Una tesi poi ridicolizzata dall'ultrasinistra inventando l'espressione «malore attivo», mai usata dal giudice. Di certo, nelle diverse indagini sul caso Pinelli, i testimoni continuano a cambiare versione dei fatti. Gli unici agenti identificati come partecipanti all'interrogatorio di Pinelli sono un carabiniere e quattro poliziotti (all'epoca erano tutti militari). Nella prima indagine dichiarano in coro di aver visto Pinelli «che con un balzo improvviso si gettava dalla finestra», come sostenevano i loro capi. Nelle istruttorie successive, però, quattro su cinque ritrattano, finendo per ammettere di non aver assistito al volo dell'anarchico. Solo un poliziotto insiste di averlo visto lanciarsi dalla finestra. E giura persino di aver cercato di fermarlo, afferrandolo per una gamba, tanto da subirne «un graffio». Uno strano contatto fisico, di cui l'agente parla per la prima volta davanti a D'Ambrosio, il temuto giudice di piazza Fontana, sostenendo di essersi ricordato di quell'escoriazione solo poco prima dell'interrogatorio, anni dopo i fatti, discutendo con un altro collega a sua volta convocato come teste, che avrebbe quindi potuto parlarne per primo. I nuovi elementi sui depistaggi, emersi solo a partire dagli anni Novanta, portano Brogi a rivalutare soprattutto la testimonianza di Pasquale Valitutti, l'unico anarchico rimasto nello stanzone dei fermati durante tutto l'interrogatorio di Pinelli. Valitutti testimonia fin dall'inizio di aver «sentito chiaramente, circa un quarto d'ora prima della morte di Pinelli, un insieme di rumori che mi hanno fatto pensare: “Stanno picchiando Pino”». E aggiunge che, subito dopo il fattaccio, mentre in questura scoppiava il caos, un brigadiere di polizia «molto alterato» (lo stesso che poi parlerà del “graffio”) gli urlò senza motivo che «Pinelli era un delinquente» e «si era buttato perché coinvolto». Già allora l'anarchico testimonia che a quel poliziotto «si aggiunsero quattro o cinque persone in borghese, a me non note, che mi portarono nella stanza seguente». Col senno di poi, è un chiaro riferimento agli agenti segreti della squadra depistaggi, che dopo decenni di silenzio hanno poi confermato di essersi «installati» in questura subito dopo la strage. Con l'obiettivo dichiarato di «accusare gli anarchici», alimentando ad ogni costo la falsa pista preconfenziata «dai vertici dei servizi a Roma».
Un'altra catena di stranezze evidenziata nel libro è la reazione degli agenti della questura al preteso suicidio (oppure all'ipotetica caduta involontaria). Dagli atti risulta che solo un carabiniere si precipita nel cortile, dove Pinelli è ancora agonizzante. Tutti i poliziotti (come gli agenti segreti di cui per anni si ignora perfino la presenza) restano invece nei loro uffici in questura, senza curarsi delle condizioni della vittima. Eppure, dopo l'arrivo degli infermieri, un appuntato di fiducia dei capi s'infila nell'ambulanza con il ferito gravissimo. Ed entra addirittura nella sala operatoria dell'ospedale, dove resta fino alla morte di Pinelli. Il libro riconosce che a tuttoggi non è emerso alcun riscontro oggettivo all'ipotesi di un omicidio o di un pestaggio alla Cucchi, ma conclude che troppi fatti anomali, come l'assurdità di mandare un agente in sala operatoria a sorvegliare un moribondo, continuano a sollevare interrogativi inquietanti: «Perché tutto ciò? Cosa si temeva che dicesse Giuseppe Pinelli?»
Pinelli me l'hanno ucciso mille volte. La tragedia. Le "bugie dei processi". Le difficoltà della sua famiglia. Parla la vedova dell'anarchico Colloquio con Licia Pinelli. Chiara Valentini il 15 gennaio 2009 su L'Espresso. Non è facile avvicinare Licia Rognini. Da quella notte di quasi quarant'anni fa, quando suo marito, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, era volato giù dal quarto piano della Questura di Milano, ha sempre scelto di parlare pochissimo. Ma il rumore che ancor prima di arrivare in libreria ha provocato il libro di Adriano Sofri anticipato da 'L'espresso' ('La notte che Pinelli', Sellerio) l'ha convinta. Di quelle vicende drammatiche che hanno cambiato per sempre la sua vita d'altra parte Licia Pinelli non ha mai smesso di occuparsi. Attiva e lucidissima a 81 anni compiuti (ma ne dimostra dieci di meno), nella sua casa dietro Porta Romana a Milano sta scannerizzando la montagna degli atti dei vari procedimenti giudiziari "perché la carta cominciava a disfarsi e invece la memoria deve restare". Ma va anche a scuola di yoga, si occupa dei quattro nipoti che ha avuto dalle figlie Claudia e Silvia, bambine di 8 e 9 anni al momento della tragedia. E con un'amica scrive inaspettatamente piccoli trattati di astrologia, quasi una parentesi nella severità della sua vita.
Signora Licia, Sofri ha ricostruito puntigliosamente la vicenda di suo marito sulle carte giudiziarie spiegando, queste sono le sue parole, "è il debito che pago alla memoria di Pinelli". Pensa che ce ne fosse bisogno?
"Molto probabilmente è un lavoro utile. Tanti, da Camilla Cederna a Marcello Del Bosco ad altri l'avevano fatto negli anni '70. Io stessa ne avevo parlato in un libro scritto nell'82 con Piero Scaramucci che è da tempo introvabile. Ma rivedere tutto quel che è successo con gli occhi di oggi, mostrando le contraddizioni dei vari processi, può servire. La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia che deve essere riparata".
Crede che sia possibile?
"Ancora oggi mi è difficile parlarne. Quel che ho vissuto mi ha fatto diventare dura, diffidente. Non sopporto i bugiardi, gli ipocriti, le versioni di comodo. Ma nonostante tutto spero che qualche margine ci sia ancora. Sono troppe le bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D'Ambrosio che conclude per il “malore attivo”. Non posso credere che questa tragedia sia sepolta senza una verità".
Pensa che Sofri, che sta scontando una condanna come mandante dell'omicidio del commissario Calabresi, sia la persona più adatta?
"Non ho mai creduto alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche come ispiratori di quel delitto. Sofri non l'ho mai conosciuto di persona, ma anni fa ho risposto a una sua lettera arrivata dal carcere appunto dicendogli questo. Non so neanche se poi gliel'avevano recapitata".
Alla fine del suo libro è Sofri stesso, che pure si è sempre dichiarato innocente, ad assumersi nuovamente una corresponsabilità morale di quell'omicidio per la campagna di Lotta continua contro il commissario.
"È mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza Fontana".
Qualcuno ha osservato che dopo quarant'anni potrebbe trovare una pacificazione con la famiglia Calabresi, incontrare quell'altra vedova.
"Potrebbe anche darsi".
Che cosa ha provato quando ha saputo della morte del commissario?
"Per me era stato come se mettessero una pietra sopra la ricerca della verità. Ma a caldo avevo avuto anche una reazione emotiva, smarrimento e paura per me e le mie figlie. Non ci potevo credere, non volevo affrontare un'altra tragedia, essere bersagliata di nuovo dalle telefonate, dalle lettere anonime. Pensi che proprio quel giorno, il 17 maggio 1972, a Milano si doveva presentare a Palazzo Reale un quadro di Enzo Baj con la caduta di mio marito dalla finestra della Questura. Ovviamente non se ne fece più niente".
In quegli anni era riuscita a ritrovare un po' di normalità quotidiana?
"Non è stato facile. Per sfuggire all'assedio della stampa ho dovuto cambiare casa e mettere le bambine in una nuova scuola. Eravamo una famiglia di sole donne, noi tre più mia madre e una gatta, che cercavano di far barriera contro le ostilità esterne".
Che cosa l'aveva più colpita?
"C'era stato il tentativo di infangarmi per rendermi meno credibile. Il giudice Caizzi, invece di cercare la verità mi aveva chiesto se avevo degli amanti. Mia suocera poi era stata fermata per strada da uno sconosciuto che le aveva detto: 'Lo sa che sua nuora quella sera era con un altro uomo?'".
Ma aveva anche molte persone che la sostenevano. Pinelli era diventato un simbolo.
"Sì, mi stavano vicino i vecchi amici e poi erano arrivate persone nuove, di un ambiente diverso, come gli avvocati, come Camilla Cederna. Dopo la sua morte è stata volutamente dimenticata, non le hanno perdonato di aver scritto con tanta maestria di Pinelli e di piazza Fontana".
Dario Fo ha raccontato la storia di suo marito in un testo grottesco, "Morte accidentale di un anarchico", che ha contribuito a fargli assegnare il Nobel e che è ancor oggi uno dei lavori più rappresentati al mondo. Si è mai chiesta perché?
"Perché non è una vicenda solo italiana. L'ingiustizia e gli abusi del potere ci sono dappertutto".
Nel libro Sofri ricostruisce i tre giorni di suo marito in questura. Lei che cosa ricorda?
"Fino alle ultime ore non ero molto preoccupata. Pino aveva telefonato più volte per rassicurarmi, aveva una voce calma. Erano anche venuti i poliziotti a frugare in casa e si erano accaniti su una delle tesi di laurea che battevo a macchina per gli studenti della Cattolica. Credo parlasse di una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, ma loro l'avevano presa per un documento sovversivo".
Da chi aveva saputo del volo dalla finestra?
"Da due giornalisti, arrivati all'una di notte. Mi ero precipitata a chiamare in Questura, chiedendo di Calabresi. Me l'avevano passato subito. Chiesi cos'era successo e perché non mi avevano avvertito. 'Sa signora, abbiamo molto da fare', era stata la risposta. La verità è che intanto il questore Guida stava preparando la famosa conferenza stampa dove disse che Pinelli si era ucciso perché schiacciato dalle prove. Il 28 dicembre l'avevo querelato per diffamazione. Ma anche se intanto avevano dovuto ammettere che Pinelli non era colpevole, Guida era stato assolto".
'Le ultime parole' è il titolo di uno dei capitoli del libro di Sofri. Pensa che suo marito abbia cercato di dire qualcosa prima di morire?
"Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".
Sofri conclude il suo lavoro rispondendo con tre semplici parole, "non lo so", alla domanda su come è morto Pinelli. E lei cosa risponde?
"L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo".
La morte di Ivano Toniolo porta con sé i segreti di Piazza Fontana. Con lui se n’è andato l’ultimo grande testimone delle stragi impunite che hanno insanguinato il nostro Paese tra il 1969 e i primi anni Ottanta. L'ordinovista padovano da tempo viveva in Angola, dove è deceduto per febbre malarica senza essere mai stato interrogato nonostante gli appelli in tal senso dell'allora Presidente della Repubblica Napolitano. Andrea Sceresini l'11 dicembre 2016 su L'Espresso. Nessuno sa, con esattezza, che cosa abbia fatto negli ultimi quarant’anni. Neppure i magistrati, che pure, dopo le recenti rivelazioni sul suo conto, non lo hanno mai cercato. E ormai è troppo tardi: Ivano Toniolo è deceduto in Angola circa un anno fa – ironia della sorte - proprio a ridosso del 12 dicembre, l’anniversario della strage di piazza Fontana. La data esatta non è chiara, così come non lo sono molti particolari della vita di questo misterioso personaggio, il cui nome, probabilmente, risulterà ignoto ai più. Eppure, se avesse parlato, Toniolo avrebbe potuto forse fare chiarezza su una delle pagine più oscure e drammatiche della storia repubblicana: l’eccidio del 12 dicembre 1969 presso la Banca nazionale dell’agricoltura. Era il maggio del 2000, quando in un’aula di Assise di Milano, durante il primo grado dell’ultimo processo sulla strage, l’ex ordinovista padovano Gianni Casalini ammise clamorosamente che gli attentati ai treni dell’8 e 9 agosto 1969 – considerati dalla magistratura come la “prova generale” della strage di piazza Fontana – erano stati opera sua e dei suoi camerati. Casalini stesso aveva partecipato al collocamento di due ordigni all’interno di altrettanti convogli in sosta presso la Stazione Centrale di Milano (uno dei quali era esploso, pur non causando vittime). Casalini aggiunse spontaneamente un altro particolare importante: colui che lo aveva arruolato per l’operazione, e che fisicamente aveva recuperato l’esplosivo e innescato le bombe, era proprio Ivano Toniolo, il “duro” della cellula nera guidata da Franco Freda e Giovanni Ventura, che la Cassazione avrebbe indicato, nel 2005, come il “gruppo eversivo” responsabile dell’eccidio del 12 dicembre. Padovano, classe 1946, figlio di una dirigente locale dell’Msi, amico fraterno di Franco Freda, Ivano Toniolo era considerato un uomo d’azione. Già militante della Giovane Italia, durante gli anni dell’università si era spostato verso posizioni sempre più estreme, aderendo poi alla cellula padovana di Ordine Nuovo, che di lì a poco avrebbe abbracciato lo stragismo. La grande svolta – stando alle ricostruzioni della magistratura – sarebbe avvenuta durante una riunione riservata che si tenne a Padova il 18 aprile 1969, presenti Freda, Ventura, il bidello neofascista Marco Pozzan, Toniolo e due misteriosi personaggi arrivati da Roma, le cui identità non sono mai state accertate: in quell’occasione, gli ordinovisti patavini pianificarono i primi attentati dinamitardi che sarebbero culminati, otto mesi più tardi, nell’esplosione di piazza Fontana.
L’incontro – secondo quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche dell’epoca, i cui contenuti sono stati poi confermati da Gianni Casalini – si sarebbe svolta proprio a casa di Toniolo. “Dopo l’udienza del 2000 nessuno si è più occupato di Casalini - racconta il giudice Guido Salvini, autore dell’ultima istruttoria sulla strage -. Nel 2009 egli mi ha scritto una lettera, sono andato a trovarlo diverse volte a Padova e mi ha raccontato molte altre cose. Ivano Toniolo, a quanto riferito dal suo ex camerata, era un elemento operativo di primo piano, gestiva uno degli arsenali del gruppo e aveva partecipato alla strage, o quantomeno sapeva ciò che era successo. Sin da allora avevo scritto alla Procura di Milano, nella persona del dottor Spataro, invitandola ad attivarsi per sentire Toniolo, e lo stesso aveva fatto il difensore delle vittime l’avvocato Federico Sinicato. Non vi fu nessuna risposta. Eppure per trovarlo sarebbe bastato fare una telefonata al Consolato in Angola. Proprio nel 2009 il presidente Napolitano aveva esortato i magistrati a cercare ancora ogni “ogni elemento di verità”: un invito che purtroppo è rimasto del tutto inascoltato”. L’ipotesi del coinvolgimento di Toniolo nella strage è stata recentemente confermata dal generale Gian Adelio Maletti, ex numero due del Sid, il servizio segreto militare, condannato in via definitiva per i depistaggi alle indagini e tuttora latitante in Sudafrica. “Il commando stragista era composto da quattro persone - ha dichiarato in un’intervista del 2009 – Io conosco dei nomi, anche di gente mai indagata. Quello di Toniolo è uno di essi, e sto parlando di chi partecipò attivamente all'organizzazione dell'iniziativa”. Toniolo fu interrogato in un’unica occasione, nel 1972, dal giudice Giancarlo Stiz, che per primo - quando gli unici indagati per la strage erano ancora gli anarchici - intuì l’esistenza di una “pista nera”. Proprio all’indomani di quell’interrogatorio, Toniolo lasciò precipitosamente l’Italia. Prima si rifugiò nella Spagna franchista, poi in Angola, dove ha trascorso indisturbato il resto della sua vita. Quali sono le ragioni di una fuga così precipitosa? Quali segreti custodiva il “duro” del gruppo padovano di Ordine Nuovo?
Probabilmente non lo sapremo mai. Con Toniolo se n’è andato, forse, l’ultimo grande testimone delle stragi impunite che hanno insanguinato il nostro Paese tra il 1969 e i primi anni Ottanta (l’unico bombarolo nero reo confesso e condannato in via definitiva dalla magistratura è stato l’ordinovista Vincenzo Vinciguerra, autore, nel 1972, dell’attentato di Peteano). Durante gli anni del suo “esilio” angolano, Toniolo era riuscito a edificare intorno a sé un vero e proprio sistema di protezione. Aveva sposato una donna del posto, nipote di un importante esponente dell’Mpla, il movimento fino-cubano che da quarant’anni governa il Paese, e, a quanto sembra, aveva persino cambiato cognome. “E’ un uomo molto schivo, soprattutto con i connazionali – ci aveva rivelato qualche anno fa uno dei pochi imprenditori italiani residenti in pianta stabile a Luanda -. Sappiamo che è fuggito dall’Italia per ragioni politiche, ma la nostra convinzione era che avesse militato in qualche formazione dell’estrema sinistra, non certo in Ordine Nuovo”. Non deve essere stato facile farla franca per una vita intera. Eppure Ivano Toniolo ce l’ha fatta: il decesso – a quanto apprendiamo – è avvenuta “per febbri malariche”. Non sappiamo se abbia lasciato qualcosa di scritto, né dove si trovi la sua tomba. Quello che è certo, è che nessuno potrà più interrogarlo.
· Strage alla stazione di Bologna.
Strage di Bologna: il Comune conferma la dispersione dei resti umani delle vittime. Massimiliano Mazzanti martedì 17 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Bologna, riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, Le parti civili hanno terminato le loro arringhe, nel processo per la strage di Bologna. A concludere questo passaggio, l’Avvocatura dello Stato che ha chiesto alla Corte d’Assise di condannare Gilberto Cavallini anche al pagamento “in solido” – con Francesca Mambro e Valerio Fioravanti – del risarcimento di oltre due miliardi di euro. Quei due miliardi di euro allo Stato che tanta ironia avevano suscitato nella stampa nazionale parecchi mesi addietro. In attesa delle arringhe difensive, previste per i giorni 8 e 9 di gennaio, si fanno altri passi avanti nella vicenda di “Ignota 86”. Il Comune di Bologna, rispondendo a un’interrogazione presentata da una consigliera della Lega, Paola Francesca Scarano, ha confermato clamorosamente l’ipotesi avanzata dal Secolo d’Italia: tutti i resti umani raccolti alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 sono stati fatti sparire. Non esistono negli archivi comunali né “atti di morte” né moduli per la “inumazione dei resti umani appartenenti a persona non identificata”. Documenti, insomma, che attestino la sepoltura delle tante parti di corpi umani che pure furono ritrovate tra le macerie della stazione. Per altro, a fronte di questa conferma burocratica, c’è il registro del Cimitero monumentale della Certosa. Qui non è annotata – tra l’agosto e il dicembre 1980 – nessuna sepoltura o cremazione dei resti umani delle vittime della Strage di Bologna. Eppure, nei giorni successivi all’attentato, questa pietosa operazione finì sui giornali. Sul Resto del Carlino, Lamberto Sapori precisò anche la quantità di questi “resti” (tra cui mani, piedi, ecc.) nel numero di 57. Dunque, molti, molti più di quelli indicati il 6 agosto 1980 dal procuratore Luigi Persico, nel documento in cui disponeva la sepoltura di 11 di questi resti. Queste sepolture, però, non avvennero mai. Qualcuno – chissà per quale oscuro motivo – fece sparire tutte queste macabre testimonianze dell’esplosione. Appare impossibile l’ipotesi alternativa, quella della semplice incuria. Non solo perché queste operazioni sarebbero dovute avvenire a tre, quattro giorni dall’esplosione, quando il “clima emergenziale” in Comune e alla Medicina legale era già cambiato. Appare impossibile perché sono troppe le persone che si sarebbero dovute comportare in modo non corretto. Lo Stato civile del Comune, che non avrebbe redatto gli atti disposti dalla Procura. Il servizio dei necrofori, che avrebbero trasportato questi resti al cimitero privi della necessaria documentazione. La Polizia mortuaria, che avrebbe provveduto alla sepoltura in mancanza di attestazione e senza registrare l’operazione d’inumazione (o cremazione) nell’apposito registro. L’unica spiegazione possibile è che si è tentato – e si è riuscito – di far sparire tutto, affinchè nessun’altra persona potesse un domani testimoniare che cosa effettivamente fu seppellito in quei giorni. A questo punto, diventa ancor più importante la ricognizione dei registri della Medicina legale, richieste nelle settimane scorse dalla difesa di Cavallini.
Cronista del Secolo nel mirino. Ma che cosa si sono messi in testa i magistrati di Bologna? Francesco Storace mercoledì 4 dicembre2019 su Il Secolo d'Italia. Vostro onore, risponda adesso alle nostre domande pubbliche, perché neppure la magistratura di Bologna può usare il potere di intimidazione, soprattutto nei confronti della stampa, a partire dal Secolo d’Italia. Non sarà certamente il suo caso, dottor Michele Leoni. Ma neanche il presidente della Corte di Assise che giudica su un nuovo filone del processo per la strage di Bologna può assimilare ad un reato la domanda di un giornalista. In sostanza, che cosa vi siete messi in testa, magistrati di Bologna (e vostri colleghi di Ancona, competenti per quel che riguarda i giudici emiliani)? Un nostro collega, Silvio Leoni, da anni segue decine di inchieste su fatti rilevanti di cronaca, inclusa quella giudiziaria. Ed indubbiamente tutto quello che è seguito all’orrenda strage alla stazione del 1980 è per noi motivo di interesse. Perché vogliamo che si anteponga la ricerca della verità a quella dei colpevoli qualunque.
Un colloquio garbato trasformato in reato per il cronista del Secolo. Silvio Leoni ha telefonato a quel magistrato, con cui è solamente omonimo. Ci ha raccontato il colloquio, assolutamente garbato, incluso il cortese rifiuto del presidente Leoni a rilasciare dichiarazioni sul processo. Una telefonata del 18 ottobre, durata probabilmente un minuto. Avvalorata, quanto alla bontà del comportamento del nostro cronista, persino da due messaggi successivi su whatsapp. Il primo, del giornalista, che comunque ci tiene a salutare rispettosamente il magistrato. E il giudice, col secondo messaggio che lo ringrazia. Avrebbe potuto non farlo se si fosse sentito minacciato. Abbiamo chiesto a Leoni se gli ha riferito che era del Secolo. “No, gli ho semplicemente detto che sono un giornalista di Roma”. Fa sempre così, il presidente della Corte d’Assise? Con tutti i giornalisti che lo chiamano con correttezza e rispetto? Oppure. l’azione è stata decisa solo quando si è “scoperto” che Leoni lavora con noi? Una ventina di giorni dopo, si presentano i carabinieri a casa del nostro collega e gli sequestrano il cellulare per minacce e violazione di sistema informatico. Minacce inesistenti. Nessuna violazione, perché per un giornalista cercare e trovare un numero di telefono di un magistrato non è roba che si reperisce frugando in chissà quale archivio dei servizi segreti. Basta chiamare un collega di Bologna…
Quel telefonino sequestrato, dissequestrato e risequestrato…Tanto è vero che il tribunale del riesame di Ancona dissequestra il telefonino di Silvio Leoni. La pm si arrabbia e lo sequestra di nuovo, questa volta – anche con qualche traccia di confusione a verbale – incrimina il giornalista del Secolo d’Italia per violenza o minaccia ad un corpo giudiziario. Crediamo che si sia superato ogni limite e ora siamo noi a pretendere spiegazioni. State forse insinuando che Leoni – quello nostro e non quello vostro – volesse influenzare il processo con una domanda? E siccome da nessuna delle carte esiste una sola traccia che possa minimamente avvalorare quello che pare un vero e proprio processo alle intenzioni, si tira fuori persino lo specchietto retrovisore dell’auto del presidente Leoni frantumato nella sua città, Forlì. Sarà stato il nostro pericoloso cronista, magari in un viaggio alla volta di Predappio? Poi, si parla di una strana telefonata anonima in dialetto siciliano allo stesso magistrato. Pure quella parto redazionale? Tutte queste illazioni lasciano invece pensare noi. Perché ci sono troppi non detto in questa mirabolante inchiesta. Sembra un romanzo di quelli in cui qualcuno decida illegalmente di pedinare, seguire, intercettare chi fa il proprio lavoro da cronista sulla strage di Bologna e i suoi misteri. In quel telefono sequestrato troverete tanti messaggi, cazziatoni compresi, di una testata online che vive di clic e di whatsapp. E come vi permettete voi di origliare quel che si dicono i giornalisti del Secolo d’Italia con un loro collega? Finisca subito questa commedia.
Strage di Bologna. Il mistero di Maria Fresu e dell’ 86esima vittima. Paolo Delgado il 3 Novembre 2019 su Il Dubbio. Maria Fresu è una delle 85 vittime della strage. Il corpo non è mai stato ritrovato. Il lembo facciale di una vittima per quasi 40 anni attribuito a lei, ma l’esame del DNA, disposto solo nei mesi scorsi, ha dimostrato che così non è. «Allora Maria dov’è finita?» : dicono, ma chi sa se è vero, che un parente di Maria Fresu sia sbottato così quando mercoledì sera Michele Leoni, presidente della corte d’assise di Bologna che sta processando l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980, ha letto l’ordinanza con la quale la corte rifiuta nuove perizie per verificare di chi siano i resti sinora attributi a Maria Fresu. La donna è una delle 85 vittime della strage. Il corpo non è mai stato ritrovato. Il lembo facciale di una vittima letteralmente polverizzata dall’esplosione è stato per quasi 40 anni attribuito a lei. L’esame del DNA, disposto solo nei mesi scorsi, ha dimostrato che così non è, ponendo dunque due quesiti: che fine ha fatto la salma di Maria Fresu e a chi appartiene quel lembo facciale. E’ inevitabile infatti chiedersi se non appartenesse a una ottantaseiesima vittima, forse la persona che trasportava l’ordigno essendo altrimenti difficilmente spiegabile un effetto così devastante dell’esplosione. Per accertare l’eventualità che quel lembo appartenesse invece a una delle altre vittime erano necessari alcuni esami del dna. Non moltissimi: sette. Tanti sono infatti i corpi rinvenuti ai quali potrebbero essere fatti risalire quei macabri resti. La difesa di Cavallini aveva chiesto quei sei esami del DNA. La corte ha negato le analisi perché «la perizia sul DNA delle presunte spoglie di Maria Fresu non ha dato esiti univoci e sicuri quali ad esempio la riconducibilità di tali resti a una sola persona» e di conseguenza «l’eventuale espletamento di altre perizie sul DNA porterebbe comunque a un binario morto». E’ una spiegazione in realtà insostenibile. E’ vero infatti che i presunti resti della Fresu sui quali è stato operato l’esame del dna corrispondono a due persone diverse, nessuna delle quali era Maria Fresu. Ma mentre per alcuni resti, le dita, è facilmente presumibile che si tratti di una conseguenza del caos del 2 agosto 1980 dopo l’attentato, per la faccia non è così. L’analisi del DNA si sarebbe dunque potuta fare tranquillamente solo sul reperto realmente significativo e misterioso. La difesa ritiene di avere ancora una freccia al proprio arco. Uno dei legali di Cavallini, l’avvocato Alessandro Pellegrini, ha presentato mercoledì una richiesta di rimborso per 348mila lire avanzata nell’ottobre del 1980 dal perito della procura Pierlodovico Ricci per le pellicole, lo sviluppo e la stampa, di 112 fotografie delle vittime. Le foto esisterebbero e sarebbero contenute in un faldone riservato e non consultabile, per le norme sulla privacy, depositato al Comune di Bologna. In quelle foto, inspiegabilmente mai entrate nei fascicoli processuali, si distinguerebbe, secondo chi le ha viste, una donna senza volto e di qui la difesa spera di poter riaprire il capitolo chiuso ieri dal presidente della Corte. In realtà la corte d’assise potrebbe facilmente definire questo tipo di indagini "non pertinenti". Il processo a Cavallini deve infatti solo accertare l’eventuale complicità dell’ex Nar con i tre terroristi già condannati per la strage e che da sempre si dichiarano innocenti: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. E’ stata però la stessa corte ad allargare il raggio del processo, in tutta evidenza con l’obiettivo di trovare nuove e inconfutabili prove a sostegno di una sentenza universalmente ritenuta molto fragile. Lo stesso esame del DNA eseguito sui resti attribuiti erroneamente alla Fresu è conseguenza di accertamenti che miravano a individuare ulteriori elementi a carico dei Nar. E’ capitato invece che le nuove indagini hanno offerto solo elementi in senso opposto, a partire dall’individuazione di una donna che alloggiava in un Hotel di fronte alla stazione in quei giorni con un documento cileno falso proveniente da una partita di documenti cileni falsi già adoperata più volte dall’organizzazione del terrorista ex Fplp Carlos, alla quale è seguito l ritrovamento di un secondo passaporto simile. Senza trarre conclusioni che sarebbero comunque indebite e azzardate, il processo in corso conferma però una situazione già vista più volte. Nonostante i numerosissimi elementi che confutano la sentenza contro i Nar ( al termine di un iter di cinque processi con verdetti contraddittori), nonostante magistrati di altre procure che hanno indagato su vicende parallele siano convinti dell’innocenza dei Nar ( dal pm milanese Salvini, che ha indagato su piazza Fontana, a Rosario Priore, il magistrato che più di ogni altro si è occupato di terrorismo palestinese, sino a Otello Lupacchini, che ha indagato sulla banda della Magliana), sia l’associazione dei parenti delle vittime della strage che la procura di Bologna sembrano considerare un insulto qualsiasi dubbio sulla colpevolezza dei Nar e oppongono una resistenza incomprensibile a ogni tentativo di proseguire le indagini in altre direzioni.
(Adnkronos il 20 ottobre 2019) - Spunta un secondo passaporto falso utilizzato a Bologna nell'immediatezza della strage del 2 agosto 1980. E, anche stavolta, come per la sedicente cilena Juanita Jaramillo di cui ha parlato per la prima volta Adnkronos negli scorsi giorni, il documento di identità contraffatto è stato presentato alla reception dell'hotel Milano Excelsior, che si trovava proprio di fronte alla stazione, da un'altra misteriosa donna nascosta dietro l'identità fasulla della 44enne basca Maria Quintana, nata a Bilbao il 5 marzo 1936 e residente in Venezuela. Anche la sedicente Maria Quintana avrebbe soggiornato, fra il 31 luglio 1980 e il 1 agosto, il giorno precedente la strage, nell'hotel le cui finestre consentivano di vedere proprio la sala d'aspetto di seconda classe dove è esplosa la bomba. Anche nel caso del passaporto della basca Maria Quintana, nata in Venezuela, come per la cilena Juanita Jaramillo, il capo della polizia scrive il 20 febbraio 1981 al questore di Bologna e al Direttore della Criminalpol per segnalare che il documento è stato alterato ''dagli stessi possessori o da altri''. Va ricordato che passaporti falsi venivano costantemente utilizzati da terroristi palestinesi e dal venezuelano Carlos ''Lo Sciacallo'' per compiere attentati e trasporti di armi ed esplosivi, anche in Italia come abbiamo documentato nei giorni scorsi. Due passaporti cileni falsi che utilizzava Carlos, fra i sei contraffatti che l'intelligence francese identificò, vennero ritrovati, assieme ad armi, munizioni ed esplosivo ad alto potenziale, a Londra, nell'appartamento di un'altra basca, la cameriera Angela Otaola, che venne arrestata dalla polizia perché ritenuta fiancheggiatrice del superterrorista venezuelano fuggito nella capitale britannica dopo aver ucciso a Parigi, in un conflitto a fuoco, due agenti dello Dst francese, il servizio di controspionaggio. Ma quelli della basca Maria Quintana e della cilena Juanita Jaramillo non sono gli unici due passaporti utilizzati all'Hotel Milano Excelsior di Bologna ad attirare l'attenzione degli investigatori fra i 23 ospiti dell'albergo che erano lì nei giorni immediatamente precedenti la strage del 2 agosto 1980. Sempre il ministero dell'Interno - Investigazioni generali Operazioni speciali Ufficio Centrale - segnala con una nota il nominativo di Mara Diukè o Djukiè nata ad Adorsvici, in Iugoslavia, il 17 giugno 1958. La Djukiè esibisce al desk dell'albergo che si affaccia proprio sul piazzale della stazione il passaporto numero 858295 rilasciato nel 1979. Subito dopo la strage di Bologna gli investigatori vanno a ricontrollare tutti i nominativi delle persone che si trovavano negli alberghi cittadini nei giorni dell'attentato. E selezionano, oltre al nome di Juanita Jaramillo e a quello di Maria Quintana, anche il nome di Mara Djukiè chiedendo chiarimenti al Servizio segreto collegato. In questo caso, ''per quanto riguarda Mara Djukiè - ammette il ministero dell'Interno - non si dispone di alcun altro elemento utile per la sua identificazione''. Chi è questa terza misteriosa donna, anch'essa non identificata, come Juanita Jaramillo e Maria Quintana, che resta nell'ombra da 39 anni e che in quei giorni si trova certamente a Bologna? Resta ancora un mistero, come tanti che riguardano la strage del 2 agosto 1980, a cominciare dalle presenze registrate in città in quelle ore drammatiche e concitate, dal terrorista del gruppo Carlos Thomas Kram al brigatista che sequestrò il giudice Sossi Francesco Marra.
Da adnkronos.com il 15 ottobre 2019. La storia di altri due di quei passaporti, rivelata ancora dall’AdnKronos, riguarda due personaggi che, a metà degli anni ’70, si imbarcano su due voli Twa 841 con una bomba al seguito. Il primo arriva a destinazione per l’accidentale malfunzionamento dell’ordigno, il secondo, tredici giorni dopo, esplode sul Mar Ionio con 88 persone a bordo, tra cui tre italiani, (lo steward Gianpaolo Molteni e le hostess Isabella Lucci-Masera e Angela Magnoni). Chi disponeva degli altri tre passaporti? Due sono utilizzati da Ilich Ramirez Sanchez, alias Carlos lo Sciacallo. L’intelligence inglese scopre, a un certo punto, che Carlos sta usando un passaporto cileno falso con il numero di serie 035857 intestato a Hector Hugo Dupont e avverte i colleghi dei Servizi segreti di Francia, Germania, Olanda, Belgio e Italia. Con quello stesso numero di passaporto cileno falso, Carlos viene segnalato a Talcahuano, in Cile, nel 1970, mentre si sta recando ad un incontro a Hualpencillo con alcuni terroristi. Ma non si tratta dell’unico passaporto cileno falso che lo Sciacallo esibisce. Ne utilizza un altro, numero 035848, a nome di Adolpho Bernal sul quale ha appiccicato la sua foto. Ufficialmente è un ingegnere, e il passaporto è stato rilasciato nella cittadina cilena di Quillota. Un nome da non dimenticare, perché comparirà diverse altre volte in questa storia. Il passaporto falso cileno intestato a Adolpho Bernal verrà scoperto in maniera rocambolesca nel 1975 in un appartamento di Londra, dove Carlos, che riesce a sfuggire alla cattura, vive assieme alla basca Angela Otaola e al fidanzato di lei, il britannico Barry Woodhams. Sarà quest’ultimo a scoprire, nascosta in casa, una borsa contenente armi, munizioni ed esplosivo - gelignite - appartenenti al terrorista, così come i documenti falsi, il passaporto cileno e una patente kuwatiana. Siamo nel giugno 1975. Due mesi prima, il 7 aprile 1975, un documento dell’Ispettorato per l’azione contro il terrorismo e gli Affari Riservati dello Stato italiano aveva rivelato che un altro passaporto cileno falsificato era spuntato in Svezia nelle mani del terrorista giordano Michel Archamides Doxi, addestrato in un campo libanese del Fplp, il Fronte Popolare della Liberazione della Palestina. “Un Servizio (segreto, ndr) amico – scrive l’Ispettorato italiano nella nota custodita oggi negli archivi della Commissione parlamentare sulle stragi e il terrorismo - ci ha comunicato che il giordano Michel Archamides Doxi, nato a Gerusalemme il 20.4.1956, dimorante in Svezia, ha recentemente inoltrato alla Autorità di quella nazione una istanza per ottenere la concessione dell’asilo politico. Il medesimo era giunto prima in Danimarca, quindi in Svezia con un passaporto cileno contraffatto n 037972, rilasciato a Quillota il 5.12.1972 a nome di Eduardo Hernandez Torres”. Dunque l’ennesimo passaporto cileno falso. Come quelli esibiti da Carlos. Come quello spuntato a Bologna. Ancora rilasciato a Quillota. “Secondo le sue dichiarazioni - continua la nota dell’Ispettorato - nel gennaio 1973 (Doxi, ndr) sarebbe stato inviato in un campo libanese del Fplp per addestramento e, in seguito, a Bari in compagnia di due giovani donne allo scopo di portare in Italia delle pistole e delle bombe a mano. Le stesse armi rinvenute poi indosso ai due sedicenti iraniani arrestati all’aeroporto di Fiumicino il 4 aprile 1973. Per questo viaggio in Italia - specifica la nota secondo le informazioni avute dal Servizio segreto collegato - avrebbe utilizzato un passaporto contraffatto dell’Honduras, rilasciato al nome di Tomas Gonzalo Perez. Nel maggio 1973, sarebbe stato inviato a Ginevra, dove una donna danese gli avrebbe consegnato una bomba per eseguire un attentato, non portato a termine, all’aeroporto di Lod”, in Israele. “Si suppone - ipotizza l’Ispettorato - che i guerriglieri palestinesi abbiano falsificato un certo numero di passaporti con le stesse caratteristiche al fine di utilizzarli per compiere azioni terroristiche”. Ma la questione non finisce qui perché la nota dell’Ispettorato italiano per l’azione contro il terrorismo e gli Affari Riservati si sofferma su un particolare di non poco conto in relazione al passaporto di Michel Archamides Doxi: “Il passaporto cileno ha il numero quasi identico ed identica località di rilascio di quello in possesso a Josè Mario Garcia Aveveda, responsabile dell’incendio avvenuto a bordo del velivolo Twa volo 841 del 26 agosto 1974”. Quale località di rilascio? Sempre Quillota. A questo punto ad attirare l’attenzione è il viaggio in Italia del giordano Archamides Doxi. Chi sono le donne che lo accompagnano quando sbarca dalla nave Ausonia a Bari? “Una delle donne era una cittadina libanese di nome Maha Abu Halil – scrivevano i Servizi segreti svedesi avvertendo l’Italia - L’altra era una cittadina italiana, della quale (Doxi, ndr) conosceva soltanto il primo nome: Rita. Al termine della missione, Rita restò in Italia, mentre Halil fece ritorno in Libano”. Interrogato dai Servizi segreti svedese, Doxi rivela che “Rita” avrebbe “preso parte ad un lungo corso d’istruzione alla guerriglia, tenuto dal FPLP nel Libano e sarebbe stata utilizzata per il trasporto di armi ai diversi Paesi europei e in diverse occasioni”. Sulla Ausonia attraccata a Bari, quel giorno, rivelano i Servizi Segreti italiani, era imbarcata Rita Porena, la giornalista italiana amica del capocentro del Sismi a Beirut, Stefano Giovannone. Proprio la donna che in una intervista ad Abu Ayad, uno dei capi dell’organizzazione palestinese Al Fatah, accusava gli ambienti di destra della strage alla stazione di Bologna. “Secondo il Doxi - scrive nella sua relazione l’Ispettorato Generale per l’azione contro il terrorismo, datato 27 giugno 1975 - l’introduzione di armi dal Medio Oriente in Occidente viene solitamente affidata a donne. Esse sono ben vestite, alloggiano in ottimi alberghi, sono in possesso di molto denaro e viaggiano con passaporti sudamericani o italiani”. A questo punto la domanda è lecita: chi era dunque quella donna che, nascosta dietro il passaporto cileno falso numero 30435 intestato a Juanita Jaramillo - uno dei tanti passaporti falsi cileni, come si è visto, utilizzati dai terroristi arabi e da quelli del gruppo Carlos – alloggiava il giorno della strage all’Hotel Milano di Bologna proprio di fronte alla stazione?
Da adnkronos.com il 15 ottobre 2019. Si riapre il giallo dell'86esima vittima della strage di Bologna. A quanto apprende l'Adnkronos, la perizia del Dna disposta nel processo all'ex Nar Gilberto Cavallini ha escluso che i resti che sono stati attribuiti a Maria Fresu appartengano effettivamente alla donna rimasta uccisa dalla bomba alla stazione. La notizia di fatto conferma la scomparsa del cadavere della Fresu e l'esistenza di un'altra vittima, che si aggiungerebbe alle 85 del bilancio ufficiale. Una vittima di cui fino a oggi nessuno ha reclamato il corpo. L'esame del Dna è stato eseguito sui reperti organici - un osso della mano e un lembo facciale con uno scalpo - ritrovati all'interno della bara di Maria Fresu i cui resti sono stati riesumati, il 25 marzo scorso, nel cimitero di Montespertoli dai periti incaricati dalla Corte d'Assise di Bologna che sta processando l'ex terrorista Gilberto Cavallini. Il materiale organico esaminato dalla biologa genetico-forense Elena Pilli - un lembo facciale, un piccolo scalpo con una chioma nera, un frammento parziale delle dita della mano destra, e un frammento di mandibola in prossimità del mento con alcuni denti - che peraltro erano risultati appartenere a due donne diverse, non ha trovato riscontri con il Dna del fratello e della sorella della Fresu. La perizia si è resa necessaria per tutta una serie di incongruenze e di misteri che gravano sulla fine della giovane madre sarda 'scomparsa', nessuno sa spiegarsi come, nella strage di Bologna, e che hanno fatto ipotizzare ad alcuni autori - che non credono alla pista fascista (per la strage sono condannati in via definitiva gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini) - l'esistenza di una 86sima vittima, secondo alcuni la terrorista che trasportava l'ordigno, una valigia esplosiva. Lo stesso perito esplosivista della Corte d'Assise di Bologna, Danilo Coppe, ha giudicato implausibile la disintegrazione del cadavere. Anche perché Maria Fresu, la figlioletta Angela e le due amiche Verdiana Bivona e Silvana Ancillotti, si trovavano lontane dal punto dell'esplosione, comunque in quell'area che non venne investita direttamente dalla detonazione. Coppe ha escluso che l'esplosione dell'ordigno della strage di Bologna possa aver disintegrato le persone presenti, a prescindere dalla loro collocazione sulla scena. Peraltro in un'intervista esclusiva concessa all'Adnkronos il 22 maggio scorso, Silvana Ancillotti, l'unica del gruppo di amiche sopravvissuta alla strage, ha raccontato che nel momento dell'esplosione si trovavano tutte vicine e Maria Fresu era in piedi di fronte a lei, a Verdiana Bivona e alla piccola Angela, a un metro di distanza. La richiesta della perizia sul dna, che era stata avanzata dalla difesa di Cavallini, è legata a una "disomogeneità" tra i resti attribuiti alla vittima nel 1980 e quelli campionati dopo la riesumazione. Del corpo di Maria Fresu fu ritrovato poco o nulla: una mano con 3 dita, uno scalpo con lunghi capelli neri, un osso mandibolare con tre denti, le due arcate sopraccigliari e un occhio. Ad attribuire quei pochi resti alla Fresu fu un medico, il professor Pappalardo, che, all'epoca, per far quadrare i conti che non tornavano sul gruppo sanguigno della ragazza, parlò di ''secrezione paradossa'', una tesi che anni dopo sarà giudicata astrusa e infondata da altri ematologi. Da qui l'interrogativo, posto nel libro 'I segreti di Bologna' del giudice Rosario Priore e dell'avvocato Valerio Cutonilli (Chiarelettere, 2016): se quei resti non appartengono alla Fresu e nessuno dei cadaveri delle donne sfigurate aveva un gruppo sanguigno compatibile, potrebbero quei resti appartenere a una ottantaseiesima, vittima mai identificata? "La cosa è talmente intricata, probabilmente sono avvenuti scambi di corpi o di pezzi di corpi" dice all'Adnkronos Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. "Parlare di 86esima vittima penso sia un po' azzardato. Io non sono un esperto di Dna. Vediamo cosa diranno i periti in aula e si faranno le valutazioni".
Strage di Bologna, i resti non sono di Maria Fresu: c'è un'86esima vittima? Giallo sull'esito dell'esame. Le diverse ipotesi dei legali dei terroristi e dei famigliari delle vittime. Giuseppe Baldessarro il 15 ottobre 2019 su La Repubblica. Il Dna contenuto nella piccola bara che doveva custodire le spoglie di Maria Fresu non appartiene a lei. Lo ha stabilito la perizia ordinata dalla Corte d'Assise di Bologna nell'ambito del processo contro Gilberto Cavallini, accusato di aver concorso alla strage del 2 agosto 1980. L'esame è stato eseguito sui reperti organici: un osso della mano e un lembo facciale. Il Dna è stato comparato con quello del fratello e della sorella della vittima. A lungo si era discusso dell'eventualità che in quella bara ci fossero i resti di un'altra persona. Nelle scorse settimane era emerso il fatto che in realtà i Dna estratti erano due appartenenti a due diverse persone di sesso femminile. Ora la novità. Se quei resti non sono della Fresu a chi appartengono? Secondo la tesi più volta avanzata nel corso degli anni dai difensori dei Nar, condannati per la strage, nell'attentato alla stazione di Bologna potrebbe esserci stata una 86esima vittima mai identificata. Una persona che, forse, potrebbe essere un attentatore o un'attentatrice. Una tesi che ricondurrebbe alla pista palestinese, ossia alla possibilità che a fare la strage sarebbero stati dei terroristi palestinesi di matrice rossa. Per Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto, non è così: " Non esiste vittima ulteriore rispetto a quelle note, parlare di 86esima vittima è azzardato". E dando una spiegazione aggiunge: "Il giorno della strage io c'ero e sono stato in obitorio per il riconoscimento dei miei familiari, c'era una confusione incredibile, niente di più facile che in quella bara ci siano finiti i resti di altre vittime". In ogni caso, dice Bolognesi " se anche quel Dna non è della Fresu, non cambia nulla ai fini processuali ". Per scoprire a chi appartengono i resti bisognerebbe tornare a disseppellire le bare di tutte le vittime a fare Dna ad ognuno di essi. Un'operazione ciclopica e impossibile da condurre. Resta dunque il giallo. Del corpo di Maria Fresu fu ritrovato poco o nulla, sotto un treno al primo binario: una mano con 3 dita, uno scalpo con lunghi capelli neri, un osso mandibolare con tre denti, le due arcate sopraccigliari e un occhio. Ad attribuire quei pochi resti alla Fresu fu un medico, il professor Pappalardo, che, all'epoca, per far quadrare i conti che non tornavano sul gruppo sanguigno della ragazza, parlò di "secrezione paradossa", una tesi che anni dopo sarà giudicata astrusa. Al tempo si pensò che il corpo fosse stato disintegrato dalla bomba, trovandosi - si dedusse - vicina Maria Fresu al punto dell'esplosione. Ma l'amica che era con lei e che è sopravvisuta, Silvana Ancillotti, ricorda che al momento dello scoppio si trovavano vicine in sala d'aspetto, anche con l'altra compagna di viaggio Verdiana Bivona e la piccola Angela Fresu, figlia di Maria, la più giovane tra le vittime (quasi tre anni). Silvana vide i corpi di Verdiana e Angela, ma non quello di Maria.
Strage di Bologna, donna con passaporto cileno falso di fronte alla stazione. Il Secolo d'Italia giovedì 10 ottobre 2019.
Una serie di passaporti cileni falsi utilizzati in diversi attentati anche in Italia e, in particolare, un passaporto cileno falso esibito da una misteriosa donna nell’hotel di fronte alla stazione nei giorni immediatamente precedenti la strage di Bologna rimette in discussione la verità sull’attentato che fece 85 morti e oltre 200 feriti. Non bastava, dunque, il cadavere scomparso di Maria Fresu, una delle 85 vittime di Bologna. Non bastava nemmeno scoprire, dopo 39 anni, che esistono carte dei Servizi segreti – ma leggibili solo dai parlamentari – che raccontano tutta un’altra verità sulla strage alla stazione di Bologna. E rivelano i ripetuti e inascoltati Sos dei nostri Servizi segreti sulle minacce di attentati contro interessi italiani da parte dei terroristi palestinesi.
Nuovo giallo sulla strage di Bologna: spunta un passaporto cileno falso. Ora spunta un nuovo giallo, sul quale non si è mai capito se gli inquirenti felsinei abbiano fatto chiarezza: parliamo della storia di un passaporto cileno falso utilizzato da una donna, ad oggi sconosciuta, che soggiornò in un albergo davanti alla stazione di Bologna nei giorni precedenti la bomba. Quel passaporto cileno falso su cui vennero fatti accertamenti dalla polizia e dall’Interpol risultò falso, proprio come altri passaporti cileni falsi utilizzati da terroristi palestinesi o filopalestinesi. Terroristi della galassia Carlos e non solo, per trasportare esplosivi, anche in Italia, e compiere attentati contro cittadini inermi.
Una misteriosa donna con passaporto cileno falso alloggiava di fronte alla stazione. Chi era questa misteriosa donna che si è fatta registrare con un passaporto cileno falso? Dov’è finita? È mai stata identificata? I Servizi segreti italiani e stranieri sono a conoscenza della sua vera identità? E soprattutto la magistratura ha appurato chi si nascondesse dietro il nome di Juanita Jaramillo, nata a Santiago del Cile il 1 gennaio 1953? Già, perché la polizia cilena, interpellata all’epoca dai colleghi italiani, fece gli accertamenti richiesti e rispose tramite Interpol alla richieste italiane, come è agli atti del processo sulla strage di Bologna. Quello che invece non si sa è se, su quanto comunicato dai cileni, l’Italia abbia mai fatto accertamenti. In particolare, il contenuto della risposta venne comunicato prima dal ministero dell’Interno italiano alla Questura di Bologna e al Direttore della Criminalpol in una nota del 20 febbraio 1981. E, poi, dall’Ucigos al Tribunale di Bologna il 3 agosto 1981: il passaporto cileno numero 30435/80 presentato dalla sedicente Juanita Jaramillo al desk dell’hotel Milano Excelsior di Bologna, faceva sapere la polizia cilena, è falso, alterato «dagli stessi possessori o da altre persone».
Chi era la sedicente Juanita Jaramillo con passaporto intestato a un uomo? Anche un telex dell’allora capo della Polizia Coronas non lascia spazio a dubbi: la «polizia cilena ha fatto conoscere tramite l’Interpol che la nominata Jaramillo Juanita è sconosciuta». E ancora, sempre il capo della Polizia spiega che il passaporto cileno falso numero 30435 è stato in realtà emesso dal Cile a nome di un uomo, Alamos Jordan Francisco Ignacio, e non per una donna. Capire chi fosse questa donna sarebbe stato fondamentale per le indagini. Anche perché, come emerso in altri fatti di sangue, diversi passaporti cileni falsi sono comparsi negli accertamenti delle forze di polizia di mezzo mondo che hanno dato negli anni la caccia ai terroristi palestinesi. Lo stesso Carlos per muoversi agevolmente e indisturbato in tutto il mondo, Italia compresa, non utilizzava un passaporto cileno falso, ne utilizzava addirittura due. Tra l’altro, quel che emerge solo ora dalle carte rimaste nei cassetti per quasi quarant’anni diventa sconvolgente alla luce di quanto riportato in un documento esclusivo dell’Fbi in possesso dell’Adnkronos sull’attentato ad un volo Twa partito da Tel Aviv (di cui daremo conto domani), passato per Atene. Arrivato a Roma e da qui ripartito alla volta di New York ma mai atterrato lì al JFK, come previsto dalla tabella di volo. Mai atterrato perché precipitato nel mar Jonio con 88 persone a bordo l’8 settembre 1974. Una strage che ricalca, per molti versi, quella di Ustica.
L’Intergruppo 2 agosto sulla strage di Bologna chiede chiarezza. Sulla vicenda del passaporto cileno falso, i parlamentari componenti dell’Intergruppo “2 agosto” Federico Mollicone, Paola Frassinetti, Isabella Rauti, Galeazzo Bignami chiedono al governo «immediata chiarezza». «Il premier Giuseppe Conte, che ha tenuto a sé la delega sui Servizi segreti, chiarisca se i nostri apparati di sicurezza avessero contezza di queste evidenze, che cambiano totalmente la narrazione dominante – dicono -. Il ministro Bonafede prenda quindi atto delle nuove evidenze e palesi le eventuali storture del processo e dell’inchiesta. Presenteremo un’interrogazione in tal senso, al fine di raggiungere, finalmente, la verità giudiziaria e storica sulla strage di Bologna. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari».
«E’ necessario, quindi, inserire presto in calendario d’Aula la nostra proposta di legge bipartisan per la costituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle connessioni del terrorismo interno e internazionale con la strage di Bologna del 2 agosto 1980, la cui attività sarebbe ora d’importanza cruciale», concludono i parlamentari.
Strage di Bologna, nei resti della vittima Maria Fresu il Dna di due donne. Processo al terrorista Cavallini, indiscrezioni sull'esito delle analisi: c'è un morto in più? La Repubblica il 07 settembre 2019. La bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 uccise 85 persone. A quanto apprende l'agenzia di stampa Adnkronos, apparterrebbero a due persone diverse, entrambe di sesso femminile, i reperti organici ritrovati all'interno della piccola bara di Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980 - l'unica ufficialmente 'disintegrata' - i cui resti sono stati riesumati, il 25 marzo scorso, nel cimitero di Montespertoli dai periti incaricati dalla Corte d'Assise di Bologna che sta processando l'ex terrorista Gilberto Cavallini. La scoperta è stata comunicata ieri ai periti delle parti, convocati al Dipartimento di Biologia Evoluzionistica dell'Università di Firenze dal perito della Corte, la biologa genetico forense Elena Pilli, capitano del Ris dei carabinieri di Roma, che è riuscita a estrarre 24 marcatori - ne occorrono almeno 9 - dei profili del Dna nucleare e mitocondriale dal materiale consegnatole e ufficialmente attribuito alla Fresu. Il Dna mitocondriale va a identificare un numero di persone che discendono dalla stessa linea femminile, al contrario il Dna nucleare definisce un solo unico soggetto. Il materiale organico esaminato dalla biologa genetico-forense Elena Pilli - un lembo facciale , un piccolo scalpo con una chioma nera, un frammento parziale delle dita della mano destra, e un frammento di mandibola in prossimità del mento con alcuni denti - sarà comparato, nei prossimi giorni, con il Dna di due parenti di Maria Fresu che hanno dichiarato la propria disponibilità, il fratello Bellino e la sorella Isabella, i quali sono stati convocati oggi presso il Dipartimento di Biologia Evoluzionistica dell'Università di Firenze dal perito della Corte per procedere al prelievo salivare del Dna. La perizia, il cui deposito è previsto per il 20 settembre prossimo - il 23 è fissata la prossima udienza del processo a carico di Gilberto Cavallini - si è resa necessaria per una serie di incongruenze sulla fine della giovane madre scomparsa nella strage di Bologna. La teoria che i difensori dei terroristi neri ipotizzano è l'esistenza di un'altra vittima mai accertata prima che, nella loro ricostruzione di parte, potrebbe essere tra gli esecutori materiali dell'attentato (per il quale sono già stati condannati i neofascisti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini) e riaprire così la pista del terrorismo internazionale, scartata fin qui in ogni sede processuale e grado di giudizio.
Nicolò Zuliani per Termometropolitico.it il 2 agosto 2019. Sei una studentessa di 18 anni a Bologna. È il 2 agosto 1980 e tu sei una ragazza, hai compiuto da poco diciotto anni, indossi un vestito a righe blu e zeppe di tela che in quel periodo vanno di moda. Hai passato la maturità, sei andata a Bologna per vedere l’università che frequenterai, hai dormito a casa di un’amica e ora stai tornando a casa. Non esistono le macchinette automatiche e devi fare la fila in biglietteria, così per sicurezza arrivi presto. Appena metti piede in stazione capisci che hai avuto una buona idea.
Nell’ala ovest c’è la sala d’aspetto di seconda classe. Un uomo arranca con il peso inclinato a sinistra, per compensare il peso della valigia che tiene con la mano destra. La appoggia con cautela su un tavolino, tra le tante. La sua però contiene 23 chili di Compound B, un esplosivo militare composto da 5 chili di tritolo e di T4 (tciclotrimetilentrinitroammina), avvolti da 18 chili di nitroglicerina gelatinata (e collegati a una sveglia modificata). Si assicura la valigia sia appoggiata al muro portante, poi esce di fretta senza guardarsi attorno e asciugandosi il sudore. Alla biglietteria è quasi il tuo turno.
L’orologio sul muro segna le 10.18. Davanti a te noti un ragazzo alto con le spalle larghe, ma non riesci a vederlo in faccia. Si chiama Mauro di Vittorio, ha 24 anni e dal taglio dell’abito deduci sia un venditore. Provi a sfruttare il riflesso sul vetro della biglietteria, ma ci si mette davanti una coppiettai. Hanno circa la tua età, ridacchiano in inglese e i loro zaini blu e arancio ti coprono la visuale per colpa del sacco a pelo arrotolato. Te li immagini in tenda, al buio, da soli, e ti viene in mente il mostro di Firenze. Però tua madre dice che è solo in Toscana. Mauro fa il biglietto, passa, e non era questo granché.
Nella valigia, il timer segna le 10.19. Speri incroci il tuo sguardo, ma lui nemmeno ti vede e tira dritto. Gli dedichi un’ultima occhiata, poi incroci Iwao, 20 anni, seduto su una panca nell’angolo. Mangia e scrive su un quadernino, ha sandali da monaco e capelli nerissimi. Senza accorgertene, lo stai fissando. Lui ti fa un sorriso e un cenno con la testa, dietro di te qualcuno ti chiede di muoverti. Ti volti per scusarti e ti trovi davanti un vecchietto sulla sessantina, Pietro Galassi. Ha una vecchia giacca anni ’70 e una cravatta con fantasie larghe e scherzose, probabilmente è un professore. Ti scusi e fai il biglietto.
Il vecchio Tissot del nonno fa le 10.20. Fai due parole con una tua coetanea, Patrizia. Ha l’accento barese marcato, una camicetta di lino ricamata a mano e una minigonna assai più moderna. Anche lei si è appena diplomata in ragioneria, ed è lì con la madre, i nonni, la zia e le cugine per tornare a Bari. Si siedono nella sala d’aspetto alla tua sinistra mentre Sonia, di 7 anni, sta giocando con una bambola rossa. La sua famiglia è sfinita per il caldo e la madre la tiene d’occhio dietro un ventaglio nero con fiori rosa e verdi. S’è messa a giocare con Angela, una bimba di 3 anni che è incuriosita dalla bambola.
L’altoparlante comunica che il treno delle 10.21 è in ritardo di 10 minuti. Quando lo vedi entrare in sala d’aspetto. Ha 21 anni, occhi azzurri, i capelli corti e due labbra che sembra Marlon Brando. È uno dei tanti militari di leva, e probabilmente il ragazzo più bello tu abbia mai visto. D’istinto tiri su la schiena e ti sistemi meglio la gonna. Lui ti vede quasi contemporaneamente, fa un mezzo sorriso, tu ricambi distogliendo subito lo sguardo. Vedi una signora di 50 anni, Berta Ebner, che ha capito la situazione e gongola guardando altrove. Il ragazzo ti si siede vicino e si schiarisce la voce mentre tu ti auguri non dica una cosa troppo stupida. «Mi scusi, sa che ore sono?» domanda lui. Ti volti a guardarlo, ed è bello davvero. Noti che ha l’orologio e le vene sull’avambraccio, lui segue il tuo sguardo: «Oh, questo è… rotto.»
«Davvero?»
«Giuro» dice lui, sbattendolo contro la panchina. Poteva andarti peggio, nell’epoca dei paninari. Fai una mezza risata: «Sono le 10.22», rispondi a Roberto, 21 anni, artigliere di leva in licenza. Le tue farfalle nello stomaco lasciano spazio a un crampo ben meno nobile, realizzi che giorno del mese è, e ti rendi conto che è il caso di trovare un bagno alla svelta. Lui ti guarda confuso, ha paura di aver detto qualcosa di male. Tu mentre t’incammini sei incerta se dirgli qualcosa, poi decidi che un po’ di suspance gli farà bene. Il bagno è al secondo piano della sala d’attesa, dove c’è il bar. C’è parecchia gente, e Mirella, Euridia, Franca, Katia, lavorano sodo perché Rita e Nilla, 23 e 25 anni, proprio non ci sono con la testa; a entrambe i loro uomini hanno chiesto di sposarli, e stanno progettando come arredare la casa dove andranno a vivere. Vai alla cassa.
«Sono solo le 10.23 e senti che caldo fa» sbuffa la cassiera, Euridia, 42 anni. Le sorridi comprensiva e domandi dov’è il bagno. Una volta dentro ti accorgi che avevi ragione, infili l’assorbente nelle mutande e ne approfitti per sistemarti i capelli, verificare il trucco e correggere il rossetto. Esci e quasi ti scontri con una vecchietta, Maria Idra, 80 anni. Ha un vestito blu scuro a fiorellini e ti rivolge un sorriso stanco. Le tieni aperta la porta e passi davanti al banco del bar. Hai fatto colazione, ma qualcosa di fresco ti farebbe voglia. Però non ti va di far aspettare troppo l’artigliere, così guardi con invidia la limonata fredda in mano a Viviana Bugamelli, 23 anni, nell’esatto momento in cui confessa a suo marito Paolo di essere incinta. Lui si trasforma in una statua di sale.
L’orologio sopra la macchinetta del caffè segna le 10.24. Dalla radio parte “Our last summer” degli ABBA. Scendi le scale e schivi Irene Breton, un’orologiaia svizzera con un vestito orrendo che la fa sembrare biancaneve, poi un uomo che voltato verso l’esterno grida a qualcuno «Un attimo che prendo le sigarette». La banchina del primo binario s’è riempita e devi fare la gimcana tra Argeo, un ferroviere 42enne che fuma la pipa, Vincenzo, un 34enne che si infila in bocca una gomma da masticare annusando avidamente l’odore della pipa del ferroviere, una coppia di anziani che si tiene per mano, una francesina della tua età con un cappello di paglia e un vestito di seta con cucito “Brigitte” che legge un libro di Prevert, Leoluca che ha la salopette macchiata d’intonaco e vernice, Carlo Mauri che osserva i cavi del treno, poi Francesco, Antonio, Vito, Lina, Romeo, Mario. Arrivi in vista della sala d’attesa.
La sveglia nella valigia segna le 10.25. In un microsecondo le molecole dell’esplosivo si espandono e moltiplicano, spingendo l’aria attorno in un’onda di pressione a sfera che impatta contro corpi, muri, pavimento e soffitto a 9000 metri al secondo con una potenza di 26.9 G, portando la temperatura a 1240°. Le persone più vicine alla valigia vengono vaporizzate dal calore o spappolate, mentre il soffitto e i muri si dilatano fino a spaccarsi, travolgendo le persone all’esterno con pezzi di cemento e marmo che li investono alla velocità di un cannone, smembrandole. Sul primo binario, l’onda d’urto distrugge trenta metri di pensilina e investe l’Adria express 13534 Ancona Basilea sollevandolo, accartocciando l’alluminio delle fiancate mentre detriti di cemento, acciaio e vetro impattano contro i passeggeri, uccidendoli o mutilandoli. Nel parcheggio, l’autobus 37 e i taxi sussultano mentre aria e detriti gli corrono incontro. Poi la stazione collassa. Pezzi di cemento, lastre di granito, tavoli, sedie, scrivanie, brioche, gelati e limonate precipitano tirandosi dietro clienti e camerieri, schiacciandoli dopo un volo di tre metri contro quel che resta della sala d’aspetto e i suoi sopravvissuti, tra cui un bambino di 3 anni.
Sono passati tre secondi. Non vedi e non senti niente. Il petto ti brucia e non riesci a tirare dentro aria. Emetti un ringhio roco mentre i polmoni e gli addominali cercano di recuperare ossigeno. Cominci a vedere qualcosa, macchie informi, le orecchie fischiano così forte da farti male alla testa. Ti volti di fianco e l’aria rientra all’improvviso con un gorgoglio. Tossisci e rantoli per qualche istante, raggomitolata e sorda. Davanti a te c’è Pier Francesco, 44 anni, ma è sbagliato. Non capisci cos’ha che non va; provi a parlargli ma non senti la tua voce, solo quel fischio assordante. Lui ti fissa immobile e giallastro, senza rispondere.
Ti guardi. Il vestito è sporco e stracciato. Hai macchioline di sangue su tutto il corpo, ma non senti dolore. Provi a metterti a carponi e ce la fai. Provi a metterti in piedi e ci riesci al secondo tentativo, incespicando. Solo a quel punto riesci a guardarti attorno. Vedi macerie, fumo, un odore acre e ovunque pezzi di persone. Maria Fresu è stata smaterializzata, di lei resta solo un brandello sotto il treno. Dell’artigliere non è rimasto nulla, è stato proiettato a trenta metri fuori e lo riconosceranno solo dalle piastrine. Quando le orecchie riprendono a funzionare, senti le urla. Di paura, di dolore, di aiuto, di disperazione. Provengono dalle macerie, dall’interno della stazione, da quel che resta del treno. Vedrai arrivare i soccorsi e cercherai di aiutare chi puoi come puoi, assieme agli altri sopravvissuti come te. Vedrai i Carabinieri arrivare e alcuni saranno talmente sconvolti da mettersi a piangere. Le ambulanze non basteranno; le autorità dovranno usare anche i taxi e gli autobus per portare via i 200 feriti e gli 85 morti, oppure i loro brandelli. Alla fine tornerai a casa e continuerai a sentire quelle grida, a vedere quelle persone, per gli anni a venire. In televisione parleranno di indagini, di sospettati, di depistaggi, di periti ed esperti, personaggi nell’ombra, mandanti occulti, fazioni che si accusano a vicenda. Cinque anni dopo troveranno chi aveva lasciato la valigetta in stazione; si chiamano Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, due neofascisti già condannati per altri attentati. Dopo la strage di Bologna avevano continuato a uccidere e, a differenza di tutti gli altri omicidi, si sono sempre dichiarati estranei. Verranno condannati e faranno 26 anni di carcere. Buona parte dei politici, dei terroristi, dei faccendieri e degli uomini di Stato che c’erano nel 1980 sono morti o spariti. A distanza di quasi quarant’anni, nessuno sa se la strage di Bologna ha avuto dei mandanti più in alto, o se si sia trattato di follia omicida da parte di un gruppo neofascista. Licio Gelli e uomini di Stato tentarono, secondo il giudice Rosario Priore, di depistare le indagini. Furono condannati, ma non saltò mai fuori chi avrebbero dovuto coprire.
Strage Bologna, note Sismi: ultimatum palestinesi "pronti a colpire innocenti". Adnkronos 3 agosto 2019 ripreso da Tiscali news. Un vero e proprio ultimatum all'Italia, con scadenza 15 maggio 1980, a poco più di un mese dalla strage di Ustica (27 giugno 1980) e di due dalla bomba alla stazione di Bologna (2 agosto 1980). A lanciarlo, stando ai documenti rintracciati nelle migliaia di carte del processo sulla strage di Piazza della Loggia dallo storico-ricercatore Giacomo Pacini e finiti integralmente sulle pagine social di altri ricercatori ed esperti di anni di piombo, sarebbe stato il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Il documento in questione è una nota del Sismi del 12 maggio 1980. Un appunto, classificato come "riservatissimo" ma attualmente accessibile a chiunque faccia richiesta alla Casa della memoria di Brescia perché finito inspiegabilmente nel fascicolo del pm di Brescia insieme a una nota precedente, risalente al 24 aprile 1980: Pacini e altri ricercatori lo hanno scovato per caso nel cd contenente gli atti digitalizzati del processo sulla bomba del 28 maggio 1974. La nota degli 007 avrebbe come oggetto "Minacce contro gli interessi italiani" e, come si vede sulle pagine Facebook di chi l'ha pubblicata integralmente, riporta testualmente l'ultimatum del Fronte all'Italia: "In caso di risposta negativa (alle richieste palestinesi, ndr), la maggioranza della dirigenza e della base del Fplp intende riprendere - dopo sette anni - la propria libertà d'azione nei confronti del'Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". Ma che cosa era successo? Stando sempre ai documenti finiti negli atti del processo di Brescia e pubblicati dai ricercatori, i rapporti tra Italia e Palestina, che dal 1973 sarebbero 'regolati' dal lodo Moro (presunto accordo che avrebbe previsto l''immunità' del nostro paese da attentati in cambio di una libertà di movimento e di transito di armi per l'Fplp, ndr), entrerebbero in crisi con l'arresto, a Bologna, di un esponente di spicco del Fronte, Abu Saleh, immediatamente successivo all'arresto di tre esponenti dell'Autonomia sorpresi ad Ortona con dei missili. Siamo a novembre 1979. L'Fplp, a quanto sosterrebbero le due note dei nostri 007 in Libano pubblicati dai ricercatori, attraverso i contatti tra i suoi esponenti e il capocentro del Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, chiederebbe all'Italia di aderire a una serie di richieste, tra le quali l'assoluzione di Abu Saleh, o il lodo Moro sarà rotto e il Fronte sarà libero di fare attentati sul nostro territorio "con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". La scadenza dell'ultimatum - stando sempre ai documenti - sarebbe fissata al 15 maggio e la nota (insieme a quella del 24 aprile) di fatto racconterebbe i contatti tra Sismi e Fplp per tentare di trovare un accordo, svelando le preoccupazioni degli 007 in caso di probabile risposta negativa da parte dell'Italia. Negli appunti ci sarebbe il dettaglio delle condizioni, tutte relative al caso dei missili di Ortona. I palestinesi in particolare chiederebbero di "celebrare il processo di appello per la vicenda dei due SAM-7 in giugno-luglio anziché in settembre-ottobre come previsto", anche se "la dirigenza del Fplp si riserva di riesaminare l’argomento alla luce dei riflessi negativi - nell'attuale momento - determinati dalle asserite rivelazioni del brigatista Peci che, per il loro impatto sull'opinione pubblica, sul Parlamento e sul Governo, potrebbero rendere non conveniente l'anticipazione del processo". La seconda condizione - seguendo la nota dei nostri servizi segreti dell'epoca pubblicata dai ricercatori - riguarderebbe l'esito del processo di appello. L'Fplp chiederebbe di "ottenere la riduzione a circa quattro anni della pena inflitta ai tre autonomi e l'assoluzione 'per insufficienza di prove' di Abu Saleh Anzeh". Una terza riguarderebbe il rinvio a giudizio per "partecipazione a banda armata": l'Fplp chiederebbe all'Italia di "adoprarsi affinché il relativo processo, di competenza della Magistratura di Roma, non abbia luogo". Quindi, la concessione ai condannati del "beneficio, previsto dalla legge, di cui hanno fruito l'ex Ministro Tanassi e gli avvocati Lefebvre". Infine, l'ultima richiesta, sarebbe la distruzione dei missili sequestrati "una volta concluso l'iter giudiziario" e "alla presenza di un rappresentante della difesa" e "il risarcimento del prezzo pagato (60.000 dollari)". Nel primo appunto poi il Sismi riferirebbe che "l'elemento contattato (l'esponente del Fronte, ndr) ha assicurato di aver ottenuto che sino al 15 maggio p.v. non verrà attuata alcuna azione contro gli interessi italiani ma che, improrogabilmente entro quella data, dovrà essere data, tramite il Servizio, una chiara risposta positiva o negativa da parte delle Autorità italiane" e che, "qualora la comunicazione da parte italiana, attesa entro il 15 maggio p.v., fosse negativa o non desse sufficiente affidamento circa l’accoglimento delle richieste avanzate, il Fplp riterrà definitivamente superata la fase del dialogo, passando all'attuazione di quelle iniziative già reiteratamente sollecitate dalla base e da una parte della dirigenza". "Dette iniziative - reciterebbe ancora l'appunto redatto dal Sismi e riportato dai ricercatori - potranno svilupparsi sotto forma di operazioni a carattere intimidatorio o 'di appoggio' alla organizzazione degli autonomi, nei cui confronti il 'Fronte' si sente moralmente impegnato". Ma c'è di più. Nella documentazione acquisita da Pacini e trasformata in un saggio confluito nel libro su Moro e l'Intelligence (edito da Rubettino) ancora più drammatici sarebbero i toni della nota del 12 maggio 1980, tre giorni prima della scadenza dell'ultimatum. Il rapporto del Sismi riferirebbe dell'incontro dell'11 maggio tra il colonnello Giovannone e un esponente del Fplp, che, tra l'altro, confermerebbe "la data del 16 maggio quale termine ultimo per la risposta da parte delle Autorità italiane alle richieste del 'Fronte'", facendo sapere che "in caso di risposta negativa, la maggioranza della dirigenza e della base del Fplp intende riprendere - dopo sette anni - la propria libertà d’azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". A tal proposito, l'esponente palestinese, riferirebbe ancora la nota degli 007 scovata dal ricercatore Pacini, ha "lasciato capire che il ricorso all’azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazioni della Libia, divenuta il principale 'sponsor' del Fplp, dopo la rottura di quest’ultimo con l’Iraq e per effetto delle incerte relazioni con la Siria". In ogni caso, avrebbe assicurato l'esponente del Fplp secondo quanto si legge nell'appunto, "nessuna operazione avrà luogo prima della fine di maggio e, probabilmente, senza che vengano date specifiche comunicazioni".
Strage Bologna, spuntano 2 note Sismi: "minacce palestinesi" prima della bomba. Adnkronos 3 agosto 2019. All'indomani della ricorrenza per la strage di Bologna spuntano due documenti del Sismi che riaprono quella "pista palestinese" sempre sconfessata dal presidente dell'associazione delle vittime, Paolo Bolognesi, e archiviata di recente dalla procura felsinea. Sono due note con classificazione "riservatissimo" che parlerebbero delle minacce di attentati all'Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) a ridosso delle stragi di Bologna e Ustica, e che potrebbero fare parte - il condizionale è d'obbligo - di quelle annotazioni del Sismi compulsate da alcuni parlamentari di vari partiti di cui è vietata la divulgazione perché coperte dal segreto. I parlamentari che hanno chiesto alla Camera l'immediata desecretazione di questi atti fanno capire di aver letto cose clamorose sulla bomba di Bologna ma di essere vincolati al segreto perché le massime istituzioni dello Stato, a quasi 40 anni dall'attentato alla stazione, ancora non si decidono ad aprire gli archivi. Uno di questi parlamentari, l'ex deputato Carlo Giovanardi, si è addirittura spinto oltre citando le date degli atti coperti dal segreto. Di fatto questi due documenti sono diventati improvvisamente "pubblici" perché finiti chissà come nei faldoni giudiziari di un'altra inchiesta per strage, quella per l'esplosione di Piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1974. A scoprirli, fra milioni di pagine depositate, lo storico-ricercatore Giacomo Pacini, autore di un saggio ("Il lodo Moro, l'Italia e la politica mediterranea, appunti per una storia") inserito nel libro "Aldo Moro e l'intelligence" (editore Rubbettino) dove per l'appunto affronta il tema del presunto accordo fra palestinesi e Italia per non compiere attentati nel nostro Paese in cambio di una libertà di movimento e di transito delle armi, ribattezzato "Lodo Moro". Ma cosa racconterebbero i documenti inediti del Sismi citati da Pacini nel libro e pubblicati integralmente sulle pagine Facebook di più ricercatori e studiosi degli anni di piombo? Riporterebbero i disperati tentativi del capocentro di Beirut dei nostri servizi segreti, colonnello Stefano Giovannone (nome in codice Maestro), di convincere i referenti italiani a soddisfare le richieste del Fronte popolare per la liberazione della Palestina onde evitare stragi e incursioni terroristiche in Italia. Le richieste/minacce dei palestinesi riferite dai nostri 007 - stando a quanto ritrovato nel fascicolo di Brescia da Pacini - vertevano sull'assoluzione del giordano Abu Saleh, residente a Bologna, capo della cosiddetta Sezione-Italia del Fplp, fiduciario dell'organizzazione palestinese in contatto proprio con il colonnello del Sismi, Giovannone. Il nome di Saleh venne fuori dopo che nel novembre 1979 i carabinieri, a Ortona in Abruzzo, fermarono tre esponenti dell'Autonomia operaia romana con due missili terra aria tipo Strela nascosti in un furgone. Uno di questi autonomi, militante del "collettivo policlinico" risultò infatti collegato a Saleh. Nelle due note del Sismi, l'Fplp chiederebbe energicamente la liberazione di Saleh e la riduzione della condanna inflitta agli autonomi pena ritorsioni. I due documenti degli 007 analizzati da Pacini e pubblicati dai ricercatori sui social (uno risalente al 24 aprile 1980 e l'altro al 12 maggio successivo) arrivano a riportare tra virgolette le minacce di ritorsioni gravissime da parte del Fronte, spiegando che qualora non fosse stata data risposta positiva al loro ultimatum l'Fplp "avrebbe ripreso dopo 7 anni la propria libertà d'azione nei confronti dell'Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti". A questi due documenti ne potrebbero seguire molti altri, se si dà per buona la rivelazione di Giovanardi che ha riferito d'aver visto note successive agli appunti in questione, l'ultima delle quali risalirebbe al 27 giugno 1980, giorno della strage di Ustica. La rivelazione da parte dei ricercatori di questi documenti segretissimi sì inserisce nelle polemiche scaturite dalla richiesta di una commissione d'inchiesta sui fatti del terrorismo avanzata l'altro giorno alla Camera da rappresentanti di vari partiti, da Forza Italia a M5S, da Fratelli d'Italia al Pd fino alla Lega. Polemiche scaturite dalle rivelazioni fatte da Gasparri, Giovanardi e Gero Grassi del Pd relativamente ai contenuti delle note del Sismi sulle quali è ancora opposto il segreto lasciando intendere che la verità su Bologna potrebbe non essere quella processuale. Le parole di Grassi, ex parlamentare del Pd, hanno scatenato la reazione di Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto. "Di nuovo viene tirata in ballo la pista palestinese per intralciare indagini e confondere l’opinione pubblica. Vuol dire che quelli che hanno intralciato la verità sono ancora attivi e in campo. E' normale - attacca Bolognesi - che lo facciano gli avvocati degli imputati, ma quando si cimenta in questa operazione gente che si dice di sinistra, ecco, sappiate che non guarderemo in faccia a nessuno e andremo avanti per la nostra strada, faremo in modo che nostri avvocati perseguano questi personaggi, di qualsiasi partito siano”. Bolognesi ha anche aggiunto di concordare con la desecretazione degli atti, purché fatta "in modo globale partendo da piazza Fontana, non separatamente, perché potrebbe essere un altro modo per depistare. La visione deve essere complessiva, perché una visione parziale non è utile”.
"NOTE SISMI TROVATE PER CASO IN ATTI PROCESSO PIAZZA DELLA LOGGIA" - "La nota 'riservatissima' del Sismi sull'ultimatum palestinese all'Italia del 1980? L'ho trovata per caso, insieme a un'altra, un appunto risalente al 24 aprile: faceva parte degli atti digitalizzati del processo di Piazza della Loggia, la strage compiuta a Brescia il 28 maggio 1974, un processo monstre in cui era entrato di tutto. Ci sono incappato per una fatalità e leggerli è stato sconvolgente: contengono un crescendo di minacce, sono chiari, sono espliciti" dice il ricercatore Giacomo Pacini, che all'Adnkronos racconta come è entrato in possesso degli appunti choc che sarebbero stati redatti dai nostri 007 a Beirut tra l'aprile e il maggio 1980. "Come questi appunti siano finiti agli atti è veramente un mistero, perché io li ho trovati in maniera assolutamente casuale - spiega Pacini - stavo facendo una ricerca sull'ufficio affari riservati, quindi su tutta un'altra cosa, alla Casa della memoria di Brescia, e in uno dei faldoni digitalizzati a un certo punto ho trovato questi documenti, che sicuramente facevano parte dei famosi documenti del centro Sismi di Beirut e che poi ho messo nel mio saggio. In uno dei due, il più importante, quello del 12 maggio, ci sono le minacce esplicite dell'Fplp all'Italia". "Si tratta di documenti pubblici, liberamente consultabili - tiene a sottolineare Pacini - Fanno parte del fascicolo del pm di Brescia relativo a un processo ormai chiuso, nel cd che mi hanno consegnato ci sono quasi due milioni di documenti depositati. Certo, non c'entrano niente ovviamente con la strage di piazza della Loggia, ma in quel processo, ripeto, è entrato davvero di tutto...".
LE REAZIONI - “La rivelazione dei documenti del Sismi di Beirut relativi all'estate del 1980 confermano la necessità e l'urgenza della desecretazione dei documenti relativi alla strage di Bologna e al 'Lodo Moro', l’accordo tra i servizi italiani e quelli palestinesi per uno scudo dagli attentati a tutela del nostro territorio, che sono stati analizzati nei lavori delle varie commissioni d'inchiesta" dichiara il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. "Alla ripresa dei lavori parlamentari - annuncia - chiederemo l'immediata calendarizzazione della proposta di legge per istituire una commissione bicamerale di inchiesta su dinamiche e connessioni del terrorismo interno e internazionale con la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e le relative attività dei servizi segreti italiani ed esteri. Proposta promossa dai deputati di Fdi Federico Mollicone e Paola Frassinetti, promotori anche dell''Intergruppo 2 agosto. La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna', ha già incassato l'adesione di parlamentari di Lega, Fi e M5S". "Grazie alla commissione e all'Intergruppo contribuiremo alla ricomposizione della storia d’Italia, nel segno della ricerca della verità, storica e processuale. Lo dobbiamo alle vittime e ai nostri figli”, conclude Meloni.
"I clamorosi documenti del Sismi pubblicati da alcuni ricercatori sui social network - così come rivelato da uno scoop di Adnkronos - sono di vitale importanza per la ricerca della verità storica e processuale sulla strage di Bologna. La procura di Bologna acquisisca l'atto e, a fronte delle numerose fonti che confermerebbero sia l'esistenza del 'Lodo Moro' che la strage come ritorsione dei palestinesi per i fatti di Ortona, in caso di loro conferma, la tesi processuale sarebbe nulla e il processo da revisionare" dicono i parlamentari Federico Mollicone e Paola Frassinetti, promotori dell'Intergruppo '2 agosto. La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna'. "Il Parlamento, visti i riscontri - proseguono - approvi la nostra proposta di legge e istituisca a settembre la commissione d'inchiesta, come richiesto. Invitiamo i colleghi ad aderire all'Intergruppo e sottoscrivere la nostra proposta di legge, per trovare finalmente la verità per le vittime e i loro familiari". "Il documento in oggetto - concludono - è della serie classificata e venne visionato dai parlamentari componenti della commissione 'Moro 2'. Chiediamo che i documenti siano immediatamente desecretati, e per questo presenteremo un'interrogazione al Presidente del Consiglio Conte".
“I documenti del Sismi recentemente portati alla luce possono costituire un importante elemento per diradare le ombre che ancora oggi, a distanza di 39 anni, avvolgono la verità storica e processuale della strage di Bologna - dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida - Un tassello necessario al percorso di ricostruzione di quanto realmente accadde in quel tragico 2 agosto del 1980. La commissione d’inchiesta parlamentare proposta da Fratelli d’Italia, anche alla luce di quanto emerso proprio in queste ore, appare ancora più urgente e opportuna. Alla ripresa dei lavori di settembre chiederemo la calendarizzazione della nostra proposta di legge per la sua istituzione”. A intervenire, per Fdi, è anche Massimo Ruspandini: "Se i documenti del Sismi dimostrassero la pista palestinese ci troveremmo davanti a un punto di svolta e potremmo cancellare questa infamia storica della pista nera su Bologna e fare chiarezza anche su Ustica".
Per Elisabetta Zamparutti, ex parlamentare Radicale ed esponente di Nessuno tocchi Caino, è "sempre più necessario ed urgente togliere il segreto di Stato su quei documenti, visionati da parlamentari nelle Commissioni d’inchiesta sulle stragi ed il terrorismo, secondo i quali emergerebbe un movente diverso della strage di Bologna". “Da più parti - rileva Zamparutti - sentiamo parlare di elementi probatori e documenti che vanno in tal senso e rispetto ai quali penso che le forze parlamentari debbano sostenere l’Intergruppo '2 agosto - La verità, oltre il segreto sulla strage di Bologna' promosso da Federico Mollicone e Paola Frassinetti' e l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di terrorismo interno ed internazionale connessi alla strage di Bologna. I segreti di Stato -conclude - rischiano di essere funzionali a verità di regime, con il rischio di far prevalere la Ragion di Stato contro lo Stato di Diritto, la giustizia e la verità”.
Scrive in una nota Carlo Giovanardi: "Non posso divulgare, per rispetto al giuramento di fedeltà alla Repubblica che ho prestato come ministro e sottosegretario di Stato, gli agghiaccianti contenuti delle minacce di rappresaglie tra il 1979 e il 1980 che gruppi radicali palestinesi rivolgevano al nostro governo per non aver rispettato il cosiddetto Lodo Moro che consentiva il passaggio indisturbato di armi ed esplosivi sul nostro territorio in cambio della garanzia che non ci sarebbero stati attentati nel nostro paese. Come noto a queste minacce si aggiungevano quelle libiche, per contrastare la firma della Alleanza Italia-Malta che avvenne proprio il 2 agosto 1980". "Giovedì scorso -prosegue - a Montecitorio ho nuovamente segnalato le date nelle quali reperire i documenti più importanti, purtroppo di nuovo riclassificati Segretissimo dopo che è stato tolto il Segreto di Stato, con pesanti sanzioni penali per chi li divulga. Dopo 40 anni sono davvero insopportabili le passerelle a Bologna di chi ha il potere di rendere pubbliche le carte e non lo fa, per permettere finalmente a storici, studiosi ed alla opinione pubblica di capire chi davvero in tutti questi anni ha depistato e mistificato la realtà", conclude Giovanardi.
Maurizio Gasparri (Fi) commenta che i documenti del Sismi relativi all’estate del 1980 "sembrano molto simili a quelli che sono ancora secretati e dei quali io e altri politici chiediamo da anni la desecretazione. Quei rapporti che arrivano dal Medio Oriente aprono degli squarci di verità sulle stragi del 1980, compresa quella di Bologna". "Chi si oppone alla ricerca di una verità completa sbaglia. Queste rivelazioni - aggiunge - che arrivano dai documenti di Brescia inducono a fare chiarezza su tutto, altrimenti avremo documenti che sono ritenuti segreti ma che in realtà non lo sono. Dicono la verità su quella stagione drammatica di stragi".
Michaela Biancofiore (Fi) evidenzia che "secondo quanto emerso dallo scoop dell’AdnKronos, a 40 anni dalla strage di Bologna di cui ho un nitido impressionante ricordo di bambina, sono venuti alla luce due documenti del Sismi che aprirebbero una pista giudiziaria diversa da quella emersa dai processi". "I documenti contengono infatti - aggiunge - precise e gravissime minacce al nostro Paese, negli stessi anni, da parte del Fronte per la liberazione della Palestina causa il mancato rispetto di un presunto accordo 'Stato-terrorismo internazionale', al quale non si sarebbe prestato fede. Se questa fosse la verità le vittime non troverebbero pace e si aprirebbe un nuovo squarcio inquietante sulla nostra democrazia". "Aderirò al comitato 2 agosto della collega Frassinetti, ma non basta - urge la commissione d’inchiesta anche per accertare se vi è stato attentato contro la Patria da parte di istituzioni deviate e/o infedeli. Mi auguro -conclude - che il governo dell’onestà desecreti immediatamente gli atti per far emergere la giustizia giusta".
"Sono stato nel 2008 oratore ufficiale della celebrazione del 2 agosto, destinatario come tutti dei rituali fischi al governo. Sono quindi vivamente colpito dalle novità odierne, e spero che vengano desecretati tutti gli atti riservati in modo da far luce sulla tragedia di Bologna oltre ogni verità di comodo" dichiara Gianfranco Rotondi, vice presidente dei deputati Fi e presidente della Fondazione Dc.
"I documenti del Sismi che stanno emergendo confermano la esigenza di una desecretazione totale dei materiali che sono stati visti anche da alcuni commissari della seconda commissione d'indagine Moro ma che sono legati a un vincolo di segreto - dice Fabrizio Cicchitto - E' interesse di tutti e in primo luogo dei parenti delle vittime che si faccia luce sulla verità di questa strage. E' singolare invece la linea seguita dall'on. Bolognesi secondo il quale la strage è per definizione di matrice fascista e quindi qualunque nuovo elemento che va in altra direzione è considerato a priori inattendibile".
Riguardo ai due documenti del Sismi, secondo Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage del 2 agosto, "il problema per chi sta tirando fuori ste menate è uno solo: che adesso si sta facendo un'indagine seria sui mandanti che sta portando risultati di un certo tipo, di conseguenza saltano fuori queste storielle. Tutta questa roba è di nessun valore e viene fuori al momento opportuno". "Sono cose trite e ritrite, e Pacini dovrebbe fare lo storico non il mestatore, sarebbe ora che andasse a studiare, gli farebbe bene alla salute", dice Bolognesi all'Adnkronos. "La cosiddetta pista palestinese - conclude - è un insieme di carte e di ipotesi che non hanno neanche la dignità della pista".
Per Gero Grassi, ex deputato del Pd, già componente della commissione Moro, "non possiamo averne la certezza, ma gli atti venuti fuori dalle carte di Brescia mi sembrano attendibili. La questione però è un'altra - dice all'Adnkronos - Noi dobbiamo uscire dall'impasse, e l'unico modo per farlo è la desecretazione degli atti". "Siamo sempre allo stesso punto e dobbiamo cercare di uscirne - aggiunge Grassi - C'è un pezzo di politica che si muove per suffragare l'idea che a mettere a segno l'attentato del 2 agosto 1980 a Bologna siano stati i palestinesi, ed è la destra. Poi c'è un pezzo di politica, ed è la sinistra, che si è fatta l'idea che siano stati i fascisti. Noi non possiamo continuare a discutere sulle ipotesi". "Io chiesi la desecretazione di quegli atti - sottolinea l'esponente dem - già durante la commissione Moro, così come appoggiai l'idea che il presidente Gentiloni venisse a riferire in commissione. Torniamo al punto di partenza, bisogna desecretare gli atti perché sennò continuiamo a parlare di ipotesi invece che di fatti". D'altra parte, "se io dico che in quegli atti mi sembra di capire che non ci siano ipotesi che vanno nella direzione del processo, che potrebbe esserci qualcosa di diverso, e vengo accusato di essere un depistatore - si sfoga Grassi - allora vuol dire che si è superato il buon senso. Per chiudere la querelle, non resta che desecretare. Noi abbiamo il dovere di dare la verità ai giovani e la giustizia a chi è morto, tutto questo si raggiunge solo così. Conte se c'è batta un colpo".
Strage di Bologna, l’ira del Pd Bolognesi: insulti al ricercatore che ha trovato le carte del Sismi. Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. È una furia l’ex-parlamentare Pd, Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna. L’esponente dem, che ritiene di essere l’unico depositario della verità sull’attentato del 2 agosto ‘80, non ci sta, non accetta possibili verità alternative. Spiazzato dalle nuove carte del Sismi trovate per caso dal ricercatore Giacomo Pacini fra i fascicoli processuali del dibattimento sulla strage di piazza della Loggia a Brescia, Bolognesi non trova nulla di meglio che insultare lo storico: “Pacini dovrebbe fare lo storico non il mestatore, sarebbe ora che andasse a studiare, gli farebbe bene alla salute”. Un’aggressione, quella di Bolognesi al ricercatore, che tradisce la totale mancanza di equilibrio dell’esponente dem e la rabbia per le nuove rivelazioni sulla pista palestinese: “Sono cose trite e ritrite – prova a controbattere Bolognesi nel tentativo di ridurre a burletta la vicenda – La cosiddetta pista palestinese è un insieme di carte e di ipotesi che non hanno neanche la dignità della pista”. Peccato che perfino esponenti del suo partito, come il parlamentare Pd Gero Grassi la considerino molto più che una pista dopo aver visto le carte segretate in Commissione parlamentare Moro, carte di cui nessuno può parlare per non violare il segreto di Stato. Non è un caso che Bolognesi ieri abbia esplicitamente minacciato il suo collega di partito Grassi e chiunque parli di pista palestinese per la strage di Bologna avvertendo che gli avvocati dell’Associazione guidata dallo stesso Bolognesi sono pronti a denunciarli per depistaggio, il nuovo reato introdotto nel 2016.
Strage di Bologna, Rampelli: «Le note del Sismi sono una svolta, ora via tutti i segreti». Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. Sono «atti dirimenti per la ricerca della verità». Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, interviene sul caso dei due documenti del Sismi «riservatissimi» scoperti dal ricercatore Giacomo Pacini e collegati alla strage di Bologna e sottolinea che «potremmo essere di fronte a una clamorosa svolta nelle indagini». «Si lavori – chiede – per desecretare i documenti».
Una svolta «clamorosa». «In merito alla strage di Bologna, la notizia dell’esistenza di due documenti del Sismi – che parlerebbero delle minacce di attentati all’Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina a ridosso delle stragi di Bologna e Ustica – costituiscono oggi più che mai atti dirimenti per la ricerca di quella verità storica e processuale che l’Italia attende da 39 anni», sottolinea Rampelli. «Significa – aggiunge l’esponente di FdI – che potremmo essere di fronte ad una clamorosa svolta nelle indagini. Prima fra tutte la revisione del processo».
Rampelli: «Commissioni d’inchiesta chiave per la verità». «Si lavori quindi per desecretare i documenti», è l’esortazione di Rampelli, che ricorda come «a questo punto la proposta di legge promossa da Fratelli d’Italia per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Bologna, che si aggiunge alla pdl che presentai un anno fa per la richiesta di una commissione d’inchiesta su Ustica, diventa la chiave d’accesso per raggiungere la verità». «Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e – conclude il vicepresidente della Camera – a quella parte politica accusata per bugiarda estensione di un delitto incompatibile con i suoi principi».
LA VERITÀ SULLA BOMBA. Strage di Bologna, le carte segrete sui palestinesi. I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del "Lodo Moro". Gian Marco Chiocci su Il Tempo il 28 Luglio 2017. È giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell’estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell’epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio ‘79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l’apertura di un’inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent’anni.
Ma a 37 anni dal mistero dell’esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l’accordo fra i fedayn e l’Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi. Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell’autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all’interno dell’auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell’organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l’Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh. Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all’accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all’arabo residente a Bologna, l’accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l’intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell’arresto a Ortona rappresentava l’inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c’era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l’Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all’accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l’arresto di Saleh, i vertici dell’Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos “lo Sciacallo” e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi – stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall’omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell’ala oltranzista dell’Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell’Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l’invito alla prudenza dell’ala «moderata» e più violenta e reclamò un’azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l’Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall’allora responsabile dell’informazione Abu Sharif («io personalmente siglai l’accordo con l’Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beirut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp (...) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell’Italia all’impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l’ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell’anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l’idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado – così riportano le note coperte dal sigillo del segreto– di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l’attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all’epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut. Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l’allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l’imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l’Olp di Araf. Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l’ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L’Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E’ l’inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel ‘73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna. Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c’è più feeling.Ogni canale viene interrotto. E’ il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d’aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E’ stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent’anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all’indomani dello scoppio nelal sala d’aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l’estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi. E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell’Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l’avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come anica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beiurut un leader dell’Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che noi loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto. Mettetela come vi pare ma l’escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece – all’epoca - diventa l’unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l’Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi (e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell’ingiustificata presenza a Bologna del gruppio Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell’Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l’inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l’esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Kram, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell’inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015. Oggi gli unici che si ostinano a negare l’importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri necessari. D’ora in poi, chi non agisce, è complice.
Strage di Bologna, ritrovato il probabile interruttore. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. La conferma sulla composizione dell’esplosivo, l’eventualità di un’esplosione accidentale e il ritrovamento, tra le macerie, di quello che potrebbe essere l’interruttore che il 2 agosto del 1980 provocò la strage della stazione di Bologna. Ottantacinque furono le vittime, oltre 200 feriti. Sono questi alcuni degli elementi emersi nella perizia chimico-esplovistica disposta nel processo a Gilberto Cavallini (depositata, dopo varie proroghe, dagli esperti Danilo Coppe e Adolfo Gregori). L’ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) è accusato di concorso nell’attentato. La bomba a tempo che esplose alle 10.25, e provocò la morte di 85 persone (e il ferimento di duecento) non ha mandanti. L’ex capo della P2 Licio Gelli, l’ex agente del Sismi Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte vennero condannati per il depistaggio delle indagini. Nel 2007 arrivò la condanna definitiva in Cassazione a 30 anni per Luigi Ciavardini (diventeranno poi 26, prima di ottenere nel 2009 la semilibertà), esponente dei Nar, minorenne all’epoca dei fatti. Oltre agli studi dell’epoca, sono stati analizzati i reperti rinvenuti su un cartellone affisso nella sala d’aspetto, su alcuni oggetti consegnati dai parenti delle vittime, su parti di terriccio conservate dall’epoca e nelle macerie rimaste per anni esposti alle intemperie ai Prati di Caprara, una vecchia caserma nella periferia. L’interruttore, in particolare, presenta una levetta simile a quelle usate nell’industria automobilistica che — dicono i periti — «in una sala d’attesa di una stazione ferroviaria non aveva ragione di esserci». Dispositivi simili vennero trovati anche nell’ordigno destinato a Tina Anselmi e in quello trasportato da Margot Christa Frohlich, la terrorista tedesca indagata e poi archiviata insieme a Thomas Kram nella cosiddetta «pista palestinese», arrestata a Fiumicino nel 1982. La perizia, infine, parla anche della composizione della bomba, «essenzialmente da Tnt e T4 di sicura provenienza da scaricamento di ordigni bellici e da una quantità apprezzabile di cariche di lancio (che giustifica la presenza di nitroglicerina e degli stabilizzanti rinvenuti)». Inoltre, »non si può escludere completamente la presenza di una percentuale di gelatinato a base di nitroglicerina».
Strage alla stazione di Bologna, forse trovato l'interruttore della bomba. Le indagini per il nuovo processo in Assise hanno portato al riesame dei detriti conservati ai Prati di Caprara. I difensori dell'ex Nar Cavallini sperano di far riaprire la pista palestinese. I familiari delle vittime: "Confermato il tipo di esplosivo usato dal terrorismo di destra". La Repubblica il 27 giugno 2019. Fra le macerie ai Prati di Caprara, dove per anni sono rimasti i detriti della stazione di Bologna esplosa il 2 agosto 1980, potrebbe essere stato trovato l'interruttore della bomba che provocò 85 morti e 200 feriti. Il nuovo particolare emerge dalla perizia disposta dalla Corte di assise nel processo a carico dell'ex Nar Gilberto Cavallini e depositata dal geominerario esplosivista Danilo Coppe e dal tenente colonnello Adolfo Gregori, del Ris di Roma. Con una levetta simile a quelle usate nell'industria automobilistica, "la sua deformità fa ritenere l'interruttore molto vicino all'esplosione". In una sala d'attesa di una stazione ferroviaria, spiegano, "secondo chi scrive non aveva ragione di esserci". Dispositivi simili, osservano poi i periti, risultano essere stati trovati nell'ordigno destinato a Tina Anselmi e in quello trasportato da Margot Christa Frohlich quando venne arrestata a Fiumicino nel 1982. Si tratta della terrorista tedesca indagata e poi archiviata insieme a Thomas Kram nella cosiddetta 'pista palestinese', ipotesi alternativa a quella accertata dalle sentenze passate in giudicato che si concentravano su una pista neofascista. Christa Margot Frohlich era una terrorista tedesca appartenente al gruppo di Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos o "Carlos lo sciacallo", e fu indagata e poi archiviata (nel 2015) assieme a Thomas Kram. L'interruttore viene citato nel capitolo della relazione in cui i periti scrivono che sicuramente "con l'esplosivo viaggiava almeno un detonatore". Nel descriverlo, Coppe e Gregori lo identificano come "un prodotto di qualità molto bassa" e rilevano che "la levetta on/off pare essere di tipo comune. Non riporta alcuna scritta identificativa ed è simile ad alcune usate nell'industria automobilistica per attivare, ad esempio, luci o tergicristalli", anche se "il fatto che sia montata su un supporto la rende meno automobilistica". Nella perizia si conferma, poi, che la bomba era costituita "essenzialmente da Tnt e T4 di sicura provenienza da scaricamento di ordigni bellici e da una quantità apprezzabile di cariche di lancio (che giustifica la presenza di nitroglicerina e degli stabilizzanti rinvenuti)". Inoltre, "non si può escludere completamente la presenza di una percentuale di gelatinato a base di nitroglicerina". Si tratta di un passaggio che ha colpito gli avvocati di parte civile: "È una conferma - dice Andrea Speranzoni, che assiste i familiari delle vittime - di quanto dichiarato dai pentiti, come Sergio Calore e Paolo Aleandri". La perizia parla di "congruenza" con queste dichiarazioni e che quindi potrebbe collegare l'esplosivo a quello utilizzato in quel periodo dal terrorismo di destra. Ma nelle conclusioni dell'elaborato si legge anche che su basi esclusivamente probabilistiche "si ritiene che, se c'era un dispositivo tra la sorgente di alimentazione e l'innesco, questo poteva essere un timer meccanico. Non si esclude però, in via ipotetica, che l'interruttore di trasporto fosse difettoso o danneggiato tanto da determinare un'esplosione prematura-accidentale dell'ordigno". Un elemento definito "significativo e innovativo" dall'avvocato Gabriele Bordoni, difensore di Gilberto Cavallini, come anche il fatto che secondo i periti, nella sala d'attesa della stazione di Bologna non c'erano le condizioni perché un corpo venisse completamente dematerializzato.
· L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.
LA MISTERIOSA MORTE DI LIGATO, “L’ITALIETTA VIGLIACCA” E IL SUICIDIO DELLA PRIMA REPUBBLICA. Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano” il 3 Agosto 2019. I giornalisti trentenni degli anni '80 erano bravi a capire che c' era qualcosa da capire. I quaranta-cinquantenni erano bravissimi a fingere di aver già capito. Anche politici e manager credevano di capire tutto: lo provava il fatto che fossero classe dirigente. Solo che non hanno capito il 1989, e la prova è che poco tempo dopo non erano più classe dirigente. Non hanno capito la fine del comunismo e la globalizzazione. Il futuro bussava alla loro porta e i Craxi, gli Andreotti, i Forlani, ma anche gli Agnelli e i De Benedetti, pensarono bastasse fingere di non essere in casa. Piccoli uomini prepotenti, presuntuosi, provinciali e ignoranti che hanno innescato il declino italiano credendosi infallibili solo perché i giornalisti loro dipendenti, un po' servi e specchi delle loro brame, glielo facevano leggere ogni mattina. Dopo 30 anni è possibile mettere in fila le cose. E ripartire da quella notte del 26 agosto, quando nei pressi di Reggio Calabria alcuni killer assoldati dalla 'ndrangheta massacrarono con 26 (ventisei) colpi di pistola (una Glock, l' arma dei servizi segreti) l' ex presidente delle Ferrovie dello Stato Lodovico Ligato, 50 anni appena compiuti. La misteriosa morte di Ligato simboleggia il suicidio della Prima Repubblica. L' estroverso esponente della Dc calabrese, pupillo di Riccardo Misasi, era uno degli uomini più potenti d' Italia. Sulla sua scrivania giravano piani d' investimenti ferroviari oggi misurabili in 50-100 miliardi di euro (fino alla caduta del muro di Berlino l' Italia era piena di soldi assicurati dall' America pro bono pacis, per così dire, e gli sventurati non videro che la pacchia stava finendo). Il cadavere di Ligato era ancora caldo e già veniva diffusa la vulgata liberatoria: regolamento di conti tra mafiosi. Era la tipica storia anni '80 su cui un giornalista con poca esperienza si buttava pensando: "Qui si capirebbe tutto, se solo fossi in grado di capirlo". Nessun politico andò al funerale, nemmeno il suo padrino. Solo un politico calabrese, il socialista Giacomo Mancini, spese parole decenti per il trucidato marchiando Misasi a lettere di fuoco: "Una sfinge gelida, di pietra e senza pietà, senza un fremito di umanità nei confronti dell' amico ucciso". Poi incoraggiò il giovane cronista con una rivelazione a metà: "Indaghi, indaghi. Si ricordi che pochi giorni prima di essere ucciso Ligato mi venne a trovare e mi disse che aveva deciso di rivelare molte cose che sapeva". Che cosa sapeva Ligato? Sapeva che nel novembre 1988 l' aveva disarcionato dalle Fs un' inchiesta giudiziaria farlocca, passata alla storia come "lenzuola d' oro", uno di quei capolavori della malagiustizia che piacciono molto ai garantisti a gettone e in cui la procura della Repubblica di Roma eccelle da sempre. Ligato voleva costruire la ferrovia ad alta velocità e il sistema politico bollava i suoi piani come faraonici. Dopo 30 anni è tutto più chiaro. Ligato voleva bandire le gare d' appalto internazionali previste dalle regole europee sul mercato unico che dovevano entrare in vigore il 1° gennaio 1993. Due anni dopo la sua morte le Fs di Lorenzo Necci affidarono l' alta velocità a trattativa privata ai sette consorzi guidati dall' Iri e dall' Eni (pubblici) e dalla Fiat e dalla Montedison (privati). Il disegno era di tagliare fuori la concorrenza straniera per riservare il grande affare ai costruttori italiani e tenerli indenni dal futuro che stava incominciando. Nella morte dimenticata di Ligato si riassume il 1989 italiano che inizia con la cacciata dalla Fiat di Vittorio Ghidella. Il padre della Uno e della Thema vuole giocare la partita facendo auto migliori. Gianni Agnelli e Cesare Romiti invece decidono di difendere dalla globalizzazione i loro "tesoretti" mollando ai clienti di un mercato protetto la Duna, e allargando il loro potere su tutto ciò che muove denaro. Il 2 maggio la Fiat compra la maggiore impresa di costruzioni, la Cogefar di Franco Nobili, e crea la Cogefar-Impresit, gigante destinato a fare la parte del leone nell' alta velocità. Il 14 maggio Bettino Craxi e il segretario della Dc Arnaldo Forlani stringono a margine del congresso socialista di Milano il patto del camper, che porterà alla caduta di De Mita e alla nascita del governo Andreotti, dando corpo al cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani). Eugenio Scalfari lo definisce "un accordo dal quale emergono alcuni lineamenti di regime, un organigramma spartitorio e, come presto vedremo, una divisione di spoglie negli enti e nelle banche". Pochi giorni dopo l' Iri di Romano Prodi (creatura di De Mita) consegna il Banco di Santo Spirito alla Cassa di Risparmio di Roma dell' andreottiano Cesare Geronzi che poi si prenderà dall' Iri anche il Banco di Roma. In poche settimane, in nome del "primato della politica", Prodi viene comunque cacciato dall' Iri e sostituito proprio da Nobili, altro andreottiano a 24 carati. Franco Reviglio viene sostituito all' Eni dal socialistissimo Gabriele Cagliari. Si chiude la stagione dei "professori", si torna ai lottizzati. Credevano di blindare il proprio potere, stavano solo innescando la crisi terminale della loro Italietta vigliacca e impaurita che avrà la prima esplosione tre anni dopo con Mani Pulite. Aiutati anche dall' incidente che ha tolto di mezzo Carlo Verri, 50 anni come Ligato, l' uomo a cui Prodi aveva chiesto di rendere decente l'Alitalia. Il 6 novembre, tre giorni prima della caduta del muro di Berlino, un autobus dell' Atac, per una volta puntuale, travolse la sua Thema uccidendo lui e l' autista. Pare che fossero passati con il rosso. Una tragica casualità che incarnò lo spirito dei tempi.
· L’omicidio di «Francescone», attore che recitò con Gassman e Manfredi.
L’omicidio di «Francescone», attore che recitò con Gassman e Manfredi. Pubblicato domenica, 26 maggio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Nel gergo dei cinematografari, era «l’incassatore» perfetto. Mica facile trovarne così bravi. Prendeva tante di quelle sberle, senza fiatare, con quella faccia da bonaccione che inteneriva il pubblico, da far venire giù la sala. Come nella scena cult del primo episodio de «I nuovi mostri» firmato da Monicelli-Risi-Scola, anno di grazia 1977. Vittorio Gassman nei panni di un cardinale capita per caso (un guasto all’auto) in una chiesa di periferia, dove il prete-operaio è in assemblea con i fedeli, e, per mettere in chiaro che la parrocchia è luogo «di preghiera e mansuetudine» e non «di comizi e gazzarra», con chi se la prende? Sequenza memorabile. Il Mattatore passeggia benedicente tra i banchi, si para di fronte al più scalmanato (quello che ha appena aizzato tutti urlando «annamo, occupamo, menamo!»), gli propina un breve pistolotto contro la «stupida e inutile violenza» e all’improvviso, prendendo la «rincorsa» da dietro la spalla, gli rifila un fragoroso ceffone in pieno volto, tra le risate generali. «T’ho fatto violenza? Sì, lo so, ho aumentato il tuo rancore», dice il Gassman in tonaca da porporato. «Tacci tua...», sibila con scarso rispetto curiale lo schiaffeggiato, accarezzandosi la guancia. L’attore Francesco Anniballi, ucciso a 51 anni nel 1992: delitto mai risoltoL’ucciso - l’ennesima vittima di un delitto destinato a diventare cold case - era lui: Francesco Anniballi, sposato e padre di tre figli, stazza da peso massimo e grande caratterista con una quarantina di film all’attivo, fu ammazzato a 51 anni sotto casa, il 27 gennaio 1992. Erano le 8 di mattina, lui era appena sceso, stava andando a buttare l’immondizia. L’azione si svolse in via Marcio Rutilio, a Centocelle. Il killer arrivò a bordo di una Renault 4 bianca, si calò un cappuccio scuro sul viso e puntò la pistola. Per farlo voltare, gli chiese «Sei tu Francescone?», come lo chiamavano tutti, e lui ebbe un riflesso istintivo, capì che non era un film, si girò e prese a correre a zig-zag, verso l’angolo del cortile, per schivare il fuoco. Ma lo scatto felino, al quale era abituato avendolo provato tante volte sul set, non bastò a salvarlo. Raggiunto da due proiettili, uno alla gamba e l’altro alla schiena, Anniballi fu caricato in ambulanza agonizzante e morì poco dopo in ospedale. «Hai saputo? Hanno sdraiato Francescone!» La notizia dell’agguato, nel tipico gergo di malavita, in pochi minuti piombò a Cinecittà, a un paio di chilometri in linea d’aria, e da lì fece il giro dei tanti - maestranze, comparse, veri e propri divi - che lo conoscevano. Il parrocchiano al quale Gassman aveva regalato celebrità fin da giovanissimo aveva lavorato a contatto con numerosi registi e attori famosi: dalla prima particina in Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo all’ultimo sceneggiato, Scoop, con Michele Placido, in onda su Rai2 proprio in quei giorni. Francesco Anniballi con Nino Manfredi in una scena di «Brutti, sporchi e cattivi» (1976)Via via s’era ritagliato un ruolo specifico, «Francescone», tale da garantirgli ingaggi frequenti e la pagnotta per tutta la famiglia a fine mese. Se serviva un romanaccio verace, un bandito di borgata con la faccia da buontempone, un «energumeno» sempre a caccia di guai (le mani le alzava pure lui, all’occorrenza...), oppure un figlio degenere della Roma più disperata, come Domizio al fianco di suo padre Giacinto, interpretato da Nino Manfredi, in «Brutti, sporchi e cattivi» (regia di Ettore Scola: 1976), nell’ambiente si pensava a lui. Senza dimenticare che Anniballi fu anche stuntman e controfigura (più volte di Bud Spencer), nonché negli ultimi 15 anni - eccola, una possibile pista - segretario di produzione in molti film finanziati dalla Clemi, la casa cinematografica di Giovanni Di Clemente. Chi poteva avere avuto interesse a eliminare un «pezzo di pane» come lui, «uomo simpatico, generoso e innamorato del proprio lavoro», come testimoniò il produttore amico quella mattina stessa? Già, dove cercare il killer della R4? La Squadra Mobile, all’epoca impegnata nel giallo di via Poma, primo grano del lungo rosario dei sanguinolenti anni Novanta (seguiranno l’Olgiata, il detective al binario 10, la parrucchiera, il cartomante, l’assicuratrice e quant’altri...), in mancanza di un testimone o di un numero di targa si orientò verso il movente più verosimile: la vendetta. Tamara Anniballi, figlia di «Francescone», ricorda spesso il padre sui social «Francescone» poteva aver pagato con la vita la sua attività professionale dietro le quinte, il fatto di occuparsi della selezione delle comparse, quasi sempre scelte in ambienti popolari, senza badare troppo alla fedina penale. Forse era stato un «no» pronunciato in buona fede, per esigenze di copione, ad esporlo alla «lezione» di qualche escluso dal set? A sostegno di tale scenario c’erano sia un recente e acceso diverbio sul lavoro, accertato dalla polizia negli interrogatori, sia l’analisi della scena criminis. La traiettoria dei proiettili, infatti, era stata dall’alto al basso e il colpo mortale, quasi certamente, s’era conficcato nella schiena nell’istante in cui l’omone s’accasciava sull’asfalto. Dinamica più simile a un tentativo di «gambizzazione», dunque, che a un piano omicida premeditato. Il cortile di via Marcio Rutilio, a Centocelle, dove il 27 gennaio 1992 fu ucciso Francesco Anniballi. Le indagini, in ogni caso, finirono presto su un binario morto. E anche i giornali, dopo i primi articoli, smisero di occuparsi dell’agguato. Per non parlare del dorato mondo del cinema: il parrocchiano di Gassman e il Domizio di Manfredi furono dimenticati nell’arco di un mattino. Scarsa collaborazione alle indagini, nessun ricordo pubblico, rimozione totale. Il delitto di via Marcio Rutilio, stranamente, non fu neanche inserito nella lista del cold case continuamente riproposta dai giornali, ogni volta che se ne aggiungeva uno nuovo. Non è che quanto accaduto quella mattina d’inverno rischiava di alzare il velo su qualche impiccio di troppo o su combriccole non proprio immacolate dalle parti di Cinecittà? «Basta che non si sappia in giro», potrebbe essere la risposta. Ma non fu una valutazione degli inquirenti, bensì il titolo di uno dei tanti film (per la regia del trio Comencini-Magni-Loy, anno 1976) ai quali il gigante buono di Centocelle partecipò...«Tanti auguri, Pa’... Non mi hai mai lasciata...» Sono le parole - accompagnate da tanti cuoricini rossi - con cui Tamara, la figlia, ogni 7 giugno saluta suo padre su Facebook, in occasione del compleanno, «postando» foto o spezzoni tratti da vecchi film. Tra pochi giorni ne avrebbe compiuti 79, quel nonno tanto simpatico, e i nipoti di sicuro gli avrebbero fatto una gran festa... Ciao, «Francescone». E perdonali, per quello schiaffo...
· Il giallo di Eleonora Scroppo, uccisa mentre cenava in famiglia 20 anni fa.
Il giallo di Eleonora, uccisa mentre cenava in famiglia 20 anni fa. Pubblicato lunedì, 25 marzo 2019 da Corriere.it. C’è una fotografia, nei fascicoli impolverati di Piazzale Clodio, muti testimoni della resa della giustizia sui crimini più impenetrabili, che ha il sapore d’uno sberleffo. Guardatela. Sembra un film. Meglio: è un film. Il killer punta la pistola in faccia alla vittima. Ha lo sguardo cattivo, il ghigno di chi sa di poter sfidare la legge, ché poi tanto finisce sempre così: la polizia indaga e la magistratura assolve... L’uomo col dito sul grilletto è un attore. Non eccelso, ma neanche malaccio: ha recitato in numerose pellicole a partire dagli anni ‘60, ha conosciuto registi famosi come Steno, Comencini, Squitieri, Lattuada. La parte del cattivo sembra riuscirgli bene. Anzi no. Cambio di scena. Ora è vita reale. Sono i poliziotti della Squadra Omicidi - corre l’anno 1998 - ad accusarlo di essere lui il cattivo. Peggio: lo spietato killer di una poveretta il cui unico torto è stato sedersi a tavola al posto sbagliato, al centro della linea di fuoco. Da un lato il set. Le revolverate a salve. Il sangue col succo di pomodoro. Dall’altro la tempesta di proiettili, veri, di una calibro 7.65. Le accuse, l’alibi incerto, lo spauracchio della galera. Fino a che - come nei polizieschi da lui stesso interpretati - arrivano i titoli di coda: pericolo scampato, era solo finzione...Eleonora Scroppo, uccisa a 50 anni il 9 ottobre 1998, mentre cenava con i familiari in una villetta sulla CassiaCiak. Ecco a voi uno dei delitti più enigmatici e inquietanti lasciati in eredità dal secolo scorso. Dunque. È il 9 ottobre 1998 quando Eleonora Scroppo, assicuratrice cinquantenne, si siede a tavola con il marito Stefano Ciampini e uno dei due figli al pian terreno di una villetta di via Due Ponti, sulla Cassia. La donna è contenta, ha appena preparato la fonduta. Nella cucina, divisa da una porta finestra dal giardino, la tv è accesa. Sono le 20.26, il Tg1 sta per finire. Dentro, il tepore di una casa borghese. Appena fuori, il buio totale. Il killer animato da odio selvaggio, quindi, non può essere visto mentre si apposta e fa fuoco. Il vetro va in frantumi. «Per un istante ho pensato che fosse esplosa la bottiglia d’acqua, poi ho visto mia moglie accasciarsi. Sembrava un film», racconterà il capofamiglia sotto choc. Sette proiettili. Due trafiggono Eleonora al petto e al collo. Una morte istantanea. Assurda e inspiegabile. «Bastardo, ti prenderemo», sibila un poliziotto, al termine dei rilievi. Io c’ero, quella sera. Ero appostato assieme ad altri giovani cronisti oltre il cancello, sotto i bagliori celesti dei lampeggianti delle «volanti». Il figlio più piccolo era appena rientrato su una Y10 da una partita di calcetto. Non sapeva. Il suo urlo mi fece accapponare la pelle. «Non ci credo! Nooo...! Dov’è mamma?» Non osai avvicinarmi. Pensai: certe volte hanno ragione, ad odiarci. L’analisi della scena del crimine chiarì subito che il giustiziere conosceva bene il luogo e cercava la strage. I colpi, sparati a raggiera, dimostravano che il Charles Bronson di Roma nord aveva nel mirino l’intera famiglia. Perché? L’anziano padre della vittima, che aveva intestato a Eleonora l’agenzia assicurativa (anche se in concreto era il genero a dirigerla), abitava in fondo alla stradina. Aveva fatto in modo di tenersi vicino le tre figlie, regalando loro una porzione ciascuna delle villette bifamiliari del comprensorio, scelto proprio per la sua tranquillità. La vita del clan Scroppo-Ciampini pareva felice, perfetta, invidiabile...Le prime indagini esplorarono il movente passionale, inesistente. Poi si sondò una vendetta familiare, legata a una lite per questioni economiche con un cognato, pure questa infondata. Si pensò quindi alla droga, magari per giri strani dei figli: niente, due ragazzi d’oro. E un buco nell’acqua si rivelò anche la pista in ambito lavorativo, uno screzio, qualche rivalsa, magari un cliente insoddisfatto per un premio non incassato...Stefano Ciampini, il marito della vittima, scampato con il figlio alla furia del killer, vent’anni dopo chiede giustizia. Nel 2002, tuttavia, il giallo registrò una scossa. Emerse una traccia nuova, con un retroscena non rivelato: quel vicino famoso li detestava, gli Scroppo. Per il troppo rumore, e soprattutto perché, possedendo 4 immobili su 6, prevalevano regolarmente nelle beghe condominiali. Ciampini - ingegnere per titolo di studio, assicuratore per lavoro e detective per disgrazia ricevuta - prese a incalzare il pm, Leonardo Frisani. Le telefonate diventarono quotidiane: «Dottore, novità?» Fatto è che, nel registro degli indagati, il dirimpettaio ci finì davvero. Proprio lui, l’attore con la faccia da duro che, seppure senza vincere l’Oscar, una citazione in Wikipedia se l’è guadagnata: Loris Bazzocchi, «attore italiano», nato a Ravenna, 67 anni al momento del fattaccio, oggi 88, noto come «caratterista in una sessantina di pellicole». A dare notizia della svolta fu l’Ansa, il 26 luglio 2002. «Donna uccisa mentre cenava, un indagato». Il nome? Coperto. Al presunto assassino dell’assicuratrice fu evitata la gogna mediatica toccata ad altri presunti innocenti famosi, dal Raniero Busco di Simonetta Cesaroni ai due amanti della commercialista «sigillata» in un armadio. Forse perché era il gioco di specchi a prevalere? Fiction o realtà? Gli investigatori, passando al setaccio la vita di Bazzocchi, scoprirono che aveva recitato anche in «Colpo in canna», film del 1975 (con una strepitosa Ursula Andress) dal titolo forse premonitore. E che la scena con la pistola era tratta da «Il poliziotto è marcio», regia di Fernando Di Leo, mago del noir anni ’70, di recente rivalutato anche da Quentin Tarantino... Per inchiodarlo, però, le suggestioni non bastavano. Ci volevano indizi seri. E almeno tre ne saltarono fuori. Il sospettato all’ora del delitto aveva detto di essere andato a un bancomat, ma del prelievo non c’era traccia; un altro condomino, oggi residente nel viterbese, aveva raccontato che tempo prima l’attore gli aveva chiesto come procurarsi un’arma, e questa non pareva una quisquilia; infine c’era la circostanza che lui stesso, intercettato per mesi, non s’era mai lasciato andare a frasi di sconforto per un’indagine tanto grave a suo carico. Self control eccessivo? Situazione kafkiana. Vedovo e presunto colpevole s’incontravano all’edicola, al tabaccaio o al bar guardandosi in cagnesco. «Ci vediamo in aula», rimuginava Ciampini, che in più di un’intervista fu esplicito: «Sono convinto che sia stato il mio vicino». A fine anno venne depositata la chiusura delle indagini, che di solito prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, ma invece no, sorpresa. Lo stesso pm poche settimane dopo chiese l’archiviazione del caso («Il contesto indiziario non consente sbocco processuale»), sulla base di una triplice constatazione: assenza di prove decisive, nessuno aveva visto niente, Bazzocchi continuava a dirsi innocente. Piuttosto che perdere in Corte d’assise, Frisani scelse di non giocare la partita. Ma Ciampini non molla...La polizia davanti al comprensorio di via Due Ponti, la sera del 9 ottobre 1998 (foto Mario Proto)Vent’anni dopo - in tasca l’iPhone al posto del taccuino - torno in via Due Ponti e trovo tutto cambiato. Sono rimaste solo le sorelle di Eleonora. Una mi aggredisce: «Lasciateci in pace, basta!» Fatico a farle intendere che un cronista che si occupa di cold case lo fa anche e soprattutto in nome delle vittime, a lui non possono venirne che guai. Il marito e i figli si sono trasferiti altrove, in cerca di un po’ di serenità. Gli Scroppo - deduco - non hanno più il controllo delle riunioni di condominio. La signora, comprensibilmente, è agitata. Telefona a suo cognato per farmi allontanare e me lo passa. Ma lui, l’uomo scampato al cecchino, la pensa diversamente: vuole ancora giustizia, oggi come allora, e accetta di parlare. «Si vada a leggere le carte - mi esorta l’ingegnere - Una saga di errori incredibili! Pensi che il pm, invece di tendere una trappola sulla faccenda della pistola, nell’interrogatorio fece il nome del testimone accusatore. E per l’indagato fu gioco facile negare». Prendo coraggio, busso alla casa del delitto. L’ha acquistata un pensionato dotato di molta ironia. «Buongiorno, vuole saper come ci sto? Benissimo. Posto tranquillo, spero». Mi faccio mostrare la cucina, la vetrata. Il muro che un ipotetico killer forestiero potrebbe aver scavalcato. Analizzo le altre vie di fuga in giardino. Infine chiedo chi abita, adesso, nella villetta a fianco... «Cerca Loris Bazzocchi? Perché, non lo sa? Da anni vive in Germania, con la moglie e il figlio». Dove? «Quante ne vuole! Non ricordo!» Dissolvenza. Titoli di coda...Precedenti puntate: Il delitto del detective al binario 10 (4 marzo 2019), La commercialista «sigillata» nell’armadio(11 marzo 2019), Omicidio al cianuro, giallo risolto in 10 mosse (18 marzo 2019)
· Le sfide folli: Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
«Escape room»: sequestrato palazzo con 150 stanze. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. In un edificio (diroccato) dell’Enpam doveva tenersi «l’evento horror più grande d’Italia». In tre anni le Escape room si sono moltiplicate, in particolare nelle vie meno battute di periferia. Una cinquantina di persone esplora lentamente e nel buio la «escape room» risolvendo enigmi, evitando trucchi, superando trabocchetti, sfuggendo a una ventina di mostri e fantasmi che ti inseguono e possono anche afferrarti. Solo le fiammelle di poche candele e le torce elettriche che hanno avuto all’ingresso illuminano i corridoi e le 150 stanze dell’enorme edificio fatiscente in zona Rogoredo in cui si svolge «l’evento horror più grande d’Italia», dicono gli organizzatori, ma che ora la Procura di Milano ha deciso di sequestrare. Lì dentro giocano ogni sera fino a 450 persone, ma non c’è la minima misura di sicurezza secondo i pm. Le «escape room» sono spuntate come funghi a Milano e in molte altre città. Si va da normali stanze in cui anche i minorenni, in una sorta di caccia al tesoro al buio, devono riuscire a trovare la chiave per uscire, fino ai due piani utilizzati per il «The gate - Dentro l’abisso» dell’edificio di sette piani in disuso in via Giacomo Medici del Vascello che l’Enpam — l’ente di previdenza dei medici che si dice «del tutto estraneo» alla vicenda — ha affittato a una società che a sua volta l’ha subaffittato agli organizzatori. Biglietto da 44 euro riservato ai soli maggiorenni che, prima di entrare, devono firmare una liberatoria in cui si assumono ogni responsabilità per incidenti a sé o agli altri. Sabato, prima che alle 19 iniziasse il primo dei tre turni di gioco di due ore ciascuno, Polizia, Vigili del fuoco (ai quali era arrivata una lettera di segnalazione) e una squadra della polizia giudiziaria della Procura si sono presentati all’ingresso per un’ispezione nei sette piani dell’edificio. Nei 6.500 metri quadrati di superficie usati non c’era alcun sistema di sicurezza, non c’era l’elettricità, le uscite di sicurezza non solo non erano segnalate ma erano anche mascherate mentre dall’alto incombevano i pannelli del controsoffitto in bilico. Non c’era neanche alcuna telecamera di sicurezza che potesse dare la possibilità di controllare ciò che accadeva all’interno e consentire di intervenire tempestivamente in caso d incidenti, anche perché i partecipanti erano obbligati a lasciare all’ingresso i telefoni cellulari. «Nelle profondità di un edificio abbandonato, in un labirinto di stanze, corridoi e cunicoli segreti perderete voi stessi e vi ritroverete soli, nell’oscurità», evocava il sito Internet. «La Procura non ha nulla contro i divertimenti e coloro che vogliono svagarsi, ma a patto che tutto si svolga in piena sicurezza sia per i partecipanti che per i lavoratori», dichiara Procuratore aggiunto Tiziana Siciliano che coordina le indagini dirette dal sostituto Sara Arduini. In attesa di identificare organizzatori e responsabili, al momento l’inchiesta è contro ignoti e ipotizza la violazione della normativa antinfortunistica. Perché nell’ «Escape room» di Rogoredo lavoravano anche una ventina di figuranti. Attori che impersonavano mostri, zombie e altre creature fantastiche la cui incolumità, secondo gli investigatori, correva gli stessi rischi dei giocatori. I primi accertamenti, inoltre, hanno stabilito che gli organizzatori non avevano ottenuto alcuna autorizzazione dal Comune di Milano per svolgere attività di pubblico spettacolo. Ne è scaturito il sequestro preventivo dello stabile in attesa che gli investigatori identifichino gli organizzatori.
Autolesionismo: +2000% fra i ragazzi finiti al Bambin Gesù. Le Iene il 12 settembre 2019. Al solo Bambin Gesù di Roma, dal 2013 al 2018, i giovani che si sono inflitti profonde ferite sono cresciuti di oltre il 2000%. Un disagio profondissimo, che talora porta alle soglie del suicidio, seconda causa di morte tra i giovanissimi. Come nella tragica sfida della “Blue Whale”, di cui vi abbiamo parlato per primi con i reportage di Matteo Viviani e Gaston Zama. Tagliarsi per fare uscire il malessere. È emergenza autolesionismo tra i ragazzi italiani. Il dato è legato all’allarme lanciato da Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza dell’ospedale Bambin Gesù di Roma. I numeri parlano chiaro: nel 2013 ci sono stati 12 casi fra bimbi e adolescenti, mentre solo 5 anni più tardi quel dato è salito a 270. A volte infliggersi tagli e bruciature è un supplizio che rimane confinato al gesto di un momento, altre volte è una tappa verso l’epilogo peggiore che si possa immaginare: il suicidio. E anche in tema di suicidi tra i giovani, in Italia, l’allarme non deve essere sottovalutato. Lo dice l’Istat: benché il numero dei decessi, dal 1995 al 2017, si sia ridotto del 14%, il suicidio rimane comunque la seconda causa di morte nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni. Ogni anno una media di 4mila persone decide di togliersi la vita e il 5%, dice ancora l’Istat, ha meno di 24 anni. Al Bambin Gesù hanno aperto una linea dedicata, il telefono “Lucy”, per dare supporto psicologico e indirizzare i ragazzi verso le strutture e i professionisti più adeguati. Spazio all’ascolto di questo enorme disagio anche attraverso un’app, creata con la Onlus Lorenzo Fratini. Si chiama “AppToYoung”, e permette di chiedere aiuto ed essere assistiti quasi in tempo reale. Di autolesionismo e di suicidio vi abbiamo parlato a lungo, raccontandovi la tremenda realtà della ormai famosissima “Blue Whale Challenge”, nello sconvolgente reportage di Gaston Zama e Matteo Viviani, che potete rivedere sotto. Parliamo di una “sfida” che spopola tra i giovanissimi e che ha portato alla morte in tutto il mondo di decine di ragazzi. Ragazzini che hanno seguito le regole imposte dai “curatori”, e che anche in Italia sono stati fermati a un passo dalla morte. Una sfida che arriva da Oriente, probabilmente dalla Russia, e che prende di mira ragazzi molto giovani, sin dagli 8-9 anni. La Blue Whale corre sui social e sulle app di messaggistica, dove i ragazzini vengono avvicinati dai “curatori”, che li invitano a portare a termine la sfida. E la sfida prevede 50 compiti da portare a termine, uno al giorno. Obblighi che il ragazzo deve portare a compimento per vincere. Qui però non c’è proprio nulla da dimostrare alla fine del percorso, né coraggio né forza. La Blue Whale punta a condurre il ragazzo in un baratro di solitudine e di disperazione, sino alla regola numero 50: “saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita”. Una sfida mortale che punta molto sull’autolesionismo, a partire dal compito del giorno 1: “incidetevi sulla mano con il rasoio "f57" e inviate una foto al curatore”. A spingere ad atti violenti, quasi a voler annullare la volontà del giocatore, sono anche altre regole della challenge, tra cui la numero 3: “tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli, poi inviate la foto al curatore”. E due giorni dopo, quello stesso giocatore, dovrà portare a termine un nuovo compito: “se siete pronti a "diventare una balena" incidetevi "yes" su una gamba. Se non lo siete tagliatevi molte volte. Dovete punirvi”.
Sfide folli online: il Blackout challenge e la morte di Igor, scrivono Le iene il 2 aprile 2019. Matteo Viviani ha incontrato i genitori di Igor Maj, 14enne di Milano. Il padre ci racconta che il figlio è morto per una folle sfida che ha trovato sul web: il Blackout challenge. Matteo Viviani parla con il papà di Igor Maj, il 14enne milanese morto in settembre. Il padre Ramon racconta a Matteo Viviani che è morto per una folle sfida online: il Blackout challenge. Un pericolosissimo “gioco” che consiste nel legarsi qualcosa al collo fino a svenire per qualche istante. Un giorno Ramon, il papà, riceve una telefonata mentre è a lavoro dalla signora che li aiuta in casa: “Mi dice che dovevo tornare a casa perché Igor stava molto male. L’unità di rianimazione faceva il massaggio cardiaco a Igor. Io ci ho creduto fino alla fine ma poi mi hanno comunicato che non c’era più attività cerebrale. Ho visto la scena e ho capito: lui si è attaccato una corda intorno al collo e si è soffocato. L’unica cosa che ho pensato è stato il suicidio però mi sembrava assolutamente impossibile”. Poco dopo, controllando la cronologia sul cellulare di Igor, i genitori vengono a sapere che poco prima Igor aveva visto un video sulle challenge più pericolose, tra cui c’era proprio questa “sfida del soffocamento”, di cui Ramon e sua moglie non sapevano nulla. È una realtà che appartiene al mondo dei ragazzini, di cui gli adulti di solito sanno poco, per questo Ramon è ora convinto che sia importante parlare e informare i ragazzi e i genitori: “Sono convinto che conoscere i pericoli e farli conoscere ai ragazzi è sempre una cosa positiva”. Blackout challenge, sfida folle online: la morte di Igor, scrivono Le iene il 3 aprile 2019. Il padre Ramon racconta che il 14enne milanese Igor Maj è morto per il Blackout challenge, una folle sfida online in cui ti devi legare qualcosa al collo fino a svenire per pochi istanti. Ce ne parla Matteo Viviani. Una folle sfida diffusa sul web soprattutto tra gli adolescenti. Parliamo del Blackout challenge, una pratica nata molti anni fa ma che la rete ha purtroppo reso di nuovo attuale. Consiste nel legarsi qualcosa al collo fino a svenire per qualche istante. “Quando sono arrivato a casa e ho visto la scena ho capito: lui si è attaccato una corda intorno al collo e si è soffocato. L’unica cosa che ho pensato è stato il suicidio però mi sembrava assolutamente impossibile”, racconta il padre di Igor Maj, 14enne di Milano. “E’ sempre stato un ragazzo allegro. Il giorno prima è stata una giornata particolarmente bella. Abbiamo giocato insieme”. Il giorno dopo, mentre è al lavoro, Ramon riceve una telefonata dalla signora che li aiuta in casa: “Mi dice che dovevo tornare a casa perché Igor stava molto male. L’unità di rianimazione faceva il massaggio cardiaco a Igor. Io ci ho creduto fino alla fine ma poi mi hanno comunicato che non c’era più attività cerebrale”. Riacquistata un po’ di lucidità, i genitori vengono a conoscenza delle ultime ricerche sul telefono di Igor. “Guardando la cronologia abbiamo trovato questo video sulle challenge più pericolose che i ragazzi fanno e una delle ultime era proprio questa sfida al soffocamento. E lì abbiamo capito. Alle 11.30 aveva visto il video e la cosa è successa tra le 12.30 e le 13”. Così i genitori, informandosi, vengono a sapere di un mondo a loro sconosciuto: “il mondo della sfida al soffocamento”, il Blackout challenge. È una realtà diffusa nel mondo dei ragazzini, di cui gli adulti di solito sanno poco. Per questo Ramon pensa che sia importante informare gli adulti di questo fenomeno e non solo scrive una lettera sul sito che frequentano gli amici di Igor, ma inizia ad andare nelle scuole per parlarne: “Io sono convinto che parlare delle cose riesca a dare ai genitori gli strumenti per capire cosa frulla in testa ai ragazzi e dall’altra parte ai ragazzi dà gli strumenti per capire quanto grosse possono essere certe cazzate e quindi quanto siano da evitare. Sono convinto che conoscere i pericoli e farli conoscere ai ragazzi è sempre una cosa positiva”. Sulla vicenda di Igor è intervenuta anche Selvaggia Lucarelli, che ha scritto un lungo post a riguardo. “Inveiva, dando sostanzialmente un po’ del falso, del fasullo a mio marito dicendo che diceva cose che non erano state assolutamente controllate”, racconta la mamma di Igor a Matteo Viviani. “Lei in sostanza diceva: certo è più facile pensare che il proprio figlio sia morto in questo modo, per un video visto piuttosto che pensare che si sia suicidato. Io ve lo assicuro, ho perso mio figlio e, qualunque sia il modo in cui muore, il dolore è quello”.
Selvaggia Lucarelli risponde a Le Iene sul caso Blackout Challenge, scrive Alberto Muraro il 3 Aprile 2019 su gingergeneration.it. Selvaggia Lucarelli ha risposto per le rime alle accuse lanciate da Le Iene con il loro servizio shock sulla blackout challenge. Come vi abbiamo raccontato in questa occasione, lo scorso 3 aprile, Matteo Viviani de le Iene ha approfondito un caso molto misterioso ed inquietante. Protagonisti sono stati i genitori del giovanissimo Igor Maj, un ragazzo milanese appassionato di arrampicata sportiva morto in circostanze misteriose. A quanto pare, infatti, il ragazzo sarebbe morto dopo essersi strozzato “per errore” partecipando a questa challenge. La Blackout, porta i suoi “partecipanti” a strozzarsi per vivere l’ebrezza dello svenimento. Ovviamente, è pericolosissima, tanto è vero che avrebbe portato alla morte di Igor. La nota giornalista, opinionista e blogger ha scritto un lunghissimo post di risposta sul suo profilo Facebook ufficiale. In estrema sintesi, Selvaggia Lucarelli si è lamentata del fatto che la sfida in realtà non è mai esistita e che i genitori del ragazzo si siano inventati la blackout challenge per non ammettere che in realtà si è trattato di suicidio. Ecco un estratto del lungo post Facebook di Selvaggia Lucarelli, che potete recuperare in formato integrale sul suo profilo. "La vendetta delle iene ce l'aspettavamo tutti (sono io che ho fatto ammettere a Matteo Viviani sul Fatto che i video dei suicidi del Blue Whale erano falsi). Mi duole però dire che non ho mai scritto articoli offensivi e la telefonata alla madre è qui (..) Come ampiamente previsto da me e da tanti colleghi e amici, da qualche settimana Le Iene hanno iniziato a vendicarsi con me lanciando sassi qua e là, fino al sassolino vigliacco di ieri sera. Non mi stupisce, come scritto giorni fa, perchè ormai sono considerati il punto più basso del giornalismo e dell’intrattenimento da quasi tutti i colleghi e gli esseri pensanti, ma come mi hanno detto tutti: “Fanno orrore, ma non se ne parla perchè poi cominciano le ritorsioni di Parenti con servizi su di te”.
Selvaggia Lucarelli prosegue dicendo: Bene, io vado avanti e me ne frego. (mi sono arrivate centinaia di minacce di morte, estese anche a mio figlio, di quello però si occuperà chi di dovere). Mi tocca però spiegare il Metodo Iene (sebbene a pochi fregherà tanto le 24 ore di hating ormai sono andate) chiarendo che quello che è andato in onda ieri sera è un racconto, come nel loro stile, totalmente sbilanciato e ricco di suggestioni facili per convincere lo spettatore che chissà cosa abbia detto o fatto nei confronti di due genitori colpiti dal suicidio del figlio. Ma soprattutto, quello che è andato in onda, è lo squallido tentativo delle iene di riabilitarsi dopo la figura di merda del blue whale (intervistai io Matteo Viviani sul Fatto costringendolo ad ammettere che nel servizio aveva inserito video di falsi suicidi spacciandoli per veri, cosa che non mi è stata perdonata) che come ricorda anche la BBC in una lunga inchiesta di gennaio NON ESISTE. Il loro servizio con una testimonianza in Alsazia, una in South Carolina, uno in Ucraina, uno a Topolinia a dimostrazione che il Blue Whale sia un PERICOLO fa quasi tenerezza. Se domani decido che esiste il fenomeno dei mignoli tagliati con l’ascia da legna, scommetto che troverò un caso in Siberia, uno in Perù e uno a Barletta. Lo monto e creo il caso. La parte peggiore, quella che li qualifica per quello che sono, sta però nel fatto che cercano di riabilitarsi agli occhi del pubblico usando un caso che col blue whale non ha nulla a che fare, ma infilandolo nel calderone dei “challenge” per dire “Visto che avevamo ragione? Il Web è pericolossoooo, il blue whale esiste”. E cioè il caso di due genitori a cui è morto un figlio di 14 anni suicida. (loro sostengono per un gioco di auto-soffocamento indotto da un video sul web, ma certezze non ce ne sono).
In aggiunta, Selvaggia Lucarelli ha affermato: Ma soprattutto, hanno usato due genitori per attaccare me, perchè alla fine quello a loro interessava. (“il giudice di ballando con le stelle” per screditarmi come i bimbomonkia 2.0, che teneri) Il loro scopo era solo quello di far dire dalla loro voce incontestabile e addolorata che io sono stata tanto cattiva. Perchè vuoi mettere la bomba emotiva di farlo dire a due genitori a cui si è suicidato un figlio, anzichè dal loro inviato incravattato? (a proposito, io sono giornalista, Viviani no. Io sono incensurata, Viviani ha condanne definitive per i suoi servizi alle Iene). Dunque nel loro servizio si fanno credere due cose: la prima è che io ABBIA ATTACCATO su fb i due genitori “per un pugno di like”, ma l’articolo era sul Fatto, poi messo su fb (per giunta con un record negativo di like perchè il tema non aveva appassionato NESSUNO, 600 persone) e soprattutto, era un articolo assolutamente equilibrato, per nulla offensivo, che consigliava prudenza soprattutto alla stampa nel definire il suicidio colpa di un challenge perchè il rischio bufala/emulazione è dietro l’angolo. E perchè non c’era alcun precedente accertato di ragazzi morti in Italia per questo gioco. (ci fosse anche un caso, certo non sarebbe un FENOMENO) L’articolo si può leggere per intero, anzichè guardare una frasetta estrapolata AD ARTE dalle Iene. Non contenta, Selvaggia Lucarelli ha poi aggiunto uno screen di una sua conversazione Whatsapp con la madre di Igor Maj: Aggiungo che ho chiesto alla mamma del ragazzino che mi ha accusata alle iene di aver inveito contro di lei il permesso di pubblicare l’audio dell’intervista in cui viene fuori il contrario, che offende solo lei. Naturalmente si tira indietro. Altra bufala delle iene. ;)
Blackout challenge, il lato oscuro delle sfide sul web. "Non si parli di gioco". Il padre di Igor, Ramon Maj. Lo svenimento indotto torna a fare discutere dopo l'intervista de Le Iene al padre di Igor, il 14enne milanese morto il 18 settembre. Come nel caso di Black Whale si tratta di fenomeni che sui social assumono il contorno inquietante di giochi estremi. La polizia: è importante informare, scrivre il 03 aprile 2019 La Repubblica. "Mio figlio è morto per la Blackout challenge", è questo l'allarme lanciato da Ramon Maj, papà di Igor, il 14enne milanese che il 18 settembre scorso sarebbe morto, stando a quanto dice il padre, per aver partecipato alla Blackout challenge: una sfida online che consisterebbe nel provocarsi lo svenimento privandosi dell'ossigeno. L'appello è stato lanciato durante la trasmissione Le Iene andata in onda ieri sera su Italia Uno, in un servizio firmato da Matteo Viviani. Un servizio che ha sollevato polemiche sui social network. "Qualcuno inizi a tenere i conti – uno per uno – dell'aumento di morti legati a fenomeni farlocchi che non esistevano prima che la televisione se li inventasse, e inizi a ritenerli responsabili", scrive per esempio Gianluca Neri, autore e gestore del blog Macchianera. Dalla polizia postale di Milano fanno sapere che nel merito del caso di Igor sono intervenuti con il monitoraggio di video online che non spiegavano la Blackout challenge, ma una tecnica pseudo-sportiva che induce lo svenimento e le indagini sono ancora in corso.
Blackout challenge, niente a che fare con il gioco. La Blackout challenge — nelle sue varianti come "gioco dello svenimento", choking game, black hole, flatline game, gasp game — consisterebbe nel provocarsi uno svenimento privandosi dell'ossigeno per qualche minuto con le braccia, o con corde e sciarpe, da soli o attraverso l'aiuto di qualcuno. Poi l'esperienza verrebbe filmata, o fotografata, e condivisa online. Più che una sfida possiamo definirla un fenomeno emulativo che verrebbe incentivato da informazioni false. Per esempio, alcuni siti parlano di presunte proprietà benefiche di una pratica del genere quali rilassamento ed euforia. Benefici che Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano, in un'intervista a Repubblica, ha negato in maniera categorica: "Non è assolutamente vero — ha detto —. Il soffocamento porta a sensazioni di panico e a una perdita di conoscenza che può causare dei profondi danni neurologici". Impossibile, però, dire quanto la Blackout challenge sia effettivamente realtà e anche il fattore novità non esiste. Basta fare una rapida ricerca su Google per capirlo. "Giochi simili sono praticati da generazioni", scrive il Washington Post in un articolo del lontano 2007 che parlava di un "blackout game". Si tratta, quindi, di fenomeni virali che riacquistano periodicamente popolarità, come conferma Nunzia Ciardi, direttrice della Polizia postale e delle comunicazioni: "Questi fenomeni sono un problema che si ripete, di cui siamo al corrente, e che affrontiamo nei nostri corsi di formazione nelle scuole, sia con i ragazzi che con i genitori — spiega Ciardi —. Su YouTube si trovano video molto ambigui, dove ad esempio viene fatta una top ten dei giochi più assurdi online, dall'ingestione delle capsule di detersivo al soffocamento auto-indotto. Video che fanno leva sul senso di invincibilità e di trasgressione del limite degli adolescenti. I ragazzi potrebbero cascarci perché sollecitati emotivamente in maniera scorretta. Per cui è bene fare informazione corretta".
Il precedente: Blue Whale e i suicidi legati alla Rete. La storia della Blackout challenge ricorda da vicino quella della Blue Whale, la presunta sfida social che ha generato una psicosi collettiva nella primavera del 2017. La dinamica prevedeva che i ragazzi dovevano affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, fino al suicidio. Decine furono le segnalazioni di casi sospetti arrivati alla Polizia postale, e altrettanti i messaggi di allerta inviati su WhatsApp, anche da parte di genitori preoccupati. Eppure la storia aveva molti punti non verificati, e altri impossibili da verificare. Anche in quel caso ad accendere i riflettori sulla vicenda fu un servizio di Marco Viviani de Le Iene che, tuttavia, presentava diverse scorrettezze. In particolare, in apertura del servizio vengono mostrati dei video di giovani nel momento in cui decidono di togliersi la vita. I filmati sono associati in maniera del tutto scorretta alla Blue Whale, con cui non hanno nulla a che fare. Lo stesso Marco Viviani ha poi ammesso di non aver fatto tutte le verifiche necessarie sui video mandati in onda. Dei punti pochi chiari dell'intera vicenda Repubblica ne ha parlato due anni fa: al momento l'esistenza di un "gioco" strutturato di nome Blue Whale, dietro cui si nasconderebbe una mente criminale, non è verificata. Questo non toglie che online ci siano gruppi che istigano all'autolesionismo e al suicidio, nati anche per via del clamore mediatico, per cui è utile prestare attenzione.
Parlarne o non parlarne: il rischio emulazione. Uno degli argomenti più discussi sui social network durante e dopo la messa in onda del servizio de Le Iene è: è meglio parlarne o non parlarne? Commentando su Twitter la puntata, un utente che usa come nickname 'Arsenico' coglie il punto: "La prevenzione è sempre una cosa buona", scrive, "a volte però si rischia di fare il contrario, così da far conoscere ai ragazzi qualcosa che ignoravano e che poi li incuriosisce. Si chiama effetto Werther". Quello conosciuto come effetto Werther è il fenomeno per cui la notizia di un suicidio pubblicata sui media determina una serie di gesti emulativi. Il nome è stato coniato nel 1974 dal sociologo David Phillips e si rifà al romanzo di Johann Wolfgang Goethe I dolori del giovane Werther, in cui il protagonista si toglie la vita dopo una delusione d’amore. Dopo la sua pubblicazione nel 1774, infatti, si verificarono diversi episodi di suicidio.
Blackout Challenge: cos’è l’assurdo gioco che ha ucciso Igor Maj, scrive Giovanni Drogo il 13 Settembre 2018 su nextquotidiano.it. Oggi a pomeriggio si terranno a Milano i funerali di Igor Maj. Igor era un ragazzo di 14 anni appassionato di arrampicata in montagna. È stato trovato impiccato con una corda da roccia a casa il 6 settembre. I Carabinieri hanno subito pensato ad un suicidio, ma secondo i genitori di Igor la spiegazione è un’altra. L’hanno trovata tra gli ultimi video visti su YouTube dal figlio e hanno affidato al sito Pareti.it un appello a tutte le mamme e i papà. Secondo loro infatti Igor è morto perché ha “partecipato” ad un gioco pericoloso: il blackout challenge.
Il gioco mortale di procurarsi un’ipossia cerebrale. Il blackout challenge, noto anche come pass-out challenge o chocking game è una “sfida” pericolosa. Il gioco esiste da molto tempo ma il fatto che in Rete e sui social si trovino video che spiegano come fare ne ha contribuito alla diffusione su scala globale. L’obiettivo del “gioco” è quello di sperimentare gli effetti di una momentanea e volontaria deprivazione di ossigeno. Le ragioni per cui gli adolescenti decidono di partecipare al blackout sono varie e riguardano la storia personale. Ad esempio c’è chi lo fa perché in qualche modo sente la pressione dei coetanei che considerano la cosa come un rito di passaggio (utile magari a distinguere i “fifoni” dai “duri”), ma c’è anche chi lo fa per provare il “brivido” alla ricerca di un’emozione forte. In altri casi invece il fainting game è connesso all’abuso di sostanze stupefacenti e sarebbe un modo “economico” per procurarsi uno sballo momentaneo. La mamma di Igor ha scritto ai Ragni di Lecco, un gruppo di arrampicata, per spiegare cosa è successo al figlio e avvertire quanti più genitori possibile. Ha chiesto di divulgare il risultato dell’indagine per avvertire dell’esistenza di questo pericolo mortale. Il “gioco” è famoso in tutto il mondo e anche in Italia Igor non è stata la prima vittima. A febbraio un quattordicenne di Tivoli si è impiccato con il cavo della sua Playstation. Qualche giorno prima aveva mostrato al padre uno dei tanti video che spiegano come cimentarsi nella sfida. Il blackout ha poco a che vedere con la storia della Blue Whale dove secondo la vulgata c’è qualcuno a dirigere il gioco. E a differenza della bufala raccontata dalle Iene sono numerosi i casi di vittime di chocking game. Si gioca da soli, senza fare annunci particolari. Semplicemente si prova. Ed ovviamente quando si sperimenta l’ipossia senza nessuno intorno ad aiutare le conseguenze possono essere tragiche. Sul caso di Igor May il pm di Milano Mauro Clerici ha aperto un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati ed è in attesa degli esiti dell’autopsia e della relazione degli investigatori sugli accertamenti effettuati sullo smartphone del 14enne, che è stato posto sotto sequestro. Stando a quanto ricostruito dalla Procura, l’adolescente non aveva manifestato negli ultimi tempi nessun problema particolare, a scuola andava bene ed era descritto da chi gli era vicino come un ragazzo esuberante e appassionato delle scalate in montagna, una passione ereditata dal padre. Tra gli ultimi video consultati sullo smartphone da Igor, viene confermato in ambienti giudiziari, ce n’era uno molto popolare su Youtube che ha raccolto circa un milione di visualizzazioni e descrive con l’aiuto delle immagini cinque sfide “pericolosissime“. Un filmato ambivalente che, se da un lato sembra voler mettere in guardia i ragazzi, dall’altro mostra come nella pratica si possano affrontare queste "sfide".
Cos’è il blackout game? Il blackout game è in circolazione da più di un decennio. Gli adolescenti lo fanno perché lo vedono fare su Internet o sui social, perché un amico o un compagno di classe lo ha fatto. Anche quando non ha conseguenze mortali è un gioco stupido: l’unico obiettivo è provocare uno svenimento a causa della mancanza di ossigeno al cervello. La morte in questi casi non è mai intenzionale, è solo una drammatica conseguenza di cimentarsi in un’attività molto pericolosa. Il problema è che quando una persona sviene rischia di cadere a terra, battere la testa, ferirsi. Insomma magari il pass-out game in quel caso non è la causa diretta della morte o di qualche lesione, ma è la causa principale. A volte invece lo scopo è un altro. Ci sono alunni che trovano molto utile riuscire a “svenire a comando”, ad esempio quando sono a scuola. Ecco che su Internet ci sono altri tutorial che spiegano come provocare uno svenimento per riuscire a saltare la lezione o un esame. Alcuni di questi “turorial” sono volutamente delle prese in giro dove le persone fingono di svenire, ma un adolescente non sempre è in grado di distinguere il sarcasmo e magari prova a cimentarsi in questa rischiosa attività. Addirittura il CDC statunitense ha pubblicato una serie di rapportisulle morti accidentali causate dal chocking game. Nel 2008 sono stati 82 i casi di adolescenti morti in seguito al chocking game. I genitori di Igor Maj hanno rivolto un appello: «fate il più possibile per far capire hai vostri figli che possono SEMPRE parlare con voi, qualunque stronzata gli venga in mente di fare devono saper trovare in voi una sponda, una guida che li aiuti a capire se e quali rischi non hanno valutato. Noi pensiamo di averlo sempre fatto con Igor, eppure non è bastato. Quindi cercate di fare ancora di più, perché tutti i ragazzi nella loro adolescenza saranno accompagnati dal senso di onnipotenza che se da una parte gli permette di affrontare il mondo, dall’altra può essere fatale».
Momo Challenge, cos’è e perché bisogna essere scettici, scrive Raffaele Mastrolonardo l'8 marzo 2019 su tg24.sky.it. Tutte le ragioni per dubitare di un racconto secondo cui girerebbero su YouTube e WhatsApp video che invitano i ragazzi a cimentarsi in prove pericolose e autolesioniste. Un’inquietante ragazzina spinge i giovani utenti della Rete, attraverso WhatsApp e YouTube, a compiere azioni pericolose e autolesioniste. L’allarme è stato lanciato negli ultimi giorni da genitori preoccupati, media e persino autorità locali che invitano a stare in guardia nei confronti di quella che è stata ribattezza “Momo challenge” dal nome attribuito al “mostro” virtuale. Eppure, nonostante la grande attenzione sorta intorno al fenomeno, non esistono prove che un meccanismo simile sia davvero in atto, né che ci siano stati giovani effettivamente vittime delle suggestioni di Momo o di coloro che si nascondono dietro a questa entità virtuale. Insomma ci troviamo probabilmente di fronte a qualcosa simile a una leggenda metropolitana, che attecchisce sulle paure di genitori in ansia per i figli, anche per l’attenzione mediatica che riceve.
L’origine e i primi allarmi. Innanzitutto, l’immagine. Sì perché probabilmente non si parlerebbe di Momo se alle sue spalle non ci fosse una raffigurazione che può colpire l’immaginario collettivo, in questo caso una giovane ragazza con gli occhi a palla, un sorriso deformato e inquietante e il corpo di un uccello. Si tratta di una scultura intitolata “Mother-Bird” realizzata nel 2016 dall’artista giapponese Keisuka Aisawa che, ovviamente, era del tutto ignaro del destino virtuale che la sua opera avrebbe avuto (recentemente ha rivelato che la sua creazione nel frattempo è andata distrutta). Esattamente come “Mother-Bird” sia diventata “Momo” non è del tutto chiaro. Secondo la ricostruzione di KnowYourMeme, un’immagine tagliata dell’opera di Aisawa, contenente solo il volto della creatura, è stata pubblicata nell’estate 2018 sul forum online Reddit diventando subito molto polare tra i frequentatori della bacheca online. In quel periodo compaiono su YouTube i primi video che mostrano tentativi di contattare, invano, i presunti numeri WhatsApp collegati a Momo. All’estate 2018 risalgono anche gli allarmi. La Polizia informatica dello stato messicano di Tabasco condivide online un avvertimento mettendo in guardia ragazzi e genitori rispetto al fenomeno.
Ritorno di interesse. Dopo queste prime allerte la portata della leggenda sembrava essersi esaurita, almeno fino a una settimana fa. Negli ultimi giorni di febbraio infatti alcune testate del Regno Unito hanno dato risalto ai messaggi pubblicati sui social network da genitori preoccupati per Momo. Ad alimentare ulteriormente l’ansia di mamme e papà hanno contribuito anche la Polizia dell’Irlanda del Nord con un post Facebook e la celebrità Kim Kardashian che ha parlato della “challenge” su Instagram.
Niente prove. Nonostante gli allarmi e gli avvertimenti, anche da parte di fonti ufficiali, non esistono tuttavia prove che qualcuno si sia fatto del male dietro invito di Momo. Secondo quanto riporta il Guardian, l’Uk Safe Internet Center ha definito l’esistenza di presunte vittime di Momo una “fake news”, e YouTube ha detto che non ci sono prove dell’esistenza di video che mostrano o promuovono questa presunta sfida. Andrea Leadsom, leader della Camera dei Comuni, uno dei due rami del parlamento inglese, ha recentemente affermato che non ci sono evidenze che la “sfida” abbia indotto alcun bambino inglese a procurarsi dei danni. Snopes, sito specializzato nell’analisi di leggende e bufale, ha definito la Momo Challenge “molto più una bufala o una moda piuttosto che realtà”. A suggerire diffidenza, secondo i critici, è soprattutto l’assenza di prove che rivelino effettive interazioni tra i ragazzi e i numeri di telefono o i video attraverso i quali coloro che si celano dietro Momo invierebbero i messaggi.
Cosa fare allora? Insomma, ad un’analisi più attenta, sembra proprio che ci troviamo di fronte ad una leggenda che si diffonde non solo attraverso gli allarmi dei genitori sui social network, ma anche a causa dell’interesse dei media. E allora, come si devono comportare i genitori quando si imbattano in allarmi di questo tipo su Internet? Come riporta un recente articolo di Wired, gli esperti suggeriscono in primo luogo di aspettare qualche giorno prima di parlarne con i propri figli, in attesa di eventuali dichiarazioni da parte delle autorità scolastiche o delle forze di polizia. E comunque, aggiungono, anche di fronte a pronunciamenti ufficiali, è opportuno valutare se forniscono prove concrete, visto che in passato persino le istituzioni hanno dimostrato di potersi sbagliare quando si tratta di fenomeni virtuali come Momo. Se infine si decide di parlarne con i propri ragazzi, dicono gli esperti, è bene farlo in modo tranquillo, senza panico e lasciando sempre aperta la porta del dialogo.
Cos’è la “Momo Challenge”. Guida minima a un allarmista fenomeno virale basato su quasi niente, come fu per "Blue Whale", scrive Sabato 2 marzo 2019 Il Post. La “Momo Challenge” è un fenomeno di internet che qualcuno considera una pericolosa sfida tra adolescenti, e che è soltanto una di quelle cose di internet che diventano qualcosa solo perché ne parla in modo più minaccioso e allarmista del necessario. In Italia se ne sta parlando poco, molto meno che nel Regno Unito e negli Stati Uniti, e potrebbe darsi che stiate per scoprire solo ora cos’è; col rischio che questo articolo diventi l’ennesimo che, nel parlare della “Momo Challenge” per dire che è una bufala, finisce comunque per parlare e far parlare della “Momo Challenge”. La “Momo Challenge” (o il “Momo Game”, come lo chiama qualcuno) è praticamente la stessa cosa di quello che due anni fa era stato “Blue Whale“: un fenomeno virale dalle origini incerte e dalla rapidissima crescita, che crea molto più panico del necessario. Funziona così: c’è un’immagine paurosa di una specie di donna-uccello. Si racconta quindi che su internet (soprattutto su WhatsApp) ci siano utenti che usano quell’immagine sul loro profilo e contattano altri adolescenti per sfidarli a una serie di prove. Nessuno spiega in cosa consisterebbero queste prove, ma qualcuno dice che le più estreme potrebbero portare alla morte, in certi casi alla morte per un suicidio indotto. Come fu ai tempi per “Blue Whale”, non ci sono casi confermati di persone morte per via del fenomeno. Nel caso della “Momo Challenge” ci sono tra l’altro pochissimi screenshot, che comunque dicono molto poco e potrebbero essere finti, di effettive conversazioni tra un utente che usa l’immagine in questione (ormai nota come “Momo”) e assegna prove ad adolescenti. La cosa più pericolosa della “Momo Challenge” è quindi proprio la paura stessa della “Momo Challenge”, che come prima conseguenza potrebbe far venire in mente a svariati emulatori di usare l’immagine di “Momo” per chissà quali scopi. Come quasi sempre per le cose virali di internet, è difficile dire perché qualcosa diventi quel che è e da dove arrivi il suo successo. Si può però ricostruirne la storia. Nel caso della “Momo Challenge” inizia tutto dall’immagine in questione, questa: Quella ritratta in foto è una scultura realizzata nel 2016 dall’artista giapponese Keisuka Aisawa, che lavora per la società di effetti speciali Link Factory, e che in quello stesso anno fu esposta in una galleria d’arte di Tokyo. La scultura è un particolare tipo di yōkai, figure spettrali e soprannaturali della mitologia giapponese. In particolare la scultura si ispira a un ubume, che il sito Nippop spiega essere la rappresentazione di «spiriti di donne morte di parto o durante la gravidanza». Il nome originale dell’opera – poi diventata nota come “Momo” – è “Madre uccello”. Diversi giornali hanno scritto che è un’opera dell’artista Midori Hayashi: non è vero. Le prime foto della mostra girarono online nell’estate del 2018. Le prime tracce di una certa rilevanza si trovano in /r/creepy, un canale di Reddit dedicato a cose che fanno paura. Un utente pubblicò l’immagine il 10 luglio, ricevendo quasi mille commenti e cinquemila “voti” di approvazione in 48 ore. Nel frattempo l’immagine prese a circolare anche su 4chan, un forum non molto raccomandabile. L’immagine ottenne un vero successo virale in Sud America e si ritiene che sia lì che la “Momo Challenge” ebbe inizio: nel senso che si diffuse come bufala, perché qualcuno usò l’immagine scherzando e altri iniziarono a crederci. I primi segni di notevoli ricerche su Google della “Momo historia” si sono verificati in Bolivia, poi in Argentina e in Messico. In Argentina qualcuno parlò – senza prove – di un suicidio possibilmente legato alla “Momo Challenge”. In Messico fu pubblicato da un organo ufficiale uno dei primi messaggi informativi per invitare i genitori a prestare la massima attenzione. I dati di Google Trends, che permette di analizzare il volume di ricerche fatte su Google per parole specifiche, dice che i picchi di ricerche in Sud America furono tutti nel luglio 2018. Poi la “Momo Challenge” si spostò in India e in seguito in Europa. In Italia qualcuno – per esempio Il Messaggero, il 3 agosto 2018 – parlò già allora di “Momo Challenge”, ma la cosa passò per lo più inosservata.
Le ricerche negli Stati Uniti nell’ultimo anno. La “Momo Challenge” sembrava essere stata dimenticata e invece è tornata di moda in questi giorni. I giornali britannici hanno dato risalto a qualche messaggio scritto sui social network da genitori preoccupati – «Attenzione! C’è questa cosa chiamata “Momo” che dice ai ragazzi di suicidarsi. FATE GIRARE LA VOCE» – e a un paio di messaggi messi su Facebook da alcune centrali di polizia, che probabilmente ne avevano letto sui giornali. Il 25 febbraio il giornale scozzese The Herald ha raccontato di una madre che aveva raccontato che il figlio si era messo un coltello alla gola “perché gliel’aveva detto Momo”. A fine febbraio sono girate voci secondo cui l’immagine di Momo compariva a sorpresa in certi video per bambini su YouTube (ma YouTube ha smentito). Di certo ha contribuito anche il fatto che Kim Kardashian abbia parlato della cosa in alcune Storie Instagram rivolte ai suoi 129 milioni di follower. Insomma: l’evoluzione della “Momo Challenge” è stata simile a molte altre cose virali. Si prende qualcosa e gli si dà qualche significato diverso dall’originale. Qualcuno ne parla e si inventa una storia. Qualcuno, magari, rende in parte vera quella storia (qualcuno, da qualche parte, avrà di certo usato l’immagine di Momo per dare qualche ordine, che qualcuno forse avrà eseguito). Qualcuno si spaventa e usa toni allarmistici, che fanno crescere la cosa, fino ad arrivare a Kim Kardashian e agli articoli sui giornali più importanti al mondo. In tutto ciò senza che esistano prove che qualcosa di grave sia davvero successo. Anche se applicate a internet e al 2019, le dinamiche sono quelle del panico morale: una forma collettiva di paura immotivata, basata su qualcosa che è percepito come una grande minaccia. Si parla di panico morale per la caccia alle streghe, ma anche per certe psicosi collettive, per esempio quella per i satanisti negli anni Ottanta e Novanta. Non ci sono prove che la “Momo Challenge” sia un pericolo per gli adolescenti e i bambini su internet, però certi genitori percepiscono internet come una minaccia per i loro figli, e allora trovano nella “Momo Challenge” un nemico chiaro e preciso, meno vago di Internet. Come ha scritto Taylor Lorenz sull’Atlantic: «Internet ha cambiato le vite dei bambini in modi che ancora dobbiamo capire, e i genitori si preoccupano della loro sicurezza. Ma non è da “Momo” che dobbiamo proteggerli». Kat Tremlett, che lavora per il Safer Internet Centre del Regno Unito, ha detto al Guardian, parlando di “Momo Challenge”: «Dobbiamo praticamente smettere di parlare di questo problema per far sì che questo smetta di essere un problema. Anche se lo si fa con le migliori intenzioni, parlarne non fa altro che far incuriosire le persone».
Al via il processo sulla "Blue Whale". In aula il papà della ragazzina vittima. La pericolosa sfida sul web. La vicenda venuta a galla da una inchiesta del Giornale.it, scrive Mercoledì 17/04/2019 Il Giornale. È stato convocato come testimone il padre della ragazzina palermitana vittima della «Blue Whale Challenge», il pericoloso gioco diventato virale sul web. E dopo l'estate entrerà nel vivo il processo in cui una 23enne milanese risponde di atti persecutori, cioè stalking, e violenza privata aggravata. Secondo l'accusa, la giovane avrebbe costretto con un complice di origini russe di 16 anni una alunna di scuola media, ora 14enne, a infliggersi tagli sul corpo e a inviarle le foto, come step iniziale delle 50 prove di coraggio. Ieri alla prima udienza del dibattimento il giudice monocratico Angela Martone ha ammesso le prove testimoniali e documentali avanzate dal pm e dal difensore, l'avvocato Isabella Cacciari. Sarà sentita anche l'imputata. Il processo è rinviato al 18 settembre per l'esame del padre della presunta vittima la quale, invece, non dovrebbe essere convocata in Tribunale. Quello per cui si sta celebrando il processo è il primo e unico caso accertato di Blue Whale, almeno a Milano. La vicenda era venuta a galla in seguito a una inchiesta sul fenomeno Blue Whale da parte di una giornalista del Giornale.it. La cronista, fingendo di essere una minorenne pronta alla sfida, è entrata in contatto con un'alunna di Palermo, ai tempi 12enne, che per qualche mese aveva cominciato a giocare con la giovane imputata. Da qui la denuncia della stessa giornalista alle forze dell'ordine per segnalare i pericoli che stava correndo la ragazzina e l'avvio dell'indagine coordinata dal pm Cristian Barilli. La 23enne, secondo la ricostruzione degli investigatori della polizia postale, tra il maggio e il giugno del 2017 avrebbe contattato la vittima come «curatorlady», indicandole e imponendole i gesti da compiere. «Se sei pronta a diventare una balena - recita uno dei messaggi inviati all'adolescente - inciditi yes sulla gamba, se non lo sei tagliati molte volte per autopunirti». Inoltre la presunta «curatrice» avrebbe messo in campo le «proprie minacce» e la propria «capacità intimidatoria» avvisando la 12enne di conoscere il suo «indirizzo Ip» e quindi di poter «raggiungerla e ucciderla qualora avesse interrotto la partecipazione» alla sfida.
Nuova sfida estrema tra i giovani. Si chiama "Planking Challenge". Una nuova, estrema competizione si sta diffondendo tra i giovanissimi. Si chiama "Planking Challenge" ed è molto pericolosa. I primi episodi in Campania, a Salerno e Caserta. Rosa Scognamiglio, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. Dopo la Samara Challenge, una nuova competizione estrema si sta diffondendo a macchia d'olio tra i più giovani. Si chiama Planking Challenge ed è dannatamente pericolosa. Nota anche con il nome di Lying down game (letteralmente "gioco dello sdraiarsi"), la nuova sfida giunge dritta dagli Stati Uniti in Italia facendo prima tappa all'ombra del Vesuvio. La regola da seguire è una sola: bisogna distendersi sull'asfalto, - in posizione supina o a pancia in giù non importa - al centro della carreggiata e attendere il passaggio di un'automobile. L'abilità consiste nello scansarsi, rotolando sul fianco verso il marciapiedi, prima che sopraggiunga la vettura. In sintesi, supera la sfida chi riesce a non farsi investire. Tant'è. Una delle prime, scellerate performance è stata registrata a Caserta, in Campania. Promotori dell'iniziativa, un gruppo di ragazzini di età compresa tra i 12 e 14 anni che avevano preso accordi in un gruppo dedicato alla challenge registato su WhatsApp. Così, qualche pomeriggio fa, a turno, hanno provato la sfida in una strada a scorrimento veloce di traffico. Per fortuna, un'accorta automobilista ha tirato il freno appena in tempo da evitare risvolti drammatici. Dopo essere scesa dalla vettura, la donna ha reguardito il gruppetto per la pericolosità del gioco. Successivamente, altri episodi sono stati registrati a Salerno e sul litorale di Bacoli (Pozzuoli). Stando a quanto si apprende dal sito d'informazione Teleclubitalia.it sarebbe scattata l'allerta da parte delle autorità locali. Le stesse avrebbero consigliato ai genitori di vigilare con attenzione i propri figli, soprattutto durante l'utilizzo di smartphone e profili social. Il monito è quello di stare in guardia perché basta poco affinché una sciocca trasgressione evolva in circostanza fatale.
· Il Mostro di Firenze non c'è più.
Su 7, il giallo di Zodiac 50 anni dopo: spunta un collegamento con il Mostro di Firenze. Pubblicato venerdì, 02 agosto 2019 da Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Corriere.it. Un identikit del killer dello Zodiac0 diffuso dalla polizia di San Francisco pochi mesi dopo la prima rivendicazione dell’omicida seriale (foto Getty Images) «Mi piace uccidere la gente perché è molto divertente». Quando la mattina del 1° agosto 1969 Carol Fisher, segretaria al San Francisco Chronicle, interrompe la riunione di redazione mostrando una lettera con questo messaggio, nessuno dei presenti può ancora sapere che la mattina seguente tutti i quotidiani della Bay Area informeranno i lettori che un serial killer di giovani coppie è in mezzo a loro. È proprio in quel momento esatto di 50 anni fa, nella redazione del Chronicle, che comincia la storia mediatica di Zodiac, una storia che combina macabri omicidi e lettere piene di orribili minacce, richieste deliranti e misteriosi cifrari usati per prendersi gioco della polizia. Una storia che non ha la parola fine, un cold case che dura da mezzo secolo. Se il 1° agosto di 50 anni fa ha inizio la storia del killer dello Zodiaco, la storia delle sue vittime — quelle accertate e quelle presunte — comincia sei anni prima, nella contea di Santa Barbara, quando la mattina del 4 giugno 1963 Robert Domingos e Linda Edwards, 18 e 17 anni, saltano le lezioni per andarsene in spiaggia. Quando a sera nessuno dei due rincasa, le famiglie si allarmano. È il padre di Robert a fare la macabra scoperta: i corpi dei ragazzi sono a pochi metri dalla spiaggia con le mani legate dietro alla schiena e crivellati di colpi. Hanno cercato di scappare mentre l’assassino scaricava su di loro una calibro 22: sono 11 i proiettili che raggiungono Robert alla schiena, 9 quelli per Linda. Gli investigatori non trovano tracce significative, il caso è a un vicolo cieco. Solo 9 anni dopo, nel 1972, si troverà la connessione con Zodiac, da 4 anni uno dei più temuti serial killer in circolazione. L’assassino della spiaggia ha usato munizioni Winchester Super X, le stesse sparate da Zodiac il 20 dicembre 1968 contro Betty Jensen e David Faraday, 16 e 17 anni, prime vittime ufficiali del killer dello Zodiaco. La coppia, appartata in una piazzola vicino a Benicia, era stata raggiunta da sei colpi sparati da una calibro 22: uno alla testa di David, gli altri alla schiena di Betty. Anche lei come Robert e Linda aveva tentato inutilmente di fuggire. Ma il caso Domingos/Edwards ha somiglianze anche con l’omicidio di un’altra giovane coppia, compiuto da Zodiac nella contea di Napa, il 27 settembre 1969. Quella mattina Bryan Hartnell, 20 anni, ha deciso che un picnic sul lago Berryessa è un modo romantico per fare colpo su Cecelia Shepard, 22. Ma non può sapere che quel sabato in riva al lago non saranno soli. Poco dopo le 18, mentre i due ragazzi si godono gli ultimi raggi di sole, un uomo armato li avvicina: indossa occhiali scuri e un costume da boia sul quale è disegnato il simbolo che Zodiac usa in molte delle sue lettere (un cerchio attraversato da una croce). Il killer intima a Bryan di legare Cecelia, poi lui fa lo stesso con il ragazzo.
Uno dei messaggi cifrati inviati dal killer, con il simbolo del cerchio con la croce. La coppia supplica l’uomo, ma Zodiac estrae un coltello e li pugnala ripetutamente. Poi, incide sullo sportello dell’auto di Hartnell il simbolo e le date dei suoi ultimi omicidi. Cecelia muore in ospedale, senza riprendere conoscenza, Bryan sopravvive a sei coltellate alla schiena. Da una cabina telefonica, Zodiac contatta la polizia di Napa per rivendicare l’omicidio. Rintracciata la chiamata, la Scientifica trova la cornetta ancora sollevata e le impronte di uno sconosciuto. Serviranno però a escludere dai sospettati un altro assassino, Ted Bundy, il killer delle studentesse, al quale Netflix ha appena dedicato una docuserie. Biografie horror che si intrecciano, incubi che si sfiorano. La telefonata del 27 settembre 1969 è solo una delle tante che negli anni Zodiac farà alla polizia. Il killer ha bisogno di condividere le sue gesta, si alimenta della rabbia frustrata di chi gli dà la caccia. La prima volta che Zodiac fa sentire la sua voce è la notte del 4 luglio 1969, quando rivendica l’omicidio di Darlene Ferrin, 22 anni, e il ferimento di Mike Mageau, 19. Zodiac li ha colti di sorpresa in un parcheggio di Vallejo. Quando Mike abbassa il finestrino, Zodiac gli spara con una Luger da 9 mm al volto, al collo, al torace. Mike sopravvive, ma Darlene, raggiunta da un solo proiettile, muore soffocata nel proprio sangue. Secondo il racconto che il ragazzo farà alla polizia, a sparare è stato un bianco sulla trentina. La telefonata di Zodiac arriva da una cabina a pochi isolati dall’ufficio dello sceriffo di Vallejo. Secondo gli inquirenti, sono le lettere però che nascondono la soluzione.
A sinistra un incontro tra investigatori della Bay Area: sul tabellone il segno caratteristico del serial killer. Tra quelle righe il killer potrebbe aver commesso un errore fatale. La prima, quella aperta dalla segretaria Carol Fisher, è stata copiata tre volte e inviata ad altrettanti quotidiani della Bay Area: in ogni lettera la terza parte di un crittogramma in cui il killer sostiene si celi il suo vero nome e la richiesta che il testo cifrato venga pubblicato in prima pagina. Quattro giorni dopo, una coppia di lettori del Chronicle risolve il delirante messaggio in cui Zodiac esprime la sua gioia nell’uccidere. Solo le ultime 18 lettere non verranno mai decriptate. Forse è celato lì il nome del mostro. Intanto, un’altra lettera è stata recapitata all’ Examiner. «Caro Direttore, qui è Zodiac che parla»: inizia così la risposta del killer alla richiesta del commissario di Vallejo di fornire ulteriori dettagli sugli omicidi. L’ultima vittima accertata di Zodiac è il tassista 29enne Paul Stine, freddato con una 9 mm nel quartiere di Presidio Heights, a San Francisco, la sera dell’11 ottobre 1969. Tre ragazzini vedono la scena dalla finestra e descrivono l’omicida come un uomo bianco sulla trentina. Per errore (o pregiudizio?) la descrizione diramata alle auto della polizia indica un nero. A due isolati di distanza dalla scena del crimine, l’agente Don Fouke nota un uomo bianco che, vista l’auto della polizia, si nasconde nel retro di un edificio. Ma il poliziotto passa oltre. L’aver battuto ancora una volta la polizia stimola la fantasia perversa di Zodiac, che il 14 ottobre invia al Chronicle un lembo della camicia di Stine per provare che è lui l’assassino. Nella lettera anche la minaccia di uccidere dei bambini su uno scuolabus. Ora Zodiac ha raggiunto il suo scopo: l’attenzione è tutta per lui.
Una scena del film «Zodiac», ispirato alle gesta del serial killer di San Francisco. La sua storia ispira nel 1971 il film Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo, con Clint Eastwood. Zodiac ne è compiaciuto e invia varie lettere ai giornali. Anni dopo, nel 2007, toccherà a Zodiac con Jake Gyllenhaal e Robert Downey Jr. Il killer lo avrà visto? Se aveva una trentina d’anni durante gli omicidi, oggi ne avrebbe circa 80. Potrebbe essere vivo. Tra il 1971 e il 1974 le sue lettere ai giornali si fanno però sporadiche. La polizia tenta di ricondurre a lui sparizioni e omicidi, ma senza dimostrare i collegamenti. Il 24 aprile 1978 arriva una nuova lettera. C’è chi non la ritiene autentica. Lo scrittore Armistead Maupin, che collabora con il Chronicle, trova sia simile alle lettere che aveva ricevuto e che elogiavano Dave Toschi, il detective di San Francisco a cui è affidato il caso. Lo scrittore sospetta siano state scritte dal poliziotto stesso. Dopo molte pressioni, Toschi crolla: ha scritto lui le lettere a Maupin, ma non quelle di Zodiac. Nonostante cinque vittime certe, 37 presunte e 2.500 sospettati, il caso del Killer dello Zodiaco non è mai stato risolto. Dichiarato ufficialmente insoluto nel 2004, è stato riaperto dalla polizia di San Francisco nel 2007. Ma che fine ha fatto Zodiac? È morto? O si è trasferito in Italia, come sostiene un’inchiesta di Tempi del 2018, dove avrebbe continuato a uccidere? Possibile sia lui il Mostro di Firenze? (ndr. è di pochi giorni fa l’archiviazione per gli ultimi imputati nell’inchiesta) Il principale sospettato sarebbe un italo-americano, ex agente del Cid, trasferitosi in un paese alle porte di Firenze nel luglio del 1974. Potrebbe essere la persona citata dal postino Mario Vanni in una intercettazione del 2003 con il nome di «Ulisse». Il giornalista Francesco Amicone sempre nel 2018 sostiene di aver raccolto la confessione di Ulisse, alias Joe Bevilacqua, il «supertestimone» dell’accusa durante il processo a Pietro Pacciani, condannato e poi assolto per i delitti del Mostro. Bevilacqua viveva alle porte di Firenze nel luglio del ‘74, e solo un mese dopo veniva recapitata al Chronicle l’ultima lettera di Zodiac.
Mostro di Firenze, a Venezia i disegni dal carcere di Pacciani. Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 da Corriere.it. C’è anche il ritratto di suor Elisabetta, la sua assistente spirituale quando era in carcere, tra le 11 tavole realizzate mentre era in prigione da Pietro Pacciani il cosiddetto `Mostro di Firenze´ che verranno esposte a Venezia. La rassegna, dal 20 settembre, intitolata `One solo show´, viene proposta da Venice Faktory con curatrice Federica Pagliarin, mettendo in mostra, per la prima volta i disegni di Pacciani finiti in una collezione privata. Si tratta per lo più di animali e scene agresti realizzate con tratto incerto e infantile, ma c’è pure un autoritratto con la scritta «povero Cristo», scelto come manifesto della rassegna. Le tavole originali non sono in vendita, ma ne sono state realizzate 150 copie che saranno vendute. Il ricavato è destinato in beneficienza. Pacciani - cui sono stati addebitati sette duplici omicidi ed è morto in carcere nel 1998 in attesa di un nuovo processo - disegnava molto in prigione, ma quasi tutto il materiale, in genere a sfondo sessuale, è stato sequestrato dalla magistratura. Alcuni disegni, invece, sono stati donati dallo stesso Pacciani a Davide Cannella, un criminologo che assisteva il collegio difensivo del contadino toscano. Queste 11 tavole - che hanno il vincolo dell’invendibilita’ - saranno al centro della piccola rassegna il cui ricavato sarebbe già destinato, per volontà dello stesso Pacciani, all’ospedale per bambini Meyer di Firenze. Ma dall’ospedale cadono dalle nuvole: «Il Meyer non è a conoscenza di questa iniziativa e tutte le iniziative di raccolta fondi ad esso dedicate devono essere preventivamente autorizzate», precisano dall’ufficio stampa. Per la curatrice Palmarin, nei disegni «c’è un rapporto tra arte e criminologia ed è quello che ci interessa sviluppare». «A me - sottolinea - non interessa sapere se Pacciani era o non era il mostro di Firenze, di certo c’è il fatto che le opere della collezione Cannella saranno esposte per la prima volta al pubblico a Venezia». «I disegni - è scritto nella presentazione della mostra - sono giocosi, fantasiosi, caricaturistici e poetici, l’impulso è di ricollocarli oggi dove c’è la possibilità di dare risalto a questa pop art rifiutata, un’arte che, per il suo periodo storico, non ha avuto la giusta attenzione per via dell’ostacolo morale e della dialettica sociale». Venice Factory non è nuova a proposte provocatorie. Mesi fa aveva esposto un ritratto dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini con in braccio un piccolo migrante: iniziativa alla quale aveva fatto seguito un controllo da parte della polizia.
Mostro di Firenze, i disegni di Pacciani in mostra a Venezia. L'iniziativa è di una galleria privata che metterà in vendita le copie per devolvere poi i soldi in beneficenza. La Repubblica il 15 settembre 2019. Undici disegni fatti in carcere da Pietro Pacciani, il contadino toscano ritenuto dagli inquirenti il mostro di Firenze, saranno in mostra a Venezia il prossimo 20 settembre. L'iniziativa, scrive il Gazzettino, è della galleria "Venice Faktory" che ha chiamato l'evento "One solo show" e metterà in vendita 150 copie dei disegni, il cui ricavato sarà poi devoluto in beneficienza. I disegni, nessuno osceno in quanto la gran parte è finita sotto sequestro da parte della magistratura, riproducono per lo più animali e fanno parte della proprietà di un investigatore privato, Davide Cannella, che ha seguito Pacciani come consulente della difesa durante le fasi processuali per i sette duplici omicidi che gli erano stati addebitati. Su disposizione dello stesso Pacciani, gli originali non possono essere venduti e quindi sono state realizzate delle copie, dicono gli organizzatori della rassegna. Secondo le volontà dello stesso Pacciani il ricavato del venduto andrà rigorosamente in beneficienza ed in particolare all'ospedale oediatrico Meyer di Firenze. Il fatto è che proprio il Meyer di Firenze smentisce di essere al corrente della cosa: "le iniziative di raccolta fondi ad esso dedicate devono essere preventivamente autorizzate" fanno sapere dall'ospedale. Sono anni che si parla di una mostra con i disegni di Pacciani. Cannella ha cercato di organizzarla sia prima della morte del contadino si San Casciano che dopo ma una volta si è tirato indietro lo stesso Pacciani, poi chi si era fatto avanti ha cambiato idea all'ultimo momento.
Da huffingtonpost il 15 luglio 2019. Un’ipotesi clamorosa che riaprirebbe uno dei casi più controversi della cronaca nera italiana: la prova regina contro Pietro Pacciani sarebbe stata artefatta. A riportare la notizia in esclusiva è La Nazione: I segni sul proiettile trovato nell’orto di Pietro Pacciani, nella maxi perquisizione dell’aprile del 1992, non sono il risultato delle impronte dell’inserimento di quel bossolo nella camera della Beretta del mostro di Firenze, mai ritrovata. Ma sono stati artefatti, costruiti, fabbricati. Come se qualcuno avesse voluto forzare la mano e dare consistenza ai sospetti sul contadino che, in quella primavera, era stato appena indagato per i duplici omicidi che insanguinarono Firenze tra il 1968 ed il 1985. Quella prova, che mai convinse a pieno i periti e i giudici dei due processi nei confronti del ‘Vampa’, non sarebbe dunque genuina: le conclusioni della perizia firmata dal consulente balistico della procura di Firenze, Paride Minervini, sono una bomba e innescano una nuova inchiesta, per scoprire se c’è stata qualche «mano» che ha voluto influenzare o forzare gli inquirenti. L’ipotesi è la conseguenza dell’analisi fatta dal consulente della procura Minervini. Oggi, anche con il reperto spezzato, il consulente della procura Minervini – l’esperto che ha dato il suo contributo in tutti i più grandi misteri italiani, dall’omicidio di Nicola Calipari in Iraq al traghetto Moby Prince – con apparecchiature sofisticatissime è riuscito ad escludere che il proiettile dell’orto, marca Winchester, serie H, identico a quelli presenti in ogni delitto del mostro, sia mai stato incamerato in un’arma. Di più: i segni sul bossolo, che i periti definirono di ‘spallamento’ (ipotizzarono che la cartuccia incamerata si fosse inceppata) sarebbero stati creati a mano, probabilmente con un piccolo arnese. Chi ha fatto ciò? Scoprirlo, sarà la missione del nuovo capitolo dell’inchiesta infinita.
Novità nell'inchiesta sui delitti del Mostro di Firenze. Una lettera anonima, una perizia balistica forse manipolata. Si torna a parlare dei delitti per cui venne condannato Pietro Pacciani. Giorgio Sturlese Tosi il 15 luglio 2019 su Panorama. «Vorrei fare un appello agli avvocati di Pacciani: che predisponessero con tanto di testimoni ufficiali una ricerca per tutto il terreno del Pacciani con un metal detector in modo che, a risultato negativo, avrebbero una prova schiacciante della sua innocenza. Se poi, successivamente, su ordine della magistratura, venisse richiesta un’altra perizia sul luogo e, guarda caso, “saltasse fuori” la (Beretta, ndr) 22 sarebbe palese che qualcuno, interessato a mettersi l’anima in pace, l’abbia messa a bella posta per “chiudere in bellezza». Profetica la lettera anonima spedita il 18 novembre 1991 alla Nazione e all’avvocato Piero Fioravanti, storico difensore di Pietro Pacciani. Ventotto anni dopo, infatti, la procura di Firenze decide di indagare proprio sul controverso ritrovamento del proiettile calibro 22 marca Winchester Long Rifle serie H rinvenuto nell’aprile 1992, dopo giorni di perquisizioni a tappeto e con strumenti sofisticatissimi, dalla Squadra mobile fiorentina nell’orto di Pietro Pacciani, indagato per i delitti del mostro di Firenze. Lo scoop è del quotidiano La Nazione che, in un articolo a firma di Stefano Brogioni, riporta una frase della richiesta di archiviazione - anticipata a marzo da Panorama - degli ultimi due indagati nell’infinita storia dei delitti delle coppiette, l’ex legionario Giampiero Vigilanti e il medico Francesco Caccamo, entrambi novantenni. Il procuratore aggiunto Luca Turco scrive infatti nella richiesta di archiviazione: «Non occorre in questa sede soffermarsi su problematiche emergenti dalla consulenza balistica non involgenti la posizione degli attuali indagati, problematiche che meritano di essere separatamente esaminate». Due righe che rivelano le “problematiche”, appunto, su quel proiettile e la decisione della procura guidata da Giuseppe Creazzo di approfondirle “separatamente”. All’origine della decisione degli inquirenti ci sarebbe la nuova perizia balistica effettuata dal dottor Paride Minervini, perito di fama, chiamato ad analizzare i 51 bossoli repertati nei luoghi dei delitti del mostro e il proiettile trovato nell’orto di Pacciani. Una prova che già non resse al processo d’appello che mandò assolto, su richiesta dello stesso procuratore Piero Tony, il contadino di Mercatale. I giudici (presidente Francesco Ferri) nelle motivazioni scrissero che quel ritrovamento «legittimava obiettive e consistenti perplessità in ordine alla genuinità dell’elemento di prova». Panorama ha contatta il perito Minervini, che si trincera dietro ripetuti «non posso commentare». L’ipotesi è che le striature lasciate sul metallo del proiettile trovato nel foro di un palo di cemento da Ruggero Perugini, allora capo della Sam, la Squadra antimostro, non siano state prodotte “dall’incameramento” del proiettile nella Beretta calibro 22, ma che invece siano state in qualche modo artefatte. A che scopo? Volontariamente e a fini depistatori? Oppure quelle striature sono soltanto la conseguenza dei numerosi esperimenti balistici effettuati sul proiettile in laboratorio? A questa domanda il perito Minervini si lascia sfuggire un sibillino «Non posso saperlo». La notizia degli approfondimenti disposti dagli inquirenti non sorprende Piero Tony, il primo a dubitare di quella prova a carico di Pacciani: «Se fosse vero che quel reperto è stato manipolato è necessaria l’apertura di un fascicolo di indagine per frode processuale». Panorama ha contatto l’allora dirigente del Gabinetto regionale di Polizia scientifica, dottor Francesco Donato, il primo che esaminò quel proiettile e che depose come perito nel processo di primo grado del 1994. Il dottor Donato, ora in congedo, resta, oggi come allora, convinto che quel proiettile fu caricato nella pistola che uccise sedici giovani: quelle microstriature, dette impronte secondarie, furono prodotte dalla culatta e dell’otturatore nella fase di incameramento e non possono essere state ricostruite artificialmente: «è un’ipotesi assolutamente fantasiosa. Confermo che quelle impronte coincidevano con quelle repertate sugli altri bossoli rinvenuti sui luoghi dei delitti. Vedremo gli sviluppi - aggiunge Donato – ma le ipotesi che mi vengono riferite sono fantasiose e diffamatorie nei confronti di chi operò all’epoca». Chi ha ragione? La lettera anonima acquisisce un nuovo significato alla luce di questa nuova perizia sui bossoli disposta dalla procura di Firenze? Il documentarista Paolo Cochi, esperto delle vicende del mostro, in un convegno a Prato nel 2018 chiese e ottenne la conferma dall’avvocato Pietro Fioravanti che la lettera fu spedita e recapitata mesi prima della perquisizione nell’orto di Mercatale. Chi è l’anonimo estensore? Sapeva qualcosa o anche lui va annoverato nella lunga lista dei mitomani e – questi sì – depistatori a tempo perso? Intanto restano i verdetti che non hanno mai completamente dato giustizia alle vittime del mostro di Firenze. Da Natalino Mele, il bambino che era nell’auto dove nel 1968, a Signa, fu uccisa la madre Barbara Locci e il suo amante Antonio Lo Bianco, omicidi per i quali fu ingiustamente condannato il padre, Stefano Mele, alle ultime vittime, i fidanzati francesi Nadine Mauriot e Jean Michel Kravechvili, assassinati nell’estate 1985 nella piazzola di Scopeti, tra Firenze e San Casciano. Il delitto di Signa del 1968 resta ancora senza un colpevole e nessuno ha saputo spiegare, prove alla mano, il passaggio della Beretta calibro 22 da quel duplice omicidio ai quelli riconosciuti come opera del mostro, mentre i compagni di merenda, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, sono stati condannati solo per alcuni dei delitti. E Pacciani, assolto in appello e rimandato a processo dalla Cassazione, morì prima di tornare alla sbarra, portandosi dietro tutti i suoi segreti e impendendo di scoprire cosa abbia fatto delle parti intime strappate ad alcune delle vittime. Ammesso che le abbia asportate lui.
Il Mostro di Firenze non c'è più. Si sta per archiviare senza colpevoli uno dei più atroci delitti avvenuti nelle campagne intorno a Firenze, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'8 marzo 2019 su Panorama. L’ultima inchiesta sui delitti del cosiddetto mostro di Firenze sta per essere archiviata, con un epilogo inaspettato però. Dalla Procura fiorentina alla Corte europea dei diritti dell’uomo. A ricorrere a Strasburgo ci sta pensando il legale delle figlie di Nadine Mauriot e dei familiari di Jean Michel Kraveichvili, la coppia francese uccisa nel 1985 (lei anche mutilata dei genitali e del seno sinistro), ultime vittime trucidate a Scopeti, una località di campagna tra Firenze e San Casciano Val di Pesa. In periodo di richieste di revisione, vere o solo minacciate, delle sentenze sugli assassini alla ribalta della nostra cronaca recente (da Cosima e Sabrina Misseri ad Alberto Stasi, passando per Rosa e Olindo fino a Massimo Bossetti), non poteva mancare all’elenco l’inchiesta più lunga, controversa e contestata, sui delitti compiuti dal 1968 al 1985 nella provincia di Firenze, con un totale di sedici giovani uccisi. Il motivo per la rabbia dei parenti della coppia francese è l’asserita «inerzia della Procura di Firenze», che ormai da due anni indaga su due quasi novantenni: Giampiero Vigilanti, un istrionico ex legionario, e Francesco Caccamo, riservato medico condotto da tempo a riposo. Due nuovi «compagni di merende» complici dello storico accusato Pietro Pacciani? Vigilanti, che conosceva l’agricoltore di Mercatale, era già stato perquisito ai tempi degli omicidi; escluso dalla cerchia dei sospettati, è stato dimenticato per decenni. Fino al 2013, quando l’avvocato fiorentino Vieri Adriani, su incarico appunto delle famiglie dei due francesi, ha depositato un esposto in procura nel quale venivano ricostruiti i movimenti dell’ex legionario e i suoi collegamenti con Pacciani. Per l’avvocato Adriani c’erano elementi a sufficienza per riaprire le indagini. Cosa che è avvenuta. E così, a cinquant’anni dal primo delitto del 1968, l’anziano è stato indagato, perquisito e interrogato dal Ros dei carabinieri. Finendo per tirare in ballo, pur respingendo ogni accusa, anche il suo medico, Francesco Caccamo. Con quale esito? Pare nessuno. Da indiscrezioni raccolte da Panorama, la Procura è in procinto di chiedere l’archiviazione per i due. Una decisione che l’avvocato Adriani rigetta con forza e annuncia a questo giornale: «Se per la fine di febbraio non ci saranno novità chiederò l’avocazione dell’indagine alla Procura generale. Così stiamo ipotizzando con le famiglie delle vittime di intentare una causa contro l’Italia per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per la durata delle indagini e i cinquant’anni di errori che sono stati commessi. Per me questo è un caso emblematico di malagiustizia». Che i delitti del mostro di Firenze siano ancora avvolti dal mistero lo dimostra il fatto che, parallelamente alle indagini su Vigilanti e Caccamo, il procuratore aggiunto Luca Turco, erede degli antichi fascicoli, ha disposto nuove perizie sui bossoli calibro 22 repertati negli anni e la ricerca e comparazione dei profili genetici che il mostro e i suoi eventuali complici potrebbero aver lasciato sui vari luoghi dei delitti. Proprio un lembo di pelle di Nadine Mauriot fu spedito dal mostro all’allora magistrato fiorentino Silvia Della Monica, unica donna tra gli inquirenti che avevano indagato sul serial killer della Toscana. Su quella busta fu effettuato, nel 1985, la prima ricerca di Dna della storia giudiziaria italiana. Senza esito. Ma negli anni la scienza ha fatto passi da gigante e oggi le polizie possono contare su apparecchiature che ricostruiscono interi profili genetici da frammenti di Dna infinitamente piccoli. A quali nuovi mostri si sta dando allora la caccia? O c’è bisogno di ulteriori conferme alle vecchie verità processuali? Purtroppo, salvo l’imbarazzata sorpresa degli inquirenti che hanno trovato nel cuscino della tenda teatro del delitto degli Scopeti un proiettile mai repertato prima, ma assolutamente identico a quelli già noti, da ambienti investigativi si apprende che non sarebbero emersi elementi di novità. I periti della Procura devono ancora consegnare le relazioni conclusive ma, salvo clamorosi colpi di scena, le indagini sembrano portare ancora una volta a un vicolo cieco. E allora, ricorsi a Strasburgo a parte, ci si dovrà far bastare le vecchie sentenze. Che però non soddisfano nessuno, nemmeno chi istruì quei processi. A cominciare dalla condanna in primo grado inflitta il 1° novembre 1994 a Pietro Pacciani, riconosciuto assassino di «sole» quattordici vittime e scagionato per il delitto di Signa del 1968, dove la Beretta calibro 22 al centro di tutti gli episodi uccise Barbara Locci e l’amante Antonio Lo Bianco. Per quell’omicidio si autoaccusò il marito di Locci, Stefano Mele, che fu condannato. Anni dopo, quella confessione venne smentita dagli eventi e ritenuta da tutti indotta e inattendibile. Finirono in carcere ambigui personaggi originari della Sardegna e arrivati in Toscana, ma ogni volta il mostro li «scagionò» uccidendo ancora. E allora chi fu a sparare a Signa nel 1968? Escluse le tesi più o meno fantasiose che negli anni hanno alimentato le indagini e la letteratura sul serial killer, resta un’unica certezza: che a sparare fu sempre la medesima pistola, mai ritrovata. La sentenza di condanna per Pacciani però non resistette al processo d’appello. Il procuratore Piero Tony, che rappresentava l’accusa, chiese clamorosamente la sua assoluzione. La corte di Assise di appello gli diede ragione. Addirittura, a proposito di uno degli indizi più pesanti, ovvero la cartuccia calibro 22 Winchester Long Rifle, serie H trovata al termine di una perquisizione durata giorni nell’orto di Pacciani, i giudici sancirono che quel ritrovamento «legittimava obbiettive e consistenti perplessità in ordine alla genuinità dell’elemento di prova». Ovvero: quel proiettile era tutt’altro che una prova. Vent’anni dopo Piero Tony non ha cambiato idea e dice: «Contro Pacciani, al di là del giudizio sulla persona, sporco, brutto, tutto quello che si vuole, per quanto riguarda i delitti del mostro c’era poco o nulla. Anche oggi chiederei la sua assoluzione». La Corte di cassazione, nel 1996, annullò quella sentenza e ordinò di rifare il processo all’agricoltore di Mercatale, che però morì di infarto prima di tornare in aula. Intanto a capo della Sam, la squadra antimostro della questura di Firenze, al vicequestore Ruggero Perugini, il poliziotto che arrestò Pacciani (si veda l’intervista nelle pagine precedenti) si avvicendò il commissario Michele Giuttari. E i mostri erano diventati quattro: Pacciani e i suoi «compagni di merende»: Mario Vanni e Giancarlo Lotti - condannati però solo per alcuni dei delitti - e Giovanni Faggi, che invece a quelle «merende» evidentemente non partecipò mai, perché finì assolto. Venne poi l’epoca delle piste sui mandanti dei delitti che commissionavano i feticci delle mutilazioni sulle vittime, magari per compiere riti esoterici. Tra magistrati e investigatori deflagra uno scontro senza precedenti, con strascichi penali e disciplinari, finché il fascicolo con le nuove tesi di indagine viene preso in carico dalla Procura di Perugia. I giornalisti che non si allineano alle teorie del nuovo magistrato, Piero Mignini, vengono denunciati, interrogati, persino arrestati con l’accusa di depistaggio e concorso in omicidio. Cadaveri eccellenti vengono riesumati per dimostrare, senza successo, un ruolo della massoneria negli omicidi. Scrisse Pier Luigi Vigna, il magistrato che per vent’anni dette la caccia al mostro e firmò l’arresto di Pacciani: «L’inchiesta sul mostro di Firenze è una di quelle che può far perdere la testa, può diventare un’ossessione e portare in territori inesplorati dove il confine tra vero, verosimile, inverosimile e assurdo diventa talmente labile da scomparire». Poi, è calato un lungo silenzio. Fino all’esposto dell’avvocato Vieri Adriani, ai nuovi indagati e all’ipotesi del ricorso alla Corte europea. Perché, in assenza di una verità certa, ci sarà sempre qualcuno che, come il mugnaio di Bertold Brecht, continuerà a cercare un giudice, foss’anche a Strasburgo.
Mostro di Firenze: inchiesta finita. Delitti feroci, misteri e tabù infranti. Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Marco Vichi su Corriere.it. Mostro di Firenze: otto duplici omicidi avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze. La Procura ha chiesto l’archiviazione per gli ultimi due indagati Giampiero Vigilanti, 89 anni, ex legionario, e Francesco Caccamo un medico di 88 anni. Una decennale e tragica vicenda viene chiusa in un sarcofago. Definitivamente? Chi può saperlo. Comunque, se a livello giudiziario sembra l’epilogo amaro di una lunga storia, nell’immaginario degli italiani, soprattutto dei toscani, e soprattutto dei fiorentini, rimarrà una macchia nera indelebile. Nel tempo questa faccenda ha subito una incessante trasformazione, sia a livello giudiziario, sia nella fantasia della gente. All’inizio si pensava a un delitto per gelosia, successivamente si passò all’idea che ci fosse uno squilibrato in circolazione, e passando dall’ipotesi di un gruppo di assassini si arrivò alla tesi della setta satanica. Ricordo molto bene il secondo omicidio, lo sgomento dei fiorentini. Ricordo bene anche gli altri delitti, l’errore dell’uccisione dei due ragazzi tedeschi omosessuali, il gioielliere scampato per miracolo alla morte perché aveva i vetri blindati. Ricordo molto bene anche i cartelli disseminati nei luoghi dove di solito i ragazzi andavano a fare l’amore in macchina, con un grande occhio e la scritta in cinque lingue: «Occhio ragazzi, pericolo di aggressione». I primi tempi i ragazzi, per non isolarsi, in zone cittadine non troppo appartate, formavano grandi gruppi di automobili parcheggiate una accanto all’altra, con i vetri schermati da fogli di giornale. Poi ci fu un cambiamento nel costume, a dimostrazione che a volte anche il peggiore dei mali può generare qualcosa di positivo: tutte le famiglie, anche le più conservatrici, lasciarono liberi i loro figli, perfino gli adolescenti, di portare in casa fidanzati e fidanzate, che potevano chiudersi nelle loro camere per fare quello che avrebbero fatto in macchina. Furono spazzati via tabù e moralismi: era più importante proteggere i propri figli da quel tremendo pericolo, piuttosto che continuare a conservare i vecchi costumi. Quando i fidanzati arrivavano, i genitori dicevano: «Noi usciamo, torniamo tardi» e lasciavano la casa a disposizione dei ragazzi. Quella trasformazione delle «regole familiari» era stato pagato a caro prezzo. Ragazzi uccisi in modo atroce, mutilazioni intollerabili. Ma la verità non è mai venuta a galla. Ci sono stati indiziati, accuse, illazioni, depistaggi, prove false, provocazioni, capri espiatori, indagini annullate, piste parallele, piste abbandonate, suicidi. Ma per adesso nessuna verità è mai rimasta intrappolata nella ragnatela formata da decine di libri, migliaia di articoli, interviste, programmi televisivi, inchieste, opinioni contrapposte di scrittori, giornalisti, criminologi, psichiatri, commissari e magistrati. Probabilmente nessuno riuscirà mai a trovare la soluzione di questi omicidi, a meno che non accada come nel famoso romanzo di Dürrenmatt, La promessa, dove in punto di morte una vecchia signora fa chiamare un comandate di polizia. Prima di oltrepassare la soglia del «grande forse» vuole liberarsi la coscienza, e racconta la verità su alcuni terribili omicidi di bambine: lei sa chi è l’assassino, e sa anche che non ha ucciso l’ultima bambina perché mentre andava nel luogo dove l’avrebbe uccisa è morto in un incidente. Ecco, solo in questo modo si potrebbe venire a sapere la verità sul mostro. Perché non si tratta di un mistero — i misteri appartengono alle religioni — ma di un segreto: qualcuno probabilmente sa benissimo chi è o chi sono i colpevoli (al di là degli unici due condannati, Mario Vanni e il reoconfesso Giancarlo Lotti), oltre ovviamente agli assassini stessi e ai loro eventuali mandanti. L’unica cosa certa è che questa vicenda resterà nell’immaginario collettivo come Jack lo squartatore, e probabilmente, ogni tanto, anche tra alcuni decenni, qualcuno tirerà fuori una nuova teoria o una nuova ipotesi che però rimarranno senza soluzione. Questo grande segreto ha lasciato dietro di sé un solco pieno di sangue, ed è destinato a non essere mai veramente dimenticato.
Perugini, il superpoliziotto: "Pacciani per me resta colpevole". Parla in esclusiva a Panorama Ruggero Perugini, già capo della Squadra Anti Mostro, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'8 marzo 2019 su Panorama.
Dottor Perugini, lei si è salvato da quest’inchiesta?
«Il vero mostro in questa inchiesta è l’inchiesta stessa. E io me la sono cavata meglio di altri».
Quando la Beretta calibro 22 uccideva per la prima volta a Signa, nel 1968, Ruggero Perugini, basette e capelli lunghi, suonava la chitarra nel gruppo beat religioso, Gli Alleluia. Oggi si gode la pensione, la famiglia e i due giganteschi cani corsi. Nel mezzo una carriera internazionale, in cui spicca l’arresto del mostro di Firenze, Pietro Pacciani.
Nel 1989 lei diresse la Sam, la squadra antimostro, e nel 1992 arrestò Pacciani.
«Fu merito di un nuovo approccio investigativo che mettemmo a punto col procuratore Pier Luigi Vigna e che, in soli tre anni, portò all’arresto del mostro di Firenze».
Fu lei a trovare il proiettile Winchester serie H nell’orto dell’agricoltore di Mercatale e fu sempre lei che, in Germania, rintracciò la commessa di una cartoleria che riconobbe il blocco da disegno rubato a Uwe Jens Rusch e Friedrich Horst Meyer, uccisi il 9 settembre 1983 a Giogoli e ritrovato in casa Pacciani. Le sentenze però non le dettero soddisfazione piena. Già in primo grado Pacciani, pure condannato per i delitti del mostro, non fu ritenuto responsabile del duplice omicidio del ’68. Lei, invece, ritiene che fosse colpevole anche di quello.
«Gli elementi concreti che collegavano il duplice omicidio del 1968 con quelli del mostro di Firenze erano l’uso della medesima arma e l’obiettivo «coppia». Come tutti, anch’io mi chiesi se ci fosse stato un passaggio di mano dell’arma. Ma non ho mai creduto all’ipotesi del suo rinvenimento occasionale, visto che l’assassino aveva poi continuato a usare munizioni dello stesso tipo e lotto».
Che uomo era Pacciani?
«Era scaltro e intelligente, un ottimo attore che indossava con disinvoltura la maschera che riteneva più appropriata all’una o all’altra circostanza. Era dotato di grande fantasia e di una straordinaria capacità di manipolare gli altri. Era visceralmente geloso, disprezzava profondamente le donne e desiderava umiliarle. Una personalità complessa, insomma, lontana anni luce dal ruolo del contadino sempliciotto che la gente gli aveva cucito addosso».
Per lei Pacciani fece tutto da solo. Non ha mai creduto ai «compagni di merende».
«Dopo il primo processo Vigna mi telefonò a Washington e mi disse: «Ci avevi azzeccato, solo che invece di uno erano tre». Mah… Dei «compagni di merende» posso solo dire che sono stati anch’essi oggetto di indagini approfondite senza che nulla di concreto emergesse sul loro coinvolgimento nei delitti. Ma non tocca a me valutare l’attendibilità di quanto ebbero a dichiarare dopo».
Piero Tony, il magistrato che, pur rappresentando l’accusa nel processo d’appello, chiese e ottenne l’assoluzione per Pietro Pacciani, sostiene ancora oggi che c’era poco o nulla a carico dell’agricoltore.
«Il procuratore Tony mi sorprese, non credeva all’impianto accusatorio e per questo non volle nemmeno che mandassimo il proiettile trovato nell’orto nei laboratori dell’Fbi, più avanzati dei nostri. Sono convinto che avremmo avuto la certezza che quel proiettile apparteneva al mostro e invece non fu possibile fare ulteriori accertamenti».
In appello la sentenza di assoluzione di Pacciani, poi annullata con rinvio dalla Cassazione, sancì che c’erano «dubbi sulla genuinità dell’elemento di prova» a proposito del proiettile trovato nell’orto. Ritiene possibile che quella cartuccia fosse frutto di una contaminazione volontaria, magari di un depistaggio?
«Non credo all’ipotesi del depistaggio e posso solo aggiungere che tutte le fasi di quella perquisizione furono videoregistrate».
Oggi la Procura di Firenze sta cercando dei profili genetici sui reperti dei delitti per confrontarli con il Dna di alcuni sospettati.
«Onestamente non credo che si possano trovare ancora reperti biologici analizzabili. Se emergessero elementi di prova che smentiscano quanto abbiamo appurato ne sarei lieto, ma ne dubito».
E i due attuali indagati, l’ex legionario Vigilanti e il medico Caccamo?
«Mah… staremo a vedere. Secondo me, la verità sul più famoso assassino seriale italiano è già stata accertata ma, dato il clamore mediatico e la disinformazione che hanno accompagnato la vicenda, non mi stupisco che ci siano al riguardo opinioni diverse».
· Il puzzle incompleto del mistero di Garlasco.
Pasticci, errori e bugie. Il puzzle incompleto del mistero di Garlasco. Stefano Zurlo, Martedì 23/07/2019, su Il giornale. Molti mesi dopo, una sera forse d'autunno, i genitori di Chiara mi fecero entrare in casa. L'aria era fresca, le zanzare avevano tolto l'assedio e anche i cronisti si erano in gran parte dileguati. Ma oramai Garlasco era entrata nella mappa tinta di rosso dei grandi gialli tricolori. Mi bastarono due minuti di orologio per capire: per i genitori di Chiara Poggi il mistero non c'era. C'era solo lui, Alberto Stasi, e poi c'erano i rituali incomprensibili, cervellotici, estenuanti di una giustizia non all'altezza. Incerta e confusa, anche se nella loro rispettosa compostezza non l'avrebbero mai ammesso. La mamma, senza alcuna esitazione, mi porse dei post it gialli: «Eravamo partiti per le vacanze in Trentino. Era la prima volta che Chiara rimaneva sola. E su questi foglietti le avevamo lasciato le indicazioni per ogni evenienza. Se fosse arrivato, che ne so, il tecnico del gas o altro». Leggevo quelle povere righe e meditavo sui fregi barocchi di un sistema capace di complicare qualunque partita. Qualcuno aveva violato il nido di Chiara, qualcuno che abitualmente lo frequentava, un nido costruito e difeso a oltranza. Chiara aveva 26 anni, una laurea con lode, aveva lavorato a Milano, ma il cordone ombelicale con la famiglia non era mai stato reciso. Anzi, tutto o quasi era rimasto immobile fino alla mattina del 13 agosto 2007 quando l'avevano uccisa e il mondo aveva scoperto quel puntino, fra le campagne e le risaie della Lomellina. Provai a rilanciare: «Magari Chiara sul pullman, quando tutte le mattine viaggiava verso Milano, avrà conosciuto qualcuno e chissà cosa può essere successo». Non ci credevo, perché tutto, a dispetto del frastuono mediatico, appariva terribilmente semplice, ma insistevo. «Nostra figlia - fu la risposta definitiva, colma di sofferenza e dignità - non apriva mai agli sconosciuti. Lei ha disinserito l'allarme perimetrale alle 9.12 e dev'essere morta dopo pochi minuti». Alle 9.20-9.25. La procura di Vigevano si ostinava a spostare l'orario: verso le 11-11.30, mezzogiorno. Ma il buonsenso rimetteva le lancette in avanti. Senza incertezze: «Si è svegliata, ha fatto colazione, poi sarebbe rimasta al buio, in piena estate, con tutte le tapparelle abbassate, senza rispondere al telefono e senza mandare un solo messaggio, per due o tre ore in attesa di morire. La verità è che quella mattina è morta subito». Non c'era altro da aggiungere, mentre quegli occhi che era difficile sostenere mi fissavano quasi con candore. Mancava ancora la rasoiata finale: «Chiara conosceva solo Alberto». Non era una condanna, era pure peggio. Mi rimbombavano in testa le parole che la vicina di casa Franca Bermani, una nonna dal volto rassicurante, mi aveva detto con assoluta sicurezza due o tre giorni dopo il delitto: «Verso le 9.10 ho notato una bici nera da donna appoggiata alla recinzione della casa». Mi ero precipitato dai carabinieri che mi avevano disilluso con una spiegazione disarmante: «La Bermani è molto anziana. Chissà cosa ha visto». E invece tutto tornava, almeno nei mulinelli di noi cronisti che avevamo espropriato un paese abituato da secoli a una calma piatta e immobile. Chiara e Alberto, una coppia come tante, avevano mangiato la pizza insieme. Poi doveva essere scoppiato un litigio furibondo, forse perché lei, mentre lui era fuori, aveva aperto il suo computer e scoperto un altro Alberto: un feticista che collezionava foto di donne. Alberto se n'era andato a casa, dall'altra parte di Garlasco, e la mattina era tornato: una scintilla e la lite era ricominciata. Un attimo e tutto era finito. Ventitrè minuti in tutto, fra le 9.12 e le 9.35, quando Alberto aveva riacceso il computer di casa. Ventitré minuti: più che sufficienti per andare, ammazzare e tornare alla base. E invece la storia si attorcigliava, si complicava, si confondeva. Alberto era sempre più sospettato e sempre libero. Il tutto sotto i riflettori; quello di Garlasco era ormai un dramma nazionale, e per più di una ragione: anzitutto, il calendario, a ridosso di Ferragosto. Poi il carattere dei due: lei timida e trasparente ma risoluta, lui impenetrabile e gelido, forse irrisolto. Ancora più gelido in quella stranissima telefonata al 118, alle 13.50, un attimo prima di andare dai carabinieri: «C'è una ragazza morta. Ma forse è viva... È la mia fidanzata». Riversa sui gradini che portavano alla tavernetta. Non si era sporcato i piedi, Alberto, calpestando tutto quel sangue, ed era arrivato in caserma lindo come uno scolaretto. Come aveva fatto? E la richiesta d'aiuto impacciata, dal tono posticcio? L'opinione pubblica, calamitata dal rompicapo, dibatteva e si divideva. No, quell'accento spaesato, poco o nulla convincente, non era il frutto di una tattica diabolica, ma il risultato dello choc patito. Innocentisti e colpevolisti intenti a disquisire, con l'apparato investigativo a mischiare le carte fino a confonderle. Ecco il maresciallo Francesco Marchetto protagonista di un pasticcio dalle conseguenze catastrofiche: il 14 agosto va a vedere la bici nera da donna, parcheggiata presso l'azienda del padre di Stasi, ma se la cava con due righe: «Non è quella indicata dal teste Bermani». Invece è proprio quella o, comunque, le assomiglia come una goccia d'acqua. Incredibile: viene sequestrata la bici bianca di Chiara, vengono prelevate altre due bici di Stasi, una bordeaux e una grigia, ma non quella giusta. Anche perché Marchetto non era presente alla deposizione della signora. Al processo di primo grado, imbeccato dal giudice Stefano Vitelli, Marchetto si supera e afferma di essere stato presente al racconto della Bermani. Per questo ha trascurato la bici nera che non aveva niente a che fare con quella descritta dalla donna. Una menzogna bella e buona. Pare di sognare. La bici nera resta ad arrugginire. Gli errori si susseguono. L'orario della morte continua a ballare. Le perizie si accumulano le une sulle altre come tesi di laurea che vanno in tutte le direzioni. Peccato che l'esame decisivo quello sulla camminata di Stasi, che ha miracolosamente schivato il sangue, sia monca: è stata fatta senza tenere conto della grande macchia davanti alla porta delle scale. Un errore imperdonabile. L'avvocato Gianluigi Tizzoni, legale di parte civile e mastino straordinario, contesta questo interminabile treno di negligenze ma il vento soffia dalla parte dell'imputato. Stasi viene assolto in primo grado e assolto ancora in appello. Sembra finita. E invece no: la Cassazione sconfessa quei verdetti e ordina un nuovo dibattimento. La bicicletta viene finalmente recuperata nel 2014: è in sostanza quella indicata dalla vicina, anche se qualcuno ha misteriosamente sostituito i pedali che, si può solo immaginare, si erano riempiti di sangue. Non solo: si scopre pure che Marchetto ha mentito e solo la prescrizione lo salva in appello, dopo una condanna in primo grado. Ma è soprattutto il nuovo esperimento sui passi di Stasi a casa Poggi a mettere ko il fidanzato. Impossibile entrare in quel mattatoio e venirne fuori come un angelo, le scarpe immacolate. Stasi, riacciuffato in extremis, viene condannato. Nel 2015, finalmente cala il sipario. Comunque, troppo tardi.
· Wojtyla-Agca, l’altra pista.
Wojtyla-Agca, l’altra pista nel romanzo di Antonio Ferrari, scrive mercoledì, 06 marzo 2019, Il Corriere.it. Ci sono parole che girano attorno ai libri e, a volte, danno un senso — imprevisto — a quegli stessi libri. Chiamale dedica, esergo, fascetta di copertina, citazione, nota, risvolto... E capita che non sempre siano inutili. Come nel caso del nuovo romanzo di Antonio Ferrari. Titolo: Amen (Chiarelettere), la vera storia dell’attentato a Giovanni Paolo II. Diciamolo subito: la famosa «pista bulgara» è (era, è sempre stata) una bufala. C’è ben altro di mezzo: tanto marcio in Vaticano, trame di servizi segreti, cardinali canaglia, malavita agganciata a poteri politici, massoneria deviata, soldi sporchi. Esce in libreria il 7 marzo il romanzo di Antonio Ferrari, «Amen» (Chiarelettere, pagine 186, euro 16,50) La dedica: «A Francesco», il Papa di adesso. L’esergo: «Aereo papale, rientro da un viaggio. Giornalista: “Santità perché vive a Santa Marta?”. Il Papa: “Per ragioni psichiatriche”». La fascetta di copertina: «A volte la verità è così vicina che ci sfugge» (Mario Rizzi, vescovo e nunzio apostolico a Sofia). Ma ora parliamo del libro (le frasi citate verranno bene dopo). Piazza san Pietro. La gente è conquistata dal primo Papa non italiano dopo 455 anni. Mercoledì 13 maggio 1981, anniversario della apparizione della Madonna ai tre pastorelli di Fatima nel 1917, la papamobile si muove lentamente in piazza San Pietro. Alle 17.17 il ventitreenne turco Mehemet Ali Agca (appartenente al gruppo neonazista dei Lupi grigi, tiratore micidiale) spara due colpi al Pontefice. «Ma nella piazza gremita Agca non è l’unico a covare propositi omicidi. Mescolati alla folla ci sono anche coloro che devono controllare che tutto si svolga secondo i piani. Sicari al servizio dei tanti nemici del Pontefice, anche profondamente interni al Vaticano, che a fatto compiuto saranno pronti a eliminare il killer e a cancellare le tracce più compromettenti. Sanno bene che Agca rappresenterà — da vivo — un pericolo mortale. Hanno previsto tutto». Ma non che alle spalle di Agca si trovi «suor Letizia, al secolo Lucia Giudici, una vigorosa suora bergamasca, che si slancia d’istinto addosso al killer, lo immobilizza e ne impedisce la fuga, consegnandolo alla polizia». Poi Ferrari ci trascina nel nero cuore dell’intrigo: «La sera, mentre la folla in piazza San Pietro attende in silenzio, tra lacrime e preghiere, notizie dal Policlinico Gemelli, dove Giovanni Paolo II lotta tra la vita e la morte, uno dei cospiratori, abbandonato l’appartamento in via della Conciliazione, raggiunge gli altri in una lussuosa casa privata romana per valutare il fallimento: il Papa è ancora vivo e Agca prigioniero. Disastro totale, se il killer aprirà bocca sarà una tragedia». Da lì l’autore del romanzo ci porta a Milano, nella sede del «Corriere», dove i giornalisti si sono riuniti per azzardare qualche ipotesi sull’attentato. Ferrari è uno di loro; nel romanzo si chiama Anton Giulio Ferrer, inviato speciale del quotidiano, e ascolta «il celebre scrittore e drammaturgo cattolico Giovanni Testori che, tormentandosi il mento, domanda: “Che cosa pensate? A me vien da pensare a un’operazione congiunta della massoneria e della criminalità”». «Purtroppo — aggiunge Ferrari oggi — Testori non saprà mai quanto, con la sua naturale capacità di analisi e di comprensione del genere umano, sia andato vicino alla verità». Basta aggiungere le spire della finanza deviata, della corruzione politica, della malavita organizzata, dell’abominio della pedofilia che hanno avvinto il Vaticano. Ferrari-Ferrer le ha sfidate con le sue inchieste alla ricerca dei veri mandanti dell’attentato. Da Roma a Istanbul a Sofia in un turbinio di ricatti, cospirazioni internazionali e depistaggi come la cosiddetta «pista bulgara». Che cosa ci si poteva inventare di più plausibile di un assassinio politico ordito da un Paese satellite agli ordini di una Unione Sovietica che vedeva nel Papa polacco un pericolo addirittura per la propria sopravvivenza o, almeno, per la propria stabilità? A smontare definitivamente l’imbroglio sarà lo stesso Wojtyla 21 anni dopo l’attentato con una mossa da nessuno prevista, rivolgendosi, durante la sua visita a Sofia, al presidente della Bulgaria. Ferrari-Ferrer c’era: seguiva la lunga inchiesta che lo ossessionava da decenni. Oggi scrive: «La sorpresa fu grande, anche per l’inviato milanese. Mai avrebbe immaginato che il Pontefice, con la voce ormai impastata, dopo aver lasciato cadere le cartelle del discorso ufficiale sul leggio, sollevasse il capo e dicesse: “Sappia, signor presidente, che non ho mai creduto, non credo e non crederò mai alla pista bulgara”. Qualche fideista della pista bulgara, quel giorno, preferì tacere. Anzi, fu messo a tacere proprio dal Pontefice». Amen, come il titolo del romanzo. Ma c’è un altro «amen» che suona come una bestemmia: è la parola-chiave che chiude quella che doveva essere la sentenza di morte per Wojtyla. A pronunciarla, in una trattoria romana, sarà un vescovo: «Lui, con il suo accento americano, non dirà nulla di più». Una parola, una condanna, un assassinio. Amen. Ma Amen non è soltanto un romanzo-verità. Si arriva per gradi ai due colpi di pistola. Si arriva seguendo quattro religiosi. Li incontriamo giovani, all’inizio del libro. Ne lasceremo tre invecchiati e orgogliosi di aver dato un importante contributo al rinnovamento della Chiesa. Ma anche provati: «Abbiamo fatto un lungo percorso, abbiamo conosciuto le miserie del mondo, oh sì... anche le miserie della Chiesa». Il quarto, l’americano Patrick, non riuscirà a portare a termine la missione. Vittima da ragazzo di un alto prelato pedofilo, si unirà agli altri per portare alla luce gli oscuri traffici sessuali in cui è stato a forza coinvolto. Nell’amata Roma sarà eliminato per costringerlo al silenzio. Il prete italiano Marco e i francesi Michel, sacerdote, e Catherine, sorella laica, sono i fondatori di «Chiesa rinata», un movimento che vuole riavvicinare l’istituzione religiosa ai bisogni reali, attuali e spirituali dei fedeli. Tra Michel e Catherine corre anche una storia d’amore, che non intacca, anzi rafforza, la loro fede. Siamo ai tempi di Angelo Roncalli, nunzio a Parigi e poi patriarca a Venezia, amato dai progressisti, e del cardinale di Genova Giuseppe Siri, stimato dai tradizionalisti. Dopo la morte di Pio XII, il 9 ottobre 1958, sono i candidati alla successione. E «le varie manovre di potere, cominciate da molto tempo, stavano avvicinandosi alla fatale sintesi. Fu a quel punto che si concretizzò un retroscena clamoroso. Non ci sono prove assolute né mai ci saranno», ma secondo i servizi segreti degli Stati Uniti e fonti della stessa sicurezza vaticana, «Giuseppe Siri aveva ottenuto i voti necessari per essere eletto Papa e aveva accettato la nomina, ma numerosi cardinali, soprattutto francesi e orientali, gli avevano chiesto di rinunciare in quanto l’elezione avrebbe provocato disordini, soprattutto nell’Est europeo comunista, mettendo a rischio la vita dei vescovi cattolici dietro la Cortina di ferro. Obbedendo alle pressioni, l’arcivescovo di Genova aveva dunque accettato di rinunciare» lasciando via libera a Roncalli, Giovanni XXIII: «La Chiesa rinata di Marco, Michel e Catherine aveva vinto la sua prima vera battaglia». E battaglie se ne incontrano tante nelle pagine di Amen. Al centro le successive elezioni dei Papi, il senso del Concilio Vaticano II, le infiltrazioni della mafia, gli intrighi di certa finanza cattolica, le manipolazioni di Licio Gelli e Roberto Calvi, un domani l’assalto al «Corrierone». Sì, c’è anche molto «Corriere» in questo libro. Perché è proprio partendo da via Solferino tante volte che Ferrer-Ferrari ha potuto scoprire quello che ci ha raccontato e ci racconta. Amen.
· Il Caso Orlandi.
La lettera di Ali Agca: Emanuela Orlandi è viva e sta bene Ecco dove forse è sepolta. Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Corriere.it. «Emanuela Orlandi è viva e sta bene da 36 anni». «Non fu mai sequestrata nel senso classico del termine», ma «fu vittima di un intrigo internazionale per motivi religiosi-politici collegati anche con il Terzo Segreto di Fatima»: un intrigo della cui organizzazione «il governo vaticano non è responsabile», mentre è «la Cia» che dovrebbe «rivelare i suoi documenti segreti» in proposito. A sostenere tutto questo è Ali Agca, che in una lettera aperta alla stampa internazionale torna sul caso della ragazza scomparsa il 22 giugno 1983, all’età di 15 anni. Recentemente il caso Orlandi è tornato sui giornali per l’apertura lo scorso 11 luglio di due tombe nel Cimitero Teutonico di via della Sagrestia, all’interno del Vaticano e a poca distanza da San Pietro. Una segnalazione anonima le indicava, infatti, come luogo di sepoltura della giovane scomparsa nel 1983. Le due tombe sono state trovate «vuote» e ora i genetisti sono al lavoro sui resti trovati in due ossari in un’area attigua al luogo di sepoltura ottocentesco di due principesse, Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburg.
La famiglia Orlandi al Papa: «Santità, ci dia accesso al fascicolo segreto su di lei». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 su Corriere.it da Laura Sgrò, avvocata della famiglia. L’appello della famiglia della ragazza scomparsa il 22 giugno 1983: «Viva o morta, deve tornare a casa». «Santità, Lei certamente segue con sguardo misericordioso la tragedia di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983, e di cui nulla è dato sapere alla madre e ai suoi fratelli, caricandoli di un dolore che non trova pace. Il padre di Emanuela, Ercole, se n’è andato senza sapere; la madre Maria, anziana e malata, si aggrappa alla vita perché aspetta ancora la sua amata figlia. Viva o morta, Emanuela deve tornare a casa. La famiglia mi ha incaricata di sostenere legalmente la loro ricerca della verità e per questo Le chiedo un atto di carità e di giustizia sovrana, non avendo trovato nei livelli ordinari la necessaria e aperta collaborazione che si auspicava. Testimonianze recenti e investigazioni difensive hanno fornito la certezza dell’esistenza di un fascicolo segreto sul sequestro di Emanuela, che riferiscono di attività precise e strutturate volte a ricostruire quanto è accaduto. Vi è documentazione su Emanuela, custodita nell’archivio segreto dalla Segreteria di Stato e mai condivisa. L’accesso della famiglia a questi documenti mi viene ripetutamente negato da anni. Il silenzio ha prima avvolto la mia richiesta e poi l’ha inghiottita. Mi sono decisa, allora, a questo passo pubblico, spinta anche dall’immagine possente rappresentata da Sua Santità in una Sua recente omelia: il Cristo che consola la vedova di Naim che ha perso il figlio adolescente e le dice: «Donna, non piangere!». Ho ritrovato nelle Sue parole Maria Pezzano Orlandi: «Il Signore fu preso da grande compassione» vedendo quella madre sola, distrutta dal dolore. Compassione e giustizia. Questa tragedia le esige. Eppure uomini di alte responsabilità mi hanno lasciato intendere fosse meglio fermarmi, in qualche modo consegnandomi, come cattolica, alla necessità di evitare scandali. Ma sono fermamente convinta che vi sono momenti in cui l’esigenza di Verità è così forte che nulla può fermarla. Pertanto è una questione di amore, di giustizia e di diritto chiedere a Sua Santità di intervenire.
Santità, Lei di recente, non temendo la storia, con animo sereno e fiducioso ha autorizzato l’apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII, che, come Lei stesso ha detto, «si trovò a condurre la Barca di Pietro in un momento fra i più tristi e bui del secolo Ventesimo». Anche la scomparsa di Emanuela rappresenta un momento triste e buio del secolo scorso. Adesso, però, sono le Sue mani ferme e misericordiose a guidare la Barca di Pietro. La conduca verso quella Verità che, come ci ha insegnato Nostro Signore, rende liberi». Laura Sgrò è avvocata della famiglia Orlandi.
Caso Orlandi, l’ex nunzio Viganò: ci sono documenti in Vaticano. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it. La Santa Sede potrebbe conservare dei documenti sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, come il testo della telefonata che arrivò in Vaticano la sera stessa. Ci sono poi ecclesiastici che in quegli anni rivestivano posti chiave e che dunque potrebbero rivelare più di quanto fino ad oggi sia stato fatto. A parlare del caso Orlandi è per la prima volta l’ex Nunzio Carlo Maria Viganò, già salito alle cronache per i suoi attacchi a Papa Francesco. Il racconto di quelle prime ore dalla scomparsa di Emanuela Orlandi è affidato ad Aldo Maria Valli, ex vaticanista della Rai e oggi autore di un blog con posizioni spesso critiche rispetto al pontefice.Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela che da oltre 36 anni cerca la verità, rilancia sul suo account Facebook l’intervista con queste parole: «Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome». Il racconto di Viganò fornisce nomi e cognomi, luoghi e anche alcune valutazioni personali. Come quella che il cosiddetto «americano», la persona che telefonava in Vaticano per aprire una trattativa con l’allora Segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli, potesse essere in realtà un maltese. Secondo la ricostruzione di Vigano’, la stessa sera della scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, intorno alle 20, nemmeno due ore dopo che la ragazza era stata vista uscire dalla scuola di musica a Sant’Apollinare, uno sconosciuto chiamò il Vaticano e chiese di parlare con Casaroli che però era in viaggio, in Polonia, con Giovanni Paolo II. La telefonata arrivò poi alla sala stampa vaticana. «Erano circa le 20, o forse più tardi, quando ricevetti una telefonata da padre Romeo Panciroli, allora direttore della sala stampa vaticana, il quale mi annunciò che era giunta, appunto alla sala stampa, una telefonata anonima che annunciava che Emanuela Orlandi era stata rapita. Padre Panciroli mi disse che mi avrebbe inviato immediatamente via fax un testo con il contenuto della telefonata». Quel testo, secondo Viganò, «deve essere nell’archivio della segreteria di Stato e non so se fu mai dato agli inquirenti italiani». Poi Viganò cita alcuni ecclesiastici che potrebbero essere informati su una presunta trattativa riservata che il cardinale Casaroli avrebbe condotto con coloro che sostenevano di avere nelle loro mani la giovane Emanuela. «Su questo punto potrebbe sapere qualcosa monsignor Pier Luigi Celata, che era il suo segretario di fiducia», rivela Viganò che aveva già rivelato questi fatti alla famiglia Orlandi già nella primavera del 2018, fa sapere Laura Sgrò, l’avvocato di Pietro Orlandi. Quei racconti furono riferiti alle autorità vaticane, garantendo a Viganò, come aveva chiesto, l’anonimato. «Chiesi di fare delle verifiche sulle persone presenti in Segreteria di Stato quella sera del 22 giugno 1983 ma quella richiesta non ebbe alcun seguito». Per l’avvocato «sarebbe stato, infatti, chiaro, accertata l’esistenza di quella chiamata alla sala stampa vaticana a pochissime ore dalla sparizione di Emanuela, che l’interlocutore dei rapitori non erano gli Orlandi ma la Santa Sede. Non mi risulta sia stata fatta la verifica richiesta. Confido nella coscienza - conclude Sgrò - di chi era presente in quelle ore». Le circostanze sul caso di Emanuela Orlandi, rivelate oggi dall’ex Nunzio Carlo Maria Viganò, erano già state riferite alla famiglia della giovane scomparsa. Lo fa sapere Laura Sgrò, l’avvocato di Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela. E’ stato chiesto dall’avvocato alle autorità vaticane, già dal 2018, di sentire le persone presenti la sera in cui arrivò la prima telefonata in Vaticano. Ma finora non ci sono state risposte. «Monsignor Viganò - dice Laura Sgrò - mi aveva riferito, quale legale della famiglia Orlandi e nell’ambito delle indagini difensive che stavo svolgendo, le stesse cose oggi pubblicate dal dottor Valli nella primavera del 2018, chiedendomi, come fanno in molti, di mantenere l’anonimato. Oggi Sua Eccellenza Viganò mi ha autorizzato a riferire di quell’incontro. Condivisi poco tempo dopo le informazioni che mi diede, ma non la fonte, in una riunione con le autorità vaticane, chiedendo loro di fare delle verifiche sulle persone presenti in Segreteria di Stato quella sera del 22 giugno 1983. Quella mia richiesta verbale non ebbe alcun seguito, nonostante avessi rappresentato che verificare l’esistenza di quella telefonata avrebbe indirizzato le indagini». Per l’avvocato della famiglia Orlandi «sarebbe stato, infatti, chiaro, accertata l’esistenza di quella chiamata alla sala stampa vaticana a pochissime ore dalla sparizione di Emanuela, che l’interlocutore dei rapitori non erano gli Orlandi ma la Santa Sede. Non mi risulta sia stata fatta la verifica richiesta. Confido nella coscienza - conclude Sgrò - di chi era presente in quelle ore».
Orlandi, Viganò: "Il testo della prima telefonata sulla scomparsa è negli archivi". L'ex nunzio negli Stati Uniti cita documenti del Vaticano e indica alcuni ecclesiastici che potrebbero essere informati. Il fratello di Emanuela: "Ora la fonte ha un nome e un cognome". La Repubblica l'1 novembre 2019. L'ex Nunzio in Usa, monsignor Carlo Maria Viganò, parla per la prima volta del caso di Emanuela Orlandi. In una intervista al sito di Aldo Maria Valli, ex vaticanista Rai, oggi su posizioni critiche nei confronti del pontefice, mons. Viganò parla di una prima telefonata giunta in Vaticano dopo la sparizione della giovane. "Il testo di quella telefonata", dice Viganò, "deve essere nell'archivio della segreteria di Stato e non so se fu mai dato agli inquirenti italiani. Mi meraviglierei che non fosse stato fatto". Viganò, salito già alle cronache per la sua contrapposizione al pontificato di Bergoglio, cita poi alcuni ecclesiastici che potrebbero essere informati sulla presunta trattativa riservata che il cardinale Agostino Casaroli avrebbe condotto con coloro che sostenevano, nelle telefonate al Vaticano, di avere nelle loro mani la giovane Emanuela. "Su questo punto potrebbe sapere qualcosa monsignor Pier Luigi Celata, che era il suo segretario di fiducia", rivela Viganò. Nel suo articolo Valli osserva: "Che cosa, davvero, può finalmente condurre a Emanuela? Le piste percorse sono innumerevoli, ma forse non si è prestata ancora la dovuta attenzione, in modo analitico, ai primissimi momenti successivi alla scomparsa. Parliamo della sera di quel 22 giugno del 1983 e ci riferiamo, in particolare, a quanto avvenne in Vaticano, negli uffici della segreteria di Stato, centro nevralgico della Santa Sede". Viganò, tra le altre cose, racconta a Valli: "Ricevetti anch’io alcune telefonate da quello che i media chiamarono “l’americano”. Le telefonate erano in italiano, ma dalla pronuncia di quell’uomo capii che non si trattava di un americano; piuttosto di qualcuno che aveva inflessioni proprie dei maltesi. L’interlocutore si limitava a chiedere di voler parlare unicamente con il cardinale Casaroli e fu quello il motivo per cui a un certo punto fu creata una linea riservata. Da parte nostra fu fatto tutto il possibile per far sì che questo interlocutore potesse parlare con Casaroli". Pietro Orlandi, fratello della ragazza scomparsa che da sempre si batte per scoprire cosa accadde a Emanuela ha commentato: "Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome".
Emanuela Orlandi e quella telefonata in Vaticano due ore dopo il rapimento. La rivelazione di monsignor Viganò. Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. La famiglia di Emanuela Orlandi presenterà un'istanza formale all'autorità giudiziaria vaticana affinché sia fatta una verifica sulla telefonata arrivata alla Sala stampa Vaticana la sera della scomparsa della quindicenne cittadina vaticana e svelata da monsignor Carlo Maria Viganò in un’intervista al vaticanista Aldo Maria Valli. "Quella telefonata sarebbe la prima telefonata in assoluto sul rapimento. E sarebbe stata fatta due ore dopo la scomparsa, alle 21 precisamente, mentre Emanuela è stata vista per l’ultima volta alle 19" del 22 giugno del 1983. "Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome", scrive su Facebook Pietro. Orlandi, fratello di Emanuela che rilanciando l'intervista di Viganò che all'epoca lavorava nella segreteria di Stato Vaticana. "Quella sera mi trovavo in ufficio in segreteria di Stato alla terza loggia insieme con monsignor Sandri, mentre il sostituto era assente", racconta. "Erano circa le 20, o forse più tardi, quando ricevetti una telefonata da padre Romeo Panciroli, allora direttore della sala stampa vaticana, il quale mi annunciò che era giunta, appunto alla sala stampa, una telefonata anonima che annunciava che Emanuela Orlandi era stata rapita - continua Viganò - Padre Panciroli mi disse che mi avrebbe inviato immediatamente via fax un testo con il contenuto della telefonata". In quel testo, spiega, "si affermava che Emanuela Orlandi era detenuta da loro e che la sua liberazione era collegata a una richiesta, il cui adempimento non necessariamente dipendeva dalla volontà della Santa Sede. Si trattava di un messaggio formulato in termini precisi e ben costruito. Esso è indubbiamente reperibile nell'archivio della segreteria di Stato". L'arcivescovo Achille Silvestrini (futuro cardinale, morto il 29 agosto scorso, ndr) "esse il testo e commentò che secondo lui si trattava dello scherzo di pessimo gusto di qualche squilibrato". "Mi venne in mente che il contenuto della telefonata anonima presentava una strana coincidenza con un'altra vicenda. Poco tempo prima era giunta in segreteria di Stato una lettera, firmata da un sedicente rifugiato di un paese dell'Est Europa, il quale diceva di trovarsi in un campo profughi in Friuli e chiedeva asilo politico in Vaticano. Alla lettera allegava una sua fotografia formato tessera e un certificato della sua iscrizione al medesimo istituto di musica sacra frequentato da Emanuela Orlandi". Continua: "Non mi fu dato sapere quali iniziative abbia preso nell'immediato monsignor Silvestrini, ma non ho dubbi che ne informò il sostituto e il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli e anche papa Giovanni Paolo II", racconta ancora mons. Viganò. Le reazioni furono di viva "preoccupazione e di grande impegno per fare il possibile per salvare Emanuela".
Da Radio Cusano Campus il 12 luglio 2019. Il magistrato Giancarlo Capaldo, noto per i processi sulla banda della Magliana, sul terrorismo nero e sui crimini contro l’umanità delle dittature sudamericane, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sui legami tra politica e terrorismo nero. “Bisogna porsi da due prospettive –ha affermato Capaldo-. Dalla prospettiva dell’attività mentre veniva svolta, si coglievano strani legami tra alcuni personaggi della criminalità e alcuni personaggi politici. Però questi legami venivano, non si sa se intenzionalmente o meno, sottovalutati dalla polizia giudiziaria. Quindi si procedeva per camere stagne. Nella prospettiva più storica, sembra molto evidente come il terrorismo nero sia stato strumentalizzato da alcune parti della politica e come vi siano collegamenti tra terrorismo nero e criminalità organizzata”. Riguardo la Banda della Magliana e il caso di Emanuela Orlandi. “Alcuni della Banda della Magliana sanno cosa è accaduto –ha dichiarato Capaldo-. Nel momento in cui è avvenuto il caso della Orlandi, nel 1983, la Banda della Magliana era molto forte, sostanzialmente la struttura criminale maggiore che esisteva a Roma. Le dichiarazioni di Sabrina Minardi però non hanno portato alla luce le responsabilità della banda nella vicenda Orlandi, bensì le responsabilità di De Pedis. Questo significa che la banda della Magliana come tale agiva in modo molto disordinato e si è autodistrutta da sola. Ritengo che le dichiarazioni di Minardi che chiamano in causa la Banda della Magliana per il caso Orlandi abbiano un cuore di verità, quindi che vi sia stata una partecipazione di De Pedis e di alcuni altri personaggi indicati dalla Minardi nella vicenda Orlandi. Questa è la mia valutazione che però non è stata seguita ufficialmente dalla Procura di Roma che ha archiviato il caso. L’archiviazione è sintomo che non c’erano sufficienti elementi per andare avanti, non è sintomo di innocenza”. Sulla mafia a Roma. “A Roma esistono certamente organizzazioni mafiose, ogni organizzazione mafiosa ha una sua ambasciata nella capitale. Esistono organizzazioni riferibili a Cosa Nostra, Ndrangheta, Camorra e altre organizzazioni mafiose estere. E’ una realtà sottovalutata. Sotto il profilo dell’organizzazione criminale romana, oggi con più difficoltà si può rinvenire un’organizzazione con caratteristiche mafiose come ai tempi della banda della Magliana. Oggi le organizzazioni criminali, pur essendo molto pericolose, mi pare non riescono per autorevolezza ad imporsi come sistema. Il sistema criminale attualmente a Roma è di carattere mafioso, ma è molto più ampio culturalmente rispetto alla banda della Magliana. La banda della Magliana non solo era un sistema, ma aveva un linguaggio proprio. Il linguaggio usato dalla banda, che nasceva da Trastevere e Testaccio, era particolarissimo, utilizzava un pensiero di quartiere che faceva molta presa. Quando ho interrogato molti di questi esponenti della banda, il linguaggio aveva un’efficacia espressiva inusitata. I libri e il film sulla Banda della Magliana riportano quel tipo di linguaggio, però dal mio punto di vista la Banda della Magliana di eroico non ha nulla. Sono persone spesso devastate sul piano umano, devastate dalla vita. Pensare ad un’elaborazione culturale avente come matrice la Banda della Magliana è un grave errore”. Sull’operazione Condor. “Questa storia riguarda ben 7 Paesi sudamericane, coinvolge 23 vittime italiane, ma in realtà abbiamo toccato migliaia di vittime. E’ un processo dalle fortissime emozioni umane e personali, soprattutto è un processo che ha consentito di ricostruire alcune vicende storiche. L’importanza di questo processo non è solo aver riconosciuto vicende e responsabilità. Il processo italiano ha avuto un’importanza fondamentale anche per il Sud America, perché grazie al processo italiano la magistratura sudamericana ha rivisto la propria storia”.
Da La Repubblica il 2 luglio 2019. L'Ufficio del Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano ha disposto l'apertura di due tombe nel cimitero Teutonico nell'ambito della nuova inchiesta aperta sul caso di Emanuela Orlandi, la ragazza di 15 anni figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia scomparsa misteriosamente a Roma il 22 giugno 1983. "La decisione - spiega Alessandro Gisotti, direttore della sala stampa vaticana - si inserisce nell'ambito di uno dei fascicoli aperti a seguito di una denuncia della famiglia di Emanuela Orlandi che, come noto, nei mesi scorsi ha, tra l'altro, segnalato il possibile occultamento del suo cadavere nel piccolo cimitero ubicato all'interno del territorio dello Stato Vaticano". Era stata la legale della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, l'estate scorsa, ad aver ricevuto una lettera con allegata la foto della tomba in oggetto, con un messaggio anonimo: “Cercate dove indica l'angelo”. Il riferimento è alla statua di un angelo che regge in mano un foglio riportante la scritta “Requiescat in pace”, “riposa in pace”. Secondo alcune ricostruzioni da anni diverse persone depongono dei fiori presso quella stessa tomba, perché si dice che vi sia seppellita Emanuela. Le operazioni di apertura delle due tombe si svolgeranno il prossimo 11 luglio, alla presenza dei legali delle parti, oltre che dei familiari di Emanuela Orlandi e dei parenti delle persone seppellite nelle tombe interessate. Il portavoce vaticano ha spiegato che ci sarà l'ausilio tecnico del professor Giovanni Arcudi, del Comandante della Gendarmeria Vaticana, Domenico Giani, e di personale della Gendarmeria. "Il provvedimento giudiziario prevede una complessa organizzazione di uomini e mezzi", spiega Gisotti, in quanto "sono coinvolti operai della Fabbrica di San Pietro e personale del Cos, il Centro Operativo di Sicurezza della Gendarmeria Vaticana, per le operazioni di demolizione e ripristino delle lastre lapidee e per la documentazione delle operazioni". "Vorrei veramente ringraziare il Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, sicuramente da parte sua c'è stato tanto coraggio nell'apertura di questa indagine e nella decisione di aprire le tombe. E anche il comandante Giani vorrei ringraziare, ho capito che c'è la volontà di fare chiarezza", ha detto all'Ansa il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. "Siamo molto contenti di questa notizia che apprendo da lei", ha commentato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi raggiunta telefonicamente dall'AGI riguardo alla decisione del Vaticano. "Sono appena uscita da una udienza e non sapevo nulla", ha continuato Sgrò che aggiunge: "Attendo di avere un colloquio immediato con le autorità vaticane per apprendere altre informazioni. Un sincero e sentito ringraziamento per il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin per questo atto coraggioso", ha poi concluso.
Gian Guido Vecchi per il “Corriere della sera” il 12 luglio 2019. L'ultima falsa pista è l' immagine di due sepolcri vuoti, premessa dell' ennesimo «giallo» che si aggiunge a trentasei anni di depistaggi, inquinatori di pozzi e mitomani intorno al caso di Emanuela Orlandi, scomparsa a quindici anni il 22 giugno 1983. Nel cimitero teutonico del Vaticano sono iniziate alle 8.15 di ieri le operazioni per aprire la «Tomba dell'Angelo» della principessa Sophie von Hohenlohe e per sicurezza, accanto, la tomba della principessa Carlotta Federica di Meclemburgo. Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, aveva raccontato di aver ricevuto un messaggio anonimo, «cercate dove indica l'angelo», parlato di «segnalazioni interne al Vaticano dal 2017», e chiesto alla Santa Sede di aprire la tomba. Il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, aveva dato via libera all' istanza del legale della famiglia, l' avvocatessa Laura Sgrò. Una preghiera, silenzio teso scandito da frese e punteruoli, quindici uomini al lavoro e tre ore più tardi la sorpresa: le tombe sono vuote. «L' accurata ispezione» sulla prima tomba «ha riportato alla luce un ampio vano sotterraneo di circa 4 metri per 3,70, completamente vuoto» e anche nella seconda «non sono stati rinvenuti resti umani», fa sapere il portavoce vaticano Alessandro Gisotti. «I familiari delle due principesse sono stati informati dell' esito delle ricerche», spiega. «È incredibile», mormora il fratello di Emanuela quando esce dal cimitero. Un misto di «sollievo» e stupore, dice: «Non c' era nulla, nulla, neanche le principesse. Ma lo spazio interno al sepolcro, in cemento, certo non era di duecento anni fa. Si dovrà andare avanti, finché non troverò Emanuela è mio dovere cercare la verità». Pietro Orlandi dice di sperare «in una collaborazione onesta del Vaticano che, facendo aprire le tombe, aveva ammesso la possibilità di una responsabilità interna». I magistrati vaticani, presenti ieri, non hanno potuto vedere la lettera di cui ha parlato Orlandi. In Vaticano, per la verità, si avvertiva dall' inizio grande scetticismo: ma respingere la richiesta della famiglia avrebbe scatenato accuse di voler «coprire». Meglio far controllare, come per le ossa ritrovate a ottobre sotto Villa Giorgina, sede della nunziatura apostolica in Italia: altre settimane di «giallo», salvo poi verificare che i resti erano di un secolo fa. Resta da stabilire perché i sepolcri, di metà Ottocento, siano vuoti. In passato, si dice, ci sono state traslazioni. La famiglia Orlandi chiede documenti e spiegazioni. I responsabili del cimitero non ne sapevano nulla. La Santa Sede, comunque, fa sapere: «Per un ulteriore approfondimento, sono in corso verifiche documentali sugli interventi strutturali avvenuti nell' area del Campo Santo teutonico in due fasi, a fine Ottocento e tra gli anni Sessanta e Settanta».
Fabrizio Caccia per il “Corriere della sera” il 12 luglio 2019. «Che storia pazzesca, devo chiamare subito mio figlio Hubertus, mi voglio informare, ora sono dal parrucchiere, davvero non si trova più la principessa Sofia von Hohenlohe, le sue ossa sono sparite dal cimitero teutonico di Roma? E pure quelle della principessa Carlotta? Ma no, incredibile...». Ira von Fürstenberg è all'estero, sta promuovendo il suo libro, appena uscito per HarperCollins, «Ira: the Life and Times of a Princess», vita e avventure di una principessa. Figlia del principe Tassilo Fürstenberg e di Clara Agnelli, sorella di Gianni, la celebre attrice, fotografata in carriera da Helmut Newton e Cecil Beaton, sposò in prime nozze, nel 1955, lo spagnolo Alfonso di Hohenlohe-Langenburg, da cui ebbe, appunto, Hubertus, oggi 60 anni, sciatore olimpico in rappresentanza del Messico, cantante e fotografo. «Voglio chiedere a Hubertus se siamo parenti della principessa Sofia von Hohenlohe, a lume di naso io credo di sì, anche se discendiamo da un altro ramo», continua Ira al telefono. Il conte Hubertus von Hohenlohe si è appena sposato a Vaduz con la storica compagna di vita, la bolognese Simona Gandolfi, cugina di Alberto Tomba e figlia dell' ex presidente della Virtus basket. «Sì, sicuramente sono parenti alla lontana - dice l' avvocato Fabrizio Nucera Giampaolo, presidente di "Croce Reale", grande esperto di dinastie e famiglie reali in Europa -. L' ultimo discendente diretto della principessa Sofia si chiama però Massimiliano, oggi ha 47 anni e vive in Germania. Cercherò di contattarlo per avvisarlo degli ultimi eventi, anche se la notizia ormai ha fatto il giro del mondo». «Sono stata in passato a visitare due-tre volte il cimitero teutonico in Vaticano - racconta Ira von Fürstenberg -. Ma non mi sono mai fermata davanti alla tomba dell' Angelo, la tomba di Sofia. Io andavo a trovare la principessa Windisch, a lei portavo sempre un fiore...». Ma dove saranno le due principesse sparite? «Carlotta Federica di Meclemburgo - dice l' avvocato Nucera - non ha più discendenti diretti, l' ultimo morì suicida nel 1918. Se le tombe son vuote, esisterà in Vaticano qualche documento privato in cui si chiarisce il mistero. Di sicuro, i poveri resti sia di Sofia che di Carlotta, secondo gli atti ufficiali che abbiamo potuto consultare, non sono mai stati traslati dal Campo Santo teutonico. Perciò, magari sono state spostate da qualche altra parte durante dei lavori di ristrutturazione, ma le ossa devono essere ancora lì».
Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 12 luglio 2019. Un altro clamoroso buco nell'acqua. Quando ieri mattina gli operai hanno sollevato la pesante pietra marmorea dal sepolcro sormontato da un angelo e, successivamente, anche la massiccia copertura della tomba accanto, mostrando ai presenti che all'interno non vi erano i resti supposti della povera Emanuela Orlandi, alle autorità vaticane è parso subito chiaro che qualcuno si era divertito a prendere di nuovo in giro la famiglia della povera ragazzina scomparsa 36 anni fa. L'autorizzazione ad aprire i due sepolcri era stata disposta dal Tribunale Vaticano a seguito di un esposto presentato dalla famiglia Orlandi. Il fratello Pietro aveva ricevuto una lettera anonima da lui ritenuta assolutamente attendibile, secondo la quale dentro la tomba dell'angelo, nell'antichissimo cimitero teutonico, c'era la possibilità di ritrovare finalmente i resti di Emanuela. La Segreteria di Stato aveva accolto l'istanza della famiglia con una certa cautela anche perché ai magistrati vaticani, in tutti questi mesi, non è mai stata data la possibilità di prendere visione della lettera e dell'immagine acclusa, al fine di svolgere le indagini di prassi per verificare l'attendibilità della fonte. Pietro Orlandi si è sempre rifiutato categoricamente di consegnare sia ai magistrati che in Segreteria di Stato la lettera. Ne ha però parlato a lungo in diverse interviste rilasciate in questi mesi, sottolineandone la consistenza. Sia lui che l'avvocato Laura Sgrò assicuravano che la fonte era indubbiamente degna di fede, così come le indicazioni circostanziate che forniva sulla possibile tumulazione di Emanuela all'interno del piccolo Stato pontificio. Quando il cardinale Pietro Parolin ha dato il via libera all'apertura delle tombe, superando molte perplessità per l'incomprensibile resistenza della famiglia Orlandi a non mostrare a nessuno le missive, Pietro ha commentato: «Finalmente un segnale concreto dal Vaticano. Sicuramente è un atto molto forte, coraggioso del Segretario di Stato che ringrazio pubblicamente perché ci vuole coraggio a mettersi finalmente in discussione e pensare che davvero Emanuela possa essere sepolta in casa loro». Adesso suscita sconcerto e persino un certo dispiacere nel vedere che per l'ennesima volta il dolore della signora Maria Orlandi - straziante e terribile - si è rinnovato e amplificato davanti a notizie palesemente false che potevano essere verificate prima. Esattamente come quando erano stati ritrovati dei resti umani nella sede della nunziatura, senza tenere conto che Villa Giorgina è stata edificata su un cimitero di epoca romana. Quanto al fatto che non siano stati ritrovati nelle tombe i resti delle due principesse tedesche (sepolte oltre due secoli fa) non desta alcuna sorpresa. Sembra che siano state rimosse almeno un secolo fa, cosa che verrà resa nota attraverso i documenti di archivio conservati dalla Confraternita tedesca che gestisce da oltre almeno sei secoli il piccolo cimitero teutonico, un camposanto quasi fiabesco cinto da alte mura, a ridosso della basilica di San Pietro e dell'Aula Nervi.
Emanuela Orlandi, nella tomba del mistero: la stanza scoperta sotto alla lapide in Vaticano. Repubblica Tv l'11 luglio 2019. Un nuovo misterioso capitolo nella misteriosa storia di Emanuela Orlandi. Nel Cimitero teutonico in Vaticano sono state aperte le due tombe attorno alle quali aleggiava il sospetto che potessero essere collegate alla sparizione della giovane. L'esito è stato sorprendente: sotto alle lapidi non è stato trovato alcun corpo, nemmeno quello delle due nobili delle quali lì era indicata la sepoltura. l'accurata Nella tomba della principessa Sophie von Hohenlohe c'era un ampio vano sotterraneo di circa 4 metri per 3,70, completamente vuoto. E vuota era anche la tomba-sarcofago della principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo. "I familiari delle due principesse sono stati informati dell'esito delle ricerche", ha reso noto la Santa Sede. Alle ispezioni ha assistito Pietro Orlandi, fratello di Emanuela.
Emanuela Orlandi, forse trovati i resti delle principesse al Cimitero Teutonico in Vaticano. Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Gian Guido Vecchi su Corriere.it. Se l’indicazione della «Tomba dell’angelo» si è dimostrata l’ennesima falsa pista sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi, anche il presunto «giallo» dei sepolcri vuoti delle due principesse nel Cimitero Teutonico del Vaticano potrebbe avere presto una spiegazione, la più prevedibile: la traslazione dei resti in un ossario vicino. Gli accertamenti «di carattere documentale e logistico» già annunciati dalla Santa Sede hanno portato a verificare che «tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati effettuati lavori di ampliamento, come risulta agli atti del pontificio Collegio Teutonico», fa sapere il portavoce vaticano Alessandro Gisotti: «In quel periodo i lavori hanno interessato l’intera aerea cimiteriale e l’edificio del Collegio Teutonico». Così, per verificare la possibilità che «le spoglie delle due Principesse siano state traslate in altro luogo idoneo del Campo Santo», gli operai specializzati del Vaticano - i famosi «sanpietrini» - hanno controllato negli «ambienti attigui alle tombe» e trovato due ossari collocati sotto la pavimentazione di un’aerea all’interno del Pontificio Collegio Teutonico, chiusi da una botola». Gli ossari sono stati subito sigillati «per il successivo esame e repertazione dei materiali ossei ivi giacenti, sempre nell’ambito e con le modalità richieste dalle attività istruttorie». Si tratta insomma di stabilire, come a questo punto appare probabile, se i resti delle principesse siano stati traslati nell’ossario. Pietro Orlandi, il fratello della ragazza scomparsa a quindici anni il 22 giugno 1983, aveva raccontato di aver ricevuto la scorsa estate un messaggio anonimo, «cercate dove indica l’angelo», parlato di «segnalazioni interne al Vaticano dal 2017», e chiesto alla Santa Sede di aprire la tomba. L’altro giorno i sepolcri sono stati aperti ed erano vuoti: sia quello della principessa Sophie von Hohenlohe sia, accanto, la tomba della principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo. Trovati gli ossari, ora la magistratura vaticana - ovvero «l’ufficio del Promotore di Giustizia» - ha disposto che l’esame dei reperti «avvenga alla presenza dei periti dell’Ufficio e di quelli nominati dalla famiglia Orlandi, nonché del personale specializzato del Corpo della Gendarmeria e delle stesse maestranze già impiegate»: si procederà sabato 20 luglio alle 9.
Caso Orlandi, trovate ossa in una botola nel Cimitero Teutonico: saranno esaminate. L'apertura di una delle due tombe (risultate vuote) nel Cimitero Teutonico lo scorso 11 luglio. Dopo l'apertura delle tombe delle due principesse, risultate vuote. Il portavoce vaticano: "Individuati due ossari sotto il pavimento del Pontificio Collegio Teutonico, chiusi da una botola". Il legale della famiglia di Emanuela: "Bene che continuino le ricerche". La Repubblica il 13 luglio 2019. Due ossari sono stati ritrovati nel Cimitero Teutonico del Vaticano durante scavi nelle due tombe aperte per cercarvi i resti di Emanuela Orlandi. Lo rende noto il direttore "ad interim" della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti. Dopo l'apertura lo scorso 11 aprile delle tombe delle due principesse dove si diceva che potesse essere sepolta Emanuela Orlandi, risultate vuote, si sono svolti, come era stato annunciato, "accertamenti sia di carattere documentale che di carattere logistico, dai quali è emerso che, come risulta agli atti del Pontificio Collegio Teutonico, tra gli anni '60, '70 del secolo scorso sono stati effettuati lavori di ampliamento del Collegio stesso. In quel periodo i lavori hanno interessato l'intera aerea cimiteriale e l'edificio del Collegio Teutonico". Quindi, "è pertanto possibile che le spoglie delle due principesse siano state traslate in altro luogo idoneo del Campo Santo. Sono state quindi svolte con le maestranze competenti le conseguenti verifiche per constatare la situazione degli ambienti attigui alle tombe. Tali ispezioni hanno portato alla individuazione di due ossari collocati sotto la pavimentazione di un'area all'interno del Pontificio Collegio Teutonico, chiusi da una botola. Tali ossari sono stati immediatamente sigillati per il successivo esame e repertazione dei materiali ossei ivi giacenti, sempre nell'ambito e con le modalità richieste dalle attività istruttorie". L'Ufficio del Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, nelle persone del Promotore Gian Piero Milano e del suo Aggiunto Alessandro Diddi, ha dunque disposto, con apposito provvedimento, che tali operazioni avvengano alla presenza dei periti dell'Ufficio e di quelli nominati dalla Famiglia Orlandi, nonché del personale specializzato del Corpo della Gendarmeria e delle stesse maestranze già impiegate. E si procederà sabato 20 luglio, alle 9 di mattina. "Non sappiamo cosa faranno esattamente sabato prossimo ma che ci sia un approfondimento in questo momento fa piacere. Nostro interesse è collaborare attivamente con la magistratura vaticana per capire come mai quelle due tombe fossero vuote. Se lo capiamo insieme è meglio", così l'avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgrò.
Caso Orlandi, ora spuntano due ossari da esaminare. Il Vaticano ha rinvenuto due ossari che potrebbero contenere i resti delle due principesse, che sarebbero dovute essere sepolte nel cimitero teutonico. Continuano le ricerche sul caso di Emanuela Orlandi. Giuseppe Aloisi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Il Vaticano ha individuato due ossari, che verranno analizzati anche in relazione al caso di Emanuele Orlandi. È già nota la data in cui il materiale verrà sottoposto agli esami: il prossimo 20 di luglio. Non è affatto detto, però, che c'entrino qualcosa con la ragazza scomparsa ormai quasi quarant'anni fa. Stiamo assistendo a un'accelerazione sulla possibile risoluzione del mistero che tiene banco dal giugno del 1983: la Santa Sede, come abbiamo raccontato ad aprile, ha aperto un'inchiesta interna, ma qualche giorno fa sono state anche aperte due tombe nel Cimitero Teutonico. Ricorderete di come la famiglia di Emanuela Orlandi avesse ricevuto una missiva che suggeriva di "cercare dove guarda l'angelo". Si era supposto che questa operazione, quella di aprire i sacrari posizionati nella direzione indicata dalla statua raffigurante la creatura celeste, potesse essere utile all'individuazione di qualcosa, magari dei resti, ma l'esito, che è stato un po' inaspettato, ha addirittura reso più fitto l'enigma, almeno sul piano narrativo: le due strutture funerarie sono risultate vuote. Poi ieri, come si legge sull'Ansa, dalla Santa Sede hanno fatto di sapere aver dato vita ad"accertamenti sia di carattere documentale che di carattere logistico". Gli ossari, quindi, sono spuntati per via di questi approfondimenti. Ma per ora non si conoscono troppi dettagli. Si tratta solo di attendere la prossima settimana. Il sospetto è che possano contenere le ossa delle due principesse. Le stesse ossa che sarebbero dovute essere all'interno dei tumuli. Alessandro Gisotti, che è il direttore ad interim della Sala Stampa, ha comunicato quanto segue, com'è stato riportato anche dalla Lapresse: "Tali ossari sono stati immediatamente sigillati per il successivo esame e repertazione dei materiali ossei ivi giacenti, sempre nell'ambito e con le modalità richieste dalle attività istruttorie". L'avvocato dei parenti della Orlandi, dal canto suo, ha manifestato soddisfazione relativa al fatto "che le ricerce proseguano". Questa seconda apertura potrebbe contribuire a chiarire il posizionamento dei resti delle principesse Carlotta Federica di Mecklemburgo e Sophie von Hohenlohe. Bisognerà vedere, poi, se esiste o no un collegamento con la vicenda di Emanuela Orlandi.
Caso Manuela Orlandi, nel Cimitero Teutonico di Roma «trovate migliaia di ossa». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Ester Palma su Corriere.it. Se davvero Emanuela Orlandi è stata sepolta nel Cimitero Teutonico di via della Sagrestia, all’interno del Vaticano e a poca distanza da San Pietro, ci vorrà molto più tempo del previsto per scoprirlo: «Non ci aspettavamo di trovare così tante ossa. Oggi ne sono state ritrovate migliaia, dunque si ipotizza la presenza di decine di persone. Sono state ritrovate ossa piccole e grandi e soprattutto ossa craniche che sono riconducibili a soggetti adulti e non adulti». Lo ha detto il genetista della famiglia Orlandi, Giorgio Portera, all’uscita dal cimitero Teutonico. Come spesso accade durante le ristrutturazioni dei cimiteri, le ossa delle vecchie sepolture finiscono negli ossari comuni, le cosiddette terresante . E i due ritrovati nel camposanto della comunità tedesca sorto oltre sei secoli fa nell’area dell’antico Circo di Nerone, dove migliaia di cristiani subirono il martirio, probabilmente non fanno eccezione.
La prima ricognizione sui resti si sono concluse intorno alle 15 di sabato, all’interno del cimitero. «Secondo quanto disposto dall’Ufficio del Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, le operazioni peritali proseguiranno sabato 27 luglio, alle 9, con un’approfondita analisi morfologica dei reperti contenuti negli ossari», spiega il direttore «ad interim» della Sala Stampa della Santa Sede Alessandro Gisotti: «Il professor Giovanni Arcudi e il suo staff, alla presenza del perito di fiducia nominato dalla Famiglia Orlandi, hanno portato alla luce i resti presenti negli ossari, che sono stati sottoposti ad una prima valutazione». «Aspettiamo e vediamo cosa succede, finché non abbiamo i risultati delle ossa...», ha commentato Federica Orlandi, sorella di Emanuela, molto provata dalla mattinata al Cimitero. E ha aggiunto: «Sono esperienze molto forti, perché qui potrebbero esserci le ossa di mia sorella. Però non ci pensiamo fino a che non abbiamo i risultati. E continueremo a cercare la verità». Aggiunge l’avvocato della famiglia, Laura Sgrò: «Il lavoro per capire la datazione di queste ossa proseguirà sabato prossimo. Richiederemo la documentazione perché è imprescindibile capire le attività che si sono svolte nel cimitero Teutonico e come queste ossa sono finite lì. Le due botole aperte la settimana scorsa sono profonde un metro e cinque. Uno spazio pieno di ossa, di cui sono stati riempiti i sacchi. I lavori continueranno la settimana prossima per capire una prima datazione di queste ossa». Fra le ossa ritrovate dovrebbero con ogni probabilità esserci quelle delle due principesse tedesche dell’Ottocento le cui tombe sono state ritrovate vuote e in cui secondo la segnalazione anonima ricevuta dagli Orlandi sarebbero stati nascosti i resti di Emanuela. Le tombe appartenevano a Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburg, ex moglie, nonché cugina, del principe ereditario di Danimarca Cristiano Federico. I due si sposarono nel giugno 1806, ebbero un figlio, Federico, poi a sua volte divenuto re. Ma il matrimonio durò solo 4 anni, il divorzio fu chiesto dal marito dopo aver scoperto la relazione di lei con un musicista. La principessa, dopo vari peregrinaggi per l’Europa finì a Roma, dove si convertì al cattolicesimo e morì nel 1840, a 56 anni.
Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 21 luglio 2019. Ci sono voluti ben 24 sacchi per contenere tutti quei resti. Una montagna di ossa che verrà analizzata, datata, misurata. Crani, tibie, omeri, fino agli ossicini più piccoli, recuperati con una certa fatica all'interno dei due ossari dissigillati ieri mattina nel piccolo cimitero teutonico. Un'operazione si è subito rivelata più laboriosa del previsto e che, proprio per questo è durata fino alle tre del pomeriggio, mettendo a dura prova il gruppo di persone che assistevano alle varie fasi.
I TESTIMONI. C'erano alcuni membri della famiglia di Emanuela Orlandi, il loro avvocato, il perito di parte chiamato per una prima analisi sui resti, il professor Giovanni Arcudi e il suo staff, i sampietrini gli operai addetti all'apertura degli ossari alcuni monsignori, le guardie svizzere e i responsabili dell'antichissimo cimitero che, dall'epoca dei Lanzichenecchi, ospita le sepolture dei tedeschi di alto lignaggio, cavalieri, principi, conti, principesse. Completavano il gruppo i magistrati vaticani che, la scorsa settimana, avevano disposto l'apertura delle tombe delle due principesse tedesche - Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburgo - dentro le quali una indicazione anonima arrivata a Pietro Orlandi indicava la presenza certa dei resti di Emanuela, l'adolescente scomparsa nel nulla nel 1983. Trovando i sepolcri vuoti i magistrati hanno deciso di procedere ad ispezionare i due ossari vicini, per fugare ogni dubbio e aiutare gli Orlandi a trovare risposte ad uno dei misteri più intricati mai accaduti in epoca moderna in Vaticano.
LE OPERAZIONI. Il caldo implacabile non ha di certo aiutato gli addetti. Cinque di loro, con caschi, mascherine e guanti, si sono dovuti calare dentro un loculo profondo diversi metri e procedere alla raccolta, senza trascurare nemmeno un frammento o un piccolo ossicino. Tutto è stato numerato e inserito nei sacchi che, man mano si riempivano, venivano portati in superficie. I resti per come sono stati osservati velocemente - ad una prima perizia superficiale - non sembrano quelli di uno scheletro di epoca recente. Ma nessuno, naturalmente, vuole sbilanciarsi con giudizi affrettati, preferendo proseguire in modo scientifico e con cautela per fugare ogni dubbio. Così, la prossima settimana, sabato 27 luglio sempre alle ore 9, le analisi proseguiranno «per un'approfondita analisi morfologica dei reperti». Difficile dire a quante persone quella montagna di ossa siano appartenute, forse qualche centinaio, chissà. Tenendo presente che in quell'area sotterranea si è all'interno del perimetro della necropoli romana nessuno si è stupito. Insomma, l'ennesimo rebus da risolvere.
LE DICHIARAZIONI. «La settimana scorsa sono state aperte due botole, poi sigillate, e riaperte» ha detto il legale della famiglia Orlandi, Laura Sgro'. «Sono profonde. Uno spazio pieno di ossa, di cui sono stati riempiti i sacchi. I lavori continueranno la settimana prossima per capire una prima datazione». Le autorità della Santa Sede ripetono come un mantra che non si tratta di un giallo nemmeno l'assenza dei corpi delle due principesse, vissute due secoli fa, visto che le loro tombe subirono una ristrutturazione negli anni 60 e i loro resti probabilmente furono traslati altrove. In ogni caso la perizia sui reperti dei due ossari dovrà rispondere a domande ancora aperte. «Con questa nuova attività peritale - dopo le operazioni dell'11 luglio scorso - si evidenzia la disponibilità della Santa Sede nei confronti della famiglia Orlandi ad accogliere la richiesta di verifiche pur sulla base di una mera segnalazione anonima» ha commentato il portavoce Alessandro Gisotti. In curia sono convinti che là sotto ci siano solo ossa antiche e non quelle della piccola Emanuela. Non si avvalorano misteri. Tuttavia una inquietante telefonata da parte del capo della Gendarmeria a diversi monsignori di curia ha sollevato interrogativi visto che il responsabile della sicurezza del Papa avrebbe chiesto di non parlare con nessuno. Una specie di censura ai curiali. Perchè?
Caso Orlandi, nelle botole del Cimitero Teutonico migliaia di ossa. Il genetista: "Il caso resta aperto". L'avvocato di famiglia: "Ora dobbiamo datarle". La Repubblica il 20 luglio 2019. Migliaia di ossa all'interno del Cimitero Teutonico, nella Città del Vaticano. Il genetista della famiglia Orlandi, Giorgio Portera, all'uscita dal sepolcreto dove si stanno cercando i resti di Emanuela Orlandi ha rivelato: "Non ci aspettavamo di trovare così tante ossa. Oggi ne sono state recuperate migliaia, dunque si ipotizza la presenza di decine di persone. Sono ossa piccole e grandi, soprattutto ossa craniche che sono riconducibili a soggetti adulti e più giovani". Si riapre la possibilità di trovare novità su un caso che affonda le sue radici nel 1983: il 23 giugno la quindicenne Emanuela, figlia di un dipendente del Vaticano e residente nella città santa, sparì mentre stava raggiungendo una scuola di musica. Da allora, non è mai stata trovata. Il genetista Portera aggiunge: "Ora bisognerà datare le ossa e capire se sono reperti di qualche decina di anni o di centinaia di anni fa. Il caso è ancora assolutamente aperto. Lo stato di conservazione cambia a seconda della fossa in cui sono state custodite in queste decine o centinaia di anni, ma solo un accertamento strumentale riuscirà a dare una smentita o una conferma. Certo, non ci aspettavamo un numero così enorme di ossa perché più sono e più è complicato l'accertamento". L'avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, ha aggiunto: "La settimana scorsa sono state aperte due botole, profonde un metro e mezzo, quindi sono state sigillate e riaperte questa mattina. Le ossa prelevate vengono messe dentro grandi sacchi". Ancora: "I lavori continueranno la settimana prossima per comprendere una prima datazione". Federica Orlandi, sorella di Emanuela, all'uscita dal Cimitero Teutonico con tono provato ha detto: "Sono esperienze molto forti, noi continuiamo a cercare la verità".
Emanuela Orlandi, Vaticano: nessun osso successivo al 1800 nel cimitero Teutonico. Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Corriere.it. «Nel corso degli accertamenti di antropologia forense, il Prof. Arcudi non ha riscontrato alcuna struttura ossea che risalga ad epoca successiva alla fine del 1800». Così una nota della sala stampa vaticana sulle verifiche negli ossari del Cimitero Teutonico, disposte alla ricerca del corpo di Emanuela Orlandi. Il consulente di parte della famiglia Orlandi ha chiesto «accertamenti di laboratorio su circa 70 reperti ossei; il Prof. Arcudi e la sua equipe non hanno avallato la richiesta perché le medesime strutture ossee hanno caratteri di datazione molto antichi».
Fra le ossa ritrovate dovrebbero con ogni probabilità esserci quelle delle due principesse tedesche dell’Ottocento le cui tombe sono state ritrovate vuote e in cui secondo la segnalazione anonima ricevuta dagli Orlandi sarebbero stati nascosti i resti di Emanuela. Le tombe appartenevano a Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburg, ex moglie, nonché cugina, del principe ereditario di Danimarca Cristiano Federico. I due si sposarono nel giugno 1806, ebbero un figlio, Federico, poi a sua volte divenuto re. Ma il matrimonio durò solo 4 anni, il divorzio fu chiesto dal marito dopo aver scoperto la relazione di lei con un musicista. La principessa, dopo vari peregrinaggi per l’Europa finì a Roma, dove si convertì al cattolicesimo e morì nel 1840, a 56 anni.
Famiglia Orlandi: "Aprite quella tomba nel cimitero teutonico". Il Vaticano: "Studieremo la richiesta". La famiglia ha ricevuto una lettera in cui si dice che sarebbero custodite in un loculo le risposte alla fine della ragazza, scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. È arrivata in Vaticano una settimana fa l’istanza della famiglia Orlandi nella quale si chiedono una serie di informazioni su una tomba all’interno del cimitero teutonico Vaticano, quello dove da anni diverse persone oltre ai famigliari si recano per pregare nel ricordo di Emanuela. Appoggiato a una parete del cimitero c'è la statua di un angelo che tiene un foglio con la scritta in latino "Requiescat in pace", "Riposa in pace", come scrive oggi "Il Corriere della Sera". Sarebbero custodite li, secondo una lettera ricevuta dal legale della famiglia Orlandi Laura Sgrò, le risposte al mistero di Emanuela Orlandi, la quindicenne sparita nel nulla del 1983. Per questo il legale ha scritto al segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, chiedendo, oltre all’apertura del loculo, anche una serie di informazioni su quel sepolcro. La segnalazione è arrivata all'avvocato con una fotografia, ricevuta l'estate scorsa: nell'immagine c'è una statua di un angelo su una tomba e la segnalazione diceva: "Cercate dove indica l'angelo". Continua l'avvocato Sgrò: "Certe cose bisogna chiarirle per escluderle. Sono andata a verificare le condizioni della tomba, ho fatto tutti gli accertamenti che era possibile fare, ora dobbiamo attendere le autorizzazioni. L'angelo e la lastra della tomba sono chiaramente elementi di due periodi storici differenti". La risposta del Vaticano è immediata. "Posso confermare che la lettera della famiglia di Emanuela Orlandi è stata ricevuta dal cardinale Pietro Parolin e che verranno ora studiate le richieste rivolte nella lettera". Lo ha affermato il direttore "ad interim" della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti. Ma gli Orlandi chiedono anche una serie di audizioni delle persone coinvolte e ancora in vita: il cardinale Giovanni Battista Re, il cardinale Eduardo Martinez Somalo e il cardinale Angelo Sodano. La procura di Roma, più volte a partire del 1994, aveva provato a sentirli con rogatoria ma senza riuscirci. La lista degli interrogatori non finisce qui: Sgróò auspica anche l’audizione delle persone coinvolte nell’indagine che portava alla Banda della Magliana e, in particolare, oltre al pm che se ne occupó, Giancarlo Capaldo, anche di monsignor Pietro Vergari e del cardinale Tarcisio Bertone, all’epoca dell’inchiesta segretario di Stato.
Emanuela Orlandi, adesso i familiari chiedono di aprire una tomba. Caso Orlandi, la famiglia ha chiesto al Vaticano di verificare, e in caso aprire, una tomba del cimitero tedesco della Santa Sede. L'ennesima traccia sul mistero, scrive Giuseppe Aloisi, Lunedì 4/03/2019 su Il Giornale. Le ossa ritrovate nel sottosuolo della nunziatura apostolica avevano fatto pensare alla risoluzione del caso di Emanuela Orlandi, ma quella vicenda si è rivelata essere non correlata alla storia della ragazza scomparsa, in maniera misteriosa, nel 1983. Eravamo alla fine del 2018. Adesso, però, i familiari della giovane hanno domandato al Vaticano di seguire un'ulteriore pista. E sullo sfondo c'è una lettera che potrebbe addirittura indicare il luogo di sepoltura della Orlandi. La tomba in questione, quella che la famiglia di Emanuela vorrebbe vedere aperta, si trova nel cimitero tedesco interno alla Santa Sede. A dare la notizia della richiesta, tra gli altri, pure il Corriere della Sera. Ma perché proprio questo spazio, quello in cui sono sepolti i teutonici? La famiglia Orlandi, per mezzo del legale che la assiste, è venuta in possesso di una missiva che quantomeno consiglia di dare un occhio proprio a quella struttura. Poi c'è quella mezza conferma arrivata nel corso del tempo: sul giornale citato si legge come sia stato "verificato che alcune persone erano state informate della possibilità che i resti di Emanuela Orlandi fossero stati nascosti nel cimitero teutonico". Gli Orlandi, insomma, non sono disposti alla resa e cercano l'interlocuzione di chi, magari meglio di altri, potrebbe aiutare a fare luce, cioè del segretario di Stato Parolin, che adesso dovrebbe procedere, da primo ministro, ad aprire uno spiraglio intorno a quest'ennesima e possibile traccia. Perché - potrebbero chiedersi i familiari di Emanuela - delle persone, in memoria di Emanuela, sono solite deporre dei fiori proprio accanto a quella struttura funeraria? Questo, del resto, è quanto accadrebbe all'interno del cimitero tedesco del Vaticano. Nello specifico, nei pressi del loculo che la Santa Sede, presto, potrebbe essere obbligata a riaprire. Dalle parti di piazza San Pietro, intanto, hanno già commentato la novità, sottolineando la disponibilità proveniente dalle istituzioni ecclesiastiche: "Posso confermare - ha fatto sapere poco fa Alessandro Gisotti, che è il direttore ad interim della Sala Stampa - che la lettera della famiglia di Emanuela Orlandi è stata ricevuta dal Cardinale Pietro Parolin e che verranno ora studiate le richieste rivolte nella lettera". Sarebbe la direzione indicata tramite le dita dell'architettura angelica presente in quel cimitero a costituire un indizio sul posizionamento del luogo di sepoltura attenzionato.
Emanuela Orlandi, "aprite la tomba nel cimitero tedesco". La lettera-bomba in Vaticano, scrive il 4 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Si torna a parlare del caso Emanuela Orlandi, la quindicenne scomparsa nel nulla dal Vaticano nel lontano giugno del 1983. Il Corriere oggi riporta la notizia dell’ultimo mistero riferito ad alcune segnalazioni arrivate alla famiglia mesi fa e che rimandano a un’antica tomba ubicata in un cimitero teutonico dello Stato Vaticano. Si pensa, infatti, che all’interno possano esserci i resti della giovane. La famiglia Orlandi ha chiesto al cardinale Pietro Parolin e al promotore di giustizia vaticano di poter conoscere tutti i dettagli sulla storia della tomba effettuando una ricerca accurata negli archivi. Inoltre, in caso di risultati poco trasparenti o soddisfacenti, si è detta pronta ad ottenere anche l’apertura del loculo. La scorsa estate, il legale della famiglia Laura Sgro ha ricevuto la foto della tomba in questione insieme a una lettera su cui c’era scritto "Cercate quell’angelo". Un’indicazione piuttosto allusiva, perché sulla tomba del cimitero c’è proprio la statua di un angelo che tiene in mano la scritta "Riposa in pace". Per terra, invece, un epigramma funebre dedicato alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe, divenuto arcivescovo nel 1857. Il mistero si infittisce perché è stato scoperto che quel loculo è stato aperto in passato e che la data della scritta tenuta dall'angelo è diversa rispetto a quella della lastra in basso. Ma, soprattutto, "Si è verificato che alcune persone erano state informate della possibilità che i resti di Emanuela Orlandi fossero stati nascosti nel cimitero teutonico", ha dichiarato l’avvocato Sgro.
Emanuela Orlandi, ecco la vera storia della tomba in Vaticano. Le prime segnalazioni sul sepolcro in cui sarebbero stati sepolti i resti della ragazzina sono arrivate a L'Espresso due anni fa. Fonti vicine a Vatileaks raccontarono che «alcuni dipendenti laici andavano a pregare su una lapide senza nome nel Cimitero teutonico». Un documento apocrifo segnalava spese nel 1997 «per il trasferimento con disbrigo pratiche finali», scrive Emiliano Fittipaldi il 4 marzo 2019 su L'Espresso. Le prime segnalazioni sull'esistenza di un tomba senza nome dentro le mura del Vaticano in cui sarebbero stati sepolti i resti di Emanuela Orlandi risalgono all'estate di due anni fa. Chi scrive stava indagando sulla ragazzina scomparsa nel giugno del 1983, e nelle ricerche si era imbattuto in un documento apocrifo (che si presentava come un «resoconto delle spese sostenute dallo stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi») che raccontava una storia inedita: Emanuela, una volta rapita da soggetti esterni, sarebbe stata “recuperata” da uomini del Vaticano e poi nascosta – per motivi oscuri - per 14 anni fuori dai confini italiani. Le tracce portavano a Londra. Il documento, che proveniva da una cassaforte interna alla prefettura degli Affari economici della Santa sede, si concludeva con l'elenco delle spese che andavano dal 1993 al luglio del 1997. L'ultima voce segnalava un costo di 21 milioni di lire per l'«Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con disbrigo pratiche finali». Se nessuna prova ha permesso di confermare se la vicenda sintetizzata dal resoconto fosse vera o l'ennesimo tentativo di depistaggio (come chiarì subito il Vaticano) sul destino infelice dell'adolescente, nel libro “Impostori” scrissi pure che fonti interne avevano evidenziato l'esistenza «di una tomba nel Cimitero teutonico interno alla Santa Sede». Un sepolcro «senza nome» dove la Orlandi sarebbe stata sepolta dopo il decesso. Una tomba con un angelo, su cui andavano a pregare alcuni prelati e «dipendenti vaticani». Lucio Angel Vallejo Balda, l'ex segretario della prefettura economica e della Cosea, la commissione che doveva indagare sugli enti economici vaticani, mi disse che anche un suo collaboratore stretto, Nicola Maio, era solito andarci a pregare. «Nicola è un uomo buono. Ma il cimitero è territorio vaticano: se scrivi della tomba, la portano via. Non rischiano», ragionò. Vallejo Balda e Maio, oltre a Francesca Immacolata Chaoqui, sono stati imputati per divulgazione di notizie riservate nel processo Vatileaks II. Se Balda e la Chaoqui furono condannati e i due giornalisti coinvolti prescritti, Maio fu assolto. La famiglia Orlandi, e l'avvocato Laura Sgrò, conoscono dunque la vicenda della tomba da almeno un anno e mezzo: gli Impostori uscì a settembre del 2017. Secondo il Corriere della Sera, nuove segnalazioni sulla tomba sono arrivate pochi mesi fa. Così la famiglia della Orlandi e la Sgrò hanno chiesto al Vaticano di conoscere e approfondire la storia del sepolcro senza nome. E - ci fossero ulteriori dubbi - di analizzare quello che vi è all'interno. Il segretario di Stato Pietro Parolin ha detto che valuterà la domanda della famiglia. Fonti vaticane dicono a “L'Espresso” però che potrebbe essere l'ennesima pista falsa. O che, pure fossero state lì, le osa della ragazza «sarebbero state levate da un pezzo». Il rischio, per gli Orlandi che cercano la verità da 35 anni, è che si ripeta quello accaduto nel 2012 (quando venne aperto il tumulo del boss della Banda della Magliana Enrico De Pedis, dove un anonimo ipotizzò potessero essere nascosto il corpo di Emanuela). O di rivivere quanto successo poche settimane, quando alcuni mucchietti di ossa trovati sotto la nunziatura apostolica in Italia a via Po, a Roma, furono collegati alla sparizione della ragazzina. Salvo scoprire – dopo le analisi scientifiche – che appartenevano a un uomo vissuto secoli prima.
“Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per l'allontanamento di Emanuela Orlandi”. Un documento choc esce dalla Santa Sede. È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”. Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 settembre 2017 su L'Espresso. Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l’obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. “Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati,” aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po’ tornai alla carica. Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. “Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia.” Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro. Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C’erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un’altra sezione del dicastero della Curia romana che “più da vicino”, come spiega il sito del Vaticano, “coadiuva il Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione”. Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997.
La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l’autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, “come da richiesta”. Leggo il testo della prima pagina tutto d’un fiato. “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968),”, è il titolo. “La prefettura dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi. “La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda. “Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell’impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso. “L’attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute. “Il documento non include l’attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al Commando 1, in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata. “I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate.” La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni. "Era importante pubblicare questo documento perché se fosse vero aprirebbe squarci impensabili. Se fosse falso sarebbe sconvolgente, perché vorrebbe dire che è stato costruito ad arte per seminare sconcerto e per un ricatto". Così il giornalista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi parla del dossier sui 483 milioni di lire che il Vaticano avrebbe speso tra il 1983 e il 1997 tenere lontano dall'Italia Emanuela Orlandi. Un dossier pubblicato nel suo libro Gli impostori (Feltrinelli). "Qualsiasi documento può essere falso, ma questo era in una cassaforte del Vaticano - spiega Fittipaldi - Io ho faticato molto per averlo e ora la Santa Sede ci deve delle spiegazioni”. Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire. L’elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una “fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana”. La Orlandi, nell’ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C’era un’altra spesa per la “preparazione all’attività investigativa estera” costata altre 450.000 lire, uno “spostamento” da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le “rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra”. Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l’indirizzo: a quello giusto c’è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell’arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d’Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese). La prima pagina si chiude con i costi per l’“indagine formale in collaborazione con Roma” (23 milioni) e con la misteriosa “attività di indagine riservata extra ‘Commando 1’, direzione diretta Cardinale Casaroli”, per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all’inizio. La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l’“allontanamento domiciliare” di Emanuela nel periodo “febbraio 1985-febbraio 1988”. Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la “attività investigativa relativa al depistaggio”, spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in “ginecologia”. Si parla di “un secondo” e di “un terzo trasferimento”, di decine di milioni di lire per “rette omnicomprensive” di vitto e alloggio. Gli anni scorrono. Arrivo all’ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo “allontanamento domiciliare” si riferisce stavolta al periodo “aprile 1993-luglio 1997”. Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con “il dettaglio mensile e annuale in allegato 22”) e ad altre “spese sanitarie forfettarie”, figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: “Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000”. La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. “Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28.” Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate.
In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto “interno” alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura? Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte “sgradevoli”? È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per “l’allontanamento domiciliare” della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori. La missiva è “presentata in triplice copia”, come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontifice commissioni. Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l’esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un’attività investigativa propria, sia in Italia sia all’estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico “Commando1” guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza. Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo “spostamento” la bellezza di 4 milioni di lire. Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra. Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni “rette vitto e alloggio” elencate in un report che ha come titolo “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi” e per il suo “allontanamento domiciliare”? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyła, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, “presso la sede l. 21”, una “trasferta” da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all’inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie – come segnala ancora l'estensore dello scritto – per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla “dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology” dello stesso nosocomio un'unica “attività economica a rimborso” di cui il capo dell’Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i “dettagli in allegato 28”? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela). La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' “attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali”. Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la “pratica” di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa? A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare «un dossier custodito in Vaticano». Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento». Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: «Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso». Anche il cardinale Re interviene, assicurando che «la Segreteria di Stato» di cui nel 1997 lui era sostituto «non aveva proprio niente da nascondere. Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull “allontanamento domiciliare” di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: «Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone». Clic. La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Maurizio Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici. La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell’ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014. Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell’immobile e s’era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro. A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell’ufficio esisteva “un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda”, custodito inizialmente “in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore”; aggiunge che “dopo il furto, l’archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo”. Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte “portarono via soldi e delle monete, dall’armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell’archivio riservato… alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero”. Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal “Banchiere di Dio”, Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore – insieme a Licio Gelli – della loggia massonica deviata P2. “Cosa c’era nel plico?” chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. “Documenti di dieci, vent’anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore,” risponde il prelato. “Nel riordinare i fogli dopo l’effrazione, vidi che gli atti contenuti nell’archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato,” ma a fatti che il monsignore definisce “sgradevoli”. “Sgradevoli,” ripeto tra me e me. Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte. Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l’effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un’accusa pesantissima. Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell’ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L’avvocatessa calabrese – che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione – è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l’effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti “sgradevoli”, la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: “Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C’è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un’eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese ‘politiche’ di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarność. C’è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C’è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta”...Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.
Emanuela Orlandi, il Vaticano avvia le indagini sulla tomba al cimitero teutonico. Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Corriere.it. Nuova svolta sul caso Orlandi. Dopo la denuncia dei familiari anticipata dal Corriere, il Vaticano ha deciso di aprire un’indagine interna sulla antica tomba al cimitero teutonico dove si sospetta possano essere sepolti i resti della giovane scomparsa nel 1983. A rendere nota l’indagine è l’avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgro, dicendo chela Segreteria di Stato ha «autorizzato l’apertura di indagini» e specificando che gli accertamenti sarebbero legati alle verifiche su una tomba del cimitero teutonico. Pietro Orlandi sarà interrogato nell’ambito della nuova indagine avviata dal promotore di Giustizia Emanuele Milano sulla possibilità che Emanuela sia sepolta in una tomba nel cimitero teutonico. Le verifiche sono state avviate dalla gendarmeria guidata da Domenico Giani che nei giorni scorsi ha incontrato l’avvocatessa Laura Sgrò. Un’istanza presentata il mese scorso chiedeva l’apertura della tomba dopo aver ricevuto una lettera che forniva alcune indicazioni e aver svolto indagini difensive proprio per esplorare questa possibilità. La famiglia ha ottenuto conferma da svariate fonti che però non ha rivelato alla gendarmeria, anche se alcuni elementi erano emersi durante il processo Watileaks e dunque anche sulla base di quei verbali saranno svolti i nuovi controlli. La tomba si trova all’interno del cimitero. Appoggiata a una parete c’è la statua di un angelo che tiene un foglio con la scritta in latino «Requiescat in pace», «Riposi in pace». Per terra una lastra con una scritta funeraria dedicata alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe che nel 1857 fu nominato arcivescovo da papa Pio IX. L’estate scorsa una lettera con allegata la foto della tomba è stata recapitata all’avvocatessa Laura Sgrò che assiste la famiglia Orlandi: «Cercate dove indica l’angelo». Pietro Orlandi e l’avvocato hanno incontrato nei mesi scorsi il segretario di Stato Parolin. La conferma arriva dallo stesso fratello di Emanuela che poi aggiunge: «Per la prima volta, dopo 35 anni di mancata collaborazione abbiamo la sensazione che qualcosa possa finalmente muoversi».
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2019. L' inchiesta è stata avviata due settimane fa e, come sottolinea Pietro Orlandi, «finalmente uno spiraglio si apre». Perché 35 anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno del 1983, il promotore di giustizia Vaticano ha aperto un fascicolo e delegato verifiche alla Gendarmeria guidata da Domenico Giani. Merito della tenacia della famiglia e dell'avvocatessa Laura Sgrò che ormai da due anni presenta istanze alla segreteria di Stato chiedendo di «conoscere tutti i documenti custoditi presso la Santa Sede che riguardino il rapimento della ragazza». E due mesi fa - al termine delle indagini difensive - ha depositato richiesta formale di apertura di una tomba, all' interno del cimitero Teutonico, dove potrebbero essere i resti della giovane. L'indicazione le era arrivata tramite lettera e si faceva riferimento alla statua che si trova sopra la lapide dedicata alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe che nel 1857 fu nominato arcivescovo da papa Pio IX: «Cercate dove indica l'angelo» che in mano ha un foglio con la scritta "Requiescat in pace", riposa in pace. Per questo sono state poi rintracciate alcune persone che erano a conoscenza della vicenda e che adesso potrebbero essere chiamate a testimoniare. In questi mesi sia Pietro Orlandi sia il legale hanno avuto incontri con il segretario di Stato Pietro Parolin che aveva promesso di voler dare seguite alle domande di aiuto della famiglia. Per questo nelle scorse settimane, dopo la decisione del promotore di procedere, l'avvocatessa Sgrò ha avuto uno scambio di lettere e poi un incontro riservato proprio con Giani. Il primo ad essere interrogato sarà il fratello di Emanuela, poi potrebbero essere convocate le persone che in questi anni hanno avuto la possibilità di consultare documenti riservati che riguardano proprio la sparizione della ragazza. In particolare nel 2015, nell'ambito dell' inchiesta Vatileaks, si parlò di un dossier che riguardava il «caso Orlandi» e alcuni testimoni accreditarono la possibilità che fosse stato custodito all' interno della segreteria di Stato. In quel carteggio sarebbero state annotate le spese sostenute in questi anni dal Vaticano. Nell'istanza inviata a Giani, Sgrò evidenzia che «mai gli inquirenti Vaticani hanno raccolto la deposizione di Pietro Orlandi, che è la memoria storica dei fatti relativi alla scomparsa della povera Emanuela e non è tenuto ad alcun segreto professionale. Pietro potrà riferire molteplici circostanze e indicare nomi di cui è venuto personalmente a conoscenza nel corso degli anni». Chiede poi di convocare l' ex procuratore aggiunto di Roma «Giancarlo Capaldo, che sarebbe stato coinvolto in una presunta trattativa con alcuni alti prelati e tale trattativa, in una certa fase, avrebbe avuto a oggetto la restituzione del corpo di Emanuela Orlandi. Il dottor Capaldo potrebbe avere avuto anche notizie su un eventuale luogo di sepoltura». L'ultimo punto sottolineato riguarda la possibilità che «altri spunti investigativi potrebbero emergere dalle audizioni dei signori Cardinali Giovanni Battista Re; Eduardo Martínez Somalo; Angelo Sodano; Tarcisio Bertone e di Monsignor Pietro Vergari». Soltanto al termine di queste verifiche si deciderà se chiedere alle autorità tedesche l'eventuale apertura della tomba. Un passo che - su questo la richiesta della famiglia è stata esplicita - dovrà prevedere la presenza di un consulente degli Orlandi che possa partecipare agli adempimenti e in questo modo seguire anche gli eventuali rilievi che dovessero essere disposti dal promotore di giustizia.
A cosa può portare l'inchiesta del Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Il Foglio. "Dopo 35 anni il Vaticano finalmente indaga ufficialmente sulla scomparsa di mia sorella. Speriamo che sia arrivato finalmente il momento per giungere alla verità e dare giustizia a Emanuela”. Pietro Orlandi annuncia che la Segreteria di stato della Santa Sede ha ordinato un’inchiesta interna per tentare di far luce sulla scomparsa di sua sorella, avvenuta nel giugno del 1983. A chiedere l’apertura di un’indagine era stata (più volte) la famiglia, che solo poche settimane fa aveva indicato una tomba del Cimitero teutonico come possibile sepolcro di Emanuela Orlandi. A insospettire, in particolare, vi è il fatto che da anni fiori freschi siano posati sulla tomba e che una lettera recapitata diversi mesi fa indichi proprio quello come il luogo di sepoltura: “Cercate dove indica l’angelo”. Sembra la trama di un romanzo di Dan Brown, invece è la realtà. Va detto che in più di trent’anni di mistero sono state diverse le segnalazioni, da chi indicava la ragazza viva e ricoverata a Londra, a chi fin dall’inizio parlò di una fine terribile. Il tutto condito da telefonate anonime, lettere cifrate, depistaggi e documenti falsi infilati nelle tasche di qualche giornalista. L’anno scorso la speranza di fare luce sul caso si ebbe allorché sotto al pavimento della nunziatura italiana furono ritrovati due scheletri. All’inizio si disse che erano di due donne – e i giornali titolarono sul “mistero Orlandi” – poi i riscontri scientifici stabilirono che si trattava di resti dei primi secoli dopo Cristo. Appartenenti a due uomini.
"STAVOLTA SENTO CHE LA VERITA' E’ VICINA”. Da Radio Cusano Campus il 12 aprile 2019. Il Vaticano ha deciso di aprire un'indagine interna per far luce sul giallo Emanuela Orlandi, la ragazza romana di 15 anni scomparsa il 22 giugno 1983. La Segreteria di Stato infatti dopo quasi 36 anni ha autorizzato per la prima volta l'apertura di indagini specificando che gli accertamenti sono legati alle verifiche su una misteriosa tomba al cimitero teutonico. Il caso è stato approfondito su Radio Cusano Campus a “La Storia Oscura”. Al microfono di Fabio Camillacci, Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, ha affermato: “Io mi auguro che stavolta ci sia la volontà di fare chiarezza. Forse qualcosa si muove anche grazie alla nostra insistenza legale, grazie all'avvocato Laura Sgrò che non è un avvocato qualunque ma è uno dei pochi avvocati che hanno il patrocinio presso la Santa Sede e ha avuto un ruolo importante nell'inchiesta "Vatileaks". Forse -ha precisato Pietro Orlandi- si sono resi conto che è inutile continuare a negare, a non collaborare, anche se il comportamento che hanno avuto in passato non potrò mai cancellarlo. Noi questa collaborazione la chiediamo da tanti anni, l'apertura di un'inchiesta interna al Vaticano la chiediamo da molti anni. Io mi auguro che ora ci sia la volontà e soprattutto l'onestà di portare avanti le cose. E mi auguro che se anche non si trovasse nulla in quella tomba al cimitero teutonico una volta aperta, non si fermino lì, per capire il perché di quelle segnalazioni che ci sono arrivate: non segnalazioni anonime ma interne al Vaticano e che ci hanno indirizzato su quella tomba. Questa pertanto è già una cosa da chiarire. Ma io spero e penso che le indagini saranno ad ampio raggio, perché noi nell'istanza che abbiamo presentato non abbiamo chiesto solo l'apertura di quella tomba ma abbiamo chiesto anche una serie di indagini legate alle incongruenze che ci sono state in tutti questi anni. E mi riferisco anche alle inchieste fatte dalla magistratura italiana. Situazioni strane che non sono mai state approfondite e che in qualche modo hanno coinvolto la Santa Sede; come ad esempio la famosa trattativa portata avanti dal magistrato Giancarlo Capaldo all'interno del Vaticano qualche anno fa. Non credo che l'indagine interna al Vaticano sia stata finalmente aperta per volere di Papa Francesco perché con lui il muro di gomma si è alzato più di prima. Se poi il Pontefice possa aver avuto un cambiamento negli ultimi giorni, questo non lo so. Io finché non vedo il corpo di mia sorella, sento il dovere di cercarla viva, però come sensazione mia, da fratello, sento che c'è qualcosa in più questa volta in merito a quella tomba nel cimitero teutonico vaticano rispetto alle segnalazioni del passato. Ripeto, perché le segnalazioni che abbiamo ricevuto nell'ultimo anno e mezzo, sono tutte interne alla Santa Sede; e non possono non essere arrivate anche ai vertici del Vaticano. Altrimenti -ha concluso Pietro Orlandi- l'autorizzazione all'apertura di un'indagine interna non sarebbe partita dal Segretato di Stato Pietro Parolin. Altrimenti il Tribunale vaticano e la Gerdarmeria non si sarebbero mossi. Lo stesso cardinal Tarcisio Bertone si è detto disponibile a essere ascoltato dalla magistratura vaticana per far luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi”.
· Il mistero di De Pedis.
I ricordi di “Franchino” il becchino: «La bara di De Pedis? Stupenda, un capolavoro». Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. L’impresario e i boss: «Per Renatino una cassa baccellata intarsiata a mano. Paradisi? Un amico. Giuseppucci? Un signore» «Noi rovinati dalla bare cinesi vendute a 100 euro». C’era 40 anni fa, in prima linea sul fronte dei morti ammazzati. E lo è ancora oggi, anche se i delitti sono molto diminuiti. Tutti i giorni alle prese con faccende macabre e alquanto repellenti, come vestire una salma, spingere a forza un braccio dentro una cassa se il defunto era obeso, spiegare a una donna fresca di vedovanza che «con tutto il rispetto, signo’, la buonanima se l’è cercata, fare l’amore in quel modo, a una certa età, ti porta dritto al Creatore...». Però lui, «Franchino er cassamortaro», come lo chiamano a Trastevere, al secolo Franco De Gese, 71 anni ottimamente portati, il sorriso non lo perde mai. Elegante come un figurino, lo scambieresti per un direttore di banca o per un funzionario del vicino ministero dell’Istruzione, se non fosse che se ne sta lì da mattina a sera, impettito e di ottimo umore, in attesa di clienti davanti all’impresa funebre affacciata su piazza San Cosimato. Qualcuno, vedendolo, fa il gesto delle corna e si tocca, e lui non gradisce per niente... «Sì, di str... che quando passano davanti al negozio si mettono la mano in tasca ce ne sono ancora. Per fortuna sempre meno... Il nostro è un servizio serio».
Lei iniziò quando il lavoro non mancava. La «mala» qui attorno si ammazzava che era un piacere.
«Alcuni erano amici veri, come Giorgio Paradisi...»
Detto «Er Capece», uno dei fondatori della banda della Magliana, coinvolto nel sequestro del duca Grazioli, attivo nel settore rapine e spaccio di droga.
«E che vuol dire? Uno mica lo sa, da ragazzino, come si diventa poi! Io so’ nato a Campo de’ Fiori, dove i miei c’avevano un banco, e dove negli anni ‘60 altro che Trastevere, la polizia nun entrava proprio. Sa qual era la tecnica? Per mandare indietro una Volante, ai Cappellari, ‘na donna stese una neonata sull’asfalto, davanti alle ruote. ‘Se avete coraggio venite avanti!’strillava».
Paradisi, dicevamo.
«Con me si comportava da brava persona, corretto, gentile. Gli so’ stato vicino fino all’ultimo. Il tumore lo faceva entrare e uscire dal carcere e l’unico che andava a trovarlo a Villa Tiberia ero io».
Gente verace.
«Un pezzo di Roma, umanità vera. Gente che sbagliava, certo. Ma quando ti chiamano per un funerale, mica chiedi la fedina penale. All’inizio facevo il commesso nei negozi, in via Giubbonari. Nel ramo entrai grazie a un cognato, un Chiericoni...»
Onorate pompe funebri.
«Sì, quelle di una volta, Zega, Scifoni... Professionisti veri. Non come oggi, che su Internet ti rifilano bare cinesi a 100 euro, ma quando si solleva la cassa il fondo si stacca e il morto finisce sul pavimento della chiesa. È già successo tre o quattro volte...»
Cose dell’altro mondo.
«Appunto. Qui a Trastevere ne ho viste di tutti colori. Mi misi in proprio a inizio anni Ottanta, periodo di fuoco...»
In tempo per seppellire Franco «er Negro», detto anche «Fornaretto» per il suo primo impiego da panettiere?
Franco Giuseppucci, detto «er Negro»Franchino l’impresario guarda 30 metri più giù, in direzione dell’edicola, all’imbocco di via Dandolo. Lo stesero a pistolettate, al volante della sua R5, davanti all’ingresso laterale del Regina Margherita. Che tempi... «No, fu ammazzato nel settembre 1980, poco prima. Il funerale glielo fece la ditta Olimpica. Io arrivai l’anno dopo, al posto di un negozio di fotografia. Comunque lo conoscevo bene, Giuseppucci: un signore, persona educata, bella presenza, bel sorriso. Ripeto, io parlo dell’impressione che dava all’esterno».
Un po’ come il boss, Enrico De Pedis. Sempre acchittato, inserito in ambienti ecclesiastici, finanziari...
«Ah, già, anche lui un signore. Mai sentito una parolaccia sulla bocca di Renatino. E chi se lo scorda il funerale? Febbraio 1990: vennero da me gli amici. ‘Franchi, nun bada’ a spese’. Io allora ordinai una cassa modello extralusso, stupenda. Il top: una baccellata di mogano intarsiata a mano, con le colonnine sui fianchi, le zampe di leone e il coperchio decorato a conchiglie. Un capolavoro! A San Lorenzo in Lucina, durante la messa, faceva un figurone. Vedesse quante guardie che c’erano...»
Prima destinazione Verano, giusto?
«Certo, uno dei riquadri a destra, dopo l’ingresso in auto. Poi, mesi dopo, non di notte, come fu insinuato, ma alla luce del giorno, in totale regolarità, fui chiamato per il trasferimento nella basilica di Sant’Apollinare. Quante str... avete scritto, voi giornalisti! Che la famiglia aveva versato tre miliardi, che io avevo preso chissà cosa...»
Invece?
«Il giusto: mi pare tre milioni e mezzo di lire. Ci occupammo di tutto: estumulazione, assistenza sanitaria, decreto per l’estero e anche del rivestimento in piombo, imposto dal Vaticano. Infilammo la prima cassa in una più grande, pesantissima. Portarla nella cripta fu uno sforzo immane, a momenti 8 persone non bastavano».
Lavoro sprecato. Nel 2012 la Santa Sede diede l’ok allo spostamento della salma, per far tacere le polemiche, e Renatino finì cremato...
«Non me ne occupai io. La moglie si rivolse ad altri».
All’epoca, durante i lavori a Sant’Apollinare, si disse che il corpo di De Pedis era integro, perfettamente conservato.
«E lo credo. Lavoro preciso, a regola d’arte. E tenuta stagna perfetta, con la doppia cassa piombata».
Solo delinquenti, nella sua carriera?
«Negli anni ‘80 ci fu anche il periodo dei morti ammazzati sul Tevere, all’altezza della Magliana. Noi andavamo e ci toccava aspetta’ l’ok del magistrato, dopo l’autopsia...»
Ma l’eterno riposo a gente perbene?
Renato Salvatori«Ovvio, tantissimi. Quante volte so’ stato a piazza del Popolo, alla chiesa degli Artisti! Fu io ad andare a prendere a Fiumicino Gian Maria Volontè, che era morto in Grecia, e Sylva Koscina, alla Quisisana, disfatta da un tumore, poverina. Delle esequie di Renato Salvatori, quello di ‘Poveri ma belli’, si occupò l’ex compagna francese, fu lei a pagarmi...»
Nostalgia del «vespillone» di una volta? Il vecchio agente della mortuaria che controllava la sepoltura e, per esser sicuro del trapasso, girava con uno spillone e dava una puncicata al piede...
Franchino «er cassamortaro» si fa serio. «Mi stia a sentire. Al di là dei pochi imbecilli che ancora si grattano, noi facciamo un mestiere importante. Invece a Roma il settore è diventato uno schifo: da un lato c’è l’Ama, che spilla tasse a non finire. Duecento euro per aprire un loculo e vedere se c’è spazio per un’urna: 5 minuti di lavoro in tutto. Oltre duemila euro per aggiungere una salma in tombe già piene. Settecento per le cremazioni. Sembra un ministero: il sabato niente inumazioni e durante la settimana alle 16 spaccate chiudono, obbligando i familiari che arrivano anche con 5 minuti di ritardo ad attese dolorose».
Le pompe funebri non sono più quella di una volta. Gli Zega, gli Scifoni, eccetera...
«Purtroppo è così. Oggi a Roma operano 700 agenzie, un’enormità. Alcune si appropriano dei cognomi storici, non essendo eredi. Ci sono cause in corso. Altro esempio: tu chiami un ragazzo pe’ fa’ ‘na spallata, come diciamo in gergo, quello si presenta in chiesa, porta fuori la bara e dopo tre volte si monta la testa, compra una scrivania, attacca il telefono e apre un’agenzia».
No, così non va.
«Certo che no. Diceva Foscolo: All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne...»
Franchino, ci risparmi «I sepolcri»!
«La saluto. A presto. In senso buono, eh?»
· Adolfo Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali.
Adolfo Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali, scrive Simona Musco il 9 Marzo 2019 su Il Dubbio. Il 9 marzo ’ 69 il corpo del piccolo Ermanno Lavorini viene trovato senza vita sul lungomare di Viareggio. Giornali e polizia iniziano una caccia all’uomo fino a che non individuano in Adolfo Meciani il “mostro” ideale. Meciani è gay e viene processato e condannato dalla stampa. Si ucciderà in carcere con una corda collo. Era innocente. Un ragazzo vestito di bianco e di ruggine, scrive il giornalista Carlo Laurenzi quando il corpo di un ragazzino viene ritrovato sepolto nelle dune della pineta di Marina di Vecchiano. È il 9 marzo 1969 e quel ragazzo, Ermanno Lavorini, 12 anni e boccoli biondi, lo cercano ormai da due mesi. Lo hanno rapito e ucciso e all’inizio nessuno capisce perché. Una telefonata a casa reclama un riscatto di 15 milioni al padre commerciante di stoffe. Inutile, perché Ermanno muore lo stesso giorno in cui lo portano via, il 31 gennaio di 50 anni fa, 10 minuti prima di quella telefonata. Ed è il primo bambino della storia italiana ad essere rapito. È una storia con tante vittime, quella del piccolo Ermanno. E lui, quel bimbo, è la prima. Le altre vite rubate sono quelle degli uomini dati in pasto alla folla, ai giornali, colpevoli solo di essere «capovolti». Li chiamano così, sulla carta stampata, gli omosessuali. A caratteri cubitali, marchiati a fuoco. Le altre vittime sono Adolfo Meciani, ucciso dalla vergogna e dalla disperazione dopo una brutale aggressione mediatica, e Giuseppe Zacconi, a cui si ferma il cuore per il peso dell’umiliazione. Quella tragica giornata inizia con Ermanno che dopo pranzo inforca la bici rossa ricevuta a Natale per andare al luna park. È l’ultimo venerdì di gennaio e il ragazzino promette a sua madre di rimanere fuori solo un’ora. Ma arriva la sera ed Ermanno ancora non si è fatto vivo. Sono quasi le 18 e la tensione in casa viene spezzata dal suono del telefono. Marinella, la sorellina, alza la cornetta: «Ermanno non tornerà a casa, anzi ritorna dopo cena scandisce la vice di un uomo – Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia». Le forze dell’ordine annaspano fino a quando, poche settimane dopo, un maresciallo dell’Aeronautica, passeggiando sulla spiaggia, vede delle macchie di sangue e il corpo senza vita di Ermanno spuntare dalla sabbia. Non si capisce cosa gli sia capitato, ma è vestito e non ci sono segni di abusi. Gli investigatori provano a far quadrare le cose, sentono gli amici del ragazzino e arrivano a tre sospettati: Marco Baldisseri, 16 anni, Rodolfo Della Latta, becchino, detto Foffo, 20 anni, e Andrea Benedetti, detto “Faccia d’angelo”, 14 anni. Sono tutti estremisti di destra, iscritti al Fronte monarchico giovanile. Ragazzi scapestrati, che si vendono agli omosessuali della pineta e che, piano piano, uno dopo l’altro, crollano. Prima Baldisseri, poi Foffo, poi Benedetti. Marco dice di aver litigato con Ermanno, di averlo colpito con un pugno e averlo visto morire. Omicidio «per futili motivi», caso chiuso, dice alla stampa il 20 aprile il colonnello De Julio. Ma lo scandalo scoppia presto fragoroso. Ma non è chiuso affatto. Marco prende in giro gli inquirenti, accusa decine di persone, cambia versione cento volte. Incolpa perfino suo padre, poi se stesso, poi parla di droga e orge. La pineta è il luogo in cui si incontrano «gli invertiti». E allora non ci vuole molto a formulare l’equazione omosessuali uguale pedofili. Si indaga nel «mondo degli anormali», scrivono i giornali, abitanti di una «oscena, lurida, Sodoma». L’assassino altro non sarebbe che un «pederasta viareggino» con la maschera di uomo rispettabile. Un omosessuale, «un mostro». Alle etichette, ben presto, si sostituiscono i nomi, dettati da Baldisseri. Il primo è il figlio dell’attore Ermete Zacconi, Giuseppe, proprietario del cinema Eden, costretto calarsi i pantaloni davanti ai poliziotti per dimostrare di essere impotente dalla nascita e, dunque, innocente. Pochi mesi dopo, nel 1970, stremato dagli interrogatori, il suo cuore si ferma. «Mi hanno tolto la merda di dosso – dice – ma il puzzo è rimasto». Incolpa anche il sindaco della giunta socialista di Viareggio e il presidente dell’azienda di soggiorno, poi scagionati. E tocca infine ad Adolfo Meciani, ricco e affascinante titolare di stabilimenti balneari di Viareggio, fama di latin lover e un segreto dentro. Ha una moglie, dei figli e un alibi. Ma frequenta la pineta di Marina di Vecchiano, dove, dice Baldisseri, «rimorchia i ragazzini», compreso Ermanno, «drogato, spogliato e ucciso con un’iniezione endovena». Adolfo cade in depressione, perde 10 chili e finisce in clinica. «Dopo la scomparsa di Lavorini – scrivono i medici – è subentrata in lui, ossessionante, la paura che questa sua tendenza (l’omosessualità, ndr) potesse essere resa palese, che lo sapesse la moglie, che venissero rovinati reputazione, matrimonio, figlio». Non dorme, viene divorato dall’ansia e dalla depressione. In 25 giorni subisce sette elettrochoc. E intanto, fuori, la stampa se la prende con gli «immondi» omosessuali, da L’Espresso al Borghese. Adolfo con Ermanno non c’entra nulla, ma non riesce ad attendere. Finisce in carcere più volte, rischiando anche il linciaggio davanti alla caserma dove viene interrogato. Terrorizzato e umiliato, in una cella a Pisa decide di dire basta. Strappa un lenzuolo, lo assicura al termosifone, lo lega al collo e si impicca. Rimane in coma qualche giorno prima di morire. E sua moglie, al funerale, indosserà l’abito da sposa. È un giornalista, Marco Nozza, ad accorgersi che Baldisseri porta al bavero un simbolo monarchico. È il giovane cassiere del Fronte giovanile, il cui segretario è Pietro Vangioni, militante di destra. La sede viene improvvisamente smantellata, le carte scompaiono. Ma Baldisseri gli punta il dito contro: «è stato Vangioni a organizzare il rapimento, avremmo dovuto estorcere dieci, quindici milioni ai Lavorini e quindi uccidere Ermanno», con lo scopo di finanziare alcune attività eversive. Ed è questa la verità consegnata alla storia, nel 1977, con una sentenza definitiva di condanna: 8 anni e sei mesi a Baldisseri, 11 anni e 10 mesi a della Latta, 9 anni a Vangioni, poi tutti condonati di due anni. Ma nessuno, a parte Nozza, scrive più nulla. «Finché c’erano da raccontare i particolari morbosi, fin quando il movente pareva sessuale, tutti a scrivere, a commentare, a stigmatizzare – scrive – Ma quando venne fuori la squadraccia del Fronte, l’interesse si sgonfiò».
· Il caso Ermanno Lavorini, 50 anni fa.
Il caso Ermanno Lavorini, 50 anni fa. E l’Italia scoprì i bimbi rubati. Viareggio, il piccolo Ermanno rapito e ucciso: due piste, un giallo mai chiarito, scrive Mario Lancisi il 29 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". «Caro diario, oggi è iniziato il 1969. Auguro a te che sei come un amico confidenziale un anno fortunato e pieno di gioie e di conquiste”. Così scriveva Ermanno Lavorini, il primo gennaio. Trenta giorni dopo, un venerdì, vigilia di Carnevale, Viareggio in festa con i carri allegorici e le maschere, il ragazzo esce di casa e non vi farà più ritorno. «C’ero quando son cresciuto/ Zorro Blek e Braccobaldo / Belfagor e Carosello / ed hanno ucciso Lavorini / e dopo niente è stato come prima», canta Ligabue. Proprio così. Il delitto del dodicenne viareggino (era nato il 23 marzo 1956), figlio di un ricco commerciante di tessuti, il primo rapimento di bambino nel nostro Paese, segna un’epoca. Un mese prima di quel 31 gennaio, sempre in Versilia, ci fu l’assalto alla Bussola, dove fu colpito da un proiettile il pisano Soriano Ceccanti, e l’anno si chiuderà, il 12 dicembre, con la strage di piazza Fontana, a Milano, 17 morti. L’Italia entra nel tunnel oscuro e violento della strategia della tensione e del terrorismo. Il caso Lavorini rivela l’anima nera di Viareggio e della Versilia. Nera in quanto sdoganò nelle case degli italiani i balletti verdi, l’omosessualità dei ragazzi di vita, il sesso proibito e le perversioni notturne della pineta di Ponente. E nera nell’accezione politica dell’estrema destra che, assieme al terrorismo rosso, insanguinerà l’Italia con attentati e stragi. Non a caso nel 1989 due giovani cronisti del Tirreno, Roberto Bernabò e Corrado Benzio, raccontarono per la prima volta il caso Lavorini come L’infanzia delle stragi. Tutto comincia alle 14,30 del 31 gennaio del 1969 quando Ermanno inforca la sua bici, una Super Aquila rossa fiammante e se ne va con gli amici. «Torna presto», si raccomanda mamma Lucia, preoccupata che il ragazzo facesse i compiti di scuola. Ermanno frequenta la seconda media, è ripetente e la pagella non è granché. I Lavorini avevano un negozio di tessuti, nella piazza principale di Viareggio, di fronte alla casa in cui era nato lo scrittore Mario Tobino, e quando tirano su la saracinesca per l’apertura pomeridiana, Ermanno non è ancora tornato. La mamma comincia allora a preoccuparsi. Ansia, agitazione, telefonate agli amici: «Per caso avete visto Ermanno?». Nessuno lo aveva visto. Poi alle 17,40, lo squillo del telefono. «Pronto, chi è?», domanda trafelata Marinella, la sorella maggiore del ragazzo. Una voce anonima avverte che Ermanno tornerà dopo cena. Sospiro di sollievo. Poi il gelo: «Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia». Ed è subito notte nel cuore dei Lavorini: il piccolo Ermanno è stato rapito. Come ha scritto Mario Spezi (in Undici delitti in attesa di verità, Mursia editore) due sono gli aspetti della tragica vicenda di Ermanno: il «giallo» e il «caso Lavorini». Il «giallo» va dal rapimento e dall’uccisione del ragazzo al 9 marzo, una domenica, quando il suo cadavere viene trovato sotto venti centimetri di sabbia a Marina di Vecchiano e si conclude il 19 aprile, giorno in cui un amico sedicenne del bambino, Marco Baldisseri, si decide a confessare. Poi c’è il «caso Lavorini». Che comincia proprio quando finisce il «giallo» e «che in un turbine di notizie, di voci, di maldicenze travolse Viareggio provocando altre due vittime, Rodolfo Meciani, suicida in cella, e Giuseppe Zacconi, figlio del grande attore Ermete, morto di crepacuore», scrive Spezi. Nel mirino anche la politica. Baldisseri e soci coinvolgono nell’inchiesta anche il vicesindaco socialista Renato Berchielli e il presidente dell’azienda di soggiorno Ferruccio Martinotti, che nei mesi precedenti aveva annunciato: «Potremmo municipalizzare tutti i bagni». Meciani è un ricco commerciante con la fama di playboy ma in realtà è un omosessuale che frequenta la pineta di Ponente e con il quale Baldisseri si è appartato diverse volte, come racconta Sandro Provvisionato in Il caso Lavorini. Il tragico rapimento che sconvolse l’Italia, edito da Chiarelettere, in questi giorni in libreria. Le indagini puntano sulla pista sessuale sul filo dell’ipotesi investigativa che il ragazzo sarebbe stato abusato e violentato da una banda di gay e pedofili. In realtà sul corpo di Ermanno non furono riscontrate violenze e abusi sessuali. Sotto accusa, oltre a Baldisseri, anche il ventenne Rodolfo Della Latta, che fa il necroforo ed è vicino al Msi e Pietro Vangioni, 16 anni, capo del gruppo versiliese dei giovani monarchici. Il caso Lavorini fa il giro del mondo e Viareggio con la sua pineta di Ponente, dove la sera si svolgono traffici sessuali tra pedofili e omosessuali («gli invertiti» , i «capovolti», come venivano allora chiamati), diventa la città dei pervertiti e della caccia alle streghe contro i gay. L’11 ottobre 1970 si gioca sotto l’acqua il derby Lucchese-Viareggio e i tifosi lucchesi si riparano con ombrelli in cui avevano attaccato dei finocchi. «Viareggio dalle cartoline degli anni ruggenti del divertimento e del turismo diventa a livello di immagine pubblica la città della perversione», osserva Niclo Vitelli, ex dirigente del Pci versiliese e autore del libro Un bel dì vedremo su Giacomo Puccini. Grazie ad un giornalista del Giorno Marco Nozza, amico di Montanelli, che non crede da subito alla pista sessuale, e dopo tanti depistaggi l’indagine si indirizza gradualmente verso la pista politica. Secondo l’accusa il gruppo rapì Lavorini per raccogliere soldi per finanziare gli attentati dell’estrema destra. È dopo gli incidenti della Bussola che il gruppo si organizza. Per rispondere ai gruppi dell’estrema sinistra. La Versilia diventa così un crocevia dell’estremismo di destra. Tra il processo di primo grado che si svolge il 6 marzo 1975 (alla vigilia vengono esplose 9 bombe carta) e quello della Cassazione, 13 maggio 1977, non cambiano gli imputati ma le pene. Il terzetto viene condannato per rapimento a scopo di estorsione e omicidio preterintenzionale: 8 anni e 6 mesi per Baldisseri per aver colpito Ermanno, provocandone la morte, 11 anni e 10 mesi a Della Latta per averlo soffocato e seppellito, e 9 a Vangioni. Questa la verità processuale stabilita dalla Cassazione nel 1977 su cui, a distanza di cinquant’anni, gravano dubbi, ombre. Ad esempio come morì Ermanno? A causa di un fortissimo pugno che gli avrebbe spappolato il cervello, come ha certificato il medico legale? O per asfissia, sostiene un’altra perizia? E quale fu il disegno complessivo del rapimento? Dietro i tre giovani condannati c’era qualche regista adulto e occulto? Dopo mezzo secolo, mentre Viareggio rimuove questa sua antica ferita, quello di Lavorini sembra somigliare a casi non conclusi, che restano aperti.
· Omicidio Mino Pecorelli, 40 anni dopo.
Italo Carmignani e Alvaro Fiorucci per il Messaggero il 5 dicembre 2019. Il giallo nel giallo pesca nel passato e racconta il presente: i quattro proiettili che il 20 marzo 1979 uccisero a Roma il giornalista Mino Pecorelli, depositati nel magazzino dei corpi di reato del Tribunale di Perugia, non ci sono più. Li cercano da mesi addetti e agenti della Digos. Ma niente, sono introvabili. Li ha richiesti la Procura della Repubblica di Roma, ufficio del procuratore aggiunto Francesco Caporale, per confrontarli con le caratteristiche di una pistola sequestrata a Monza nel 1995 e valutarne quindi l' eventuale compatibilità. Il motivo? La consulenza balistica è stata decisa dopo la recente riapertura dell' inchiesta sull' agguato di via Orazio e che ora, dunque, rischia di saltare. E il cold case avrebbe un interrogativo in più e una risposta in meno.
LE SEDI. Ma che c'entra Perugia con la pistola di Monza? Le pallottole Gevelot calibro 7,65 sono arrivate negli anni '90 con il trasferimento a Perugia del fascicolo delle indagini sull' assassinio del direttore di OP. Il processo si tenne nel carcere di Capanne a Perugia adattato ad aula bunker. Sul banco degli imputati, il sette volte presidente del consiglio dei ministri Giulio Andreotti, l' ex senatore Claudio Vitalone (è per il coinvolgimento del magistrato romano che, per competenza, il procedimento arrivò a Perugia), i mafiosi Gaetano Badalamenti, Pippo Calò e Angelino La Barbera e l' ex Nar della banda della Magliana, Massino Carminati. Tutti assolti con formula piena e sentenza definitiva. Fine? No, dopo quarant' anni su input di un' inchiesta giornalistica di Raffaella Fanelli e con la formalizzazione di una richiesta di Rosita Pecorelli, sorella del giornalista ucciso, assistita dall' avvocato Walter Biscotti, nel 2019 l' inchiesta è stata riaperta dalla magistratura capitolina. Sotto la lente degli inquirenti il sequestro di una pistola calibro 7,65 e di altre armi avvenuto a Cologno Monzese nel 1995. Nell' operazione rimase coinvolto l' ex Nar, Domenico Magnetta amico e sodale di Massimo Carminati. Del sequestro del 1995 non furono informati i pm perugini. Di Domenico Magnetta (ora speaker di una radio) ha però parlato l' ex terrorista di Avanguardia Nazionale Vincenzo Vinciguerra. Nel 1992 ai magistrati di Venezia ha raccontato di aver saputo in carcere da Adriano Thilger, esponente della destra eversiva, che l' arma del delitto Pecorelli era stata consegnata, appunto a Magnetta. I due lo smentiranno. Spiega Vincenzo Vinciguerra il primo luglio 1992: «Confermo le dichiarazioni che ho reso al pm Guido Salvini circa la confidenza di Adriano Tilgher relativa al possesso di Domenico Magnetta di un' arma che, a suo dire, era stata utilizzata per commettere l' omicidio Pecorelli. Prendo atto che dalla consulenza tecnicasulle armi consegnate dal Magnetta (non sono quelle sequestrate a Monza, ma si riferisce alla consegna spontanea del 1983, ndr), non vi è quella utilizzata per l' omicidio. Non mi stupisce. Ritengo infatti che Magnetta abbia utilizzato l' informazione come strumento di pressione e che poi sia stato convinto a non consegnare l' arma». Tilgher e Domenico Magnetta davanti ai pm Fausto Cardella e Alessandro Cannevale un anno dopo continuano a negare. Dice Tilgher: «Non ho mai parlato con Vinciguerra di un' arma in possesso di Magnetta. Questa circostanza è per me del tutto nuova. Ho appreso della consegna delle armi di Magnetta nell' ambito del processo nel quale eravamo coimputati». E Magnetta: «Per quello che concerne le dichiarazioni di Vinciguerra, delle quali mi viene data lettura, posso dire che non corrispondono a verità: non ho mai posseduto un'arma». Poi però c' è stato il sequestro di Cologno Monzese con una 7,65 nel piccolo arsenale nascosto in una Dyane. E il confronto tra pistola e proiettili. Per ora impossibile.
MINO PECORELLI ERA MIO PADRE. Da I Lunatici Radio2 il 14 settembre 2019. Andrea Pecorelli, figlio del giornalista Mino, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Pecorelli ha parlato del padre, assassinato il 20 marzo del 1979: "Chi era mio padre? E' complesso rispondere. Un giornalista d'assalto. Alla costante ricerca della notizia. Io ho ricordi molto sfocati, l'ho perso quando avevo 15 anni. Un giornalista che ha dato fastidio al mondo perché non aveva bersagli ben definiti, alla costante ricerca di quello che dovrebbe essere il lavoro del giornalista, raccontare a noi poveri comuni mortali cosa succede nelle stanze dei bottoni. Custodiva i segreti potenti? Sì, ma discuto sul 'custodiva', perché li ha sempre messi per iscritto. Sicuramente mio padre ha avuto la possibilità di sapere tante cose che oggi ancora non sappiamo e che probabilmente forse non sapremo mai. Quegli anni nascondono ancora oggi mille lati oscuri che non so fino a che punto riusciremo a rendere solari". Ci sono novità sulle indagini legate alla morte di Mino Pecorelli: "Voglio conoscere la verità sull'assassinio del mio papà. Magari anche una verità che deve restare segreta, magari all'interno di un ufficio destinato a scomparire dopo due ore. Voglio solo la verità non mi interessa nient'altro. Tanto nessuno può ridarmi mio padre, nessuno può ridarmi i momenti in cui mi sarebbe servito averlo accanto a me. Mio padre ha scritto tanto e di tanti. In molti potevano avercela con lui. Vorrei solo sapere il motivo del suo assassinio. Potremmo sorprenderci nello scoprire una verità lontana anni luce da quella che immaginiamo. Quello che fino ad oggi ha fatto la magistratura mi ha lasciato perplesso. Spero che il pm che ha in mano questa nuova indagine sia pronto ad andare fino in fondo. Qualcuno ci dica la verità, magari in forma in privata. Ma ce la dica".
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 ottobre 2019. Caro Dago, e siccome nulla accade mai a caso m’è successo di leggere uno dopo l’altro due libri che attengono entrambi a un episodio dei più drammatici della nostra storia civile: l’agguato mortale del maggio 1972 al commissario Luigi Calabresi, e dunque alla bomba esplosa nel dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e dunque alla morte del ferroviere anarchico Luigi Pinelli, precipitato pochi giorni dopo dal quarto piano della questura milanese di via Fatebenefratelli. I due libri sono La bomba di Enrico Deaglio, appena pubblicato dalla Feltrinelli, e La mattina dopo di Mario Calabresi, fresco di stampa da Mondadori. Deaglio è stato un valoroso direttore del quotidiano “Lotta continua” e un sodale del terzetto di militanti di Lc condannati in via definitiva per l’assassinio del commissario Calabresi. Ex direttore de “La Stampa” e di “Repubblica”, Mario Calabresi aveva due anni alla mattina del 17 maggio 1972 quando bussarono alla porta di casa e dissero a sua madre Gemma (che aveva allora 25 anni) che suo marito era stato appena assassinato innanzi a casa loro. In realtà è ben diverso il collegamento dei due libri al dramma fondamentale di cui ho detto. Deaglio studia a fondo il che e il come della “bomba” del 1969, documenta molto bene le sporcaccionerie e i depistaggi che poliziotti e magistrati e uomini politici fecero ad addossare agli anarchici – Pietro Valpreda e Pinelli – una bomba che era spudoratamente di marca neonazista. Per arrivare alla famosa stanza in cui ebbe luogo l’ultimo interrogatorio di Pinelli, una stanzuccia in cui c’erano cinque uomini e anzi qualcuno in più perché erano venuti da Roma degli specialisti degli Affari Riservati con l’ida di orientare ulteriormente le indagini verso la pista “anarchica”. Qualcuno di loro c’era nella stanza in cui Pinelli ha appena firmato il verbale dopo tre giorni di soggiorno in questura in cui ha fumato tantissimo e mangiato pochissimo, si alza, mette in bocca l’ennesima sigaretta, apre la serranda della finestra la cui ringhierina è alta 92 centimetri, si appoggia alla ringhierina, ha “un malore attivo” che lo fa cadere in avanti (e benché lui sia un uomo di basta statura la cui cintura è dieci centimetri più bassa della ringhierina) sbattere per quattro piani, piombare per terra, morire poco dopo all’ospedale, e quei pagliacci al vertice della polizia milanese a dire che s’era slanciato giù gridando “Viva l’anarchia!”. Vi ho raccontato le mosse di Pinelli per come le ha ricostruite dopo un’inchiesta durata quattro anni un magistrato milanese adamantino che sarà in prima linea ai tempi di Tangentopoli, un uomo che votava comunista o forse era addirittura un iscritto al Pci. Quattro anni di analisi di tutto quello che era successo nella stanza, della traiettoria della caduta, dei segni sul corpo di Pinelli. La caduta era stata perfettamente verticale, tanto che la sigaretta era lì accanto al corpo; sul corpo non c’era il benché minimo segno di colpi o percosse o di dosi fatte ingurgitare a forza da qualcuno che lo volesse stordire. Nulla di nulla. Dacché, e per esclusione, l’adamantino D’Ambrosio giungeva alla conclusione che l’unica spiegazione possibile della caduta fosse un malore, un mancamento, uno svenimento. Pur essendo nella materia molto meno autorevole di D’Ambrosio, Deaglio spregia la sentenza del magistrato milanese (il quale è morto e non può difendersi). Lui che la sa lunga (l’impudenza intellettuale di Deaglio – che autoreputa sé e i suoi compagni dei Professionisti del Bene – è pari al suo talento di giornalista e scrittore) è arcisicuro che le cose siano andate diversamente, che non so chi dei poliziotti abbia sferrato colpi di karatè, abbia colpito non sappiamo dove il povero e innocentissimo Pinelli e beninteso dopo averlo torturato ben bene. Da cui la posizione penalmente e moralmente ambigua del povero Calabresi, di cui ogni volta che Deaglio ne pronuncia il nome è come se si nettasse la bocca. Ne discende pari pari, nella sua ricostruzione di fatti e personaggi, che l’assassinio di Calabresi figurati se poteva essere opera di gente di Lotta continua come asseriscono le sentenze dei tribunali. Ne discende che “il pentito“ Leonardo Marino altri non era che un burattino in mano a quegli stessi che nel 1969 volevano addossare la colpa della “bomba” agli anarchici. E comunque ognuno ha il diritto di scrivere i fantaromanzi che vuole. Tutt’altra cosa, tutt’altro stile, tutt’altra discrezione nelle tre o quattro pagine che nel libro di Calabresi si riferisce al chi e al come della morte di suo padre. C’è che a Parigi risiede tutt’ora quello che in Italia è stato condannato come l’organizzatore dell’agguato a Calabresi padre, Giorgio Pietrostefani, che oggi ha 76 anni e che versa in cattive condizioni di salute. Calabresi figlio fa di tutto per poterlo incontrare a Parigi, e ci riesce. Si danno appuntamento a rue Mouffetard, lui ci va, si trova di fronte un uomo che pesa 20 chili in meno rispetto ai temi del suo furore politico e ideologico e che non ha più nulla in comune con quello che era nel maggio 1972. Si guardano, si parlano, Calabresi non riferisce una sola virgola di quello che si sono detti, mi immagino gli sguardi, non so se alla fine del colloquio si siano stretti la mano. Tre pagine superbe che fanno da schiaffo in volto agli assassini del maggio 1972.
OMICIDIO PECORELLI, 40 ANNI DOPO. Da Radiocusanocampus del 13 marzo 2019. La procura di Roma ha avviato una nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo 1979. A chiedere la riapertura era stata alcune settimane fa la sorella di Pecorelli. I magistrati romani hanno affidato agli uomini della Digos l'incarico di svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l'istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 17 gennaio scorso. I nuovi sviluppi sono stati approfonditi a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus. Intervistato da Fabio Camillacci, l’avvocato Valter Biscotti, legale di Rosita Pecorelli, ha detto: “Io penso che a breve potremmo avere delle risposte importanti. Il nuovo filone d’indagine poggia sulle dichiarazioni dell’estremista di destra Vincenzo Vinciguerra, uno dei protagonisti degli anni di piombo tra le file di Avanguardia Nazionale. Vinciguerra ha sostenuto che nel 1981 mentre era detenuto a Rebibbia, ascoltò una conversazione tra due compagni di cella, sempre legati ad Avanguardia Nazionale, con un altro sodale Domenico Magnetta. Quest’ultimo si lamentava dicendo che se non lo aiutavano a uscire di galera lui avrebbe rivelato chi gli aveva consegnato la pistola che uccise Mino Pecorelli. Ricostruendo dati e verbali pregressi legati al precedente processo sul delitto che si tenne a Perugia e finito con l’assoluzione di tutti gli imputati, si è arrivati alla scoperta di un verbale di sequestro di alcune armi avvenuto nel 1995 a Monza a carico proprio del Magnetta. Tra queste armi –ha aggiunto l’avvocato Biscotti- c’è una Beretta calibro 7.65, cioè lo stesso modello di pistola che sparò a Pecorelli; e ci sono anche dei silenziatori artigianali. Ricordo infatti che il fondatore di OP fu ucciso utilizzando un silenziatore. Pertanto, adesso dobbiamo solo aspettare l’esito degli accertamenti su quella pistola che si trova ai corpi di reato di Monza e sui proiettili che sono ai corpi di reato del processo di Perugia. Attendiamo dunque l’esito della comparazione e dell’indagine tecnico-scientifica da noi richiesta per valutare se esiste una compatibilità tra i proiettili e la pistola sequestrata a Monza. A breve avremo le prime risposte. Mino Pecorelli era un grande giornalista che spaventava molti potenti: se si sfogliano gli ultimi numeri del suo settimanale ‘Osservatorio Politico’ infatti si trovano almeno 20 possibili moventi dell’omicidio. Purtroppo le prime indagini sul delitto furono fatte male, in modo approssimativo e tralasciando tanti indizi importanti. Gli inquirenti si sono concentrati troppo sul possibile movente invece di indagare materialmente sull’omicidio. E comunque, a proposito del movente: non è un caso che il primo numero di ‘OP’ in versione settimanale e non più come Agenzia stampa, uscì il 28 marzo 1978, ovvero in pieno caso Moro. Un anno dopo Pecorelli fu ucciso. Una strana coincidenza che fa pensare, e rafforza il fatto che tra i moventi del delitto c’è anche quello che Pecorelli possa essere venuto a conoscenza di qualcosa di scottante a proposito dell’uccisione dello statista democristiano. Ma non trascurerei lo Scandalo Petroli –ha concluso l’avvocato Biscotti- del quale Pecorelli scriveva prima che investisse i vertici della Guardia di Finanza. Aveva scritto una serie di articoli dal titolo ‘Petroli e manette’ facendo capire di essere in possesso di un dossier importante sul traffico illecito di petrolio. D’altronde, da Enrico Mattei a Pasolini la storia ci insegna che chi tocca il petrolio muore”.
Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine. I pm della capitale hanno affidato alla Digos l'incarico di svolgere nuovi accertamenti. La richiesta di riapertura era stata avanzata dalla sorella del giornalista, ucciso quasi 40 anni fa, il 20 marzo del 1979, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La procura di Roma ha avviato una nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo 1979. A chiedere la riapertura era stata alcune settimane fa la sorella di Pecorelli. I magistrati romani hanno affidato agli uomini della Digos l'incarico di svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l'istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 17 gennaio scorso. Il legale della donna, Valter Biscotti, chiedeva ai pm di avviare nuovi accertamenti balistici su alcune armi che furono sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 765 e di quattro silenziatori artigianali. Nella richiesta finita all'attenzione dei pm si fa riferimento anche ad una dichiarazione che l'estremista di destra Vincenzo Vinciguerra fece nel 1992 all'allora giudice istruttore Guido Salvini. Vinciguerra sosteneva di aver sentito un dialogo in carcere tra due militanti di estrema destra in cui si affermava che l'uomo poi arrestato tre anni dopo a Monza aveva in custodia la pistola usata per uccidere il giornalista. Il caso Pecorelli, dal punto di vista processuale, è chiuso dal 30 ottobre 2003, quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il sette volte presidente del consiglio fu assolto per non aver commesso il fatto assieme agli altri presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a due imputati accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l'assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna che la Suprema Corte spazzò via annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado.
«Tirate fuori quella pistola: voglio la verità su Mino». La sorella Rosita Pecorelli, 84 anni, chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio del giornalista, scrive Simona Musco il 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «C’è un appiglio ed io mi aggrappo». Rosita Pecorelli sta lasciando Piazzale Clodio assieme all’avvocato Valter Biscotti quando, con una foto del fratello tra le mani, pronuncia queste parole. Quaranta anni dopo l’omicidio di suo fratello Mino, giornalista scomodo ucciso in circostanze mai chiarite il 20 marzo 1979, i due si sono presentati in Procura a Roma, chiedendo la riapertura del caso. Un’istanza presentata sulla base di una vecchia dichiarazione di Vincenzo Vinciguerra, ex membro dei movimenti neo- fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo – all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano del 1972 – che nel 1992 fece il nome di colui che, a suo dire, conservava l’arma di quel delitto: l’avanguardista Domenico Magnetta. Quella dichiarazione nell’immediatezza, non portò a nulla. Ma il ritrovamento di alcune armi in suo possesso, tre anni dopo, potrebbe ora portare ad una svolta nella vicenda. Quel verbale è stato rispolverato dalla giornalista Raffaella Fanelli il 5 dicembre scorso ed è proprio da un suo articolo che Rosita Pecorelli ha tratto spunto per chiedere la riapertura del caso. Si tratta di dichiarazioni risalenti al 27 marzo 1992: Vinciguerra parla di una pistola, una calibro 7.65, l’arma usata per uccidere il giornalista. «Il Tilgher – si legge nel verbale – mi disse che Magnetta (vicino a Massimo Carminati, l’ex Nar processato e assolto per l’omicidio Pecorelli, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato ad uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli». Un verbale conservato in un fascicolo sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, raccolto dal magistrato Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo. Vinciguerra fa riferimento a due avanguardisti con cui parla in carcere, tra il 10 e il 20 novembre del 1982, a Rebibbia. Si tratta di Adriano Tilgher e Silvano Falabella, con i quali parla dell’arresto di Magnetta e Carminati, avvenuto nel 1981. Si trovavano al valico del Gaggiolo quando furono fermati da una pattuglia, stavano tentando la fuga in Svizzera. L’arresto causò a Carminati la ferita che lo portò a perdere l’occhio sinistro. Magnetta, dice dunque Vinciguerra a Salvini, aveva l’arma usata per uccidere Pecorelli, una calibro 7.65 col quale venne colpito quattro volte, tre alla schiena e uno in faccia. Per ammazzarlo vennero usati proiettili marca Gevelot, molto rari sul mercato e dello stesso tipo di quelli sequestrati nell’arsenale della Banda della Magliana – alla quale Carminati era affiliato – nei sotterranei del Ministero della Sanità. Vinciguerra, conferma Salvini a Fanelli, è credibile. E quel verbale, spiega oggi l’avvocato Biscotti al Dubbio, «venne trasmesso subito a tutti i procuratori che si occupavano di terrorismo in Italia in quel periodo. Tra questi c’era Giovanni Salvi, al quale nel luglio del 1992 Vinciguerra confermò quella versione. Tutte le comparazioni fatte dalla Procura sulle armi, però, non portarono alcun risultato». Ma la storia non si ferma qui. E’ quanto accade tre anni dopo che oggi porta al deposito della richiesta di riapertura delle indagini. A Magnetta, infatti, il 4 aprile 1995 vengono sequestrate delle armi, ritrovate in un doppiofondo nel bagagliaio dell’auto: tra queste anche una semiautomatica calibro 7.65 Beretta con matricola parzialmente punzonata, una canna per pistola calibro 7.65 priva di numero di matricola e quattro silenziatori di fabbricazione artigianale. Su quelle armi, afferma Biscotti, «sicuramente non è stata fatta alcuna analisi. Quello che chiediamo noi – aggiunge – è che si vada ad individuare quella pistola e che venga fatto un confronto con proiettili agli atti del processo, che potrebbero ancora trovarsi nell’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Monza. Una richiesta che la signora Pecorelli ha voluto presentare perché, finché avrà fiato in gola, vuole cercare di capire chi ha ucciso suo fratello. Se la comparazione fosse positiva allora questo signore dovrà dire chi gli ha dato quella pistola». Nell’articolo pubblicato dalla giornalista Fanelli sul sito Estreme conseguenze è proprio Guido Salvini a sostenere che, con molta probabilità, quel confronto balistico oggi chiesto dalla signora Pecorelli non è mai stato eseguito. «Non sapevo del sequestro di quest’arma – conferma a Fanelli – se fosse stata fatta una perizia lo saprei. Se non è stata fatta sarebbe interessante farla perché certamente c’è una corrispondenza». «Mio fratello sapeva troppe cose, era un pericolo per tutti e bisognava farlo fuori. Ho combattuto 40 anni per sapere la verità sull’omicidio di Mino e non mi arrenderò mai. Mi aspetto di avere giustizia – spiega Rosita Pecorelli, oggi 84enne – Mio fratello era tutto per me, mi ha fatto da padre, fratello e amico. Oggi – conclude – ci sono elementi per cui pensiamo ci sia qualcosa di nuovo che possa aiutare a raggiungere la verità».
· Antonio Logli e l’omicidio di Roberta Ragusa.
Delitto Ragusa, Antonio Logli uccise la moglie per movente economico. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. La donna scomparve la notte tra il 13 ed il 14 gennaio 2012. Il marito è stato condannato a 20 anni. Caso Roberta Ragusa, la condanna del marito Antonio Logli a 20 anni di carcere per omicidio volontario si fonda su argomenti solidi, pur in assenza del cadavere, mai ritrovato. A quasi otto anni dal femminicidio dell’imprenditrice di Gello, in provincia di Pisa - caso che ha commosso l’Italia e provocato polemiche per il ritardo nelle indagini iniziali - la I sezione della Cassazione, con la pubblicazione delle motivazioni della sentenza dello scorso luglio, giunta dopo due verdetti-fotocopia in primo e secondo grado, mette un punto definitivo sulla vicenda. Secondo i giudici della Suprema corte, la condanna del marito è fondata sia sul piano del movente sia su quello della ricostruzione dell’accaduto, possibile in basse all’enorme mole di indizi emersi . «La Ragusa - fa notare la Cassazione - aveva disponibilità di denaro, derivante dall’attività di gestione dell’autoscuola. Costituisce un dato certo che il Logli, nonostante la lunga relazione con la Calzolaio, non avesse mai inteso separarsi». Confermato insomma lo scenario delle liti legate, oltre che alla presenza ingombrante dell’amante (ed ex baby sitter) Sara Calzolaio, a cospicui interessi economici. La vittima era infatti «intestataria di quote della società» e «gestiva» l’attività di famiglia, «sicché in caso di separazione avrebbero dovuto trovare regolamentazione i suoi diritti di socia e di soggetto coinvolto nella gestione dell’impresa». Nelle 50 pagine di motivazioni, la I sezione della Cassazione ripercorre anche, secondo per secondo, quanto accaduto quella notte in casa Logli, confermando i tanti elementi già messi a fuoco in precedenza, ritenuti «oggettivamente dimostrati». «Egli (Logli, ndr) la notte tra il 13 ed il 14 gennaio 2012 mentre la moglie stava compiendo ordinarie attività domestiche prima di coricarsi, avendo già indossato l’abbigliamento da notte descritto dalla figlia Alessia, si era ritirato in soffitta ed era stato impegnato in tre conversazioni con la Calzolaio, l’ultima delle quali, iniziata alle ore 00.17, si era interrotta bruscamente...». Eccolo, il momento in cui per i giudici accade qualcosa di grave, una lite, una minaccia, o chissà cos’altro: in ogni caso, la scintilla decisiva. «Costei (la Ragusa, ndr) aveva improvvisamente abbandonato l’abitazione senza indossare altri indumenti, ne prelevare oggetti di qualsiasi tipo, per l’unica spiegazione possibile e ragionevole che fosse stata indotta a ciò da una forte emozione e da un forte timore per la propria incolumità dopo avere avuto la certezza, spiandolo, che il marito avesse ancora una relazione con un’amante e che costei fosse proprio l’amica e collaboratrice Sara Calzolaio...». A questo punto, la sequenza diventa drammatica. «Il Logli, accortosi della fuga della moglie per i campi, senza essersi coricato a letto (come da lui sostenuto, ndr), era uscito a bordo della sua Ford Escort e si era posizionato lungo la via Gigli in luogo in cui aveva ritenuto di poterla intercettare, ove era però stato visto e riconosciuto dai coniugi Gozi-Gombi (i vicini e testimoni dell’accusa, ndr) nonostante il tentativo di nascondere il volto con la mano. Consapevole di ciò aveva fatto rientro a casa, distante da quel punto appena 700 mt., ove aveva lasciato in tutta fretta l’auto sul vialetto e prelevato l’utilitaria Citroen C 3 della moglie e si era recato nuovamente in via Gigli, ove aveva effettivamente incontrato la Ragusa, tanto che il cane molecolare aveva fiutato traccia della sua presenza...». Siamo all’epilogo, scrivono i giudici, confermando le sentenze precedenti: «Logli aveva litigato con lei e l’aveva costretta a forza a salire sull’auto, venendo visto e sentito dal Gozi, mentre la Gombi aveva percepito le grida dalla sua abitazione senza poter comprendere da chi provenissero. Abbandonato il luogo in tutta fretta, l’aveva quindi condotta in altro luogo rimasto ignoto per poi sopprimerla con modalità anch’esse non potutesi accertare e farne sparire definitivamente, almeno sino ad ora, il corpo...».
La figlia di Roberta Ragusa, il tatuaggio e un messaggio: «Mamma, sei tutto per me». Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. La 19enne Alessia fino alla scorsa estate aveva difeso il padre Antonio. Ora, per la prima volta, esterna i propri sentimenti. Una figlia, una mamma scomparsa, il papà accusato di omicidio. E portato via da casa con un ordine di arresto. Per essere trasferito in carcere. Tra i tanti risvolti della tragedia di Roberta Ragusa, l’imprenditrice di Gello (Pisa) svanita nel nulla il 13 gennaio 2012 e mai più ritrovata, ce n’è uno che ha il volto di una ragazza bionda, dagli occhi grandi e scuri: Alessia, appunto, la secondogenita oggi diciannovenne di Roberta e Antonio Logli. Aveva 11 anni, la bambina, quando a lei e al fratello Daniele, di tre anni più grande, crollò il mondo in testa: la mamma che viveva per loro, premurosa, sempre disponibile, finì sui giornali, in tv, nei programmi sui fattacci di sangue, ma intanto a casa non tornava. Uno choc. Una sofferenza indicibile. Davanti alla quale soprattutto la piccolina rimase muta, chiusa in se stessa. Fino ad oggi. Per la prima volta, dopo la condanna definitiva del padre (lo scorso luglio, in Cassazione) a 20 anni di carcere, Alessia Logli ha infatti cominciato a esternare i propri sentimenti. E l’ha fatto sui social, come normale tra ragazzi. Con un doppio messaggio pubblico: il primo è consistito nel mostrare la foto del tatuaggio con la scritta «Roberta» e un cuoricino che si è fatto disegnare sul fianco sinistro, mentre il secondo è condensato nel testo postato in basso, di poche righe. Parole commoventi: «Una mamma ti insegna a vivere; a rialzarti quando cadi; a lottare con tutte le tue forze in ciò in cui credi. Ma soprattutto una mamma ti ama incondizionatamente, un amore che dura per sempre, un po’ come l’inchiostro di un tatuaggio impresso sulla pelle. A te, mamma, che eri, sei e sarai sempre parte di me». Dopo chissà quante lacrime, la figlia di Roberta, rimasta con il fratello e la nuova compagna del padre (l’ex babysitter Sara Calzolaio) nella vecchia casa di famiglia, ha quindi rotto gli indugi. Il legame con il genitore, dalla scorsa estate rinchiuso nel carcere «Le Sughere» di Livorno, si è forse affievolito, se non altro per la lontananza fisica. Ma di certo, in questi mesi, l’amore a lungo compresso per la madre è affiorato, si è imposto come una carezza dolce e insieme come una necessità, inducendola a farsi coraggio, ad aprirsi. Anche a costo di scontentare la figura paterna. Intervenendo alla trasmissione «Quarto grado» la scorsa estate, alla vigilia del verdetto della Cassazione nel quale Logli tanto sperava, sia Alessia sia Daniele lo avevano difeso. «Scatti d’ira del babbo? Nella norma. Non esiste la famiglia del Mulino Bianco - aveva detto la ragazza - . Ci sono delle discussioni, delle incomprensioni, però nulla fuori dal normale. Difetti? E’ un po’ pignolo, spesso un po’ troppo. Io sono più permalosa di lui. Se è vendicativo? No. Io litigo con lui perché sono adolescente e non condivido il suo modo di vedere le cose, come le può vedere un genitore». Poi, rispondendo alla domanda su dove pensava fosse la madre, la ragazza aveva preso posizione anche sull’iter giudiziario quasi concluso: «Io non ho un’idea su cosa possa essere successo. Spero fermamente che stia bene e che non si sia rifatta una vita senza di noi, perché egoisticamente una figlia spera non che la mamma se ne vada a farsi un’altra vita. La verità? Sicuramente non è stata uccisa dal mio babbo: questa è l’unica certezza che ho». In studio c’erano gli avvocati del padre. L’intervista era stata lungamente preparata e concordata. Quale poteva essere lo stato d’animo di Alessia, sotto le luci delle telecamere, con il pubblico pronto ad applaudire o a criticarla, e il pensiero di parlare in diretta a tanta gente davanti alla tv? Facile immaginarlo. Farsi tatuare il nome della mamma e, soprattutto, condividere l’immagine su Instagram è stata forse la sua prima risposta. Un voler dire a tutti: voglio tornare padrona della mia vita e per farlo ho bisogno di ripartire da lei, da chi la vita me l’ha data, e dal mio sentimento più bello.
Il caso Ragusa e la tv che vuole sostituirsi ai tribunali. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. In tema di Giustizia, ancora una volta abbiamo assistito al lungo e duro scontro fra Televisione e Tribunale. «Ha ucciso la moglie e ha distrutto il suo cadavere». Anche per i giudici di Cassazione, Antonio Logli è colpevole. È stato lui ad ammazzare Roberta Ragusa, la madre dei suoi due figli e a occultarne il cadavere mai più ritrovato. L’omicidio sarebbe accaduto dopo un violento litigio perché la donna, che aveva compiuto da poco 45 anni, aveva scoperto una relazione del marito con Sara Calzolaio, un’amica già baby sitter dei figli. La sentenza è stata letta quasi in diretta dallo stuolo di inviati che Gianluigi Nuzzi aveva dispiegato nei «luoghi» che avrebbero dovuto ricostruire la scenografia ideale per l’ultimo round. Quello del Tribunale, non certo quello di Quarto grado (Rete4, mercoledì). L’impressione è che Nuzzi in questi ultimi tempi abbia «lavorato» per la scarcerazione dell’imputato, non credendo, lui e i suoi espertoni, alla colpevolezza di Logli. Tra altri, abbiamo ascoltato i figli della povera signora Ragusa, i quali parlavano della mamma chiamandola Roberta, difendendo da ogni accusa il padre. Abbiamo ascoltato Sara, la baby sitter innamorata che da subito ha preso il posto della signora Ragusa, avendo però la premurosa attenzione di occupare il lato opposto dello stesso letto dove dormiva la donna scomparsa. Il Tribunale ha fatto il suo corso: tre gradi di giudizio. La Televisione andrà avanti all’infinito perché tenere aperti i processi e sì dovere giornalistico ma è anche buona esca per tenere acceso il fuoco dell’audience. E ormai nessuno s’interroga più sulla suggestione di soluzioni alternative a quelle che derivano dall’esame delle prove o sulle distorsioni che questo genere di programmi può generare. Non solo nella sfera emotiva del pubblico ma anche in quella di chi è chiamato a giudicare.
I penalisti: giustizia-show anche sul caso Logli, si guardi alla sobrietà di Cassazione e carabinieri. Valentina Stella il 13 luglio 2019 su Il Dubbio. Alcuni programmi televisivi hanno fornito ai telespettatori una scandalosa esibizione mediatica del dolore. Un nuovo atto del processo mediatico è andato in scena nella serata di mercoledì, in attesa che la Cassazione si pronunciasse sul ricorso di Antonio Logli, condannato per l’omicidio e distruzione del cadavere della moglie Roberta Ragusa. Alcuni programmi televisivi hanno fornito ai telespettatori una scandalosa spettacolarizzazione del dolore, soprattutto dopo che dal Palazzaccio è arrivata la notizia che il ricorso della difesa era stato dichiarato inammissibile e dunque per l’uomo si sarebbero aperte le porte del carcere, dove resterà per 20 anni. Da quel momento è iniziato un vero “reality show” come lo hanno stigmatizzato la Giunta e l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali: vi è stata una “incursione violenta delle telecamere per cogliere il dolore degli anziani genitori di Logli – scrivono i penalisti – e cercare di catturare qualche immagine dall’esterno del B& B nel quale l’ormai condannato si trovava” insieme alla figlia e alla fidanzata. Addirittura una cronista ha registrato il pianto di disperazione della compagna dell’uomo, che era chiusa in una stanza dell’affittacamere, e lo ha mandato dopo poco in diretta. Il conduttore della stessa trasmissione ha applaudito il cameraman che nella tensione di cogliere ogni attimo si focalizzava con la telecamera in testa sulla finestra e sull’ingresso del B& B, pronto ad immortalare il volto del condannato, una volta uscito dal suo rifugio. Un sottufficiale dei Carabinieri ha avuto però l’accortezza di far coprire il viso a Logli e la delusione negli studi televisivi è diventata palese. Nulla su cui eccitarsi in studio. Sì, perché la dis- informazione giudiziaria è caratterizzata in maniera distorta dal sensazionalismo, dal voyeurismo e persino dal pornografico, fanno notare molti studiosi. Ciò “rappresenta – aggiungono dall’UCPI – senza dubbio l’atto finale di una commedia umana, dove il rispetto delle dignità delle persone viene barattato per accrescere l’audience’. Per fortuna che il procuratore generale di Pisa ha imposto, proprio per evitare altra spettacolarizzazione, che Logli venisse tradotto nel carcere di Livorno e non in quello di Pisa, dove erano già appostate altre telecamere per immortalare l’uomo nel suo ultimo attimo oltre il muro della pena. “Noi non conosciamo gli atti – concludono dall’Osservatorio – comprendiamo, in ogni modo, la soddisfazione che le parti civili, convinte della sua responsabilità, possono legittimamente provare. Nessuno però doveva avere diritto di compiacersi del dolore altrui”.
Vittorio Feltri difende Antonio Logli: "Non si può accusare una persona di omicidio se non c'è un cadavere". Libero Quotidiano il 12 Luglio 2019. La condanna definitiva di Antonio Logli era nell' aria. Non ho mai incontrato alcuno, nemmeno nella mia famiglia, disposto a credere alla sua innocenza. Tutti contro di lui, fottendosene allegramente delle prove inesistenti. Il popolo annusa, sente odore di marcio, e chiede la galera, aggiungendo una frase che mi fa schifo riferire: chiudete la cella e buttate via la chiave. Nel presente caso è stato buttato via un elemento cardine del diritto: non si può accusare una persona di omicidio se non c' è un cadavere. Logli è stato massacrato - venti anni di reclusione - sulla base di ipotesi e congetture, talune solide benché fondate su ragionamenti logici eppure non tali da giustificare una punizione. Questa sentenza pertanto soddisfa il popolo, ai sentimenti vendicativi e irrazionali del quale i giudici di tre gradi si sono attenuti. La moglie del detenuto (ormai dietro le sbarre da mercoledì)Roberta Ragusa, era una donna in carne, 80 chili. Logli l' avrebbe stecchita nottetempo e fatta sparire come fosse il mago Silvan, con una abilità diabolica mai dimostrata. Nessuno l' ha visto compiere l' assassinio. Migliaia di ricerche sono state svolte per rintracciare il corpo senza vita della signora in questione. Inutili. Se Logli è l' autore del delitto ed è riuscito magicamente a occultare la sua vittima in modo definitivo, in poche ore notturne, merita l' Oscar e non la prigione. Ripeto: 80 chili di femmina non li nascondi in una scatola di cerini e se gli investigatori non sono stati in grado di recuperarli, o sono incapaci e quindi perseguibili, oppure significa che è vietato decretare la morte di Roberta. Il cui decesso è una eventualità e non una certezza. Ella teoricamente potrebbe essere emigrata in Australia. Vero, è improbabile che sia fuggita abbandonando due figli, tuttavia improbabile non significa impossibile in assenza di verifiche. Se domani tornasse a casa cosa diremmo? Un testimone, dopo mesi dal fattaccio, ha dichiarato di aver visto un uomo e una donna litigare e salire su un' automobile. Erano Logli e la Ragusa? Può darsi, ma chi è all' altezza di certificarlo? Non riesco a capire con quale coscienza si condanni qualcuno giacché sta sulle balle alla gente che ha seguito con passione calcistica troppi programmi televisivi improntati a colpevolismo gratuito. Sono indignato. È inconcepibile che tre processi abbiano avuto la stessa tragica conclusione pur nel vuoto di prove convincenti, di fatti persuasivi e inoppugnabili. Solamente perché il povero Antonio è considerato uno stronzo? Stronzo è lecito dire che egli lo sia, assassino no. Secondo me qui è stata assassinata solo la giustizia.
Omicidio Roberta Ragusa, i fatti, il processo al marito, Antonio Logli. Dalla scomparsa della donna, gennaio 2012, alla Cassazione. Storia di un omicidio e di un caso complesso. Giorgio Sturlese Tosi il 10 luglio 2019 su Panorama. Una campagna buia, una notte nuvolosa e fredda, con 6 gradi sottozero. È questo il contesto in cui Roberta Ragusa, moglie e mamma di San Giuliano Terme in provincia di Pisa, con indosso soltanto una vestaglia rosa e un paio di ciabatte, scompare nel nulla. Era la notte tra il 12 e il 13 gennaio 2012, nemmeno 24 ore prima del naufragio della Costa Concordia. Da allora di questa donna, che tutti hanno descritto come madre premurosa e legatissima ai due figli ancora piccoli, non si è più saputo niente.
Roberta Ragusa, la scomparsa. Fu il marito, Antonio Logli, a dare l’allarme e ad avvertire i carabinieri della scomparsa della moglie. Raccontò di essere andato a letto dopo la mezzanotte e di essersi svegliato alle 7.30 del mattino seguente senza trovarla accanto. Alla domanda degli investigatori se vi fossero dei problemi familiari, Antonio Logli rispose di no, negando anche qualsiasi relazione extraconiugale da parte di entrambi. In realtà aveva appena ordinato di gettare il telefono cellulare e cancellare le mail alla sua amante, Sara Calzolaio, baby sitter di famiglia e impiegata presso la stessa autoscuola di proprietà di Roberta e Antonio.
Il marito, Antonio Logli. I due avevano una relazione da otto anni, all’insaputa di tutti. Ma Roberta aveva cominciato a sospettare qualcosa. Stava più attenta e cercava indizi per capire chi fosse la donna che – era ormai evidente – le stava rubando il marito. Proprio la sera della scomparsa Antonio Logli era in soffitta, nascosto tra gli scatoloni e con la tv accesa ad alto volume. Come ogni notte stava telefonando all’amante, Sara Calzolaio. Una telefonata che termina proprio 18 minuti dopo la mezzanotte. Fu allora che Roberta scoprì la relazione tra i due? Ne scaturì una lite? Antonio Logli ha sempre negato. Le ricerche di Roberta furono attivate da subito, prima con le forze dell’ordine e i volontari, a centinaia, poi con strumenti sempre più sofisticati. Furono setacciati i corsi d’acqua, il lago di Massaciucoli, le grotte dei monti vicini, le campagne e boschi circostanti per un raggio di decine di chilometri. Una ricerca durata mesi che non ha mai dato frutti. Antonio Logli, intanto, venne iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio e soppressione del cadavere della moglie. Il cui posto fu preso, in casa, in famiglia e nel talamo, da Sara Calzolaio.
L'inchiesta. Il 3 dicembre 2014 la Procura di Pisa chiede il rinvio a giudizio del marito di Roberta per omicidio volontario e distruzione di cadavere; il 6 marzo 2015 il Gup Giuseppe Laghezza legge una sentenza di non luogo a procedere, perché il fatto non sussiste, ma il 18 marzo 2016 la Cassazione annulla il proscioglimento di Logli e rinvia per un nuovo giudizio al Tribunale di Pisa. È il 21 dicembre 2016 quando il Gup Elsa Iadaresta condanna con rito abbreviato Logli a 20 anni di carcere per l’omicidio della moglie. Sentenza confermata anche in secondo grado: il 14 maggio 2018 la corte di Appello di Firenze conferma la prima sentenza. Roberta Ragusa fu uccisa da marito per motivi economici al culmine di una relazione resa sempre più difficoltosa dalla infedeltà del marito, sfociata probabilmente in un acceso diverbio quando, la notte del 13 gennaio 2012, Roberta scoprì Antonio al telefono con l’amante.
I testimoni. Il processo fu soltanto indiziario e a influenzare il giudizio della corte sono stati fragili e contraddittori testimoni. Mesi dopo la scomparsa, infatti, un vicino di casa, Loris Gozi, rese una testimonianza che, seppur controversa e modificata nelle sue numerose versioni, ancora oggi è l’arma dell’accusa più pesante nei confronti di Logli. Gozi raccontó che proprio quella notte vide in strada, a distanza, Antonio Logli litigare con una donna e spingerla a forza dentro una macchina, facendole battere la testa. Orari, dettagli e localizzazione del testimone sono stati contestati dalla difesa di Logli, ma la sua testimonianza sarà, anni dopo, definita dalla corte di appello di Firenze “formidabile“. La stessa corte che ha definito inattendibile un’altra testimonianza, di segno diametralmente opposto. È quella del vigile del fuoco Filippo Campisi che, prima con una lettera anonima e poi interrogato dai carabinieri, ha raccontato che la medesima notte, all’incirca allo stesso orario, aveva visto una donna camminare in strada davanti a casa Logli e salire su un grosso fuori strada. La tesi della difesa, e degli stessi familiari di Roberta, figli compresi, è che la donna si sia allontanata volontariamente da sola. Un’ipotesi che la corte d’appello, nelle motivazioni della sentenza di conferma di condanna, smentisce categoricamente: “le ipotesi di un allontanamento volontario, pur astrattamente formulabile, risulta priva di qualsiasi concreto riscontro e estranea all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana”. In sostanza la Corte stabilisce che Roberta, madre affezionatissima ai figli, non li avrebbe mai abbandonati. Né, d’altra parte, nonostante le ricerche durate anni e le numerose segnalazioni di avvistamenti, alcun elemento ha portato a individuare indizi che potessero autorizzare a pensare ad una fuga volontaria. “Fantasioso e illogico - insomma - pensare ad un allontanamento volontario”. Mentre, sempre per la corte d’appello, il marito sarebbe dotato di “capacità criminosa, freddezza nell’ideazione, precisione nell’esecuzione e efficacia nella soppressione del corpo”. Definizioni respinte con forza dal legale dell’elettricista di Gello, Roberto Cavani, ma anche dai figli di Roberta e Antonio, Daniele e Alessia.
La Cassazione. L’ultima parola spetta ora alla corte di Cassazione. Il ricorso di Antonio Logli sarà giudicato dalla prima sezione della suprema corte, presieduta da Adriano Iasillo, lo stesso presidente della corte che, nel 2018, ha confermato l’ergastolo a Massimo Bossetti, l’assassino di Yara Gambirasio.
Roberta Ragusa, la Cassazione conferma 20 anni per il marito Antonio Logli. Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Marco Gasperetti su Corriere.it. «Ha ucciso la moglie e ha distrutto il suo cadavere». Anche per i giudici della Corte di Cassazione Antonio Logli, 56 anni, elettricista di Gello, una frazione alle porte di Pisa, è colpevole. È stato lui, la notte tra il 13 e il 14 gennaio del 2012, ad ammazzare Roberta Ragusa, la madre dei suoi due figli e ad occultarne il cadavere mai più ritrovato. L’omicidio sarebbe accaduto dopo un violento litigio perché la donna, che aveva compiuto da poco 45 anni, aveva scoperto una relazione del marito con Sara Calzolaio, un’amica già babysitter dei figli. I giudici della Suprema Corte hanno dunque confermato la condanna a 20 anni per omicidio volontario e distruzione di cadavere, la stessa pena (dopo un primo proscioglimento annullato dalla Cassazione) alla quale Logli era stato condannato in primo e secondo grado. Così, nella tarda serata di ieri, i carabinieri hanno bussato alla porta del bed and breakfast di Pisa dove Logli con la compagna Sara e la figlia Alessia ha atteso la sentenza, e l’hanno accompagnato nel carcere Don Bosco. I figli, Daniele 22 anni e Alessia 18, anche ieri hanno ripetuto di essere sicuri che loro padre sia innocente. Lo avevano già fatto in tv e con una lettera inviata ai giudici della Cassazione nei quali chiedevano di assolvere Logli perché uomo innocente e padre amorevole. Un omicida che per sette anni ha nascosto la verità, invece, il parere dei giudici di terzo grado. Che hanno accolto pienamente le richieste del procuratore generale e la sua ricostruzione dei fatti. Ovvero che quella notte litigò violentemente con la moglie Roberta, la fece entrare nella sua auto e la uccise. «Qualsiasi ipotesi alternativa sarebbe inverosimile. È certo che quella notte sono stati visti un uomo e una donna litigare e salire in un’auto dello stesso tipo di quella in uso alla famiglia Logli», aveva detto al termine della requisitoria il pg della Cassazione Luigi Birritteri definendo infondati tutti i motivi del ricorso della difesa. Che aveva chiesto l’assoluzione con formula piena di Logli per la non sussistenza del fatto convinti che la moglie si fosse allontanata volontariamente. Però gli avvocati avevano anche chiesto che, in caso di condanna, il reato fosse riqualificato in omicidio preterintenzionale e non più volontario. «Questa richiesta è in subordine, non abbiamo cambiato la linea difensiva», aveva spiegato il legale, Roberto Cavani. La Cassazione ha però ritenuto inammissibile la richiesta. In attesa della pubblicazione delle motivazioni, si può ipotizzare che la Cassazione abbia giudicato attendibile le testimonianze dei testimoni. Soprattutto quelle di Loris Gozi, il giostraio con precedenti penali, che aveva raccontato di aver visto quella notte Logli litigare con una donna, forse la moglie, che poi aveva fatto salire in auto. Quello sul caso Roberta Ragusa è e resta un processo indiziario e probabilmente neppure questa sentenza definitiva non fugherà tutti i dubbi.
Roberta Ragusa, la Cassazione conferma la condanna per Antonio Logli. L'uomo, accusato dell’omicidio e della distruzione del cadavere della moglie, scomparsa nel 2012 dalla sua casa di San Giuliano Terme, era stato condannato sia in primo grado che in appello. L'uomo è stato portato in carcere a Livorno. Carmela Adinolfi il 10 luglio 2019 su La Repubblica. È la notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012. Roberta Ragusa sparisce, in pigiama, dalla sua casa di Gello, frazione del comune di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Le indagini si concentrano fin dalle prime ore sul marito, Antonio Logli. Lui sostiene che la moglie si sia allontanata volontariamente. Ma tutte le ricerche, avviate sin da subito, rimarranno per sempre senza esito. A sette anni da quella scomparsa e dopo diversi gradi di giudizio, in serata la Cassazione ha messo la parola fine a questa vicenda processuale, confermando per Logli la condanna a 20 anni per l'omicidio di Roberta Ragusa e l'occultamento del suo cadavere. La Suprema Corte ha considerato inammissibile il ricorso della difesa dell'imputato e ha reso definitivo il verdetto emesso il 14 maggio 2018 dalla Corte d'Assise d'Appello di Firenze. Logli ha atteso la sentenza insieme alla compagna Sara Calzolaio e alla figlia Alessia in un affittacamere non distante dall'ospedale di Cisanello di Pisa: "Sono disperato" le prime parole pronunciate dall'uomo e riferite da uno dei suoi avvocati. Dopo le formalità, Logli verrà trasferito nel carcere Don Bosco della città toscana. In lacrime i parenti di Roberta Ragusa, che per tutta la giornata hanno atteso il verdetto della Cassazione: "Finalmente si smetterà di dire che mia cugina era in giro a divertirsi. Mia cugina è morta, lo ha detto anche la Cassazione. Giustizia è fatta", ha detto commossa Maria Ragusa. I giudici della prima sezione penale si erano riuniti in camera di consiglio intorno alle cinque del pomeriggio. Durante la requisitoria il Procuratore generale della Cassazione, Luigi Birritteri, aveva chiesto la conferma della condanna per Logli: "Vi chiedo di porre fine a questo processo e certificare l'inammissibilità del ricorso della difesa". Mentre i difensori avevano l'assoluzione con formula piena per la non sussistenza del fatto. La vicenda Roberta Ragusa scompare nel nulla la notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012. Logli viene iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Pisa il 2 marzo 2012, quasi due mesi dopo la scomparsa della moglie. Le indagini si chiudono nel 2014. Il pm della procura di Pisa, Aldo Mantovani, gli contesta i reati di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti, infatti, Roberta Ragusa viene uccisa al culmine di un litigio quando, udendo una telefonata del marito in soffitta, capisce che ha un'amante e che si trattava di Sara Calzolaio, di vent'anni più giovane di Logli, in casa fin da ragazzina come baby sitter dei figli della coppia e poi collaboratrice dell'autoscuola di famiglia. Roberta Ragusa esce di casa in pigiama. Il marito, secondo la ricostruzione dell'accusa, la raggiunge in una via vicina, l'aggredisce e la uccide, ne occulta il corpo e la mattina dopo ne denuncia la scomparsa. In tutti questi anni Logli ha sempre contestato questa ricostruzione, affermando di essere andato a dormire poco prima di mezzanotte e di essersi accorto solo il mattino dopo che la moglie non c'era. A smentirlo, però, almeno due testimoni, che hanno riferito di averlo visto in giro quella notte e di averlo sentito litigare con una donna. Nel 2015 il gup proscioglie l'uomo, ma la Cassazione annulla la sentenza e ordina un nuovo processo. L'anno dopo arriva la condanna di primo grado a venti anni ma niente carcere, perché non vengono ravvisate le ipotesi di pericolo di fuga o di reiterazione del reato. La Corte d'appello di Firenze conferma la sentenza. Ma l'uomo ha continuato a proclamarsi innocente. Fino alla sentenza della Cassazione che questa sera ha scritto la parola definitiva. Antonio Logli è stato condotto nel carcere Livornese delle Sughere su disposizione della procura di Pisa per evitare che il detenuto potesse essere esposto davanti alla piccola folla di curiosi che si era radunata davanti alla casa circondariale don bosco di Pisa.
· Omicidio Marco Vannini, speciale Le Iene.
Omicidio Vannini: le telefonate intercettate dei Ciontoli mai entrate nel processo. Le Iene l'11 dicembre 2019. Giulio Golia e Francesca Di Stefano tornano a parlarci dell’omicidio di Marco Vannini attraverso le intercettazioni telefoniche della famiglia Ciontoli. Questi audio potrebbero aiutare a capire che cosa è successo davvero, ma non sono mai entrati nel processo. “Buongiorno, senta avrei bisogno di fare un telegramma di condoglianze alla famiglia Vannini”. Questa è una delle tante telefonate intercettate nei giorni successivi all’omicidio di Marco. Si tratta di chiamate che riguardano la famiglia Ciontoli mai entrate nel processo per la morte di Marco Vannini, il ragazzo appena 20enne ucciso nel 2015 nella loro villetta a Ladispoli. Antonio Ciontoli è stato condannato in secondo grado a 5 anni di carcere per omicidio colposo, la condanna per la moglie e i figli Federico e Martina è di 3 anni. Giulio Golia e Francesca Di Stefano tornano, raccontandoci nuove clamorose intercettazioni, sul caso che più ha fatto indignare l’Italia negli ultimi tempi. In attesa della sentenza di Cassazione fissata per il prossimo 7 febbraio, i dubbi rimasti sono ancora tanti ed emergono ancora di più incrociando le prime dichiarazioni, le intercettazioni in caserma nelle ore successive e quelle telefoniche effettuate nei giorni dopo quella maledetta notte tra il 17 maggio e il 18 maggio 2015.
“CERCHIAMO DI NON FAR SAPERE NIENTE, PAPÀ PERDE IL POSTO”. È il 19 maggio 2015, due giorni dopo la tragedia, alle 11.43 Alessandro, cugino di Marco, chiama Martina Ciontoli: “È stato un incidente Alessandro ma ti pare che mio padre farebbe una cosa del genere? Lei gli rivela che inizialmente pensavamo fosse un attacco di panico”, risponde Martina, fidanzata di Marco. “Il fatto che sia stato un incidente lo pensiamo tutti”, ribadisce Alessandro. “Però è tutto il dopo… Cioè il dopo cazzo. È stato lasciato più di un’ora lì. Che cazzo, Martì…”. Il ragazzo rincara la dose: “La prima cosa che ha detto tuo fratello appena arrivato al pronto soccorso è stato: ’Papà perde il posto di lavoro cerchiamo di non far sapere niente’. Cioè… Martì, non puoi dire una cosa del genere”. Proprio la paura di perdere il posto di lavoro come sottoufficiale della marina distaccato ai servizi segreti, spinge Antonio Ciontoli a mentire. Nei primi momenti ha parlato di buco causato da un pettine e non di un colpo partito da una delle sue pistole. Alessandro rimprovera Martina: “Però cazzo Martì, cioè te ci stavi te lì. Perché si è aspettato così tanto invece di intervenire subito? Perché avete detto che si era fatto male con un pettine appuntito?”. Lei si difende: “Non si è pensato solo a quello, Alessà… Non ci abbiamo capito niente in quella situazione. Alessà, ma che vuoi che ti dica io? E quella la cosa… io…”. A quel punto Alessandro ribadisce un pensiero di molti: “No, no Martì… Tuo padre è sempre tuo padre. Però Marti se tu sei innamorata di Marco, po*** *** due calci in culo, Martì, glieli davo, ti dico proprio la verità perché senti così non si fa. Anche tu potevi dire a tutti: ma che cazzo state facendo? Martì è il dopo che è una cosa devastante, capito?”
“TU SAI TUTTE LE COSE E NON LE VUOI DIRE”. Il giorno dopo, il 20 maggio 2015, alle 11.51, Alessandro richiama Martina. “Tu stavi lì, c’eri”, le rimprovera. Non sei stata te, però lì c’eri quand’è successa sta cosa. Perché non hai chiamato d’iniziativa tua, una cazzo di ambulanza? Tu, tuo fratello, la ragazza di tuo fratello, tua madre. In cinque eravate, Martì, vi si è spenta la testa a tutti e cinque? Ieri mi hai detto di aver capito che il proiettile era partito solo dopo che Marco si è sentito male. Ma cazzo il botto non lo avete sentito?”. Lei risponde: “Non ce la faccio Alessà…”. A questo punto Alessandro rincara la dose: “Bella mia tu le cose le sai tutte quante bene e stai cercando di non dire niente”.
“MI DEVI DIFENDERE TU, IO NON POSSO”. Passano i giorni e i dubbi sorgono anche ad alcuni degli amici più vicini ai Ciontoli perché anche loro non si spiegano dei dettagli. È il 18 maggio 2015, sono le 22.30 quando Federico è al telefono con un suo amico a cui racconta che cosa sarebbe successo: “Lui inizialmente era cosciente, pensavamo fosse un attacco di panico. Non pensavamo che la pistola era carica, capito? Non eravamo consapevoli che era partito il colpo”. Il 21 maggio giorno del funerale di Marco si sentono di nuovo. Sono le 10.35, quando Federico gli dice: “Se senti qualche cosa mi devi difendere tu perché io adesso non lo posso fare”. Di tutta risposta, l’amico gli dice: “Mi devi spiegare bene la dinamica. Sei sicuro che è andata com’è…”. Evidentemente non è così convinto perché due giorni dopo tornano sull’argomento: “Non mi avevi detto del pettine. Perché avete detto sta cazzata?”. Federico gli risponde che il padre “non pensava fosse grave la cosa…. Il buco non si vedeva, non ti posso neanche dire tutte le cose che poi sono state dette anche all’avvocato”.
“PISTOLE SUL DIVANO”. Passa qualche ora ed è Viola Giorgini (fidanzata di Federico Ciontoli, unica dei presenti la notte della morte di Marco a essere stata assolta) a ricevere una telefonata. Da queste intercettazioni emergono dettagli che potrebbero ricostruire i movimenti delle pistole. Antonio Ciontoli di solito le teneva “nella cassaforte” come ha precisato la moglie durante un interrogatorio. Nel giorno della tragedia verrebbero spostate dalla cassaforte al bagno, dove è presente una scarpiera: “Avevo un’esercitazione di tiro da lì a poco e volevo vedere in quali condizioni sono”, ha dichiarato Ciontoli in un’udienza. Deciderebbe di toglierle da lì solo a tarda sera mentre Marco è nudo sotto la doccia: “Mi sono ricordato delle armi. Ho sentito che in bagno c’erano Marco e Martina. Per evitare che le potessero prendere sono entrato e le ho prese. Martina mi ha anticipato nell’uscire mentre stavo uscendo Marco ha riconosciuto il marsupio e mi ha chiesto di vederle”. Sono le 17.25 del 22 maggio 2015, quando Viola parla con una sua amica al telefono: “Marco si stava facendo la doccia. Tonino è entrato in bagno prima di andare a letto si prepara i vestiti e se li attacca dietro alla porta del bagno. Così si lava e si veste in bagno per non svegliare la moglie”, spiega Viola. “Mentre attaccava i vestiti ha fatto altrettanto con il marsupio dove c’erano queste pistole perché sarebbe dovuto andare a sparare al poligono il giorno dopo…”. Ma questa presunta esercitazione di tiro non sarebbe stata prevista. I dubbi aumentano perché Viola racconta un altro dettaglio: “Le pistole erano scariche, lui ha detto che le aveva lasciate tutto il giorno sul divano. Ti rendi conto? Per lasciarle tutto il giorno sul divano, il padre era straconvinto che non ci fosse niente”. Una ricostruzione che non coinciderebbe con le dichiarazioni di Ciontoli. Ma il movimento delle pistole anche dopo la tragedia sarebbe davvero poco chiaro. “Prendo queste armi perché mio padre mi dice di allontanarle, quando sono sceso giù il mio intento era quello di metterle in sicurezza. Non so se è stata ritrovata la polvere da sparo sul divano. Io le ho portate lì”, dirà poi nell’ottobre 2015 Federico Ciontoli durante un interrogatorio. Ma le pistole verranno ritrovate sotto il letto di Federico, dove Antonio dichiara di averle messe. Nella telefonata tra Viola e la sua amica emerge un altro dettaglio che da sempre ha fatto sorgere dubbi in tutti. I Ciontoli hanno detto di non essersi accorti che fosse partito un colpo, nonostante il foro di un centimetro nel braccio di Marco. “Il colpo gli è entrato nel braccio destro fino all’anca sinistra”, sostiene Viola. “Noi abbiamo controllato se c’era un buco, perché se alzi il braccio ci doveva essere il buco nel torace, no? Non c’era.” Si erano accorti del foro di entrata e cercavano quello di uscita. Un dettaglio testimoniato in aula anche da Federico: “Mio padre alzò il braccio a Marco per vedere se il colpo era passato. Cercò il foro di uscita”. Ma loro diranno di credere a un colpo d’aria.
“I SUOI DIRIGENTI SI SONO MOSSI…” Sono davvero tante le domande senza risposta e ascoltando queste intercettazioni non fanno altro che aumentare perché per alcune non c’è proprio spiegazione. Come succede dopo aver sentito la telefonata del 19 maggio, due giorni dopo la tragedia, alle 22.42 Peppe, zio acquisito di Martina e Federico, chiama Viola ma a rispondere al cellulare è Federico. Si intuisce che il ragazzo la notte della morte di Marco ha dormito a casa della fidanzata e che gli avrebbe dato delle indicazioni. “In salone ci sta quello spruzzo là… Quel coso che spruzza il profumo. Eh, se lo spegnete, perché quello nella notte richiama i ricordi. Papà e Martina dormono là col fatto che quando spruzza il profumo, ricorda”. Che ricordi può far venire se lo sparo è avvenuto nel bagno? Il 23 maggio 2015 lo zio Peppe fa un’altra telefonata, questa volta a suo amico. “Ho avuto conferma che comunque il reparto suo, i suoi dirigenti si sono… Io non so se tu pure hai avuto riscontri, insomma… che la persona si è mossa in primis”. Sembra proprio che parlino dei colleghi di Ciontoli: quale reparto si è attivato? E chi si è mosso per primo?
Omicidio Vannini, nuove intercettazioni choc: “Così papà perde il posto”. Le Iene il 9 dicembre 2019. Nuovi elementi sull’omicidio di Marco Vannini dalle intercettazioni telefoniche nelle ore successive alla sua morte. Alessandro Carlini, cugino del ragazzo morto a 20 anni a Ladispoli, e Martina Ciontoli ricostruiscono quella maledetta sera con dettagli clamorosi che vi faremo sentire martedì a Le Iene nel nuovo servizio di Giulio Golia e Francesca Di Stefano. “’Papà perde il posto di lavoro cerchiamo di non far sapere niente’”. Sono le parole che avrebbe detto Federico Ciontoli all’arrivo in pronto soccorso la maledetta sera in cui è morto Marco Vannini, a 20 anni, dopo un colpo di pistola partito nella villetta di Ladispoli dei Ciontoli, la famiglia della sua fidanzata. Giulio Golia e Francesca Di Stefano tornano sul caso che più ha fatto indignare l’Italia con nuove clamorose intercettazioni che potrete sentire nel nuovo servizio in onda martedì dalle 21.15 su Italia1. La frase choc emerge da una telefonata tra Alessandro Carlini, cugino di Marco Vannini, e Martina Ciontoli. Sono le 11.43 del 19 maggio 2015, il ragazzo è morto da poco più di un giorno, nella notte tra il 17 e il 18. I due ragazzi commentano la tragedia non sapendo di essere ascoltati dagli inquirenti. “La prima cosa che ha detto tuo fratello appena arrivato al pronto soccorso non è stato di Marco, cioè… Martì non puoi dire una cosa del genere”, dice il cugino di Marco. “È stato un incidente Alessandro ma ti pare che mio padre farebbe una cosa del genere? Lei gli rivela che inizialmente pensavamo fosse un attacco di panico”, risponde Martina. “Il fatto che sia stato un incidente lo pensiamo tutti”, ribadisce Alessandro. “Però è tutto il dopo… Cioè il dopo cazzo. È stato lasciato più di un’ora lì. Che cazzo, Martì…”. Per la morte di Marco Vannini, Antonio Ciontoli è stato condannato in secondo grado a 5 anni di carcere per omicidio colposo. Invece la condanna per la moglie e i figli Federico e Martina è di 3 anni.
Omicidio Vannini, il padre di Antonio Ciontoli: “Toglietevi le proprietà”. Le Iene il 14 dicembre 2019. Nuovi elementi sull’omicidio di Marco Vannini dalle intercettazioni telefoniche nelle ore successive alla sua morte. Salvatore Ciontoli, padre di Antonio Ciontoli e nonno di Federico, chiama il nipote per fare previsioni economiche su un eventuale risarcimento danni da parte della famiglia Vannini. Giulio Golia e Francesca Di Stefano hanno raccolto nuove conversazioni choc che sentiremo domenica dalle 21.15 su Italia1. “Dovete umilmente prostrarvi ai piedi dei genitori di Marco perché se questi si presentano e ricorrono come parte civile a tuo padre lo mettono col sedere sotto il marciapiedi”. Lo ha detto al telefono Salvatore Ciontoli, padre di Antonio Ciontoli nonché nonno di Federico. Sono i dettagli che emergono dalle intercettazioni telefoniche a neanche 48 ore dall’omicidio di Marco Vannini che vi faremo sentire domenica a Le Iene dalle 21.15 su Italia1. Qui sopra trovate un’anticipazione. È il 19 maggio 2015 alle 17.58 Salvatore Ciontoli chiama il nipote e gli consiglia quale strategia debbano avere con la famiglia Vannini che non vuole avere alcun contatto con la loro. Marco è morto due notti prima nella loro villetta di Ladispoli per un colpo d’arma da fuoco partito mentre si trovava in bagno. “La mamma e il padre di Marco è il caso di contattarli”, dice Salvatore. Il nipote però gli risponde: “Loro hanno espresso la volontà comunque di non vederci”. A questo punto il nonno consiglia di “insistere, insistere, insistere. Dovete strisciare ai loro piedi addirittura, cioè fare capire con sincerità che la cosa è avvenuta inavvertitamente che voi siete profondamente addolorati e colpiti”. È un consiglio spinto dal dramma appena successo? Tutt’altro. Ciontoli mette in guardia il nipote: “La prima cosa che deve fare tuo padre è togliersi tutte le proprietà. Tutto ciò che ha vicino a lui che in caso di risarcimento danni…”. Una strategia che poi verrebbe messa in atto. In quelle stesse ore Alessandro Carlini, cugino di Marco, rimprovera Martina Ciontoli: “La prima cosa che ha detto tuo fratello appena arrivato al pronto soccorso non è stato per Marco, ma ’Papà perde il posto di lavoro cerchiamo di non far sapere niente’”. Questa e altre clamorose intercettazioni sono emerse nell’ultimo servizio di Giulio Golia e Francesca Di Stefano (clicca qui per vederlo), ma a quanto pare c’era anche chi stava facendo previsioni economiche su questa tragedia.
Omicidio Vannini, un'altra testimone: “La moglie di Ciontoli mi ha chiesto i nomi dei medici”. Le Iene il 2 novembre 2019. A poche ore dall’omicidio di Marco Vannini, la famiglia di Antonio Ciontoli fa diverse telefonate intercettate dagli inquirenti. La moglie avrebbe chiesto i nomi dei medici in servizio al Pit di Ladispoli, dove il ragazzo è arrivato agonizzante. Invece Ciontoli chiede sostegno ai colleghi, ma non solo moralmente. “Mi ha chiesto i nomi dei medici presenti al Pit quando è arrivato Marco Vannini”. Lo sostiene una testimone che a Quarto Grado parla di uno scambio di messaggi tra lei e Maria Pezzillo, la moglie di Antonio Ciontoli. Per lei la condanna in secondo grado per l’omicidio del ragazzo morto a 20 anni in casa sua è di 3 anni. Come al figlio Federico e alla fidanzata di Marco, mentre Antonio Ciontoli deve rispondere di omicidio colposo è di 5. Al mosaico di testimonianze si aggiunge quindi un altro tassello. Una donna ha detto di essere una conoscente dei Ciontoli. Ai tempi dell’omicidio, lei lavorava al Pit di Ladispoli: la prima struttura ospedaliera in cui è arrivato Marco Vannini agonizzante dopo lo sparo. È la mattina del 18 maggio 2015, a poche ore dalla morte del ragazzo, Maria Pezzillo avrebbe contattato la testimone: “Mi diceva se potevo aiutarla facendo sapere a Tonino (il marito Antonio ndr), come si chiamavano il medico e le infermiere che erano presenti quella notte al Pit”. La famiglia Ciontoli è in quel momento in caserma per i primi interrogatori, intanto la Pezzillo si sarebbe preoccupata di queste informazioni. “In quelle ore il Pit era blindato, nel frattempo si venivano a sapere sempre più notizie tra i colleghi”, racconta la donna. “Si diceva che al ragazzo avevano sparato e non si sapeva la dinamica. Ho capito che essendo successo a casa loro, quella richiesta non era una cosa limpida”. Lo scambio di informazioni tra le due donne sarebbe avvenuto via WhatsApp: “Ho capito che c’era qualcosa che non andava. E non mi piaceva questa situazione, così ho risposto che non potevo bussare per sapere come si chiamano”. Quella richiesta è sembrata strana alla testimone anche per il rapporto che ci sarebbe stato tra lei e la moglie di Ciontoli: “Di solito mi veniva a cercare, ma noi non ci frequentavamo. Dopo quella richiesta, ho chiuso con loro e ho cancellato il numero non sentendola più”. Questa testimonianza però non troverebbe riscontro dai tabulati. Nelle carte emergono solo i contatti via telefono e non tramite Internet che è invece la rete tramite cui avviene il traffico WhatsApp. C’è anche un’altra telefonata che conferma come fosse alta l’attenzione dei Ciontoli in quelle ore. È il 19 maggio, il giorno dopo la morte di Marco Vannini, Ciontoli è al telefono con un suo superiore: “Vi chiedo di starmi vicino”, dice. Si riferisce solo a un sostegno morale? La risposta fa sorgere altri interrogativi: “Tu insomma sai che Gigi è in contatto con Giuseppe lì, eccetera”. Seguirà la telefonata di un altro collega che gli dice di essergli vicino: “Serve come dire quella prudenza che tu conosci e sai che non ci permette di muoverci più di tanto”. È soprattutto un finanziere vicino alla famiglia che chiede aiuto per conto loro: “Non si può interessare qualche amico? Nel senso che non sei tu che chiedi il favore”, gli consiglia a Ciontoli. E anche in questo caso si nomina il Pit, la struttura che per prima ha accolto Marco Vannini agonizzante prima del trasferimento in elicottero all’ospedale dove è arrivato morto. Anche il fratello di Antonio, Ciro, lo chiama per assicurargli che “già lo stanno facendo”. A cosa si riferiscono? Tra le telefonate intercettate c’è anche quella di Viola Giorgini, fidanzata del figlio di Ciontoli e unica assolta in secondo grado da ogni reato. In quella chiamata a un’amica se la prende con i genitori di Marco: “Se amavano così tanto il figlio non sarebbero mai andati in televisione”. Durante la telefonata intercettata, la ragazza ricostruisce come testimone diretta i movimenti delle pistole di Antonio Ciontoli. Un nodo che noi de Le Iene abbiamo provato a sciogliere nella quinta parte dello “speciale: bugie e verità” di Giulio Golia e Francesca Di Stefano che vi riproponiamo sopra.
Omicidio Vannini, le telefonate intercettate: “Pistole tutto il giorno sul divano”. Le Iene il 19 ottobre 2019. Nel caso dell’omicidio di Marco Vannini, di cui vi abbiamo parlato con molti servizi e con lo Speciale di Giulio Golia e Francesca Di Stefano, saltano fuori le telefonate intercettate dagli inquirenti e mai entrate nel processo. Ve le abbiamo raccontate per primi, ora spuntano anche gli audio. In uno di queste Viola Giorgini, fidanzata di Federico Ciontoli, dice che le pistole sarebbero state tutto il giorno sul divano. Nel caso dell’omicidio di Marco Vannini, di cui ci siamo occupati con più servizi e con lo Speciale di Giulio Golia e Francesca Di Stefano che potete rivedere qui sopra, saltano fuori nuovi elementi che non fanno che accrescere i molti misteri di cui vi abbiamo puntualmente raccontato. Di molti noi de Le Iene vi abbiamo parlato per primi sulla base del brogliaccio delle intercettazioni, ora spuntano anche gli audio. Ci sono gli audio delle telefonate, intercettate dagli inquirenti e mai utilizzate nel processo, tra i componenti della famiglia Ciontoli ed amici e colleghi di Antonio, il capofamiglia condannato a 5 anni per la morte del giovane 20enne, ucciso con un colpo di pistola la sera del 17 maggio 2015 a Ladispoli. Si tratta di telefonate fino a oggi ritenute materiale “non rilevante”: le trascrizioni sono state pubblicate ora dal Fatto Quotidiano. A emergere è innanzitutto la rete di solidarietà che i colleghi di Antonio Ciontoli avrebbero creato attorno a lui subito dopo la morte di Marco: semplice solidarietà umana o tentativo di fare qualcosa per proteggere Antonio dalle accuse e indirizzare così l’inchiesta a suo favore? È il giorno dopo la morte di Marco Vannini quando un collega di Ciontoli lo chiama e lui chiede subito aiuto: “statemi vicino”. Il superiore allora risponde così: “tu sai che Gigi è stato in contatto lì con Giuseppe… e altre sulla piazza… visto il tutto…” Ciontoli risponde lasciando una frase a metà: “cercate……” e poi spiega: “ora il mio è uno stato di libertà, poi vedremo”. Poco più tardi Ciontoli riceve la chiamata di un altro collega,che gli dice: “anche se fisicamente in questo momento non possiamo muoverci più di tanto, serve come dire, quella prudenza che tu conosci, che tu sai, però sappi che non sei da solo”. Perché si parla di prudenza, in un modo tra l’altro così sibillino? Per quale motivo sarebbe necessaria prudenza? Ciontoli parla di una “richiesta” al Pit, il posto di primo intervento dove è stato portato Marco in fin di vita e spiega che “Andrea ha detto che ora fa una richiesta ufficiale”. Un altro collega poi, al telefono con Ciontoli, spiegherebbe che ha interessato un amico per ricercare un certo medico legale. Perché tutte queste manovre dei colleghi di Antonio Ciontoli rispetto ai sanitari che stanno curando Marco e accertando le reali cause del successivo decesso? Del sostegno che Antonio avrebbe da parte dei suoi colleghi ne parla anche il fratello Ciro, in un’altra chiamata con lui: “mi hanno detto che là ti vogliono bene e stanno lottando come ti avevo detto io, non stai da solo eh?”. Ma sarebbe un certo Peppe, un finanziere vicino alla famiglia Ciontoli e che già era accorso alla caserma di Civitavecchia durante gli interrogatori, a chiedere aiuto per conto loro: “Per quella cosa, consigliati pure con Andrea, se non è il caso che si può interessare qualche amico, no? Nel senso che non sei tu che chiedi il favore”. Ma la conversazione più importante e per molti versi clamorosa è quella tra Viola Giorgini, la fidanzata di Federico Ciontoli e un’amica. E a questa amica Viola dice che le pistole sarebbero rimaste “appoggiate sul divano” tutto il giorno. Un’affermazione che sconfesserebbe le versioni date dalla famiglia, in base alle quali le pistole erano custodite in una scarpiera nel bagno di casa. In quella telefonata Viola Giorgini spiega anche che "Antonio era convinto di averle scaricate tutte, solo una aveva il colpo in canna, ce n'era solo uno". Del presunto luogo della morte di Marco Vannini parla anche, in un’altra chiamata intercettata dagli inquirenti, il padre di Antonio, Salvatore, mentre parla con il figlio Mauro. L’uomo chiede al figlio: "Ma una cosa, Marco stava nel bagno?". Silenzio assoluto, Mauro dall’altra parte della cornetta non risponde. Salvatore pronuncia altre parole non comprensibili e Mauro continua a rimanere in silenzio. E allora Salvatore aggiunge in fretta, come per liquidare la questione: "Così mi ha detto non lo so… che è capitato nel bagno". Mauro a quel punto borbotta qualcosa, per cambiare poi discorso. È comunque la prima volta che, rispetto a quanto affermato nel processo, sembra mettersi in dubbio il luogo dove Marco sarebbe stato colpito a morte. C’è infine un’ultima strana conversazione. È quella tra Federico Ciontoli e uno zio, in cui si parla dello “spruzzo” di un deodorante che richiamerebbe brutti ricordi. "In salone ci sta quello spruzzo là…. Quel coso che spruzza il profumo…. eh se lo spegnete perché quello nella notte richiama i ricordi…. Papà e Martina la dormono, là (…) perché col fatto che quando spruzza il profumo ricorda". Di cosa sta parlando Federico? Quali sono i ricordi emersi dallo spruzzo del deodorante? E perché dovrebbe avere a che fare con Marco, se secondo loro il colpo mortale al giovane è partito dal bagno di casa e non dalla stanza in cui c’è quello spruzzo? Qualche giorno fa vi abbiamo raccontato di un'altra intercettazione di Viola Giorgini, che a poche ore dal funerale di Marco, al telefono con un’amica, aveva criticato la scelta dei genitori di Marco di andare in tv: “È morto tuo figlio e decidi di andare in televisione a fare un’intervista. Sono cose che io non avrei mai fatto. Sono le persone che gli stanno intorno che li spingono a fare questo”, dice riferendosi a Marina e Valerio Vannini che da 4 anni chiedono giustizia per la morte del figlio. Accanto a questo audio, reso noto dal programma tv “Quarto Grado”, ce n’è anche un altro in cui la ragazza ricostruisce come testimone diretta i movimenti delle pistole di Antonio Ciontoli. Un nodo che noi de Le Iene abbiamo provato a sciogliere nella quinta parte dello “Speciale Vannini: bugie e verità” di Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Al momento della tragedia il porto d’armi di Antonio Ciontoli era scaduto da due anni. Sull’arma da cui è partito il colpo che ha ucciso Marco, Antonio afferma di non essersi fatto spiegare come funzionasse al momento dell’acquisto. “Non ho mai fatto alcun corso sulle armi. Il funzionamento dell’arma l’ho avuto solo nel 2007 quando sono andato a sparare e un istruttore mi ha fatto vedere”. Ma perché quel giorno Antonio ha tirato fuori le armi? “Visto che di lì a poco c’era un’altra esercitazione di tiro. E quindi la mattina la presi perché dopo avevo intenzione di dargli una pulita, in quel momento mi ha chiamato mia moglie e, niente, io praticamente le ho messe nella scarpiera in bagno”, racconta Ciontoli. Un dettaglio che non è mai stato confermato. Avrebbe dovuto sottoporsi a un’esercitazione nei sei mesi successivi alla tragedia. Ma il giorno preciso non era ancora stato fissato. Nella telefonata, Viola dice chiaramente che Antonio era convinto che le armi fossero scariche ma anche che le avrebbe lasciate tutto il giorno sul divano. Questa intercettazione però non è mai entrata nel processo, come le altre di cui vi abbiamo parlato in questo articolo. Ma anche la fine che le pistole fanno dopo lo sparo sembra poco chiara. “Prendo queste armi perché mio padre mi dice di allontanarle, quando sono sceso giù il mio intento era quello di metterle in sicurezza. Non so se è stata ritrovata la polvere da sparo sul divano, però io le ho portate lì”, afferma Federico nell’interrogatorio dell’ottobre 2015. Perché Federico specifica il dettaglio del divano? Le pistole verranno poi ritrovate dai carabinieri sotto il letto del ragazzo, che il giorno della tragedia dichiara di non avercele messe lui. Mentre Antonio dichiara di averle viste sul divano e averle portate nel cassettone del letto di Federico. Dalle intercettazioni ambientali in caserma del 18 maggio 2015 sembra che sia Federico a dire ad Antonio cosa riferire in merito al luogo di queste armi. Non solo. Federico concorderebbe la versione anche con Viola. E proprio lei a un certo punto, riferendo a Federico la versione data, dice: “così ti ho parato un po’ il culo anche a te”. Ma adesso la conversazione di Viola Giorgini con un’amica, nella quale dice che le pistole sono state tutto il giorno sul divano, aggiungerebbe ancora più caos in una vicenda già drammaticamente misteriosa.
Omicidio Vannini, l'intercettazione di Viola: “I genitori di Marco non dovevano andare in tv”. le Iene il 14 ottobre 2019. A poche ore dall’omicidio di Marco Vannini, Viola Giorgini racconta al telefono quanto accaduto nella villetta di Antonio Ciontoli a Ladispoli. Durante la conversazione intercettata dagli inquirenti parla contro i genitori del ragazzo morto e soprattutto del movimento delle armi in casa. Nello speciale di Giulio Golia e Francesca Di Stefano abbiamo provato a ricostruire le bugie e le verità di questa vicenda. “Se amavano così tanto il figlio non sarebbero mai andati in televisione”. Sono le parole di Viola Giorgini contro i genitori di Marco Vannini, ucciso con un colpo di pistola a 20 anni la sera del 17 maggio 2015 a Ladispoli. Dei presenti durante l’omicidio, Viola è l’unica a essere stata assolta in secondo grado da ogni reato. La condanna per Antonio Ciontoli è stata di 5 anni di reclusione per omicidio colposo mentre è di 3 per il figlio Federico, la moglie e la fidanzata di Marco. A poche ore dal funerale del ragazzo, Viola, fidanzata con Federico, è al telefono con un’amica e non sa di essere intercettata dagli inquirenti: “È morto tuo figlio e decidi di andare in televisione a fare un’intervista. Sono cose che io non avrei mai fatto. Sono le persone che gli stanno intorno che li spingono a fare questo”, dice riferendosi a Marina e Valerio Vannini che da 4 anni chiedono giustizia per la morte del figlio. Una parte di questi audio è stata resa nota da “Quarto Grado”. Durante la telefonata intercettata, la ragazza ricostruisce come testimone diretta i movimenti delle pistole di Antonio Ciontoli. Un nodo che noi de Le Iene abbiamo provato a sciogliere nella quinta parte dello “speciale: bugie e verità” di Giulio Golia e Francesca Di Stefano che vi riproponiamo qui sopra. Al momento della tragedia, infatti, il porto d’armi di Antonio Ciontoli era scaduto da due anni. Sull’arma da cui è partito il colpo che ha ucciso Marco, Antonio afferma di non essersi fatto spiegare come funzionasse al momento dell’acquisto. “Non ho mai fatto alcun corso sulle armi. Il funzionamento dell’arma l’ho avuto solo nel 2007 quando sono andato a sparare e un istruttore mi ha fatto vedere”. Ma perché quel giorno Antonio ha tirato fuori le armi? “Visto che di lì a poco c’era un’altra esercitazione di tiro. E quindi la mattina la presi perché dopo avevo intenzione di dargli una pulita, in quel momento mi ha chiamato mia moglie e, niente, io praticamente le ho messe nella scarpiera in bagno”, racconta Ciontoli. Un dettaglio che non è mai stato confermato. Lui avrebbe dovuto sottoporsi a un’esercitazione nei sei mesi successivi alla tragedia. Ma il giorno preciso non era ancora stato fissato. Nella telefonata che vi abbiamo fatto sentire nel nostro speciale Viola dice chiaramente che Antonio era convinto che le armi fossero scariche, ma anche che le avesse lasciate tutto il giorno sul divano. Questa intercettazione però non è mai entrata nel processo. E anche la fine che le pistole fanno dopo lo sparo sembra poco chiara. “Prendo queste armi perché mio padre mi dice di allontanarle, quando sono sceso giù il mio intento era quello di metterle in sicurezza. Non so se è stata ritrovata la polvere da sparo sul divano, però io le ho portate lì”, afferma Federico nell’interrogatorio dell’ottobre 2015. Perché Federico specifica il dettaglio del divano?
Le pistole verranno poi ritrovate dai carabinieri sotto il letto del ragazzo, che il giorno della tragedia dichiara di non avercele messe lui. Mentre Antonio dichiara di averle viste sul divano e averle portate nel cassettone del letto di Federico. Dalle intercettazioni ambientali in caserma del 18 maggio 2015 sembra che sia Federico a dire ad Antonio cosa riferire in merito al luogo di queste armi. Non solo. Federico concorderebbe la versione anche con Viola. E proprio lei, a un certo punto, riferendo a Federico la versione data, dice: “così ti ho parato un po’ il culo anche a te”.
Omicidio Vannini, la fake news sulla fidanzata Martina "Ciofoli": "Così guadagnano dai nostri clic". Le Iene il 13 settembre 2019. Il sito Retenews24 pubblica la notizia che Martina Ciontoli è stata radiata dall’albo degli infermieri per l’omicidio di Marco Vannini. L'articolo diventa virale, ma è una fake news: come riconoscere e fermare questi siti che si arricchiscono con i nostri clic? Su Iene.it, David Puente ci dà qualche consiglio. “Martina Ciontoli radiata dall’albo delle infermiere”. Torna virale su Facebook la notizia pubblicata a febbraio scorso sulla fidanzata di Marco Vannini, ucciso a 20 anni nella villetta di lei a Ladispoli da Antonio Ciontoli. Ma è tutta una fake news creata da una testata acchiappa clic. Perché a distanza di tutti questi mesi è ancora online? Lo abbiamo chiesto a David Puente, giornalista che si è guadagnato il soprannome di “cacciatore di bufale” per quante ne ha smascherate. “Solo la persona danneggiata può far rimuovere il contenuto attraverso una denuncia. Se l’articolo-bufala rimane online è perché nessuno se n’è occupato”, spiega Puente. “C’è anche il rischio che tornino virali quando succedono fatti simili”. Bloccare i siti di fake news però non è così facile: “Cambiano nome e dominio in continuazione e mapparli diventa complesso. Facebook ci viene in aiuto e blocca quelle pagine che pubblicano in continuazione articoli da piattaforme differenti”. Nel caso specifico dell’omicidio Vannini, il sito Retenews24 ha pubblicato l'articolo dal titolo: “Martina Ciofoli radiata dall’albo delle infermiere”, come potete vedere qui sopra. Il refuso nel cognome è voluto ed è il primo campanello d’allarme per riconoscere che si tratta di una fake news. “Sono escamotage per salvarsi da eventuali accuse di diffamazione”, spiega Puente a Iene.it. “In assenza di sentenza definitiva, lei non è stata radiata e può denunciare chi l’ha diffamata”. Martina è stata condannata in secondo grado a tre anni di reclusione per omicidio colposo. David Puente ci dà anche qualche consiglio per non cadere in siti di bufale: “Diffidate sempre da notizie con titoli scandalistici perché cliccandoci sopra finite in pagine piene di banner che sono la vera ricchezza per questi siti. Spesso dentro non ci sono articoli ma semplici foto che a volte non c’entrano con la notizia”. Un escamotage molto diffuso: pubblicare notizie con foto di persone famose, facilmente riconoscibili da un grande pubblico poi portato a cliccare. “Questi siti guadagnano soldi dai nostri clic. Non necessariamente bisogna cliccare sui banner pubblicitari, basta solo aprire gli articoli”, dice Puente. E allora, come si possono rimuovere le fake news dal web? “Nessuno le rimuove e sconsiglio di avere un garante per questo che possa in qualche modo influenzare l’informazione. L’aiuto arriva da tutti noi: segnaliamo a Facebook e Google i siti di bufale e speriamo che le forze dell’ordine possano avere numeri e competenze per fermare questo fenomeno che rischia di trasformarsi in uno tsunami”. Anche noi de Le Iene abbiamo voluto vedere che cosa c’è dietro il sistema di fake news, così Matteo Viviani ha creato una notizia fasulla per capire come nascono e si diffondono. Per farlo ha chiesto aiuto a Mattia, 23enne con alle spalle una carriera da creatore di bufale. “Viviani ruba da un albergo di lusso”, era la falsa notizia acchiappa clic. E infatti alcuni, indignati, ci hanno creduto! Ma dove sta il guadagno nel produrre bufale? “Sul sito dove pubblichi la notizia falsa ci sono le pubblicità. I clic o le visualizzazioni portano soldi. Più clic fai, più guadagni”, aveva spiegato Mattia. “Per esempio, una bufala letta da 500mila persone può portare 1.000, 1.500 euro in un paio di giorni”.
Omicidio Vannini, parla il datore di lavoro di Marco, scrive il 07 aprile 2019 la redazione de Le Iene. La moglie di Antonio Ciontoli, condannato (solo) a 5 anni per l’omicidio colposo del ragazzo, dice che Marco agonizzante gridava: “scusa Massi”, nominando il suo datore di lavoro. I vicini dicono di aver sentito gridare “scusa Marti”, cioè la fidanzata. Giulio Golia ha intervistato “Massi” per chiarire questo punto. Attorno all’omicidio di Marco Vannini restano ancora molti punti da chiarire. Tra questi resta il dubbio su cosa avrebbe gridato Marco mentre agonizzava dentro casa dei Ciontoli. La moglie di Antonio sostiene che gridasse “scusa Massi”, cioè il suo datore di lavoro. Però non si capisce per quale motivo in quel momento avrebbe dovuto chiedere scusa proprio a lui. I vicini di casa riferiscono di aver sentito gridare una cosa diversa: “scusa Marti”. In questa caso, Marco dopo essere stato colpito avrebbe chiesto scusa alla fidanzata Martina. Per cercare di chiarire questo punto Giulio Golia ha incontrato proprio Massi che ci ha mostrato i messaggi che lui e Marco si sono inviati il giorno prima della sua morte.
Vannini, il brigadiere: “Non posso stravolgere quanto detto dalla magistratura”, scrive l'8 aprile 2019 la redazione de Le Iene. Giulio Golia torna sull’omicidio di Marco Vannini con due nuove testimonianze, quella del datore di lavoro del ragazzo e quella del brigadiere Amadori, l’uomo che si è complimentato con noi per la nostra ricostruzione del caso. Nuovo capitolo della nostra inchiesta sull’omicidio di Marco Vannini a casa di Antonio Ciontoli, di cui in basso potete ripercorrere tutte le tappe. La notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 Marco Vannini è morto a 20 anni a Ladispoli, vicino Roma. Marco si trovava a casa della fidanzata Martina quando un colpo di pistola gli ha attraversato il braccio, perforato il polmone per poi terminare la sua corsa su una costola. Il 29 gennaio scorso il padre della ragazza è stato condannato in Appello per la sua morte a 5 anni, contro i 14 anni sia della sentenza di primo grado sia della richiesta dell’accusa (il reato è stato derubricato da omicidio volontario a colposo). In casa Ciontoli, quella sera oltre ad Antonio e Martina, erano presenti anche la moglie di Antonio, Maria Pezzillo; Federico, fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini. Secondo l’ultima sentenza, Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti, avrebbe sparato senza volerlo a Marco Vannini mentre mostrava le sue pistole al ragazzo che si faceva il bagno nella vasca di casa. Le chiamate ai soccorsi non sono tempestive e, come sentite nel servizio, ritardano l’intervento del 118. Durante queste chiamate non viene menzionato il colpo di pistola, solo in ospedale Antonio Ciontoli avviserà il medico di questo dettaglio fondamentale. In questo nuovo servizio abbiamo due nuove testimonianze molto importanti. Quella del brigadiere Maglio Amadori, uno dei primi carabinieri a intervenire la sera dell’omicidio di Vannini e quella di Massi, l’ex datore di lavoro di Marco. Proprio con il suo ex datore di lavoro ricostruiamo gli ultimi contatti avuti con Marco. Nei messaggi che si sono scambiati si accordano per lavoro proprio il giorno della tragedia. Guadagna cento euro che però non verranno mai ritrovati come ha testimoniato Massi al processo. Da quello che ci racconta poi capiamo che all’ospedale indossava vestiti diversi dai suoi, “era stato rivestito con panni loro” dice la mamma. Perché non gli avevano rimesso i suoi vestiti? Inoltre c’è una maglietta di Marco che non verrà mai ritrovata. C’è un altro particolare, la moglie di Ciontoli sostiene che dopo lo sparo Marco abbia urlato “scusa Massi”. Ma il suo datore di lavoro, “Massi”, dice che non c’è nessun motivo per cui dovesse gridare una cosa del genere e infatti i vicini di casa riferiscono di aver sentito urlare “scusa Marti”, rivolgendosi cioè alla sua fidanzata Martina. Maglio Amadori è il brigadiere che riporta una frase di Antonio Ciontoli che lascia tutti senza parole: “Adesso metto nei guai mio figlio”. Queste parole, che aprono il dubbio che a sparare sia stato Antonio, non vengono messo a verbale. Noi gli abbiamo chiesto di intervistarlo, lui si era detto molto disponibile ma gli serviva l’autorizzazione del comando generale dei carabinieri. L’abbiamo chiesta ma ci è stata negata. Però Amadori l’abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto il perché delle sue dichiarazioni e le sue parole ci hanno lasciato perplessi. “Ogni dichiarazione che io in questo momento le sto facendo, sono quelle che ho già dato ma altre ed eventuali, se non sono autorizzato, mi creano problemi. Io non posso divulgare ulteriori informazioni che ci potrebbero essere”. Oltre a queste parole poco chiare ribadisce una cosa che ci aveva già detto al telefono: “le vostre ricostruzioni possono essere eccellenti, ma io non sono nessuno per stravolgere quello che la magistratura ha già valutato”. I dubbi sulle indagini rimangono. I genitori di Marco dovranno aspettare ancora per scoprire la verità.
Vannini, gli avvocati di Ciontoli: "Le contraddizioni sono indice di verità", scrive il 31 marzo 2019 la redazione de Le Iene. Gli avvocati di Antonio Ciontoli, condannato (solo) a 5 anni per l'omicidio colposo del fidanzato della figlia a cui ha sparato, convocano una conferenza stampa e parlano di "processo mediatico". Ma Giulio Golia ribatte punto per punto. Per la prima volta parlano alle telecamere i legali della famiglia Ciontoli, convocando una conferenza stampa infuocata. Lo fanno per dire che “alcuni aspetti di questa vicenda sono stati strumentalizzati dalle televisioni”. Marco Vannini, 20 anni, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata Martina Ciontoli nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 . Pochi giorni fa sono arrivate le motivazioni della sentenza che ha condannato il padre di Martina, Antonio Ciontoli, a cinque anni di reclusione, contro i 14 del primo grado e della richiesta dell’accusa. Ma sono tantissimi i passaggi di questa storia che non ci tornano, e gli avvocati dei Ciontoli provano ad affrontare uno per uno i dubbi. Come quelli sulla presenza in bagno, durante i fatti, della fidanzata di Marco, Martina. In un’intercettazione ambientale registrata in caserma il giorno dopo la tragedia, la fidanzata di Marco dice di essere stata nel bagno e di avere visto il padre che puntava la pistola verso Marco. Per i legali l’intercettazione “presa a brani può dare adito alle più svariate considerazioni”, la ragazza avrebbe “rivissuto una scena” per come le era stata raccontata dal padre. Un fatto che sembra quanto meno “strano”, come gli altri punti chiave della versione data dai Ciontoli. “Il processo ha dimostrato inequivocabilmente la responsabilità di Antonio Ciontoli”, concludono i legali. Noi crediamo che ci sia ancora molto da indagare.
Omicidio Vannini: “Sparo involontario ma soccorsi ritardati consapevolmente”, scrive il 4 marzo la redazione de Le Iene. Ecco le motivazione della sentenza di Appello che il 29 gennaio scorso ha ridotto da 14 a 5 anni la pena per Antonio Ciontoli, il padre della fidanzata di Marco, che ha ucciso nel 2015 il ragazzo di 20 anni. Antonio Ciontoli sparò a Marco Vannini in modo colposo ma fu gravemente responsabile di non aver attivato i soccorsi immediatamente. Sono uscite le motivazioni della sentenza che ha condannato Antonio Ciontoli a cinque anni di reclusione contro i 14 del primo grado e della richiesta dell’accusa per la morte del fidanzato ventenne della figlia, un caso di cui noi de Le Iene ci siamo occupati più volte con Giulio Golia anche attraverso testimonianze e retroscena esclusivi, che vi riproponiamo in fondo all’articolo assieme a tutti i servizi e articoli che abbiamo dedicato a questa storia. I giudici della prima Corte d'assise d'appello di Roma sostengono che “il Ciontoli ha consapevolmente e reiteratamente evitato l'attivazione di immediati soccorsi" e questo per "evitare conseguenze dannose in ambito lavorativo”. Ciontoli, sottufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti, era stato condannato in primo grado a 14 anni con la pesantissima accusa di omicidio volontario, mentre per i figli e la moglie era arrivata una sentenza di condanna a tre anni, per omicidio colposo. In secondo grado si è passati dai 14 anni ai 5 perché il reato è stato derubricato da omicidio volontario a colposo(confermando invece il resto della precedente sentenza per i suoi familiari). Marco Vannini, 20 anni, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015. Secondo la ricostruzione dei giudici, il ragazzo stava facendo il bagno nella vasca di casa Ciontoli. Il padre della fidanzata sarebbe entrato in bagno, avrebbe preso da una scarpiera una pistola, da cui sarebbe partito il colpo che ha portato dopo alcune ore alla morte del giovane. Un colpo che, entrato dal braccio, ha poi attraversato torace, polmone destro e cuore conficcandosi in una costola. In casa, quella sera, erano presenti, oltre ad Antonio e Martina, anche la moglie di Antonio, Maria Pezzillo, Federico, il fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini. Le Iene hanno intervistato di recente Maria Cristina, una vicina che abitava proprio sotto l’appartamento della famiglia Ciontoli, mai sentita dagli inquirenti. E Maria Cristina, che parla malissimo degli ex vicini e che dice che la sera della morte di Marco Vannini la macchina di Antonio Ciontoli non era nel solito posto dove la metteva da 20 anni, racconta di essere stata l’ultima persona che ha visto Marco vivo. Ai microfoni de Le Iene ha detto anche di non essere sicura di aver sentito la voce di Antonio Ciontoli in casa durante i fatti, di aver sentito una discussione, poi “un botto”, il silenzio e poi di nuovo una gran confusione. Anche lei, come un altro dei vicini dei Ciontoli, racconta di aver sentito Marco dire: “Scusa Martina”. E di aver sentito le sue urla e visto l’arrivo dei soccorsi. Solo in quel momento avrebbe visto la macchina di Antonio Ciontoli in mezzo alla strada. “Sono stata vent’anni sotto una famiglia di assassini”,dice a Giulio Golia. Le motivazioni della sentenza di secondo grado parlano di un ritardo “consapevole” nell’attivazione dei soccorsi da parte del Ciontoli. Una sentenza che sottolinea “la gravità della condotta tenuta dall'imputato, la tragicità dell'accaduto, l'assenza di significativi tratti di resipiscenza" e che dunque ha visto l’applicazione del massimo della pena (5 anni appunto) per i casi di omicidio colposo. Noi pensiamo che questa vicenda possa e debba avere ancora altre pagine da scrivere.
Vannini: tutte le possibili bugie e nuove verità sull'omicidio di Marco, scrive il 19 febbraio 2019 la redazione de Le Iene. Parlano i primi soccorritori e, per la prima volta, l'ex comandante della stazione dei Carabinieri di Ladispoli nel nuovo servizio dell'inchiesta sul caso di Marco Vannini, morto a 20 anni a seguito di un colpo partito dalla pistola impugnata dal padre della fidanzata Antonio Ciontoli (da poco condannato"anche"in Appello, con pena ridotta da 14 a 5 anni). Tra il 17 e il 18 maggio 2015 Marco Vannini è morto a seguito di un colpo di pistola a 20 anni a Ladispoli, vicino Roma nell’appartamento della fidanzata di allora, Martina. Il 29 gennaio scorso il padre della ragazza è stato condannato in Appello per la sua morte a 5 anni, contro i 14 anni sia della sentenza di primo grado sia della richiesta dell’accusa (il reato è stato derubricato da omicidio volontario a colposo). In casa, quella sera, erano presenti, oltre ad Antonio e Martina, anche la moglie di Antonio, Maria Pezzillo; Federico, fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini. Secondo l’ultima sentenza, Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti, avrebbe sparato senza volerlo a Marco Vannini mentre mostrava le sue pistole al ragazzo che si faceva il bagno nella vasca di casa. Le chiamate ai soccorsi, come sentite nel servizio, poi ritardano e nelle telefonate non viene citato il colpo di pistola. In questo nuovo servizio ricostruiamo punto per punto tutti i dubbi sulla ricostruzione, intercettazioni e testimonianze in aula comprese. Poi ascoltiamo quello che ricordano Ilaria e Christian, arrivati sull’ambulanza. Nessuno parla loro di colpi di arma da fuoco, si parla di un pettine che avrebbe ferito Marco: “Abbiamo subito capito che c’era qualcosa che non andava, siamo stati ingannati, abbiamo cambiato il codice da verde a rosso”. Il medico legale Luigi Cipolloni insiste sulla gravità del ritardo nel chiamare chiaramente soccorsi. Al Pronto Soccorso Antonio Ciontoli parla del colpo di pistola, avrebbe parlato però di “un colpo di striscio”. L’ex comandante della stazione dei Carabinieri, Roberto Izzo, parla per la prima volta della storia con Giulio Golia. Chiamato da Ciontoli, è arrivato al Pronto Soccorso. Ipotizza che il bagno della loro casa potrebbe essere stato pulito prima dell’arrivo della Scientifica. E si torna a parlare di una strana frase. Il brigadiere Manlio Amadori ha riferito in aula che in caserma Ciontoli avrebbe detto: “Così inguaio mio figlio…”. La settimana scorsa vi abbiamo mostrato la testimonianza esclusiva di una vicina di casa che ha parlato per la prima volta con Giulio Golia e che non è stata mai sentita dagli inquirenti.
Omicidio Marco Vannini, parlano i soccorritori: il servizio de Le Iene, scrive il 21 febbraio 2019 Attualità. Dopo le rivelazioni della vicina di Antonio Ciontoli, l’uomo condannato a 5 anni per la morte di Marco Vannini, Giulio Golia de Le Iene è tornato a Ladispoli. In un nuovo servizio il programma di Italia Uno ha portato alle luce, per la prima volta, le testimonianze dei primi soccorritori e per la prima volta del comandante della stazione dei Carabinieri di Ladispoli. Nell’ultimo servizio del programma di Mediaset sono state mandate in onda le dichiarazioni di Ilaria e Christian, i due soccorritori che a causa delle bugie raccontate nelle telefonate al 118 sono giunti sull’ambulanza, oltre un’ora dopo lo sparo che ha ucciso il ragazzo. I due credendo alle parole dei Ciontoli i avevano attivato una normale procedura da codice verde. Anche perché mai, né Antonio né il resto della famiglia avevano mai parlato di un colpo d’arma da fuoco. “Ci hanno detto che il ragazzo aveva un attacco di panico. L’abbiamo trovato sdraiato a terra, in stato di incoscienza. Io l’ho chiamato più volte – dice ancora Ilaria – Gli ho chiesto di tirare fuori la lingua se mi sentisse, lui l’ha fatto ma non riusciva a dire niente”. Insomma, al colpo di arma da fuoco nessuno accennava. Anzi, sempre secondo i due infermieri, Antonio Ciontoli avrebbe detto che con Marco stava scherzando su una partita di calcio quando “è scivolato, si è ferito con un pettine a punta ed è stato poi colto da un attacco di panico”. Non solo la famiglia della fidanzata di Marco ha mentito al 118 sulla vere condizioni del ragazzo ma nelle deposizioni i Ciontoli hanno riferito che, in quel momento, con i soccorritori ci fosse solo Antonio, loro sostengono una cosa ben diversa: “Ricordo perfettamente che erano tutti lì”, dice Christian. E poi Ilaria aggiunge: “A quel punto abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava, le condizioni di Marco non coincidevano affatto con un attacco di panico. Abbiamo cambiato il codice da verde a rosso”. Quella ferita non sembrava un foro di un proiettile: ”C’era un buchino piccolissimo, era pulito, quasi cicatrizzato, come una bruciatura di sigaretta. E Marco non era sporco di sangue – spiega ancora l’infermiera – Nell’emergenza esiste la golden hour, nella quale se si raccolgono tutte le informazioni si agisce per tempo. Questo a noi però è stato impedito”. Purtroppo, poco dopo le 3, Marco Vannini morirà in pronto soccorso. A ucciderlo, oltre al colpo d’arma da fuoco che gli ha trafitto il cuore, anche e soprattutto la montagna di bugie che è stata messa in piedi.
Omicidio Marco Vannini: nuove testimonianze esclusive, scrive il 12 febbraio 2019 la redazione de Le Iene. Nuove clamorose rivelazioni nel servizio di Giulio Golia sull'omicidio del 2015 di Marco Vannini, 20 anni, da parte del padre dell'allora fidanzata di Marco, Martina: Antonio Ciontoli (recentemente condannato in Appello a 5 anni invece di 14). Parla per la prima volta in esclusiva con Giulio Golia una testimone fondamentale nel caso Vannini. Non ha mai parlato prima non solo con i giornalisti ma anche con le forze dell’ordine, che non l’hanno mai convocata. È Maria Cristina, che abitava sotto la famiglia Ciontoli e che dice di aver sentito tutto quella sera tra il 17 e il 18 maggio 2015 in cui Marco Vannini è stato uccisocon un colpo di pistola a 20 anni nell’appartamento sopra di lei a Ladispoli, vicino Roma. “La famiglia degli assassini”, come lei la chiama, che viveva sopra di lei è quella di Antonio Ciontoli, padre dell’allora fidanzata di Marco, Martina, condannato in Appello il 29 gennaio scorso a 5 anni di carcere, invece dei 14 della sentenza di primo grado e della richiesta del pm (il reato è stato derubricato da omicidio volontario a colposo). La nuova sentenza ha fatto parecchio discutere e ha scatenato le proteste in primo luogo della famiglia di Marco. Ne abbiamo parlato con mamma Marina Conte che ora dice di non credere più nella giustizia. Il ragazzo è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata. Gli avrebbe sparato appunto il padre della ragazza, Antonio Ciontoli. In casa, quella sera, erano presenti, oltre ad Antonio e Martina, anche la moglie di Antonio, Maria Pezzillo; Federico, fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini. Abbiamo sentito Tommaso Liuzzi, ascoltato anche dagli inquirenti (e secondo lui vessato dopo la testimonianza), che abita accanto ai Ciontoli e racconta di una possibile discussione prima dello sparo alle 23.15: “Abbiamo sentito un urlo disumano, Marco chiedeva scusa come se avesse fatto qualcosa di sbagliato lui, scusa de che? Una settimana dopo la signora Ciontoli è venuta a casa nostra, io ho registrato, immagino che volesse sapere cosa avevamo sentito”. Vi facciamo sentire quel dialogo in cui Liuzzi chiede anche a lei perché Marco chiedeva scusa. Liuzzi è stato sentito gli inquirenti, gli altri vicini no. Abbiamo ritrovato anche chi viveva a quel tempo sotto la famiglia Ciontoli. È appunto Maria Cristina, che parla malissimo degli ex vicini che dice che la sera della morte di Marco Vannini la macchina di Antonio Ciontoli non era nel solito posto dove la metteva da 20 anni. Dice di essere l’ultima persona che ha visto Marco vivo a parte i Ciontoli, di non essere sicura di aver sentito la voce di Antonio Ciontoli da sopra, di aver sentito una discussione (come i Liuzzi), poi “un botto”, il silenzio, poi di nuovo una gran confusione. Anche lei racconta di aver sentito Marco dire: “Scusa Martina”. Poi dice di aver sentito le sue urla. All’arrivo dei soccorsi ha visto questa volta la macchina di Antonio Ciontoli. Se qualcuno l’avesse ascoltata, magari molti particolari si sarebbero chiariti.
“Omicidio Vannini, inaccettabile la frase del giudice alla mamma” , scrive l'1 febbraio 2019 la redazione de Le Iene. Dopo la condanna a 5 anni per Antonio Ciontoli per l’omicidio del fidanzato della figlia, Marco Vannini, anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede interviene nella polemica per la frase del presidente della Corte detta in aula alla madre Marina e a tutta la famiglia di Marco: “Se volete andare a farvi un giro a Perugia ditelo”. “È inaccettabile che un magistrato interrompa la lettura della sentenza per dire ‘se volete andarvi a fare un giro a Perugia ditelo’. Sono indignato”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, commenta così con un video sulla sua pagina Facebook quanto successo in aula martedì 29 gennaio alla lettura della condanna a 5 anni di carcere per Antonio Ciontoli per l’omicidio di Marco Vannini, morto a 20 anni a Ladispoli, vicino Roma. I familiari della vittima si erano scagliati contro la decisione della Corte d’Appello di ridurre la pena per Ciontoli, che era stato condannato in primo grado a 14 anni. “Questa sentenza non è stata pronunciata nel nome del popolo italiano, non certo nel mio. Vergogna!”, ha urlato la madre di Marco, Marina Conte. Il magistrato ha risposto, interrompendo la lettura della disposizione della sentenza, facendo allusione a una possibile denuncia per le offese che stava ricevendo(Perugia sarebbe il foro competente per questa). A essere indignati per la condanna non sono solo i familiari di Marco. Dalla rabbia che è dilagata sul web è nata una petizione su Change.org (clicca qui per partecipare alla petizione che ha già raccolto 180mila firme), indirizzata al ministro della Giustizia, in cui si chiede che venga riesaminato il caso e data una giusta pena ai colpevoli. L’accusa aveva chiesto 14 anni di reclusione per omicidio volontario in concorso per tutta la famiglia Ciontoli per l’uccisione di Marco Vannini, convinta del “coinvolgimento di tutti i familiari in questo episodio": "Questi soggetti hanno perso il lume della ragione, e nessuno ha detto che era stato esploso un colpo d’arma da fuoco. Forse Marco si poteva salvare”. Noi de Le Iene con Giulio Golia abbiamo ripercorso tutte le contraddizioni e i misteri che ancora avvolgono quanto accaduto nella notte del 17 maggio 2015. Sul caso è intervenuta anche Elisabetta Trenta, ministro della Difesa, con un post su Facebook. “Non posso entrare nei meriti della sentenza giudiziaria, poiché esula dalle mie competenze e prerogative, ma una cosa la posso fare: il mio impegno, il mio massimo impegno, fin quando sarò io a guidare il Ministero della Difesa, affinché al signor Ciontoli non sia concesso il reintegro in Forza Armata. Ho già in questo senso dato disposizioni alle competenti articolazioni della Difesa”. Antonio Ciontoli è infatti sottufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti. Marco Vannini, come vi abbiamo raccontato nel servizio di Giulio Golia del 13 maggio 2018, che vi riproponiamo integralmente qui sotto, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata. Il padre della ragazza, Antonio Ciontoli, avrebbe sparato a Marco colpendolo al braccio. La pallottola ha poi attraversato torace, polmone destro e cuore conficcandosi in una costola. In casa, quella sera, erano presenti, oltre ad Antonio e Martina, anche Federico, fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini(assolta e non coinvolta nella richiesta dell’accusa in Appello). La sentenza di primo grado del 18 aprile scorso aveva condannato a 14 anni solo Antonio Ciontoli per omicidio volontario, mentre la moglie, il figlio e l’altra figlia, allora fidanzata con Vannini, sono stati condannati a 3 anni per omicidio colposo. Con Giulio Golia abbiamo ripercorso le versioni della famiglia Ciontoli e evidenziato le contraddizioni che emergono dalle loro dichiarazioni. Mentre a distanza di tre anni i genitori di Marco sono ancora alla ricerca di una verità su cosa sia accaduto quella notte. Secondo la versione che era stata data dai Ciontoli durante l’interrogatorio dell’ottobre 2015, Marco alle 23.20 si trovava nella vasca da bagno quando Antonio avrebbe tirato fuori due pistole per fargliele vedere. “Mi aveva chiesto più volte di vederle”, dice il sottufficiale. Secondo la prima versione data da Antonio il colpo sarebbe partito per sbaglio nel riprendere l’arma che gli stava per scivolare. Ma la pm non crede a questa versione. Del resto dalle intercettazioni ambientali in caserma il giorno della tragedia, emerge un altro racconto dei fatti. “Io ho visto quando papà gli ha puntato la pistola”, dice Martina al fratello. “Gli ha detto: ‘Vedi di puntarla di là’ e papà gli ha detto ‘ti sparo’. Papà ha detto ‘è uno scherzo’ e lui ha detto ‘non si scherza così’”. E le contraddizioni non finiscono qui. Durante l’interrogatorio Antonio dice alla pm di non aver armato il cane della pistola (operazione necessaria per poter far partire il colpo). Come ha spiegato a Giulio Golia un esperto in balistica forense, per sparare senza armare il cane l’arma sarebbe dovuta essere in doppia azione. Ma dalla perizia balistica sulla pistola è emerso che l’arma di Antonio aveva un difetto e non funzionava in doppia azione. L’unica alternativa rimanente quindi è che l’uomo abbia scarrellato per armare il cane. Quando la pm lo fa notare ad Antonio, lui cambia versione. “Ho preso l’arma convinto che fosse scarica solo che praticamente… vabbè l’arma non mi stava scappando. L’ho presa, l’ho impugnata. L’ho scarrellata per scherzo. Ho fatto finta di sparare e invece… c’erano i proiettili all’interno della pistola. E mi è partito il colpo”. Anche secondo questa versione, i Ciontoli sostengono di non essersi accorti che fosse partito il colpo. Durante l’interrogatorio del 2015, Antonio riferisce infatti di aver pensato che il colpo che si era sentito fosse stato solo ad aria compressa. Ma in aula, il 26 ottobre 2017, tira fuori un’altra versione e alla domanda se si fosse reso conto che era partito il colpo risponde di sì. Dopo il servizio del 13 maggio gli avvocati della famiglia Ciontoli ci hanno contattato per sottolineare che gli audio degli interrogatori sono superati dal dibattimento, ovvero soprattutto dalla succitata ammissione del 2017 di Antonio Ciontoli. Giulio Golia ha risposto punto per punto alle loro osservazioni, sottolineando come giornalisticamente tutta la storia delle tentate ricostruzioni dell'accaduto sia comunque rivelante. Sono circa le 23.20 quando viene sparato il colpo. Il 118 verrà chiamato solo 20 minuti dopo, quando il ragazzo viene portato dai Ciontoli in camera da letto di Antonio, dove viene asciugato e vestito. Sono le 23:41 e Federico chiama il 118. “C’è un ragazzo che si è sentito male. Di botto è diventato bianco, non respira più. Probabilmente uno scherzo, si è spaventato tantissimo e non respira più”. Poi interviene la madre, si sentono urla in sottofondo e la chiamata viene annullata. Ma le condizioni di Marco peggiorano e, stando alla prima versione dei Ciontoli, a questo punto a Federico sorge il dubbio che il colpo fosse effettivamente partito e va a cercare il bossolo in bagno. Solo quando Federico rientra nella stanza e dice a tutti di aver trovato il bossolo, la famiglia si sarebbe resa conto che era stato esploso il proiettile. A questo punto Antonio richiama il 118 ma non dice che si tratta di un colpo di arma da fuoco. Sono passati 40 minuti dallo sparo e in sottofondo, nelle registrazioni della telefonata, si sentono le urla strazianti di Marco. “Un infortunio in vasca, è caduto e si è bucato un pochino con un pettine”, è la versione di Antonio al 118. Solamente una volta arrivati al centro di primo intervento l’uomo confessa al medico cosa fosse realmente accaduto. Alle 3.10 di notte, dopo ore di agonia, Marco muore.
Guardate qui sotto i due servizi di Giulio Golia dedicati all’omicidio di Marco Vannini e tutti gli articoli che abbiamo dedicato al caso.
Omicidio Marco Vannini, pene ridotte: 5 anni a Ciontoli. L'ira della mamma, scrive il 25 gennaio 2019 la redazione de Le Iene. Antonio Ciontoli è stato condannato per l’omicidio di Marco Vannini a 5 anni anziché 14 come richiesto dall’accusa (che voleva la stessa pena per tutta la famiglia di lui). Con Giulio Golia Golia abbiamo ripercorso tutte le contraddizioni e i misteri che ancora avvolgono quanto accaduto nella notte del 17 maggio 2015 a Ladispoli vicino a Roma, quando un ragazzo di 20 anni muore per un colpo di pistola sparato nella casa della sua fidanzata. Antonio Ciontoli condannato a 5 anni (rispetto ai 14 chiesti dall’accusa) per l’omicidio di Marco Vannini. Confermate invece le pene a tre anni per la moglie Maria Pezzillo e i figli Federico e Martina, fidanzata di Marco. Assolta Viola Giorgini, fidanzata di Federico Ciontoli, accusata di omissione di soccorso poiché presente in casa nel momento dell’omicidio. Noi de Le Iene con Giulio Golia abbiamo ripercorso tutte le contraddizioni e i misteri che ancora avvolgono quanto accaduto nella notte del 17 maggio 2015. “Questa sentenza non è stata pronunciata nel nome del popolo italiano, non certo del mio”, ha urlato la madre di Marco, Marina Conte. "Vergogna Italia! Non voterò più e straccerò le tessere elettorali”, si è chiesta la donna. “Com'è possibile che le condanne siano state persino ridotte?”. L’accusa aveva chiesto 14 anni di reclusione per omicidio volontario in concorso per tutta la famiglia Ciontoli per l’uccisione di Marco Vannini, morto a 20 anni a Ladispoli, vicino Roma, convinta del “coinvolgimento di tutti i familiari in questo episodio": "Questi soggetti hanno perso il lume della ragione, e nessuno ha detto che era stato esploso un colpo d’arma da fuoco. Forse Marco si poteva salvare”. Marco Vannini, come vi abbiamo raccontato nel servizio di Giulio Golia del 13 maggio 2018, che vi riproponiamo integralmente qui sotto, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata. Il padre della ragazza, Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti, avrebbe sparato a Marco colpendolo al braccio. La pallottola ha poi attraversato torace, polmone destro e cuore conficcandosi in una costola. In casa, quella sera, erano presenti, oltre ad Antonio e Martina, anche Federico, fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini (assolta in primo grado e non coinvolta nella richiesta dell’accusa in Appello). La sentenza di primo grado del 18 aprile scorso aveva condannato a 14 anni solo Antonio Ciontoli per omicidio volontario, mentre la moglie, il figlio e l’altra figlia, allora fidanzata con Vannini, sono stati condannati a 3 anni per omicidio colposo. Con Giulio Golia abbiamo ripercorso le versioni della famiglia Ciontoli e evidenziato le contraddizioni che emergono dalle loro dichiarazioni. Mentre a distanza di tre anni i genitori di Marco sono ancora alla ricerca di una verità su cosa sia accaduto quella notte. Secondo la versione che era stata data dai Ciontoli durante l’interrogatorio dell’ottobre 2015, Marco alle 23.20 si trovava nella vasca da bagno quando Antonio avrebbe tirato fuori due pistole per fargliele vedere. “Mi aveva chiesto più volte di vederle”, dice il sottufficiale. Secondo la prima versione data da Antonio il colpo sarebbe partito per sbaglio nel riprendere l’arma che gli stava per scivolare. Ma la pm non crede a questa versione. Del resto dalle intercettazioni ambientali in caserma il giorno della tragedia, emerge un altro racconto dei fatti. “Io ho visto quando papà gli ha puntato la pistola”, dice Martina al fratello. “Gli ha detto: “Vedi di puntarla di là” e papà gli ha detto “ti sparo”. Papà ha detto “è uno scherzo” e lui ha detto ‘non si scherza così’”. E le contraddizioni non finiscono qui. Durante l’interrogatorio Antonio dice alla pm di non aver armato il cane della pistola (operazione necessaria per poter far partire il colpo). Come ha spiegato a Giulio Golia un esperto in balistica forense, per sparare senza armare il cane l’arma sarebbe dovuta essere in doppia azione. Ma dalla perizia balistica sulla pistola è emerso che l’arma di Antonio aveva un difetto e non funzionava in doppia azione. L’unica alternativa rimanente quindi è che l’uomo abbia scarrellato per armare il cane. Quando la pm lo fa notare ad Antonio, lui cambia versione. “Ho preso l’arma convinto che fosse scarica solo che praticamente… vabbè l’arma non mi stava scappando. L’ho presa, l’ho impugnata. L’ho scarrellata per scherzo. Ho fatto finta di sparare e invece… c’erano i proiettili all’interno della pistola. E mi è partito il colpo”. Anche secondo questa versione, i Ciontoli sostengono di non essersi accorti che fosse partito il colpo. Durante l’interrogatorio del 2015, Antonio riferisce infatti di aver pensato che il colpo che si era sentito fosse stato solo ad aria compressa. Ma in aula, il 26 ottobre 2017, tira fuori un’altra versione e alla domanda se si fosse reso conto che era partito il colpo risponde di sì. Dopo il servizio del 13 maggio gli avvocati della famiglia Ciontoli ci hanno contattato per sottolineare che gli audio degli interrogatori sono superati dal dibattimento, ovvero soprattutto dalla succitata ammissione del 2017 di Antonio Ciontoli. Giulio Golia ha risposto punto per punto alle loro osservazioni, sottolineando come giornalisticamente tutta la storia delle tentate ricostruzioni dell'accaduto sia comunque rivelante. Sono circa le 23.20 quando viene sparato il colpo. Il 118 verrà chiamato solo 20 minuti dopo, quando il ragazzo viene portato dai Ciontoli in camera da letto di Antonio, dove viene asciugato e vestito. Sono le 23:41 e Federico chiama il 118. “C’è un ragazzo che si è sentito male. Di botto è diventato bianco, non respira più. Probabilmente uno scherzo, si è spaventato tantissimo e non respira più”. Poi interviene la madre, si sentono urla in sottofondo e la chiamata viene annullata. Ma le condizioni di Marco peggiorano e, stando alla prima versione dei Ciontoli, a questo punto a Federico sorge il dubbio che il colpo fosse effettivamente partito e va a cercare il bossolo in bagno. Solo quando Federico rientra nella stanza e dice a tutti di aver trovato il bossolo, la famiglia si sarebbe resa conto che era stato esploso il proiettile. A questo punto Antonio richiama il 118 ma non dice che si tratta di un colpo di arma da fuoco. Sono passati 40 minuti dallo sparo e in sottofondo, nelle registrazioni della telefonata, si sentono le urla strazianti di Marco. “Un infortunio in vasca, è caduto e si è bucato un pochino con un pettine”, è la versione di Antonio al 118. Solamente una volta arrivati al centro di primo intervento l’uomo confessa al medico cosa fosse realmente accaduto. Alle 3.10 di notte, dopo ore di agonia, Marco muore.
Marco Vannini, ucciso dal padre della fidanzata: “Condannate tutta la famiglia”, scrive il 9 gennaio 2019 la redazione de Le Iene. Il 17 maggio 2015 Marco Vannini, 20 anni, viene ucciso con un colpo di pistola mentre si trova a casa della fidanzata. In primo grado è stato condannato 14 anni per omicidio volontario solo il padre di lei, l’accusa in Appello chiede la stessa condanna anche per la moglie e i due figli. Con Giulio Golia abbiamo ripercorso tutte le contraddizioni e i misteri che ancora avvolgono quella notte. L’accusa chiede 14 anni di reclusione per omicidio volontario in concorso per tutta la famiglia Ciontoli per l’uccisione di Marco Vannini, il 20enne morto nella notte del 17 maggio 2015 a Ladispoli, vicino Roma. Il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Vincenzo Saveriano, si è detto convinto in aula del “coinvolgimento di tutti i familiari in questo episodio. Questi soggetti hanno perso il lume della ragione, e nessuno ha detto che era stato esploso un colpo d’arma da fuoco. Forse Marco si poteva salvare”. Marco Vannini, come vi abbiamo raccontato nel servizio di Giulio Golia del 13 maggio 2018, che vi riproponiamo integralmente qui sotto, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli. Il padre della ragazza, Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina distaccato ai servizi segreti, avrebbe sparato a Marco colpendolo al braccio. La pallottola ha poi attraversato torace, polmone destro e cuore conficcandosi in una costola. In casa, quella sera, erano presenti, oltre ad Antonio e Martina, anche Federico, fratello di Martina, e la sua fidanzata Viola Giorgini (assolta in primo grado e non coinvolta nella richiesta dell’accusa in Appello). La sentenza di primo grado del 18 aprile scorso aveva condannato a 14 anni solo Antonio Ciontoli per omicidio volontario, mentre la moglie, il figlio e l’altra figlia, allora fidanzata con Vannini, sono stati condannati a 3 anni per omicidio colposo. Con Giulio Golia abbiamo ripercorso le versioni della famiglia Ciontoli e evidenziato le contraddizioni che emergono dalle loro dichiarazioni. Mentre a distanza di tre anni i genitori di Marco sono ancora alla ricerca di una verità su cosa sia accaduto quella notte. “Penso sempre a quella sera, a cosa è successo. Non sapere la verità è una cosa che non so descrivere”, ha detto la mamma di Marco alla Iena. Secondo la versione che era stata data dai Ciontoli durante l’interrogatorio dell’ottobre 2015, Marco alle 23.20 si trovava nella vasca da bagno quando Antonio avrebbe tirato fuori due pistole per fargliele vedere. “Mi aveva chiesto più volte di vederle”, dice il sottufficiale. Secondo la prima versione data da Antonio il colpo sarebbe partito per sbaglio nel riprendere l’arma che gli stava per scivolare. Ma la pm non crede a questa versione. Del resto dalle intercettazioni ambientali in caserma il giorno della tragedia, emerge un altro racconto dei fatti. “Io ho visto quando papà gli ha puntato la pistola”, dice Martina al fratello. “Gli ha detto: "Vedi di puntarla di là" e papà gli ha detto "ti sparo". Papà ha detto "è uno scherzo" e lui ha detto "non si scherza così"”. E le contraddizioni non finiscono qui. Durante l’interrogatorio Antonio dice alla pm di non aver armato il cane della pistola (operazione necessaria per poter far partire il colpo). Come ha spiegato a Giulio Golia un esperto in balistica forense, per sparare senza armare il cane l’arma sarebbe dovuta essere in doppia azione. Ma dalla perizia balistica sulla pistola è emerso che l’arma di Antonio aveva un difetto e non funzionava in doppia azione. L’unica alternativa rimanente quindi è che l’uomo abbia scarrellato per armare il cane. Quando la pm lo fa notare ad Antonio, lui cambia versione. “Ho preso l’arma convinto che fosse scarica solo che praticamente… vabbè l’arma non mi stava scappando. L’ho presa, l’ho impugnata. L’ho scarrellata per scherzo. Ho fatto finta di sparare e invece… c’erano i proiettili all’interno della pistola. E mi è partito il colpo”. Anche secondo questa versione, i Ciontoli sostengono di non essersi accorti che fosse partito il colpo. Durante l’interrogatorio del 2015, Antonio riferisce infatti di aver pensato che il colpo che si era sentito fosse stato solo ad aria compressa. Ma in aula, il 26 ottobre 2017, tira fuori un’altra versione e alla domanda se si fosse reso conto che era partito il colpo risponde di sì. Dopo il servizio del 13 maggio gli avvocati della famiglia Ciontoli ci hanno contattato per sottolineare che gli audio degli interrogatori sono superati dal dibattimento, ovvero soprattutto dalla succitata ammissione del 2017 di Antonio Ciontoli. Giulio Golia ha risposto punto per punto alle loro osservazioni, sottolineando come giornalisticamente tutta la storia delle tentate ricostruzioni dell'accaduto sia comunque rivelante. Sono circa le 23.20 quando viene sparato il colpo. Il 118 verrà chiamato solo 20 minuti dopo, quando il ragazzo viene portato dai Ciontoli in camera da letto di Antonio, dove viene asciugato e vestito. Sono le 23:41 e Federico chiama il 118 (come potete sentire nel video qui sopra). “C’è un ragazzo che si è sentito male. Di botto è diventato bianco, non respira più. Probabilmente uno scherzo, si è spaventato tantissimo e non respira più”. Poi interviene la madre, si sentono urla in sottofondo e la chiamata viene annullata. Ma le condizioni di Marco peggiorano e, stando alla prima versione dei Ciontoli, a questo punto a Federico sorge il dubbio che il colpo fosse effettivamente partito e va a cercare il bossolo in bagno. Solo quando Federico rientra nella stanza e dice a tutti di aver trovato il bossolo, la famiglia si sarebbe resa conto che era stato esploso il proiettile. A questo punto Antonio richiama il 118 ma non dice che si tratta di un colpo di arma da fuoco. Sono passati 40 minuti dallo sparo e in sottofondo, nelle registrazioni della telefonata, si sentono le urla strazianti di Marco. “Un infortunio in vasca, è caduto e si è bucato un pochino con un pettine”, è la versione di Antonio al 118. Solamente una volta arrivati al centro di primo intervento l’uomo confessa al medico cosa fosse realmente accaduto. Alle 3.10 di notte, dopo ore di agonia, Marco muore. Cosa sia successo davvero in quell’ora in casa Ciontoli non è ancora stato chiarito. “Sono stanca di tutte queste cazzate”, dice la mamma di Marco a Giulio Golia. “Me l’hanno ammazzato come un cane, l’hanno spogliato della dignità”. “Sono tutti responsabili”, conclude il padre. A fine gennaio ci sarà l’udienza che porterà alla sentenza d’Appello per la famiglia Ciontoli. Naturalmente vi terremo aggiornati.
Marco Vannini, la diretta Facebook della fiaccolata, scrive il 17 maggio 2018 la redazione de Le Iene. Il 17 maggio 2015 Marco Vannini è stato ucciso a 20 anni dal padre della sua fidanzata, Antonio Ciontoli, mentre si trovava a casa loro. Guarda la fiaccolata a Cerveteri, dopo tre anni senza una verità certa. Noi ci siamo, con il nostro Giulio Golia. Come aveva promesso nel suo appello a partecipare di oggi, Giulio Golia è a Cerveteri (Roma) per la fiaccolata, che potete vedere nel video qui sopra,nell'anniversario dei tre anni passati dalla morte di Marco Vannini, ucciso a 20 anni da un colpo di pistola del padre della sua fidanzata. Per strada ci sono tantissime persone, migliaia, di tutte le età, molte di più del previsto. Chiedono gridando, tutti, mentre illuminano le strade di Cerveteri:"Giustizia, giustizia, giustizia per Marco!". La sera del 17 maggio 2015, secondo la verità processuale, Antonio Ciontoli, sottufficiale della marina militare distaccato ai servizi segreti, spara accidentalmente un proiettile verso il braccio destro di Marco, andando a colpire il torace. I soccorsi vengono inspiegabilmente chiamati solo un’ora dopo e Marco muore per emorragia interna. Dopo sua la morte, tutta la famiglia Ciontoli viene accusata di omicidio volontario. Pochi giorni fa la sentenza di primo grado condanna il padre Antonio a 14 anni per omicidio volontario, la moglie Maria e i figli Federico e Martina a 3 anni per omicidio colposo. Viene invece assolta la fidanzata di Federico, Viola Giorgini. Dopo 3 anni dall’accaduto non sono ancora chiare le dinamiche di quella notte. Il nostro Giulio Golia le ha ripercorse in due servizi: dalle telefonate al 118, in cui nessun membro della famiglia Ciontoli fa riferimento al colpo di arma da fuoco, alle intercettazioni in caserma e l’interrogatorio, fino alle registrazioni dei vicini di casa dei Ciontoli.
Omicidio di Marco Vannini, indagato ex comandante dei carabinieri di Ladispoli. Pubblicato mercoledì, 19 giugno 2019 da Giulio De Santis su Corriere.it. Chi ha sparato e ucciso Marco Vannini, 22 anni, la notte del 17 maggio del 2015 nella casa della sua fidanzata a Ladispoli? Due sentenze di primo e di secondo grado rispondono che sia stato Antonio Ciontoli, il padre di Martina, compagna di Marco, appartenete ai servizi segreti della Marina Militare. Ora però la Procura di Civitavecchia indaga su un nuovo scenario. È stato iscritto nelle registro il luogotenente Roberto Izzo, in servizio nella caserma dei carabinieri intervenuti la notte dell’omicidio: per lui l’accusa è di favoreggiamento e falsa testimonianza. Secondo in ipotesi investigativa, ancora tutta da riscontrare, a uccidere Vannini sarebbe stato Federico Ciontoli e la notte della tragedia Izzo, venuto a conoscenza di quanto accaduto, avrebbe detto ad Antonio Ciontoli di prendersi lui la colpa di tutto per coprire il figlio. Un consiglio che il carabiniere avrebbe dato a Ciontoli negli attimi concitati tra lo sparo a Vannini e l’arrivo dei soccorsi (chiamati con grande ritardo). A raccontare questo retroscena- come riporta il Messaggero che dà notizia dell’iscrizione di Izzo nel registro degli indagati - è stato Davide Vannicola, un commerciante di Tolfa, per altro amico del militare. Vannicola ha raccontato questo particolare prima alla trasmissione Le Iene e poi in Procura dove è stato convocato come persona informata sui fatti. «L’ex comandante dei carabinieri di Ladispoli, Roberto Izzo, sapeva che a sparare a Marco Vannini era stato il figlio di Antonio Ciontoli, Federico. E fu lui a suggerire al padre di prendersi la colpa». Questo il racconto di Vannicola, amico di Izzo dal 2005. L’ex comandante dei carabinieri avrebbe riferito al commerciante che Antonio Ciontoli lo chiamò subito dopo lo sparo dicendogli che «il genero era nella vasca, che era partito un colpo, non a lui ma a un familiare. Gli ho consigliato di prendersi la colpa perché dato che faceva parte dei servizi segreti, sicuramente non gli avrebbe precluso più di tanto, mentre il figlio è un ragazzo giovane». Una ricostruzione smentita però dal luogotenente Izzo. Supportato per altro dai tabulati telefonici, dove non c’è traccia di chiamate tra il luogotenente e Ciontoli la sera del 17 maggio del 2015. Al contrario risulta la telefonata di Ciontoli all’ex comandante, partita verso l’una, quando erano già tutti in ospedale e il padre di Martina aveva già dichiarato di essere stato lui a sparare. L’intera famiglia Ciontoli è stata condannata in secondo grado per omicidio colposo: il capofamiglia a 5 anni, la moglie e i figli a 3 (in primo grado per l’ex 007 era stata pronunciata la pena di 14 anni per omicidio volontario). E adesso la vicenda è finita in Corte di Cassazione. Da mesi Martina Ciontoli, all’epoca fidanzata di Marco, vive in una località segreta, e sconosciuta anche ai familiari, nel tentativo di ricostruirsi una vita.
Omicidio Vannini, archiviata l’indagine sul maresciallo Izzo. «Non coprì Ciontoli». Valentina Stella il 2 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Per quanto concerne il primo caso, Ciontoli ha denunciato il suo accusatore per diffamazione; per il secondo, l’accaduto, qualora fosse accertato, risalirebbe a molti anni fa. Il gip, su richiesta della Procura di Civitavecchia, ha archiviato il procedimento contro il maresciallo dei Carabinieri Roberto Izzo, accusato dal commerciante Davide Vannicola di aver coperto e aiutato Antonio Ciontoli nella notte della morte di Marco Vannini. L’uomo aveva raccontato – prima stranamente ai giornalisti e poi ai magistrati – che Izzo gli aveva confidato che a sparare a Marco era stato Federico Ciontoli e non suo padre Antonio, a cui il maresciallo avrebbe poi consigliato di prendersi la colpa. Dunque si trattava di una bufala, a cui molte trasmissioni televisive hanno dato grande risonanza, montando un caso mediatico che la procura non ha ritenuto degno di consistenza probatoria. «Non avevamo dubbi – commenta al Dubbio uno dei legali della famiglia Ciontoli, l’avvocato Andrea Miroli – sull’esito del provvedimento, considerata l’assoluta irrilevanza delle dichiarazioni del Vannicola. Sarebbe bastato ascoltare con attenzione le intercettazioni di Federico per credere alla genuinità del suo racconto». Non è la prima volta che nel procedimento che vede coinvolta l’intera famiglia Ciontoli per la tragica morte del giovane Vannini ( a febbraio la Cassazione) si cercano di inserire nuovi filoni per aggravare la posizione di Antonio Ciontoli: avrebbe puntato una pistola nei confronti di un automobilista sull’Aurelia e avrebbe rapinato una prostituta. Per quanto concerne il primo caso, Ciontoli ha denunciato il suo accusatore per diffamazione; per il secondo, l’accaduto, qualora fosse accertato, risalirebbe a molti anni fa e sarebbe penalmente irrilevante. Appare strano, però, che nello stesso giorno in cui è stata resa nota la decisione dell’archiviazione sulle accuse di Vannicola salti fuori la questione della prostituta. La sensazione è che per troppi Ciontoli e la sua famiglia meritino l’ergastolo morale e carcerario, rispetto alle condanne a 5 e 3 anni inflitte in appello.
Ladispoli, omicidio Vannini: indagato ex comandante carabinieri per favoreggiamento e falsa testimonianza. Secondo un servizio delle Iene, il militare avrebbe confidato a un amico che a sparare a Marco non sarebbe stato Antonio Ciontoli, ma il figlio Federico. Clemente Pistilli il 19 giugno 2019 su La Repubblica. Due processi e quattro anni di tempo non sono stati sufficienti a fare piena luce sull'uccisione del ventenne Marco Vannini, a Ladispoli, ma sono stati abbastanza per far calare ulteriori ombre sulla torbida vicenda, che vede ora indagato anche l'ex comandante dei carabinieri della locale stazione. La Procura della Repubblica di Civitavecchia ha infatti aperto un'inchiesta sul luogotenente Roberto Izzo, ipotizzando i reati di favoreggiamento e falsa testimonianza. Marco Vannini, di Cerveteri, venne ferito da un colpo di pistola mentre si trovava nel bagno della villetta della fidanzata, Martina Ciontoli. Un colpo partito dall'arma del padre della ragazza, Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina Militare ma, in base alle indagini svolte, anziché chiamare subito i soccorsi, i Ciontoli persero tempo e cercarono anche di nascondere quanto accaduto, causando così la morte del ragazzo. In primo grado il sottufficiale venne condannato a 14 anni di reclusione. Poi però la Corte d'Assise d'Appello ha ridotto a cinque anni di reclusione la condanna per Antonio Ciontoli, confermando quelle a tre anni per la stessa Martina, il fratello Federico e la madre Maria Pezzillo. Una sentenza su cui si dovrà esprimere la Corte di Cassazione. Ora arriva l'inchiesta a carico dell'ex comandante, aperta dopo un servizio delle Iene che hanno intervistato un commerciante di Tolfa, Davide Vannicola, amico del carabiniere. Il commerciante ha riferito di alcune confidenze che avrebbe ricevuto da Izzo, il quale gli avrebbe rivelato che a sparare a Marco non sarebbe stato Antonio Ciontoli, ma il figlio Federico. Nello specifico l'ex comandante gli avrebbe detto: "Ti ricordi di Ciontoli? La sera stessa che Marco Vannini morì mi chiamò dicendomi: Robè, c'è mio genero nella vasca da bagno con un colpo di pistola, mi devi aiutare". Un racconto che, come anticipato dal Messaggero, Vannicola ha poi confermato al procuratore capo di Civitavecchia, Andrea Vardaro, e al pm Roberto Savelli, precisando anche che l'ex comandante avrebbe detto a Ciontoli di prendersi lui la colpa di tutto per coprire il figlio. Il luogotenente Izzo nega e le indagini vanno avanti ascoltando come testimoni altri carabinieri, a partire dal brigadiere Manlio Amadori, in servizio il giorno del dramma.
Caso Vannini, il racconto del testimone: “Il maresciallo mi disse che a sparare non è stato Antonio Ciontoli, ma il figlio”. Stasera a “Le Iene” - Il racconto del testimone Vanniccola: “Il mio amico maresciallo mi rivelò questo segreto ”. Il Fatto Quotidiano 5 Maggio 2019. Colpo di scena a Le Iene sul caso Vannini: chi avrebbe sparato non sarebbe Antonio Ciontoli, l’agente dei servizi segreti che si è preso la colpa ed è stato condannato perché ritenuto l’uomo che ha premuto il grilletto e poi ha ritardato i soccorsi, bensì suo figlio, condannato anche lui per omicidio colposo ma solo per il comportamento successivo allo sparo del padre. La trasmissione mette nel mirino uno dei due carabinieri che ha svolto le prime indagini: il maresciallo Roberto Izzo. Il Carabiniere non avrebbe riferito quel che sapeva su Ciontoli. Inoltre, sempre secondo una testimonianza, avrebbe avuto l’ambizione di entrare nei Servizi proprio tramite Ciontoli. Marco Vannini, 20 anni, fu ucciso nel 2015 a casa della fidanzata da un proiettile sparato dal “suocero”, Antonio Ciontoli, secondo le sentenze di primo e secondo grado. Il racconto di Vannicola, amico dell’ex comandante dei carabinieri di Ladispoli Izzo, è stato raccolto da Giulio Golia e Francesca Di Stefano de Le Iene. Stasera alle 21:10 su Italia1 l’intervista andrà in onda: “Izzo sapeva – spiega Vannicola – che a sparare era stato il figlio di Antonio, Federico Ciontoli. E fu Izzo a suggerire al padre di prendersi la colpa (…) perché dato che faceva parte dei Servizi non gli avrebbe precluso più di tanto, mentre il figlio è giovane…”. Come fa Vannicola a esserne al corrente? “Un giorno Izzo è venuto nel mio negozio (di borse, ndr) e mi ha detto: ‘Sai amico mio, forse ho fatto una cazzata’. Dico: ‘Una cazzata che si può riparare?’ ‘Non lo so, forse si può recuperare, ma a livello di coscienza… sai è morto un ragazzo. È una cosa che mi porterò dentro tutta la vita’. Sono rimasto un po’ basito. Mi dice: ‘Hai sentito parlare del caso Vannini?’. Dico: sì. E mi fece ’sta confidenza che il Ciontoli l’aveva chiamato per risolvere un problema. Il Ciontoli alza il telefono e dice: ‘Robè è successo un guaio. Qui la mia famiglia ha fatto un casino, c’è il ragazzo di mia figlia ferito, nella vasca, me devi aiutà’. E Roberto gli dice: ‘Fammi capì, ma che è successo?’ E lui: ‘Robè, hanno fatto un guaio grosso, me devi fà capì come risolverlo’”. Golia chiede conferma: “Hanno fatto un guaio grosso?”. E Vannicola risponde annuendo: “Hanno fatto un guaio grosso”. In casa, oltre ad Antonio Ciontoli (condannato a 14 anni per omicidio volontario in primo grado e solo a 5 per omicidio colposo in appello) c’erano anche (condannati tutti a tre anni) la moglie Maria Pezzillo, la figlia Martina, fidanzata di Vannini, e Federico con la compagna Viola Giorgini (sempre assolta). Questa la ricostruzione de Le Iene: “La chiamata di Ciontoli a Izzo sarebbe partita prima ancora di quella all’ambulanza. In quell’arco di tempo sono stati persi minuti preziosi che avrebbero potuto salvare la vita del giovane Vannini”. La presunta telefonata non risulta agli atti. Risulta solo quella di Ciontoli all’ex comandante partita all’1:18, quando erano già in ospedale. Vannicola racconta che in precedenza Izzo gli spiegò: “Ho conosciuto una persona che quando andrò in pensione mi cambierà la vita. Entrerò nei Servizi”. Poi, circa sei mesi prima dell’omicidio, secondo Vannicola, il carabiniere Izzo portò Ciontoli nel suo negozio di borse per ordinarne una con una fondina, un porta pistola, all’interno. Golia è andato anche da Izzo che ha negato tutto con irritazione e fastidio. Due giorni fa la ministra della Difesa Trenta ad Accordi e disaccordi di Loftha chiesto a chi sa qualcosa di parlare con i pm. La ministra ha raccontato anche di aver chiamato più volte sul cellulare (su richiesta de Le Iene e senza risposta) il brigadiere Manlio Amadori, il secondo carabiniere di Ladispoli che seguì all’inizio il caso e che aveva fatto capire a Le Iene, di poter raccontare qualcosa, se autorizzato. Ora tocca al Comando Generale e alla magistratura battere un colpo.
Ciontoli disse che il figlio sparò a Vannini? Izzo gli consigliò di prendersi la colpa? Le Iene 6 maggio 2019. Parla a Giulio Golia Davide Vannicola, amico dell’ex comandante dei carabinieri di Ladispoli, Roberto Izzo: “Ciontoli chiamò Izzo subito dopo lo sparo a Marco e disse che i familiari avevano fatto un casino”. E sarebbe stato sempre lo stesso Izzo, racconta ancora Vannicola, a consigliare a Ciontoli di prendersi la colpa, per non inguaiare il figlio Federico
Nuove clamorose rivelazioni, se fossero confermate, sulla morte di Marco Vannini, il ragazzo di appena 20 anni deceduto la notte del 18 maggio 2015 a seguito di un colpo d’arma da fuoco esploso a Ladispoli in casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli. A parlare a Giulio Golia è Davide Vannicola, amico da quasi 12 anni dell'ex comandante dei carabinieri di Ladispoli, Roberto Izzo. L’uomo in compagnia della moglie, dopo non pochi tentennamenti, racconta a Le Iene le confidenze che proprio Izzo gli avrebbe fatto dopo l’omicidio di Marco Vannini. Confidenze clamorose, che se confermate indicherebbero in Federico Ciontoli,il fratello di Martina, la persona che avrebbe sparato a Marco. Per la sua morte, avvenuta il 18 maggio 2015 a seguito di un colpo d’arma da fuoco esploso a Ladispoli in casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, è stato condannato in Appello Antonio Ciontoli, a 5 anni per omicidio colposo. Racconta ancora Davide Vannicola: "L'ex comandante dei carabinieri di Ladispoli, Roberto Izzo, sapeva che a sparare a Marco Vannini era stato il figlio di Antonio Ciontoli, Federico. E fu lui a suggerire al padre di prendersi la colpa". Ma torniamo un attimo indietro. Vannicola dice di aver conosciuto lo stesso Antonio Ciontoli qualche mese prima della morte del giovane. "Ciontoli era venuto nel mio negozio di pelletteria portato da Izzo: gli ho fatto una borsa su misura con la fondina per la pistola". Secondo quanto riferisce Vannicola, l'amicizia fra Izzo e Ciontoli risalirebbe a un anno prima dell'omicidio. il punto centrale della sua testimonianza sarebbe la confidenza che poco dopo la morte di Marco l’ex comandante Izzo gli avrebbe fatto: "Izzo mi ha detto che la prima persona che Ciontoli ha chiamato (dopo lo sparo a Marco Vannini, ndr) è stato lui". Una chiamata che sarebbe partita dunque prima che lo stesso Ciontoli avvertisse il 118 per far attivare l’ambulanza. È mistero con quale telefono abbia chiamato Ciontoli (perché Davide dice di sapere che Antonio ne aveva due). Di questo secondo telefono e di questa chiamata a Izzo non c’è traccia nel processo. I legali dei Ciontoli hanno sempre negato che esista un telefono di servizio, ma Davide sostiene di aver visto in un’occasione Ciontoli con due telefoni. Questa chiamata di cui parla Davide Vannicola sarebbe stata fatta da Antonio Ciontoli subito dopo il colpo esploso contro Marco e prima dunque della chiamata di Federico al 118 (alle 23.41) e di quella fatta poi dallo stesso Ciontoli, che ai soccorritori parla di un pettine che avrebbe bucato il ragazzo, alle 00.06. L'ambulanza arriverà 17 minuti dopo. Vannicola spiega quello che Izzo gli avrebbe confidato. Ciontoli gli avrebbe fatto un resoconto di quello che era appena accaduto: "Il genero era nella vasca, era partito un colpo, non a lui ma a un familiare. Diceva che avevano fatto un guaio grosso ", dice Vannicola a Golia. “Hanno fatto”, dunque, una frase che suggerirebbe una responsabilità per il colpo non attribuibile ad Antonio ma a uno dei suoi familiari. Izzo, durante quella chiamata, avrebbe risposto così a Ciontoli: "Aspetta, ti richiamo fra un pochino, fammi pensare". Poi avrebbe riattaccato. Un prendere tempo che forse ha penalizzato le condizioni di salute del giovane, che per i giudici sarebbe morto anche a seguito dei ritardi nella attivazione dei soccorsi. Ma c’è molto di più, racconta ancora Davide Vannicola a Giulio Golia. Vannicola dice a Golia di aver chiesto al carabiniere, durante quella sua confidenza: “Quando sei arrivato in ospedale non hai chiesto come fosse successo e perché i familiari non erano in ospedale con Ciontoli?". E il carabiniere gli avrebbe risposto: "Che ti devo dì. Sicuramente stanno a pulì casa". I genitori di Marco ricordano che la fidanzata del figlio, Martina, e la ragazza di Federico, Viola, sarebbero arrivate al pronto soccorso almeno 20 minuti dopo. Cosa stavano facendo mentre Marco era stato portato all’ospedale? Davide Vannicola spiega ancora che quando i Ciontoli sono andati in caserma, sarebbe stato proprio l'ex comandante Izzo a suggerire al padre Antonio di prendersi le colpe. A Vannicola, Roberto Izzo avrebbe detto: "Gli ho consigliato di prendersi la colpa perché dato che faceva parte dei servizi segreti, sicuramente non gli avrebbe precluso più di tanto, mentre il figlio è un ragazzo giovane...". Così Giulio Golia chiede a Vannicola: "Izzo sapeva che a sparare a Vannini era stato Federico?". "Sicuramente sì", risponde l'amico del carabiniere. In aula il brigadiere Manlio Amadori ha detto che, mentre Marco in ospedale stava morendo, i Ciontoli erano tutti in caserma e Antonio avrebbe iniziato a dare una prima versione dei fatti. In corridoio, alla presenza di Izzo, spiega ancora Amadori, Ciontoli avrebbe detto: “Adesso metto nei guai mio figlio!” Secondo Davide Vannicola, Izzo forse potrebbe aver aiutato Ciontoli perché quest’ultimo gli avrebbe promesso, alla pensione, di farlo entrare nei servizi segreti. Una passione, quella di Izzo per i servizi, che lui stesso alla nostra telecamere nascosta aveva ammesso di avere: “il mio ex suocero era un alto dirigente dei servizi segreti ed è lui che non mi ha voluto far andare ai servizi segreti”. Dopo queste clamorose dichiarazione, decidiamo di tornare a parlare con il maresciallo Izzo, per sapere la sua versione sulle parole del suo amico Davide Vannicola. All’inizio dice di essere stato diffidato nel parlare ancora del caso ma poi, quando Giulio Golia gli dice che Ciontoli quella sera avrebbe chiamato un'altra persona prima della telefonata ufficiale a Izzo, risponde di non averne la minima idea: “Non so che dire, questa storia sta diventando un po’ imbarazzante per tutti”. Giulio Golia gli chiede che ci facesse tempo prima a Tolfa nel negozio di pelletteria di Davide, e lui dice: “Mai stato a Tolfa con Ciontoli, assolutamente no”. La Iena gli mostra una foto della borsa con la fondina portapistola di cui ci ha parlato Davide Vannicola ma Izzo nega ancora una volta di essere mai stato con Ciontoli in quel negozio. Izzo nega soprattutto di essersi mai confidato con Davide rispetto alla sua conoscenza con Ciontoli. “Non sono io quel carabiniere amico di Ciontoli. Se poi ci sono altri carabinieri amici di Ciontoli, non lo so”. E alla domanda secca di Giulio Golia su quella famosa chiamata di Ciontoli subito dopo lo sparo a Marco Vannini, ribatte: “Tirami fuori questa cosa e io ti pago la cena” E aggiunge: “è imbarazzante quello che stai dicendo. Io ho giurato davanti a un tribunale e davanti a un giudice di dire la verità. Non mi è stata contestata nessun altra telefonata prima di quella, perché non è mai esistita!”. All’omicidio Vannini, con un’analisi specifica della sera della morte di Marco e dei primi due processi, abbiamo appena dedicato un intero Speciale Iene, che vi riproponiamo qui sotto.
Quando Ciontoli minacciò con una pistola un automobilista. Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Giulio De Santis su Corriere.it. «Mi ha puntato la pistola contro dopo aver provato a tagliarmi la strada con l’auto : sono le parole riferite durante una trasmissione televisiva, che accusano Antonio Ciontoli di aver sfoderato un’arma con l’intento di impaurire la vittima. La dichiarazione ha convinto la procura di Civitavecchia a indagare con l’accusa di minacce aggravate il sottoufficiale della Marina, già nei guai perché ritenuto responsabile della morte di Marco Vannini, il fidanzato della figlia. Per quest’ultima vicenda, Ciontoli — difeso dall’avvocato Pietro Messina— è stato condannato in appello a cinque anni di reclusione con l’accusa di omicidio colposo. Queste le frasi che hanno fatto aprire il nuovo fronte giudiziario nei confronti di Ciontoli- «Ero sul tratto della via Aurelia nell’estate 2014, poco prima di Castel di Guido, lungo una discesa. e per una trentina di secondi una macchina dietro di me ha tentato di tagliarmi la strada. Usava gli abbaglianti» è il racconto fatto da sessantenne in un’intervista alla giornalista di «Quarto Grado», Anna Boiardi. L’uomo prosegue con la giornalista nel ricordare quanto accaduto cinque anni fa: «Ho rallentato un po’ perché pensavo che lo sconosciuto fosse alterato da qualche sostanza, ma quando ha accostato e io ho abbassato il finestrino lui, con viso molto duro, senza dir niente, mi ha puntato la pistola. L’ho riconosciuto subito appena l’ho visto in tv. Era il signor Ciontoli». Di fatto Ciontoli - che con gli inquirenti ha negato il fatto in un lungo interrogatorio - sarebbe finito nei guai perché il suo volto è diventato (tristemente) noto dopo la morte di Marco Vannini. Il guidatore a quel punto avrebbe ricollegato il viso di chi lo aveva minacciato nel 2014 a quello di chi si è finora assunto la responsabilità della scomparsa traumatica del 22enne fidanzato della figlia Martina, la quale da mesi viva in una località sconosciuta agli stessi genitori. Anche Martina Ciontoli è stata condannata a tre anni insieme al fratello e alla madre con l’accusa di omicidio colposo per la scomparsa di Marco. Un ulteriore capitolo riguarda gli sviluppi della nuova inchiesta bis sui fatti accaduti la sera della tragedia, avvenuta il 18 maggio del 2015 a Ladispoli. Il luogotenente tenente Roberto Izzo, in servizio presso la caserma i cui uomini intervennero sul luogo dell’omicidio la notte del dramma, potrebbe aver consigliato a Ciontoli in quelle ore concitate di assumersi la responsabilità dello sparo mortale per togliere dai guai il figlio Federico, che ne sarebbe stato il vero autore. È un’ ipotesi - tutta da riscontrare - al vaglio degli inquirenti, per cui Izzo è indagato con l’accusa di favoreggiamento e falsa testimonianza.
Quella denuncia a Ciontoli arrivata a mezzo stampa e 4 anni dopo. Valentina Stella il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. L’uomo accusato dell’omicidio Vannini indagato per minaccia. L’accusa di un sessantenne: «mi ha puntato una pistola in faccia». Ma parla solo in televisione e molto tempo dopo l’evento. Antonio Ciontoli torna al centro della cronaca. Ora è indagato anche per minaccia aggravata. L’uomo, già condannato in secondo grado per la morte di Marco Vannini, fidanzato di sua figlia Martina, due giorni fa è stato ascoltato dai carabinieri di Civitavecchia perché avrebbe puntato la pistola in faccia a un signore sulla sessantina dopo aver cercato anche di tagliargli la strada mentre erano entrambi in auto. «Ero sul tratto della via Aurelia – ha raccontato l’uomo – poco prima di Castel di Guido, su una discesa e per una trentina di secondi una macchina dietro mi voleva tagliare la strada abbagliandomi. Ho rallentato un po’ perché pensavo fosse alterato da qualche sostanza ma quando mi ha accostato e io ho abbassato il finestrino lui, con viso molto duro senza dire niente, mi ha puntato la pistola. L’ho riconosciuto subito, poi, appena l’ho visto in tv. Era il signor Ciontoli». Testimone attendibile o mitomane? La domanda è lecita se si prendono in considerazione alcuni elementi: i fatti risalgono a maggio 2014 ma è a gennaio 2018 che l’uomo decide di parlare, non direttamente nelle sedi giudiziarie opportune, ma in televisione, ospite di Quarto Grado su Rete 4. «La denuncia – ci dicono i legali di Ciontoli, Andrea Miroli e Pietro Messina – sarebbe scattata poi d’ufficio a seguito di un esposto della madre di Marco Vannini». Da lì l’uomo sarebbe stato convocato per parlare dinanzi all’autorità giudiziaria. Gli avvocati precisano anche che il loro assistito nega l’addebito e ai carabinieri ha prodotto copia della denuncia- querela presentata alla Procura di Civitavecchia contro l’accusatore, chiedendo di procedere contro di lui per diffamazione. Infine «prendono atto di come i riflessi mediatici di questa vicenda siano stati causa dell’insorgere di procedimenti giudiziari per fatti che, invece di essere rappresentati nelle sedi opportune e a tempo debito, vengono rivelati dinanzi a telecamere accese e a distanza di svariati anni dal loro accadimento, con buona pace dei più elementari principi di diritto». Inoltre i difensori di Ciontoli se la prendono con la Procura, perché secondo loro starebbe «usando due pesi e due misure, avendo dato impulso ad una denuncia palesemente infondata, mentre non ha esitato a chiedere l’archiviazione delle numerose e documentate denunce sporte dal nostro assistito nei confronti dei noti “leoni della tastiera” – denunce delle quali non si è avuta alcuna notizia».
La controversia tra Sciarelli e Leosini: donne contro per l’audience. Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Donne contro, per un uomo. A Rai3 è in atto una controversia fra Federica Sciarelli e Franca Leosini. Motivo? La Sciarelli ha commentato, con una punta di sarcasmo, l’intervista che Antonio Ciontoli, condannato per l’omicidio del giovane Marco Vannini di Ladispoli, morto a soli 20 anni, ha rilasciato alla Leosini e che è andata in onda domenica e lunedì sera. «A noi, Antonio Ciontoli, l’intervista non l’ha mai concessa. Come si dice, fatevi una domanda e datevi una risposta», aveva tuonato in trasmissione. Già erano sorte polemiche quando del caso se n’era occupata anche Roberta Petrelluzzi, pubblicando un post di sostegno alla famiglia Ciontoli che aveva fatto indignare molti. Marco è in casa della fidanzata e mentre sta facendo il bagno viene colpito da un proiettile, partito da una pistola con cui il futuro suocero si gingillava. Dal momento dello sparo, la famiglia Ciontoli racconta un sacco di bugie incredibili che forse impediscono al giovane di salvarsi. In primo grado Ciontoli era stato condannato a 14 anni; in Appello a 5 anni per omicidio colposo. La moglie Maria Pezzillo, e i figli Federico e Martina sono stati invece condannati a tre anni. A cosa servono queste interviste della Leosini, a legittimare il fatto che la Televisione vuole sostituirsi al Tribunale? Perché un mentitore reo confesso come Antonio Ciontoli accetta di sottoporsi all’interrogatorio delle telecamere? Ne esce a pezzi ma spera forse che qualche giudice della Cassazione segua il programma e ne colga il lato umano? La stessa Leosini, a un certo punto, gli dice: lei o è un pazzo o un imbecille. La strategia di Ciontoli è di passare per imbecille? Federica Sciarelli aveva raccolto il dolore della famiglia Vannini, sconcertata per lo spazio che la Leosini avrebbe concesso a Ciontoli per chiedere perdono via etere. Donne contro, per l’audience. Sulle spoglie di un ragazzo di vent’anni ucciso non si sa per cosa.
“Un giorno in pretura”, con Roberta Petrelluzzi, torna dal 28 aprile. In onda da più di trent’anni, è una delle trasmissioni più longeve di Raitre. Ritorna con quattro nuovi appuntamenti dedicati a grandi processi. Simona De Gregorio su Sorrisi.com il 28 Aprile 2019. In onda da più di trent’anni, "Un giorno in pretura" è una delle trasmissioni più longeve di Raitre. E da domenica 28 aprile ritorna in prima serata su Raitre con quattro nuovi appuntamenti dedicati a grandi processi. Alla conduzione ritroviamo Roberta Petrelluzzi, che ne è anche ideatrice e regista. E ad aprire il ciclo è il caso Ciontoli: il 17 maggio 2015 a Ladispoli (Roma) Marco Vannini, 20 anni, si ferma per la notte a casa della fidanzata, Martina Ciontoli. Nella notte il padre di Martina chiama il 118 per un piccolo incidente avvenuto a Marco. In realtà il ragazzo è stato colpito da un colpo d’arma da fuoco partito accidentalmente dalla pistola di Antonio e muore.
Perché avete scelto questa storia?
«Perché è un caso che ha avuto un grande rilievo mediatico. E noi ricostruiamo tutte le fasi del processo, in cui si è cercato di rispondere a tante domande: se i Ciontoli avessero chiamato tempestivamente i soccorsi Marco si sarebbe salvato? Si sono resi realmente conto della gravità della situazione?».
Quanto impiegate per realizzare una puntata?
«Tanto tempo perché dietro c’è un lungo e meticoloso lavoro. Partiamo dagli atti processuali che leggiamo dall’inizio alla fine con grande attenzione e poi mettiamo insieme tutto il materiale creando una sorta di sceneggiatura. È una ricostruzione fedelissima, non ci sono giudizi, interpretazioni, morbosità».
Non si lascia mai coinvolgere dalle vicende che trattate?
«Cerco di essere il più possibile distaccata. Ma non sempre ci riesco. Quando abbiamo affrontato il delitto di Avetrana ho sofferto tantissimo perché sono convinta che la zia e la cugina di Sarah Scazzi non siano colpevoli della sua morte».
Qual è il segreto della longevità di Un giorno in Pretura?
«Ogni processo è un teatro della vita reale, fatta di sentimenti, di errori, di debolezze, che noi mostriamo senza mediazioni. Il pubblico segue un caso e si fa un’opinione scevra da pregiudizi».
Caso Vannini, Ciontoli in tv: «Spero nel perdono della famiglia di Marco». Pubblicato lunedì, 01 luglio 2019 da Corriere.it. Franca Leosini è tornata e lo fa per affrontare un’altra storia maledetta: quella della morte di Marco Vannini - ucciso con un colpo di pistola al cuore la notte del 17 maggio del 2015 nella casa della sua fidanzata a Ladispoli - Nella prima parte dello speciale andato in onda domenica sera su Rai3 (martedì la seconda), intervista Antonio Ciontoli il padre di Martina, compagna di Marco, appartenente ai servizi segreti della Marina militare — per la prima volta in tv — che per quella morte, è stato condannato (in Appello) a 5 anni di carcere. «Spero che un giorno i genitori di Marco possano avere misericordia e perdonarmi», ha detto il militare, in lacrime, a favore delle telecamere. Come sempre da Leosini, arrivano domande chirurgiche e con i suoi «perché?» più volte lo inchioda affinché gli alleggerimenti semantici messi in atto dall’intervistato/interrogato vengano riportati alla giusta dimensione narrativa. «Non ci può essere “vergogna” per aver mentito ai figli e al 118, per non aver chiamato i genitori del ragazzo o per aver chiesto al medico di non dire che aveva sparato, ma “disperazione” - dice la giornalista e conduttrice con migliaia di follower (i leosiners) - non può dire di aver “rovinato” delle vite, ma le ha “distrutte”; non può dire di aver fatto delle “stupidate”, ma almeno degli “errori [...] di cui il meno grave è stato sparare con un colpo in canna». Cerca di giustificarsi Ciontoli ma Leosini lo rimette di fronte alle bugie, ai depistaggi, alle sue responsabilità contrapponendo alcune sue dichiarazioni con quelle opposte dei genitori di Marco al processo e soprattutto riportando Marco in scena. «Cosa le ha detto?», «Si lamentava?», «Aveva capito di essere stato colpito?», «Ricorda cosa diceva mentre si lamentava? No? Glielo ricordo io...», «Perché chiedeva scusa? - chiede Leosini a Ciontoli, «non lo so, non ho sentito, l’ho letto dalle carte, stava bene...» risponde. Leosini gli ricorda le telefonate al 118 che gridano vendetta. «Con un’apertura di credito... totale, c’è da essere convinti che quella notte non abbia mai pensato per un attimo che da quel forellino di un centimetro e zero nove sarebbe entrata quella nera figura con falce...», lapidaria lo gela col suo stile - raffinato e glaciale- ormai noto. Ma chi ha sparato e ucciso Marco Vannini? Due sentenze di primo e di secondo grado rispondono che sia stato Antonio Ciontoli. Ora però la procura di Civitavecchia indaga su un nuovo scenario. È stato iscritto nelle registro il luogotenente Roberto Izzo, in servizio nella caserma dei carabinieri intervenuti la notte dell’omicidio: per lui l’accusa è di favoreggiamento e falsa testimonianza. Secondo l’ipotesi investigativa, ancora tutta da riscontrare, a uccidere Vannini sarebbe stato Federico Ciontoli e la notte della tragedia Izzo, venuto a conoscenza di quanto accaduto, avrebbe detto ad Antonio Ciontoli di prendersi lui la colpa di tutto per coprire il figlio. Un consiglio che il carabiniere avrebbe dato a Ciontoli negli attimi concitati tra lo sparo a Vannini e l’arrivo dei soccorsi (chiamati con grande ritardo).
Caso Vannini, Antonio Ciontoli: "Sono stato io a sparare. Spero mi perdonino". Il maresciallo della Marina, condannato in appello a 5 anni di reclusione per l'omicidio colposo del fidanzato della figlia ha raccontato la sua verità a Storie Maledette. Il difensore della famiglia della vittima: "Disgustato". Francesco Salvatore l'1 luglio 2019 su La Repubblica. “Spero che i genitori di Marco mi perdonino ma sono stato io a sparare”. Queste le parole dette ieri da Antonio Ciontoli nell'intervista rilasciata a Franca Leosini nella prima puntata di “Storie Maledette”, su Rai Tre. Il maresciallo della Marina, condannato in appello a 5 anni di reclusione per omicidio colposo nel processo per la morte di Marco Vannini, ha raccontato la sua verità in tv. L'uomo ha ripercorso in lungo e largo cosa è successo il 17 maggio 2015, quando Marco Vannini, fidanzato di sua figlia Martina, è stato raggiunto da un colpo di pistola che gli è risultato fatale. In primo grado Ciontoli era stato condannato a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale ma la Corte d’Assise d’Appello, ritenendo che la vicenda non fosse nulla di più che un omicidio colposo, ha ridotto da 14 a 5 anni di reclusione la condanna per il sottufficiale della Marina, confermando quelle a tre anni per i figli del militare, Martina e Federico, e la moglie Maria Pezzillo. Una sentenza che ha sollevato profonda indignazione a livello nazionale e su cui pende un ricorso in Cassazione. “Sono stato io a sparare non Federico che si trovava in camera con Viola – ha detto l'uomo - Volevo spolverare le pistole e, dopo averle prese, le ho riposte nella scarpiera del bagno. Quella sera, andando a letto, mi sono accorto di essermi dimenticato lì le armi. Ho bussato alla porta, sono entrato e c’erano Martina e Marco. Lei è uscita subito”. Quindi Ciontoli ha ripercorso il momento in cui è partito il colpo. Un modo, questo, per spazzare via ogni dubbio sull'autore dell'omicidio (colposo): “Lo sparo c’è stato dopo: Marco mi ha chiesto di vedere una pistola ed è partito il proiettile. È stato un movimento unico che è durato meno di un secondo, ho caricato e premuto istintivamente il grilletto per fargli vedere come funzionava. Nei primi secondi mi si è cancellato il cervello non ho capito nulla. C’era poco sangue e un piccolo buchino”. Il sottoufficiale della Marina, in passato anche con un ruolo nei servizi segreti, ha proseguito: “Nei primi istanti sono rimasto scioccato, pensavo avesse solo un colpo nel braccio. Ho pagato la mia sicurezza. Marco era come un figlio, con lui avevo un rapporto intimo”. L’uomo ha quindi proseguito negando di essersi accorto della gravità della situazione: “La mia impressione è che lui fosse intimorito, che fosse andato in panico. Non ci siamo confrontati, non mi ha detto "mi hai sparato". Si è lasciato aiutare in questo dolore, si è fidato anche lui di me, come si sono fidati i miei figli, mia moglie e Viola”. Sul caso, durante la trasmissione, l'avvocato della famiglia Vannini, Celestino Gnazi, ha scritto un suo commento polemico su Facebook: “Ho sentito Antonio Ciontoli dire di aver rassicurato la figlia Martina sulle condizioni di Marco, lo ho sentito dire che lo stesso Marco rassicurava Martina. Marco rassicurava Martina dicendole più o meno che stava bene. Secondo Ciontoli Marco, appena colpito da una arma da fuoco di potenza devastante, il cui proiettile gli aveva appena bucato i polmoni, gli aveva appena bucato il cuore, gli aveva appena bucato una costola e che non era fuoriuscito solo perché trattenuto dalla epidermide. Ebbene, in questa straziante ed ovvia condizione di atroce dolore, Ciontoli dice che quel povero ragazzo avrebbe detto a Martina che praticamente non era successo nulla”. Il difensore, non ha risparmiato critiche nemmeno alla giornalista, Franca Leosini: “Non ho sentito la Leosini sobbalzare o quantomeno dire qualcosa, fare una domanda, un accenno di sorpresa, qualcosa, non so. Disgustato ho spento il televisore e, per la prima volta dall’inizio di questa tragica vicenda, ho pianto di rabbia. Ho la nausea, non credo di aver mai provato una nausea così forte. Talmente forte da impedirmi di dire tutto quello che penso”. Intanto sul caso Vannini in procura a Civitavecchia sono state avviate nuove indagini, un’inchiesta bis aperta dopo le dichiarazioni di un commerciante della vicina Tolfa a “Le Iene”, che ha raccontato di aver ricevuto delle confidenze dall’ex comandante dei carabinieri di Ladispoli, Roberto Izzo, il quale gli avrebbe detto che a sparare non era stato Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina Militare, ma il figlio Federico. Gli inquirenti, ritenendo al momento attendibile la testimonianza del pellettiere Marco Vannicola, hanno quindi indagato il luogotenente Roberto Izzo, che respinge però ogni accusa ipotizzando i reati di favoreggiamento e falsa testimonianza, e iniziato ad ascoltare una serie di testimoni: militari dell’Arma, persone vicine a Izzo, la compagna di Vannicola e anche Viola Giorgini, la fidanzata di Federico. La ragazza, che si trovava in casa Ciontoli la tragica notte del 17 maggio 2015, è stata ascoltata dal procuratore capo Andrea Vardaro e dal sostituto Roberto Savelli.
Caso Vannini, Ciontoli in tv: «Quanto vale aver tolto la vita a Marco?» «L’ergastolo». Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Clarida Salvatori su Corriere.it. «“Perché Antonio Ciontoli parla adesso? Perché non ha aspettato la fine del processo?». Se lo è chiesta amareggiata Marina, la mamma di Marco Vannini dopo la prima puntata di “Storie maledette”, andata in onda domenica sera su Rai3. E se lo chiedono in tanti. La risposta sta forse nelle domande con cui la conduttrice, Franca Leosini, incalza lo stesso Ciontoli nei primi minuti della seconda puntata dedicata al caso Vannini, trasmessa martedì in prima serata. «Ci sono tanti dubbi che a sparare sia stato suo figlio Federico. Ci sono anche testimonianze, come quelle dei suoi vicini, che indirizzano in questa direzione». E ci sono anche le dichiarazioni di un negoziante di Tolfa, Davide Vannicola, che sostiene di aver saputo dal carabiniere Roberto Izzo (ex comandante della stazione di Ladispoli, ndr), ora indagato per favoreggiamento e falsa testimonianza, che Ciontoli lo avrebbe chiamato a poche ore dallo sparo nel bagno di casa sua e insieme avrebbero deciso che sarebbe stato lui a prendersi la colpa dell’accaduto. Circostanze che però lo stesso Ciontoli e lo stesso Izzo smentiscono categoricamente. A parte una dichiarazione iniziale in cui Ciontoli e la moglie (condannata in primo e in secondo grado con il resto della famiglia a 3 anni per omicidio colposo, ndr) affermavano di essere stati a cena fuori quella sera del 17 maggio del 2015, dichiarazione poi non confermata, c’è la signora Maria Cristina, vicina di casa della famiglia Ciontoli a Ladispoli, che ricorda chiaramente che la macchina dello 007 della Marina militare non era parcheggiata al solito posto, ma che è arrivata solo in un secondo momento. La stessa mamma di Marco è convinta che il responsabile sia Federico, il fratello di Martina. Lo aveva detto chiaramente anche in diretta tv a Domenica In, intervistata da Mara Venier. «Federico e Marco erano amici - cerca di spiegare Ciontoli - non c’erano tensioni tra loro. Perché avrebbe dovuto sparare?». A questo proposito, la Leosini cerca di far chiarezza e incalza con prove e dati «di indiscutibile attendibilità» raccolte dai Ris. «Quella sera, nel garage della vostra villetta, i Ris hanno effettuato la prova dello stub (ricerca di tracce di polvere da sparo, ndr) su di lei e sui suoi figli. La sentenza sulla base di quegli esami sostiene che solo lei, Antonio Ciontoli, era presente nella stanza al momento dello sparo». La condanna a 14 anni in primo grado all’opinione pubblica sembrava poco. Poi la riduzione a 5 anni ha fatto esplodere la rabbia, anche quella dei genitori di Marco. «Ciontoli quanto vale aver tolto la vita a Marco?», chiede Leosini. «L’ergastolo», risponde titubante il responsabile di quella morte, che a oggi ha presentato tramite il suo legale ricorso in Cassazione perché sia dimezzata la pena da 5 a 2 anni e mezzo. E non solo: alla Suprema Corte chiede anche l’assoluzione di tutto il resto della famiglia. «Una famiglia a cui lei, con il suo comportamento assurdo e presuntuoso, ha rovinato la vita», affonda il colpo la conduttrice, restando impassibile anche davanti alle lacrime di un uomo che si dice «fragile e vulnerabile, che ha perso ogni certezza, a cui è rimasta solo poca dignità e che vorrebbe solo fare un’ultima intima riflessione: alla fine di tutto questo rimarrà solo il dolore lacerante e la consapevolezza di quanto bello era Marco e di quanto avrebbe potuto ancora esserlo. E che per un mio tragico errore non sarà. È giusto che io paghi, anche penalmente». In chiusura di trasmissione Leosini si sofferma a descrivere la vita della famiglia Ciontoli oggi: vivono separati, i coniugi «in una prigione a cielo aperto, sospesi dal lavoro e col minimo dello stipendio», i figli «che vivacchiano e non riescono più a trovare un‘occupazione». Ma poi le immagini di un ragazzo biondo, sorridente, sui banchi di scuola o in bici, piccolo con l’apparecchio ai denti o vestito di tutto punto con il papillon, sempre circondato dalla sua mamma e dal suo papà, riportano l’attenzione sul vero, sfortunato e mai dimenticato protagonista di tutta questa tragica vicenda: Marco Vannini.
La madre di Marco Vannini: «Mio figlio ucciso e l'assassino fa la vittima in tv». Pubblicato lunedì, 01 luglio 2019 da Corriere.it. Roma Lo stato d’animo di Marina Conte, 54 anni, mamma di Marco Vannini, è chiaro fin dalla sua foto profilo su WhatsApp: il figlio, ucciso nel maggio 2015 in casa della fidanzata, saluta sorridente col pollice in alto. Sovrascritta, una frase di Martin Luther King: «Vi supplico di essere sempre indignati».
Un sentimento che in lei si è inasprito dopo l’intervista al reo confesso Antonio Ciontoli, lunedì sera su Rai Tre.
«Non ho guardato il programma per scelta. L’ho registrato e pensavo di poter aspettare di essere pronta. Ma oggi sono stata travolta dalle telefonate e la mia indignazione è cresciuta a ogni passaggio che mi veniva raccontato. Mi chiedo: perché due puntate in prima serata? Perché non aspettare la sentenza definitiva come sempre fatto per gli altri casi?».
Che risposta si è data?
«Quest’uomo, che fino a poco fa si lamentava dei giornalisti, da un po’ di tempo ha molta voglia di parlare con un vittimismo indecente».
Ci vede una strategia in vista della Cassazione?
«Non lo so, ma sono schifata e questo personaggio si dovrebbe vergognare».
Ciontoli ha sostenuto di essere in confidenza con suo figlio, tanto da poter entrare in bagno mentre lui era nella vasca. Una tesi che lei ha sempre respinto.
«Vogliono far passare Marco per una persona diversa da quella che era e così offendono lui e la nostra famiglia. E tutto questo perché una votla Ciontoli accompagnò mio figlio a una visita medica militare... mica i dottori fanno assistere gli estranei».
Ciontoli dice di non potersi perdonare per aver condannato i propri cari a un ergastolo di fatto, espressione che lei usò per sé quando la pena in appello gli fu ridotta a 5 anni.
«Ma come si può dire una cosa così schifosa? Sono quattro anni e due mesi che io non vivo più e so che questa pena non finirà mai. Io e mio marito non vedremo più Marco entrare dalla porta di casa, mentre lui ha una vita davanti e avrà forse dei nipoti».
Ciontoli ha provato a spiegare anche la telefona con cui sua moglie la avvertì dell’incidente: “Marco è caduto dalle scale”. Non voleva farla preoccupare, dice. «Si permette di dire che Marco era come un figlio per lui e allora vorrei chiedergli: per un suo figlio avrebbe aspettato tanto ad andare in ospedale?»
“Giustizia e verità per mio figlio Marco”. Che vuol dire oggi?
«La verità non la avrò mai perché non la diranno. Per la giustizia ho ancora qualche speranza in Cassazione».
Ciontoli, i mali, l’odio e le verità distorte del processo in tv. Valentina Stella il 4 luglio 2019 su Il Dubbio. L’omicidio Vannini scatena polemiche politiche e le critiche al giudice. E lui confessa: forse aspettano la mia fine o il suicidio, ma spero che i genitori possano provare per me misericordia e perdono.
Ciontoli, i mali, l’odio. Chissà se il ministro Matteo Salvini avrà letto anche solo uno stralcio della sentenza di appello sul caso Vannini prima di scrivere il suo tweet acchiappa like: “La vita di un ragazzo, ucciso in maniera infame, vale solo cinque anni di galera? Questa sarebbe “giustizia”? Che schifo. Verità per Marco Vannini”? Forse no, e però saremmo felici di essere smentiti. L’aspetto più significativo è che dal ministero della Giustizia arriva conferma che il guardasigilli Alfonso Bonafede ha esercitato l’azione disciplinare nei confronti del dottor Andrea Calabria per “violazione dei doveri di correttezza, diligenza, autocontrollo, equilibrio e rispetto della dignità della persona avendo tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti delle persone presenti in udienza e delle parti processuali ed in particolare nei confronti dei parenti di Vannini”. Ora il caso è nelle mani della sezione disciplinare del Csm. La vicenda in questione è più che nota: il dottor Calabria è il magistrato che ha letto la sentenza di appello nei confronti di Antonio Ciontoli condannato in secondo grado, per la tragica morte di Marco Vannini, a cinque anni di reclusione per omicidio colposo con l’aggravante della colpa cosciente. Durante la lettura del dispositivo era scoppiato il caos in aula: forti grida di protesta dei familiari di Vannini nei confronti della Corte, mentre i parenti e gli amici, prima di essere allontanati dall’aula, avevano inveito contro la sentenza. Il giudice Calabria aveva fatto presente che con quella reazione si stava interrompendo un pubblico servizio e aveva aggiunto “se volete farvi una passeggiata a Perugia ditelo”. Ma facciamo un passo indietro. Martedì sera è andata in onda la seconda puntata di Storie Maledette, durante la quale Franca Leosini ha intervistato Antonio Ciontoli. Un caso di cronaca giudiziaria che ha mostrato tutte le distorsioni di un processo mediatico parallelo e una escalation dell’odio sui social, come vi abbiamo raccontato lo scorso settembre nella prima esclusiva intervista che il signor Ciontoli aveva rilasciato proprio al Dubbio. Franca Leosini, durante le due puntate, con equilibrio e fermezza, senza concedere sconti sulle gravi responsabilità del Ciontoli, ha messo a nudo tutta la fragilità di un uomo che si è auto- condannato ad un ergastolo morale per aver provocato la morte del giovane fidanzato di sua figlia Martina, trascinando in un dolore senza fine i genitori di Marco ma anche la sua famiglia.
Di parere opposto la famiglia Vannini che parla tramite l’avvocato di parte civile Celestino Gnazi che al Dubbio commenta: “Siamo esterrefatti per quanto visto. In quella trasmissione non si è fatto altro che sposare integralmente la posizione difensiva di Ciontoli, addirittura suggerendo altre tesi difensive. Riteniamo che sia inammissibile da parte della Leosini parlare di ricostruzione veritiera, oltretutto dando lezioni di giornalismo agli altri, quando si sposa unicamente una tesi, credendo e prendendo per oro colato tutto quello che diceva Antonio Ciontoli. Adesso capiamo il motivo per cui i genitori di Marco non sono stati nemmeno avvisati della messa in onda”. Durante la puntata, Ciontoli ha chiesto nuovamente perdono per tutti gli «errori- orrori», come lui stesso ha detto, commessi quella tragica sera ma la madre del ragazzo, Marina, lapidaria aveva ribattuto: «Non avrà mai il nostro perdono. Mai».
Ciò che rimane incomprensibile e massimamente stigmatizzabile è l’odio dell’opinione pubblica, spesso alimentato da una mala informazione. Infatti, mentre la logica sottesa al processo penale è di tipo accusatorio, quella caratterizzante il processo mediatico appare più simile al modello inquisitorio. Da un tipo di giustizia che molti studiosi definiscono ‘ pop’, a cui non interessa il reale dei fatti ma solo sangue e manette, nascono i mostri. E sono mostri per la vulgata Antonio Ciontoli e tutta la sua famiglia, che dopo la puntata di Rai3 hanno subìto nuovamente altre minacce sui social del tipo: “Dovrebbero rinchiudervi tutti in galera con i vostri avvocati e buttare la chiave”; “Meritereste le pene dell’inferno”, “Ciontoli va sciolto nell’acido”. Oltre alle minacce verbali Ciontoli ha ricevuto un proiettile da un anonimo – così come i suoi avvocati Andrea Miroli e Pietro Messina – e ignoti hanno scritto Assassini davanti la sua casa; abitazione che ha dovuto lasciare tempo fa per appoggiarsi lontano da Roma da parenti e amici. Abbiamo contattato il signor Ciontoli e ha condiviso con noi questo pensiero: “Io in questa maledettissima storia ho distrutto la mia vita, la mia personalità, maltrattato e bistrattato la mia dignità. Viste le reazioni e le conseguenze, molti saranno contenti, pur se non ancora pienamente soddisfatti, aspettando e sperando con vero fermento la mia fine, chissà, il mio suicidio. Ho parlato all’indomani di anni di vita nel silenzio, nella paura di poter essere additato per strada, nella paura che la mia famiglia e i miei figli, Viola e mia moglie, potessero essere aggrediti e nella consapevolezza che a causa mia la loro giovane vita non è più la stessa e non lo sarà mai più. Andrò avanti affinché prima o poi arrivi da parte di Marina e Valerio anche un piccolo segnale e ché possano provare per me misericordia e perdono”. Il 7 febbraio 2020 ci sarà la decisione della Cassazione ma intanto la Procura di Civitavecchia ha aperto un secondo fascicolo di indagine a carico di Roberto Izzo, ex comandante della stazione di Ladispoli, che, secondo le dichiarazioni del commerciante Davide Vannicola, non avrebbe rilevato agli inquirenti che a sparare quella sera fu Federico, come gli avrebbe rivelato lo stesso Antonio Ciontoli.
Omicidio Vannini, speciale Le Iene. Video di Giulio Golia del 24 aprile 2019.
1: soccorsi chiamati in ritardo e indagini. Il 18 maggio 2015 Marco Vannini, 20 anni, moriva per uno sparo del padre della fidanzata, condannato poi a 5 anni. Sono tantissime le domande ancora aperte. In questo speciale le analizzeremo tutte con Giulio Golia, partendo in questa prima parte dai soccorsi in ritardo e dall'inchiesta. Marco Vannini, 20 anni, viene ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava a casa della fidanzata Martina Ciontoli nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 . In questo speciale analizzeremo con Giulio Golia e Francesca Di Stefano tutte le domande ancora aperte su questa storia, partendo in questa prima parte dai soccorsi in ritardo e dall’inchiesta. Qualche tempo prima, durante la festa di compleanno per i 18 anni di Martina, Marco ringrazia in un modo che oggi suona davvero in modo sinistro: “Vorrei ringraziare non solo Martina per tutti i momenti belli che mi ha regalato da quando stiamo insieme ma anche la sua famiglia per tutti i momenti belli che fa vivere a lei e nello stesso tempo anche a me perché anch’io ormai ne faccio parte o per lo meno mi sento da farne parte”. “Come un cane me l’hanno ammazzato, l’hanno spogliato di dignità, l’hanno spogliato di tutto in quella casa quella sera”, sostiene Marina, la mamma di Marco. Antonio Ciontoli, quando chiama il 118 diversi minuti dopo l’incidente, parla di un pettine che avrebbe bucato il braccio di Marco: perché? A Le Iene parlano Ilaria e Christian, arrivati sull’ambulanza dei soccorsi quella sera. Nessuno della famiglia Ciontoli avrebbe parlato di colpi di pistola: “Abbiamo subito capito che c’era qualcosa che non andava, siamo stati ingannati, abbiamo cambiato il codice da verde a rosso”, spiegano. Solo al Pronto Soccorso Federico , il fratello di Martina, riferisce la circostanza del colpo di pistola accidentale partito dall’arma di Antonio Ciontoli. Il padre Antonio Ciontoli avrebbe chiesto al medico del pronto soccorso se fosse stato possibile non segnalare la questione del colpo di pistola. A sostenere che Marco si sarebbe potuto salvare se i soccorsi fossero stati attivati subito è il professor Cipolloni, il medico legale che ha eseguito l’autopsia sul corpo del ragazzo: “Marco Vannini è morto per l’emorragia. È ovvio che l’intervento immediato avrebbe consentito di attuare dei trattamenti efficaci”. Giulio Golia affronta poi il tema delle indagini: perché nessuno dei vicini di casa dei Ciontoli è stato mai chiamato dagli inquirenti? Vicini come Maria Cristina, che a Le Iene riferisce un particolare che potrebbe essere molto importante (anch’esso però mai verificato dagli inquirenti): “Quando sono tornata a casa, quella sera, la macchina nera di Antonio Ciontoli non l’ho vista parcheggiata. Lui la metteva là da 20 anni”.
2: lo sparo e la lite. Seconda parte dello Speciale Iene con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Le due versioni sullo sparo date da Antonio Ciontoli e come un esperto balistico non le ritiene plausibili. L'ipotesi di una lite tra i due fidanzati
Dopo la prima parte di questo speciale in cui abbiamo parlato di soccorsi e indagini (clicca qui per vederla), ci concentriamo ora sul colpo di pistola che ha ucciso Marco Vannini. Antonio Ciontoli ha raccontato così in un primo momento i momenti dello sparo, mentre i due erano nel bagno, con il ragazzo che si trovava nella vasca: “Marco ha riconosciuto il marsupio nel quale tenevo le armi e mi ha chiesto di vederle. Con la mano destra ho estratto l’arma dal marsupio. Nel movimento il marsupio mi stava per cadere. Mettendo la mano sotto ho praticamente stretto l’arma che avevo impugnato e mi è partito il colpo. Pensavo fosse scarica, Chiaramente se era carica non l’avrei mai presa e non gliel’avrei mai fatta vedere”. Una versione che non convince un esperto balistico interpellato da Giulio Golia: se Ciontoli, come ha detto, non ha armato il cane, nessun colpo accidentale può essere partito mentre la pistola stava per scivolare via dalle sue mani. Quando la pm coglie le possibili contraddizioni e lo minaccia di chiudere l’interrogatorio, lui cambia versione: “Ho preso l’arma convinto che era scarica. L’arma non mi stava scappando, l’ho presa, l’ho impugnata, l’ho scarrellata e per gioco, per scherzo, ho fatto finta di sparare. Invece c’erano i proiettili all’interno della pistola e mi è partito il colpo”. Ma anche questa seconda versione viene smentita dal perito: “Quando si scarrella non si può non vedere che la cartuccia dal caricatore va sulla camera di scoppio. Non può assolutamente non essersi accorto che il proiettile sia andato nella canna. Se non c’erano cartucce dentro al caricatore, come scarrello, l’arma mi rimane aperta e se provo a premere il grilletto l’arma non spara assolutamente. È un pezzo di ferro”. Come sono andate davvero le cose? Mamma Marina ci ha raccontato poi di un clima non proprio sereno tra i due fidanzati nei giorni precedenti alla sera della morte di Marco. ”Martina era molto gelosa di Marco e lui con me si era confidato dicendosi stanco delle ossessioni della ragazza. Quindici giorni prima Marco mi aveva detto che il suocero lo aveva mandato via da casa”. La mamma di Marco ci racconta anche un altro dettaglio: Marco era solito fermarsi dalla sua fidanzata a dormire solo nelle occasioni in cui tra i due c’erano stati dei litigi. Il 17 maggio il ragazzo chiama la mamma e le dice che si sarebbe fermato da Martina. Circostanze che farebbero il paio con le dichiarazioni dei vicini di casa dei Ciontoli, che dopo aver udito il colpo di pistola avrebbero sentito Marco dire: “Scusa Martina, scusa”.
3: solo un "colpo d'aria"? Terza parte dello speciale con Giulio Golia. Tutti dicono di credere ad Antonio Ciontoli: solo "un colpo d'aria" e "un attacco di panico". Nella prima parte di questo speciale vi abbiamo parlato di indagini e soccorsi chiamati in ritardo, nella seconda del colpo di pistola mortale. È possibile che i figli e la moglie di Antonio Ciontoli non si siano resi conto subito che il ragazzo era stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco e non da un “colpo d’aria”, come hanno riferito in un primo momento? “Non avevo visto il buco. Quando sono entrato in bagno mi sembrava una pressione del dito”, ha spiegato in aula Federico Ciontoli. “Per noi era un attacco di panico”, ha aggiunto la madre di Martina, una difesa che sembra scontrarsi però con la presenza di numerose macchie di sangue di Marco su indumenti e stracci ritrovati in diversi luoghi della casa. Anche Viola Giorgini, la fidanzata di Federico, e lo stesso Antonio Ciontoli hanno parlato di “una escoriazione”, una piccola ferita, che invece nella realtà era un buco del diametro di un centimetro.
4: uno sparo che diventa “un buchino”. Mentre Antonio Ciontoli dice al 118 che Marco si è ferito con un pettine, nessuno della famiglia interviene per smentirlo. L’auto di papà Antonio era parcheggiata in mezzo alla strada o non lo era, come sostiene una vicina di casa? Quarta parte dello Speciale Iene con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. L’ennesimo mistero, ovvero la telefonata di Antonio Ciontoli al 118. Nella prima parte vi abbiamo parlato di indagini e soccorsi in ritardo, nella seconda del colpo di pistola mortale dell'ipotesi di una lite tra Marco e Martina la sera della tragedia e nella terza di quello che è successo dopo lo sparo. Che le condizioni di Marco non fossero proprio tranquille è confermato dalle urla strazianti del ragazzo, che si sentono durante la seconda chiamata al 118 fatta a mezzanotte e sei minuti proprio da Antonio Ciontoli. Una chiamata nella quale Antonio dice che il ragazzo, nella vasca da bagno, si è bucato con un pettine a punta e si è fatto “prendere dal panico”. Quando l’operatrice gli chiede che segni ha sul corpo, lui risponde: “E’ un buchino”. Quando la pm chiede conto al processo di quella dichiarazione, Antonio Ciontoli dice: “E’ la prima cosa che mi è venuta in mente, non so perché gliel’ho detta. Non volevo che questa cosa uscisse, volevo farlo io direttamente al dottore”. Perché nessuno della famiglia, durante quella chiamata, interviene per dire la verità all’operatrice? Perché non erano accanto a lui, hanno riferito i figli al processo ma, ascoltando bene quella chiamata, si sentono distintamente le loro voci in sottofondo. “Sono stanca di tutte queste cazzate, come un cane me l’hanno ammazzato”, dice a Giulio Golia mamma Marina. E c’è ancora un ultimo punto che non torna, ovvero il particolare che riferisce la vicina Maria Cristina. La macchina di Antonio Ciontoli, racconta la donna, quella sera non sarebbe stata parcheggiata come sempre davanti al passo carraio di casa, e Maria Cristina l’avrebbe vista solo una volta arrivata l’ambulanza. E quella macchina, spiega ancora la donna che non è mai stata sentita dagli inquirenti,era ferma proprio al centro della strada, in una posizione assolutamente anomala. Una circostanza che viene confermata anche da un altro vicino di casa: “Abito qui da 20 anni e non avevo mai visto prima la macchina di Antonio Ciontoliparcheggiata in mezzo alla strada”.
5: il mistero delle armi. Quinta parte dello speciale dedicato alla morte di Marco Vannini. Giulio Golia ripercorre il momento dell'arrivo dei soccorsi e le versioni che Antonio Ciontoli dà prima a questi e poi al medico del Pronto Soccorso sull'accaduto. La Iena mostra quello che sembra non tornare sulla posizione delle pistole e sul motivo per cui sono state tirate fuori. Nella quinta parte dello speciale Iene di Giulio Golia e Francesca Di Stefano dedicato all’omicidio Vannini torniamo al momento in cui vengono chiamati i soccorsi. Marco continua a urlare. Sono le 00:23, sono passati 17 minuti dalla telefonata ai soccorsi e un’ora dallo sparo. Nella prima parte di questo speciale vi abbiamo parlato di indagini e soccorsi in ritardo, nella seconda del colpo di pistola mortale e dell'ipotesi di un litigio quella sera tra i due fidanzati, nella terza di quello che succede dopo lo sparo quando tutti dicono credere al "colpo d'aria" e all'"attacco di panico" di cui parla Antonio Ciontoli e nella quarta della telefonata al 118 per un semplice "buchino con un pettine". Quando i soccorritori arrivano trovano Viola e Federico in fondo alla strada. “Scendemmo dall’ambulanza”, dice uno dei due soccorritori, “e chiesi a Martina cosa fosse successo”. La ragazza, secondo quanto riporta il soccorritore, avrebbe risposto “non lo so io non c’ero”. Perché Martina dovrebbe dire una bugia così clamorosa? In aula, infatti, dice il contrario: “No, io non sono mai scesa, sono sempre stata vicino a Marco”, sostiene Martina in un primo momento. Ma poi continua: “Io sono scesa solo quando hanno portato Marco giù e quindi poi siamo andati al P.I.T”. Torniamo al racconto dei soccorritori: “Mi venne incontro il signor Ciontoli e gli feci la stessa domanda. Mi disse che c’era un ragazzo che era stato colto da un attacco di panico e si era sentito male”. Ma quando entrano i soccorritori trovano Marco sul pavimento: “Era incosciente, non rispondeva”. Antonio Ciontoli avrebbe mentito ai soccorritori anche sulla dinamica. Uno dei soccorritori racconta: “Io ho provato a fare domande al signor Ciontoli, mi disse che stavano in bagno e mentre scherzavano sulla partita di calcio Marco è scivolato accidentalmente e, dopo essersi punto con questo pettine a punta, è stato preso da un attacco di panico”. Nessuno dei presenti smentisce questa versione. “Non c’è la certezza che loro avessero sentito quanto stava dicendo il padre”, risponde al nostro Giulio Golia l’avvocato della famiglia Ciontoli, Pietro Messina. Quando i soccorritori vedono la ferita di Marco, non si accorgono che si tratta di un colpo da arma da fuoco. “Sfido chiunque a capire che fosse un colpo di arma da fuoco, era pulito, come cicatrizzato, come se fosse una bruciatura di sigaretta. Marco non era sporco di sangue”. L’ambulanza parte e la seguono in macchina Federico e Antonio, in un'altra macchina stanno le donne. Stando al racconto dei Ciontoli, solo in quel momento Antonio avrebbe detto al figlio Federico di aver mentito. “A Federico gli dico ‘guarda Fede che a me mi è partito un colpo di arma da fuoco’”. Arrivati al pronto soccorso Antonio avrebbe detto anche al medico dello sparo, aggiungendo però una raccomandazione. “Mi ha detto ‘per il lavoro che faccio se fosse possibile non segnalare questa cosa’”, riferisce il medico del P.I.T. di Ladispoli, Daniele Matera, nella sua deposizione. “Non sapere la verità è una cosa che non so descrivere”, dice la mamma di Marco intervistata da Giulio Golia. “C’è qualcosa che mi sfugge, che non so. Dentro quella casa hanno mentito tutti, hanno mentito anche le finestre”. A non essere chiari sono anche gli spostamenti delle armi di Antonio quella terribile sera. Al momento della tragedia, infatti, il porto d’armi di Antonio Ciontoli era scaduto da due anni. Inizialmente, in aula, Ciontoli dice che “le armi le comprai più o meno se non mi sbaglio o 2002 o 2003”. Ma poco dopo precisa che l’arma che ha sparato l’ha comprata, mentre l’altra sarebbe stata un dono della caserma dei carabinieri di Ladispoli. “Era un’arma che dovevano dismettere. Era tipo il 2007”. Sull’arma che ha sparato a Marco, Antonio afferma di non essersi fatto spiegare come funzionasse al momento dell’acquisto. “L’ho presa e sono uscito”, racconta. “Non ho mai fatto alcun corso sulle armi. Il funzionamento dell’arma l’ho avuto solo nel 2007 quando sono andato a sparare e un istruttore mi ha fatto vedere”. Ma perché quel giorno Antonio ha tirato fuori le armi? “Visto che di lì a poco c’era un’altra esercitazione di tiro. E quindi la mattina la presi perché dopo avevo intenzione di dargli una pulita, in quel momento mi ha chiamato mia moglie e, niente, io praticamente le ho messe nella scarpiera in bagno”, racconta Ciontoli. Inoltre, anche sul luogo dove sarebbero state queste armi, la scarpiera, qualcosa sembra non tornare. Viola nei giorni dopo la tragedia parla al telefono con la sua migliore amica che le chiede cosa fosse successo. La ragazza dice chiaramente che Antonio era convinto che le armi erano scariche, ma anche che le aveva asciate tutto il giorno sul divano. Questa intercettazione però non è mai entrata nel processo. E anche la fine che le pistole fanno dopo lo sparo sembra poco chiara. “Prendo queste armi perché mio padre mi dice di allontanarle, quando sono sceso giù il mio intento era quello di metterle in sicurezza. Non so se è stata ritrovata la polvere da sparo sul divano, però io le ho portate lì”, afferma Federico nell’interrogatorio dell’ottobre 2015. Perché Federico specifica il dettaglio del divano?
Le pistole verranno poi ritrovate sotto il letto di Federico, che il giorno della tragedia dichiara di non avercele messe lui. Mentre Antonio dichiara di averle viste sul divano e averle portate nel cassettone del letto di Federico. Dalle intercettazioni ambientali in caserma del 18 maggio 2015 sembra che sia Federico a dire ad Antonio cosa dire in merito al luogo di queste armi. Non solo. Federico controllerebbe la versione anche con Viola. E proprio lei, a un certo punto, riferendo a Federico la versione data, dice “così ti ho parato un po’ il culo anche a te”.
6: Vannini, Speciale Iene: tutte le domande ancora aperte. Ecco la sesta e ultima parte dello speciale di Giulio Golia e Francesca Di Stefano e tutte le 5 precedenti: tutto quello che non sembra tornare nella morte di un ragazzo di 20 anni, ucciso con un colpo di pistola dal padre della fidanzata.Nella prima parte di questo speciale vi abbiamo parlato di indagini e soccorsi in ritardo, nella seconda del colpo di pistola mortale e dell'ipotesi di una lite tra fidanzati la sera della tragedia, nella terza di quello che succede dopo lo sparo, nella quarta della seconda telefonata al 118 e nella quinta dei dubbi sulle pistole (in basso vi riproponiamo tutte queste cinque parti precedenti).
Ripartiamo proprio dalle armi su cui non sarebbero state trovate tracce di Dna utilizzabili. I Ciontoli negano che siano state pulite.
Chi c’era in quel bagno al momento dello sparo? I Ciontoli hanno sempre detto che Martina è uscita subito prima dello sparo ed è rientrata subito dopo averlo sentito, seguita dal fratello Federico. La pm non sembra credere alla versione di Martina. In un’intercettazione ambientale la si sente dire: “Io ho visto papà quando gli ha puntato la pistola, gli ha detto: ‘Vedi di puntarla di là’. Papà ha detto: ‘Ti sparo!’. E papà ha detto: “E’ uno scherzo!”. E lui ha detto: ‘Non si scherza così’”. Ed è diventato pallido. Non ci posso pensa’”. Martina poi negherà di aver visto quella scena: stava delirando, dice, e rivivendo quello che in realtà le aveva raccontato il padre.
L’incidente è successo davvero in bagno? E’ mamma Marina a dubitarne parlando con Giulio Golia. Secondo la madre di Marco sarebbe successo nella cameretta di Martina.
Quando capiscono i Ciontoli che è partito un colpo di pistola? Antonio parla con i familiari di “un colpo d’aria” e loro sostengono di aver capito tutto solo al pronto soccorso (la cosa sembra in contraddizione con alcune altre dichiarazioni e intercettazioni).
Altro punto. Il brigadiere Manlio Amadori in aula riferisce, ricordando i momenti in caserma dopo l’incidente: “Ciontoli disse: così metto nei guai mio figlio!”. L’ex comandante della stazione dei Carabinieri, il maresciallo Roberto Izzo conferma a Giulio Golia che a quel punto a chiesto a Ciontoli se ha sparato lui o suo figlio e l’uomo ha detto che è stato lui.
I genitori di Marco aggiungono dubbi: perché la casa dei Ciontoli non è stata messa sotto sequestro? E’ stato messo sotto controllo anche un eventuale secondo cellulare in possesso di Antonio Ciontoli? Non solo, potrebbero esserci state altre immagini di un servizio di video sorveglianza di altissimo livello, tra pubblico e privato, che non sarebbero state richieste per questo caso. Queste immagini però ormai non ci sono più.
Continuiamo nelle nostre ricerche anche con i problemi incontrati a contattare Martina Ciontoli. Il fratello Federico ci parla, ma ci rimanda agli atti del processo. Anche la sua fidanzata Viola ci scrive ma non vuole incontrarci. “La mente sta sempre a quella maledetta sera e ti trovi a parlare con una foto” dicono mamma e papà di Marco, aspettando giustizia per il loro figlio ora dall’esito della richiesta di ricorso in Cassazione appena depositato dalla procura. “Perché per noi Marco era tutto”.
Omicidio Vannini, polemica social su «Un giorno in Pretura». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da A. Grandi, G. De Sanctis, C. Salvatori su Corriere.it. Prima c'era stato il post della conduttrice, rivolto alla fidanzata. Poi, è andata in onda la puntata della trasmissione. Ed è bufera in Rete su «Un giorno in Pretura», che ha dedicato la puntata di domenica 28 aprile al caso della morte di Marco Vannini, avvenuta a Ladispoli il 17 maggio del 2015. Per quella morte in primo grado era stato condannato a 14 anni per omicidio volontario Antonio Ciontoli, padre di Martina, la fidanzata di Marco, sottufficiale della Marina Militare in distacco ai Servizi Segreti, e a 3 anni per omicidio colposo la moglie Maria Pezzillo e i due figli, Martina e Federico. In appello la pena per Antonio Ciontoli è stata ridotta a 5 anni. La trasmissione di Rai3 si è occupata proprio della vicenda, e del successivo processo. Ma il modo in cui il caso è stato affrontato ha scatenato numerose polemiche. Che già erano iniziate giorni prima della messa in onda, quando la conduttrice Roberta Petrelluzzi aveva scritto un post, destinato a Martina Ciontoli: «Ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. E’ un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l’odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta (perché tragedia è) alle sue reali dimensioni» si leggeva nel messaggio. Quindi, la messa in onda della puntata, durante la quale, secondo molti, la vicenda viene raccontata esprimendo troppa vicinanza nei confronti della famiglia Ciontoli. Tantissimi i commenti in Rete e le proteste: «Vergogna, difendete gli assassini» scrive qualcuno, e altri si definiscono «moralmente disgustati». «Noi crediamo però che solo le vittime, spinte dalla propria disperazione, hanno il diritto alla protesta, anche a quella più rumorosa. Crediamo anche che il troppo clamore spinge tutti a radicalizzare il proprio convincimento e non contribuisce a fare giustizia» dice in un passaggio della puntata la stessa Petrelluzzi. Parole che, invece di placare gli animi, scatenano ulteriori proteste. La puntata, la prima della nuova edizione, ha superato il milione e mezzo di telespettatori, fa sapere l'Ufficio Stampa Rai.
“SIAMO IN DISACCORDO CON QUESTO ACCANIMENTO MEDIATICO”. B. B. per “Libero Quotidiano” il 28 aprile 2019. «Cara Martina Ciontoli, ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. È un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l' odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta (perché tragedia è) alle sue reali dimensioni». A scrivere questo messaggio sui social è Roberta Petrelluzzi, volto noto per gli appassionati di cronaca nera e giudiziaria e, in particolare, per chi segue la trasmissione di Raitre "Un giorno in Pretura" di cui è ideatrice e regista dal 1988. Petrelluzzi si rivolge a Martina Ciontoli, fidanzata di Marco Vannini, ucciso a Ladispoli il 17 maggio del 2015 proprio a casa di Martina, e il suo post scatena la polemica in Rete, riaccende il dibattito tra innocentisti e colpevolisti, fa infuriare chi ritiene i Ciontoli, nessuno escluso, colpevoli della fine del ventenne di Cerveteri. "Un giorno in Pretura" ricomincia, guarda caso, proprio stasera, dopo la pausa invernale, indagando sulla morte di Vannini. Una vicenda che continua a fare discutere per la dinamica non poco chiara dell' omicidio del ventenne e che indigna l' opinione pubblica proprio per l' atteggiamento omertoso tenuto dalla famiglia di Martina nonché da lei medesima la quale, se fosse stata innamorata del suo ragazzo, forse avrebbe potuto salvarlo. Le Iene, in uno speciale dell' altra sera condotto da Giulio Golia e Francesca Di Stefano, hanno puntato il dito sulle responsabilità dei Ciontoli. Hanno mandato in onda «le numerosissime cose che non tornano nella ricostruzione fatta da Martina e dai genitori», a cominciare dall' ipotesi del colpo accidentale partito da Antonio Ciontoli, il padre, e dal perché nessuno, in quella villetta sul litorale laziale, ha pensato di chiamare l' ambulanza mentre il ragazzo si dimenava e gridava per il dolore, chiamava aiuto e perdeva sangue, mentre loro al 118 hanno bofonchiato: «Forse si è ferito con un pettine». Perfino una volta in caserma, i Ciontoli avrebbero raccontato bugie, si sarebbero inventati una versione da dare agli inquirenti, un alibi, che però non ha retto di fronte alle prove e alla determinazione della mamma di Marco, che non si è mai arresa e invoca giustizia. Per Antonio Ciontoli c' è stata una condanna di primo grado, a 14 anni per omicidio volontario, ridotta però in appello a 5 e derubricata a omicidio colposo, cosa che ha fatto dire a Marina Vannini: «Mio figlio è stato ammazzato una seconda volta». Ieri il post della Petrelluzzi, che parla di «morte civile» e si schiera con la giovane Martina, che non riesce a trovare lavoro, è stata costretta a cambiare casa e città e, insomma, per la signora di "Un giorno in pretura" l' accanimento nei suoi confronti è troppo. Su Facebook però è un coro di critiche. «Pensi al povero Marco, anziché ad assolvere Martina».
OLTRE LA PRETURA C' È IL GIORNALISMO. Marco Lillo per ''Il Fatto Quotidiano'' il 3 maggio 2019. Roberta Petrelluzzi ha scritto venerdì scorso su Facebook una lettera pubblica a Martina Ciontoli, condannata in appello con il padre, la mamma e il fratello per l' omicidio colposo del fidanzato Marco Vannini, avvenuto a casa Ciontoli nel 2015. Alla vigilia della puntata di Un giorno in pretura, dedicata al caso, la conduttrice ha scritto: "Cara Martina Ciontoli, ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. È un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l' odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta (perché tragedia è) alle sue reali dimensioni". Molti hanno criticato l' appellativo "Cara" rivolto a una ragazza che nelle intercettazioni sembra interessata più alla carriera del padre che a salvare il ragazzo e a trovare la verità sulla sua morte. La polemica sul "Cara" sta facendo passare in secondo piano la questione più interessante: qual è il modo corretto di seguire un caso di cronaca? Il post esce due giorni dopo il record di ascolti dei due speciali dedicati al caso Vannini da Le Iene e Chi l' ha visto. La sensazione è che Roberta Petrelluzzi si riferisse proprio a Le Iene, che avevano inseguito i due fratelli Ciontoli, quando puntava il dito contro "l' accanimento mediatico". La sensazione è che quel "Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta alle sue reali dimensioni", mirasse a segnare una distanza da quel modo di fare giornalismo. Anche nel corso della trasmissione, Roberta Petrelluzzi ha dato l' impressione di volere segnare il percorso corretto per seguire un caso giudiziario in tv: solo quello che è negli atti sembrerebbe degno di cronaca. Solo quello che i magistrati hanno vidimato con il loro bollo avrebbe diritto di cittadinanza nel dibattito. Questa prospettiva rischia però di confondere la cronaca giudiziaria con il giornalismo e delega completamente e in bianco ai magistrati il compito di accertare la verità. Una tesi pericolosa e da rigettare. Quando il quadro disegnato dagli investigatori è depistante (Cucchi) o sciatto (Vannini) cosa dovrebbe fare un giornalista? Limitarsi a riprodurre la foto sbiadita o taroccata ma ufficiale o dovrebbe cercare di scattare una foto più aderente alla realtà? Per fortuna non esiste solo un modo di raccontare il caso Vannini. Il giornalista giudiziario farà il resoconto dei fatti selezionati e valutati dai giudici. Mentre il giornalista investigativo cercherà - come ha fatto Giulio Golia delle Iene - la testimonianza inedita di una vicina di casa mai ascoltata dai carabinieri. Di certo il ruolo di megafono delle corti è meno rischioso. Di certo è più complicato svolgere una contro-inchiesta che segnala la sciatteria delle indagini ufficiali, come ha fatto - sempre su Rai3 - Federica Sciarelli. Si può criticare la veemenza di alcuni inviati, ma su un punto tutti dovrebbero essere d' accordo: se un giornalista pensa di avere scoperto incongruenze tra una testimonianza inedita da lui raccolta su un omicidio e la versione di un investigatore o di un imputato, può anzi deve cercare di intervistare i protagonisti. Pensiamo al caso Cucchi. Chi, prima del secondo processo ha cercato la verità oltre le informative taroccate, ha fatto giornalismo o "accanimento mediatico"? I media non devono essere un quarto grado di giudizio, ma devono restare almeno un quarto potere. Non la ruota di scorta del terzo. Un giornalista non deve mai delegare in bianco a pm e carabinieri l' accertamento della verità. Il giudice estensore della sentenza di appello sul caso Vannini che ha tolto 9 anni di pena ad Antonio Ciontoli, derubricando il reato in omicidio colposo, si chiama Giancarlo De Cataldo. Dopo avere scritto Romanzo Criminale ha fatto anche il giurato in un talent di Rai3 e nessuno meglio di lui può comprendere la differenza tra accertamento della colpevolezza e accertamento della verità su un fatto. Infatti all' inizio della sentenza, proprio De Cataldo mette le mani avanti chiarendo i limiti del suo potere: il giudice si può esprimere solo sui fatti che gli sottopone il pm. Se De Cataldo è stato costretto a giudicare i fatti entro questo limite, i giornalisti possono, anzi devono, cercare di uscire dal perimetro giudiziario per capire se i fatti, così ricostruiti, siano veri o falsi. Roberta Petrelluzzi può quindi restare tranquilla nel suo studio televisivo ad aspettare che la Cassazione le consegni la verità giudiziaria finale sul caso Vannini. I colleghi delle Iene e di Chi l' ha visto intanto faranno bene a cercare, fuori dagli studi televisivi e dai tribunali, la verità su quel che è successo quella notte a casa Ciontoli. Non si chiama accanimento mediatico, ma giornalismo investigativo.
Caso Vannini, Roberta Petrelluzzi risponde alle polemiche: «Indignata». Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Annalisa Grandi su Corriere.it. «Io ho bisogno di capire il perché uno fa certe cose». Risponde alle polemiche che si sono scatenate dopo la puntata di «Un giorno in Pretura», dedicata all’omicidio di Marco Vannini. Roberta Petrelluzzi a «Le Parole della Settimana» di Massimo Gramellini replica al polverone sollevato prima della lettera a Martina Ciontoli, poi dal modo in cui il delitto Vannini è stato affrontato nella sua trasmissione. «Credo che ormai non siamo più abituati al cercare il perché, ma siamo abituati a tifare. O fai parte della curva sud, o fai parte della curva nord. Quando tifi non cerchi le ragioni, ma perché puoi essere contro - dice parlando delle reazioni alla lettera scritta a Martina Ciontoli - Si fanno petizioni affinché la ragazza venga cancellata dall’ordine degli infermieri e non possa più lavorare. Vi sembra possibile? Questa cosa mi indigna» sostiene la Petrelluzzi riferendosi appunto a una petizione in Rete perché la ragazza venga radiata dall'ordine degli infermieri. La conduttrice poi entra nel merito: «Io voglio capire il perché, non voglio credere che tu abbia voluto che il tuo fidanzato morisse, voglio credere che tu non abbia saputo agire in una situazione di panico - dice rivolgendosi direttamente a Martina, fidanzata di Marco - Ti morirà il ragazzo che amavi e a sparare è stato tuo padre. Una situazione tale può mandare chiunque in uno stato di confusione totale». «Ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico» aveva scritto la Petrelluzzi nel post che aveva sollevato parecchie polemiche. La conduttrice si rivolge poi alla madre di Marco Vannini: «La mia lettera a Martina non sminuisce il dolore della madre, sono vicinissima a questa donna. Aver pietà anche per qualcun altro non significa essere contro di lei. Mi spiace che la mamma ha vissuto questo mio intervento contro di lei. Mai, mai, mai potrei andare contro il dolore di una madre» dice.
Le ragioni del garantismo grazie a “Un giorno in pretura”. Forti polemiche sulla puntata dedicata al caso di Marco Vannini. La conduttrice Roberta Petrelluzzi si schiera con coraggio contro la gogna che ha colpito la famiglia Ciontoli, non per innocentismo, ma per distinguere tra giustizia e giustizialismo. Angela Azzaro l'1 Maggio 2019 su Il Dubbio. Quello che è successo domenica, dopo la visione di “Un giorno in pretura” dedicata al processo di secondo grado contro la famiglia Ciontoli per l’omicidio di Marco Vannini, è un esempio lampante di tutte le fasi del processo mediatico, a tal punto che andrebbe studiato nelle scuole, di ogni ordine e grado, e nelle università di giurisprudenza. La conduttrice Roberta Petrelluzzi, prima della messa in onda del programma, tra i più equilibrati del panorama televisivo, ha fatto una dichiarazione per noi garantisti dovuta, ma che ha suscitato polemiche ( ben vengano, se non sono violente) ma soprattutto insulti contro di lei. Petrelluzzi ha detto che “solo le vittime hanno il diritto alla protesta, anche quella più rumorosa. Ma crediamo che il clamore porti a radicalizzare il proprio convincimento e non contribuisce a fare giustizia. Tanto più che sarà la Cassazione a dare la parola definitiva su questo caso”. Parole di buon senso, rivolte contro il processo mediatico, contro la gogna, ma che non si sostituiscono alle decisioni dei giudici. Ma i tifosi, che a casa guardavano la trasmissione, non hanno gradito e hanno letto la preoccupazione della conduttrice e ideatrice del programma come se fosse una assoluzione. Il caso è tristemente noto. In primo grado Antonio Ciontoli era stato condannato a 14 anni per l’omicidio volontario di Marco Vannini, il fidanzato della figlia Martina, a sua volta condannata con la madre e il fratello a tre anni per omicidio colposo, condanna confermata per loro tre anche in Appello. In una tragica sera del 17 maggio 2015 il ragazzo viene colpito dai proiettili dell’arma di Ciontoli, allora sottufficiale della Marina militare in distacco ai servizi segreti. Il ragazzo, dopo due telefonate piene di contraddizioni al 118, condotto troppo tardi in ospedale muore. Il caso diventa subito mediatico anche per una intercettazione ambientale dei Ciontoli che dai computer degli inquirenti finisce, a tempo di record, negli studi televisivi. Quando in secondo grado Ciontoli viene condannato a 5 anni invece che a 14 diventa un rumore assordante di proteste, appelli, insulti, minacce, una gogna mediatica che ha colpito tutta la famiglia a partire da Martina, la giovane a cui Roberta Petrelluzzi si è rivolta prima della messa in onda di “Un giorno in pretura” con un post su facebook: “Cara Martina Ciontoli, ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. E’ un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l’odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta ( perché tragedia è) alle sue reali dimensioni”. Non stupisce che questa attenzione alla giustizia contro il giustizialismo venga da “Un giorno in pretura”. E’ il primo programma che introduce le telecamere dentro il processo. Il successo, dopo un inizio in sordina nel 1988, arriva con Tangentopoli e il caso Cusani- Enimont. Ma quella che all’inizio poteva apparire – e forse lo era – la prima trasmissione del processo mediatico, negli anni è diventata una sorta di baluardo del “garantismo”: il processo è filmato, non viene mimato come negli altri programmi. Non si sostituisce né alle procure, né ai giudici E’ un racconto molto puntuale di ciò che accade in aula. L’esatto contrario della maggior parte delle trasmissioni dedicate ai casi di cronaca nera: una vera e propria ossessione che ha trasformato la televisione italiana e il pubblico. Gli spettatori si sentono come giudici implacabili in dovere e in diritto di stabilire la giusta sentenza. E’ una conseguenza nefasta, per la giustizia e per la stessa società, che però continua a essere sottovalutata. C’è un caso si cronaca, ci sono tanti programmi che soffiano sul fuoco e c’è un’opinione pubblica che ha come unico metro di misura la quantità delle pene inflitte. Il senso di giustizia si misura non sul piano del diritto, ma della vendetta.
Questa cultura, ormai radicata nella comunità e nei suoi valori, ha come “braccio armato” i social. Quando si dissente da una sentenza, anche perché i profeti della condanna esemplare protestano per primi in tv, si usano facebook e twitter non per ragionare, non fare un discorso magari dopo avere letto attentamente le motivazioni dei giudici. Si usano i social per offendere, insultare, minacciare. E’ la cultura dell’odio e del rancore, come giustamente dice Petrelluzzi. Si accusa chi chiede di abbassare i toni di non avere pietà per le vittime. Ma è un’accusa campata in aria come dimostra il caso di “Un giorno in pretura”. Anzi l’impressione, a volte drammatica, è che i parenti delle vittime vengano sfruttati da chi dice di sostenerli per interessi di Auditel, in un gioco al massacro dei loro sentimenti e dei diritti costituzionali. Qualcuno prima poi, anche in ambito televisivo, doveva dire basta. Con coraggio, Petrelluzzi lo ha fatto.
· Duilio Saggia Civitelli, detective romano ucciso alla stazione.
Duilio Saggia Civitelli, detective romano ucciso alla stazione. Scrive Ambra Somaschini 14 febbraio 1995 su la Repubblica. Mancano dieci minuti alle cinque di domenica pomeriggio, alla stazione Ostiense il treno per Formia parte alle 17,15. ex detective privato, rappresentante commerciale in pensione, elegante in un completo grigio ferro, ha tutto il tempo per fare il biglietto, comprare il giornale. Cammina sul binario sovrappensiero, non sa che qualcuno gli sta puntando una pistola nel cranio. Il proiettile calibro nove lo colpisce tra le cinque e le cinque e dieci, attraversa il cranio e si ferma dietro lo zigomo. Quando gli agenti della Polfer fanno scattare l' allarme, chiamano il medico legale, vedono l' ematoma, pensano che sia stata una scivolata, credono che Civitelli sia morto per un malore, per un infarto. E l' assassino può scappare inosservato. Il killer lo conosceva bene, sapeva che viaggiava spesso per andare a trovare una donna in un paesino vicino a Formia. Sapeva che non poteva vivere con lei perchè era sposato anche se abitava in un appartamento con moglie e figli, da separato in casa. Tutto il resto è un giallo, un mistero. Gli inquirenti a ventiquattr' ore dal delitto indagano nella vita privata del pensionato, sui suoi legami sentimentali, senza tralasciare il fatto che Civitelli aiutava in qualche modo i figli a mandare avanti un' agenzia di investigazione privata, seguiva quando aveva voglia e tempo, alcune pratiche matrimoniali. Lo hanno ucciso per questo, per qualche dettaglio di troppo? Oppure lo hanno aspettato sul binario 10 con un preciso movente passionale? Fino a lunedì notte in questura, negli uffici di Rodolfo Ronconi, il capo della Squadra Mobile, non si presenta nessuno. Nessuno domenica vede un uomo scappare, fuggire dopo il delitto. Si scava in una vita agiata, in una routine apparentemente tranquilla, travolta a margine da una storia d' amore comunque conosciuta dai familiari. La compagna di Duilio Saggia Civitelli abita a Santa Palomba. Per raggiungerla il pensionato avrebbe dovuto cambiare treno a Campoleone. E' stata lei, una donna giovane, a chiamare i figli Massimo e Fabio sul telefono cellulare. "Non è arrivato e non capisco perchè" ha detto a mezza voce. E loro, i titolari dell' agenzia di via Benzoni, a pochi metri dall' Ostiense, si precipitano alla stazione. Lo trovano steso a terra sul binario 10, le gambe accavallate, il volto coperto. Ci sono una decina di poliziotti, la gente curiosa. Qualcuno lo stesso pomeriggio parla di minacce. Ma i figli smentiscono categoricamente: "Minacce? Sospetti? Con questo lavoro può capitare, ma non possiamo dire niente di più. E' una materia riservata di cui preferiamo non parlare. Fa parte del nostro segreto professionale. Non ci risulta in ogni modo che papà avesse ricevuto minacce, le cose non sono andate così" diranno verso sera, prima di subire interrogatori fiume negli uffici della Polfer, della Mobile. "Nostro padre ormai non si occupava più dell' ufficio - affermerà Fabio - svolgeva più che altro il ruolo di coordinatore e ci procurava qualche lavoro, qualche fatto inerente infedeltà coniugali". E lunedì, subito dopo la fine dell' autopsia, la certezza dell' omicidio, Massimo non può spiegare nulla: "Sono sotto segreto istruttorio. Ho a che fare con l' autorità giudiziaria. No comment su tutta la vicenda". Una storia difficile per gli inquirenti, per Giuseppe Saieva il magistrato che coordina l' inchiesta giudiziaria. Complicata da un passato sereno. Duilio Saggia Civitelli aveva fatto anche il rappresentante di elettrodomestici qualche anno fa. Le persone che gli sono state accanto lo descrivono come una persona calma, gentile. Con un amore al di fuori della famiglia e una passione, quella per i treni. Alla stazione Ostiense molti hanno raccontato di averlo visto anche due volte a settimana salire su quella carrozza per Formia. Sedersi nello scompartimento, aspettare di cambiare per raggiungere quel minuscolo paese. L' assassino sapeva bene tutto questo, è andato alla stazione, lo ha inseguito dopo la fila di fronte allo sportello dei biglietti, fino al binario. Ha sparato e lo ha abbandonato sul marciapiede.
· Francesca Moretti, avvelenata col cianuro: il giallo si riapre I 10 indizi trascurati.
Francesca Moretti, avvelenata col cianuro: il giallo si riapre I 10 indizi trascurati. Pubblicato domenica, 17 marzo 2019 Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Nella macabra galleria dei delitti e dei pasticciacci romani, a partire dallo scempio di ragazzine ai tempi dell’incolpevole Girolimoni, passando per Wilma Montesi, i festini hard della marchesa Casati Stampa, il massacro del Circeo, via Poma e l’Olgiata, c’è un omicidio che - in quanto a glaciale efferatezza del killer - li batte tutti. Era il 22 febbraio 2000, l’alba di un nuovo secolo (e millennio) che si lasciava alle spalle memorabili reportage in bianco e nero, rischiarati dai lampi al magnesio dei fotografi... Via dello Scalo San Lorenzo, ore 17. Il giallo cominciò così: la corsa disperata di un’ambulanza verso il San Giovanni, nel tentativo di salvare la paziente sulla lettiga, che si contorceva in preda a spasmi tremendi. A tenerle la mano e asciugarle la fronte, in quel viaggio disperato, fu un’amica e coinquilina, salita anche lei sul mezzo di soccorso. Ma tutto fu vano. Morì due ore dopo, la sventurata. Si chiamava Francesca Moretti e aveva 29 anni: una sociologa preparata e sensibile, attiva nel sociale, innamorata della vita e dell’uomo che le aveva promesso di partire con lei. Il grande pubblico dei giornali e delle ricostruzioni tv, tuttavia, non è per il nome che la ricorda, ma per una definizione quasi certamente infondata e depistante: il «delitto della minestrina». Il pm del processo sul «delitto della minestrina», Lina Cusano, oggi procuratore a Rieti Già, come dimenticarlo? La famosa «minestrina al cianuro» che, secondo gli investigatori, era stata preparata (aggiungendovi un formaggino) e servita alla vittima da Daniela Stuto, laureanda in Psicologia di 26 anni, la coinquilina che l’accompagnò in ospedale preoccupatissima ma che al contrario, stando al teorema d’accusa, aveva appena eseguito il suo piano assassino. Un crimine animato da una indimostrata «gelosia saffica», fondata su alcune telefonate scherzose tra amiche che alludevano a un rapporto sessuale al femminile («stiamo facendo zin zin...»). Come andò a finire, è presto detto: una colossale cantonata. Daniela, la presunta avvelenatrice dal volto d’angelo, tenuta in cella una notte e per 15 mesi agli arresti domiciliari, fu assolta per non aver commesso il fatto (e poi risarcita con 52 mila euro) il 10 aprile 2002, tra lacrime irrefrenabili (le sue) e la commozione (persino) di due giurate dalla Corte d’assise, che in violazione all’obbligo di terzietà le andarono incontro e l’abbracciarono. Il ritaglio del Corriere-Roma dell’11 aprile 2002, con la notizia dell’assoluzione di Daniela Stuto «È il momento che aspettavo. Ora vorrei sapere come recuperare la mia dignità dopo quello che è stato scritto e detto nei miei confronti», fu il suo primo commento. Io c’ero, quella sera. Ero in redazione. La sentenza giunse a tarda ora, ma eravamo tranquilli, avevamo previsto tutto: la sfida della Procura di inchiodare l’imputata senza indizi seri né movente ci era parsa un azzardo eccessivo. Il capocronista, Andrea Garibaldi, aveva fatto preparare per tempo una tabella sui grandi omicidi impuniti, da via Poma in giù. Bastava aggiungere una riga: quella relativa al «delitto al cianuro», appunto. Scrissi un articolo dal titolo «Quando la prova non si trova in aula». E penso a lei, adesso... Al suo diritto all’oblio, a continuare in santa pace la vita che nel frattempo s’è costruita, con il marito che è il fidanzato di allora, i figli, il lavoro, le piccole grandi gioie anonime e quotidiane. Controllo in Rete: la dottoressa Daniela Stuto, psicoterapeuta, è specializzata in «Gruppo analisi». La sua attività è rivolta ad adolescenti, coppie e famiglie, con particolare riguardo al disagio giovanile e alla prevenzione nelle scuole. «Debbo lasciarla in pace», mi arrovello. Ma d’altra parte sto scrivendo di lei, ho il dovere di sentirla... Alla fine opto per un messaggio WhatsApp: «Cara Daniela, capisco la necessità di salvaguardare la privacy... Se però può esserti utile o può farti bene o reputi giusto fare un qualsiasi commento o dire una parola su Francesca io sono qui». La risposta arriva dopo poche ore ed è delicatissima: «Sono certa che comprenderà il mio riserbo anche in questa occasione. Sono 20 anni che desidero quell’oblio che devo a me stessa e principalmente alle persone a me care. Un saluto e buon lavoro». Avanti. Giustizia è tutelare chi ha sofferto ingiustamente ma anche percorrere tutte le strade possibili perché un misfatto venga punito. Specie se perfidamente ordito e portato a termine, come quello nella casa delle studentesse fuorisede... Un vero thriller. Dopo il flop processuale, la pista più concreta è diventata la più spaventosa: il killer s’intrufola nell’abitazione, spia i movimenti di Francesca, attende l’attimo giusto, versa il veleno in un alimento, una bevanda o un farmaco e infine si chiude la porta alle spalle, beffando tutti. «L’inchiesta giudiziaria - spiega l’avvocato della famiglia Moretti, Giovanni Galeota - fu viziata gravemente dall’errore dell’ospedale, che non diagnosticò subito l’avvelenamento da cianuro, emerso mesi dopo. Di conseguenza, l’appartamento non fu sequestrato e gli elementi che potevano chiarire l’accaduto, le stoviglie, il pentolino, lo stato dei luoghi nell’immediatezza, svanirono». Di una pista alternativa, per la verità, si parlò a più riprese. Era quella dell’ambiente rom, legata alla relazione della vittima con un giovane nomade del campo Casilino 900, sposato e padre di 5 figli. Rapporto passionale, con alti e bassi. La moglie aveva minacciato Francesca, raccontò un’amica. Ma ciò non toglie che la sociologa si sentisse sicura dell’amore di Graziano, tanto che aveva pronte le valigie per partire con lui. La data fissata era il giorno seguente, il 23 febbraio. Una coincidenza? Di certo dalle carte emergono parecchi indizi interessanti: dal diario di Francesca, che spinse la madre a dire «me l’hanno uccisa» (quaderno mai finito nel fascicolo) alla fiala vista sotto il letto e non sequestrata; dalle chiavi di casa rubate a Mirela Nistor, la coinquilina romena, alla visione di «un’ombra» in corridoio. Senza dimenticare altri tasselli, dal bicchiere sul comodino alle indagini molto parziali sulla provenienza del cianuro, cercato solo in Sicilia, terra d’origine dell’accusata. «La famiglia chiede alla Procura di Roma un atto di coraggio: riprendere in mano gli atti e riaprire l’inchiesta - insiste l’avvocato Galeota -. Un killer callido e spietato come quello che ha avvelenato Francesca non può e non deve restare in libertà, ne va della sicurezza di tutti».
San Lorenzo, delitto d’altri tempi: mix inaudito di freddezza e ferocia. Oggi, nel rievocare la scena, quel mister X armato di una fiala da 200 mg di veleno fa ancora salire brividi lungo la schiena. Scoccherà mai l’ora di verità e giustizia?
· «Hanno ucciso Maga Magò». Quel giallo che sconvolse piazza Navona.
«Hanno ucciso Maga Magò». Quel giallo che sconvolse piazza Navona. Pubblicato domenica, 31 marzo 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Chi ha ucciso Maga Magò? Non è un fumetto. E non c’è da sorridere. Nella lugubre galleria delle persecuzioni contro i gay - dai tempi del tardo impero, quando «coloro che sono usi trasformare in femmineo il proprio corpo virile» venivano bruciati in piazza, agli anni del nazismo e del triangolo rosa appuntato sulla casacca degli omosessuali portati nei campi di concentramento - va aggiunto un periodo recente, passato in sordina. Ma illuminato da bagliori non meno sinistri. Chi segue la cronaca nera, lo ricorda. Roma, 1990-1997: sette anni da incubo. La striscia di omicidi omosessuali – ben 24 - cominciò con un personaggio da film, il nano di Termini che faceva l’imbalsamatore, e si chiuse (in via provvisoria) con un professore americano della John Cabot University. Tutti morti ammazzati. In circostanze pressoché identiche: il corpo nudo sul letto, un laccio attorno al collo o un coltello piantato nel cuore, la fuga del killer. A rimetterci la pelle - uno dopo l’altro, con noi giovani cronisti che piombavamo sul posto mezz’ora dopo, ormai smagati, l’occhio vigile sui cestini della spazzatura, in cerca dell’arma del delitto - furono il bancario, il parrucchiere, il critico teatrale; l’ingegnere informatico consulente nel processo sulla strage di Capaci e il parroco perduto dietro al suo desiderio; il regista e l’operaio, il disoccupato e il venditore di dischi...Ma l’emblema di quella scia rosso sangue, la vittima rimasta nella memoria collettiva, perché non c’era romano che non l’avesse visto almeno una volta e non avesse sorriso per le sue bizzarrie, ha nome e cognome non italiani: Walter Norbert Heymann, 53 anni, il cartomante di piazza Navona venuto da Hannover. Quello con il mantello nero e il cilindro da prestigiatore, figura carismatica e un po’ inquietante, amante dei ragazzi con gli occhi cerulei e apprezzato da chiunque si trovasse a passare vicino al suo banchetto, compresi politici, intellettuali e personaggi dello showbitz, come Renato Guttuso e Moana Pozzi, che fu addirittura sentita dai carabinieri in qualità di testimone...Già, chi uccise Maga Magò, come lo ribattezzarono subito i giornali? Era il 3 gennaio 1993: lui non rispondeva al telefono e il giovane slavo che gli faceva da assistente andò a controllare a casa, in viale Trastevere 143, davanti al ministero della Pubblica Istruzione. «Non sono mai stato gay - mi dice oggi il testimone dell’epoca, contattato tramite Facebook -. Iniziai a collaborare con lui perché Walter, che avevo conosciuto a piazza Navona, era una persona interessante, intelligentissima». L’amico del mago salì i 5 piani con un brutto presentimento. «La porta era socchiusa, aprii senza bisogno della chiave. Lui era a terra, vicino al letto. Nudo, solo la camicia addosso». La bocca senza denti (usava la dentiera) spalancata in un ghigno di morte. E sangue, tanto sangue: massacrato con 7 coltellate, quella fatale al petto, circa 72 ore prima, chiarì il medico legale. Quindi, il 31 dicembre. In frigo, una bottiglia di champagne non stappata. Nel portafogli, parecchie banconote da 100 mila lire. Non era stata una rapina. «Corsi a chiamare i carabinieri – prosegue l’amico, che è rimasto a Roma e lavora nel cinema - senza toccare nulla: c’erano due bicchieri e pensai che potevano essere importanti per le impronte, per le tracce di saliva...» Accortezza giusta, ma vana. In un crescendo spasmodico di attenzione mediatica e di psicosi nella comunità gay, le indagini puntarono sul furto di due milioni di lire subito da Heymann qualche mese prima, poi sul mistero di un’auto grigia che l’aveva tamponato due volte mentre era in motorino, e ancora su un russo di 25 anni notato con lui negli ultimi tempi. Intanto, Roma piangeva il suo mago. «Era il più bravo a leggere nel futuro, ci indovinava sempre. Per questo poteva chiedere tanto, anche mezzo milione a seduta», giuravano gli habitués della piazza. Le divinazioni spaziavano in ogni direzione. «Ci aveva predetto che avremmo perso il lavoro - raccontarono increduli i portieri del suo stabile - e proprio ieri ci è arrivata la lettera di licenziamento». Moana Pozzi era amica di Walter Norbert Heymann, il mago di piazza Navona Moana, che l’aveva incontrato in una discoteca di Testaccio, ne era stata stregata. «Walter mi passò un biglietto in cui diceva qualcosa di privato su mio fratello, che nessuno sapeva». Nell’appartamento di Maga Magò fu trovato un assegno dell’attrice di 300 mila lire. «Era il mio cartomante di fiducia - raccontò la Pozzi -. Più volte abbiamo cenato a lume di candela. La vigilia di Natale sono stata a casa sua mezz’ora per i tarocchi e alla fine ci siamo scambiati gli auguri. Lui, in segno di grande affetto, mi ha regalato Chanel n. 5, il profumo delle dive». Le indagini sfumarono presto nel nulla. Un altro assassino in libertà e la spaventosa ombra di un serial killer. Noi cronisti eravamo in allerta: i successivi furono un pensionato, un bancario, un parrucchiere... Fino a che, nell’estate 1998, dalla questura mi arrivò la dritta che aspettavo. «Prendi appunti, svelto. Abbiamo un nome, ne ha incaprettato un altro. Lo chiamano Marian tre dita, è romeno. Ne ha perse due in un incidente. Potrebbe essere lui lo scannatore dei gay». «Grazie, amico». E corsi a riferire ai capi. Alberto Intini, capo della Squadra omicidi a Roma all’epoca dell’ondata di delitti gay. Oggi è prefetto di Imperia. La soffiata, nel giro di poche ore, diventò un pezzo di prima pagina sul Corriere. «Quell’ondata di delitti - ricorda Alberto Intini, oggi prefetto di Imperia, all’epoca capo della Squadra omicidi della questura di Roma - era legata ai flussi migratori, in particolare nordafricani e romeni. Certo, la pista di un unico assassino a tratti parve concreta: le modalità omicidiarie erano molto simili. Ma, dopo un attento screening, la scartammo: nessuno degli arrestati per i delitti da noi risolti aveva ucciso più di una volta, mentre, nei casi aperti, sia il dna sia le impronte erano di persone diverse». Quei sette anni di sangue, comunque, a qualcosa servirono. «Grazie alle nostre battaglie - ricorda Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay center - siamo riusciti a dare agli omosessuali la stessa dignità di tutte le altre vittime. Prima le indagini si facevano, ma con poca convinzione. Poi, soprattutto in seguito all’omicidio di Paolo Seganti, nel 2005, l’atteggiamento è mutato. La collaborazione con l’allora capo della polizia, Antonio Manganelli, ha portato alla nascita dell’Oscad, l’osservatorio contro gli atti discriminatori, e gli episodi sono diminuiti». Riposino in pace, le vittime di quell’olocausto di fine millennio. L’emergenza sembra rientrata. Ma non sia mai: in nome di Maga Magò e di tutti gli altri caduti, guai ad abbassare la guardia...
· Libero Ricci. Il giallo del pensionato e del collezionista di ossa: «Cercate nel Tevere».
Libero Ricci. Il giallo del pensionato e del collezionista di ossa: «Cercate nel Tevere». Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Tra i tanti misteri della Roma più nera, quella che gronda sangue dei morti ammazzati e lacrime di chi li amava e sudore freddo degli assassini quando si sentono braccati, c’è una storia dimenticata. Macabra e inafferrabile. Degna di un thriller mozzafiato, oppure di un colossal. E infatti sono già usciti, sia il libro sia il film, per raccontare una vicenda simile, ambientata oltreoceano. Titolo: «Il collezionista di ossa». Che è un modo gentile di chiamare un necrofilo, probabilmente psicopatico, certamente da tenere alla larga se lo s’incrocia sotto casa la sera. La protagonista del film era Angelina Jolie, bravissima agente dell’Fbi alle prese con un cadavere trovato vicino ai binari. Ma quella era fiction. Alla Magliana, invece, una dozzina d’anni fa accadde davvero. Giallo da incubo: tibia dopo tibia, femore dopo femore… Un rebus che ora, grazie a un testimone, potrebbe finalmente avviarsi a soluzione: «Cercate nel Tevere, il corpo può essere lì…» Libero Ricci, il pensionato scomparso nel 2003 alla Magliana: il corpo non è mai stato trovato. È il primo pomeriggio del 26 luglio 2007 quando la triste storia del pensionato scomparso quasi 4 anni prima si incrocia con quella dei morti senza nome. A dare l’allarme è un abitante della zona: un incendio si sta mangiando il canneto ai bordi della pista ciclabile, all’altezza di via Pescaglia. Arrivano i pompieri e, domato il fuoco, viene alla luce qualcosa di lugubre: uno scheletro. Annerito, bruciacchiato. E quasi completo: teschio, costato, bacino, arti superiori e inferiori... «Colleghi, chiamate la Questura, questa è roba da sezione omicidi...» Ma non è finita. Sullo stesso terreno vengono recuperati, in un marsupio, un mazzo di chiavi e un portafoglio contenente una carta d’identità ancora leggibile: «Libero Ricci, pensionato». È lui. Finalmente lo si è trovato: l’ex artigiano decoratore di 77 anni, che aveva lavorato a lungo con ditte al servizio del Vaticano, era sparito il 31 ottobre 2003, dopo essere uscito dall’appartamento al settimo piano di via Luigi Rava 7, in cui abitava con la moglie Emilia. Caso risolto? Sembra di sì: «I resti sono del vecchietto, torniamo alla base», salutano i pompieri. La Scientifica intanto è al lavoro. Fotografa, spolvera, cataloga le ossa. Un lavoro di fino, mentre due poliziotti vanno a controllare in via Rava: le chiavi corrispondono. Ivana Ricci, la figlia, allarga le braccia: «Mia madre non ha retto al dolore, poco dopo è morta anche lei. Quella mattina papà uscì per la solita passeggiata e chissà cosa gli è successo...» Il punto della pista ciclabile della Magliana in cui, nel 2007, 4 anni dopo la scomparsa del pensionato, fu trovato lo scheletro con le ossa di 5 personeStacco. Cambio di scena. Passa qualche anno. Le ossa adesso sono sui tavoli asettici dell’Istituto di Medicina Legale per l’estrazione del dna e il confronto con il codice genetico dei figli di Ricci. La stampa non ha più seguito la vicenda - di anziani inghiottiti dalla metropoli se ne contano tanti - e anche i consulenti tecnici se la sono presa comoda. Ma, nel febbraio 2010, arriva la notizia choc: tutto da rifare, quei resti non erano di Libero Ricci. Nulla di nulla, neanche una falange! La genetista, nel comunicarlo in Procura, è incredula: «Dottore, sa la novità? Le ossa di via Pescaglia sono appartenute a 5, le ripeto, 5 persone diverse...» Marcello Monteleone, il pm, sgrana gli occhi. «Ne è sicura?» «Certo». Parte l’inchiesta per omicidio volontario plurimo e occultamento di cadaveri... Eccoci dunque catapultati nel mistero più fitto. Calotta cranica, denti, femori e rotule, da questo momento, iniziano a «parlare». Il dna non lascia margini a dubbi: si tratta dei resti di tre individui femmina e due maschi. L’analisi al radiocarbonio, inoltre, dà indicazioni abbastanza precise su età ed epoca del decessi, tutti avvenuti nell’arco degli ultimi 15-20 anni. «Stiamo a vedere... Le famiglie di scomparsi potrebbero darci una mano», ragiona il magistrato. Ad ognuno viene attribuito un codice: F1, la donna di cui si hanno più reperti anatomici (teschio, vertebre, costato), doveva avere tra i 45 e i 55 anni quando, nel periodo novembre 2002-novembre 2006, passò a miglior vita. Analogamente vengono disegnati gli altri profili: ci sono le femmine F2 (una tibia disponibile, 20-35 anni al momento della morte) e F3 (una fibula, 35-45 anni), ma anche i maschi M1 (una scapola e un braccio, 40-50 anni) e M2 (un femore destro, 25-40). Con un’ulteriore sorpresa, relativa a F1: il dna mitocondriale non esclude si tratti di una parente di Libero, sul lato materno. Scenario da brividi. Il giallo finisce in tv. Chi l’ha visto? propone l’immagine dello scheletro-puzzle e tanti chiamano cercando una madre, un marito, una figlia… La fiammata mediatica, però, dura poco. Non emerge niente di concreto, le ossa restano anonime. E il magistrato, nel 2012, si arrende: caso archiviato. Ma non nei ricordi (e nell’inquietudine) della gente della Magliana... Renzo Mori, il portiere del palazzo dove abitava il pensionato, un’idea ce l’ha. Lo incontro nella guardiola di via Rava tappezzata di sue foto in tenuta da maratoneta. «Visto? Il mio record è sotto le tre ore…» Accidenti, penso: un ottimo tempo. Ma siamo qui a parlar d’altro. «Quella mattina sor Libero uscì verso mezzogiorno. Mi salutò con cortesia e si avviò a passettini piccoli, barcollando. Non so, forse aveva un principio di Alzheimer. L’abbiamo cercato con i cani per giorni, abbiamo fatto battute ovunque. Anche dove, anni dopo, è saltato fuori lo scheletro». Un’elaborazione grafica (di Vincenzo Progida) del doppio giallo della Magliana Lo blocco. «Mi accompagni sul posto?» «Ok. Andiamoci in bici». Dal locale caldaia ne tira fuori due professionali. È meno di un chilometro: poche pedalate e siamo davanti al canneto dell’orrore, ora rigogliosissimo. «Va a fuoco spesso, poi ricresce. Sta’ attento…» Ci inoltriamo in una specie di giungla. «Le ossa erano laggiù, sotto al muretto. Vicino c’erano il mazzo di chiavi e il portafoglio». Strano, no? «Mah, ci ho pensato. Lui era distratto, non ci stava tanto con la testa. Può esse’ benissimo che se l’era persi, un passante l’ha raccolti e poi, non sapendo che farsene, ha buttato il tutto». E dunque? «Andiamo al fiume». Lo seguo. Nuova giungla. Baracche, materassi fetidi, topi. «Ascolta bene. Qui c’era un sentiero. Sor Libero c’aveva ‘na grande passione: la pesca. Finché guidava, se n’annava a Fiumicino con la sua A112 blu, di nascosto dalla moglie. Negli ultimi tempi, invece, mi capitava di incrociarlo sulla ciclabile, quando correvo, mentre lui tornava a casa con la canne in spalla. Quella mattina, anche se ormai sfarfallava, avrà avuto voglia di passa’ un po’ di tempo sulla riva. Poi ha avuto un malore, e chi s’è visto s’è visto…» E va bene, ammettiamolo pure. Il corpo di Libero Ricci potrebbe essere qui, sotto i nostri occhi, incagliato sul fondale limaccioso del Tevere. Qualcuno, a questo punto, potrebbe anche dare una controllata... Ma gli altri punti interrogativi restano. Tanti e inquietanti. L’incendio del canneto fu casuale o servì a far trovare lo scheletro? Il «collezionista di ossa» voleva mandare un segnale, o forse mettere in scena un macabro «gioco»? I numerosi resti umani, in ogni caso, a chi appartennero? Vittime di omicidi? Suicidi? E ancora, domanda delle 100 pistole, come spiegare l’identità genetica tra il pensionato e F1, la donna del teschio? Coincidenze, indizi, colpi di scena: un cold case da manuale del crimine. Altro che film...
· Liliana Grimaldi. La maestra di piano uccisa dal giostraio, libero dopo 8 anni.
Liliana Grimaldi. La maestra di piano uccisa dal giostraio, libero dopo 8 anni. Pubblicato domenica, 28 aprile 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Stava vivendo una stagione felice, nonostante l’età avanzata e gli acciacchi. Quando si dice: anche la vecchiaia sa essere dolce, non solo affanni e rimpianti. Liliana Grimaldi, bolognese d’origine, insegnante di musica in pensione, «donna squisita e benvoluta da tutti», come ricorda oggi una vicina, giusto un quarto di secolo fa finì sui giornali per il motivo più atroce. Uccisa a scopo di rapina nel posto in cui doveva sentirsi più al sicuro: casa sua. Un appartamento comodo, 5 stanze e doppi servizi, con vista sul parco di Tor Marancia, spesso allietato dai giochi e dalle grida dei nipotini. Delitto feroce, da lasciare sgomenti: toccò alla figlia Silvana, la mattina del 31 maggio 1994, aprire la porta di via Belloni 42, dietro piazza Lante, e scoprire il corpo delle madre settantaquattrenne, riverso in corridoio. Strangolata con una calza di seta presa dal cesto della biancheria e fatta girare attorno al collo due volte. In modo da esser sicuro. Da poter compiere indisturbato la razzia. Il killer, messe a soqquadro le stanze, spalancati i cassetti, frugato nei cuscini e sotto i materassi, fuggì con circa 500 mila lire e qualche ninnolo. Crimine odioso, di quelli a maggiore allarme sociale. Purtroppo non isolato: allora come oggi, nella città nemica degli anziani, le rapine al sonnifero di false assistenti sociali o finti tecnici del gas o sedicenti benefattrici sono purtroppo frequenti. Con un esito sconfortante, quando finisce in tragedia: indagini in un vicolo cieco e assassino impunito, libero di colpire di nuovo. Anche per l’omicidio della maestra di piano, che dava ancora lezioni private per il gusto di sentir vibrare nell’aria le note dell’adorato Bach, fin da subito prevalse il pessimismo. «Sarà stato un balordo, un drogato. Vallo a trovare...» scrollavano la testa gli investigatori uscendo dall’abitazione sotto sequestro. «La polizia mise a verbale anche le mie dichiarazioni, perché la conoscevo bene. Non ricordo di preciso, ma di certo dissi che Liliana doveva essere rimasta vittima della sua bontà», racconta la signora Nadia, sua dirimpettaia. Fatto è che, molto presto, cadde il silenzio. Il delitto di via Belloni, come tanti altri di quel decennio (da via Poma al detective ucciso all’Ostiense, dalla commercialista nell’armadio al mago di piazza Navona), finì nel libro nero dei cold case. Passavano gli anni e i pensionati continuavano a morire. Si calcolò una trentina, durante rapine o agguati premeditati. Come l’ultranovantenne Francesco Capoccia, irretito a fine 1998 in zona Aurelio, avvelenato dalla fatale «bibitina», o Paolo Simeoni, l’ex maresciallo dell’Esercito morto nel 1999 a Prati, dopo essere stato agganciato al mercato da due donne che s’erano spacciate per ex alunne della moglie. Vigliacchi, vergogna. In Questura, mese dopo mese, lo stillicidio di caduti dai capelli bianchi suscitava frustrazione e imbarazzo. Non si poteva andare avanti così, a segnare cerchi rossi sul calendario. Fino a che, nel 2007, su intuizione di Vittorio Rizzi, all’epoca dirigente della Squadra mobile romana (e oggi vicecapo della polizia), fu costituita un’Unità speciale per gli omicidi irrisolti. Novità in stile Fbi: quattro investigatori incaricati a tempo pieno di rispolverare i vecchi fascicoli, rivedere sospettati e indizi, fare la spola con l’Ufficio corpi di reato per riesaminare i reperti chiusi in buste sigillate, come fili di tessuto, macchie, fazzoletti insanguinati. Ed ecco la svolta. «Capo, ci siamo! Il bastardo non era stato ancora fermato!» Quel giorno dell’inverno 2008, in via San Vitale, l’ispettore impegnato sul delitto Grimaldi era raggiante. Il confronto tra le impronte raccolte nel 1994 e quelle immagazzinate dal sistema Afis (il database del Viminale con 40 milioni di immagini archiviate) aveva fornito il risultato sperato. La traccia dattiloscopica lasciata dal killer su un foglio di carta portava a un delinquente di una trentina d’anni, già noto per i molti precedenti penali (rapine e droga): Manuele Hemig, cittadino italiano nato a Torre del Greco, giostraio di famiglia nomade, residente, guarda caso, a pochi isolati dalla casa del delitto. «All’epoca l’arrestato non avremmo potuto rintracciarlo, visto che è stato schedato solo nel 2006. Sua madre è ricercata per 11 rapine a domicilio», spiegò Rizzi in conferenza stampa. Era il 3 luglio 2008: finalmente, dopo 14 anni, per il colpevole si aprirono le porte del carcere. Ma qui comincia un’altra storia...Quanto vale, in termini di punizione del reo, la vita di un’inerme vecchina? Dipende. Specie se, come nel caso di Hemig, si ha la «fortuna» di macchiarsi le mani di sangue da minorenne. Il giostraio, infatti, quel 31 maggio 1994 aveva quasi 17 anni, essendo nato nel luglio 1977: potè quindi beneficiare di una consistente riduzione di pena sia, oltre che delle attenuanti. Morale: nel 2012 fu condannato per omicidio volontario a 8 anni e 6 mesi. Non solo: grazie alla buona condotta, scalando 45 giorni ogni 6 mesi di reclusione, l’affidamento in prova al servizio sociale si avvicinò di un altro bel po’. Per l’esattezza 320 giorni di liberazione anticipata. Risultato: nell’ottobre 2016, dopo otto anni di sole a scacchi, fu scarcerato, con la promessa di non tornare a delinquere, non frequentare pregiudicati e adoperarsi in favore della vittima del reato. Impegni rispettati? Quelli della Cold case, in ogni caso, la vicenda se lo ricordano bene: fu la loro vittoria più amara. Mi faccio coraggio. Telefono al figlio. Risponde una donna, forse la moglie. «Posso parlare con il signor Armando?» Si fa spiegare. Esita: «Sì, certo... Ci hanno informati...» Me lo passa? «Aspetti». Scansa la cornetta. Dialogano a bassa voce. «È un giornalista, sai, per il fatto di mamma...» «No, non me la sento». «Sicuro?» «Ringrazialo, salutalo...» Non insisto. Ha ragione, rifletto. «Avete tutta la mia solidarietà», concludo, sapendo bene che vale poco. Ci vorrebbero le scuse e la richiesta di perdono del killer, se davvero il carcere l’ha reso una persona migliore. Oppure dello Stato, chissà... Metto giù. Ripenso alla maestra di pianoforte. Le piaceva il pane caldo e profumato di un forno lontano da casa, in via Merulana, dove andava con l’autobus. E gli abiti a colori vivaci, quasi sgargianti. Piccole cose che riempiono una vita. Il silenzio, in certi casi, parla più di qualsiasi grido di rabbia e dolore.
· Gli abusi in collegio e quel corpo nel Tevere: il giallo di Padre Pierre.
Gli abusi in collegio e quel corpo nel Tevere: il giallo di Padre Pierre. Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Quella mattina d’inverno in cui un pescatore seduto sulla sponda del Tevere, dalle parti di Vitinia, vide una massa informe galleggiare sull’acqua e poi accostarsi alla riva e infine assumere i contorni di una persona, meglio, di ciò che era stata una persona, neanche il più fantasioso dei complottisti all’ombra di Santa Romana Chiesa avrebbe potuto immaginare una trama nero-clericale tanto cupa e ricca di colpi di scena. Un pupazzo enfio e quasi irriconoscibile: fu con questa immagine raccapricciante - il 1° febbraio 2000, un mese dopo l’avvio del Grande Giubileo - che il biondo fiume restituì al mondo dei vivi l’involucro terreno di un uomo di Cristo, come parve subito chiaro. Impigliato ai vestiti, fu recuperato un rosario. Consultata la lista degli scomparsi, la polizia impiegò meno di 24 ore ad afferrare il bandolo. O, almeno, così si credette...Il santuario di Bétherram, nei Pirenei, dal quale proveniva P. Pierre Carricart, trovato morto nel Tevere nel febbraio 2000«Eccolo, è lui! Lo cercano da quasi un mese». Padre Pierre Silviet-Carricart, della congregazione del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram, domiciliato presso la Casa Generalizia di via Brunetti, a due passi da piazza del Popolo, era uscito dal convento il 5 gennaio e non aveva fatto ritorno. Il sacerdote francese, 57 anni, esiliato a Roma dopo una breve detenzione nella prigione di Pau con l’accusa di aver stuprato un allievo dell’istituto Notre Dame di Bétharram, di cui era rettore, sarebbe dovuto tornare presto in un Palais de Justice. Il magistrato Christian Mirande l’aveva convocato nella cittadina dei Pirenei per il 12 gennaio, in seguito alla denuncia di un secondo minore, pure lui iscritto nel collegio con i tetti di ardesia, i pinnacoli e il campo di calcio sul retro. Ma sul treno per la Francia padre Carricart non salì mai. Questo, almeno, davano ad intendere gli indizi raccolti...
«È lui, anche se lo ricordo più basso...» Fu un confratello del Sacro Cuore a riconoscere il cadavere in obitorio. A quel punto le procedure accelerarono. Il nulla osta al rimpatrio fu concesso in tempi rapidissimi e la salma trasferita oltralpe per i funerali. Il rito della sepoltura fu officiato il 10 febbraio 2000 nel camposanto di Lestelle-Bétharram. Suicidio senza ombre, causato dai timori di una nuova carcerazione? La lettera trovata nella sua stanza dall’avvocato Serge Legrand, che era anche amico personale dell’annegato, sembrò confermare uno stato d’animo sofferente, rassegnato. «Ho compiuto il mio cammino, sono al Golgota, la mia croce si sta alzando...» Caso chiuso? E invece no. Le vie del Signore... Fu proprio la solerzia del legale nel girare ai giornali lo struggente addio di Padre Pierre ad alimentare congetture. «Troppa fretta, che bisogno c’era di rendere pubblico lo scritto di un uomo di Chiesa?» Gérard Boulanger, pure lui avvocato, ma di una delle presunte vittime di abusi sessuali, iniziò un’agguerrita e tenace indagine, che portò prima a evidenziare la differenza di altezza del defunto tra quanto riportato nella carta d’identità (1 metro e 70) e quanto nei referti autoptici (1 e 75), e poi alla richiesta di riesumazione del cadavere, sulla base di un terribile sospetto: sicuro che dentro la bara ci fosse proprio il corpo di Padre Pierre? Non è che qualcuno aveva trovato il modo di infilare nella cassa un morto recuperato chissà dove, al fine di coprire la fuga e regalare una seconda vita al prete marchiato di pedofilia? Altro che Mattia Pascal nelle rinnovate sembianze di un Adriano Meis... «Siamo alla pura fantascienza - scrolla oggi la testa un’eminente personalità della congregazione, che incontro sulla soglia della Casa Generalizia, in via Brunetti 27, dopo aver ripetutamente suonato al citofono - Fu una vicenda assurda: all’anticlericalismo fortemente radicato in Francia si aggiunse il narcisismo tipico di certa magistratura». Fatto è che, nove mesi dopo, l’ipotesi della macchinazione fu presa talmente sul serio che la tomba venne scoperchiata davvero. Scrisse Liberation il 10 novembre 2000: «Il rigoroso allineamento delle sobrie lapidi dei religiosi di Notre-Dame-de-Bétharram sarà sconvolto: si tratta di riesumare il corpo dell’ultimo padre anziano per un campione di Dna». E così fu. Le spoglie mortali del reverendo tornarono alla luce per il loro ultimo viaggio: i laboratori di Genetica forense. Ma stavolta bastò poco - neanche un mese - per porre una pietra definitiva su voci e illazioni complottiste. «Il Dna conferma l’identità del religioso sepolto a Pau. Il corpo è di P. Pierre Silviet-Carricart. Ciò pone fine all’azione penale e sancisce il non luogo a procedere», ufficializzò la notizia il giornale cattolico La Croix, il 5 dicembre 2000, con malcelato sollievo. «La verità - sospira l’alto esponente dei Betharramiti - è che davanti alle accuse di violenza sessuale occorre procedere con equilibrio e capacità di discernere. Nessuno intende coprire i rei, sia chiaro. Ma lei sa quante volte le denunce contro i preti vengono depositate con leggerezza? Ha presente che spesso sono motivate da un desiderio di vendetta, legato magari ad altre motivazioni? Ha idea di quanto siano frequenti le accuse tardive, giunte molti anni dopo la morte dell’interessato, al solo fine di ottenere un ingiusto risarcimento?» Pensieri, parole, omissioni. Padre Pierre e il suo «doppio», mai esistito. L’onta del carcere, l’evocazione della croce sul Golgota, il calvario dei bimbi violati... Quanta umana sofferenza e quanti inquietanti misteri portò alla luce il Tevere quella mattina d’inverno, all’ombra del Cupolone, nella capitale della cristianità che s’affacciava sul suo terzo millennio, sotto gli occhi di un incredulo pescatore.
· Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra…e Massoneria.
Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra. È irrisolto l’omicidio che nel 1991 in Calabria diede inizio alla stagione delle stragi. Ora un’inchiesta indaga sui lati oscuri del magistrato. E dello Stato. Gianfranco Turano 2 maggio 2019 su L'Espresso. Avvicinabile ma integerrimo, garantista e colpevolista, Antonino Scopelliti resta l’enigma per eccellenza della stagione delle stragi mafiose. Il magistrato che doveva sostenere l’accusa nel Maxiprocesso a Cosa Nostra in Cassazione è stato ucciso il 9 agosto 1991 a Campo Piale, sopra Villa San Giovanni. La sua morte è il primo passo di una transizione politico-criminale conclusa il 18 gennaio del 1994 nei pressi di Scilla, con l’assassinio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. In mezzo, ci sono le morti eccellenti di Salvo Lima, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ignazio Salvo, degli agenti delle scorte, dei passanti colpiti dalle bombe di via Palestro a Milano, di via dei Georgofili a Firenze, di San Giorgio al Velabro a Roma. Solo su Scopelliti non c’è una condanna. I processi ai mandanti e agli esecutori si sono sempre chiusi in un nulla di fatto. Ci riprova la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Oltre un quarto di secolo è trascorso in discorsi consolatori e celebrazioni davanti alla stele dedicata al giudice, tra false piste e tragedie, come i criminali chiamano le fake news di cui questa vicenda abbonda. Per troppo tempo si è fatta la storia giudiziaria dei trenta mesi di sangue fra l’agosto 1991 e l’inizio del 1994 con un’impostazione “palermocentrica”. Ma il bilancio del cui prodest è chiaro.
Caso Scopelliti, chi è Maurizio Avola, il pentito che ha fatto riaprire l'indagine. Un killer seriale con decine di assassini in curriculum ha portato i magistrati sulle tracce dell'arma che, secondo lui, ha ucciso il giudice calabrese. Slessia Candito il 6 maggio 2019 su L'Espresso. Un sicario spietato. Un viveur. Un pentito importante, ma capace di far saltare il programma di protezione per tornare alle rapine. Nel corso della sua vita, Maurizio Avola, il collaboratore che ha dato nuove gambe alle indagini sull’omicidio Scopelliti, è stato molte cose. Tante sono state ricostruite, altrettante le ha raccontate lui stesso, dentro e fuori dalle aule di giustizia. Autore reoconfesso di più di 80 omicidi, in grado di freddare senza esitazione, né rimpianti, giornalisti, boss, e persino il suo migliore amico, negli anni di piombo catanesi, a lui il boss Nitto Santapaola affidava le più delicate missioni di morte con la certezza che non avrebbe né sbagliato, né parlato. Perché uccidere gli piaceva. «Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole. Non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite» ha detto più volte in udienza.
Caso Scopelliti, dubbi sul fucile dopo la perizia «Arma vecchia». Pubblicato venerdì, 26 luglio 2019 da Carlo Macrì su Corriere.it. Il fucile che il pentito Maurizio Avola ha fatto ritrovare un anno fa nella campagna catanese non sarebbe quello utilizzato dai killer per uccidere, 27 anni fa, a Campo Calabro, il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti. O meglio: la perizia che i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria hanno affidato alla polizia scientifica, parla di un’arma «troppo vecchia, ossidata e incrostata per poter eseguire qualsiasi tipo di esame scientifico» scrivono i tecnici della polizia. La notizia pubblicata venerdì dal quotidiano «Gazzetta del Sud», piomba come un fulmine a ciel sereno sulle indagini che la procura reggina ha avviato da tempo, per identificare gli autori del delitto eccellente. Eppure esattamente un anno fa, in occasione dell’anniversario della morte del magistrato, il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, si erano detti certi che quel fucile fosse quello utilizzato dai killer. «Il ritrovamento è importante perché conferma importanti recenti intuizioni investigative» aveva detto Bombardieri. La perizia dice, però, molto altro. Le cartucce fatte ritrovare assieme al fucile dal pentito catanese, sono «completamente difformi da quelle ritrovate sul luogo dell’agguato e sul corpo del magistrato». E ancora: «Nessun profilo biologico è stato possibile accertare né sul fucile ne, sulla borsa che lo conteneva». L’unica cosa che i periti sono riusciti ad accertare è il numero di matricola e questo potrebbe condurre all’identificazione del proprietario o almeno a chi ha acquistato l’arma. Si tratta di un fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola, marca «Zabaleta Hermamos». Il ritrovamento dell’arma e l’autoaccusa di Maurizio Avola che ha affermato di aver fatto parte del commando di fuoco, hanno dato, nei mesi scorsi, una forte accelerazione all’indagine per identificare mandanti ed esecutori. La procura ha iscritto nel registro degli indagati 18 persone ritenute i mandanti dell’omicidio. Undici calabresi e sette siciliani tra questi anche il superlatitante Matteo Messina Denaro. E poi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e lo stesso pentito Maurizio Avola. Ci sono poi i capi storici delle ‘ndrine calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio e Giuseppe De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Giuseppe Molinetti. Il magistrato Antonino Scopelliti fu assassinato il pomeriggio del 9 agosto del 1991 a Campo Calabro. Stava rientrando in paese a bordo della sua auto, una BMW nera, dopo una giornata trascorsa al mare. Due sicari in sella a una moto lo affiancarono e lo trucidarono. Le indagini non hanno mai accertato chi fossero quei killer. Sicuramente, però, dissero allora i magistrati, uomini delle cosche della ‘ndrangheta. Nessuno avrebbe mai osato valicare i confini e uccidere un magistrato in Calabria se non ci fosse stato un «accordo» con la ‘ndrangheta. Si avanzò, quindi, l’ipotesi suggestiva di un «patto scellerato» tra la mafia e la ‘ndrangheta. Antonino Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare in Cassazione l’accusa contro gli imputati del maxi processo di mafia a Palermo, istruito da Giovanni Falcone. Le indagini però hanno scritto una pagina diversa. Per i giudici che hanno indagato e processato 21 anni fa i vertici della Cupola di Cosa Nostra da Riina a Provenzano, Bagarella, Graviano, Pippo Calò e altri, quel «patto scellerato» non ci fu. La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria ad aprile 1998 ha assolto i boss palermitani, annullando le condanne inflittegli in primo grado dalla Corte d’Assise reggina. Determinanti all’epoca, per l’inchiesta, le dichiarazioni dei pentiti «storici» come Buscetta, Mannoia, Contorno, e i calabresi Lauro e Barreca. Tutti avevano ribadito il ruolo strategico assunto da Cosa Nostra nell’omicidio Scopelliti. I pentiti si soffermarono anche sul ruolo avuto da Totò Riina nella preparazione dell’assassinio. Secondo i pentiti, infatti, Riina chiese direttamente ai vertici della ‘ndrangheta il favore di uccidere Scopelliti, fornendo in cambio la propria mediazione per chiudere la guerra di mafia a Reggio Calabria: quasi mille morti in cinque anni. Il movente mafioso sembrò subito un’ipotesi di lavoro concreta. Le piste alternative come quella privata o locale furono scartate dopo un’attenta lettura. La perizia negativa sull’arma frena, oggi, ancora una volta, l’inchiesta su mandanti ed esecutori.
Caso Scopelliti, sul delitto si allunga anche l’ombra della massoneria. L'impronta delle logge sull'omicidio del magistrato che resta l’enigma per eccellenza della stagione delle stragi mafiose. Alessia Candito il 02 maggio 2019 su L'Espresso. Grembiuli e cappucci, logge e salotti. Nella storia dell’omicidio Scopelliti, la massoneria ha lasciato la sua impronta. Sono gli anni Novanta. Negli ambienti della Capitale che il magistrato calabrese frequentava si gestisce la transizione e si cercano nuovi interlocutori. «C’è un sistema di potere che si deve riorganizzare in fretta, per questo affiora. Il problema», dice chi sta indagando in questa direzione «è recuperare elementi di quasi 30 anni fa. Ma è necessario, perché è tutto ancora in piedi». La chiave, spiega, sta in quei salotti che servono da alibi per incontri che devono restare discreti e da occasione per agganciare qualcuno. È il mondo dei massoni che non figurano nelle liste ufficiali e sono sfuggiti al lavoro della commissione parlamentare antimafia nella scorsa legislatura, nonostante i sequestri degli elenchi ordinati dal presidente Rosy Bindi. I nomi dei muratori calabresi e siciliani sono però serviti alle procure per lavorare per un confronto con gli elementi portati da “fratelli” che ai magistrati stanno spiegando come la legge Anselmi sia stata aggirata. A chi stava nelle obbedienze ufficiali è bastato mettersi “in sonno” per sparire da tutti gli elenchi e rimanere solo “all’orecchio” del Gran Maestro, terminale di collegamento con la fratellanza ufficiale. I massoni in sonno, secondo la Dda reggina, hanno goduto del privilegio di non pagare le quote, di non partecipare ai rituali, se non quelli aperti ai profani, e della possibilità di non farsi riconoscere dagli altri muratori. Negli anni poi, le strutture sono state nascoste dietro ordini cavallereschi vaticani o obbedienze con base a San Marino. È così che dopo lo scandalo P2 vivono le logge coperte che Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e consulente della nuova commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra, sta individuando. Ed è lì che uomini di potere, pubblico, privato e criminale, mettono insieme il proprio capitale sociale. Due nomi ci sono già: Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Li hanno fatti i pentiti, li hanno confermati i “fratelli”. Avvocati, entrambi condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, De Stefano e Romeo hanno il pallino della politica e la predilezione per l’eversione nera a dispetto della militanza ufficiale (Dc e Psdi rispettivamente). Per i magistrati sono al vertice della direzione strategica della ‘ndrangheta. Iniziati negli anni Settanta in una superloggia con ambizioni golpiste, ufficialmente non esistono, ma i documenti trovati nel quartier generale di Romeo confermano che quel mondo non lo hanno mai lasciato. Sarebbero i componenti in quota ‘ndrangheta di gruppi di potere dalle anime diverse che la “fratellanza” tiene insieme. È lo stesso mondo frequentato dal pentito Cosimo Virgiglio tra la Calabria, Roma, il Vaticano e San Marino e attorno a cui gravitano salotti come quello dei fratelli Giuseppe, Raffaele e Massimo Pizza, sede sociale di uno Stato parallelo, in grado di intervenire negli affari interni, esteri, economici e sociali. È il sistema che si è dovuto mettere in moto in fretta per garantire la latitanza di Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena, condannati entrambi come rappresentanti delle mafie nel mondo della politica.
Caso Scopelliti, trenta mesi che hanno cambiato il mondo. La successione degli eventi nazionali e internazionali che portano dal bipolarismo Usa-Urss a Tangentopoli e alla Seconda Repubblica. Gianfranco Turano il 06 maggio 2019 su L'Espresso. Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra. È irrisolto l’omicidio che nel 1991 in Calabria diede inizio alla stagione delle stragi. Ora un’inchiesta indaga sui lati oscuri del magistrato. E dello Stato. Caso Scopelliti, verità e menzogne per un cadavere eccellente.
In oltre un quarto di secolo, dal 1992 fino alle udienze dei processi in corso, i collaboratori di giustizia hanno dato varie versioni sulla morte del pm della Cassazione. Brani scelti da un labirinto dove la giustizia si è smarrita
I funerali di Scopelliti il 10 agosto del '91 alla presenza del presidente della Repubblica Cossiga.
1990
7 febbraio. A a meno di sei mesi dalla caduta del Muro di Berlino Mikhail Gorbacev indice le elezioni democratiche in quindici repubbliche dell'Unione Sovietica; si voterà per tutto il 1990 e il Pcus perderà in sei stati; è l'inizio della dissoluzione dell'Urss.
11 aprile. Umberto Mormile, agente della penitenziaria in servizio a Opera, viene ucciso a Carpiano (Mi) per avere ostacolato i colloqui fra agenti dei servizi e boss della 'ndrangheta; saranno condannati Domenico e Antonio Papalia come mandanti, Nino Cuzzola e Antonio Schettini come esecutori.
2 agosto. Il premier Giulio Andreotti ammette l'esistenza della struttura stay-behind denominata Gladio; è il giorno dell'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein.
10 ottobre. In via Monte Nevoso a Milnao vengono ritrovate lettere e memoriale di Aldo Moro.
18 ottobre. Andreotti relaziona su Gladio in Commissione Stragi.
27 ottobre. La Falange Armata rivendica l'omicidio Mormile, è la prima apparizione della sigla.
5 novembre. La Falange Armata rivendica gli omicidi degli imprenditori catanesi Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, uccisi il 30 ottobre; a giugno del 2017 la Cassazione ha annullato la sentenza di archiviazione e ha ritrasmesso gli atti alla Procura di Catania.
4 dicembre. Operazione Santa Barbara contro i clan in guerra degli Imerti-Condello e De Stefano-Libri.
10 dicembre la Corte d'appello di Palermo chiude con pesanti condanne il secondo grado del Maxiprocesso.
11 dicembre. Fbi e polizia di New York irrompono nel Ravenite social club di Little Italy e arrestano, fra gli altri, il boss della famiglia Gambino John Gotti.
1991
4 gennaio. Nella strage del Pilastro a Bologna i fratelli Savi, dipendenti della Polizia di Stato, uccidono tre carabinieri; la Falange Armata rivendica con la frase “il terrorismo non è morto, vi faremo sapere poi chi siamo”.
17 gennaio. George Bush invade l'Iraq.
11 febbraio. Diventa esecutiva la sentenza della prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale che scarcera per decorrenza dei termini Michele Greco e altri 42 mafiosi del Maxiprocesso.
12 febbraio. Corrado Augias dedica la puntata di Telefono Giallo al giudice “ammazza-sentenze” Carnevale; in studio da Palermo c'è Giovanni Falcone, il primo ospite a Roma è Antonino Scopelliti; i due magistrati si scontrano in diretta.
18 febbraio. Si tiene al cinema Odeon di Reggio Calabria un convegno di magistrati aderenti al Movimento per la giustizia-Proposta 88, fondato dopo l'uscita di Falcone e altri da Unicost; il documento finale (“la risposta istituzionale alla criminalità organizzata”) chiede la rotazione nell'assegnazione dei processi di mafia in terzo grado di giudizio ed è, di fatto, un attacco senza precedenti dei colleghi a Carnevale.
19 febbraio. Repubblica annuncia che Falcone si preparerebbe a lasciare Palermo per un posto al ministero di Giustizia, guidato dal socialista Claudio Martelli.
21 febbraio. In uno degli ultimi e più efferati delitti della seconda guerra di 'ndrangheta in corso a Reggio e provincia dal 1985 un bazooka uccide il boss del rione Modena Mario Albanese.
1 marzo. Martelli emana il decreto legislativo numero 60 che, con effetto retroattivo, rimanda in carcere tutti mafiosi liberati dalla Cassazione; con Falcone ormai pronto a prendere le redini dell'ufficio Affari penali viene avviato un monitoraggio di centinaia di verdetti della Suprema Corte; Cosa Nostra dà ordine ai suoi affiliati di lasciarsi riportare in carcere confidando in un verdetto favorevole per il Maxiprocesso.
5 marzo. Carnevale replica annullando la condanna a Pippo Calò per la strage del rapido 904; l'accusa, sostenuta dal sostituto procuratore generale Scopelliti, aveva chiesto la conferma del verdetto di secondo grado.
Primi di maggio. In una riunione con i magistrati il primo presidente della Cassazione Antonio Brancaccio annuncia che dall'anno seguente i processi saranno affidati a rotazione fra le sezioni della Corte; Carnevale rinuncia a presiedere il Maxiprocesso.
Fine maggio. Al Palazzaccio arrivano i verdetti del Maxiprocesso e l'elenco dei ricorrenti; pochi giorni dopo, il procuratore generale Vittorio Sgroi affida in via informale l'accusa a Scopelliti che l'aveva richiesta espressamente; la notizia, destinata a rimanere riservata, viene diffusa in pochi minuti.
10 luglio. Nel quartiere romano dell'Olgiata viene ucciso la contessa Alberica Filo della Torre; fra i primi arrivati sul luogo del delitto c'è l'agente del Sisde Michele Finocchi, che sarà poi coinvolto nello scandalo dei fondi neri del servizio segreto civile.
12 luglio. Adriano Sofri viene condannato in secondo grado a ventidue anni per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi; la sentenza passa in Cassazione e interessa molto Scopelliti, i cui appunti sul caso saranno trovati dopo la morte.
25 luglio. Scopelliti parte per le ferie estive in Calabria con le carte del Maxiprocesso; ha già avuto modo di esprimere la sua preoccupazione per i rischi del compito che lui stesso ha cercato.
8 agosto. In una telefonata a un'amica che lo sente angosciato, il giudice commenta “è un'apocalisse”.
9 agosto. Alle 17,20 un commando di due uomini in moto uccide Scopelliti; arrivano a Reggio autorità di altissimo livello, dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga allo stesso Falcone.
11 agosto. La Falange Armata rivendica; replicherà il 13 e 18 agosto e una quarta volta il 28 ottobre.
Estate. Inizia un summit a Enna che durerà, a varie riprese, settimane.
9 dicembre. Inizia il Maxiprocesso in Cassazione.
1992
30 gennaio. La prima sezione della Cassazione, presieduta da Arnaldo Valente, conferma le condanne del Maxiprocesso.
12 marzo. Cosa Nostra avvia la stagione delle stragi con l'omicidio a Palermo dell'esponente andreottiano Salvo Lima; seguiranno le uccisioni di Falcone a maggio, di Paolo Borsellino a luglio e dell'esattore Ignazio Salvo a settembre; Carnevale sarà processato per concorso esterno in associazione mafiosa e assolto in Cassazione nel 2002, nove anni dopo il primo avviso di garanzia.
· La tragedia di Tommy.
La tragedia di Tommy 13 anni dopo, la madre: «Scoprii che era morto dalla tv». Il caso che commosse l’Italia. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Giusi Fasano su Corriere.it. Quella sensazione di freddo è qui, arriva assieme ai ricordi. Paola la sente addosso mentre rivede se stessa la sera del 2 marzo 2006. «Sono riuscita a slegarmi e mi sono precipitata fuori ma c’era nebbia, non vedevo niente. Sono corsa verso il casolare abbandonato qui di fronte ma anche lì ho trovato solo nebbia e ghiaccio. Ho fatto il 113, poi ho chiamato mia sorella. Le ho urlato: “Hanno rapito Tommaso, l’hanno rapito”. Ricordo che lei rispose: ma sei scema? Del resto come si fa a credere a una cosa così? Anch’io al suo posto avrei risposto in quel modo. Era tutto assurdo: due uomini incappucciati erano appena entrati a casa mia e avevano preso il mio bambino. Il mio piccolino, capisce? Un esserino di 18 mesi...». Tommaso Onofri, rapito e ucciso all’età di 18 mesi Casalbaroncolo, provincia di Parma. La cucina di casa Onofri è ancora com’era la sera del rapimento, il tavolo è sempre lo stesso e Paola guarda l’angolo vicino alla porta d’ingresso. «Era qui, il mio Tommy. Era seduto nel suo seggiolone e stava male, aveva la febbre». Sono passati più di 13 anni da quella sera e non c’è stato un solo giorno che Paola Pellinghelli, classe 1963, abbia passato senza di lui, il suo Tommy. «È con me sempre», dice. «Ed è rimasto un bambino perché, anche se adesso sarebbe un ragazzo, io non riesco a immaginarlo cresciuto». I due uomini incappucciati che lo rapirono e lo uccisero sono in carcere dalla sera del 1° aprile 2006 quando uno di loro, Mario Alessi — muratore che aveva lavorato a casa di Paola e Paolo Onofri — confessò e fece il nome dei complici: Salvatore Raimondi, un suo amico pregiudicato, e Antonella Conserva, la sua compagna. Alessi sta scontando l’ergastolo, lei è stata condannata a ventiquattro anni e Raimondi a venti. Per un mese quel bimbetto dagli occhi azzurri fu cercato ovunque. Appelli strazianti, raccomandazioni su un farmaco antiepilettico di cui aveva bisogno, preghiere, suppliche perché lo riportassero a casa. Quando Alessi confessò, si scoprì che aveva ideato tutto lui per chiedere un riscatto di cinque milioni di euro e ripianare così la montagna dei debiti che aveva, ma il progetto — raccontò — andò a monte subito: Tommy fu ucciso pochi minuti dopo il rapimento, «perché dava fastidio, non sopportavo più il suo pianto». Strangolato fino a fratturargli la mandibola, preso a calci e a pugni. Fu seppellito sotto pochi centimetri di terra lungo il torrente Enza, tra Sant’Ilario e Parma.
È vero che seppe tutto da un telegiornale?
«Sì. Ero da mia sorella perché casa mia era sotto sequestro. Lei stava ascoltando quell’edizione straordinaria in un’altra stanza, è corsa da me per spegnere la tivù ma non ha fatto in tempo. Quando ho sentito che lo avevano ritrovato morto sono svenuta e poi non ricordo altro, mi hanno imbottita di psicofarmaci e da allora in poi li ho presi per tre anni. Prendevo sei pasticche al giorno, c’erano momenti in cui non sapevo più chi ero. Anche del funerale non ricordo altro che teste, tantissime teste. Ci sono ricordi che ancora oggi non riesco a incasellare nello spazio e nel tempo. Ho saputo di certe scene sul luogo del ritrovamento...». Quali scene? «Mi hanno detto che lì dove l’hanno trovato c’erano medici, poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco. Quando hanno cominciato a vedere la manina, il pigiamino sbucare fuori dalla terra so che alcuni di loro sono partiti a razzo per andare da Alessi a dargli una lezione. Li hanno fermati...»
Alessi aveva finto fino a pochi giorni prima.
«Pazzesco. Se per caso qualche giudice di sorveglianza dovesse firmare un permesso per far uscire questa gente dal carcere ci pensi bene e vada a rivedersi quel filmato in cui Alessi faceva un appello per Tommy: diceva che i bambini sono angeli e non si toccano». Lui sta scontando l’ergastolo, la possibilità che esca a breve non esiste. «Se è per questo non doveva esistere neanche che fosse libero quando ha fatto quello che ha fatto a Tommy». Era stato condannato per aver violentato una ragazza e aver costretto il fidanzato ad assistere. «Non so bene che cosa ha fatto. Io so che era un uomo pericoloso, in soggiorno obbligato, aveva precedenti e doveva essere in carcere e invece guarda cos’è successo... Quindi ripeto: ci pensassero bene prima di concedere qualcosa a queste persone. E comunque se succede io non voglio saperlo. Meglio che non me lo dicano. Non l’hanno fatto ma è inutile che provino a scrivermi per chiedere perdono. Io non li odio ma non li perdonerò mai. Semplicemente non voglio più sapere chi sono, vorrei che non entrassero mai più nei miei pensieri».
Quando ha capito che Alessi c’entrava qualcosa con il rapimento?
«Un giorno in questura. Non avevano ancora trovato Tommy. La polizia stava sentendo Sebastiano, l’altro mio figlio che aveva otto anni ed era a casa con noi la sera del sequestro. Io stavo aspettando lui quando arrivò Alessi. Ha tirato dritto senza salutarmi e ho pensato: che stronzo, era a casa mia fino all’altro giorno e non mi chiede nemmeno come va. Per questo l’ho fissato mentre mi passava davanti. E allora ho cominciato a pensare: sono quelle le gambe entrate in casa mia. Io le avevo viste bene da terra, legata».
Dopo Tommy lei ha vissuto il dramma di suo marito Paolo.
«È stato male l’11 agosto del 2008 mentre era da sua sorella a Folgaria. Arresto cardiaco. Io ero a casa con Seba, a Casalbaroncolo, mio padre stava male e Paolo era ricoverato a Trento. Non so come ho fatto a sopravvivere a quel periodo. Mio marito è rimasto cinque anni e cinque mesi con l’elettroencefalogramma quasi piatto ma io so che lui capiva tutto. Non comunicava ma capiva, io gli leggevo libri, gli parlavo. Ricordo che era in corso il processo quando un giorno la tivù della sua stanza trasmise un servizio su Tommy. Io ero lì accanto a lui: cominciò a rantolare, agitarsi. Menomale che c’era l’infermiera sennò mi avrebbero preso per matta. Già mi succedono cose strane...».
Per esempio quali?
«Per esempio un sogno che mi colpì moltissimo e che feci quando ero incinta di Tommy: era l’incontro con un uomo che mi diceva “ricordati che non lo avrai per tanto tempo”, e si riferiva a lui, al bambino che stava per nascere. Ci ho pensato a lungo, ci sono stata molto male ma poi Tommy è nato, mi sembrava che andasse tutto bene e con il tempo ho dimenticato tutto. Poco dopo il suo ritrovamento ho ricevuto una lettera anonima che citava quel sogno. Incredibile, no? Ho scoperto solo dopo — e anche lì, in circostanze strane — che l’aveva scritta padre Lorenzo, un frate francescano che poi mi ha aiutato tantissimo e che ora non c’è più. Quando lo conobbi Paolo stava ancora bene ma lui mi disse: dobbiamo pregare per tuo marito perché ne ha tanto bisogno. Poco tempo dopo Paolo è stato male».
Che coppia siete stati dopo la morte di Tommy?
«Lui ha sempre rifiutato di farsi aiutare ed è sbagliatissimo perché da solo non puoi affrontare una cosa così grossa. Sembrava forte ma non lo era. Noi non abbiamo elaborato assieme il nostro dolore. Poi a un certo punto lui ha preso la sua strada e negli ultimi tempi prima che stesse male non eravamo nemmeno più una coppia».
Quanto ha pesato quel processo contro di lui per la detenzione del materiale pedopornografico?
«Mi rifiuto di parlare di lui su quel fronte. Se doveva scontare qualcosa l’ha scontato con gli interessi. E ha pagato fino all’ultimo respiro. È morto a 55 anni, dopo tutto quel dolore per Tommy e dopo cinque anni e cinque mesi in ospedale in quelle condizioni. Noi non siamo nessuno per giudicarlo».
Dove hanno ritrovato Tommy c’è un cippo che lo ricorda. Lei ci va spesso?
«Abbastanza, sì. Tutti dicono che sia un posto bruttissimo ma a me trasmette serenità. Io vado in crisi solo se mi fermo a pensare a quello che gli hanno fatto oppure quando vedo un reparto bambini in un negozio, evito accuratamente di passarci vicino. Mi fa troppo male vedere i vestitini. Quella sera gli avevo appena tolto la tutina e infilato il pigiamino. Quando arrivarono i cani dell’unità cinofila per le ricerche mi chiesero qualcosa di suo e io gli diedi la tutina appena tolta. Potevo ancora sentire il suo calore».
Avete ricevuto l’abbraccio di migliaia di persone sconosciute, in quei giorni così bui.
«Sì. Ho sacchi di lettere che non ho ancora aperto. Mi hanno mandato decine di quadri che rappresentano Tommy, un ulivo, un melo da fiore, oggetti, poesie, pensieri per ricordarlo. E poi tante ranocchie perché lui, non si sa come, diceva appena qualche parola ma aveva imparato a fare il verso della rana. Ci sono stati giorni in cui avevo una montagna di fiori per lui, qui in cortile».
Non ha mai pensato di lasciare questa casa?
«Quando la dissequestrarono, mia sorella venne qui senza di me e mise tutte le cose di Tommy in una cassapanca che ancora oggi io non riesco ad aprire. I primi tempi stavo fuori ore ad aspettare che arrivasse qualcuno perché non riuscivo a entrare da sola. Volevo andarmene, ma Seba ha insistito per rimanere e alla fine ho capito che questo è l’unico posto in cui voglio stare e dove mi sento al sicuro, con i miei cani, i miei gatti, il mio giardino. In qualche modo qui c’è anche Tommy e io ci sto bene».
C’è un altro uomo nella vita di Paola Pellinghelli?
«No. Abbiamo già dato, grazie».
Un desiderio per il futuro.
«Vedere Seba contento perché non mi pare che lo sia. Per me va bene così com’è. Adesso conta soltanto la sua felicità».
· Il giallo del suicidio dell’ex generale Conti.
Il giallo del suicidio dell’ex generale Conti: respinta l’archiviazione. Pubblicato martedì, 28 maggio 2019 da Nicola Catenaro su Corriere.it. Il 17 novembre 2017 il corpo di Guido Conti, ex generale dei carabinieri e comandante provinciale della Forestale di Pescara, era stato trovato nei pressi dell’auto della figlia, parcheggiata ai piedi del monte Morrone, con un colpo di pistola calibro 9 alla tempia destra. Suicidio, era stato decretato, anche per il ritrovamento di alcune lettere (di cui una inviata all’ex premier Matteo Renzi) in cui esprimeva la sua angoscia anche per l’accorpamento del Corpo Forestale nei Carabinieri. Ora il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Sulmona (L’Aquila) ha accolto l’opposizione all’archiviazione del caso presentata dai familiari del generale. Tra gli elementi presentati dai legali della famiglia c’è la posizione del corpo di Guido Conti, 58 anni, e la presenza di un’auto che alcuni testimoni dicono di aver notato vicino al luogo del ritrovamento del cadavere. Il generale si era occupato della tragedia dell’Hotel Rigopiano e lui stesso aveva ammesso di esserne rimasto sconvolto: «Quelle vittime mi pesano come un macigno. Perché tra i tanti atti, ci sono anche prescrizioni a mia firma». Il generale si era dimesso dall’Arma poco più di un mese prima della sua morte e il 1° novembre aveva assunto l’incarico come addetto alla sicurezza ambientale di Total Italia. Fino a due giorni prima del decesso, Conti era stato all’impianto Tempa Rossa, in Basilicata. Il 15 novembre si era dimesso anche da questo nuovo incarico, annunciata da una telefonata anonima a un quotidiano online abruzzese poche ore prima della sua morte. Le indagini avevano scoperto che era stato un dipendente della Total a fare la telefonata, parlando di disaccordi con il vertice della società. La procura aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, ma non aveva trovato elementi e aveva chiesto l’archiviazione del caso. Che ora si riapre.
· Il “killer delle carceri”.
Il “killer delle carceri” è dentro da 50 anni ma fu arrestato per un furto di melanzane. La storia di Antonino Marano raccontata da Emma D’Aquino in “Ancora un giro di chiave”. Ha 75 anni, ha compiuto due omicidi, due tentati omicidi, condannato a due ergastoli, dal 2014 in libertà condizionale, ma sabato è stato rimesso in cella per detenzione di arma. Damiano Aliprandi il 29 Maggio 2019 su Il Dubbio. Sabato scorso ha varcato nuovamente i cancelli del carcere, ha 75 anni e ha già scontato quasi 50 di galera. Ma la sua è una storia particolare, perché era stato arrestato per piccoli reati, ma dietro le sbarre è diventato un vero e proprio criminale. «Le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti» disse Filippo Turati, il padre del socialismo italiano. Una citazione che cristallizza proprio la storia del signore tratto in arresto il fine settimana scorso nella località di Giarre, in Sicilia. Si chiama Antonino Marano, ed è uno dei “killer delle carceri”, protagonista di vari episodi che segnarono la cronaca criminale degli anni 80. Divenuto sicario di grosso spessore criminale e autore di vari gesti eclatanti, evase anche dal carcere di piazza Lanza di Catania, nel 1978, assieme ad altri tre complici. La sua storia è narrata dal libro uscito da qualche mese dal titolo “Ancora un giro di chiave” e l’autrice è la giornalista televisiva Emma D’Aquino. Un titolo profetico, perché, appunto, ha appena subito un altro giro di chiave. È il 31 gennaio del 1965 quando Marano entra in carcere per aver rubato melanzane e peperoni, la ruota di un’Ape e una bicicletta. L’aveva rubata, racconta nel libro, «per andare a lavorare come manovale, non l’avessi mai fatto. Ci sono rimasto per un’eternità. La cella, la coabitazione coatta mi hanno trasformato. Dietro quelle sbarre le mie mani si sono macchiate di sangue e io sono diventato un assassino». Una volta, nel carcere di San Vittore, a Milano, assieme ad un suo complice, Marano urlò di essere in possesso di una bomba, e fece irruzione nella cella di Andraus per ucciderlo con un tubo della doccia che «avevamo staccato con le mani» per «assassinare un infame». L’intervento degli agenti penitenziari bloccò il tentativo di omicidio. Durante il processo, in cui furono condannati a 17 anni di carcere ciascuno, i due non spiegarono ai giornalisti il movente: «Se Andraus fosse morto si poteva dire, ma purtroppo è vivo. Quando morirà ne riparleremo…». Il 5 ottobre 1987, Marano e il complice Antonino Faro furono vittime di un attentato nell’aula della corte d’Assise di Milano: durante la requisitoria del pm Francesco Di Maggio, al processo Epaminonda, il detenuto Nuccio Miano esplose diversi colpi di pistola contro di loro, ferendo però per errore due carabinieri. Il tentativo di vendetta era arrivato un anno dopo. Il 7 novembre 1988, nell’aula bunker delle Vallette di Torino, si celebrava un processo- stralcio contro il clan dei catanesi, davanti alla corte d’Assise presieduta da Gustavo Zagrebelsky. Da una delle gabbie, Marano lanciò una bomba carta contro le celle in cui si trovano i fratelli Nuccio e Luigi “Jimmy” Miano. L’ordigno artigianale, realizzato con dell’esplosivo nascosto dentro un pacchetto di sigarette, colpì però una canaletta elettrica e un termosifone in ghisa, sventrato dall’esplosione. Non aveva neanche un avvocato quando un giudice si occupa per la prima volta di lui: i furti vengono considerati «in continuazione», fanno cumulo, e lui si ritrova con una condanna a quasi undici anni. Entra ed esce di prigione fino al 13 giugno del 1973, quando varcando la soglia del penitenziario di Catania ha inizio il suo peregrinare, da nord a sud, per le patrie galere: da Pianosa a Voghera, da Alghero a Porto Azzurro fino a Palermo, spesso nelle sezioni di Alta Sicurezza. Il 22 maggio 2014, dopo quarantanove anni, due omicidi, due tentati omicidi e due condanne all’ergastolo, Nino Marano, il detenuto più longevo d’Italia per reati commessi in carcere, ha ottenuto la libertà condizionale. Fino però ad arrivare a pochi giorni fa, quando, è stato tratto nuovamente in arresto dai carabinieri di Giarre con addosso una pistola ben oliata nella piccola tracolla che indossava: un colpo in canna, caricatore pieno, matricola abrasa. Pronta all’uso. Difficilmente una rapina, ritengono gli inquirenti. È più probabile che, invece, ci fosse in ballo un regolamento di conti di qualche genere da cui difendersi o da compiere. Ma questo ancora non si può sapere. L’unica cosa certa è che era entrato in carcere per un piccolo furto ed era uscito con alle spalle condanne per omicidi.
· Il giallo della morte di Marianna Greco.
Il giallo della morte di Marianna Greco: dopo 3 anni indagato il marito. Pubblicato giovedì, 30 maggio 2019 su Corriere.it. L’intensità e la direzione delle coltellate alla gola che hanno provocato la morte. Ma anche i segni lasciati da quelle che potrebbero essere ferite da difesa, nel corso di una lotta disperata. E poi ci sono un’unghia spezzata, alcuni capelli che forse non sono della vittima e la posizione del corpo che lascia spazio a qualche perplessità. Eccoli i tasselli che hanno stravolto il mosaico investigativo alimentando nuovi dubbi sulla morte di Marianna Greco, 37 anni, trovata cadavere nel letto di casa la mattina del 30 novembre del 2016 a Novoli, piccolo centro a una decina di chilometri da Lecce. In un primo momento gli investigatori avevano imboccato la pista del suicidio: la donna si sarebbe uccisa trafiggendosi il collo per quattro volte. Ma adesso, a distanza di poco meno di tre anni, la tragedia che ha sconvolto questo angolo di Salento si tinge di giallo e la Procura ipotizza il reato di omicidio volontario. Nel registro degli indagati è finito il marito, Emanuele Montinaro, 44 anni, imprenditore, in precedenza accusato di istigazione al suicidio. L’uomo, che è già stato interrogato, si dichiara innocente e gli inquirenti precisano che il suo coinvolgimento è un atto dovuto per consentirgli di partecipare ai nuovi accertamenti tecnici che saranno decisivi per fare luce sulla tragica fine della donna, laureata in Scienze politiche e titolare di una tabaccheria a Lecce. Le indagini sono dirette dal sostituto procuratore Stefania Mininni. Il magistrato ha disposto la riesumazione della salma e l’autopsia. La svolta nell’inchiesta è stata impressa dalle indagini dei legali della famiglia della vittima. I genitori, Francesco Greco e Maria Luisa Metrangolo, ma anche la sorella gemella Giovanna, sono certi che Marianna non si sia suicidata: in tutto questo tempo hanno lottato per la riapertura del caso e insieme ai loro difensori hanno continuato a inviare nuovi atti in Procura senza tralasciare alcun dettaglio. I dubbi, le incongruenze, tutto ciò che secondo loro non quadra in questa storia le hanno evidenziate nelle carte trasmesse ai pm. Nei documenti si soffermano in particolare su un’unghia spezzata e tre tagli presenti su tre dita della mano destra, ritenuti compatibili con ferite da difesa. Altre perplessità sono invece legate alla posizione del corpo, coperto con un lenzuolo e adagiato in diagonale sul letto matrimoniale, e alle coltellate: non ci sarebbero fendenti di lieve intensità che invece sono spesso presenti nei casi di suicidio. Inoltre non sarebbero stati analizzati alcuni capelli biondi trovati sotto le unghie e vicino al collo. Ma non è tutto: perché sempre secondo la famiglia sarebbero spariti messaggi telefonici e mail della vittima che — ritengono i parenti — attraversava una fase difficile del suo matrimonio. Il cadavere venne trovato dalla madre e dalla sorella. L’incarico per l’autopsia sarà affidato mercoledì al professor Francesco Introna dell’Università di Bari e al medico legale Roberto Vaglio. Ma ulteriori elementi potrebbero venire dall’esame delle immagini di videosorveglianza attorno all’ingresso della grande villa di via Volturno, dove si è consumata una tragedia.
· Cinzia Cannella e Ivano Iannucci: amore «tossico.
Cinzia e Ivano, amore «tossico» di borgata: quella feroce vendetta al Tufello. Pubblicato domenica, 09 giugno 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Quel che si trovarono di fronte gli agenti della Sezione omicidi della questura di Roma la sera del 4 gennaio 1992, quando si precipitarono in via Cesco Baseggio, dove era stato segnalato un cadavere di donna ai bordi d’un prato, non era solo la maschera di orrore e stupore che deforma il volto di tanti morti ammazzati nell’istante del trapasso. No, quel corpo supino e a gambe divaricate, con la bocca spalancata in una smorfia spaventosa, il giubbotto sgualcito e gli scarponcini da trekking macchiati di sangue, raccontava molto di più, al chiarore di una luna d’inverno: la voglia di fuga dal quartiere-alveare, la speranza del riscatto grazie a un amore-bambino e la disperazione nel vedersi sola e sconfitta, resa schiava da uno schizzo di «roba» nelle vene...Si chiamava Cinzia Cannella, aveva 21 anni e già conosceva tutto lo sporco del mondo. Uno dei delitti più insensatamente feroci, nella Roma criminale degli ultimi decenni, resterà questo: un regolamento di conti stile Chicago anni Trenta, all’ombra dei palazzoni del Piano di zona 7, tra Vigne Nuove e il Tufello. «La morte risale a due-tre giorni fa», sentenziò il medico legale, constatata l’assenza di rigidità cadaverica. La ragazza era stata uccisa nel giorno di Capodanno 1992, dunque. O giù di lì. Di certo da un assassino robusto e spietato, che l’aveva trafitta con venti coltellate alla schiena e al petto e poi, per esser certo, s’era accanito a mani nude, sbattendole la testa contro la base in cemento di un traliccio dell’alta tensione. A dare l’allarme era stato un signore a spasso prima di cena. «Il cane ha cominciato a tirare verso un anfratto, ho pensato avesse fiutato una carcassa di animale, invece...» L’informazione più utile, tuttavia, arrivò dal «cervellone» della questura. «Colleghi, siete sul posto? Prendete nota. La vittima era ricercata per omicidio. Ripeto: omicidio volontario...» gracchiò la radio della «volante» parcheggiata di traverso sul marciapiede, con noi cronisti che tendevamo le orecchie, facendo finta di parlar d’altro, per carpire qualche brandello di notizia. Doppio mistero, insomma. In una capitale già scossa dai delitti di via Poma e dell’Olgiata - abbinata rosso sangue che da un paio d’anni riempiva le cronache - la storia maledetta del Tufello si prestava a fare da controcanto ai gialli borghesi di Simonetta Cesaroni e Alberica Filo della Torre. E alzava il velo su una piaga sociale gigantesca, mostruosa: l’eroina. «Anche il marito è stato ammazzato, tre settimane fa, non distante da dove vi trovate...» L’ispettore prendeva appunti usando come piano d’appoggio il tettino dell’Alfa 75 e intanto un movente - con il corpo ancora a terra, in attesa della polizia mortuaria («il furgone che non ha mai fretta», nel gergo dei cronisti più scafati) - iniziava ad emergere. Ivano Iannucci, 21 anni, pure lui tossicodipendente e spacciatore, era stato accoltellato a morte il 14 dicembre 1991 nel monolocale di via Giulio Pasquati che lui e Cinzia avevano occupato abusivamente e - dopo le nozze, sogno di felicità presto dissolto - ottenuto in assegnazione dal Comune. Il palazzone di via Pasquati, al Tufello, dove abitavano Cinzia e Ivano. Ivano, bel pischello moro, di quelli che le ragazze si contendevano, non aveva ancora avuto giustizia. Indagini complicate dal clima di grande omertà. Per la Procura, comunque, era questione di ore: sospettata numero uno, la moglie. Intanto perché la coppia, specie nelle frequenti crisi d’astinenza, non faceva che urlare, litigare, picchiarsi. Poi perché lei, da qualche mese, per pagarsi la dose aveva preso a ricevere uomini in casa. E infine c’era il quadro indiziario: Cinzia dopo la morte di Ivano era sparita assieme all’auto, una Polo. E non s’era trovata neanche la presunta arma del delitto, un coltello da cucina forse impugnato durante l’ennesima lite. La foto della giovane, così, era stata trasmessa da Roma a tutti i commissariati d’Italia e ai posti di frontiera. Ma all’improvviso era stata lei, la sposa-bambina, a riapparire al Tufello. Nel modo più tragico. Spinta dal bisogno di droga, s’era forse data appuntamento col pusher? Possibile: vicino al cadavere era stata recuperata una bustina di eroina. Ma perché tanta furia? Crimine premeditato o d’impeto? E ancora: di quale colpa tanto grave poteva essersi macchiata una ragazza di borgata tutto sommato fragile e inoffensiva? «Certo, li conoscevo. Venivano a chiedermi un aiuto, un consiglio. Speravano di uscirne, ma ha vinto la droga. Pecorelle smarrite...» fu il commento sconsolato di don Donato, il parroco del quartiere. Vero. L’amore «tossico» spiega molto ma non tutto, in questa storia sbagliata, dal finale aperto. E se fosse andata diversamente? È proprio sicuro che la sequenza immaginata dagli investigatori – lei assassina e poi vittima, «giustiziata» da amici del marito – sia la più realistica? Come escludere che lei si trovò ad assistere all’omicidio e fu obbligata a sparire? Non è che qualcuno, ritenendola una testimone scomoda, decise di tapparle la bocca? Dubbi, domande, piste mai percorse: succede, nella capitale dei delitti irrisolti. Il doppio giallo del Tufello, ad ogni modo, perse presto ogni appeal. I giornali - erano i tempi dei primi arresti per lo scandalo Mani pulite - mollarono la presa. Il fascicolo finì in coda agli altri. La bella Simonetta e l’aristocratica Alberica restarono al centro dell’attenzione mediatica, mentre Ivano e Cinzia furono dimenticati, rimossi. Eppure i loro volti parlano, rimandano a colpe non loro. Basta guardare le foto: lei col broncio e un cagnetto da coccolare, lui con qualche traccia residua di acne giovanile. Poco più che bambini, incolpevoli e infelici. Protagonisti, ma soprattutto vittime, di un film terribilmente vero.
· Alfredo Rampi. L’eroe di Vermicino Angelo Licheri.
L’eroe di Vermicino Angelo Licheri: «Quando persi la manina di Alfredo Rampi». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Giusi Fasano su Corriere.it. Questa è un’anticipazione dell’incontro di Giusi Fasano con Angelo Licheri, l’uomo che provò a salvare Alfredino Rampi, il bimbo caduto in un pozzo di Vermicino 38 anni fa. Trovate l’intervista integrale su 7 in edicola (fino a giovedì prossimo) e in Pdf sulla Digital Edition del Corriere della Sera. Angelo rivede se stesso in fondo al pozzo, a testa in giù. «Il bambino era a 64 metri di profondità. Gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli, dolcemente. So che capiva tutto. Non riusciva a rispondere ma l’ho sentito rantolare e per me era quella la sua risposta. Quando smettevo di parlare rantolava più forte, come per dirmi: continua che ti sto ascoltando. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino».
Alfredo Rampi, per tutti Alfredino, aveva sei anni. Era in vacanza con i suoi genitori nella casa di Vermicino, Roma. Il pomeriggio di quel 10 giugno, alla fine di una passeggiata con il padre Ferdinando, fece uno dei suoi sorrisi irresistibili e chiese: «Papà, posso tornare per i campi da solo?». L’uomo acconsentì e lo vide allontanarsi felice verso casa. Due ore dopo lungo quello stesso percorso c’erano decine di persone a chiamare il suo nome. Alfredino era scomparso. «Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto», racconta Licheri oggi tornando a quei giorni. «Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema... L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io»..«Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento lieve . Non aveva più forze povera creatura». «Gli ho mandato un bacino e sono venuto via». Angelo è rimasto nel pozzo a testa in giù per 45 minuti, ben oltre i limiti massimi di resistenza ipotizzati. «Quando mi tirarono su mi ritrovai davanti alla mamma di Alfredino. Venne da me e mise le sue mani sulle mie guance: mi dica come sta il mio bambino, chiese. Io fui sincero: signora, è ancora vivo ma se non si fa in fretta non so quanto potrà resistere».
· Le bestie di Satana.
CHE BESTIE...LE BESTIE DI SATANA. Silvana Mossano per “la Stampa” il 14 giugno 2019. «Il Maligno l' aveva preannunciato: "Tutto finirà quando saranno trascorsi 6 anni, 6 mesi, 6 giorni"». Queste le parole pronunciate da Andrea Volpe quando, già in carcere, si era deciso a collaborare con il pubblico ministero Tiziano Masini che, allora alla procura di Busto Arsizio, indagava sulle «Bestie di Satana». Sono passati 15 anni giusti; Masini, ora ad Alessandria con il ruolo di procuratore aggiunto, ricorda nitidamente quei giorni. 666 è il «numero della Bestia». Inquietante analizzare la profezia riferita da Volpe: due giovani legati alla setta, Chiara Marino e Fabio Tollis, furono uccisi brutalmente e seppelliti in un bosco del Parco del Ticino il 17 gennaio 1998. L' arresto delle Bestie di Satana, responsabili della loro fine, è del 23 luglio 2004. Cioè: 6 anni, 6 mesi e 6 giorni dopo l' efferata mattanza.
Come erano iniziate le indagini?
«Con una telefonata, il 24 gennaio 2004, era sabato ed ero di turno. I carabinieri mi segnalarono che Andrea Volpe, un balordo che faceva uso di droghe, farfugliava parole farneticanti. Lì vicino, poi, sotto un ponticello era incastrata la Fiat Uno di Mariangela Pezzotta, una commessa di cui Volpe era stato fidanzato, e, poco lontano, un' altra auto con a bordo Elisabetta Ballarin svenuta».
Dall' ispezione delle vetture sono usciti elementi utili?
«Di sicuro inquietanti: c' erano indumenti sporchi di sangue e oggetti sconclusionati».
Fu perquisita la casa dove, in quel periodo, stavano insieme Volpe e Ballarin.
«Lo chalet del padre di lei, un giornalista scrittore che in quelle settimane era in Africa. Nella dependance occupata dalla coppia c' era una teca con un serpente boa. E un gran disordine, e medagliette con immagini luciferine, e una valigetta contenente peli e capelli. Fuori, dentro una baracca, dalla terra smossa affioravano le mani di Mariangela Pezzotta. Il viso era scarnificato per metà».
Come lo spiegarono?
«Lui raccontò che era stata una disgrazia: giocherellavano con una Smith&Wesson del padre di Mariangela ed era partito un colpo. Presi dal panico, l' avevano sotterrata».
Sì, ma il viso devastato?
«Volpe disse che erano stati due cani lupo ad addentare il cadavere, per fame».
C' era da credergli?
«Io non ci ho creduto. Tutti quegli elementi mi spingevano oltre l' ipotesi di una rapina finita male; ho cominciato a pensare a qualcosa che poteva avere a che fare con riti satanici. Ho fatto anche analizzare il serpente per appurare che non contenesse resti umani, magari parte del volto scarnificato di Mariangela. Non era così».
Inquietante; e difficile trovare un collegamento logico.
«La notizia della morte di Mariangela finì sui giornali, con le foto di Volpe e Ballarin. Si presentò in procura Michele Tollis e mi disse: "Mi figlio Fabio, insieme a Chiara Marino, sono spariti sei anni fa. Guardi: Volpe fa parte del gruppo che frequentava mio figlio"».
Le intercettazioni sono state determinanti.
«Telefoniche e ambientali. In carcere, in un colloquio con il padre, ascoltammo Volpe parlare di Nicola Sapone, uno dei capi. Acquisivamo via via nuovi tasselli, ma ci sfuggiva il quadro complessivo. Finché Volpe accolse il mio invito a collaborare; parlò nella caserma dei carabinieri di Porto Ceresio, dove lo feci portare perché non era presidiata dai giornalisti».
Come ha cominciato?
«"Io faccio parte di una setta che si chiama Bestie di Satana. Le setta mi ha detto che dovevo uccidere Mariangela Pezzotta, perché sapeva troppo". In un diario, la ragazza parlava dei riti satanici. Uno contro Stefano Longone, un tatuatore "colpevole" di aver eseguito malamente un tatuaggio; ebbene, un giorno, in bicicletta, si schiantò contro un Tir e l' autista non aveva colpa».
Volpe ha raccontato come furono fatti sparire Tollis e la Marino?
«La ragazza rappresentava l' immagine della Madonna e andava soppressa. Tollis era saccente e antipatico, meritava la stessa fine. Furono accoltellati e presi a mazzate in un bosco: una mattanza da film dell' orrore.
Lui, morente, rantolava; per farlo smettere, gli fu infilato un riccio di castagno in bocca. Poi, per scherno orinarono addosso ai cadaveri, ridevano e fumavano, buttavano sui corpi i mozziconi, prima di seppellirli in una buca scavata giorni prima. Avevano già tentato di ammazzarli due volte, con un' overdose e facendoli saltare in aria in auto».
Uno dei ragazzi di Satana, però, non si presentò .
«Andrea Bontade: ebbe paura. Per questo il gruppo lo istigò al suicidio. "O lo fai tu o lo facciamo noi". E lui andò a schiantarsi in auto contro un muro».
La svolta decisiva a giugno, quindici anni fa, come in questi giorni.
«Convocammo in caserma Pietro Guerrieri, ci arrivò con il padre. Quando uscì, in auto disse spaventato: "Papà, ma sanno tutto!". Noi ascoltavamo le loro parole».
Il quadro della setta satanica ormai era completo.
«Ero in vacanza al mare e scrivevo le richieste di custodia cautelare. I carabinieri vennero in treno a Rimini a prendere il testo per portarlo al gip che firmò l' ordinanza il 23 luglio».
Al processo, in tribunale, lei aveva un crocifisso appoggiato sulla scrivania. Masini abbozza un sorriso.
«Si avvertiva la presenza del Male. Ho fatto processi anche a criminali mafiosi, ma qui era diverso. Evitavo di incrociare i loro sguardi, avevano un' espressione davvero demoniaca».
Si può dire che la setta è stata scardinata?
«C' è un dato: tra il 2000 e il 2004, nella zona tra Somma Lombardo e Legnano, si verificarono diversi casi di suicidio di giovani. Beh, dopo gli arresti delle Bestie di Satana, il numero è decisamente calato».
· Margarete Wilfling. La bella Margarete e il killer di Ponte Matteotti.
La bella Margarete e il killer di Ponte Matteotti. Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. La sua vita era finita in un tunnel, che non era soltanto quello metaforico e fin troppo abusato della droga che ti strappa via l’anima e la dignità, rendendoti schiava di un bisogno quotidiano e rassegnata a subire qualsiasi umiliazione, 30 euro per un rapporto sessuale, in piedi contro un muro, o in macchina, e se il cliente non sta ai patti anche meno, una manciata di spiccioli. No, il tunnel nel quale era finita era reale, concreto. Lurido, puzzolente. Abitato da zombie barcollanti tra bottiglie di birra e indumenti raccattati nei cassonetti. Lei, così bella e corteggiata ai tempi del liceo, scappata da una villa traboccante di fiori, come era potuta sprofondare nell’abisso? Possibile che nessuno le avesse teso la mano? Domande tardive, purtroppo. In quel passaggio pedonale sotto ponte Matteotti - spaventoso slum nelle viscere della Roma monumentale - Margarete Wilfling, austriaca di 36 anni, fuggita da casa per ritrovare le sue radici, fu soffocata premendole qualcosa in bocca e trafitta da una decina di coltellate alla testa e al petto. Accadeva nelle prime ore del 17 marzo 2001, un venerdì di quaresima, quando l’alba non era ancora spuntata sulla Roma tirata a lucido (solo in superficie, evidentemente) per le celebrazioni appena concluse del Grande Giubileo. Margarete Wilfling, uccisa a 36 anni sotto ponte Matteotti, a Roma. La cupola di San Pietro svettava, a un chilometro in linea d’aria, e Margarete giaceva lì sotto, cinque metri più in basso del manto stradale del lungotevere, il volto insanguinato sui cartoni e rannicchiata in posizione fetale, come in un disperato tentativo di schivare i fendenti. Gli agenti della pattuglia «Aquila 404», allertati da un immigrato che era andato a mangiare sulla riva del fiume e aveva scoperto il cadavere, restarono impressionati da tanta ferocia. E nel pomeriggio anch’io ero lì, saltato giù dal «Vespone» parcheggiato sul marciapiede, blocchetto e penna bic nella tasca di dietro dei jeans, immancabilmente macchiati d’inchiostro. «Dotto’, certo che la conoscevo. Bazzicava sempre da ‘ sti pizzi...» Tossicodipendenti e alcolizzati, interrogati uno ad uno dalla polizia, riferirono quanto sapevano dell’austriaca giunta a Roma a 16 anni con un solo obiettivo: ritrovare sua mamma, che l’aveva abbandonata in fasce per andarsene in Italia. Sulle ridenti colline di Graz, dove suo padre l’aveva cresciuta, Margarete era stata felice, ma il desiderio di quell’abbraccio mancato aveva prevalso. Carmela Melara, amica del cuore della vittima, durante il processo in Corte d’assise seguito da «Un giorno in Pretura»A riconoscere il cadavere fu Carmela Melara, compagna di sbronze e dolori, che parlò con la polizia e poi, senza falsi pudori, davanti alle telecamere Rai di Un giorno in Pretura: «Eravamo amiche. Di lei ricordo le cose belle, quando annavamo al mare, o a balla’. All’inizio s’era messa con uno ricco, il barone che c’ha il castelletto a Ponte Milvio, e faceva una vita agiata...» Poi lui l’aveva lasciata, Margarete s’era ritrovata per strada e il piano aveva iniziato a inclinarsi: il vizio del bere («le piaceva la Sambuca»), un senso di vuoto che le scavava dentro, uomini sbagliati. Sintetizzò Carmela: «Un giorno un’amica le disse “Vieni! Ti faccio conoscere una cosa bella”. E questa cosa bella l’ha portata alla perdizione...» Giovanni Leone, accusato dell’omicidio di Margarete Wilfling Il primo buco di eroina. I denti marci. Le crisi d’astinenza. Le «marchette» per pagarsi la dose. E l’incontro - eccolo, lo snodo nell’indagine - con un personaggio non meno sbandato di lei, per quanto il nome richiami una personalità importante, finita nei libri di storia: tal Giovanni Leone, 56 anni, pugliese, parcheggiatore abusivo da anni accampato nella sua Fiat Uno verde parcheggiata vicino al cimitero Verano, nonché - con gran sprezzo del pericolo - assiduo frequentatore di giovani donne dannate, eroinomani e malate di Aids. Il sospettato ideale: intanto perché dopo il delitto era andato a Ginosa, in provincia di Taranto (e sua madre si precipitò a far sparire un «camicione bianco», come emergerà dalle intercettazioni), e poi perché su una sua giacca furono trovate macchie di sangue della vittima. «Sono innocente, signor giudice, lo giuro! - esclamerà piangendo al processo - Stavamo insieme da tre anni, le volevo bene. Facevamo l’amore, la pagavo, la rispettavo. Una settimana prima però litigammo, perché non le diedi i soldi per la droga. E le mollai uno schiaffo spaccandole un labbro, tutto qua». L’uomo fu arrestato, ma restavano in piedi altre ipotesi. Margarete, anima persa, aveva una relazione pure con un certo Franco, tassista romano che l’aveva buttata fuori di casa, e con un losco figuro... «L’ultima volta l’abbiamo vista con Alfred 3 lacrime», raccontarono gli habitués di ponte Matteotti. Soprannome meno delicato di quanto appaia, attenzione...Stefano Valenza, avvocato difensore di Giovanni Leone. La giustizia, comunque, scelse la strada già battuta. Clara De Cecilia, pm fresco di nomina, chiese di processare l’uomo dal nome che sembrava una burla. Azzardo avallato dal gip: di prove vere non ve n’erano. Tal Fernanda, l’immancabile trans brasiliano sulla scena delle notti hot romane, fu convocata in Corte d’assise per confermare di aver visto Giovanni Leone dalle parti di ponte Matteotti, il giorno dopo l’omicidio, mentre chiedeva di Margarete. «È una prova! Lui la cercava sopra, in piazza delle Cinque Giornate, con tono preoccupato, ma nel tunnel non ci andò perché sapeva bene che era morta!» «La domanda che il pm dovrebbe porsi è un’altra: se Leone l’ha uccisa che ci va a fare a cercarla là sotto?» ebbe gioco facile nel replicare Stefano Valenza, l’avvocato difensore. Il dibattimento, al di là dell’esito scontato («Assolto per non aver commesso il fatto», scandì il 7 marzo 2003, quasi infastidito dal tanto tempo perso, il giudice Francesco Amato), un merito tuttavia l’ha avuto: riportare in primo piano il dramma sempre attuale dell’eroina. Ma sono anche le domande rimaste in sospeso a suscitare tuttora inquietudine. Chi era «Alfred 3 lacrime»? Perché lo chiamavano così? Che fine ha fatto? Il soggetto, un pregiudicato dalla fama sinistra, le lacrime se l’era fatte tatuare sotto un occhio, come fossero vere... «Ognuna significa cinque anni di galera», si vantava in giro. Aveva già scontato 15 anni, dunque: pena da omicidio, considerate le attenuanti che non si negano a nessuno. Non è che quello di Margarete fu il suo secondo efferato crimine? «Duole dirlo, ma le ricerche di questo personaggio furono affidate alla polizia municipale», sottolineò il legale del parcheggiatore. Tre tatuaggi su una guancia. La banca dati delle foto segnaletiche. I tanti detenuti o secondini che di certo, almeno una volta, lo hanno incrociato. Non dovrebbe essere difficile rintracciarlo, l’ex galeotto di ponte Matteotti. La bella e sfortunata Margarete avrà mai giustizia?
· Massimo Galioto, Beau Solomon e la Giustizia sott’acqua.
LA GIUSTIZIA SOTT'ACQUA. Michela Allegri e Adelaide Pierucci per ''Il Messaggero'' il 22 giugno 2019. Quelle quattro ore di camera di consiglio sono state le più lunghe della sua vita. Sulle spalle del clochard romano Massimo Galioto pesava una richiesta di condanna all'ergastolo, con l'accusa più pesante di tutte: omicidio. Per i pm, avrebbe ucciso lo studente americano Beau Solomon, spingendolo nel Tevere da una banchina vicina all'Isola Tiberina. Era il luglio di tre anni fa. Una ricostruzione, quella dei pm Nadia Plastina e Gennaro Varone, che non è stata accolta dai giudici della III Corte d'assise di Roma: Galioto è stato assolto per non avere commesso il fatto. Non è stato lui a uccidere Solomon, diciannovenne, che studiava alla John Cabot University e che era appena arrivato nella Capitale. «Sono emozionato. Festeggerò insieme al mio cane. Il mio avvocato ha fatto un gran lavoro», ha detto Galioto, 44 anni, metà vita trascorsa da punkabbestia dormendo sotto ai ponti. Dopo avere passato cinque mesi in carcere, racconta che delle sue giornate non cambierebbe nulla. «Sono un punkabbestia e resterò tale. Farò la mia solita vita», ha detto ieri in aula, a pochi minuti di distanza dall'assoluzione. Dopo la sentenza non ha esultato e non ha sparso veleni: «Rancori? Nessuno. Nemmeno contro il colpevole, contro chi ha dato davvero la spinta a Salomon, a quel ragazzo americano. Non so chi sia stato. Non ho visto la scena. Prima o poi avrà rimorso, se ha un po' di coscienza». Figlio di commercianti, Galioto, capelli rasta e anfibi ai piedi, ha un motto: «Sotto padrone mai e neanche sotto un tetto». Per un periodo si era improvvisato designer di papillon ricavati dalle camere d'aria delle biciclette. «Non volevo finire impiegato, o sottopagato, o sfruttato», ricorda. Una vita trascorsa in solitudine: «La mia famiglia? Non ce l'ho. Ho il mio cane». Nemmeno una parola sulla ex compagna, Alessia Pennacchioli, la sua principale accusatrice. Era stata lei a raccontare agli inquirenti di avere visto Galioto spingere il ragazzo nel Tevere.
Quella notte di tre anni fa il clochard stava dormendo insieme alla fidanzata e ad altri punkabbestia nella banchina sotto ponte Garibaldi. Per l'accusa, avrebbe avuto un violento litigio con Solomon, che era ubriaco. Gli avrebbe dato due calci e poi lo avrebbe spinto nel fiume. Poco prima avrebbe anche gridato: «Ti ammazzo». Una frase sentita da un testimone. Il clochard era stato arrestato il 7 luglio del 2016. A incastrarlo, per l'accusa, i filmati delle telecamere di sorveglianza puntate sul lungotevere e le dichiarazioni della Pennacchioli, che aveva raccontato ai pm di avere visto il compagno discutere con il giovane, colpirlo con un calcio, lanciargli un sampietrino e farlo cadere in acqua. Contestazioni che il senzatetto ha sempre respinto con forza. Dopo cinque mesi, il gip aveva disposto la scarcerazione: le dichiarazioni della donna erano state giudicate «non sempre coerenti» e a tratti «lacunose». La Pennacchioli, affetta da forte miopia, «è solita indossare a correzione degli occhiali rotti», aveva anche sottolineato il gip. Una situazione che poteva averla portata a non avere percepito, «in condizioni di scarsa illuminazione e a diversi metri di distanza», e per giunta interrompendo «un breve sonno indotto dall'assunzione di psicofarmaci», la presenza di «più attori» sulla scena. Anche i fotogrammi del filmato agli atti dell'inchiesta non sono bastati per condannare Galioto: le immagini sono molto sfocate ed è impossibile riconoscere il viso della persona che ha spinto nel fiume ragazzo. Soddisfatto per la sentenza, il difensore del senzatetto, l'avvocato Michele Vincelli: «Erano tutti colpevolisti. Volevano un capro espiatorio - ha commentato - Quel video era solo la prova che Salomon era stato spintonato, non che l'avesse spinto Galioto».
· Virginia Mihai. Uccisa da marito Valerio Sperotto e data in pasto ai maiali.
UCCISA DAL MARITO E IL CORPO DATO IN PASTO AI MAIALI. Danilo Guerretta per ''La Stampa'' il 22 giugno 2019. Uccisa dal marito e il corpo dato in pasto ai maiali nel porcile della sua azienda agricola a Velo d’Astico, piccolo comune del Vicentino. Un giallo risolto dalla procura berica dopo vent’anni, grazie al ritrovamento di un frammento di unghia di due centimetri. Gli investigatori, dopo mesi di analisi e test del dna sono certi: appartiene a Virginia Mihai, moglie di Valerio Sperotto, allevatore di maiali morto nel 2011 a 64 anni. La donna era svanita nel nulla il 22 aprile del 1999, giorno in cui la sua auto fu trovata abbandonata in una strada alle porte di Vicenza. «Avevamo litigato, lei mi ha lasciato a piedi per strada e poi non l’ho più vista», aveva detto l’uomo durante uno dei tanti interrogatori. Per quella scomparsa Sperotto fu indagato per omicidio volontario ma il fascicolo venne archiviato. A riaprire il caso è stata la segnalazione di un impresario edile interessato all’acquisto dell’ex allevamento: l’uomo nel 2017 si è presentato ai carabinieri raccontando di aver trovato alcune ossa durante un sopralluogo nella porcilaia e di averle successivamente sepolte per paura. Dichiarazioni che hanno spinto la procura di Vicenza ad aprire un nuovo fascicolo e far ripartire le indagini. Il sostituto procuratore Hans Roderich Blattner ordina di scavare e setacciare l’area e si affida agli esperti del Labanof, il laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università di Milano. Gli archeologi forensi non trovano le ossa ma un frammento di unghia in mezzo alla terra, nel canale di scolo dei liquami che divide due recinti. Nonostante il tempo trascorso, i carabinieri del Ris riescono a estrapolare il dna e compararlo con quello presente in uno spazzolino da denti appartenuto alla donna. Ci vogliono mesi di analisi in laboratorio per eseguire tutti gli accertamenti ma alla fine non ci sono dubbi: «La corrispondenza è del cento per cento positiva, si tratta dell’unghia dell’alluce di Virginia Mihai». Le unghie, assieme ai capelli e ai denti sono le uniche parti del corpo umano che i maiali non digeriscono e questo avvalora la tesi agghiacciante che la donna sia stata uccisa e gettata in pasto ai maiali. L’allevatore per permettere ai maiali di far sparire ogni traccia del corpo aveva atteso tre giorni prima di andare dai carabinieri per la denuncia di scomparsa della moglie e nel giro di poco tempo aveva venduto tutti i suoi animali. La svolta del “cold case” apre nuovi scenari anche sulla scomparsa di un’altra donna, Elena Zecchinato la prima moglie di Valerio Sperotto. Di lei si sono perse le tracce a gennaio del 1988, quando era uscita per una passeggiata nei boschi attorno alla sua casa. Un caso archiviato in pochi mesi sotto la voce «allontanamento volontario». Una delle ipotesi era quella che la donna, nonostante le due figlie piccole fosse tornata in Francia, il suo paese di origine. Alla luce della nuova verità i carabinieri sono tornati a sigillare l’ex allevamento dove è stata ritrovata l’unghia, gli scavi degli esperti riprenderanno a luglio e la zona delle ricerche verrà ampliata: saranno setacciate tutte le tubature e le vasche che raccoglievano i liquami (in stato di abbandono da anni). L’obiettivo degli antropologi forensi e del Ris è recuperare altri resti umani nascosti nell’ allevamento degli orrori. L’inchiesta della procura va avanti nonostante la morte del principale indagato perchè secondo i magistrati potrebbero esserci dei complici, persone ancora in vita che hanno aiutato Valerio Sperotto a far sparire le due donne e a nascondere una verità affiorata dopo più di due decenni.
Benedetta Centin per il ''Corriere del Veneto'' il 22 giugno 2019. Via vai di auto che rallentano e si fermano davanti all’area recintata dal cordone bianco e rosso dei carabinieri. Residenti che giurano di essere capitati solo per una semplice passeggiata per quella stradina sterrata che apre su una distesa di campi, quando però da poche battute fanno intendere che sanno bene che lì si cerca uno scheletro. Ed episodi ripescati dalla memoria che tornano attuali e quasi ingombranti tra le chiacchiere da bar e che mischiati alla realtà trascendono in dicerie. «I Ris che scavano hanno già portato via due sacchi pieni di ossa: questa è la volta buona, trovano il corpo di almeno una delle due povere mogli di Valerio. Perché ce le ha messe lui lì sotto». Peccato non ci siano Ris al lavoro ma archeologi forensi. E nemmeno sacchi di ossa, solo alcune ossa animali.
Il paese. Sembra che Velo d’Astico, piccolo paese dell’Alto Vicentino, non aspettasse altro che si tornasse ad indagare sul duplice caso irrisolto. Quello delle due mogli dell’allevatore di maiali Valerio Sperotto, inghiottite nel nulla a distanza di undici anni una dall’altra: Elena Zecchinato, conosciuta come Ivette, sparita nel 1988, e Virginia Mihai nel 1999. Sull’uomo, deceduto nel 2011, la procura aveva acceso i riflettori per due volte a distanza di tempo ma non c’erano prove concrete a suo carico ed era stato scagionato.
Il caso riaperto. Ora, dopo quasi 15 anni, il sostituto procuratore Hans Roderich Blattner ha riaperto il caso: sulla sua scrivania c’è un fascicolo per occultamento di cadavere. Quello che un residente avrebbe detto di aver visto scavando tra i due capannoni dove fino a dieci anni fa Sperotto allevava maiali. Lui è l’uomo che ha firmato un preliminare di vendita per il terreno con vista sull’Altopiano. Terreno che voleva usare per allevarci capre. «Avevo rimosso la griglia dello scolo dei liquami quando, scavando con l’escavatore, è emerso quello scheletro - ha raccontato l’uomo ai carabinieri - : ho distinto un teschio, la cassa toracica e le ossa delle gambe, ma, preso dal panico ho interrato nuovamente tutto». Era marzo, ma il residente ha atteso ottobre per rivolgersi ai militari. «Ho avuto paura, non sapevo che fare, per questo ho tergiversato» avrebbe spiegato. Una versione ritenuta attendibile, ma se così non fosse l’uomo rischia di trovarsi indagato per simulazione di reato.
L’intervento dell’archeologo forense. Dopo venti giorni circa di scavi quello scheletro non è emerso: l’archeologo forense Dominic Salsarosa (quello del caso Yara Gambirasio) con i suoi collaboratori ha già passato scrupolosamente al setaccio trecento metri quadri, quasi l’intera area, ma potrebbe estendere la zona di ricerca se necessario. Vicino ai capannoni i mucchi sono distinti: blocchi di cemento frantumati, zolle grandi e umide, terreno asciutto probabilmente già «ripulito» di quei frammenti ossei ancora dubbi che verranno analizzati al Laboratorio di antropologia e odontologia forense di Milano.
I pareri. «Valerio sarebbe stato un demente a nascondere un corpo qui, sapeva che sarebbe stato il primo posto dove gli investigatori avrebbero cercato. Non troveranno nulla» sbotta un parente che vuole rimanere anonimo mentre guarda le strutture fatiscenti cinturate. «Sperotto si è portato i suoi segreti nella tomba - dice sottovoce un residente, quasi timoroso- , non parlava mai della sparizione delle mogli e nessuno di noi lo ha mai interrogato».
Gli amici. Al centro ricreativo dei pensionati, dove l’allevatore passava il tempo tra una partita a carte, le bocce e un «cochino», un piccolo bicchiere di Cola, c’è chi racconta col cuore in gola di aver tentato fino alla fine di farlo confessare. «Erano le ultime settimane di vita di Valerio, prima che il tumore se lo portasse via - riferisce un anziano con gli occhi lucidi - : sono stato lì lì diverse volte per chiedergli “dimmi dove posso portare un fiore alla povera Ivette, dimmelo ti prego”, ma non ci sono mai riuscito, così lo avrei costretto ad ammettere». Eppure ci sono anche voci fuori dal coro: chi è convinto dell’innocenza di Sperotto. «Non l’ho mai visto agitato o preoccupato, nemmeno quando era indagato per omicidio - racconta chi lo conosce - : sempre divertente, con la battuta pronta, sereno come se le sue mogli fossero andate in vacanza». Una vacanza lunga una vita. Senza ritorno.
· Vera Heinzl e Sandra Honicke, gialli fotocopia.
Vera e Sandra, gialli fotocopia. La sbornia, i baci, il volo fatale. Pubblicato lunedì, 15 luglio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Vera e Sandra quand’erano scese dalla scaletta dell’aereo erano felici perché il cielo non era grigio come in Germania, e passeggiare tra i monumenti era stimolante, istruttivo, e non si mangiavano würstel e crauti ma strepitose pizze capricciose, e in giro c’erano tanti giovanotti carini, con le magliette senza maniche, occhi scuri e bicipiti scolpiti... Si aspettavano giorni allegri e spensierati, le due ragazze venute dal Nord, la mattina al lavoro e la sera a zonzo nella Roma by night, e se poi si faceva amicizia e ci scappava anche un bacio o una promessa bugiarda che sarà mai, la gioventù è un attimo, guai lasciarsela sfuggire... E invece. Dall’istante in cui persero il contatto con la realtà e la testa iniziò a girare a causa dei troppi drink - una in discoteca, l’altra in un grande albergo - la serata si colorò delle tinte più tragiche. Storie simili, a tre anni di distanza, come in un macabro e beffardo replay. La ventenne Vera Heinzl, abitante in una cittadina della Foresta Nera, il 24 agosto 2004 fu ripescata nel Tevere, all’altezza di ponte Marconi, il corpo mangiucchiato dai topi, la maglietta a fiori quasi irriconoscibile e i pantaloncini bianchi attillati ridotti a brandelli. Sandra Honicke, 33 anni, giunta da Monaco di Baviera, nel pomeriggio del 26 ottobre 2007 fu trovata a faccia in giù nel cortile dell’hotel Ergife, una povera marionetta rotta, braccia e gambe aperte in una posizione innaturale.
Vera Heinzl, trovata annegata nel Tevere nell’agosto 2004, dopo una notte di movida romanaI due gialli turbarono non poco l’opinione pubblica, perché chi ha figli a spasso fino a tarsi nei locali della movida romana - spesso violenta, fuori controllo - sa bene cosa vuol dire non riuscire a prender sonno. Ma colpirono anche le impressionanti analogie. Le vittime, innanzitutto: dello stesso Paese, ragazze di buona famiglia, serie, sognatrici e persino somiglianti, in foto, nonostante i 13 anni di differenza: bionde, occhi castani, sorriso sincero. Vera fino a giugno aveva lavorato come babysitter nella famiglia di un professore di Tor Vergata, poi era rincasata per stare un po’ con i suoi ma a Roma aveva deciso di tornarci subito, con un’amica, la stessa estate. Non aveva resistito al fascino della città più citata nei suoi manuali del liceo classico. E in valigia aveva infilato i romanzi di Hemingway e Günter Grass: voleva vivere, conoscere, scoprire. Sandra faceva la guida turistica, figuriamoci: la curiosità era il suo modo di stare al mondo. Aveva in carico una comitiva di connazionali da guidare tra le meraviglie di Roma e li aveva già conquistati. «Simpatica, dolce, carina», disse di lei il signor Rudolph, sessantenne in viaggio con la moglie, quasi in lacrime. Attenzione alla duplice sequenza, dunque...
19 agosto 2004, un giovedì: Vera e l’amica Teresa, ospiti del convitto delle suore tedesche di Santa Maria dell’Anima, passeggiano in centro. La brezza notturna e l’atmosfera estiva rendono la serata eccitante. Sulla scalinata di piazza di Spagna è tutto un vociare di ragazzi, risate, cori, bottiglie di birra che tintinnano nel gesto del cin-cin. Vera nota un giovanotto, ne resta colpita. Figuriamoci lui. Si chiama Nabil, è marocchino, a spasso con amici in cerca di avventure. Con l’inglese se la cavano, decidono di passare qualche ora assieme. I ragazzi fanno i galanti, le invitano in un locale. Il gruppo finisce così al «Mad Night» di via del Plebiscito, «notte matta», appunto, in cui ballare, innamorarsi, continuare a bere... «Me ne vado, sono stanca», le dice Teresa, verso l’una. «No, io resto, mi sto divertendo», risponde Vera. Saranno le ultime parole prima del buio...
25 ottobre 2007, di nuovo giovedì: Sandra sta cenando con i suoi turisti nella sala «Quattro stagioni» dell’Ergife. È euforica, su di giri. Il giorno prima, all’arrivo, ha incrociato nella hall Samir, un bel giovane tunisino, facchino dell’hotel, e il gioco di sguardi non l’ha lasciata indifferente. Beve vino, alza la voce, la sentono fantasticare di «principi e regine». Tanto più che lui continua a ronzarle attorno. Già ci sono state effusioni, nel gruppo se ne sono accorti, e adesso Sandra e Samir non sono più nel ristorante. Devono essersi appartati sul retro, dove il terrazzino s’affaccia sul cortile, da 6-7 metri d’altezza. Succede qualcosa, però. Forse lui esagera, prova ad abbracciarla e lei si sottrae. «Falso. L’ho solo vista da lontano che fumava una sigaretta affacciata alla balaustra», sarà la sua autodifesa davanti al magistrato...
Vera, Sandra. Inghiottite e perdute dentro due notti sbagliate. Prima il corteggiamento, il gioco della seduzione, la sbornia; poi le avances sessuali, le difese abbassate; infine il volo mortale, una nel Tevere, l’altra da un secondo piano. Incidente, omicidio? Qualcuno le spinse? Partirono due inchieste fotocopia, complicate dai buchi nella ricostruzione. Entrambi i maghrebini si ritrovarono accusati dello stesso reato: morte come conseguenza di altro delitto. Cessione di droga il primo, violenza sessuale il secondo. Nabil Benyhaya, 21 anni, inizialmente accusato dell’omicidio di Vera Heinzl, fu poi condannato per omissione di soccorsoLa foto di Nabil finì ai giornali, per quanto lui continuasse a dirsi innocente («Ho salutato Vera alle 4 di notte, non so com’è finita nel fiume»), e in un crescendo di attenzione mediatica gli si contestò anche l’omicidio volontario, pur non essendovi prova che fossero insieme. A Samir, gran lavoratore, sposato e senza precedenti, venne riservato un trattamento più soft. Il cognome non fu diffuso e le dichiarazioni della moglie, dalla loro casa di Torvajanica («Mio marito non corre dietro le donne!»), dovettero far breccia. Fatto è che, in questo doppio giallo a cadenza differita, fu proprio il facchino a cavarsela (prosciolto a fine istruttoria), mentre il «rimorchione» Nabil, nel 2006, fu condannato sì, ma solo per omissione di soccorso, in un quadro accusatorio debole. Vera, Sandra, i loro sogni spezzati e la loro fine in circostanze misteriose. Non s’erano mai conosciute. Il destino le ha tragicamente accomunate per sempre, in fondo a una notte inquieta e pazzerella sotto le stelle di Roma.
· Giuseppina Morelli. Quel piede nel prato degli orrori.
Giuseppina Morelli. Quel piede nel prato degli orrori. Storia di Pina e di un professore gentile. Pubblicato domenica, 23 giugno 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it
Quel pomeriggio di metà settembre di tanti anni fa in cui un piede scarnificato fu trovato da due bambini in un prato di periferia, all’angolo tra via Collatina e viale Palmiro Togliatti, gli agenti accorsi sul posto, pur abituati alle scene criminis più spaventose e sanguinolente, faticarono a prendere atto dell’accaduto. «Potrebbe essere stata una sbadataggine. Magari il reperto è scivolato dal contenitore asettico di un ospedale, o di una clinica, dopo un’amputazione». Già, forse durante il trasporto all’inceneritore. Attenzione, però... Sentendo gli abitanti, la polizia venne a sapere che di notte la zona era frequentata da prostitute e che c’erano state delle liti. «Dotto’, non è che quel coso era di una poveretta fatta a pezzi?» Mistero. In assenza di riscontri, il piede del Collatino - piccolo, una 37 o giù di lì, quindi di donna - finì relegato in un trafiletto in cronaca, anche perché altre notizie in quei giorni avevano il sopravvento: l’omicidio di due parà a Mogadiscio, la morte del mitico colonnello Bernacca, la cattura di Angelo Izzo, uno dei massacratori del Circeo, evaso in agosto... Ma una settimana più tardi, a partire dal 22 settembre 1993, quando l’operaio di un cantiere edile si trovò sotto gli occhi il secondo pezzo del puzzle, vale a dire una mandibola quasi integra, il «giallo del piede» deflagrò sui giornali e anche nei tg, altroché. La mandibola recuperata dopo il ritrovamento del piede. Dagli esami medico-legali giunse la conferma: i resti erano di Pina Morelli, scomparsa due mesi prima.
Nome: Giuseppina, detta Pina. Cognome: Morelli. Età: 27 anni. Schedata come tossicodipendente. Residente nelle case popolari di Tor Bella Monaca, in via Labruzzi 12, assieme al padre camionista, alla madre addetta alle pulizie e alla sorella. Per arrivare a lei la polizia organizzò una caccia al tesoro lugubre e senza precedenti, che una foto scattata da Mario Proto, compagno di tante avventure sui luoghi del delitto, documenta con efficacia: 6-7 agenti, alcuni con la tuta bianca della Scientifica, passeggiano con gli occhi fissi al terreno, pronti a chinarsi per raccogliere un femore, un dente, una falange. Pina fu identificata così: sul tavolo dell’Istituto di medicina legale, dopo il piede, finirono la mandibola con relativa mascella, alcune costole, due tibie, una parte di bacino e altri monconi, in tutto una ventina di reperti recuperati nel raggio di mezzo chilometro quadrato, dove alla fine era saltata fuori anche una borsa contenente una siringa e una carta d’identità sbiadita, la sua. «Abbiamo il nome, forza! Qualcuno, con delicatezza, vada a parlare con i genitori», si raccomandò il funzionario di polizia ripreso nella foto. L’indagine poteva partire. Pina Morelli, ragazza dolce e ingenua, brava alle scuole elementari e «ancora spaventata dal buio», come raccontò mamma Angela nei giorni seguenti, ricevendo noi cronisti nel piccolo appartamento all’ultimo piano con vista sul raccordo anulare, era diventata tossicomane quattro anni prima, quando faceva la commessa in un negozio di abbigliamento a largo Preneste, dopo essersi innamorata del giovane sbagliato, Marco, eroinomane e spacciatore, che il 25 luglio, al momento della scomparsa, era in carcere e quindi con il delitto non c’entrava, se delitto era stato.
Una discesa inarrestabile, quella di Pina: le liti in famiglia, le crisi d’astinenza, i ricatti dei pusher, la ricerca disperata di soldi, fino a prostituirsi per 20 mila lire a cliente per pagarsi le dosi. Rodolfo Ronconi, l’allora capo della Squadra mobile, svolse molti sopralluoghi nel prato degli orrori: le ossa sparpagliate avevano il sapore di una macabra sfida. «Sarà morta per overdose e poi i cani randagi hanno fatto scempio del corpo», fu la prima ipotesi. Più elementi, però, andavano in direzione diversa, a cominciare dal fatto che la sera prima di sparire Pina era stata picchiata da altre ragazze della Palmiro Togliatti, per questioni di concorrenza, della posizione da occupare sui marciapiedi. Sulle ossa analizzate, inoltre, non c’erano tracce evidenti di morsicature, così come gli abiti recuperati (una giacca arancione, un top beige) erano intatti, non strappati, il che portava a escludere il decesso con una siringa nel braccio e il successivo attacco di animali selvatici. Pina era stata dunque spogliata e poi uccisa? Vittima di un maniaco? E con quali armi? Forse una roncola?
La polizia, nel passare al setaccio amici e conoscenti, scoprì qualcosa di sorprendente: la persona a lei più vicina non era il fidanzato, ma un docente di elettrochimica della «Sapienza», Alberto Capalbi. Tre anni prima, rincasando, mentre era al volante, fermo a un semaforo, Pina gli aveva chiesto un passaggio e lui, con gesto paterno, l’aveva fatta salire. «Quella ragazza era un angelo ferito - raccontò il professore universitario - e io non ero il suo amante, ma una persona che le voleva bene. Mia moglie e le mie figlie sapevano che volevo aiutarla. Pina era sensibile, delicata. Faceva i suoi sforzi per uscire dalla tossicodipendenza, tante volte aveva provato col metadone, ma poi ci ricascava. E io lì a spronarla, a darle fiducia». Guerra persa, quella contro l’eroina, ma scandita da momenti di grande tenerezza. «Spesso facevamo colazione al bar dell’università, poi io andavo a lezione e lei mi aspettava in macchina. Fumava tanto, ma era meglio che drogarsi...» Altra scena commovente: lui che si presenta a Tor Bella Monaca, imbarazzato, sull’uscio di casa Morelli, con un pacco tra le mani. «Pina aveva un diploma da stenodattilografa. Pensai che buttare giù i suoi pensieri potesse farle bene, aiutarla a razionalizzare. Così le regalai una macchina da scrivere...» Tutto inutile. Quella notte di fine luglio la sfortunata giovane andò incontro al suo atroce destino e al professore restò la sua vita precedente, con tanta nostalgia e una pena infinita nel cuore.
Ci torno, a Tor Bella Monaca. Un quarto di secolo dopo, fa impressione constatare come il palazzo-alveare di via Labruzzi sia nello stesso degrado. Le sentinelle della droga - brutti ceffi pronti a dare l’allarme all’arrivo degli sbirri, per coprire il traffico continuo di eroina, cocaina, pastiglie - sono appostate agli angoli dell’edificio, con le mani in saccoccia. «Voi sapè ‘ndo abitava quella fatta a pezzi? Ultimo portone a destra. I genitori so’ morti, ma c’è ancora la sorella», dice un tipo in motorino. Pina è entrata nella leggenda nera del quartiere, deduco. Il parco con il campo di calcio sul retro è uno schifo: erba alta un metro, preservativi, panchine divelte. Al citofono protetto da una grata di ferro («altrimenti i rumeni li smontano e se li rivendono», spiega una signora) la sorella non risponde. Insisto: dev’essere al lavoro. Decido di lasciarla in pace. Ci ha pensato lo scorrere del tempo, a risolvere il caso, consegnandolo all’oblio. Le indagini in quel lontano 1993 non portarono da nessuna parte e Pina è finita lì, nell’elenco dei delitti irrisolti della Roma più truce e violenta.
· Umberto Ranieri ucciso per un rimprovero.
Pittore ucciso con un pugno per il rimprovero ai ragazzi: arrestato 18enne. Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 da Corriere.it. Hanno analizzato i filmati di oltre 30 telecamere e 70.000 messaggi e telefonate fra gruppi di ragazzi che si tenevano in contatto sui social network. Così i carabinieri della compagnia Casilina sono riusciti a risolvere il giallo della morte del pittore Umberto Ranieri, ucciso dopo essere stato preso pugni a largo Preneste la sera del 17 marzo scorso. I carabinieri hanno arrestato un tunisino di 18 anni, da poco anche con la cittadinanza italiana, identificando anche la fidanzata kosovara e un amico romeno che quella sera si trovavano seduti su una panchina quando furono rimproverati dal pittore, che abitava nelle vicinanze, perché avevano gettato a terra una bustina di semi di girasole che stavano mangiando. I carabinieri sono riusciti a identificare i tre dopo un lungo lavoro di ricerca sulla base non solo delle testimonianze raccolte sul posto ma anche delle immagini delle telecamere che si trovano in tutta la zona di largo Preneste. Il pittore era deceduto all’ospedale San Giovanni dopo alcuni giorni di agonia.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 27 giugno 2019. Le bucce dei semi di girasole gettate in terra a Largo Preneste. E poi un ammonimento: «A casa vostra voi fareste così?». È bastata questa frase, pronunciata dal pittore Umberto Ranieri, in arte Nniet Brovdi, per scatenare la furia di un 18enne di origine tunisina, appena diventato cittadino italiano. Un pugno in faccia che ha ferito mortalmente Ranieri. Con l'accusa di omicidio preterintenzionale, aggravato dai futili motivi, Jelassi Mohamed Aziz è stato fermato ieri dai carabinieri della compagnia Casilina. Un'indagine minuziosa - coordinata dal maggiore Nunzio Carbone - ha permesso di incastrare il ragazzo che, il 17 marzo, ha aggredito Ranieri. L'inchiesta parte proprio dai bruscolini: l'unico negoziante che, nella zona, vende i semi è il primo tassello che permette di ricostruire la storia. Due ragazze - amiche di Aziz presenti con lui quel giorno - comprano da lui il sacchettino. I video del negozio immortalano la scena. Dopodiché gli investigatori acquisiscono varie telecamere attorno a Largo Preneste, comprese quelle di alcuni autobus. Ed è dagli impianti montati sui bus che, per la prima volta, compare il ragazzo. «Dalle immagini si nota quanto sia nervoso», spiega un investigatore. Il 18enne, assieme alle amiche, sta scappando. Ha appena sferrato il pugno a Ranieri. I video, da soli, non sono però sufficienti per scoprire l'identità dei tre. Gli inquirenti perciò passano al vaglio le 70 mila utenze agganciate, il 17 marzo al momento dell'aggressione, alla cella telefonica di zona. Gli inquirenti selezionano in base all'età, i titolari delle schede telefoniche. Poi confrontano il tutto ricercando i nomi anche sui social network. Per il resto gli investigatori, una volta individuati i presunti responsabili, adottano un metodo tradizionale. Le intercettazioni. I ragazzi parlano, «speriamo non ci scoprano», dicono tra di loro senza fare riferimenti espliciti. Infine il tranello: la fidanzata di Aziz è convocata dagli inquirenti. Lei spaventata chiama il 18enne che ha il cellulare controllato: «Se mi chiedono quello che è successo, parlo». Di fatto, oltre alla prova già acquisita, la giovane racconta tutto. In questo modo Aziz, ieri, viene fermato. Il ragazzo ai militari ha poi consegnato una tuta, molto appariscente, che indossava il giorno dell'aggressione. Aveva chiesto ad un amico di custodirla, nella speranza di farla franca e poterla indossare in futuro.
· Paolo Adinolfi, la fine di un giudice scomodo.
Paolo Adinolfi, la fine di un giudice scomodo. Pubblicato lunedì, 01 luglio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Gli tocca fermarsi per strada e rispondere ai tanti che lo apostrofano in modo cordiale, con una battuta o una pacca sulle spalle, scambiandolo per un popolare conduttore de «La 7» al quale somiglia moltissimo, quando lui per indole, educazione familiare e dolorose esperienze di vita ha un carattere riservato, propenso al basso profilo. Però alla fine ha imparato a sorriderne, seppure con amarezza: «Avrei preferito essere riconosciuto come il figlio di un magistrato integerrimo, rigoroso e sottoposto soltanto alla legge, caduto durante il servizio...» E invece? «Invece sono costretto a prendere atto che in un quarto di secolo né il Csm né l’Anm, l’associazione nazionale magistrati, hanno mai speso una parola per papà. Nessuno ha preso posizione a favore di un giudice che ha svolto fino in fondo il suo mestiere, senza scendere a compromessi, battendosi contro malaffare e collusioni, anche tra i suoi colleghi. Una pulizia morale pagata con la vita». Le parole sono pietre. Lorenzo Adinolfi, avvocato quarantenne, figlio del giudice Paolo Adinolfi, alla vigilia della ricorrenza numero 25 del giorno più mesto dell’anno ha deciso di dirle con franchezza: il reiterato “no” degli organi della magistratura a onorare suo padre, che perse quand’era in terzo liceo, gli brucia e lo vuole gridare forte e chiaro. Uno dei gialli più inquietanti lasciati in eredità dal secolo scorso, così, esce dalla condizione di cold case, «caso freddo», inchiesta messa in freezer, dove l’avevano ibernata le archiviazioni del 1996 e del 2003, e diventa materia di sdegno civile. Paolo Adinolfi sparì a Roma a 52 anni il 2 luglio 1994, esattamente un quarto di secolo fa. Era un sabato e aveva da fare alcune commissioni. Da un mese prestava servizio alla Corte d’appello, dopo aver lavorato 10 anni alla Sezione fallimentare, dove si era occupato di procedimenti importanti. Quella mattina il giudice uscì poco prima delle 9 dall’appartamento in zona Farnesina, diretto, sulla sua «Bmw 316», in viale Giulio Cesare e piazzale Clodio. Pareva tranquillo: un bacio alla moglie Nicoletta e la promessa di tornare per pranzo. Di certo passò all’ufficio postale del tribunale, per pagare alcune bollette, alla banca interna (all’epoca aperta di sabato) per trasferire un conto corrente, e ancora - prima stranezza - in archivio per ritirare una sentenza, dove uno dei bibliotecari notò che era accompagnato da «un giovane di 30-35 anni». Chi era questo misterioso personaggio? In tarda mattinata, Adinolfi raggiunse il Villaggio Olimpico dove, in un secondo ufficio postale (in via Nedo Nadi), spedì un vaglia di 500 mila lire alla moglie. Gesto inspiegabile. Specie se collegato con un altro mistero: nella buca delle lettere dell’anziana madre, in via Scipio Slataper, ai Parioli, la sera del giorno seguente furono trovate le chiavi di casa e dell’auto. Collocate lì dallo stesso Adinolfi o da qualcuno che ne coartò la volontà, allestendo una sorta di rituale d’addio ai propri cari? Nicoletta Grimaldi, la moglie di Paolo Adinolfi (foto da «Chi l’ha visto?» - Rai)«Mio marito era un idealista, un cattolico osservante, legatissimo ai nostri figli e a me. Non aveva intenti suicidi né desideri di fuga. Piuttosto, mi aveva confidato seri problemi sul lavoro...» La signora Adinolfi non ha creduto mai, neanche per un minuto, all’allontanamento volontario. Il movente andava cercato negli affari scottanti che aveva gestito, questioni «talmente gravi da far crollare il tribunale di Roma», come confidò a un amico. A cominciare dal fallimento della finanziaria Fiscom, che conduceva a personaggi legati alla banda della Magliana, da lui decretato nel giugno 1992 e revocato a sua insaputa un mese dopo, mentre era in ferie, con una decisione che lo mandò su tutte le furie e gli fece maturare una definitiva estraneità al «clima romano», inducendolo a lasciare la Fallimentare. Non solo. Carlo Nocerino, pm che collaborava con Mani Pulite, nei mesi successivi, nell’ambito dello stesso filone, si occupò del crack dell’Ambra assicurazioni e fu proprio a lui che Adinolfi si rivolse, poco prima di sparire, per confidargli che era in possesso di notizie «interessanti» dal sicuro profilo penale. Nonostante i numerosi spunti da approfondire, però, all’inizio prevalse la pista privata. «L’allontanamento volontario è ipotesi più probabile delle altre», scrissero i titolari dell’inchiesta, nel chiedere l’archiviazione. Ma lo stop durò poco. Nell’estate del 1996 le indagini furono riaperte e i familiari s’illusero che fosse giunta la svolta, per quanto tragica. Un faccendiere siciliano, tal Francesco Elmo, arrestato per riciclaggio in Campania, aveva infatti chiesto di «liberarsi da un peso» e messo a verbale che la banda della Magliana aveva ucciso Adinolfi, per evitare che affiorassero i legami tra servizi segreti deviati, società-fantasma nel settore immobiliare e grande «mala». Trapelò anche un’indiscrezione significativa: ogni lunedì i rappresentanti di famiglie mafiose si riunivano vicino Formia, in una fabbrica di acque minerali, per decidere quali fascicoli «romani» tenere d’occhio e quali magistrati della Fallimentare «sollecitare». Verità più vicina? Il pm perugino Alessandro Cannevale ordinò di scavare a Villa Osio, residenza del presunto cassiere della Magliana, Enrico Nicoletti (poi requisita e diventata Casa del jazz), in cerca del cadavere (non trovato), e continuò a lavorare sullo scenario di connessioni losche e insospettabili. Sforzi vani; nel 2003 dovette arrendersi. Ma nella richiesta di archiviazione testualmente scrisse: «Le nuove indagini inducono a rivedere il giudizio riguardo all’origine volontaria della scomparsa del dr. Adinolfi e a escludere la morte per cause naturali o incidente, o la perdita di memoria...» Quasi certa «l’azione delittuosa», insomma. Soprattutto se si considerano «l’estrema delicatezza di alcuni affari trattati», la «notevole rilevanza degli interessi economici coinvolti», la «capacità criminale dei soggetti che subivano le procedure» e i «contrasti insorti con taluni colleghi». Lorenzo Adinolfi, avvocato, figlio del magistrato scomparso. Viene scambiato spesso per Zoro, il conduttore de «La 7»Più chiaro di così... «Confido nell’apertura di una nuova inchiesta. Mi appello alla coscienza di chi sa e può dare impulso a una delle tante piste seguite, sfruttando anche le tecnologie. I successivi e recenti scandali alla Sezione fallimentare, d’altronde, consentono di delineare il movente meglio che in passato», incalza oggi Adinolfi junior, al fianco di sua mamma Nicoletta, nel salotto della bella casa che racconta ancora tutto di lui, i libri di diritto, la collezione completa della rivista Civiltà Cattolica, i quadri a soggetto sacro, i manuali di giardinaggio e i presepi che amava costruire, con l’infinita cura e pazienza di un uomo d’altri tempi, la cui unica colpa, forse, è stata aver creduto troppo nella giustizia.
"Chi sa la verità su Adinolfi parli": l'appello della figlia del giudice scomparso 21 anni fa. Il magistrato scomparve senza lasciare traccia nel 1994: indagava anche sulla banda della Magliana e su personaggi oggi vicini a esponenti di Mafia Capitale. Ora la famiglia chiede ai collaboratori di giustizia di fare luce su quel caso irrisolto. Lirio Abbate il 25 agosto 2015 su L'Espresso. È sparito nell’estate romana di ventuno anni fa il giudice Paolo Adinolfi. Non è fuggito, era legatissimo alla sua famiglia e un magistrato integerrimo. Chi ne ha ordinato la scomparsa lo ha voluto fare per toglierlo di mezzo e chiudergli la bocca per sempre. Allontanandolo con la forza da importanti e delicati procedimenti civili e fallimentari a cui stava lavorando. Le modalità con le quali è scomparso hanno tutto il sapore e le impronte di una struttura criminale organizzata. Ancora oggi, però, non si conosce la fine che gli è toccata. Ma a rivederla tutta questa storia - che ventuno anni fa magistrati e investigatori hanno mal digerito e mal gestito - appare evidente la violenza criminale che ricalca il metodo della “lupara bianca”, usato dalla mafia per eliminare le persone senza far rumore, facendo sparire i loro corpi. Paolo Adinolfi al momento della sua scomparsa il 2 luglio 1994, aveva 52 anni, una moglie e due figli. Con il suo lavoro alla Sezione fallimentare del tribunale di Roma aveva messo le mani su procedimenti che coinvolgevano professionisti, imprenditori e faccendieri molto in vista, alcuni dei quali, come l’imprenditore Ernesto Diotallevi, ritenuto il cassiere della “banda della Magliana”, oggi appaiono vicini a esponenti di Mafia Capitale, guidata da Massimo Carminati. Ed è proprio nella mega inchiesta coordinata dalla procura diretta da Giuseppe Pignatone che Giovanna Adinolfi, la figlia del giudice scomparso, spera di trovare uno spiraglio, o un aggancio che le possa dare una strada per avere giustizia: «Nel mio cuore ho la certezza che qualcuno sa che cosa è successo quel giorno in cui mio padre è scomparso». Per questo motivo la donna rivolge un appello ai collaboratori di giustizia che hanno contribuito con le loro dichiarazioni ai pm a svelare i retroscena della mafia a Roma e nel suo litorale. «Vorrei riuscire a trovare le parole giuste e a farle arrivare a queste persone che adesso collaborano con la giustizia, o a quelle che conoscono la verità su mio padre, perché con il loro aiuto prima o poi sapremo», dice Giovanna Adinolfi, la quale aggiunge: «La vicenda di mio padre, qualunque sia stata la sua fine, se fine c’è stata, non sappiamo neppure quello, è una storia dell’orrore. Questo, non solo per la sua scomparsa, che per noi è in sé un dramma che ci distrugge oggi come il primo giorno, ma anche per come è stata vissuta dai colleghi e da quelli che consideravamo amici, e ancora per il muro di silenzio che la circonda».
SILENZI E DEPISTAGGI. La storia della scomparsa del magistrato parte con indagini svolte in modo approssimativo, fatte male già nell’immediatezza dei fatti e con testimoni non ascoltati. La vicenda si è poi sviluppata con depistaggi, e infine è stata avvolta nel silenzio e si è conclusa con le archiviazioni giudiziarie, tanto da far dire al pm di Perugia, Alessandro Cannevale, che ha chiesto ed ottenuto la chiusura del caso: «Le indagini sono rimaste ben lontane dal raggiungere risultati utili all’esercizio dell’azione penale, non appaiono praticabili ulteriori attività e solo sopravvenienze future – attualmente imprevedibili – potrebbero rendere significativi e rilevanti i risultati fin qui acquisiti». Le informazioni che i magistrati hanno raccolto dai familiari disegnano la figura di Paolo Adinolfi: «Aveva certamente maturato esperienze lavorative deludenti e frustranti e certamente aveva vissuto, nella Sezione fallimentare del tribunale di Roma, una condizione di isolamento umano e professionale». Era un magistrato rigido, perbene, e con un forte senso per la giustizia. Aggiunge la figlia Giovanna: «Mio padre è stato una persona eccezionale, nel senso che ha sempre fatto eccezione alla norma. E il suo fare eccezionale si è risolto nel fatto che, quando è sparito, la sua ricerca, prima, e la sua memoria, poi, sono state rifiutate dallo Stato, dagli amici e dai colleghi. Il Csm non ha mai speso una parola per lui». E poi con tono amareggiato: «Non lo hanno cercato. Non lo hanno trovato». La figlia del magistrato scomparso usa toni molto duri: «Nessuno ci ha aiutati, e a noi oggi rimane solo un provvedimento di archiviazione del tribunale di Perugia pieno di belle parole, con il quale lo Stato conferma che quel giorno a papà è probabilmente successo qualcosa di orrendo legato al suo lavoro, ma lo Stato se ne frega e si arrende». Giovanna insiste sulle difficoltà incontrate ogni volta che lei e i suoi familiari hanno cercato di fare luce su una storia che in molti hanno preferito fosse dimenticata: «Tante volte ci è sembrato di scontrarci con un muro di gomma, come se l’eccezionalità di papà e della sua storia facessero paura».
LA TESTIMONIANZA DI BUSCETTA. L’anno in cui viene fatto sparire Paolo Adinolfi è cruciale per le organizzazioni criminali che operano su Roma. C’è in corso l’istruttoria per la “banda della Magliana”. Massimo Carminati è in carcere perché accusato di banda armata e calunnia nell’ambito della strage di Bologna, da cui verrà assolto. E l’imprenditore Ernesto Diotallevi è fra quelli per cui il giudice istruttore Otello Lupacchini nell’estate 1994 ordina il rinvio a giudizio assieme ad alcuni presunti componenti della “banda della Magliana”. Nello stesso periodo il primo grande pentito di Cosa nostra, Tommaso Buscetta parla pubblicamente di Diotallevi. Lo fa nel giugno 1994 rispondendo alle domande dei pm durante un processo nell’aula bunker di Rebibbia. C’era molta tensione a Roma in quel periodo e forse anche per questo motivo l’eliminazione di un magistrato che avrebbe potuto creare problemi agli uomini legati ai clan criminali doveva avvenire in silenzio: con la “lupara bianca”. Il giudice Adinolfi aveva incrociato gli interessi di Diotallevi nel 1992 occupandosi del fallimento della finanziaria Fiscom, società legata a personaggi del mondo dei servizi segreti e della malavita organizzata. Per questa storia furono poi condannati in primo grado Enrico Nicoletti, il notaio Michele Di Ciommo e uomini d’affari come Salvatore Tuttolomondo ed Enzo Zanetti accusati di bancarotta fraudolenta. «Una delle voci che sono girate su mio padre è che sia stato sepolto sotto l’ex villa di Nicoletti (oggi è la Casa del Jazz a Roma, ndr)», dice Giovanna Adinolfi. Anche in questo caso furono eseguiti accertamenti investigativi, persino scavando nella villa, senza trovare traccia. I magistrati di Perugia che hanno indagato sul mistero Adinolfi, sono convinti che «si tratta di un’azione delittuosa» e mettono in evidenza «l’estrema delicatezza di alcuni affari trattati dal magistrato alla Sezione fallimentare, la notevole rilevanza degli interessi economici coinvolti, l’asprezza delle reazioni suscitate dalla ferma e lineare condotta del giudice Adinolfi, i contrasti insorti con taluni dei colleghi, la capacità criminale di taluni dei soggetti interessati alle società che subivano le procedure».
LA PISTA DEI FALLIMENTI. Gli inquirenti sostengono che il giudice avrebbe potuto “suggerire” strade investigative ai colleghi che si occupavano in procura di alcune importanti indagini su economia-criminale, che in quel periodo erano state aperte fra Roma e Milano, e che si potevano agganciare ai procedimenti fallimentari da lui istruiti. Per i pm di Perugia «non è difficile pensare che una sua collaborazione a indagini riguardanti affari da lui trattati avrebbe potuto rivelarsi preziosa e insostituibile, non solo per la cognizione degli interna corporis del suo ufficio, ma anche, e più semplicemente, per favorire la ricostruzione documentale di certi passaggi». Il crac dell’Ambra assicurazioni, è uno dei casi di cui si occupò Adinolfi e in cui avrebbe notato qualcosa di penalmente rilevante, tanto che pochi giorni prima di sparire contattò al telefono il collega della procura di Milano, Carlo Nocerino, che si occupava dell’inchiesta per bancarotta proprio dell’Ambra. Adinolfi, come ricorda la procura di Perugia «si era dichiarato disponibile a fornirgli utili notizie su un procedimento che aveva ad oggetto società delle quali il magistrato scomparso si era occupato alla Sezione fallimentare. Ed è difficile pensare che queste notizie potessero essere null’altro che ovvietà o pettegolezzi». Gli inquirenti sottolineano come «fra le più delicate vicende delle quali il giudice Adinolfi ebbe a occuparsi (affare Fiscom, fallimento Casina Valadier che era di proprietà di Giuseppe Ciarrapico, affare Stirpe) coinvolgono persone e interessi economici» che a Roma hanno ancora un grande rilievo politico e imprenditoriale. Era un giudice scomodo Adinolfi, e per questo motivo dalla sua scomparsa molti criminali ne hanno avuto un ritorno positivo. Un buon motivo forse perché tanti volessero che questa storia fosse dimenticata, cancellata dalla memoria dei romani. Ma Giovanna Adinolfi insieme a suo fratello e alla sua mamma credono ancora che giustizia possa essere fatta. E adesso che hanno visto scoperchiare la pentola di Mafia Capitale, sperano che dal calderone della nuova inchiesta possa arrivare qualche spiraglio su una vicenda rimasta per troppo tempo oscura.
· Mirko Panattoni. Sequestro senza colpevoli.
Mirko, sequestrato 46 anni fa a Bergamo: «Trovata l’impronta del rapitore». Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da Maddalena Berbenni su Corriere.it. Poco o niente era stato scoperto su quel Maggiolino nocciola. I rapitori l’avevano ripulito in fretta e furia prima di rifugiarsi non è mai saputo dove. Ma un’impronta era sfuggita e ora, a 46 anni di distanza, porta la prima, vera svolta nel caso di Mirko Panattoni, il bambino che inaugurò una stagione di rapimenti e riscatti, talmente intensa da imporre un inasprimento delle pene. In un’informativa, depositata in questi giorni dalla polizia alla Direzione distrettuale antimafia di Brescia, è chiuso il nome di chi potrebbe avere guidato l’auto su cui il piccolo di 7 anni fu caricato fuori da scuola. Era il 21 maggio 1973, in Città Alta, davanti a testimoni e a due passi dalla storica gelateria dove Enrico Panattoni, il padre di Mirko, aveva già brevettato il mitico gusto stracciatella. Un clamoroso scossone della Squadra mobile a un fascicolo ingiallito negli archivi del tribunale, ma che, per una beffa della legge, rischia di non muovere una foglia. È tutto prescritto, dice il codice di allora, a cui i giudici sono tenuti a fare riferimento. Fosse applicabile quello attuale, in teoria, ci sarebbe margine fino al 2033, perché il massimo della pena per il sequestro di persona a scopo di estorsione, oggi, è di 30 anni e il tempo in cui i fatti si prescrivono il doppio: 60. È stabilito per alcuni reati considerati particolarmente gravi, vale anche per l’omicidio stradale. Sul caso Panattoni, il sipario si era già abbassato negli Anni Novanta, dunque, ma la Procura ci ha provato comunque con un fascicolo formalmente aperto dal pm Paolo Savio ad aprile e per il quale, ora, non c’è alternativa all’archiviazione. Un tentativo probabilmente per escludere che non ci fossero vie d’uscita nascoste in qualche piega della legge e imposto dal lavoro puntiglioso svolto in questura a Bergamo a partire da gennaio, quando Panattoni riceve una telefonata che gli fa suonare un campanello d’allarme. È il fisso del ristorante sopra la gelateria, a squillare. I luoghi sono gli stessi dei tempi del sequestro, finito con 300 milioni di lire chiusi in una valigia e la liberazione del bimbo al diciassettesimo giorno di prigionia, in tempo per gli esami di seconda elementare. Dall’altra parte della cornetta, un uomo sostiene di conoscere la verità sui responsabili. Cita un nascondiglio nelle Marche e riporta un dettaglio che Panattoni non è sicuro di avere mai rivelato: si sentiva il rumore degli elicotteri nel covo, era così. Quel particolare, dopo decine di contatti cestinati negli anni, lo convince a rivolgersi alla polizia. Dagli accertamenti risulterà un mitomane. Degli elicotteri, in realtà, qualche giornale aveva scritto. Ma nel rimettere la testa sulle carte, gli investigatori s’imbattono nell’impronta. Era stata isolata nella Volkswagen, rubata la notte precedente e poi abbandonata in una zona semi centrale della città. Ciò che agli occhi degli inquirenti, di oggi come di allora, la rende interessante è che è stata lasciata in un punto dell’abitacolo compatibile con la guida. Finora, però, non si era mai arrivati a darle un volto. È quello invecchiato di un pregiudicato di origini campane, che oggi ha 69 anni e vive in Brianza. Non è che nel 1973 non furono eseguite comparazioni, ma all’epoca era incensurato. Con un arresto e due condanne definitive per estorsione e assegni a vuoto, le sue generalità sono entrate nei database delle forze dell’ordine. E questa volta si è accesa la lucina verde. Per dire che si prestò a fare da autista alla spedizione non è abbastanza e con la prescrizione già certa il 69enne non è nemmeno stato indagato. Il fascicolo era e resta a carico di ignoti. Colpiscono, tuttavia, gli elementi messi in fila dalla polizia in pochi mesi di approfondimenti sul suo conto. A parte l’impronta, il nome del campano risulta collegato a un’abitazione da cui, nei giorni del sequestro, era partita una telefonata ai Panattoni «attenzionata» dagli investigatori. Un’abitazione, per altro, molto vicina al luogo dove fu ritrovato il Maggiolino. La tecnologia consentiva poco, non si conoscono i motivi per cui quella chiamata avesse attirato l’attenzione. Sta di fatto che la padrona di quella casa ha poi venduto un immobile a Milano al figlio del presunto autista. Forse una semplice coincidenza, ma i pochi riscontri non hanno di certo restituito l’idea di un ambiente rassicurante. Al marito della donna in questione, a metà degli Anni ‘90, fu sequestrato un arsenale. Panattoni, che porta avanti l’attività di famiglia, un piccolo impero della ristorazione a Bergamo, ogni giorno ripercorre la strada dove una vita fa fu prelevato dagli uomini con la «cuffia». Nemmeno conosceva la parola passamontagna. Non ha mai ricordato volentieri, quel periodo. Difficile voltare pagina senza verità né giustizia.
· Ferdinando Carretta: "Li ho uccisi tutti io".
"Li ho uccisi tutti io". E il killer ammise in tv la mattanza in famiglia. Cristina Bassi, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. l segreto di Ferdinando Carretta è durato ben nove anni. Lungo i quali tutti credevano che lui e la sua famiglia fossero scappati. «Sono fuggiti all'estero, in Sud America», era il passaparola tra vicini e amici. «Li hanno avvistati ai Caraibi, a Barbados», ripeteva qualcuno. Invece padre, madre e fratello minore di Ferdinando erano sottoterra. E ce li aveva messi lui, 26enne che con il padre litigava spesso, dopo averli ammazzati con una pistola Walther calibro 6.35. È l'ora di cena del 4 agosto 1989 nella casa di via Rimini 8 a Parma, ormai 30 anni fa. Il giorno dopo la famiglia Carretta sarebbe dovuta partire per le ferie in camper. Nessuno quindi, per molto tempo, si stupirà per l'assenza del padre Giuseppe, cassiere in una fabbrica vetraria, della madre Marta Chezzi, casalinga, e dei figli Ferdinando e Nicola. Ferdinando stermina la famiglia quella sera, spara a tutti e tre. Ammassa i corpi nella vasca da bagno e il giorno dopo li avvolge in teli di plastica e li porta in auto alla discarica di Viarolo, non lontano da Parma. I resti dei Carretta non verranno mai ritrovati e neppure l'arma del delitto. Ferdinando trascorre i tre o quattro giorni successivi a ripulire l'appartamento in modo maniacale, piastrella dopo piastrella. Alla fine falsifica la firma del padre e incassa due assegni per un totale di 6 milioni di lire, prende il camper e scompare anche lui. Della strage dei Carretta non resta neppure una traccia, neppure un indizio. Un giallo degno di Agatha Christie. I parenti cominciano a preoccuparsi a fine agosto, quando la famiglia non rientra dalle vacanze. Parte la denuncia e del caso si occupa anche Chi l'ha visto? che debutta proprio in quell'anno condotto da Donatella Raffai. È durante una puntata del 19 novembre 1989 che una telefonata in diretta segnala un camper abbandonato in un parcheggio di viale Aretusa a Milano: il Ford Transit della famiglia sparita. Di turno in Procura c'è Antonio Di Pietro, all'epoca sconosciuto pm. Di Pietro non crede alla fuga volontaria e apre un fascicolo per omicidio. In assenza di riscontri materiali, l'inchiesta però verrà archiviata. Tiene invece banco la favola dei Carretta che se la godono chissà su quale spiaggia grazie ai miliardi trafugati da Giuseppe dalla cassa della sua azienda (che ha sempre smentito queste voci). I principali quotidiani italiani mandano persino gli inviati in posti esotici sulla scia dei presunti avvistamenti. Le tessere del mistero cominciano a crollare una sull'altra nel 1998. La prima, come spesso accade, cade per puro caso pochi mesi prima della dichiarazione di morte presunta dei Carretta. Un giorno di novembre Ferdinando, che fa il pony express a Londra, viene multato da un agente del Metropolitan Police Service. Il fermato fornisce un documento con la data di nascita autentica intestato ad Antonio Ferdinando Carretta. «Sono molto legato al mio cognome», spiegherà. Antonio è effettivamente l'altro nome di Ferdinando Carretta, che però compare solo sul certificato di nascita. Lo scrupoloso poliziotto, rientrato in Centrale, fa un controllo in archivio su quel giovane italiano che gli aveva detto di venire da Parma. E scopre che compare nella lista delle persone scomparse dell'Interpol insieme alla sua famiglia. Londra avvisa Roma e Roma gira la segnalazione alla città emiliana. Il pm Francesco Saverio Brancaccio fa le prime verifiche. Parte per Londra il maresciallo Alfio Manoli, memoria storica del caso Carretta, che insieme alla polizia inglese ricostruisce gli ultimi anni di Ferdinando e trova il suo indirizzo recente. Il fuggitivo ha sempre vissuto a Londra, ha cambiato spesso residenza, gravitando in periferia. Ha fatto lavoretti saltuari e ha anche incassato il sussidio di disoccupazione. Alle domande degli inquirenti il 36enne risponde di non avere notizie dei suoi da anni. Ma qualche sera più tardi arriva il nuovo colpo di scena, sempre davanti alle telecamere di Chi l'ha visto? Ferdinando confessa gli omicidi. Il tono è pacato, lo sguardo fermo: «Ho preso quella pistola, quell'arma da fuoco... e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello. I corpi? Sono rimasti nell'appartamento e poi ho cercato al meglio che potessi di eliminare ogni traccia, sangue, bossoli, queste cose qua insomma... e di pulire l'appartamento al meglio che potessi. È stato un atto di follia, un atto di follia completa». La Procura cerca conferme nella casa di via Rimini, là dove tutto è cominciato. Al tempo degli omicidi le tecniche di investigazione scientifica erano considerate fantascienza. Nel 1998 invece i carabinieri hanno a disposizione nuovi metodi e nuovi strumenti. Come il Luminol, che pochi avevano sentito nominare e che permette di rilevare su una superficie tracce di sangue anche minuscole e anche dopo molto tempo. Infatti il Cis, quello che oggi è il Ris, allora guidato da Luciano Garofano, trova la chiave per risolvere il mistero. Sotto il portasapone accanto alla vasca c'è una traccia di sangue piccolissima, un «misto dei tre Dna» delle vittime. Il resto è storia processuale. Nel 1999 la Corte d'assise di Parma dichiara Ferdinando Carretta colpevole ma non imputabile per vizio totale di mente al momento degli omicidi. Su quest'ultimo punto tutti i consulenti (tra loro anche Vittorino Andreoli) erano stati concordi. I giudici decidono che deve trascorrere cinque anni nell'Opg di Catiglione delle Stiviere. Il pm aveva chiesto l'assoluzione e il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per dieci anni. Poi Ferdinando passa in una comunità di recupero e in libertà vigilata. Nel 2008 grazie a un accordo con la zia ottiene in eredità, oltre al denaro, l'appartamento della strage. Nel 2015 è tornato in libertà ed è andato a vivere a Forlì, in una casa comprata con il ricavato della vendita di quella di Parma. In Opg ha studiato informatica. «Risponde bene alle cure - dichiarò il suo legale, Filippo Dinacci, dopo la prima sentenza - Speriamo che riesca a reinserirsi nel mondo normale, un giorno o l'altro». Ferdinando Carretta oggi ha 56 anni: « Vorrei solo essere dimenticato», ha detto alla Gazzetta di Parma.
· Ambrosoli, la vita di un uomo normale.
Ambrosoli imitò il folle volo di Ulisse e morì cercando “virtute e conoscenza”. Eroe civile e simbolo dell’avvocatura, morì assassinato a Milano nel luglio 1979. Renato Luparini il 21 Dicembre 2019 su Il Dubbio. È di questi giorni una rievocazione televisiva di Giorgio Ambrosoli, eroe civile e simbolo dell’avvocatura. Nella ricostruzione della torbida vicenda del suo assassinio sono state ricordate le parole di Giulio Andreotti : “Se le è andata a cercare...”. Spesso, in modo del tutto arbitrario quella frase infelice è stata usata come una sorta di concorso morale nell’omicidio, addossando ad Andreotti l’ennesimo ipotetico misfatto. In realtà quelle parole scolpiscono in modo icastico tutta la differenza tra il modo di pensare di un politico e quello di un avvocato. Già gli antichi l’avevano compreso con l’adagio Fiat iustitia, pereat mundus, che già in epoca romana criticava l’impostazione di chi, pur di affermare un principio giuridico, non ne misura le conseguenze in altri campi. La politica nasce dalla constatazione dell’inevitabilità del male e del disordine. E’ l’arte del possibile, non del giusto e dell’equo. Uno statista non ha remora a stringere la mano di un dittatore o andare a pranzo con un tiranno sanguinario: sa che in quel momento quello è il suo referente e con cui lui deve parlare. Poi, a distanza di qualche giorno, può decidere di radere al suolo il suo Paese e di farlo ammazzare, se le circostanze lo rendono utile. L’avvocato è invece immerso in un mondo di perfezioni, che per quanto provvisorie e artificiali ( come ha ricordato Gianrico Carofiglio), tendono a eliminare il disordine. La pena ma anche il processo e la stessa norma giuridica in sé hanno il compito di liberarci dal male. Le liti si compongono attraverso le prescrizioni delle leggi, che orientano gli uomini verso la buona fede, la diligenza, la correttezza. Quando le norme non bastano ci sono i contratti, che vanno interpretati sulla base degli stessi principi, come se gli uomini con il loro odio reciproco fossero esseri puramente razionali. E poi il processo : la grande purificazione delle passioni, dove anche i nomi delle persone si mutano in quelli di parti di una rappresentazione. Infine, se proprio serve, la pena che espia il peccato e ristora la pace sociale. L’avvocato è totalmente in mezzo al diritto, molto più del giudice e del pubblico ministero che sono espressione di un Potere e quindi sono anche, in senso lato, dei politici. Accecato da questo amore per il buono e l’equo, l’avvocato, se è un uomo di valore, è naturalmente a disagio in politica. Non gli sfuggono certo, a livello intellettuale, le conseguenze del suo agire, ma è inevitabilmente attratto dall’osservanza delle regole, dalla norma eretta a costume di vita. Il destino di Ambrosoli che andò incontro alla morte consapevolmente è paragonabile al “folle volo” di Ulisse nella Divina Commedia: un viaggio incontro ai mostri, intrapreso per la necessità di seguire “virtute e conoscenza”. Con ironia Giulio Andreotti all’esordio dei suoi problemi giudiziari, notò che la sua laurea in Giurisprudenza era ormai arrivata a prescrizione. Da uomo acuto qual era si rendeva conto che il tempo è un fattore essenziale nella vita, ma in realtà involontariamente fece trapelare tutta la sua estraneità al mondo del diritto, fatto di regole precise e di scontri in campo aperto. Si sarebbe voluto laureare in medicina e scelse gli studi giuridici solo per convenienza e necessità. Due sostantivi che hanno sempre orientato le sue decisioni. Davanti al male, inevitabilmente nascosto negli arcana imperi, nei segreti di ogni Stato, non è prudente politicamente aprire veli o guardare negli occhi la Medusa, piuttosto serve sfuggirle con sagacia. Sono riflessioni che si materializzano nell’Aula Magna della Corte di Cassazione , dove si vede , alto nel soffitto , Giustiniano che, sulla sommità del suo trono, getta per terra alcuni ricorsi e ne accoglie altri con braccio solenne. Procopio, che ne fu lo storico, di lui ci fa due profili: uno bello e intonato alla decorazione, un altro, nella Storia Segreta, decisamente più prosaico e avvilente. Ma nell’Aula Magna della Suprema Corte conviene vederlo con il suo diadema da Imperatore giusto, immaginando che i ricorsi accolti siano i più meritevoli. Forse è un’ illusione, come l’effetto ottico dell’aula, ma se quella decorazione non ci fosse bisognerebbe dipingerla.
Ambrosoli, la vita di un uomo normale. Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 su Corriere.it. L’11 luglio del 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli veniva ucciso da un sicario mandato da Sindona. Cinque anni prima era stato nominato dalla Banca d’Italia commissario liquidatore della Banca Privata Italiana: aveva scoperto spaventose attività criminali ma anziché — chissà quanti lo avrebbero fatto — lasciar perdere, proseguì nel suo lavoro. Ai suoi funerali, nessuna autorità pubblica. In seguito, è diventata celebre la frase di Andreotti; l’agghiacciante: «Se l’andava cercando». Ecco perché, 40 anni dopo, è bene ricordare questo eroe borghese (così lo aveva definito Stajano). La Rai lo farà in autunno con una nuova docu-fiction prodotta da Stand By Me (Ercolani: «Sono orgogliosa di aver contribuito a riportare in tv la storia di Ambrosoli: un uomo normale ed eccezionale»), in collaborazione con Rai Fiction (Andreatta: «Per il servizio pubblico è un progetto necessario; è la storia di un uomo dello Stato»), che si basa sul racconto del figlio, Umberto. Nella parte di fiction, invece, c’è la dimensione privata dell’uomo, con il volto di Alessio Boni. «È stato un onore — dice —. Lui non era un poliziotto, un carabiniere o un magistrato. Era un tecnico, che, pur capendo i rischi, ha fatto quello che doveva solo per etica, perché era suo dovere. Che esempio». La difficoltà per l’attore è stata cercare materiali video su Ambrosoli: «Non ci sono: curioso no? Anche nelle Teche Rai è tutto sparito. Fa paura. Ho trovato solo un’intervista. Per fortuna ci sono i figli, le persone che l’hanno conosciuto, che spiegano chi fosse». Dopo aver scoperto le magagne dello Ior, «lui che era molto credente, aveva smesso di andare in chiesa: accompagnava moglie e figli a messa e lui stava fuori a fumare». Un uomo «che è un esempio in un’Italia in cui pensi di doverti sempre arrabattare. Lui no: ha fatto, serenamente, il suo. Sembra poco italiano». Sul perché da noi funzioni spesso così, Boni ha un’idea: «Non siamo maleducati ma ineducati. Non abbiamo mai avuto un governo forte che ci ha insegnato le regole. Sta a noi singoli dover fare, a turno, gli Ambrosoli». E il ricordo va alla nonna Maddalena: «Avevamo fatto un pic nic, negli anni 70. Ero un ragazzino e ho buttato la carta di una caramella per terra: era tutto lercio. Mi ha dato uno scappellotto. “Ma nonna, non vedi che è tutto sporco?” Mi ha risposto con una lezione di vita: “Tu devi fare il tuo”. Ambrosoli lo ha fatto. Dobbiamo ricordarci che siamo figli anche suoi. Di Dalla Chiesa, Falcone... Come vorrei che fossero loro a rappresentarci». Siamo distanti da quel modello, invece? «I politici dovrebbero lavorare per “noi”, invece è tutto un discorso sull’“io”. Un gioco di esposizione e vanità, dicendo anche tante cose non vere per un voto». Che pensa dei film sulle vite di mafiosi e criminali? «Che gli diamo troppo credito. Bisognerebbe avere coraggio e lasciarli nell’indifferenza».
40 anni fa l'omicidio di Giorgio Ambrosoli. Ucciso da un killer pagato da Michele Sindona, l'avvocato milanese aveva scoperto la rete di affari tra finanza, massoneria, politica e mafia senza mai cedere alle minacce. Edoardo Frittoli l'11 luglio 2019 su Panorama. Milano, via Morozzo della Rocca (zona Magenta). Ore 23:45 del 10 luglio 1979. Aveva immediatamente messo le mani avanti Michele Sindona, minacciando dalla latitanza dorata all'Hotel Pierre di New Yorkchiunque avesse osato collegare la morte dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana con il suo ruolo di mandante. Mentre il finanziere siciliano tuonava, il corpo dell'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli era ancora sotto i flash della Scientifica a Milano, in via Morozzo della Rocca, a due passi dal carcere di San Vittore. Era stato colpito poco prima della mezzanotte del 10 luglio 1979 da un sicario accompagnato da due complici a colpi di 38 special. L'avvocato crollava a terra di fianco alla sua Alfetta, ancora vivo. Con l'ultimo filo di voce riferiva ai primi soccorritori di essere stato colpito da tre sconosciuti, di cui uno soltanto l'esecutore materiale. Ambrosoli andò all'appuntamento con la morte da solo, perché non gli era stata assegnata alcuna scorta da parte dello Stato, nonostante gli evidenti rischi dovuti al delicatissimo incarico.
Morte annunciata di un' eroe borghese. Finiva così la vita di un'"eroe borghese": sull'asfalto di una via di un quartiere (anch'esso borghese) di Milano. Con lui se ne andavano le speranze di chi ancora aveva creduto nell'opera di un servitore dello Stato e della Giustizia. Pochi ma influenti erano stati i suoi sostenitori durante la meticolosa opera di raccolta delle prove a carico di Sindona e dei suoi uomini, in particolare l'ex presidente dell'ABI Tancredi Bianchi, il governatore di Bankitalia Paolo Baffied il suo vice Mario Sarcinelli. Loro conoscevano bene la professionalità di Ambrosoli e la sua disinteressata rettitudine in occasione della liquidazione coatta della SFI, uno scandalo finanziario che aveva coinvolto una rete di imprenditori in Lombardia. Ambrosoli ebbe l'incarico di Commissario liquidatore della BPI nel mese di ottobre del 1974, dopo che l'allora governatore Guido Carli bocciò la proposta di salvataggio dell'istituto in mano a Sindona, decretandone il "crack" e il successivo mandato di cattura per il finanziere di Patti assieme al suo braccio destro Carlo Bordoni. L'avvocato (allora quarantenne) si rimboccò le maniche, accettando l'incarico pur consapevole dei possibili rischi ai quali un affare così intricato avrebbe potuto esporlo. Per quattro lunghi anni Ambrosoli lavorò per 12 ore al giorno per ricostruire un infinito puzzle di documenti e operazioni che avrebbero portato ad un altrettanto ingarbugliata rete di relazioni tra decine di società fantasma dell'ex-impero Sindona. Ambrosoli dovette recuperare tutta la documentazione che fu fatta sparire all'atto della messa in liquidazione della BPI, sia in Italia che all'estero. In Svizzera l'operazione risultò complicatissima perché le banche elvetiche, che avevano avuto relazioni con Sindona, negarono categoricamente ogni forma di collaborazione. Nel frattempo l'iter giudiziario sul fallimento dell'istituto di credito rese nota l'entità del buco, che superò la cifra astronomica di 200 miliardi di lire. Mentre lavorava sui documenti, l'affare BPI si gonfiava tra le mani del liquidatore, coinvolgendo ambianti del Vaticano, molti politici e imprenditori, la Massoneria, la mafia americana. Il 9 novembre 1977 il giudice Ovilio Urbisci emette l'ordine d'arresto per Mario Baroni, amministratore delegato del Banco di Roma e amico di Giulio Andreotti. Parallelamente parte l'inchiesta americana condotta dall'FBI per il fallimento della Franklin National Bank, passata nelle mani di Sindona nel 1972 e travolta dalle operazioni spregiudicate del finanziere. Il 19 marzo 1979 la magistratura di New York incrimina Sindona e ne blocca l'estradizione in Italia. In questi mesi si moltiplicano le pressioni su Bankitalia affinché si proceda alla derubricazione del finanziere siciliano e a svariati tentativi di corruzione nei confronti dello stesso Ambrosoli, che a a quell'epoca aveva raccolto una mastodontica quantità di documenti probatori (12 mila pagine raccolte in 30 volumi) che l'avvocato milanese avrebbe dovuto portare in tribunale. Negli ultimi mesi le intimidazioni si moltiplicarono e Ambrosoli fu ripetutamente minacciato di morte al telefono da interlocutori dal forte accento siculo. Contemporaneamente i difensori di Sindona, in particolare per bocca dell'avvocato Rodolfo Guzzi, iniziarono una campagna di discredito dell'operato del liquidatore, dipinto come un "persecutore" di Sindona. Atto ugualmente determinante per l'isolamento di Ambrosoli fu il coinvolgimento dei suoi principali sostenitori Baffi e Sarcinelli dietro la pressione di Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti. I due erano stati accusati dalla Procura di Roma di interesse privato in atti d'ufficio e favoreggiamento e sollevati dagli incarichi.
Un uomo rimasto solo. Nonostante in Giorgio Ambrosoli fosse cresciuta la consapevolezza del grave rischio personale a cui si era esposto, non lasciò mai le carte che raccolse in 5 anni di lavoro incessante, senza cedere mai alle minacce e neppure ai numerosi tentativi di corruzione. Il 12 luglio l'avvocato aveva appuntamento in Tribunale con il giudice Giovanni Galati, al quale avrebbe dovuto presentare le carte dello scandalo, che avrebbero certamente aperto un vaso di Pandora nel mondo politico e finanziario internazionale. Mentre Ambrosoli riordinava le ultime carte che inchiodavano definitivamente Sindona e i suoi collaboratori alle proprie gravissime responsabilità, il finanziere pagava con 25.000 dollari d'anticipo (a cui se ne sarebbero aggiunti altri 90 mila) il sicario dell' eroe borghese, il killer italoamericano William J. Aricò che la notte tra il 10 e l'11 luglio 1979 eseguì gli ordini di Sindona e dell'esponente di Cosa Nostra a New York Robert Venetucci. La mattina dell'11 luglio la stanza n.33 al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Milano, quella del giudice Galati, rimase vuota. La figura eroica di Giorgio Ambrosoli emergerà tardivamente, quando il mandante del suo assassinio era già morto avvelenato in carcere e si era da tempo consumata la tragedia di Roberto Calvi e di un altro crack, quello del Banco Ambrosiano. Due giorni dopo la condanna definitiva di Michele Sindona all'ergastolo per l'omicidio Ambrosoli, il finanziere siciliano moriva avvelenato dal cianuro contenuto nel suo caffè. Nel 2010 Giulio Andreotti, intervistato durante la trasmissione Rai "La Storia Siamo Noi" dichiarava cinicamente che Ambrosoli "se l'era andata cercando".
· Mario Ferraro. Sole, sigari e baci.
Sole, sigari e baci. L’ultima domenica dello 007 impiccato in bagno. Le piste. Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Il suo nome è entrato in molti misteri d’Italia, dall’omicidio di una giornalista coraggiosa all’eccidio di via Fani, e chi ha indagato sulla sua morte non sempre è riuscito a discernere tra piste vere e bufale a scopo di depistaggio, perché nel Paese dei golpe falliti, delle stragi senza colpevoli e dei fondi neri, quando dici «servizi» pensi «deviati», e allora ogni verità sbiadisce, diventa incerta e sfuggente, mentre lui, lo 007 che sapeva troppo, quella domenica d’estate di 24 anni fa era l’emblema della normalità, stava facendo quel che piace a tutti... Se ne stava beato con la sua donna in terrazza - l’agente segreto con un alias da rappresentante di commercio - a riempirla di baci, mordicchiare il sigaro e progettare vacanze, e a tutto pensava fuorché di finire sul tavolo di un obitorio.
Mario Ferraro, morto in circostanze misteriose a 46 anni. Era il 16 luglio 1995. Roma sud, zona Eur: un attico moderno e luminosissimo in via della Grande Muraglia, al Torrino. Caldo feroce e giornata piatta, al di là della bella vittoria di Marco Pantani in una tappa del Tour de France. Ma in serata, quando la notizia iniziò a trapelare nelle redazioni, in tanti saltammo sulla sedia. La fine di Mario Ferraro, 46 anni, tenente colonnello del Sismi (oggi Aise) esperto in traffico d’armi e terrorismo, sembrava scritta da John Le Carré. L’uomo era stato trovato dalla sua compagna Maria Antonietta Viali in bagno, prima di cena, appeso a un portasciugamani alto 1 metro e 20, dopo averlo chiamato più volte dalla terrazza. Scena macabra: il suo Mario, l’uomo conosciuto come Fabio Marcelli, dipendente di una ditta import-export (di copertura) con sede nel palazzo di viale Pasteur dove lei lavorava come pierre, era appoggiato con le spalle al muro, la cinta dell’accappatoio stretta attorno al collo e il fondoschiena alzato di 10 centimetri dal pavimento. Cesare Martellino, il pm incaricato delle prime indagini sul caso Ferraro. Un incubo. Le grida di orrore, il senso di impotenza, le telefonate in lacrime ai familiari di lui, la casa invasa da «barbe finte», divise tra parole di cordoglio e la preoccupazione di mettere al sicuro il materiale «riservatissimo» custodito in casa... «Povero Mario, che modo assurdo di togliersi la vita», bisbigliavano molti nell’attico dei misteri. Ma fu lei ad andare al punto: «Come ha fatto a suicidarsi se il portasciugamani è più basso di lui?» Anche il fratello, Salvatore Ferraro, notò un dettaglio: «Ha il viso sereno, non di uno che compie un gesto disperato». Come se il corpo fosse stato «aggiustato», ricomposto dopo il decesso. Le indagini svelarono irregolarità palesi. Finirono sotto inchiesta sia l’assistente capo del commissariato di zona che, nella comunicazione ai superiori aveva omesso di segnalare l’attività della vittima, sia i militari che avevano portato via telefonino e agenda di Ferraro. Indagava Cesare Martellino, il pm con la pipa, uno Sherlock Holmes già famoso in città per aver seguito il giallo della contessa ammazzata qualche anno prima all’Olgiata. La prima ipotesi fu istigazione al suicidio, presto mutata (a fine luglio) in omicidio volontario. Troppe ombre e stranezze. Mario Ferraro, morto in circostanze misteriose nell’estate 1995, a 46 anniI trascorsi del defunto 007, che da un decennio seguiva scottanti operazioni di intelligence in giro per il mondo, soprattutto sul fronte mediorientale, e oltretutto aveva un carattere ribelle e uno spiccato senso di giustizia, si prestavano a fornire un possibile movente. E poi andava ricostruito l’accaduto, in cerca di prove. Un testimone c’era. Deposizione da brividi, quella di Maria Antonietta. «Mario alle 19 era uscito per comprare i sigari e il gelato e io sentii strani rumori provenienti dall’ascensore. Era lo scatto della fotocellula, ripetuto parecchie volte, come di qualcuno che intende tenere aperta la porta. Lì per lì non gli diedi importanza, invece…» Altro elemento: «Quando rientrava lasciava la chiave nella serratura, da dentro. Da mesi era teso, si sentiva pedinato. Quella sera, però, la chiave la trovammo in un cassetto». Terzo indizio: nel pomeriggio la coppia s’era appartata in camera, «ma Mario aveva dimenticato di chiudere la portafinestra in salotto». Qualcuno s’era intrufolato passando dal terrazzo condominiale? Anche ammettendo che il portasciugamani, trovato intatto, avesse miracolosamente retto al peso di Ferraro (quasi 90 chili), le anomalie balzavano agli occhi. L’autopsia evidenziò lesioni di tipo diverso sul collo, non incompatibili con uno strangolamento in due tempi. E perché impiccarsi in maniera tanto macchinosa, avendo a disposizione una pistola? Lo scenario «omicidiario» - due o tre killer che strozzano lo 007 in ascensore e poi attuano la messinscena - era rafforzato dall’analisi delle tante missioni pericolose e dalle voci su di lui, spesso incontrollate. Ferraro che smaschera un giro di tangenti legate alla fornitura di apparecchiature di spionaggio, mettendo nei guai due superiori. Ferraro sulle tracce di un agente della Cia, Roger D’Onofrio, in odore di connection con la mafia. Ferraro citato da Stefania Ariosto, teste «Omega» del processo per corruzione contro Cesare Previti, il quale, durante una gita in yacht, lo avrebbe definito «un osso durissimo». Ferraro chiamato in causa nel rapimento di Davide Cervia, tecnico esperto in guerre elettroniche sparito a Velletri 5 anni prima. Ferraro e il collega «gladiatore» Vincenzo Li Causi, morto anche lui in circostanze misteriose, e i presunti contatti con la giornalista Ilaria Alpi. Ferraro e Aldo Moro, infine: che ruolo ebbe lo 007 di via della Grande Muraglia nella divulgazione della famosa «velina» scritta due settimane prima del rapimento, dimostrazione del fatto che alcune «barbe finte» sapevano e tacquero? Sipario. Troppe incertezze. Tanti indizi, evidentemente, si rivelarono più ridondanti che utili. Si iniziò a far presente (anche se il fatto risaliva a molti anni prima) che lo 007 aveva perso una figlia di tumore e ciò gli aveva causato una forte depressione. Inoltre, a suon di perizie, il suicidio da un metro e 20 d’altezza non fu reputato impossibile. Per la verità Fabrizio Colarieti, uno dei giornalisti pistaroli che ha a lungo scavato su complotti e misteri, arrivò persino a scoprire che nello stesso palazzo era operativa una base del Sismi, bonificata - guarda caso - quella notte. Il che poteva condurre a un regolamento di conti interno. Tutto vano. Indizi e spunti d’indagine vennero lasciati cadere. E il giallo fu archiviato nel 1999, con quel solito retrogusto amaro, molto italiano, di verità occultate e non dette.
· Chi ha ucciso Lidia Macchi?
Caso Lidia Macchi, Binda assolto «grazie all’aiuto della scienza». Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. «È la scienza che ha testimoniato» a favore di Stefano Binda e che ha «introdotto negli atti processuali un dubbio molto più che ragionevole circa la sua estraneità rispetto al componimento poetico, e, quel che più conta, rispetto al delitto». L’allusione è alla poesia In morte di un’amica, attribuita all’imputato e tra gli indizi principali nel processo sull’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa 21enne di Cl assassinata nel 1987 a Cittiglio (Varese). Lo scrive la prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, presieduta da Ivana Caputo, nelle motivazioni della sentenza con cui a luglio scorso ha ribaltato il verdetto di primo grado e ha assolto il 51enne accusato di aver ucciso la sua ex compagna di liceo. Binda dopo la sentenza era stato immediatamente scarcerato, dopo circa tre anni e mezzo di detenzione. Nelle motivazioni si legge anche che la scienza ha dato «voce processuale alla vittima, ad onta del tempo trascorso e degli errori compiuti per i quali non si può fare altro che esprimere rammarico e fare ammenda» e ha dato anche «un aiuto decisivo e dirimente anche all’imputato Stefano Binda». Infatti, secondo i giudici d’Assise d’appello, non è stato Binda «ad avere lasciato tracce biologiche sulla busta» spedita a casa Macchi per recapitarvi In morte di un’amica e «non è lui ad avere lasciato tracce biologiche sul corpo martoriato della persona offesa». Nelle motivazioni si legge anche che la «valutazione globale» degli elementi accusatori «non solo non consente di attribuire l’omicidio di Lidia Macchi a Stefano Binda con un elevato grado di razionalità, ma, al contrario porta ad affermare a suo favore molto di più che il ragionevole dubbio: la ragionevole certezza della sua estraneità al delitto». Per questo motivo, continuano i giudici, è una «decisione di giustizia non più procrastinabile» liberare Stefano Binda da ogni accusa. Secondo la Corte, inoltre, la sentenza di primo grado è stata emessa dopo «un processo dibattimentale che si è distinto non già per avere accertato fatti (di reato), desumendone le modalità di svolgimento da indizi gravi, precisi e concordanti, bensì per avere dedotto fatti di reato ascrivendoli a un “autore ideale” (poi adattato all’odierno giudicabile) attraverso presunzioni, talune anche logiche e plausibili in astratto, altre molto meno perché portato di mera suggestione, ma, in ogni caso, tutte prive di concretezza e supporto probatorio».
CHI HA UCCISO LIDIA MACCHI? Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 25 luglio 2019. Tre anni e mezzo di carcere prima di veder ribaltare in assoluzione a Milano l' ergastolo inflittogli in primo grado a Varese per l' assassinio il 5 gennaio 1987 della 21enne ex compagna di liceo Lidia Macchi: ma forse nemmeno il 51enne Stefano Binda sa che questa sua assoluzione sarebbe potuta non arrivare mai se 35 giorni fa - senza che si sia mai saputo - altri «giudici» un po' particolari, quelli del Comitato per l' Albo dei Periti, non avessero stoppato e rigettato l' inusuale richiesta della Procura Generale di far fuori dall' Albo, per asserita incompetenza, proprio la consulente grafologica della difesa di Binda, Cinzia Altieri. Cioè colei che, altrimenti, giovedì scorso non avrebbe potuto sostenere il confronto chiesto dalla Corte con la consulente d' accusa, Susanna Contessini, sull'attribuibilità o meno alla grafìa di Binda di «In morte di un' amica»: poesia anonima che a Varese fondò l' ergastolo, e che ieri - all' opposto - deve invece aver fondato l' assoluzione. Sulla busta della lettera spedita alla famiglia Macchi il 9 gennaio 1987, che l' accusa indicava tratta da un quaderno ad anelli a casa di Binda, e dal cui testo riteneva (sulla scorta della psicoterapeuta Vera Slepoj) di trarre quasi la cronaca in diretta di un delitto preceduto da violenza sessuale, c' è un Dna che non è di Binda; così come le 4 formazioni pilifere, trovate dopo 30 anni sul pube della salma riesumata, non sono di Binda. Ecco perché già in primo grado le perite avevano battagliato sulla riconducibilità della lettera alla grafìa di Binda, contro il quale (allora drogato) l' accusa valorizzava l' aver lui detto che non vedesse Lidia da 3 anni (non vero), l'«aver dato sei alibi diversi» ad avviso della pg Gemma Gualdi, e il tenere a casa appunti come «Stefano è un barbaro assassino» o «caro Stefano sei fregato». Dietro le quinte, alcuni mesi fa la pg Gualdi presenta un esposto al Comitato Albo Periti (formato da una giudice civile, un pm, un avvocato e un delegato di Camera di Commercio) e chiede di verificare il requisito di «speciale competenza tecnica» proprio della grafologa di Binda e proprio per il suo lavoro in primo grado «manifestamente privo di scientificità» e «palesemente preordinato» pro-difesa. In più la pg addita l' assoluzione nel 2016 in Appello di un dipendente Bankitalia condannato all' inizio per due firme ascrittegli dalla consulente, una delle quali mentre l' uomo era in Africa; e rimarca lo «stato di obnubilamento» addotto dalla perita nel 2015-2016 per dilazionare due perizie. Ma il Comitato il 19 giugno respinge l' esposto perché «non è indice di incapacità professionale» della perita (assistita dal legale Corrado Limentani) «l' aver sostenuto con veemenza le proprie conclusioni» nel primo grado di Binda; perché l' assoluzione del dipendente Bankitalia non dipese dalla presenza in Africa; e perché «le difficoltà del 2015-2016» furono dovute a «temporanei problemi di salute». Così una settimana fa la consulente dei difensori Sergio Martelli e Patrizia Esposito può ancora dire la sua sulla lettera fondamentale per Binda. Non ha invece avuto impatto sull' assoluzione, causa sua inutilizzabilità, l' irrituale testimonianza «de relato» dell' avvocato varesino Piergiorgio Vittorini, pur lasciato parlare giovedì in aula sull' anonimo cliente che nel 2017 gli disse di aver scritto la lettera ma gli vietò di rivelarne l' identità.
Omicidio Macchi, Binda assolto torna a casa con la sorella: «Ora una festa». Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Andrea Camurani su Corriere.it. «Sì mamma, sì, è tutto vero: l’hanno assolto! Assolto! Adesso te lo riporto a casa». Sono da poco passate le 19. L’ora della nuova sentenza. La sorella maggiore di Stefano Binda, Patrizia, ha 55 anni ed è distrutta; ma la giornata non è finita, e lei è impaziente. Rimane la parte più importante. Bisogna uscire da Milano nell’ora di punta e correre a Busto Arsizio fuori dal carcere, per abbracciare il fratello che a caldo, dopo la lettura della sentenza, non è riuscito a dire nulla, proprio nulla, se non qualche frase legata all’emozione. «Stefano sei libero» gli ripetono i giornalisti. E lui: «Non saprei cosa dire... Forse avremo modo in futuro di...» ma subito viene portato via dagli agenti della penitenziaria che lo riparano dai flash e dai microfoni. Esce dal carcere alle 22.40, in auto, con sé ha un sacchetto pieno di libri. «Un abbraccio alla mia mamma che ha sopportato tutto questo negli ultimi anni. Ma un abbraccio lo voglio mandare anche alla mamma di Lidia. Ora ci prepariamo a fare una super festa di compleanno a Stefano, che il 12 agosto compirà 52 anni» dice Patrizia nel viaggio di rientro a casa fra una telefonata dietro l’altra e parecchie lacrime. «Sono così contenta che le cose brutte le sto già dimenticando tutte quante... ma sono quattro anni, quattro lunghi, infiniti anni che patiamo, un dolore dopo l’altro, a cominciare dalle prime perquisizioni della squadra mobile nel luglio 2015, e da allora in poi, sempre la polizia in casa, agenti in giro per le stanze a tutte le ore del giorno...». Ora è finita. «Sì, è finita. E ancora non mi sembra vero». A casa, nella villetta su due piani di via Cadorna, a Brebbia, sono pronti gli striscioni fatti da mamma Mariuccia e dal nipote Jonathan: cuoricini e «Ben tornato Stefano». Mentre fuori dal carcere di Busto Arsizio, arrivano gli amici dell’associazione culturale «Magre Sponde» che hanno sempre creduto nell’assoluzione e in passato avevano dato vita a una raccolta fondi a sostegno delle spese legali e della famiglia. «Lo riportiamo a casa» dice Francesco Porrini, presente in aula, unitosi al corteo di auto partite da Milano. «Credo che Stefano non vorrà darsi alla pazza gioia. Conoscendolo, vorrà stare da solo. Ero stato a trovarlo sabato per sostenerlo prima dell’ultima prova: non è capace di fare un uovo al tegamino, figuriamoci se a 19 anni era in grado di ammazzare una persona». L’ex detenuto Binda torna dunque alla vita di tutti i giorni dopo la custodia cautelare durata tre anni e mezzo (dal 15 gennaio 2016), durante la quale si è distinto per aver aiutato molti detenuti tra cui anche Alexander Boettcher, uno della «coppia dell’acido», durante il primo periodo di reclusione trascorso nel penitenziario milanese di San Vittore. Si occupava della biblioteca, ha lavorato a uno sportello di consulenza legale per i carcerati ed era in procinto di preparare una messa tradotta in inglese, una lingua che Binda padroneggia dopo averla studiata e coltivata, per i compagni di cella stranieri. Scontata la soddisfazione dei suoi difensori: «Ci aspettavamo questa sentenza» dicono Patrizia Esposito e Sergio Martelli. Perché? «Perché eravamo convinti della totale innocenza di Stefano Binda».
L’estate di Binda: «Sono un uomo libero ma ho paura ad aprire le porte». Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 da Andrea Camurani su Corriere.it. «Aspetti disorientanti della vita da uomo libero». Descrive così i momenti passati da circa un mese a questa parte Stefano Binda, condannato in primo grado per l’omicidio nel 1987 della studentessa varesina Lidia Macchi e scagionato dopo tre anni e mezzo di custodia cautelare in carcere: è un uomo libero dalle 19 di mercoledì 24 luglio, assolto «per non aver commesso il fatto» in Appello a Milano. Una sentenza ribaltata dopo quel 24 aprile 2018 a Varese, finita invece con un’altra parola: «Ergastolo». Quella calda sera di fine luglio, quasi trenta giorni fa, sceso dall’auto che lo riaccompagnava a casa, non riuscì a rispondere a questa domanda.
Per lei questa è una rinascita?
«Sì è vero, allora non risposi, e ricordo anche il motivo: mi venne da sorridere pensando a una frase legata alla rinascita».
Quale?
«È una citazione: “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”».
Perché questa frase dal Vangelo secondo Giovanni?
«È un passo a me caro, mi venne in mente in quel momento esatto, proprio ascoltando quella parola, “rinascita”, che mi ha fatto chiudere gli occhi. Stavo per riabbracciare mia madre, e mi lasciò senza fiato per l’enorme commozione. Ero finalmente a casa».
Come passa le giornate?
«Continuo a vedere persone, a incontrare vecchie conoscenze. Proprio l’altra sera abbiamo fatto una tavolata alla festa di San Rocco, una specie di rentrée assieme a mia sorella Patrizia. È stato molto bello».
In paese la vedono spesso. Come il primo giorno, quando rincasò alle 11 dopo la spesa e la messa.
«Adesso mi sveglio già un po’ più tardi, i primi giorni ero in piedi all’alba: l’orologio biologico del carcere».
Come vive la libertà?
«Sto lentamente facendo l’abitudine a piccoli particolari che ancora mi destabilizzano come i rumori o il semplice traffico. Non mi sono ancora abituato alle posate di metallo, al vetro, materia che trovo troppo fragile per essere maneggiata e per questo sto prendendo le misure coi bicchieri. Persino le porte mi suscitano una sensazione strana: aspetto sempre che ci sia qualcuno ad aprirle. Cose difficili da spiegare per chi non ha vissuto il carcere». Dal carcere Binda era uscito con tre sacchi zeppi di libri che tiene con sé nella sua stanza, per il resto ci sono gli amici di sempre, che l’hanno aspettato. Nel 2013 a Brebbia venne inaugurato un festival tra poesia, arte, letteratura e cinema che prese il nome dall’associazione che lo tenne a battesimo, «Magre sponde». Stefano, tra i fondatori, curava la parte cinematografica: proiezioni, incontri con registi e cineforum ma dopo il suo arresto nell’inverno del 2016, il festival non è stato più organizzato. «Non c’era più niente da festeggiare — spiega Marco Porrini, referente dell’associazione — . Ora, con Stefano tornato libero ci stiamo nuovamente attivando per far ripartire il festival solitamente in programma a settembre. Quest’anno non c’era il tempo fisico, ma nel 2020 il festival tornerà. Stefano ancora non lo sa, ma sarà in prima fila coi suoi film e le sue serate».
Lidia Macchi, la scomparsa, il killer, la lettera anonima: 32 anni di misteri (e veleni). La studentessa aderente a Cl uscì di casa il pomeriggio del 5 gennaio 1987: non tornò mai più. Due giorni dopo, la scoperta del cadavere in un boschetto. Stefano Binda, arrestato il 15 gennaio 2016, è stato condannato in primo grado all’ergastolo, 31 anni dopo il delitto. Andrea Galli il 26 gennaio 2016 su Il Corriere della Sera.
Cinque gennaio 1987, la scomparsa. Questura di Varese. Le 16.30 del 5 gennaio 1987. Alla polizia, Giorgio Macchi denunciò la scomparsa della figlia Lidia, 21 anni, studentessa universitaria in Giurisprudenza, colonna portante del gruppo di Comunione e liberazione, già allora molto presente e influente in provincia di Varese. Uscendo di casa, la ragazza aveva promesso ai genitori che sarebbe stata via poco tempo, giusto il necessario per una visita in ospedale all’amica Paola, ricoverata dopo un incidente stradale. In ospedale, al pronto soccorso di Cittiglio, Lidia andò per davvero. Entrando alle 19.15 e uscendo tra le 20 e le 20.30. Lidia Macchi scomparve di casa il 5 gennaio 1987. Aveva 21 anni, studiava Giurisprudenza.
Sette gennaio 1987, la scoperta del cadavere. Erano tre. Tre amici del cuore: Roberto Bechis, Maria Pia Telmon e Antonio Ferraguto. Facevano parte del numeroso gruppo che si era messo alla ricerca di Lidia. Gli amici trovarono il cadavere alle 10.25 del 7 gennaio. Due giorni dopo la scomparsa. Il corpo era in una strada sterrata in località Sass Pinin, nel paese di Cittiglio, una zona molto nota ai tossicodipendenti di eroina. Vicino al cadavere, la macchina di Lidia: una Fiat Panda targata VA899317. Sul sedile anteriore lato passeggero, un’ampia macchia di sangue. Sangue della ragazza.
Le ventinove coltellate dell'assassino e l'inutile difesa. Lidia parò la prima coltellata: la lama le trapassò una mano. Poi il killer sferrò il secondo attacco, colpendola tra collo e testa, mentre Lidia usciva dalla macchina (era sul sedile anteriore lato passeggero) e si gettava sul terreno in cerca della fuga. L’assassino le arrivò addosso e la uccise. In totale, le coltellate furono 29: una al capo, cinque al collo, quattro al torace, sedici alla schiena, uno alla coscia destra e due alla coscia sinistra. Una furia infernale. Poco prima, come ricostruì il medico legale nell’autopsia, la ragazza aveva avuto il primo rapporto sessuale, consenziente, della sua vita. Ma nel 1987 non esisteva ancora la tecnologia per ottenere un corretto profilo di Dna dalle tracce biologiche, quindi non fu possibile risalire all’assassino. Gli undici vetrini contenenti strisce di liquido seminale, prelevati allora dal corpo della ragazza e conservati in tribunale, sono stati irrimediabilmente distrutti nel 2000: sono rientrati un elenco di corpi di reato da eliminare in quanto si riferivano a vicende archiviate.
I vetrini distrutti. Forse l’assassino si ferì. Se così fu, gli investigatori dell’epoca non trovarono altre tracce di sangue se non quelle di Lidia; se così fu, e magari il killer andò a farsi visitare e medicare in qualche ospedale della zona, trovando l’aiuto di dottori e infermieri «complici», non è dato sapere. La ricerca degli investigatori che hanno riaperto il caso, non ha finora portato alla scoperta di cartelle cliniche «sospette». Secondo gli investigatori di allora, Lidia Macchi conosceva il suo assassino. E l’assassino conosceva Lidia e la sua macchina, la Fiat Panda con la quale quel giorno la ragazza andò in ospedale a trovare l’amica.
Le prime indagini: il sacerdote indagato. Il pm Agostino Abate, campano, secondo molti grande investigatore, «sbirro vero» capace di far cantare chiunque, dal tangentaro più omertoso al malavitoso che non vuol passare per «infame», si è occupato per quasi trent’anni dell’inchiesta su Lidia Macchi. Fin quando gli hanno tolto il fascicolo e l’hanno trasferito a Como. Abate rimane convinto che molto, moltissimo c’entri in questa storia don Antonio Costabile, infatti indagato dal pm. Ma poi prosciolto da ogni accusa.
Venerdì 15 gennaio 2016, la svolta. La mattina di venerdì 15 gennaio 2016. Brebbia, tremila abitanti in provincia di Varese. Via Cadorna, una strada stretta che termina nel cortile di una corte ristrutturata. Una villetta al civico 5. Gli agenti della squadra Mobile della Questura di Varese, coordinati dal sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda, arrestano Stefano Binda con l’accusa di aver stuprato e ucciso Lidia Macchi. Binda, nullafacente ed eroinomane, vive al primo piano da solo; al piano terra abitano la mamma Maria, vedova da decenni, la sorella di Stefano, Patrizia, separata, e suo figlio Jonathan. Binda si professa da subito innocente. La famiglia lo difende: «Vi state sbagliando, non è lui il mostro». Il piccolo paese però mormora: «Si diceva da sempre che lui con quell’omicidio avesse delle responsabilità». Ma da Brebbia nessuno mai aveva confidato quei dubbi o quelle «sensazioni» alla polizia.
L’esumazione del cadavere. Chi è Stefano Binda? Era come Lidia un elemento di spicco del gruppo di Comunione e liberazione. Nel tempo ha ancora conservato gli stretti legami con i ciellini che aveva all’epoca. Protegge segreti su dove trovasse il denaro (oltre alla «paghetta» della mamma presa dalla sua pensione) per l’eroina. Quando è stato arrestato ha chiamato per primo Marco Pippione, potente figura del movimento in provincia di Varese, arrivato in pochi minuti in Questura. Un altro amico di Comunione e liberazione è don Giuseppe Sotgiu, adesso sacerdote «latitante» a Torino (pur assegnato a una parrocchia, lo si vede molto raramente). Il prete, non indagato ed estraneo alle indagini come Pippione, è figura centrale: è l’unico che copre l’alibi di Binda, il quale sostiene che nel gennaio 1987, era in montagna con il gruppo di Cl. Ma gli amici lo hanno smentito. Tranne don Sotgiu, anche se in un secondo momento ha ritrattato la versione. Alla fine di febbraio 2016, il sostituto pg di Milano Carmen Manfredda ha chiesto la riesumazione del cadavere di Lidia Macchi, la studentessa di Varese uccisa nel gennaio 1987 con 29 coltellate, in cerca di tracce di Dna, dato che i vetrini con le tracce di sperma sono andati distrutti. Lidia era stata sepolta con l’abito da sposa, che ha conservato piuttosto bene i reperti. Non sono state trovate tracce biologiche di Binda. Sul corpo c’erano 4 capelli, che però non appartengono all’imputato.
La lettera «verità». Dopo i funerali di Lidia, nella casa dei Macchi arrivò una lettera anonima. Secondo la «rilettura» dei periti della Procura a distanza di 29 anni, era una chiara descrizione dell’omicidio. Ma le indagini di allora non presero nemmeno in considerazione il testo. Perché? La lettera venne dimenticata nei cassetti degli inquirenti. L’accusa sostiene che quella missiva è stata opera di Stefano Binda. La perizia grafologica non ha dubbi. In tempi recenti la trasmissione televisiva «Quarto grado» aveva pubblicato la lettera. Patrizia Bianchi, un’altra del circuito di Comunione e liberazione, già innamorata (non ricambiata) di Binda e grande amica di Lidia, aveva riconosciuto in quel testo la grafia del presunto assassino. E aveva chiamato gli investigatori. È poi spuntata un’altra lettera anonima, inviata alla madre nel gennaio del 1987.
L’ergastolo. In tribunale il dibattimento è durato un anno e sono stati ascoltati decine di testi. Il 24 aprile 2018 i giudici della Corte d’assise di Varese, dopo circa quattro ore di camera di consiglio, hanno inflitto l’ergastolo a Binda, escludendo l’aggravante dei motivi futili e abbietti condannandolo, invece, per quella della crudeltà. Applicate anche l’interdizione dai pubblici uffici e le provvisionali di 200 mila euro per la madre della vittima, Paola Bettoni, e 80 mila euro ciascuno per il fratello e la sorella di Lidia. L’imputato, alla lettura della sentenza, non ha commentato e ha guardato atterrito il pubblico, prima di venir ricondotto in carcere dalla polizia penitenziaria.
Il teste anonimo. Processo d’appello: nell’udienza del 18 luglio 2019 un teste si è proclamato l’autore della lettera usata come prova contro Stefano Binda. Il penalista Piergiorgio Vittorini ha riferito che una persona - della quale non intende fare il nome - si sarebbe presentata nel suo ufficio, alla fine del febbraio 2017, sostenendo di avere scritto la missiva come forma di «protesta» contro una morte ingiusta. «Non conoscevo Lidia Macchi, ma condividevamo lo stesso contesto di Comunione e Liberazione a Varese», avrebbe detto il cliente a Vittorini.
Assoluzione. Mercoledì 24 luglio 2019 i giudici assolvono Stefano Binda «per non aver commesso il fatto». La sentenza dei giudici, presieduti da Ivana Caputo, ha ribaltato quella di primo grado. Stefano Binda era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio aggravato dalla violenza sessuale della 21enne di Cittiglio (Varese) nel gennaio del 1987. Binda dovrà essere immediatamente scarcerato.
Vittorio Feltri sull'assoluzione di Binda: "Senza prove certe, non si può condannare una persona qualsiasi". Libero Quotidiano il 27 Luglio 2019. La assoluzione di Stefano Binda, già all' ergastolo per l' assassinio di Lidia Macchi, accoltellata a morte trentadue anni orsono, ha addolorato e addirittura indignato la famiglia della vittima. Non si capisce perché. Oddio, chi ha perso un familiare per mano di un criminale ha il diritto di sperare che questi venga assicurato alla giustizia. La quale ha il dovere di indagare e scovare il colpevole dell' orrendo massacro. Ma se non ci riesce, se non dispone di prove certe, non può condannare una persona qualsiasi, innocente, pur di saziare l' ansia riparatoria dei parenti di colei che ha perso la vita. Ormai la storia di Lidia e di Stefano è nota e non vale la pena di riassumerla in toto, sta di fatto che la ragazza è perita e che l' uomo è stato schiacciato sotto una coltre di accuse prive di senso, ipotesi, congetture senza riscontro. Sia come sia, egli a distanza di lustri viene sbattuto in galera con una sentenza di primo grado in cui è scritto "fine pena mai". Una cosa da brividi, da Paese che ignora i princìpi basilari del diritto, al vertice dei quali c' è un dogma: si incarcera solamente chi è schiacciato da elementi inoppugnabili. Stefano invece viene recluso solo in quanto sospettato di avere scritto una lettera con una grafia che sarebbe, ma non è, la sua. Passano oltre tre anni e si celebra l' appello, durante il quale emerge un dato inequivocabile: quella missiva non è stata vergata da Bindi, il quale quindi non ha colpe. Assolto per non aver commesso il reato. Una vicenda simile grida vendetta al cospetto di Dio. L' ex ergastolano viene finalmente liberato. Non protesta. È mite e soddisfatto poiché gli è stata riconosciuta l' estraneità al fatto di sangue in questione. Ma i congiunti di Lidia si irritano, preferivano che l' imputato venisse ributtato in cella per sempre. Si sono convinti che costui abbia stroncato la fanciulla e non c' è verso di convincerli del contrario. Tutto ciò ha il sapore di una irrazionale vendetta, si ignora da quale certezza sia ispirata, visto che la Corte d' Assise d' Appello, rimediando a un errore madornale commesso nel giudizio iniziale, ha assolto con formula piena il povero Stefano, che ha scontato gratis il carcere pur essendo un signore al di sopra di ogni sospetto. A costui, sia la giustizia tardiva sia i familiari della vittima dovrebbero solo chiedere scusa. La gente non si butta in prigione se non quando le prove la inchiodano. Vittorio Feltri
Stefano Binda, ritorno a casa «Mi spiace per la famiglia Macchi ma io sono innocente». Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Andrea Camurani su Corriere.it. Nel primo giorno da uomo libero alla fine di tre anni e mezzo di carcere, Stefano Binda vuol rispondere solo a una domanda su tutte. Si sente di dire qualcosa alla famiglia Macchi? «Mi spiace. Capisco profondamente che avevano anche bisogno di crederci, ne avevano assolutamente diritto... ma non si fa giustizia con qualcosa che non è la verità. Io non c’entro niente». Mettere ordine nella proprio vita. Il 24 luglio Binda, 51 anni, è stato scarcerato non appena pronunciata la sentenza che ha ribaltato il primo grado. Non è lui l’assassino di Lidia. Una delle prime azioni che Binda ha compiuto ieri mattina, dopo essersi svegliato nel letto preparato da mamma Mariuccia, è stata proprio quella di mettere ordine. E di «saldare dei debiti di gratitudine: in tanti mi sono stati vicini, convinti della mia innocenza». Binda parla di ritorno dalla spesa, con il sacchetto giallo dei supermercati Tigros e le Vans allacciate alle caviglie, le scarpe dei Paninari, simbolo di quegli anni Ottanta che hanno segnato la sua vita, a cominciare dalla droga. Prima delle compere in paese — Brebbia, 3.200 abitanti in provincia di Varese —, Binda ha raggiunto una ragazza bionda con un piercing, che lavora al bancone del tabaccaio «Manzoni». Andò da lei il giorno prima dell’arresto eseguito dalla squadra mobile di Varese, il 15 gennaio del 2016. La ragazza racconta: «Era venuto a comprare le sigarette. Aveva messo dieci euro nel cambiamonete ma la banconota era rimasta inceppata. Avevamo provato in tutti i modi a recuperarla, però non voleva saperne di uscire. Gli dissi: «Domani quando passa il tecnico te la rendo». Quella banconota l’ho custodita e non l’ho data neppure alla sorella. Ero convinta che sarebbe uscito. Ecco, gliel’ho appena consegnata». In paese erano in tanti, forse la maggioranza, a credere nell’innocenza di Binda, il quale, dopo la lettura dei giornali e un caffè da Manuela e Daniela del «Tuo bar», sulla provinciale, alle 11 rientra a casa. Ad aspettarlo ci sono la madre, la sorella e il nipote. «Scusate, non sono abituato a tutto questo» dice ai cronisti che lo aspettano sul cancello, varcato mercoledì sulla macchina dell’amico Francesco Porrini, che lo aveva prelevato dal carcere di Busto Arsizio. Binda concede poco, pochissimo: «Tutto quello che è accaduto sarà l’occasione per cambiare tante cose nella mia vita» dice, la voce alterata dalla commozione. La famiglia della vittima aveva commentato la sentenza in aula, per voce di Stefania, sorella di Lidia; ora parla Alberto, ultimo dei fratelli in braccio alla stessa Lidia nella foto che l’avvocato Daniele Pizzi ha proiettato durante la sua discussione in aula. Quel bimbo ha 33 anni, è un medico chirurgo: «Prendo atto della decisione e la accetto. Non so chi abbia ucciso Lidia... La sentenza mi è sembrata un po’ affrettata. Dopo più di trent’anni con prove distrutte e una sentenza di primo grado, avrei preferito che la ricerca della verità fosse più meticolosa».
· Davide Cervia, rose e intrighi.
Davide Cervia, rose e intrighi. Il premier: “Vi sono vicino”. Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Nell’Italia dei misteri, dei depistaggi e delle famiglie che non si rassegnano, la storia di Marisa Gentile sposata Cervia, che era una ragazza di 20 anni quando conobbe Davide sul treno per la Liguria e si innamorò e il colpo di fulmine fu talmente incendiario che sei mesi dopo erano già sull’altare, ha qualcosa di straziante. Unico. Terribilmente romantico e dannato. Davide Cervia, sequestrato il 12 settembre 1990 e mai tornato a casa. Da quel 12 settembre 1990 in cui Davide non riuscì a tornare a casa a Velletri perché qualcuno lo prelevò di peso dalla sua Golf - e quindi le rose rosse che aveva comprato per Marisa rimasero sul sedile posteriore - il cognome del superesperto in armamenti, molto diffuso a Sanremo, dov’era nato e aveva vissuto prima di sposarsi, è diventato l’emblema dei più torbidi intrighi. Caso Cervia: vale a dire la tragedia di un ex sergente della Marina, in possesso di una specializzazione in guerre elettroniche, che a 31 anni fu rapito e strappato a sua moglie e ai bambini di 4 e 6 anni, alla vigilia della prima Guerra del Golfo, nella quale il personale qualificato era ricercatissimo e i trafficanti di uomini e armi non è che stessero a pensare alla sofferenza di una famiglia perbene. Si sarebbe rassegnata, la ragazza. No, avevano fatto male i loro calcoli. Marisa Cervia, che all’epoca s’era appena diplomata in ragioneria e mai avrebbe immaginato di trovarsi un giorno a parlare davanti a giudici, ministri e generali, per difendere l’onore di suo marito e la speranza di riabbracciarlo, non s’è mai data per vinta. E adesso la sua tenacia sembra sia riuscita ad aprire un varco nel muro di false piste e omissioni alzato in quasi tre decenni, per tentare di derubricare il sequestro a un allontanamento volontario. La novità è di queste ore: anche il premier Giuseppe Conte ha deciso di schierarsi accanto alla famiglia Cervia, con una lettera inviata a Marisa (in risposta a una mail che la donna gli aveva inviato la scorsa primavera). Si tratta di un passo significativo, che prefigura un percorso. Dopo la sentenza con cui, nel gennaio 2018,il tribunale civile di Roma ha condannato la Difesa a risarcire (con un euro simbolico) i familiari di Davide per «aver violato il loro diritto alla verità» (e dopo le successive pubbliche scuse da parte della ministra Trenta, che ha rinunciato a proporre appello), è infatti la prima volta che un capo di governo assume un impegno ufficiale sull’affaire Cervia . «Il Presidente del Consiglio mi incarica di comunicarLe - ha scritto l’ammiraglio Carlo Massagli, consigliere militare di Conte - che il ministro della Difesa ha recentemente sottoposto alle valutazioni della IV commissione Difesa della Camera la possibilità di promuovere l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta che possa finalmente contribuire a fare luce sulle circostanze ancora oscure che riguardano la vicenda del Suo consorte». L’iter è dunque già iniziato. Dopo le commissioni d’inchiesta sul caso Moro, la loggia P2, le infiltrazioni di mafia e la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, presto il Parlamento tornerà a occuparsi di un altro grande mistero italiano. La volontà politica, ammesso che non emergano divisioni nel governo gialloverde, per ora c’è ed è rimarcata dall’ammiraglio nelle righe finali. «Nel ribadirLe il saldo sentimento di vicinanza che lega la Presidenza del Consiglio alla sua famiglia, Le esprimo i sensi della più alta considerazione per l’impegno da Lei profuso nella ricerca delle cause della scomparsa di Suo marito». Per Marisa è stato un tuffo al cuore. Leggere che il premier solidarizza con lei e le esprime «salda vicinanza» l’ha ripagata di 29 anni di fatiche e dolori, dell’umiliazione patita quando insinuavano che Davide era scappato con un’amante, della paura per le telefonate mute, i pedinamenti, le intimidazioni, del senso di vergogna per il suo Paese quando le offrivano soldi «per rassegnarsi» e la Marina militare faceva sparire fogli matricolari che provavano la specializzazione del papà dei suoi figli, con l’obiettivo di celare il movente del sequestro. Tutte condotte depistanti sulle quali la recente condanna del ministero della Difesa ha posto un punto fermo. Che Cervia sia stato rapito per essere venduto «come un pezzo di ricambio» a una potenza belligerante (così diceva il commovente cartello che la figlia Erika si appese al collo anni fa, durante una manifestazione a Roma), lo dicono, oltre alle reticenze di pezzi di istituzioni, i numerosi e gravi indizi che Marisa puntigliosamente ricorda. La incontro nella casa di Velletri, dove le rose rosse di Davide sono custodite in una scatola, dentro un cornice di legno, assieme a tutte le sue cose. «Per troppo tempo si è scelto di chiudere gli occhi di fronte ad elementi chiarissimi. Uno: la primavera precedente Davide prese il porto d’armi e comprò un fucile, come se sentisse la necessità di proteggere sé e noi. Due: a giugno un furgone giallo si presentò in fondo al viale, lui gli andò incontro, parlò col guidatore e al ritorno era sconvolto, fuori di sé, anche se non mi disse nulla per non allarmarmi. Tre: ad agosto, al ritorno da una vacanza, trovammo la recinzione bucata all’altezza del nostro posto auto, e anche questo lo visse malissimo, con grande preoccupazione. Quattro, una settimana prima, mentre guidava, la Golf andò inspiegabilmente a fuoco...» Per non parlare del testimone oculare: «Due mesi dopo il custode di una villetta vicina, preso dal rimorso di aver tenuto per sé un fatto così tremendo, nel timore di conseguenze personali, ci raccontò di aver visto da qualche decina di metri la scena: Davide veniva caricato a forza in un’auto ed era terrorizzato, gridava fortissimo...» Mi alzo. «Posso dire un’ultima cosa?» Prego. «Adesso questa lettera da Palazzo Chigi mi ha ridato speranza, ma mesi fa, in preda allo sconforto, dichiarai che mi sentivo ferita perché lo Stato usa due misure: una per i casi mediaticamente famosi, come quello di Stefano Cucchi, a un’altra per quelli come il nostro. Sia chiaro, io rispetto enormemente Ilaria, la stimo e sostengo la sua battaglia, perché Stefano fu ammazzato di botte. Ma anche Davide ha subito violenza, poverino. Sono certa sia stato torturato: chiedo soltanto che la giustizia metta tutti i cittadini sullo stesso piano». Marisa, ti posso chiedere un regalo? Una foto di Davide non in divisa, più spontanea. Si alza, apre un cassetto, me la porge: «È tra i miei ricordi più cari. Eccola, lui con la barba. E con i nostri figli, per i quali andava pazzo». Il piccolo, Daniele, volava tra le sue braccia, mentre Erika, che doveva avere 3 anni, rideva. È il quadretto di una famiglia felice, che mette i brividi. La guardo, nel salutarla: ha gli occhi colmi di lacrime.
· Roma di sangue. I delitti: Nicoloso, Anniballi, Cannella, Adinolfi e Rosati.
Roma di sangue, spuntano nuovi indizi e testimoni su 5 omicidi. Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. La parrucchiera? In famiglia non era solo benvoluta. L’attore? Aveva pestato i piedi a qualcuno, senza volerlo. La ragazza di borgata? Vittima di un maniaco. Può essere un guizzo della memoria o un colpo di fortuna, un testimone che riemerge o un parente che non si rassegna, un poliziotto in pensione folgorato da un insight investigativo o una foto rispolverata dagli archivi, da zoomare nei dettagli, come in un indimenticato film di Michelangelo Antonioni... Però, fortunatamente, succede. Non tutti i delitti romani rimasti senza colpevole sono destinati all’oblio. Nella lunga carrellata iniziata a fine inverno con il detective ucciso alla stazione Ostiense (Corriere, 4 marzo 2019) e conclusa a fine luglio con la vicenda di Davide Cervia, ne abbiamo ripercorse 22, di atroci storie di sangue avvenute nella capitale alla fine del secolo scorso. Scusandoci ogni volta con i familiari, nel chiedere loro di rivivere momenti di grande dolore. E tornando sulla scena del crimine, in cerca di spunti e suggestioni, su quegli stessi marciapiedi un tempo affollati da investigatori, medici legali, vicini di casa, curiosi, oltre che da noi giovani cronisti di nera. Ebbene, qualcosa è successo: in contrasto con la regola secondo cui o si trovano prove nelle prime 48 ore oppure l’indagine rischia di imballarsi, la lontananza dall’evento ha fatto balenare nuove piste per almeno 5 di quei remoti omicidi.
Il delitto della parrucchiera lo ricordano ancora molti, in Prati. Giusi Nicoloso, 70 anni, vedova e gran fumatrice, con molti amanti nel suo passato tra i quali un futuro sottosegretario democristiano, fu assassinata l’11 febbraio 1995, nella sua abitazione di via Cola di Rienzo. I documenti bancari trovati sul tavolo del salotto fornirono subito una traccia. Si parlò di usura, visto che la donna aveva l’abitudine di prestare soldi, poi di un anchorman delle tv locali, indebitato per molti milioni di lire, e infine di un pregiudicato catanese, una sorta di esattore della mafia, la cui impronta pareva corrispondere a una di quelle repertate. No, ora emerge uno scenario diverso. Secondo alcune persone ben informate, tuttora residenti in zona, il movente (soldi) non cambia, ma l’ipotetica mano assassina sì: a sferrare un pugno in faccia alla vittima, talmente violento da farle ingoiare la dentiera, potrebbe essere stata una persona della cerchia più intima, al culmine di una lite legata a una certa somma. E non basta: la Nicoloso - retroscena sempre taciuto - pochi giorni prima subì un ingente furto di gioielli, senza che porta o finestre venissero forzate. L’assassino possedeva la chiave?
Avanti. Anche per l’omicidio di «Francescone», al secolo Francesco Anniballi, attore, stuntman e controfigura di Bud Spencer ucciso a Centocelle nel 1992, le indagini procedettero a fatica, oscillanti tra il movente passionale e l’ipotesi della vendetta di una comparsa esclusa da qualche film, e quindi animata da rancore verso il collega. Niente di tutto ciò, a quanto pare: l’uomo, poveretto, potrebbe aver pagato con la vita qualche frase istintiva, frutto del suo carattere bonario e caciarone, pronunciata magari sul set, senza rendersi conto di pestare i piedi a qualcuno.
Su Alessia Rosati, la studentessa di Lettere scomparsa nel 1994 a Montesacro, è il padre Antonio, vigile urbano in pensione, a indicare la direzione: «Mia figlia non può essersi volatilizzata, chi sa parli». L’appello chiama in causa sia l’amica che ricevette una lettera sia i compagni di Alessia, militanti di Autonomia operaia, alcuni dei quali «attenzionati» dai servizi segreti, che non hanno mai collaborato alle ricerche.
E c’è anche una fotografia alla «Blow up», il film di Antonioni che racconta la caccia al killer grazie a dettagli scoperti nella camera oscura, in questa nera e tragica sequenza. Per Cinzia Cannella, tossicodipendente e pusher accoltellata nel gennaio 1992, si ipotizzò la vendetta di spacciatori rivali, ma oggi, in seguito a un attento esame della foto del cadavere scattata da Mario Proto in un prato del Tufello, si delinea una ricostruzione alternativa: i calzoni erano sbottonati, come in un tentativo di violenza sessuale. «Un’immagine di questo genere - commenta un investigatore - difficilmente sfuggì all’attenzione di chi indagò all’epoca. Di certo, rappresenta un indizio consistente da prendere in considerazione».
«Purtroppo il tempo passa ma le incredibili reticenze restano», riflette ad alta voce Lorenzo Adinolfi, avvocato e figlio di Paolo, il giudice fatto sparire nel luglio del 1994 in conseguenza di qualche sua indagine o sentenza: un caso di «lupara bianca» nel centro di Roma. «Ho ricevuto messaggi di solidarietà e affetto da centinaia di persone comuni - racconta con grande amarezza - ma neanche uno dai colleghi di papà, siano essi giudici della sezione fallimentare dove lui operò con rigore e onestà o attuali componenti del Csm o dell’Associazione magistrati. Del caso Adinolfi, un uomo perbene inghiottito dalla ferocia criminale e dall’omertà di un intero sistema, non si deve parlare. Ma si rassegnino - conclude l’avvocato, che all’epoca aveva 16 anni e tornò precipitosamente dalla vacanza studio in Inghilterra - io non mollo: la tragedia di mio padre dovrà pesare sulla coscienza di molti, finché non sarà fatta verità e giustizia».
· Alessia Rosati, un mistero lungo 25 anni.
Alessia, un mistero lungo 25 anni. Disse ai suoi: «Non faccio tardi». Non è più tornata. Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. E dunque è già passato un quarto di secolo: 25 anni di mistero e di angoscia, in attesa di una ragazza dai capelli ramati dissolta nel nulla, evaporata in una torrida estate romana, a Montesacro. Alessia quel 23 luglio 1994, uscendo dall’appartamento di via Val di Non dove la sua stanza è rimasta immutata, col lettino a una piazza e lo scrittoio in un angolo, disse ai genitori che doveva assistere all’esame di un’amica e di non preoccuparsi, sarebbe tornata in tempo per andare tutti insieme «a casa di nonno», a Bazzano, vicino Spoleto, anche se certo, gliel’aveva spiegato mille volte che a vent’anni «fare le vacanze in un paesello sperduto dell’Umbria non è una botta di vita!» Però quel mattino pareva bendisposta, serena... Macché. Aveva ben altro per la testa, la ragazza dai capelli ramati. Antonio Rosati e la moglie Anna, i genitori di Alessia. «In attesa di notizie da 25 anni». Il giallo di Alessia Rosati, studentessa di Lettere della «Sapienza» la cui scomparsa è stata accostata a quella di Emanuela Orlandi, è forse il più inquietante tra i tanti della Roma nera. Per il senso di vuoto, per la spaventosa assenza di tracce. «Non tornò a pranzo. Non tornò a cena. Non tornò a fine estate. E non è tornata in 25 anni - sintetizza il padre, vigile urbano in pensione, tuttora incredulo - mentre io, mia moglie Anna e il fratello, Danilo, sempre qui ad aspettarla. Sa qual è la sensazione più triste?» Dica. «Che mia figlia, in 21 anni di vita, è come se non sia transitata in questo mondo. Come se non abbia depositato sentimenti nelle persone da lei conosciute. Perché è strano, non le pare? Nonostante i miei tanti appelli sui giornali e in tv, nessuno ha telefonato o s’è fatto vivo, nessuno l’ha vista, nessuno sa, nessuno la cerca. Eppure, cavolo, lei è esistita, era qui!» Indica la cameretta. «Studiava, andava a spasso con le amiche, faceva politica, ascoltava musica...» Aggiunge serio: «Qualcosa non quadra. Troppo silenzio. Un paio d’anni fa la pm Alessia Miele convocò me e mia moglie. Non lo nascondo: il fatto che fosse donna e si chiamasse come mia figlia ci fece ben sperare. Però poi...» Spalanca le braccia. «Nulla. Come sempre. Dalla Procura tutto tace». Sulle prime si pensò a una fuga volontaria. Pochi giorni dopo un’amica, Claudia, ricevette una lettera in cui Alessia diceva che era partita con un ragazzo incontrato in via Conca d’Oro e intendeva viaggiare. Segnali d’insofferenza in effetti c’erano stati. «Una volta la sorpresi mentre usciva col pigiama in borsa, come se volesse restare fuori senza dircelo. E aveva venduto i suoi amati libri di Agatha Christie, come per mettere soldi da parte», ricorda la madre. Fin da subito, tuttavia, affiorarono dubbi. Innanzitutto perché la lettera presentava alcune anomalie, come se Alessia l’avesse scritta sotto minaccia e lei, inserendo dettagli inesatti, conosciuti soltanto ai suoi, avesse voluto mandare un sos sotterraneo. E poi perché non la cercavano neppure gli amici. «Sapevamo che frequentava il centro sociale Hai visto Quinto? ma non che avesse contatti con esponenti di Autonomia operaia, nella sede di via dei Volsci». Il padre trovò nella stanza un opuscolo anticapitalista, intitolato «Avanzi di scienza», e si stupì nello scoprire che la figlia fosse inserita nel comitato editoriale, assieme a suoi compagni che sarebbero diventati noti nella sinistra romana, come Gianluca Peciola. L’impegno militante poteva forse celare il movente? Nel 2015 sembrò arrivare la svolta. Una sera i genitori, al rientro a casa, trovarono sulla segreteria telefonica un messaggio di Marco Accetti, il testimone indagato (e poi prosciolto) per il caso Orlandi. «Vi voglio incontrare, so cosa è successo a vostra figlia». Accetti sosteneva di aver conosciuto Alessia e che si era trattato di un «finto sequestro», legato allo scandalo dei fondi neri nei servizi segreti civili, esploso quell’anno. «Allo stesso modo in cui nel 1983 il nostro gruppo promosse l’allontanamento da casa della Orlandi e della Gregori (Mirella, l’altra quindicenne sparita, ndr) per fare pressioni sul Vaticano, così nel 1994 contattammo la Rosati per simulare un sequestro, tramite il quale ricattare elementi del Sisde. Solo che fummo anticipati, la giovane sparì prima. Noi sospettammo per mano della stessa parte che volevamo colpire». Figuriamoci lo sconcerto di papà Rosati: catapultato in una spy story affollata di barbe finte e loschi figuri, in qualche modo responsabili della scomparsa della sua bambina. Non ne uscì niente di concreto, comunque. Dall’ultima fiammata sono passati 4 anni: le sole novità in Procura sono state l’iscrizione del caso Rosati a «modello 45» (fascicolo senza ipotesi di reato né indagati) e l’acquisizione delle testimonianze dei genitori, rimaste senza alcun seguito investigativo. «Il peggio è vivere di attesa. Se sai, almeno le porti un fiore sulla tomba», dice l’ex vigile urbano, guardando con dolcezza sua moglie. Sono appena tornati da Palestrina, dove hanno una casetta comprata con la vendita di quella in Umbria, che non piaceva ad Alessia. «Lavorare la terra è l’unica consolazione. Sudo, fatico e non penso. Le piante danno soddisfazione, a saperle prendere: ho messo l’innaffiamento a gocce, con l’orologio, così i pomodori crescono belli rossi, ma se non l’aggrappi bene si rovinano. E poi ho piantato le melanzane, le zucchine, tutti prodotti sani, naturali... E le albicocche, che quest’anno sono proprio buone, dolcissime...»
· Pier Paolo Minguzzi. Ucciso 31 anni fa.
Ora si indaga su due ex carabinieri e un idraulico. Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Il cadavere del giovane carabiniere venne trovato nel Po, legato a un’inferriata. Ma 31 anni dopo arriva la svolta nelle indagini della Procura di Ravenna sul cold case dell’uccisione di Pier Paolo Minguzzi, militare di leva 21enne sequestrato ad Alfonsine il 21 aprile 1987 e trovato morto a Volano, non lontano da Comacchio, il 1° maggio dello stesso anno. Come spiega alla stampa il procuratore capo Alessandro Mancini, «oggi, in tarda mattinata, sono stati notificati tre avvisi di fine indagine (atto che di solito prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, ndr) a tre soggetti per sequestro di persona e omicidio». Si tratterebbe di Angelo Del Dotto, Orazio Tasca e Alfredo Tarroni - i primi due ex carabinieri e il terzo idraulico — , mentre sarebbe stata stralciata la posizione di un quarto soggetto. Tra l’altro anche questo ex carabiniere. I tre furono già condannati, e hanno espiato la pena, per l’estorsione a un altro imprenditore del paesino nel ravennate, Roberto Contarini. Avevano organizzato un’estorsione ai danni di un imprenditore dell’ortofrutta del paese, Roberto Contarini. La sera in cui avrebbero dovuto intascare la somma, ad aspettarli nel luogo concordato con la famiglia Contarini trovarono una brutta sorpresa: una pattuglia di carabinieri. Estorsori avvisati dai parenti dell’imprenditore. Fu un inferno, sparatoria, sangue e pure una vittima. Sull’asfalto cadde un giovane dell’Arma, il ventitreenne Sebastiano Vetrano. Per quel delitto la banda dei carabinieri fu condannata a pene comprese fra i 22 anni e mezzo e i 25. Ebbene, ora si sospetta che tre mesi prima gli stessi possano aver rapito e ucciso Minguzzi. Il procedimento su Minguzzi è stato riaperto, prosegue Mancini, anche su richiesta della famiglia e le indagini hanno portato a «nuovi elementi probatori e indiziari», oltre a «valorizzare quelli già in possesso». Non sarebbe estranea la risultanza di una prova del Dna effettuata sui reperti trovati nelle unghie di Minguzzi. Inoltre, nell’armadietto di uno dei due militari indagati, fu trovato un libro di tecniche bondage con un’orecchietta su una pagina che mostrava la tecnica dell’incaprettamento: e il 21enne fu incaprettato a una grata sradicata da un casolare abbandonato di Vaccolino (Ferrara) prima di essere gettato nel Po di Volano, là dove fu recuperato una decina di giorni dopo. Così ora «il quadro indiziario risulta solido» e le accuse sono quelle di sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio e occultamento di cadavere. Un «castello indiziario e probatorio- sottolinea- che nasce da una constatazione di fondo: e’ impensabile che in un piccolo centro fiorente nel 1987 potessero operare più gruppi criminali». E infatti nulla di simile è accaduto prima e dopo. Ecco perché «due episodi gravissimi, con due carabinieri morti, sono ascrivibili alle stesse persone», che hanno elaborato «un progetto sequenziale di estorsioni». Mancini tiene il massimo riserbo sui nuovi elementi emersi, ma sottolinea che in una telefonata alla famiglia Minguzzi per il riscatto, la voce anonima, «per sbadataggine», ha più volte sbagliato persona, riferendosi a Contarini, vittima della successiva estorsione nel luglio del 1987, per poi correggersi. Inoltre le indagini condotte sui pregiudicati e sorvegliati speciali dell’epoca non avevano dato frutti. I tre, infine, «in maniera lampante si frequentavano assiduamente prima, durante e dopo i fatti». E i testimoni, risentiti, hanno confermato «alcuni aspetti». «Una vicenda simile merita il processo», rimarca ai cronisti: l’episodio infatti «scosse le coscienze di molti per la sua efferatezza». Per farlo annegare Minguzzi fu «zavorrato» con una grata di ferro di 16 chili e fu impossibile determinare altre lesioni. Il dirigente del Servizio centrale operativo, Alfredo Fabbrocini, esprime la sua «gioia professionale» per un caso «tra i più efferati a livello nazionale» su cui c’è stato «un notevole impegno».
· L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.
Patricia Tagliaferri per “il Giornale” il 6 agosto 2019. Come in ogni giallo inglese che si rispetti l' assassino era il maggiordomo. Solo che nel caso della contessa Alberica Filo della Torre, un omicidio rimasto per lungo tempo un mistero, chi indagava lo ha capito 20 anni dopo. Anche se la verità era a portata di mano, quasi banale nella sua semplicità, i magistrati all' epoca non l' hanno vista finendo per trasformare il delitto dell' Olgiata - dal nome della zona residenziale a nord di Roma dove è avvenuto - in un intrigo internazionale che di anno in anno si è alimentato delle trame più assurde, scomodando persino i servizi segreti e spingendo i pm in giro per il mondo, anche fino ad Hong Kong, alla ricerca di inesistenti conti off-shore. Un’inchiesta nata male e proseguita peggio. Fino al 2011, l'anno della svolta, quando le indagini - riaperte su sollecitazione del marito della vittima, l' ingegnere e costruttore Pietro Mattei, che non si è mai arreso neanche di fronte ai sospetti e ai veleni che lo hanno inseguito - hanno portato all' arresto del domestico filippino, Winston Manuel, che confessa immediatamente per togliersi dalla coscienza, disse proprio così, un peso che si portava dietro da 20 anni, tanto da aver chiamato la figlia con il nome della contessa. È stato lui il 10 luglio del 1991 ad uccidere la nobildonna nella camera da letto della sua bellissima villa, dove quel giorno fervono i preparativi per la festa dell' anniversario di matrimonio in programma la sera stessa. In casa c' è un festoso via vai di giardinieri, camerieri e operai. Ci sono due domestiche filippine, i figli della contessa, Manfredi e Domitilla, e la loro tata inglese. Nessuno bada a Manuel, che entra di soppiatto e che comunque tra quelle mura ci aveva lavorato fino a un paio di mesi prima, quando era stato licenziato perché beveva troppo. Ha bisogno di lavorare, vuole parlare con Alberica, sale nella sua stanza, lei lo sorprende, la situazione degenera, lui prima la stordisce con uno zoccolo, poi la strangola, arraffa qualche gioiello e scappa dalla finestra senza che nessuno lo veda. Elementare, a posteriori. Ma a rendere questo delitto uno dei casi che ha maggiormente appassionato l' opinione pubblica negli ultimi decenni è quello che accade nel corso delle indagini, prima che esse puntino con decisione a Manuel Winston, che pure fu tra i primi indagati insieme a un giovane vicino di casa, Roberto Jacono, figlio dell' insegnante di inglese dei figli dei coniugi Mattei, rimasto a lungo il principale indiziato e salvato dall' esito negativo dell' analisi sulle tracce ematiche riscontrate sui suoi pantaloni. Anche sul filippino gli investigatori indugiano a lungo, lo interrogano, il suo dna viene confrontato con le tracce si sangue trovate nella stanza. Ma niente, la pista viene accantonata. Eppure la soluzione era a due passi, perché Manuel subito dopo il delitto viene intercettato mentre parla con il ricettatore contattato per disfarsi dei gioielli della contessa. Conversazioni determinanti, che però curiosamente non vengono mai tradotte né ascoltate. I magistrati si buttano invece a capofitto su ben altre ipotesi investigative. La più scontata, dolorosa per lui e anche lontana dalla verità, è quella che inizialmente concentra sospetti e insinuazioni sul vedovo, nonostante il suo alibi di ferro, scavando anche nel passato della contessa alla ricerca di chissà quale segreto nascosto che potesse giustificare un delitto passionale. Una delle piste più suggestive, invece, è quella di fantasiosi collegamenti tra il delitto e l' inchiesta sui fondi neri del Sisde, alimentata dall' amicizia di Pietro Mattei e della contessa con Michele Finocchi, ex funzionario dei servizi segreti. La mattina in cui viene ritrovato il corpo della nobildonna, è lui tra i primi ad intervenire nella villa dell' Olgiata, che era solito frequentare. Così, quando nel 1993 scoppia lo scandalo, gli inquirenti cercano di collegare le due vicende, cominciano ad indagare all' estero, ficcano il naso nei conti a tanti zeri della contessa a caccia di trame da spy story buone solo per i titoli dei giornali, che poi andranno a nozze anche con un' altra fascinosa ipotesi investigativa che sembra prendere piede nel 2004, quella che vede i riflettori accendersi su un vicino di casa della nobildonna, un finanziere di Hong Kong che si diceva fosse esperto di arti marziali, dettaglio che alimenta le fantasie sulla particolare forma di strangolamento con la quale, dopo il colpo in testa sferrato con lo zoccolo, era stata finita Alberica. Passano gli anni, ma la soluzione del caso sembra sempre più lontana. Soltanto la caparbietà di Pietro Mattei, che anno dopo anno si oppone a ben tre richieste di archiviazione avanzate dalla Procura, consente la svolta definitiva. Vent' anni dopo. E grazie ad un magistrato donna che ricomincia ad indagare dal principio, come se l' omicidio fosse stato appena commesso. Accantonate le altre ipotesi, la verità arriva da nuove analisi scientifiche effettuate sul lenzuolo trovato avvolto intorno al collo della donna. Proprio da lì, dove le indagini erano partite e proseguite a vuoto, salta fuori una macchia di sangue di un paio di centimetri diversa dalle altre. Gli esami del Ris nel 2001 confermano che in quella traccia ematica c' è il Dna di Winston, che evidentemente si era ferito durante la colluttazione. Sembra incredibile, ma l' assassino era lui, il sospettato numero uno, che dopo aver vissuto per due decenni con il rimorso per quello che aveva fatto, accoglie come una sorta di liberazione il momento dell' arresto. «Sono stato io ad uccidere la contessa», confessa tra le lacrime, chiedendo scusa alla famiglia Mattei e spiegando al magistrato il movente di un delitto assurdo nella sua banalità: era stato mandato via da quella casa, ma aveva bisogno di lavorare ed era tornato per parlarne con la contessa. Poi quella discussione degenerata, arrivata dopo aver bevuto un bicchiere di whisky per farsi coraggio. Nessun amante deluso, nessun segreto, né tanto meno storie da 007. La verità era davanti agli occhi di tutti, ma nessuno l' aveva messa a fuoco. Troppo semplice, forse. Era stato proprio lui, quel filippino che la contessa aveva sempre considerato inaffidabile, al punto da licenziarlo. Proprio quel domestico sul quale gli investigatori si erano così a lungo soffermati nelle prime fasi delle indagini. Dopo un giallo durato tanti anni il processo arriva in fretta e scorre via veloce: ormai non ci sono più misteri da risolvere.
· Thomas Quick. L'uomo che si inventò Serial Killer.
Paolo Beltramin per Il Corriere della Sera/Sette il 25 agosto 2019. L’uomo che un tempo si faceva chiamare Thomas Quick, noto come il più feroce serial killer d’Europa, oggi è un libero cittadino. Ha una nuova identità, vive in un Paese straniero dove nessuno lo può riconoscere. Arrestato nel 1991, ha confessato 39 omicidi compiuti nell’arco di vent’anni; per otto di questi era stato condannato in via definitiva, da sei tribunali diversi. Oggi cammina tranquillo per la strada, scatta fotografie di panorami che pubblica in un profilo chiuso su Instagram. Giura: «Da anni non prendo più stupefacenti né psicofarmaci». Lui che un tempo adorava specchiarsi nelle prime pagine dei giornali, adesso non vuole più parlare con nessuno della lunga stagione in cui è stato Thomas Quick. Accetta di rispondere soltanto a una domanda diretta. Si sente in colpa con i familiari delle vittime? «Rispetto il loro dolore, sono profondamente dispiaciuto per quanto è successo. In questa storia, però, sono una vittima anch’io». E in qualche modo ha ragione. Perché questa non è soltanto la storia di un uomo completamente pazzo, ma di un’ingiustizia ancora più grande della sua follia.
Il nome scelto in un ospedale psichiatrico. Quando tutto cominciò Thomas Quick è il nome che si era scelto quando era entrato, a 41 anni, nella clinica di Säter, ospedale psichiatrico modello, 200 chilometri a nord di Stoccolma. Era stato fermato dalla polizia dopo una rapina in banca, travestito da Babbo Natale. Gli servivano i soldi per comprarsi la droga, ai cassieri aveva urlato: «Ho l’Aids, mi resta poco da vivere, non ho niente da perdere». Ma non era vero. Sono autentici invece i precedenti per spaccio e molestie, oltre al trauma di un compagno morto impiccato. Di fronte alle sue suppliche, il giudice gli aveva concesso il ricovero al posto del carcere. Quick, come il cognome della madre. Thomas, come il nome della sua prima vittima, un quattordicenne che dirà di aver violentato e ucciso quando aveva la sua stessa età, omicidio per il quale non verrà mai processato: la confessione arriva a termini di prescrizione già scaduti. All’anagrafe invece è Sture Bergwall, figlio di genitori ferventi pentecostali, ormai scomparsi.
«Ho ucciso un ragazzino e l’ho mangiato». I primi mesi a Säter vive come un fantasma, fino a quando comincia a ricordare — e a raccontare — le molestie subite da bambino, conquistandosi l’attenzione degli psichiatri. Suo padre lo aveva violentato più volte davanti agli occhi della madre e un giorno aveva pure ucciso un suo fratellino, Simon, e fatto sparire il cadavere. Nei registri però non c’è traccia di nessun Simon Bergwall, mentre i sei fratelli di Sture raccontano di aver passato un’infanzia senza ombre. A inizio 1993, durante un’uscita dalla clinica per andare a una lezione di nuoto, Quick si rivolge all’infermiera che lo accompagna: «Cosa succederebbe se confessassi qualcosa di veramente terribile?». Il primo omicidio che svela è la soluzione di uno dei grandi misteri svedesi, la scomparsa nel 1980 di Johan Asplund, 11 anni, il cui cadavere non era mai stato trovato. Le parti smembrate del corpo le ha sepolte in luoghi diversi, alcune le ha mangiate.
In jet privato per cercare i resti di Therese. Therese Johannesen, 9 anni, l’ha uccisa nel 1988 a Drammen, in Norvegia, fracassandole il cranio contro una pietra. Poi l’ha fatta a pezzi. L’assassino viene portato sul luogo del delitto con un jet privato, sperando che riesca a localizzare i resti della piccola. I telegiornali lo mostrano che vaga tra gli alberi, circondato da magistrati, psicoterapeuti e giornalisti. A un certo punto indica un laghetto semi ghiacciato: la polizia impiega due settimane a setacciarlo — 35 milioni di litri d’acqua pompati e filtrati due volte — senza trovare nulla. Poco lontano, però, viene individuato un piccolissimo frammento, di appena 0,5 millimetri, che al processo un esperto certificherà essere un osso appartenente a un essere umano tra i 5 e i 15 anni.
Le cronache del «mostro di Svezia»: 50 mila pagine. A ogni confessione seguono nuove spedizioni: in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca. Il caso finisce sui giornali di tutto il mondo. «Il mostro di Svezia gela la polizia», è il titolo di un articolo del Corriere della Sera nel 1996 a proposito del «più crudele omicida seriale della storia europea». Viene descritto così: «Quick è capace di nascondersi dietro una facciata mansueta per poi colpire con fredda ferocia. Quando egli conduce poliziotti e giudici nei posti in cui afferma di aver ucciso o sepolto qualcuno, sembra quasi assente, distratto, confuso, come se la memoria gli si fosse annebbiata o come se l’assassino fosse un altro». Quello che non torna Le incongruenze nelle sue ricostruzioni, pur numerose, non turbano gli inquirenti. E neppure l’unicità assoluta di questo serial killer logorroico che in 50 mila pagine di deposizioni ha svelato di aver violentato e ucciso indifferentemente bambini e adulti, uomini e donne, usando ogni volta un modus operandi diverso, ma sempre senza lasciare tracce e senza farsi vedere da testimoni.
I processi e le condanne, poi i primi dubbi. Uno dopo l’altro arrivano i processi e le condanne: per l’omicidio dei piccoli Johan e Therese; di Charles Zelmanovits, 15 anni, che nel lontano 1976 Quick aveva caricato in macchina a Piteå, e del cui corpo senza vita aveva continuato ad abusare; della diciassettenne Trine Jensen, violentata e strozzata con la tracolla della borsa nel 1981, a Oslo, come la ventitreenne prostituta Gry Storvik, quattro anni dopo; dei turisti olandesi Marinus e Janny Stegehuis, nel 1984, trafitti da decine di pugnalate attraverso il telo della tenda nella quale campeggiavano; e infine di Yenon Levi, ventiquattrenne studente israeliano in visita ad alcuni parenti nel 1988, rapito nei pressi di una stazione e ammazzato in una foresta della contea svedese di Dalarna. Sembra solo l’inizio: gli inquirenti hanno un’altra trentina di casi da verificare. Tra i parenti delle vittime e i cronisti che seguono i processi, però, qualcuno nutre dei dubbi.
Sette anni di mutismo, ma non è Hannibal Lecter. A parte le confessioni, ci sono solo prove indiziarie. Quick è così infastidito dal fatto che la sua colpevolezza sia messa in discussione, che nel 2001 compie una protesta eclatante: «Faccio una pausa, forse per il resto della mia vita». E si riprende il suo nome, Sture Bergwall. Non collaborerà più con i magistrati, stufo di affrontare gli scettici, «con tutto quello che ho combattuto per l’accuratezza nel descrivere i crimini che ho commesso». Passano 7 anni nei quali Bergwall, sempre rinchiuso nella clinica di Säter, non rivolge la parola a nessuno. Il giornalista Hannes Råstam è stupito e agitato quando finalmente riesce a ottenere un incontro con lui, il 2 giugno 2008. Mentre passa i controlli di sicurezza e percorre i lunghi corridoi dell’ospedale, sembra un po’ come Jodie Foster prima del faccia a faccia con Anthony Hopkins nel Silenzio degli Innocenti. Anche il suo interlocutore si rivelerà affabile e cordiale. Ma più che la versione svedese di Hannibal Lecter, gli sembrerà soltanto un povero pazzo.
Rivedere l’inchiesta: un lavoro colossale. Nei mesi successivi Råstam si butta a capofitto nel caso. Assume una collaboratrice di 26 anni, Jenny Küttim, per farsi dare una mano in un colossale lavoro di revisione dell’inchiesta. «Abbiamo visto tutti i filmati degli interrogatori, abbiamo studiato gli atti dei processi e le cartelle cliniche» racconta lei a 7. «Poi siamo ripartiti da zero e abbiamo verificato ogni elemento. Quello che oggi si dice fact checking». A settembre Råstam torna da Bergwall, ormai persuaso che il serial killer Thomas Quick sia soltanto un’invenzione, e lo travolge di domande. Il pluricondannato lo guarda in silenzio, poi gli chiede: «Se non fossi stato io a commettere quegli omicidi, cosa dovrei fare?». Nel dicembre 2008 la tv svedese trasmette un documentario di Råstam che lascia il Paese senza parole. Il giornalista si mette al lavoro su un libro che diventerà un bestseller mondiale: Quick. Il caso del serial killer sbagliato, pubblicato in Italia da Rizzoli. Non farà a tempo a vedere i frutti del suo lavoro: muore il giorno dopo aver consegnato il manoscritto, per un tumore al pancreas.
Grazie ad Hannes, annullate tutte le condanne. «Hannes è il vero eroe di questa storia» lo ricorda Küttim «Oltre che un grande giornalista era un musicista, adorava la vita e le persone. Ha lasciato una moglie e tre bambini che amava più di ogni cosa, anche se negli ultimi anni aveva dedicato tutto il suo tempo a questa inchiesta. Sapeva di aver fatto lo scoop della vita, ma a lui interessava soltanto che venisse fatta giustizia». Negli anni successivi, una dopo l’altra, tutte le condanne di Bergwall vengono annullate. A 23 anni dalla fallita rapina in banca, nel 2014 esce dall’ospedale psichiatrico da uomo libero. Già nel 1992, dopo le prime sedute in cui aveva cambiato nome e si era inventato le molestie infantili, Thomas Quick era stato trasferito nel celebre “reparto 36”. Gestito da un gruppo di psicologi e psicanalisti d’avanguardia, aveva il suo faro nella carismatica Margit Norell, morta nel 2005 a 90 anni, ancora persuasa della colpevolezza del suo celebre paziente, e grande sostenitrice della “recovered memory therapy”. In sostanza — era il credo di quella che i detrattori definivano “la setta” — i criminali non farebbero che ricreare gli abusi subiti da piccoli e poi cancellati.
Le colpe degli psichiatri di Säter: una «setta». «Le intuizioni del primo Freud venivano fatte passare per scienza esatta» spiega Küttim «Bergwall non riusciva ad accettare la sua omosessualità? Secondo i brillanti dottori di Säter l’unica spiegazione possibile erano le violenze paterne. Loro pensavano di dover recuperare i ricordi traumatici rimossi dal paziente, ma in realtà lo stimolavano a produrre memorie completamente false». Il guaio ulteriore è che per farlo parlare, i medici lo imbottivano di medicinali dai pesanti effetti collaterali. «Le droghe erano il premio per le sue confessioni. Capito questo meccanismo, tutto è diventato chiaro», ricorda Küttim. «Più raccontavo più benzodiazepine mi davano», ha confermato lo stesso Quick. «E più ne ingurgitavo, più cose avevo da raccontare». Ma da dove arrivavano tutte le informazioni con cui un malato psichiatrico aveva beffato per anni polizia e magistrati? Dalla biblioteca nazionale di Stoccolma, alla quale aveva accesso liberamente e dove amava consultare i vecchi quotidiani. Il resto lo desumeva dal modo in cui gli venivano formulate le domande («sapevo che mi bastava ascoltare con attenzione»), e qualche nota pulp la prendeva da romanzi come American Psycho, che proprio i medici incoraggiavano a leggere per ricordare meglio.
L’unica prova materiale, un abbaglio. Quanto all’unica prova materiale di tutta l’inchiesta, il microscopico frammento di osso umano trovato vicino a un “luogo del delitto”, una nuova perizia ha svelato il mistero: in realtà non era un tessuto organico ma una scheggia di legno misto a colla. I familiari di tutte le vittime che Thomas Quick ha confessato di aver ucciso oggi aspettano ancora di conoscere il vero colpevole. Con il tempo che è trascorso, le speranze ormai sono ridotte al minimo. Solo un caso è stato risolto, quello di una coppia di rifugiati somali, dati per dispersi da anni, che Quick aveva raccontato di aver trucidato insieme e poi mangiato. I due, si è scoperto, sono vivi e vegeti in un altro Paese.
· Delitto Khashoggi.
Riad, 5 condanne a morte per l’omicidio di Khashoggi. Pubblicato lunedì, 23 dicembre 2019 da Corriere.it. Cinque persone sono state condannate a morte e altre tre hanno ricevuto una sentenza per un totale di 24 anni di prigione in Arabia Saudita per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita ad Istanbul nel 2018. Lo ha annunciato oggi la procura di Riad. È stato, invece, rilasciato il capo della propaganda Saud al-Qahtani, stretto consigliere del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Secondo le indagini condotte dagli esperti dell’Onu c’erano «prove credibili» di responsabilità individuali del principe e del suo consigliere. Il 2 ottobre 2018 Jamal Khashoggi, un giornalista saudita del Washington Post residente negli Usa, entrò al consolato di Istanbul per ottenere un documento per sposare la fidanzata Hatice Cengiz e non ne uscì vivo. Quel 2 ottobre Cengiz aspettò per tre ore davanti al consolato con il cellulare del fidanzato in mano, mentre all’interno lui veniva soffocato e fatto a pezzi. Il cadavere non è mai stato ritrovato. Nel processo Riad ha incolpato i servizi segreti «deviati» e incriminato 11 persone.
Arabia Saudita, cinque condanne a morte per l'assassinio di Jamal Khashoggi. Prosciolto "per mancanza di prove" Saud al-Qahtani, ritenuto l'assistente del principe ereditario, Mohammed bin Salman. Assolto il numero due dell'intelligence, il generale Ahmed al-Assiri. La Repubblica il 23 dicembre 2019. Cinque persone sono state condannate a morte in Arabia Saudita per l'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre del 2018. Lo ha annunciato la procura di Riad. Ad altre tre persone sono state inflitti 24 anni di carcere. Condannati alla pena capitale, a cui però potranno fare appello, riporta il Middle East Eye, Maher Abdulaziz Mutreb, una delle guardie del corpo del principe ereditario, e il dottor Salah al-Tubaigy, a capo dell'unità forense giunta da Riad, che avrebbe fatto a pezzi il corpo del reporter. Prosciolto "per mancanza di prove" Saud al-Qahtani, ritenuto l'assistente del principe ereditario, Mohammed bin Salman. Secondo le indagini condotte dagli esperti dell'Onu c'erano "prove credibili" di responsabilità individuali del principe e del suo consigliere. Assolti anche l'ex numero due dell'intelligence, il generale Ahmed al-Assiri e il console generale saudita a Istanbul ai tempi dell'assassinio, Mohammad al-Otaibi. Al-Qahtani e al-Assiri sono considerati la mente del delitto. Secondo Human Rights Watch il processo non ha soddisfatto gli standard internazionali. Nel documento di 100 pagine delle Nazioni Unite su quanto avvenuto nell'ottobre 2018 al collaboratore del Washington Post, acceso critico della Corona saudita, si definisce il suo omicidio come "un crimine internazionale del quale lo Stato dell'Arabia Saudita è responsabile in base alle leggi internazionali sui diritti umani" e "un'esecuzione deliberata e premeditata". Secondo la relatrice speciale Onu, Agnes Callamard, che chiede un'indagine a livello internazionale, la morte di Khashoggi fu un omicidio extragiudiziale, il tentativo di rapirlo una violazione delle leggi a tutela dei diritti umani, forse classificabile come tortura, e le indagini condotte dall'Arabia Saudita e dalla Turchia non hanno rispettato gli standard internazionali.
La fidanzata di Khashoggi «L’Italia smetta di tacere e chieda la verità». Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Viviana Mazza. Hatice Cengiz al Senato, invitata da Emma Bonino, parla del giornalista saudita del Washington Post ucciso nel consolato di Istanbul. «Tra i Paesi europei che ho visitato l’Italia non ha mostrato grande appoggio per la mia causa. Perché questo silenzio? Non mi aspetto che boicottiate l’Arabia Saudita, è naturale che i leader mondiali proteggano i loro interessi economici, ma devono dire qualcosa sull’assassinio di Jamal Khashoggi. Se il prossimo novembre andranno al G20 a Riad e non sollevano la questione, legittimeranno le azioni del Regno». È domenica e in piazza del Pantheon qualcuno sta suonando vecchie canzoni d’amore mentre andiamo incontro a Hatice Cengiz, la fidanzata di Jamal Khashoggi, giunta a Roma su invito di «Non c’è pace senza giustizia». Nei mesi scorsi la Ong fondata da Emma Bonino l’ha aiutata a portare la sua testimonianza all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e al Parlamento europeo. Domani, al Senato, questa trentasettenne ricercatrice turca di studi islamici parlerà dell’uomo che amava, Jamal Khashoggi, il giornalista saudita del Washington Post che il 2 ottobre 2018 entrò al consolato di Istanbul per ottenere un documento per sposarla e non ne uscì vivo. S’erano conosciuti a una conferenza a Istanbul nel maggio 2018 — lei sorride per un attimo al ricordo, prima di tornare seria e rigida —. Lo aveva notato in tv nel 2010 («Parlava delle Primavere Arabe come un’opportunità per la democrazia») e si era registrata su Twitter apposta per seguirlo. Alla conferenza lo intervistò ma era così nervosa che non gli chiese nemmeno il biglietto da visita. Fu lui a ricontattarla, cominciarono a frequentarsi, tre mesi dopo Jamal chiese la sua mano. Quel 2 ottobre Cengiz aspettò per tre ore davanti al consolato con il cellulare del fidanzato in mano, mentre all’interno lui veniva soffocato e fatto a pezzi. Il cadavere non è mai stato ritrovato. Da aprile lei si è lasciata alle spalle Istanbul (e anche la scorta che la seguiva ovunque) per trasferirsi a Londra: vuole imparare l’inglese «per parlare al mondo», anche se con noi usa un interprete turco. Forse è una battaglia senza speranza, ma non può fare altrimenti. «Come fanno — chiede — i genitori di Giulio Regeni?». Riad ha incolpato i servizi segreti «deviati» e incriminato 11 persone; 5 potrebbero essere giustiziate, ma tra gli imputati non c’era per esempio il capo della propaganda Saud Al Qahtani, che minacciò Khashoggi. Il ministro degli Esteri Al Jubeir in un’intervista ci ha detto che l’omicidio è stato un «tragico errore» ma è «ridicolo» accusare il principe ereditario Mohammed bin Salman di averlo ordinato. «Come posso credere a quello che dicono? Due giorni dopo l’omicidio hanno fatto entrare i giornalisti al consolato per mostrare che Jamal non c’era, dicevano di non sapere nulla. Poi questo processo farsa: non dico che gli 11 imputati siano innocenti, ma è impossibile che i più alti funzionari fossero all’oscuro di tutto, anche se non so se sia coinvolto lo stesso principe». Un rapporto presentato a giugno da Agnès Callamard, relatrice speciale per le esecuzioni extragiudiziali dell’Onu, non dice chi abbia ordinato l’omicidio ma raccomanda di indagare ai vertici, incluso il principe Mohammad bin Salman. «Sono d’accordo. Sappiamo che questo assassinio è stato pianificato e che c’è dietro lo Stato, è necessaria una vera inchiesta». Khashoggi credeva nelle riforme ma non voleva rovesciare la monarchia, a un certo punto cercò fondi sauditi per creare un think tank a Washington. Ma prese contatti anche con una fondazione finanziata dal Qatar e, in passato, con la Fratellanza Musulmana. È stato questo a metterlo nei guai? «Quand’era trentenne aveva avuto una punto di vista islamico e legami con i Fratelli Musulmani, ma è una cosa naturale per un ricercatore nato in quel Paese: Jamal aveva molti contatti in quanto giornalista ma chiunque abbia letto i suoi articoli sa che era politicamente indipendente da tutti questi gruppi e aveva una mentalità aperta. Amava il suo Paese e professava la sua fedeltà al re e al principe ereditario anche quando ne criticava scelte che considerava sbagliate. Non devo dirvelo io che era un patriota, lo diceva lui stesso».È vero che Khashoggi aveva paura di essere imprigionato, ma non ucciso? «Né lui né io avremmo mai immaginato una cosa del genere. Nei primi giorni ero convinta che con la pressione dei manifestanti e dei giornalisti sarebbe stato rilasciato dal consolato. La prima volta che ho avuto pensieri cupi è stato quando i notiziari turchi hanno svelato che una squadra di sauditi era arrivata a Istanbul e subito ripartita con jet privati. Il 19 ottobre 2018, quando il Regno ha annunciato che Jamal era stato ucciso, sono entrata in uno stato di choc. Ma se non parlo io non lo farà nessuno. Jamal aveva una moglie e dei figli prima di me, ma è stato ucciso dal loro Stato, non possono dire niente. Non dormirò la notte se non faccio la mia parte».
Da “la Stampa” il 27 settembre 2019. «È accaduto sotto i miei occhi. Mi assumo tutta la responsabilità perché è accaduto sotto i miei occhi». Così l'erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, sull' omicidio del giornalista dissidente del Washington Post, Jamal Khashoggi, assassinato lo scorso 4 ottobre nel consolato saudita a Istanbul da un commando partito dalla monarchia del Golfo. Nell' intervista è stato chiesto al principe se il commando avesse utilizzato jet privati del governo per recarsi in Turchia. «Ho dei funzionari, dei ministri che seguono le cose e che sono responsabili», ha risposto così bin Salman al giornalista.
Delitto Khashoggi, gli audio delle ultime parole del giornalista: «Soffoco». E un killer: «So come farlo a pezzi». Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Corriere.it. «Non copritemi la bocca. Così mi soffocherete». Sarebbero state queste le ultime parole del giornalista saudita dissidente Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre del 2018. A rivelarlo il giornale turco Daily Sabah che ha trascritto le registrazioni ottenute dei servizi di intelligence di Ankara, e finite nelle mani delle autorità turche, poco dopo l’omicidio della voce scomoda per il regime saudita. Trascrizioni integrali, parzialmente diffuse nei mesi scorsi, che rafforzano ulteriormente la tesi che a premeditare l’esecuzione del giornalista sia stato proprio il principe coronato saudita Mohammed bin Salman, ma che conferma anche molti dettagli sulla morte dell’uomo, già contenuti in un rapporto dell’Onu divulgato lo scorso giugno. Fatto a pezzi prima di essere trasportato fuori dal consolato, il corpo di Khashoggi non è mai stato ritrovato.
Quel 2 ottobre al consolato, dove Khashoggi si era recato per ritirare dei documenti necessari per il matrimonio con la fidanzata turca, era presente anche il responsabile di Medicina legale del Dipartimento di sicurezza generale saudita, il dr. Salah Muhammad Al- Tubaigy. La prima registrazione che lascia intuire come l’assassinio del giornalista fosse già definito è quella che vede protagonista il medico con Maher Abdulaziz Mutreb, ufficiale dell’ambasciata saudita, e uno degli uomini di quella che è stata ribattezzata la «squadra della morte».
«È possibile mettere il corpo in una borsa?», chiede Mutreb al medico prima dell’arrivo al consolato di Khashoggi. Sono le 13:02, dodici minuti prima dell’arrivo del giornalista.
«No. È troppo pesante, è molto alto», risponde Al-Tubaigy riferendosi alla corporatura del giornalista. Segue una spiegazione raccapricciante su come far sparire il corpo del dissidente, dettagli che fanno intuire l’efferatezza degli esecutori di Khashoggi: «So come smembrare (un corpo, ndr) molto bene. Non ho mai lavorato su un corpo caldo, ma so come gestire la situazione facilmente. Di solito mi metto le cuffie nelle orecchie e ascolto musica quando seziono i cadaveri. Nel frattempo, bevo un caffè e fumo una sigaretta. Dopo averlo smembrato, dovrete impacchettare le parti in alcuni sacchetti di plastica e portarlo fuori dall’edificio con delle valigie».
Stando sempre alle trascrizioni degli audio, Al-Tubaigy riferisce a Mutreb di non aver informato il suo superiore. «Non c’è nessuno che mi protegge», spiega, probabilmente nel tentativo di garantirsi la tutela del regime. Al termine della conversazione, Mutreb chiede informazioni sui movimenti di Khashoggi, riferendosi a lui come «l’animale da sacrificare». Alle 13:14 il giornalista arriva al consolato. Viene accolto da una persona di sua conoscenza che lo invita a seguirlo nell’ufficio al secondo piano per incontrare nel suo ufficio il Console Generale Mohammad al-Otaibi. Un invito che accende i sospetti di Khashoggi, tanto che i suoi aguzzini sono costretti a trascinarlo nell’ufficio invitandolo a sedersi. È qui che il giornalista critico contro il regime saudita ha chiara la sua fine. Lo intuisce vedendo un asciugamano che, più tardi, verrà usato per addormentarlo. «Volete drogarmi?», chiede. L’ordine di cattura dell’Interpol citato da Mutreb è solo una scusa per calmare Khashoggi, ben consapevole di non avere «nessuna causa contro di me» e quindi di non essere obbligato a tornare in Arabia Saudita. Viene anche invitato a inviare un messaggio al figlio per rassicurarlo, cosa che si rifiuta di fare: «Devi scrivere qualcosa come “Sono a Istanbul. Non preoccuparti se non riesci a contattarmi”». Un altro soggetto dello “squadrone” invita Mutreb a «tagliare a corto». Da qui la situazione precipita. Gli esecutori passano all’azione, mettendo l’asciugamano sul viso di Khashoggi. «Non tappatemi la bocca. Ho l’asma. Non fatelo, mi farete soffocare», sono le ultime parole del giornalista.
«Dorme? Ha alzato la testa. Continua a spingere», l’invito all’aguzzino incaricato di drogare il giornalista. Da qui in poi, riporta l’articolo del Daily Sabah, solo i rumori della colluttazione e della sofferenza del dissidente che lotta fino alla fine. Pochi minuti dopo, alle 13:39, inizia lo smembramento del corpo da fare sparire, operazione che dura circa mezz’ora. Il principe Mohammed bin Salman ha sempre negato ogni coinvolgimento nell’uccisione di Khashoggi. Riad ha prima offerto spiegazioni confuse sulla scomparsa del giornalista, parlando di una morte in seguito a una «colluttazione». Poi ha ammesso che è stato assassinato ma da servizi deviati. Per l’omicidio, il regime ha rinviato a giudizio 11 persone.
«Non seppellite la forza del giornalismo libero» L'appello al G20 della fidanzata di Khashoggi. Nel giorno in cui si celebra la lotta contro l’impunità la lettera aperta della compagna del reporter ucciso e del Segretario generale di Reporters sans frontières: «Dovete pretendere dall’Arabia Saudita un impegno chiaro per la difesa della libertà di stampa, iniziando con la liberazione dei 32 giornalisti che si trovano in carcere». Christophe Deloire e Hatice Cengiz il 2 novembre 2019 su La Repubblica. Christophe Deloire è il Segretario generale di Reporters sans frontières (RSF), Hatice Cengiz era la fidanzata di Jamal Khashoggi. Ogni 2 novembre, grazie ad una risoluzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si celebra la lotta contro l’impunità che purtroppo caratterizza, ancora oggi, le violenze perpetrate contro i professionisti dell’informazione. Una mobilitazione corale, a livello internazionale, è ancora necessaria visto che più del 90% dei crimini commessi contro i giornalisti restano impuniti. Per sottolineare l’imperiosa necessità di questa lotta, basta oggi rievocare quegli omicidi che, per via delle loro specificità, autori e vittime, presentano una rilevanza del tutto particolare. L’uccisione di Jamal Khashoggi, nella sede del consolato d’Arabia Saudita a Istanbul, rientra, ad esempio, in una categoria di omicidi che credevamo appartenere al passato: il “crimine di Stato”. Commesso da alcuni sicari del regime saudita, e ordinato da alti rappresentanti del Paese, in condizioni che la procedura investigativa ufficiale avviata da Riad non permette d’identificare chiaramente, questo crimine getta una tragica ombra su tutto il regime. Non possiamo, pertanto, accontentarci del fatto che il principe ereditario Mohammed Bin Salman (MBS) abbia, tardivamente, ammesso la sua “responsabilità” in un’uccisione commessa “sotto la sua autorità”. Un crimine di Stato implica delle vere scuse pubbliche, ricorda Agnès Callamard, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie. Ora, queste scuse, le stiamo ancora aspettando. Esattamente come i familiari e gli amici di Jamal Khashoggi continuano ad aspettare i suoi resti, e che giustizia venga fatta. Il processo, che si sta svolgendo a porte chiuse, non rispetta alcuno standard internazionale della giustizia. Cinque presunti autori dell’uccisione potrebbero essere condannati a morte. Non ci rallegriamo certamente per la severità di questa possibile pena, anzi deploriamo il fatto che, con questa decisione, la giustizia saudita potrebbe condannare per sempre al silenzio chi conosce alcuni dei lati segreti di questa operazione criminale. Dall’uccisione di Khashoggi ad oggi, le autorità saudite hanno continuato a reprimere i giornalisti esercitando su di loro una violenza inaudita. Almeno 32 giornalisti, professionisti o meno, sono oggi detenuti nelle carceri del paese. Da quando MBS ha preso in mano le redini del potere, il numero di giornalisti detenuti è raddoppiato. E la paura dei professionisti dell’informazione sauditi continua a crescere, non solo nella penisola araba ma ovunque questi si trovino nel mondo. Ed è in questo contesto che Riad sta organizzando una conferenza sui media, che si terrà all’inizio del mese di dicembre. Giornalisti stranieri ed esperti dell’informazione sono stati invitati al “Saudi Media Forum” per parlare della libertà e dell’indipendenza della stampa. Sembra un tragico scherzo ma è purtroppo la realtà. Nonostante lo sconcerto espresso a livello internazionale, dopo l’uccisione di Jamal Khashoggi, nonostante le sanzioni imposte da Washington, Ottawa, Parigi e Berlino contro un numero ristretto di persone sospettate di essere coinvolte nella morte del giornalista, l’Arabia Saudita non ha minimamente allentato la sua politica repressiva nei confronti della stampa. La Germania è stata l’unica nazione ad imporre un embargo sulla vendita di armi a Riad. Gli Stati Uniti, attraverso il vice-presidente Mike Pence, hanno lasciato intendere che la liberazione del blogger Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere e 1000 colpi di frusta, poteva aiutare le autorità del Regno a salvaguardare la propria reputazione a livello internazionale. Ma, solo pochi mesi fa, il presidente americano Donald Trump ha insistito affinché Mohammed Bin Salman fosse vicino a lui, in prima fila, nella “foto di famiglia” dei leader delle venti grandi potenze mondiali, allora riuniti ad Osaka, in Giappone, per il G20. E sono ormai due anni che i figli della giornalista Daphne Caruana Galizia a Malta, la sorella di Gauri Lankesh in India e i familiari di Javier Valdez e di Miroslava Breach in Messico lottano, ogni giorno, per far chiarezza sulla morte dei loro cari. In Burundi e in Ucraina, tre anni fa, sono stati gli stessi colleghi di Jean Bigirimana e di Pavel Sheremet a supplire alle carenze delle indagini della polizia per cercare di capire chi fece sparire nel nulla il primo e chi collocò un ordigno esplosivo nell’auto del secondo. Questa lista di crimini irrisolti si allunga, purtroppo, ogni giorno. In Messico, dal 2000, almeno 150 giornalisti hanno perso la vita per via dei narcotrafficanti e del ciclo infernale di violenze perpetrate ormai nella più assoluta impunità. Davanti a questi scenari, i dirigenti del G20 hanno il dovere di agire, se vogliono restare ancorati al principio di responsabilità. Nessuna grande sfida mondiale può essere affrontata efficacemente senza la forza di un giornalismo libero, indipendente, affidabile, plurale. Anche per questo motivo, i capi di Stato e di governo non devono più assistere passivamente all’uccisione di giornalisti nel mondo. L’Arabia Saudita si appresta ad assumere la presidenza del G20 per un anno. Accettare che questa presidenza sia come tutte le altre sarebbe offrire al Paese un «permesso di uccidere», seppellendo così definitivamente la verità e la forza del giornalismo libero. Chiediamo pertanto al G20 di non sporcare la memoria di Jamal Khashoggi e di pretendere dall’Arabia Saudita un impegno chiaro per la difesa della libertà di stampa, iniziando con la liberazione dei 32 giornalisti che si trovano in carcere. Giornalisti che devono ritrovare la piena libertà perché, come spiegava Khashoggi nel suo ultimo editoriale, “ciò di cui il mondo arabo ha più bisogno è la libertà di espressione”. Una verità che vale per il mondo intero.
Tutta la storia dell’omicidio di Jamal Khashoggi. E di come il mondo si è girato dall’altra parte. Evan Ratliff su it.businessinsider.com il 12/10/2019. Un anno fa il giornalista Jamal Khashoggi entrava nel consolato saudita di Istanbul, dal quale non sarebbe mai più uscito. Nei mesi successivi le circostanze relative alla sua scomparsa e al suo assassinio sarebbero emerse in modo frammentario: una faccenda di spie ad alta tecnologia, un complotto diabolico, una macabra uccisione, un assurdo depistaggio arrivato fino alle più alte sfere del governo saudita, favorito dall’indifferenza e dall’accanimento della Casa Bianca. Alla fine, tutti questi frammenti sono arrivati a formare un quadro raccapricciante. Lo scorso giugno la relatrice speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie ha pubblicato un rapporto di cento pagine approfondendo l’affare Kashoggi. La sua uscita non è però servita quasi a nulla nel suscitare azioni concrete. Ecco la storia, per ciò che possiamo saperne, con le illustrazioni di Chris Koehler e presentata in forma di reportage narrativo dallo scrittore Evan Ratliff. Questo resoconto si basa sulle nostre inchieste, sul rapporto delle Nazioni Unite, su centinaia di resoconti e interviste in video – dal The New York Times, The Washington Post, The Wall Street Journal, e dal The Daily Sabah, una fonte turca – e da testimonianze pubbliche. La stiamo riproponendo perché la storia di Jamal Khashoggi dovrebbe essere ascoltata per intero. E perché anche se pensate di sapere ciò che è accaduto, potreste non sapere come o perché. In seguito, è stato facile dimenticare che fosse innamorato.
Questo era il Jamal Khashoggi arrivato in volo la mattina presto del 2 ottobre a Istambul. Era a pochi giorni dai suoi sessant’anni, divorziato, in esilio volontario dalla nativa Arabia Saudita, vivendo da solo in Virginia. La sua alta figura rivelava una certa pancetta, e la capigliatura si era diradata ai lati. La brizzolatura quasi completa della barba copriva un viso da gufo, con un paio d’occhi che potevano tradire nello stesso momento facile allegria e profonda tristezza. Dai suoi colleghi era stimato come persona brillante, da giornalista del The Washington Post acclamato a livello globale qual’era. Aveva però trascorso la maggior parte dei suoi giorni a lottare con il peso di ciò che si era lasciato alle spalle, scrivendo nella speranza di rompere l’indifferenza del mondo nei confronti della strisciante repressione nel suo paese d’origine. Era sgomento nel vedere il suo artefice, il principe ereditario Mohammed bin Salman – in Occidente noto come MBS – celebrato da Washington e dalla Silicon Valley come un riformatore dinamico, mentre in patria i suoi amici e colleghi languivano in prigione per aver detto la verità. La sua missione, era arrivato a pensare, era parlare per loro.
Quella mattina d’autunno a Istanbul, Khashoggi era però sceso dall’aereo con uno scopo completamente diverso. Cinque mesi prima, all’inaugurazione di una conferenza sulla politica mediorientale, era stato avvicinato da una ricercatrice di trentacinque anni, di nome Hatice Cengiz. Conosceva il suo lavoro e voleva intervistarlo per un articolo che stava scrivendo. Andò a cercarlo durante la pausa caffè. Parlarono per quasi mezz’ora. Gli aveva fatto domande sulle prospettive di riforma in Arabia Saudita; lui l’aveva riempita di domande sulla politica turca. Alla fine, il loro scambio aveva iniziato a sembrare qualcosa di più profondo. Prima del successivo viaggio a Istanbul, le aveva mandato un’e-mail per chiederle se avrebbe voluto rivederlo. Il resto accadde rapidamente, alla velocità di due persone che già si conoscevano. A settembre lui aveva incontrato i genitori di lei. I progetti di matrimonio erano già in corso. La coppia aveva comprato un appartamento a Istanbul, un’ancora a oriente per ciò che sarebbe diventata una doppia vita, tra lì e gli Stati Uniti.
Il 28 settembre erano andati all’ufficio per i matrimoni civili di Istanbul per affrontare il lato burocratico delle nozze. Avevano un solo piccolo problema: poiché Khashoggi era cittadino saudita, avrebbero avuto bisogno di un certificato del suo governo che affermasse che non era sposato. Per averlo bisognava chiedere al consolato saudita. D’impulso, la coppia ci era andata lo stesso giorno. Prima di entrare Khashoggi aveva lasciato i suoi due telefoni a Cengiz, sapendo che sarebbero stati ritirati dai funzionari del consolato e temendo che avrebbero colto l’occasione per poterli violare. Era diffidente. Una volta entrato lo staff lo aveva però salutato in modo affettuoso. Non potevano procurare immediatamente il documento richiesto, ma se fosse tornato il 2 ottobre glielo avrebbero fatto trovare pronto, dicevano. Nel pomeriggio andò in aeroporto e prese il volo delle 14:40 per Londra, per essere a una conferenza.
La notte prima del suo ritorno Cengiz non riusciva a dormire, la testa ingarbugliata e nervosa. Alla fine si abbandonò al sonno, e fu svegliata da una telefonata del suo fidanzato: il volo era arrivato in anticipo. Khashoggi prese un taxi per l’appartamento che avevano acquistato, ancora disabitato, in un comprensorio del quartiere di Topeka a Istanbul. Una telecamera di sicurezza piazzata nell’ingresso li aveva sorpresi mentre entravano tenendosi per mano, poco prima delle 5 del mattino. Kashoggi chiamò il consolato. Un funzionario gli disse di arrivare all’una del pomeriggio per ritirare il documento. Uscirono verso l’una meno un quarto. Le telecamere di sorveglianza hanno ripreso la tranquilla passeggiata mano nella mano della coppia. Khashoggi indossava una camicia a colletto aperto e un blazer, Cengiz il velo e un lungo abito nero. Al blocco di sicurezza collocato sul lato sud del consolato, Khashoggi le consegnò ancora una volta i suoi telefoni. Un agente di sicurezza eseguì una rapida scansione su Khashoggi usando un rivelatore portatile di metalli. Quindi il giornalista passò tra le barriere di metallo e si avviò rapidamente verso l’ingresso principale. Un portiere con un blazer azzurro chiaro lo salutò con un lieve inchino, ed eccolo scomparso.
Per mesi i sauditi avevano cercato di attirarlo nel loro regno. Non si sarebbero mai aspettati che potesse semplicemente varcarne l’ingresso principale. Ma è quello che successe il 28 settembre quando si presentò senza preavviso al consolato. I funzionari sapevano bene che tra i principali ricercati del governo c’era lui, ma non esisteva nessun protocollo per chiunque di quella lista che fosse spontaneamente comparso in mezzo a loro. Quindi lo lasciarono andare, affidandosi alla “carota” che sapevano l’avrebbe fatto tornare. Quando quel pomeriggio il volo verso Londra di Khashoggi ebbe raggiunta l’altitudine di crociera, la macchinazione per porre fine alla sua vita era già in moto. Appena uscito Khashoggi, l’addetto alla sicurezza del consolato fece un paio di telefonate ai servizi di sicurezza sauditi. Nel consolato l’intelligence turca aveva a sua volta un sistema di sorveglianza audio attivo e funzionante, un classico dei giochi di “spie contro spie” abitualmente in corso tra due rivali diplomatici. Le registrazioni non erano però ascoltate in tempo reale (per coincidenza, il giorno prima della prima visita di Khashoggi i sauditi avevano inviato una squadra di rilevamento per passare in esame l’edificio alla ricerca di microspie. Se fossero stati più competenti, il mondo non avrebbe mai potuto scoprire cosa fosse successo al suo interno). Parte di quei nastri furono successivamente fatti ascoltare a un investigatore delle Nazioni Unite, e le trascrizioni fatte trapelare ai giornalisti turchi. In una delle telefonate Maher Abdulaziz Mutreb, ufficiale dell’intelligence saudita visto spesso insieme a Mohammed bin Salman durante i suoi viaggi internazionali, chiese se Khashoggi sarebbe tornato. Il funzionario confermò che gli era stato detto di tornare il 2 ottobre per ritirare i suoi documenti.
Gli ingranaggi dei servizi segreti si misero rapidamente in moto. Il consolato trasmise velocemente a Riyad video e immagini della visita di Khashoggi. Quella sera, l‘intelligence turca aveva registrato la voce del console generale a Istanbul, Mohammed Alotaibi, mentre parlava con un altro ufficiale saudita di una telefonata ricevuta dal capo della sicurezza della nazione. Aveva bisogno di personale per svolgere “una missione speciale della massima segretezza” che sarebbe durata circa cinque giorni. Il regno avrebbe fornito voli e alloggio, aveva detto l’ufficiale saudita. Durante la notte Alotaibi organizzò tutta la logistica, specificando ai funzionari che la missione in questione era “molto importante e in rapida evoluzione”. Qualcuno del consolato sarebbe dovuto tornare a casa per un “addestramento urgente”, aveva detto a un altro funzionario. “Mi hanno chiamato da Riyad”, aveva detto. “Mi hanno detto di aver richiesto un funzionario che avesse lavorato sul protocollo. Il problema è assolutamente segreto. Nessuno dovrebbe saperlo in nessun modo. Nessuno dei tuoi amici sarà informato.” Il giorno dopo due ufficiali dei servizi lasciarono Istambul per Riyad. I due tornarono poi con un volo di linea il primo ottobre, il giorno prima del previsto arrivo di Khashoggi. Con loro c’erano altri tre ufficiali dei servizi sauditi, due dei quali avevano lavorato negli uffici del principe ereditario.
La mattina del 2 ottobre, appena un’ora prima che lo stesso Khashoggi passasse dall’aeroporto, altri nove sauditi dotati di immunità diplomatica si erano precipitati fuori da un volo privato proveniente da Riyad. Tra questi c’era Mutreb, con l’incarico di comandante di terra della missione. Con lui quattro ufficiali di sicurezza e dei servizi sauditi, due dei quali membri della squadra di sicurezza di Mohammed bin Salman, e un generale di brigata di nome Mustafa Mohammed Almadani, che assomigliava in modo passabile a Khashoggi. Il personaggio più strano del gruppo era Salah Mohammed Tubaigy, un medico legale del Ministero degli Interni. Era noto per eseguire autopsie in modo rapido. La squadra contava ora quindici membri. Si registrarono in un paio di hotel vicino al consolato – il Wyndham e il Mövenpick – aspettando la mossa successiva. Mentre il console generale stava dando notizia al personale non saudita di rimanere a casa per la giornata, Khashoggi stava probabilmente facendo colazione con Cengiz. Ad altri del consolato fu detto di uscire entro mezzogiorno per una delicata riunione diplomatica che avrebbe avuto luogo quel pomeriggio nell’edificio. Le quindici persone si divisero in due gruppi. Cinque lasciarono i loro alberghi e andarono in macchina alla residenza del console generale, a pochi chilometri di distanza. Gli altri dieci camminarono fino al vicino consolato. Le telecamere hanno inquadrato Mutreb mentre usciva dal suo hotel in abito scuro, per poi passare gli stessi controlli di sicurezza che Kashoggi avrebbe attraversato tre ore più tardi. Mutreb fu seguito in breve tempo da Tubaugy, il medico, e da Almadani, il sosia di Khashoggi. Appena passato mezzogiorno un’automobile uscì in retromarcia da un vialetto coperto a lato del consolato. Al suo posto arrivò un furgone nero squadrato. Dopo aver visto il suo fidanzato entrare nel consolato, Cengiz andò in un supermercato vicino e comprò un giornale per passare il tempo, insieme a un po’ d’acqua e del cioccolato per quando lui fosse tornato. Con il passare del tempo non trovò alcun motivo di preoccuparsi: nella precedente visita, i funzionari avevano impiegato tre quarti d’ora solo per informare Khashoggi che sarebbe dovuto tornare un altro giorno. Alle quattro di pomeriggio il fastidio dell’attesa iniziò lentamente a diventare preoccupazione. Chiamò la sorella, chiedendole di controllare l’orario di chiusura del consolato (forse dimenticando che avrebbe potuto farlo lei stessa). Qualche momento più tardi la sorella rispose con un messaggio: il consolato aveva chiuso quaranta minuti prima. Uno spesso velo di paura avvolse Cengiz. Si avvicinò alla porta d’ingresso e informò l’agente turco che il suo fidanzato, cittadino saudita, era entrato ore prima e mai riemerso. L’agente rispose di presumere che tutti fossero andati via. Chiamò il numero principale del consolato e raccontò la stessa storia al funzionario che aveva risposto. L’agente riappese e tornò dove lei stava aspettando. L’edificio era vuoto, disse. Jamal Khashoggi non era più all’interno.
Nel giro di poche ore, la scomparsa di Khashoggi conquistò i titoli della stampa internazionale. Nella sua risposta iniziale, il governo saudita dichiarò di essere confuso e preoccupato quanto il resto del mondo. “Il signor Khashoggi è entrato nel consolato per richiedere documenti relativi al suo stato civile, ed è uscito poco dopo”, avevano dichiarato i sauditi all’Associated Press. “Il governo dell’Arabia Saudita segue con attenzione tutte le notizie relative alla sicurezza di qualunque dei suoi cittadini”. La notte successiva, il 3 ottobre, nella capitale saudita di Riyad, un gruppo di giornalisti di Bloomberg si sedette di fronte a Mohammed bin Salman, appollaiato sui divani di un’opulenta sala del Palazzo Reale. Lo spunto per l’intervista, concessa prima che la scomparsa di Khashoggi facesse notizia, era stata una disinvolta dichiarazione del presidente Donald Trump durante un evento politico nel Mississippi, dove aveva affermato che lo stato saudita non sarebbe “durato due settimane” senza il supporto degli Stati Uniti. Il principe ereditario dichiarò di non sentirsi colpito. “L’Arabia Saudita era lì prima degli Stati Uniti d’America”, osservò, mentre una mappa del mondo bordata d’oro incombeva su di lui. “Dobbiamo accettare che qualunque amico potrà dire cose sia buone sia cattive.” Il discorso passò poi alle prospettive di un’imminente offerta pubblica per la compagnia petrolifera saudita, Aramco, e del contributo di quarantacinque miliardi di dollari del governo saudita al “Vision Fund“, un pool di investimenti di venture capital creato dalla società giapponese Softbank per cento miliardi di dollari. Il Vision Fund aveva riversato centinaia di milioni di dollari per far crescere startup come Uber, Slack, WeWork e DoorDash, spargendo denaro saudita come fosse polvere fatata all’interno dei centri tecnologici americani. Senza la grandezza dell’Arabia Saudita, aveva sottolineato il principe ereditario, non sarebbe esistito un Vision Fund. Aveva poi offerto uno scoop ai giornalisti: i sauditi hanno programmato il collocamento di altri quarantacinque miliardi di dollari nel prossimo round del fondo. Circa a metà dell’intervista, uno dei giornalisti sollevò il mistero di dove si trovasse Khashoggi. “Abbiamo sentito quello che è successo”, ha risposto Mohammed bin Salman. “È un cittadino saudita, siamo molto ansiosi di sapere cosa gli è successo“. Ha confermato che Khashoggi era stato al consolato, indicando però che dopo un po’ era andato via. Il governo turco, ha aggiunto, è stato invitato a perquisire il consolato: territorio sovrano saudita, aveva fatto notare. “Non abbiamo nulla da nascondere“, aveva detto Mohammed bin Salman.
Mentre parlava, alcune crepe stavano già strisciando sulla superficie della versione ufficiale saudita. I funzionari turchi avevano infatti dichiarato pubblicamente che Khashoggi non aveva mai lasciato il consolato. Il 7 ottobre, mentre il consolato saudita iniziava a essere evasivo sulle ricerche promesse da Bin Salman, i turchi affermavano invece in modo netto che Khashoggi era stato ucciso lì – aggiungendo di avere anche le prove. Il 10 ottobre i funzionari dei servizi turchi avevano diffuso immagini tratte dalle telecamere di sicurezza, che mostravano l’arrivo della squadra di esecuzione. La spiegazione da parte saudita si è evoluta da dubbia a farsesca. Hanno definito le accuse “false notizie” e “bugie”, affermando che i loro uomini avevano semplicemente viaggiato in Turchia per una vacanza di gruppo.
Il 15 ottobre il presidente Trump si era per la prima volta speso sulla scomparsa di Khashoggi. In piedi sotto un ombrello, fuori dalla Casa Bianca, Trump aveva detto che il re saudita Salman, padre di Mohammed bin Salman, gli aveva personalmente espresso un “assoluto diniego” a proposito di un qualsiasi coinvolgimento del suo governo. “Non voglio mettermi nei suoi panni, ma mi è sembrato come se fossero stati dei criminali comuni”, ha detto Trump. “Chi può dirlo? Stiamo provando ad arrivare in fondo al più presto.” Quando è iniziata la storia dell’omicidio di Jamal Khashoggi? Nel giugno 2017, quando il re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud aveva convocato suo nipote Mohammed bin Nayef, dicendogli che avrebbe fatto cadere le sue pretese reali in favore del cugino? Nel giorno in cui, lo stesso mese, Khashoggi – ormai cosciente del cupo futuro per la libertà di stampa sotto Mohammed bin Salman – era fuggito spaventato dal paese, lasciando dietro di sé una moglie dalla quale avrebbe dovuto divorziare e dei figli che avrebbe visto sempre più di rado?
Forse è stato quel sabato di novembre del 2017, quando agli ospiti del Ritz-Carlton di Riyad fu chiesto di fare in fretta i bagagli e andare via. Quel giorno i normali ospiti furono sostituiti da centinaia di principi anziani e funzionari governativi, arrestati per volere del principe ereditario con l’accusa di corruzione. All’interno di questa prigione di velluto, Saud al-Qahtani, grande collaboratore di Mohammed bin Salman, più noto per aver gestito l’ufficio dei social media del governo saudita, contribuì a organizzare gli interrogatori e le torture. Al-Qahtani si era vantato con un uomo d’affari canadese che i detenuti erano stati schiaffeggiati e appesi a testa in giù. Secondo quanto riferito, un generale era morto con il collo rotto, ma le informazioni accertabili erano scarse. Il governo saudita ha negato le accuse di abusi corporali. Ha soltanto comunicato che i prigionieri avevano accettato di riconsegnare ricchezze presumibilmente mal meritate. Le vicende del Ritz suscitarono diffuse condanne in ambito internazionale. Tranne dalla Casa Bianca, dove Jared Kushner, genero e consigliere del presidente Trump, aveva stretto legami con l’allora trentunenne principe ereditario. Si diceva che fossero in regolare contatto su WhatsApp. “Hanno individuato un partner davvero allineato a Washington, Jared Kushner, e lo hanno saputo coltivare con successo”, ha dichiarato Elizabeth Dickinson, senior analyst per la penisola arabica presso Crisis Group. “Non c’è altro modo di vederla. È stato visto come un modo per inserirsi ed è stato preso al volo.” Secondo quanto riferito, Mohammed bin Salman ha in seguito riferito al principe ereditario degli Emirati Arabi di tenere Kushner “in tasca“. Lo stesso Kushner era andato a trovare Bin Salman giorni prima che iniziasse quel terremoto. “Ho una grande fiducia nel Re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia Saudita, sanno esattamente cosa stanno facendo”, aveva scritto Trump in un tweet durante la repressione. “Alcuni di quelli che stanno trattando duramente hanno ‘munto’ il loro paese per anni!” Se la faccenda del Ritz potè dare una lezione di relazioni internazionali a Mohammed bin Salman, è stato per assicurargli che le accuse di rapimento e tortura avrebbero pesato ben poco per sminuire la sua statura di giovane riformatore negli Stati Uniti. In alcuni ambienti, la retorica “anticorruzione” serviva solo a rafforzare quella posizione.
Lo stesso mese delle detenzioni al Ritz, l’editorialista del The New York Times Thomas Friedman raccontò di essere volato a Riyad per un epico faccia a faccia con Bin Salman. Lodandolo come un agente del cambiamento ossessionato dal lavoro, Friedman indicò la repressione come correttivo necessario, a parte le maniere. “Solo uno sciocco”, ha scritto, non farebbe il tifo per l’ipotetico programma di riforme di bin Salman. Friedman aveva chiuso l’articolo con una domanda per Bin Salman presa in prestito da una poesia di Hamilton: perché ha lavorato così duramente “come se il tempo stesse finendo?” “Temo che il giorno della mia morte sarò morto senza realizzare ciò che ho in mente”, aveva risposto il principe ereditario. Khashoggi aveva una visione diversa di quelle realizzazioni. Anche lui avrebbe voluto vedere la fine della corruzione dilagante nel regno, aveva scritto in novembre in un articolo sul The Washington Post. Ma gli entusiasti di bin Salman stavano ignorando la sua diffusa repressione. “Al momento direi che Mohammed bin Salman si sta comportando come Putin”. Quattro mesi dopo Khashoggi apparve nel programma UpFront di Al Jazeera, con il giornalista Mehdi Hasan. Nel gruppo di ospiti c’era anche un sostenitore del regime, che sosteneva che bin Salman era un riformatore che lavorava per modernizzare e liberare il regno, un leader che avrebbe dovuto essere “giudicato nel contesto della storia del suo paese”. Per Khashoggi, il problema non erano tanto le riforme – aveva da tempo sostenuto gli sforzi per emancipare le donne, ad esempio – ma la repressione intellettuale che sembrava animare gli sforzi del principe ereditario. “Mentre parliamo ci sono intellettuali e giornalisti sauditi incarcerati”, ha detto in modo sofferto. “Lo vedo ancora come un riformatore. Ma sta raccogliendo tutto il potere nelle sue mani. Sarebbe molto meglio per lui concedere uno spazio di respiro alla critica, agli scrittori sauditi, ai media sauditi, per discutere della più importante e necessaria trasformazione in corso nel paese.” Era la possibilità di un dialogo aperto che aveva spinto Khashoggi nel giornalismo. Nipote di un medico che aveva in cura il re Abdulaziz Al Saud, il fondatore dell’Arabia Saudita, Khashoggi è cresciuto accanto alla famiglia reale. Era stato sedotto da politiche religiose radicali, unendosi ai Fratelli Musulmani a vent’anni, prima di diventare giornalista. Si era poi fatto un nome raccontando le gesta di un giovane Osama bin Laden prima di Al Qaeda in Afghanistan, crescendo fino a diventare editorialista e editore di quotidiani, lavorando persino all’interno della corte. La gente lo riconosceva per la strada, fermandolo per ringraziarlo del suo lavoro.
Col passare del tempo sarebbe diventato un ostinato sostenitore delle riforme, sia nel governo sia nella società saudita. Nel 2010 Khashoggi era stato però licenziato dal suo incarico di caporedattore del quotidiano Al Watan per aver pubblicato articoli che sfidavano le rigide leggi islamiche del paese. Era il secondo licenziamento che subiva dalla stessa testata; dopo il primo, si era recato all’estero per lavorare come portavoce del principe Turki al-Faisal, ambasciatore saudita nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti. La seconda volta era durato tre anni, ma nel 2016 le sue opinioni lo fecero completamente bandire dai giornali e dalla televisione sauditi. Alla fine di quell’anno, dopo aver scritto un articolo su un giornale di Londra in cui criticava il neoeletto presidente Trump, ricevette una telefonata da al-Qahtani, che gli informava che “non gli era permesso di twittare, scrivere, parlare.” Meno di un anno dopo era fuggito dal suo paese, sbarcando in Virginia. Lì si unì al The Washington Post come opinionista, tentando di risvegliare il mondo nei confronti della repressione nel suo paese nel modo in cui aveva articolato gli stessi temi durante UpFront nel marzo del 2018. Quella notte, Hasan chiese a Khashoggi perché avesse scelto di esiliarsi. “Semplicemente perché non voglio essere arrestato”, ha detto. Ai primi di aprile, un altro gruppo di clienti abituali degli hotel di lusso era stato improvvisamente informato della cancellazione delle loro prenotazioni. Stavolta si trattava del Four Seasons Silicon Valley di Palo Alto, e gli ospiti avrebbero fatto largo al principe ereditario e alla sua delegazione di decine e decine di persone. Mohammed bin Salman era alla fine di un viaggio attraverso gli Stati Uniti, un coreografico sforzo di pubbliche relazioni per abbellire la sua immagine e consolidare i legami con leader politici e commerciali – di entrambe le società in cui il principe aveva investito e di quelle che stava corteggiando. Cambiando il tradizionale thobe saudita in un completo con una camicia dal colletto aperto, si era incontrato con un sorridente Richard Branson in un capannone della Virgin Galactic nel sud della California. Ebbe l’occasione di provare il goffo prototipo degli occhiali di Magic Leap, l’azienda nel campo della realtà aumentata con sede in Florida, che aveva raccolto oltre due miliardi di dollari senza aver mai fatto uscire un prodotto. Nella valley avrebbe poi incontrato i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, e il suo attuale CEO, Sundar Pichai. Si era fatto quattro risate con Tim Cook e camminato per le luminose sale curvilinee del nuovo gigantesco quartier generale della Apple. Aveva fatto salotto con capitalisti di ventura delle blue chip come Marc Andreessen, Vinod Khosla e Peter Thiel.
Bin Salman non era nuovo a visite di questo tipo. Nel 2016 si era fermato in Facebook per fare un giro con Mark Zuckerberg. Allora come adesso, la storia che lo ha preceduto è stata quella di un giovane acceleratore al passo con il mondo dell’alta tecnologia, determinato a trasformare una secolare monarchia. Ma quella volta arrivò come futuro re e intimo del genero del presidente. Nella valley aveva portato anche qualcosa di ancora più attraente: pacchi di soldi. Con Mohammed bin Salman, il regno aveva iniziato a travasare denaro nel mondo della tecnologia per diversificare la sua economia, liberandosi dalla dipendenza della produzione petrolifera, azione fulcro di “Vision 2030”, il piano di modernizzazione economica di bin Salman. Quegli investimenti sono stati anche un veicolo per rafforzare la posizione dell’Arabia Saudita nella comunità internazionale. “Quando metti soldi da qualche parte, hai influenza e sei sempre più connesso al sistema finanziario internazionale”, ha dichiarato Yasmine Farouk, esperta in Arabia Saudita presso il Carnegie Endowment for International Peace. “Il sistema ha bisogno di te.” Il fulcro dell’investimento di Mohammed bin Salman era un gigantesco contributo di quarantacinque miliardi di dollari da parte del Public Investment Fund (PIF) al Vision Fund di Softbank. Quando il fondo è stato lanciato nel 2017 è immediatamente diventato il più grande soggetto della valley. Si è subito rivelato il principale azionista di Uber e ha iniettato oltre 125 milioni di dollari in Slack, la startup di messaggistica aziendale. Da sola, WeWork ha raccolto 6,4 miliardi di dollari. Ma era solo l’inizio. Ben prima dell’apparizione di Khashoggi ad Al-Jazeera, alla vigilia del viaggio di bin Salman nella Silicon Valley, il PIF aveva annunciato un ulteriore investimento diretto di quattrocento milioni di dollari in Magic Leap. Il PIF aveva inoltre concordato il versamento di altri quattrocento milioni di dollari in Endeavor, holding dell’agenzia di talenti aziendali WME a Los Angeles. In ballo c’era anche un secondo Vision Fund, che si sarebbe concentrato sul finanziamento della tecnologia per l’intelligenza artificiale. Se i dirigenti della Silicon Valley fossero stati propensi ad affrontare Mohammed bin Salman per i suoi esiti nel campo dei diritti umani – e a quel punto c’erano poche prove che lo fossero – il finanziamento senza fondo che lui aveva promesso sembrava sufficiente a metterli nell’umore di lasciar perdere.
Tra tutta la buona volontà e le opportunità condivise c’era però qualcosa – qualcuno – in agguato dietro i sorrisi e le strette di mano: Maher Mutreb. È stato spesso colto sullo sfondo di fotografie con un’espressione accigliata, mentre il principe ereditario salutava personaggi del mondo della società e degli affari. Addestrato negli Stati Uniti, il Mutreb colonnello dell’intelligence aveva lavorato per al-Qahtani, il capo dell’ufficio social media sauditi, la stessa persona che aveva partecipato alle torture del Ritz-Carlton di Ryad. Mutreb aveva conosciuto Khashoggi nella metà degli anni 2000, quando entrambi avevano passato del tempo a Londra. Il capo di Mutreb, al-Qahtani, aveva continuato a contattare per mesi Khashoggi, consigliandogli in modo cordiale che era tempo di tornare dal suo esilio volontario. Al-Qahtani rassicurava il giornalista che sarebbe stato al sicuro, offrendogli persino un lavoro a corte, se fosse tornato. Khashoggi aveva educatamente rifiutato. Aveva l’aria, disse agli amici, di uno stratagemma per sbatterlo in prigione. Dietro le quinte della corte di Mohammed bin Salman, il dibattito sul destino di Khashoggi era comunque stato decisamente meno favorevole. Dopotutto Khashoggi non era soltanto un altro dissidente straniero contro la leadership del regno – bensì un ex addetto ai lavori le cui critiche erano viste piuttosto come un tradimento. “Potremmo attirarlo fuori dall’Arabia Saudita e metterci d’accordo”, aveva detto nell’agosto del 2017 il principe ereditario ai suoi, come avrebbe in seguito rivelato il The Wall Street Journal. Secondo le intercettazioni ottenute da fonti di intelligence dal The New York Times, un mese dopo i suoi argomenti erano diventati più agghiaccianti. Si lamentava con al-Qahtani degli articoli critici e della incisiva presenza su Twitter di Khashoggi. Al-Qahtani l’aveva avvertito che perseguire all’estero un giornalista avrebbe portato a reazioni negative. Secondo quanto riferito, bin Salman aveva risposto che l’interesse nazionale dell’Arabia Saudita sminuiva il rischio di un po’ di cattiva pubblicità. Se Khashoggi non poteva essere attirato da nessuna parte, avrebbe concluso Mohammed bin Salman, bisognava farcelo arrivare con la forza. E se non avesse funzionato? Allora si sarebbe potuto inseguire Khashoggi, come detto secondo quanto è stato riferito, “con un proiettile”. Per l’attuale governo saudita, chiaramente Jamal Khashoggi non era un semplice giornalista che viveva all’estero criticando il regime.
Era un traditore della famiglia reale, alla quale un tempo era stato vicino. A queste offese nell’estate del 2018 si sarebbe aggiunta una terza rivelazione. Sembra che quest’ultima sia il prodotto di spionaggio ad alta tecnologia messo in atto da forze collegate all’intelligence saudita, secondo un laboratorio di ricerca sulle tecnologie di sorveglianza con sede in Canada. Khashoggi stava iniziando a fare più che criticare, come dimostravano le indagini. Stava aiutando a organizzare le forze per contrastare le repressioni di Mohammed bin Salman. Nel maggio del 2018, a meno di un mese dalla visita di cortesia di bin Salman negli Stati Uniti, un dissidente saudita di 27 anni di nome Omar Abdulaziz ricevette in Canada un messaggio da un gruppo di funzionari sauditi che cercavano di contattarlo da mesi. Stavano arrivando a Montreal, dove abitava, con una proposta potenzialmente redditizia. Che Abdulaziz fosse sui radar del governo non era una sorpresa. Aveva lasciato il paese nel 2009, a 18 anni, per studiare inglese alla McGill University con una borsa di studio del governo. Ancora studente, aveva lanciato uno spettacolo satirico su YouTube chiamato Yakathah, una sorta di Daily Show (un programma televisivo satirico) per prendere in giro il suo governo. La popolarità delle sue critiche, in particolare in patria, l’aveva portato a un attivismo più responsabile con un account Twitter arrivato fino a oltre centomila follower. Non passò molto tempo prima che Abdulaziz attirasse l’attenzione del governo saudita, che gli revocò la borsa di studio. Nel 2013 ad Abdulaziz è stato concesso l’asilo politico in Canada. Ha continuato il suo attivismo e nel 2017, qualche anno dopo, un comune amico gli comunicò che Jamal Khashoggi era interessato a parlargli. Altri attivisti erano diffidenti nei confronti di Khashoggi, vista la sua passata affiliazione con la famiglia reale, ma Abdulaziz accettò di parlargli. Nonostante non si siano mai incontrati di persona, diventarono rapidamente intimi. Nel corso del 2018 comunicavano quasi ogni giorno. Formulavano piani su WhatsApp per lavorare insieme e lamentavano notizie di giornalisti e attivisti arrestati. Khashoggi sembrava angosciato dal fatto che potevano essere arrestati e puniti anche coloro che concordavano pienamente con Mohammed bin Salman, per qualsiasi piccolo disaccordo che avevano osato esprimere. “La tirannia non ha logica, Mohammed bin Salman ama la forza e l’oppressione e ha bisogno di metterle in mostra”, aveva scritto ad Abdulaziz. “È come un animale ‘pac man’, più vittime mangia, più ne vuole.”
Quel maggio, quando il governo propose l’incontro a Montreal – forse per proporre una ricompensa se Abdulaziz avesse avuto intenzione di tornare – Khashoggi avvertì il suo amico di incontrare gli agenti solo in luoghi pubblici e di non farsi attirare in Arabia Saudita. “Se vuoi prendere i loro soldi, è una tua decisione”, ha detto ad Abdulaziz. “Ma non per tornare; non fidarti di loro.” Il 15 maggio Abdulaziz era in attesa dei rappresentanti del governo seduto in un bar. Nella tasca della giacca c’era il suo iPhone con l’app del registratore in funzione. Due uomini si sedettero di fronte a lui senza spiegare i loro precisi ruoli nel governo saudita. Che stessero rappresentando una sorta di proposta ufficiale sembrava evidente. Uno di loro assicurò Abdulaziz che il loro messaggio proveniva da Mohammed bin Salman in persona. “Nessuno può affrontare meglio questo argomento del principe stesso”, dissero. Gli agenti furono inizialmente amichevoli e rispettosi, come al-Qahtani lo era stato con Khashoggi. Dissero ad Abdulaziz che anche il suo amico Jamal, a sua volta “un mal di testa” per il governo, stava prendendo in considerazione l’idea di tornare a casa. Era forse tempo che Abdulaziz facesse lo stesso? Avrebbe potuto ricevere significative ricompense, se avesse scelto di tornare volontariamente. Promisero un incontro con Mohammed bin Salman il giorno dopo l’arrivo, nel quale il Principe ereditario avrebbe realizzato qualsiasi richiesta. L’alternativa, erano spiacenti di dover riferire, era quella di essere prelevato in un aeroporto da qualche parte e recluso. Questo frangente “non sarebbe stato molto utile per lo stato”. Anche se Abdulaziz non aveva intenzione di accettare la loro offerta, continuò a incontrarli diverse volte nel corso di quattro giorni. Sperava di convincerli a trasferire prima i soldi – forse le centinaia di migliaia di dollari che gli dovevano per la sua borsa di studio cancellata, disse. La risposta fu negativa: per prendere i soldi sarebbe dovuto tornare. Ad un certo punto, nel tentativo di farlo vacillare, gli agenti gli fecero incontrare suo fratello, arrivato in aereo dall’Arabia Saudita. Abdulaziz si preoccupò, ma rimase fermo. Ben presto gli agenti, con suo fratello, scomparvero all’improvviso da Montreal così come erano venuti.
Nell’estate del 2018 Abdulaziz e Khashoggi intensificarono i loro progetti di collaborazione. L’ufficio social media di Al Qahtani era da anni impegnato in una implacabile campagna di propaganda e trolling sul web. Alimentato da bot, aveva preso di mira gli attivisti all’interno del paese e i dissidenti all’esterno, guadagnando infine ad al-Qahtani il soprannome di “Il Signore delle Mosche”. Abdulaziz e Khashoggi programmarono di lanciare un movimento giovanile online per contrastare, con cinquemila dollari di finanziamento iniziale messi da Khashoggi. Iniziarono a chiamarli le “Cyber bees”. Solo in seguito un basso profilo come quello degli agenti entrati in contatto con Abdulaziz a Montreal sarebbe parso minaccioso. Uno di loro aveva proposto che, anche se non fosse tornato a casa, sarebbe almeno dovuto andare all’ambasciata saudita per fare un nuovo passaporto. È forse meno noto che i governi possono acquistare, sul mercato commerciale, dei software per hackerare i telefoni, per poter registrare qualsiasi cosa per loro tramite. Ed è ancora più difficile riconoscere uno di questi software quando è attivo. Ma è esattamente quello che ha fatto nell’estate del 2018 uno scienziato informatico di nome Bill Marczak. Un pomeriggio di luglio, Marczak, ricercatore alla University of California di Berkeley, era in casa, seduto sul divano, con il suo computer portatile. Aveva uno strano hobby: rintracciare spyware per telefoni cellulari installati dai regimi repressivi di tutto il mondo. L’interesse di Marczak per l’hacking e la sorveglianza da parte dei governi era nato nel 2012, dagli eventi della Primavera Araba. Allora dottorando in informatica, aveva co-fondato un’organizzazione per fornire assistenza online agli attivisti del Bahrein, dove aveva trascorso parte della sua giovinezza, e per fare ricerche sulla repressione nella regione. Ben presto gli attivisti del Bahrein lo misero al corrente di un altro problema: stavano ricevendo una raffica di e-mail dall’aria sospetta. Analizzando i messaggi, Marczak scoprì che erano stati creati per impiantare spyware sui dispositivi degli attivisti, consentendo a qualcuno – probabilmente al governo – di tenerli d’occhio senza che se accorgessero. Lavorando con un’organizzazione canadese chiamata Citizen Lab, Marczak rese pubblico quel tentativo di hacking. Marczak ricevette ben presto simili richieste da altri attivisti e dissidenti di tutti gli angoli del mondo. Aveva sviluppato una complessa metodologia per scoprire se dei telefoni cellulari fossero stati violati. Nel caso, Marczak e il suo team avrebbero avvertito i dissidenti, analizzato il software e pubblicato le loro scoperte. Il più sofisticato di tutti gli spyware che scoprirono era chiamato Pegasus, prodotto da NSO Group, un’azienda israeliana coperta da segreto. Pegasus permetteva ai suoi utenti di creare e inviare un singolo link che, se cliccato, avrebbe concesso visibilità totale sul telefono di un obiettivo. Chiamate, e-mail, messaggi: tutto. Il software poteva leggere i messaggi crittografati prima che fossero inviati e accendere la videocamera e il microfono del telefono per registrare di nascosto qualsiasi cosa nelle vicinanze. Pegasus, in altre parole, non era altro che lo strumento di sorveglianza più sofisticato in assoluto. Nelle mani dei clienti della NSO, che Citizen Lab scoprì essere governi come quello del Messico e degli Emirati Arabi Uniti, aveva un valore inestimabile. Seduto quel pomeriggio sul suo divano, Marczak analizzava i dati che indicavano dove Pegasus era stato in funzione. Ogni volta che un dissidente gli inoltrava un link sospetto, Citizen Lab utilizzava i dati contenuti in quel link per scansionare internet alla ricerca dei server controllati da Pegasus, quindi raccoglieva i punti di connessione di Pegasus in una base dati. Adesso si sarebbe potuto fare il contrario: a partire dai server di Pegasus cercare i dispositivi che cercavano di connettersi. Marczak, in altre parole, stava cercando di capire se fossero in grado di scoprire in modo proattivo i dispositivi violati, durante il loro funzionamento. Fu allora che notò qualcosa di strano. Solitamente, si sarebbe aspettato di trovare dei telefoni che stabilissero collegamenti all’interno dell’Arabia Saudita, da dove il governo stava probabilmente controllando i suoi cittadini. Invece, i dati mostravano un singolo telefono in Canada che si collegava ripetutamente con dei server che secondo Citizen Lab sembravano essere sotto il controllo di un operatore collegato al governo saudita. Pegasus, si rese conto, aveva attaccato qualcuno a Montreal, apparentemente per conto dei sauditi. Tutto ciò che si dicevano e facevano poteva essere assorbito in tempo reale dai server, con l’aiuto di NSO. “Ehi, penso di aver trovato qualcosa di interessante”, scrisse Marczak al direttore del Citizen Lab. Le connessioni del telefono a Montreal rispondevano a uno schema. Di giorno, si collegavano a Pegasus tramite un fornitore di servizi internet residenziale. La notte, le connessioni provenivano da una rete universitaria. Con l’aiuto di alcuni suoi vecchi amici attivisti in Bahrein, Marczak mise insieme sei nomi di dissidenti sauditi in Canada che sembravano corrispondere allo schema. Per restringere ulteriormente l’elenco, avrebbe dovuto parlare di persona con i soggetti.
Quell’agosto, Marczak volò a Montreal per incontrare dissidenti e attivisti, comprensibilmente sospettosi circa le sue intenzioni. Quando trovò Abdulaziz, il ventisettenne saudita insistè per incontrarsi in un luogo pubblico. Marczak si sedette di fronte a lui un pomeriggio in una caffetteria, e cercò di spiegargli lo schema dei collegamenti che lo avevano condotto fino a lui. Certo, avrebbe potuto essere lui a essere sotto controllo, rispose Abdulaziz, accettando che Marczak esaminasse il suo telefono. Marczak aprì l’app di messaggistica e cercò un link da sunday-deals.com, un sito web comunemente utilizzato da Pegasus. Ed eccolo, in un messaggio di giugno che faceva finta di arrivare dal corriere DHL, offrendo ad Abdulaziz un link per monitorare una spedizione in sospeso. Abdulaziz l’aveva forse cliccato? Certo, rispose. Quella mattina aveva ordinato un quantitativo di un prodotto proteico su Amazon, e immaginava che il messaggio fosse collegato. “Vuoi dire che non è autentico?” chiese Abdulaziz. “Non è autentico”, rispose Marczak. Marczak mise il telefono in modalità aereo e lo collegò a internet tramite il suo laptop. Sperava di usare il proprio programma per catturare lo spyware in funzione. Ma era già troppo tardi: chiunque avesse installato Pegasus lo aveva disabilitato e rimosso, senza lasciare traccia, a parte il messaggio di testo fantasma. Forse era successo proprio a causa di quell’incontro, immaginò Marczak. In quel momento Abdulaziz sembrava sorpreso ma non scioccato che negli ultimi due mesi ogni comunicazione sul suo telefono fosse sotto controllo. Se Marczak avesse avuto ragione, avrebbe voluto dire che i sauditi sapevano dei suoi scambi con Khashoggi sul governo di Mohammed bin Salman, dei loro progetti e di Cyber Bees. Da lì a qualche settimana dopo che in agosto Marczak lo aveva avvertito dell’hacking, i due fratelli più giovani di Abdulaziz in Arabia Saudita furono arrestati, insieme a otto dei suoi amici. Abdulaziz lo considerava come il tentativo del governo di costringerlo a tornare a casa e forse mantenere la promessa fatta dall’agente. Se non fossero riusciti a catturarlo, avrebbero trovato qualcos’altro. Abdulaziz continuò a mostrare spirito di resistenza. “Il mio attivismo non si fermerà”, aveva detto a un giornalista. “Non accetto il ricatto.”
Quando Abdulaziz informò Khashoggi dell’hack, subito dopo essere stato informato da Marczak, il giornalista rise nervosamente, chiedendosi a voce alta se anche lui potesse essere sotto sorveglianza. Il 1° ottobre 2018 Bill Marczak e i suoi colleghi del Citizen Lab pubblicarono un rapporto sul controllo del telefono di Abdulaziz. Non c’è prova che Jamal Khashoggi l’avesse letto prima di entrare nel consolato saudita di Istanbul, alle 13:00 del giorno seguente. In seguito, dai brandelli delle intercettazioni ambientali fatte trapelare dall’intelligence turca ai giornalisti locali, e ascoltate anche dagli investigatori delle Nazioni Unite, i grotteschi frammenti di ciò che sarebbe successo dopo avrebbero scioccato il mondo. Anche se le varie trascrizioni dei dialoghi sono a volte contraddittorie, c’è materiale sufficiente per mettere insieme un quadro coerente e originale di un omicidio e di un insabbiamento. Mentre alle 13:00 Khashoggi e Cengiz arrivavano nei pressi delle barriere all’esterno del consolato, Mutreb e Tubaigy, il dottore, erano all’interno, dando gli ultimi ritocchi. “Prima gli diremo che lo stiamo portando a Riyad”, si può sentir dire Mutreb nelle registrazioni. “Se non fosse d’accordo, lo uccideremo qui e ci libereremo del corpo... [Sarebbe possibile] mettere il torso in una borsa?” “No. Troppo pesante”, risponde Tubaigy. Poi fissa con calma i passi per gestire il cadavere. “Non ho mai lavorato su un corpo caldo prima, ma sarà facile. Di solito quando seziono cadaveri mi metto le cuffie e ascolto la musica. Nel frattempo prendo il caffè e fumo.” “È facile staccare le giunture”, continuava, “ma per tagliarlo a pezzi ci vorrà del tempo. Non è un problema. Il corpo è pesante. Di solito, per tagliarlo a pezzi, l’animale si appende ad un gancio, dopo averlo sgozzato. Non l’ho mai fatto per terra. Quando avrò finito di tagliare, dovrai avvolgere i pezzi in sacchetti di plastica, li metterai in valigie e li porterai fuori.” Se Tubaigy avesse mostrato dubbi, questi non sarebbero stati umani ma burocratici. “Il mio diretto superiore non è a conoscenza di ciò che sto facendo”, si lamentava con Mutreb. “Non c’è nessuno a proteggermi.” Non c’era motivo di preoccuparsene adesso, però. Era quasi ora di iniziare. “È arrivata la vittima sacrificale?” chiese Mutreb. Qualche istante più tardi, alle 13:14, Khashoggi rispose a un cenno della guardia in blazer azzurro pallido, ed entrò attraverso la doppia porta di bronzo del consolato. All’interno, fu fatto entrare nell’ufficio del consigliere generale al secondo piano. Ad aspettarlo era ciò che sicuramente gli sembrò una sconcertante accolita di persone. Il mistero si spiegò non appena Khashoggi vide che al-Qahtani, l’uomo che aveva cercato di convincerlo a tornare – l’uomo che aveva supervisionato le brutali operazioni al Ritz – era in collegamento Skype. I resoconti di chi ha ascoltato i nastri differiscono leggermente, ma secondo i giornalisti turchi Mutreb e Qahtani misero in atto una confusa strategia in stile “poliziotto buono – poliziotto cattivo”. Qahtani insultò Khashoggi, rimproverandolo per il suo tradimento. In un primo momento Mutreb fu più accomodante. I suoi peccati contro il governo sarebbero stati perdonati se fosse tornato a casa, disse al giornalista.
Khashoggi disse che sperava di tornare, un giorno. “Dovremo riportarti indietro”, rispose Mutreb. Disse a Khashoggi che c’era un avviso dell’Interpol – una specie di mandato di cattura internazionale – contro di lui. “Non c’è niente contro di me”, aveva detto Khashoggi. Percependo il pericolo, provò a bluffare per poter uscire. Affermò che delle persone lo stavano aspettando fuori: un’automobile con autista, disse, e la sua fidanzata. “Non vado a Riyad.” Non importava, gli avevano detto. Facciamo presto, disse un funzionario. Chiesero a Khashoggi quali telefoni avesse usato. Doveva mandare un messaggio a suo figlio in Arabia Saudita, spiegando che era a Istanbul. “Non preoccuparti se per un po’ non riesci a mettermi in contatto con me “, gli dissero di scrivere. “Cosa dovrei dire, a presto?”, Chiese Khashoggi. “Non posso scrivere rapimento.” In risposta, un funzionario gli disse di togliersi la giacca. “Come può succedere tutto ciò in un’ambasciata?”, disse Khashoggi. “Aiutaci affinché possiamo aiutarti”, disse Mutreb, “perché, alla fine, è in Arabia Saudita che ti riporteremo. Se non ci aiuti, sai come andrà a finire. Lascia che questo problema trovi un lieto fine”. “C’è un tampone lì, dovete darmi dei farmaci?”, Chiese Khashoggi. Sembrava ancora calmo. “Ti addormenteremo“, fu la risposta. Quindi Mutreb diede l’ordine. Cinque agenti si buttarono su Khashoggi. Lui lottava, e nel caos si sentiva un agente dire “continua a spingere. Spingi qui, non togliere la mano”.
“Lasciami respirare,” diceva Khashoggi. “Ho l’asma. Smettila, mi sta soffocando.” Le intercettazioni ambientali turche hanno poi catturato ciò che ad alcuni è sembrato come un sacchetto di plastica che veniva messo sulla testa di Khashoggi. Poi solo suoni ovattati di lotta. Quindi niente più. Mutreb fece una telefonata. “Riferisci al tuo capo”, disse nell’apparecchio. “L’operazione è compiuta.” Il resto del piano della squadra di esecuzione continuò con grottesca efficienza. Un agente tolse vestiti a Khashoggi e li consegnò ad al-Madani, il sosia. Un altro tirò fuori dei teli di plastica.
Tubaigy, il medico, prese la sega da osso che aveva portato da Riyad. Due ore dopo, il furgone squadrato uscì dal vialetto coperto del consolato. Trasportava Mutreb, Tubaigy e, con ogni probabilità, il corpo smembrato di Khashoggi. Guidarono per il breve tragitto fino alla casa del console generale. Sul viale di accesso tre uomini scaricarono tre sacchi della spazzatura e una valigia con le ruote. Al consolato, al-Madani stava uscendo da una porta sul retro, evitando Hatice Cengiz al cancello sul davanti. Era vestito con gli abiti di Khashoggi, a parte un paio di scarpe da ginnastica al posto delle stringate nere del giornalista. Saltò su un taxi accompagnato da un altro agente che indossava dei jeans, una felpa con cappuccio e una borsa di plastica bianca, e chiese di essere portato alla Moschea Blu nel centro storico di Istanbul. Da qualche parte all’interno della moschea al-Madani si cambiò di nuovo, stavolta con i suoi vestiti. Gli agenti mollarono la borsa bianca e salirono su un altro taxi per una stazione della metropolitana. Se più tardi qualcuno avesse controllato le riprese delle telecamere di sicurezza di Istanbul, avrebbero desunto che Khashoggi era uscito dal consolato per andare a visitare la città. Poco prima delle 17:00 Mutreb, Tubaigy e un altro agente lasciarono la residenza del console generale. Non c’era traccia dei sacchi o della valigia con le quali erano entrati. In quel momento due jet privati stavano arrivando da Riyad. Mutreb e altri cinque presero il primo, un aereo della Sky Prime Aviation con matricola HZ-SK1, partito da Istanbul alle 18:30. L’aereo volò durante la notte verso il Cairo, ripartendo la sera successiva per l’Arabia Saudita. Gli altri sette decollarono su uno Sky Prime HZ-SK2 poco prima delle 22:00. Gli ultimi due membri della squadra di esecuzione partirono alle 1:30 del mattino seguente su un volo di linea per Riyad. Erano passate dodici ore da quando avevano ucciso Khashoggi.
Nel corso della serata del 2 ottobre l’intelligence turca stava già riascoltando le sette ore di registrazioni audio provenienti dall’interno del consolato. Poiché le registrazioni non erano state controllate in tempo reale, all’inizio gli agenti dei servizi fecero fatica a capire il vero destino di Khashoggi. Forse, avevano concluso, era stato drogato e trasportato fuori dall’ambasciata in una cassa, ancora vivo. Nel frattempo, il depistaggio saudita era già iniziato. La mattina del 3 ottobre, il personale del consolato ebbe disposizioni di evitare il secondo piano, che fu pulito intorno alle 11:00. In serata le telecamere registrarono un fuoco acceso in un barile, fuori dalla casa del console generale.
Il 5 ottobre, un funzionario consolare era andato a far lavare il furgone visto entrare e uscire dal consolato. Il giorno seguente, i funzionari sauditi fecero entrare nel consolato i giornalisti di Reuters con una telecamera. Volevano dimostrare di non aver nulla da nascondere, erano sconcertati come chiunque altro sulla scomparsa di Khashoggi. “Il cittadino Jamal non è nel consolato o nel Regno dell’Arabia Saudita”, aveva detto il console saudita davanti alle telecamere. Almeno questo era vero. La bugia arrivò dopo. “Il consolato e l’ambasciata stanno facendo del loro meglio per cercarlo. Siamo preoccupati per il caso”, disse con occhi che guizzavano da una parte all’altra. Sì, il consolato aveva telecamere di sicurezza installate in tutti i suoi ingressi, ha ammesso in risposta alla domanda di un giornalista. In qualche modo, quel giorno non avevano semplicemente funzionato. L’ambasciatore saudita negli Stati Uniti aggiunse una dichiarazione: qualsiasi notizia “che le autorità del Regno abbiano arrestato [Khashoggi] o lo abbiano ucciso sono assolutamente false e prive di fondamento”. Ma gli autori del complotto potevano già accorgersi che i loro inganni stavano per venire alla luce.
Il 10 ottobre, una nuova squadra era in volo da Riyad. Comprendeva membri dei dipartimenti dei test genetici e delle prove criminali sauditi e sembrava avere l’incarico di eseguire un livello più approfondito di pulizia. La squadra entrata in azione il giorno seguente era composta da undici membri, tra cui un chimico e un esperto di tossicologia. Lavorarono all’interno del consolato per tre giorni, praticamente a ciclo continuo. Anche se i sauditi avevano continuato a sostenere che Khashoggi fosse semplicemente “disperso”, da un esame più attento delle registrazioni le autorità turche conclusero che era stato ucciso, il corpo probabilmente trasportato a casa del console generale. La stampa turca, alimentata da prove fornite della National Intelligence Organization, iniziò a pubblicare foto, video e dossier sui quindici membri della squadra di esecuzione: l’arrivo all’aeroporto, la registrazione nei rispettivi hotel, le entrate e le uscite dal consolato. Il canale televisivo satellitare saudita di informazione, Al Arabiya, riferiva invece che i quindici sospetti sauditi erano solo dei turisti. Affermavano che Khashoggi non era stato ucciso e bollavano le affermazioni contrarie come “false notizie”. Alle autorità turche fu finalmente concesso l’accesso al consolato il giorno 15. Gli investigatori trovarono ben poco di interessante. Le stanze erano state così accuratamente pulite, dissero ai giornalisti locali, che non riuscirono a rilevare nemmeno i livelli di DNA tipici di un ufficio. Nella residenza del console i funzionari sauditi avevano impedito ogni loro mossa, dichiarando improvvisamente inaccessibili alcune aree. Come per il consolato, dissero che nella giornata del 2 ottobre le telecamere a circuito chiuso non erano misteriosamente riuscite a registrare nulla. Notando che nella proprietà c’era un pozzo, gli investigatori turchi chiesero il permesso di ispezionarlo. La richiesta fu respinta.
Agnes Callamard, un’esperta di diritti umani nata in Francia che gestiva il Global Freedom of Expression Project della Columbia University, stava seguendo sempre più preoccupata da New York la vicenda Khashoggi. Aveva passato anni a documentare omicidi di stato nella sua veste di relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie – una specie di investigatore girovago e indipendente che si occupava delle morti illegali. Sapeva bene come si poteva presentare un depistaggio. Il 15 ottobre, lei e un collega firmarono un editoriale per il The Washington Post, chiedendo un’indagine indipendente sponsorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. “La scomparsa di Khashoggi deve portare alle responsabilità e avere conseguenze”, avevano scritto. Non è successo niente. “A livello internazionale c’era l’umore di lasciar correre”, mi avrebbe in seguito detto la Callamard, “e di andare avanti come se niente fosse”. Il governo saudita stava già manovrando per costruire un’altra sponda narrativa. In una telefonata del 9 ottobre con Jared Kushner e John Bolton, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Mohammed bin Salman aveva spiegato che Khashoggi era un “pericoloso islamista” e un noto membro dei Fratelli Musulmani. Il governo saudita sosteneva ancora pubblicamente la possibilità che Khashoggi fosse vivo. In privato, il principe ereditario stava già giustificando la sua uccisione. Mohammed bin Salman aveva investito nelle relazioni con l’amministrazione Trump dal momento in cui Trump è entrato in carica. Dopo essersi sentito messo da parte da un’amministrazione Obama decisa a stringere l’accordo nucleare con l’Iran, il re e il principe ereditario avevano trovato una causa comune con un presidente statunitense desideroso di disconoscere il traguardo raggiunto dal suo predecessore. Trovarono anche facile confidenza con un leader disposto a mantenere il potere all’interno della propria famiglia, come Trump aveva fatto con Ivanka e Jared. Petrolio, commercio di armi, reciproca antipatia per l’Iran e antiterrorismo formano da tempo i quattro pilastri delle relazioni USA-Arabia Saudita. A questi se ne potrebbe aggiungere un quinto, più personale. Avere il genero di un presidente “in tasca”, secondo quanto riferito da Mohammed bin Salman, stava per dare i suoi frutti. Non è quindi un caso che sia stato Trump a lanciare per la prima volta pubblicamente la “teoria degli assassini canaglia” – cioè che la squadra di quindici uomini era stata inviata per riportare indietro Khashoggi e, contro gli ordini, aveva finito per ucciderlo. Dopodiché, questa divenne la versione su cui il governo saudita fece perno il 19 ottobre, dopo che l’ammissione forzata dell’omicidio aveva annullato la prima serie di smentite. Il procuratore capo saudita apparve sulla televisione di stato per riferire che in realtà il giornalista era stato ucciso. Nel consolato era scoppiata una rissa, affermava falsamente, e purtroppo Khashoggi aveva perso la vita. Il giorno successivo, un portavoce saudita riferiva a Reuters che il governo aveva arrestato diciotto sospetti in relazione all’omicidio, inclusi i quindici indicati dalle autorità turche come parte della squadra di esecuzione (che lo avessero fatto o meno mentre erano “in vacanza”, come avevano affermato in precedenza i sauditi, non era dato sapere). Comunque, il governo saudita continuava a sostenere che l’omicidio era stato, come lo aveva definito un funzionario, “un enorme errore.”
Ci volle meno di una settimana perché la storia cambiasse ancora: il 25 ottobre il governo saudita ammise che l’omicidio era stato premeditato, ma continuava a sostenere che non aveva idea di dove fosse finito il corpo di Khashoggi. Avevano anche affermato che alcuni membri dell’apparato di sicurezza dello stato, tra cui al-Qahtani, avevano perso il lavoro. Ma i 18 sospetti inizialmente arrestati sono presto diminuiti a 11 che sono stati accusati penalmente in relazione all’omicidio. Quel numero includeva Mutreb e Tubaigy, insieme a nove agenti di sicurezza. Al Qahtani non fu incluso tra gli accusati – né, naturalmente, lo stesso Mohammed bin Salman. Esperti osservatori della realtà saudita trovarono impossibile che un’operazione così elaborata potesse aver luogo sotto il naso del principe ereditario, considerato il suo controllo sull’apparato di sicurezza dello stato. Il 16 novembre sia il The Washington Post sia il The New York Times riferivano tramite fonti anonime che la CIA era arrivata alle stesse conclusioni: Mohammed bin Salman non era soltanto a conoscenza dell’omicidio ma, se ne poteva dedurre, l’aveva ordinato. Tra le altre prove trapelate al The Wall Street Journal da un rapporto ufficiale c’era il fatto che Mohammed bin Salman e al-Qahtani si erano scambiati undici messaggi di testo durante la fase dell’uccisione. Via via che cresceva l’indignazione pubblica intorno al possibile ruolo del governo saudita nell’omicidio, persino l’amministrazione Trump parve costretta a indicare almeno una qualche preoccupazione a proposito della propria relazione con quel governo. L’amministrazione Trump annunciò sanzioni personali per diciassette sauditi, tra cui Saud al-Qahtani, che nell’annuncio del Dipartimento del Tesoro era indicato come facente “parte della pianificazione e del compimento dell’operazione che ha portato all’uccisione del Signor Khashoggi”. Il The New York Times aveva riferito che in privato anche Trump aveva alzato gli occhi al cielo quando i suoi collaboratori gli avevano chiesto se Mohammed bin Salman avesse potuto o meno ignorare l’esecuzione. Pubblicamente, tuttavia, Trump rimaneva accanto all’amico di suo genero.
Il 20 novembre, il presidente USA aveva rilasciato una bizzarra dichiarazione riaffermando la sua fiducia nel regime saudita e in Mohammed bin Salman. “Il mondo è un posto molto pericoloso!” cominciava la dichiarazione. Dopo diversi paragrafi strombazzanti i pericoli dell’Iran e celebrativi di un vago impegno saudita per investire quattrocento miliardi di dollari negli Stati Uniti, la dichiarazione affrontava l’omicidio di Khashoggi, definendolo “un terribile [crimine], di quelli che il nostro paese non perdona”. Era stata inoltre riesumata l’affermazione priva di prove da parte di bin Salman rivolta a Kushner e Bolton, secondo cui i sauditi consideravano Khashoggi “un nemico dello stato” e un membro dei Fratelli Musulmani. “Può benissimo essere che il principe ereditario fosse a conoscenza di questo tragico evento – forse lo era, forse no!”, aveva continuato Trump. “Detto questo, potremmo non conoscere mai tutti i fatti relativi all’omicidio del signor Jamal Khashoggi.”
A gennaio, Agnes Callamard, il relatore speciale delle Nazioni Unite, si rese conto che Trump avrebbe probabilmente avuto ragione sugli aspetti inconoscibili della vicenda. Il mondo non si sarebbe mobilitato per un’indagine indipendente. Il Consiglio di Sicurezza non aveva fatto niente di ciò che aveva proposto. Decise quindi di iniziarla da sola. “Sentendomi delusa, avevo pensato: non può finire così”. Gran parte del suo lavoro aveva riguardato uccisioni su larga scala perpetrate da gruppi armati. La morte di Khashoggi rientrava però nel suo mandato di “esaminare situazioni di esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie in ogni circostanza”, secondo la risoluzione che lo aveva istituito. Per sua natura, il suo ruolo non richiedeva l’approvazione delle Nazioni Unite per una particolare indagine. “Mi sentivo un po’ sconfortata”, disse. “Ero sola, mentre dovevo considerare l’uccisione più chiacchierata del momento, una notizia importante, una grossa patata bollente per le relazioni internazionali.” Organizzò una squadra di avvocati e di traduttori, e il suo primo viaggio in Turchia. Dopo settimane di trattative, l’intelligence turca permise alla Callamard di ascoltare – ma non di copiare o ufficializzare – parti dei nastri di sorveglianza, insieme a un traduttore. Attraversò poi l’Europa e il Nord America, intervistando amici e colleghi di Hatice Cengiz e Khashoggi, tra cui Omar Abdulaziz. A dicembre, Abdulaziz aveva intentato una causa contro NSO Group, il produttore di Pegasus, sostenendo che le informazioni ottenute durante la violazione del suo telefono avevano costituito un “fattore cruciale” nella decisione di uccidere Khashoggi.
La causa è rimasta pendente. In una dichiarazione rilasciata a Business Insider martedì 1 ottobre, NSO Group ha rifiutato di commentare specificamente la questione Abdulaziz, ma ha osservato che un controllo su “ogni governo con cui NSO intrattiene rapporti commerciali” ha mostrato che Jamal Khashoggi “non è stato sotto controllo da parte di nessun prodotto o tecnologia NSO”. Per quanto riguarda Abdulaziz, il gruppo NSO aveva precedentemente dichiarato al The New York Times che il suo software era “concesso in licenza per il solo uso di dare ai governi e alle forze dell’ordine la possibilità di combattere legalmente il terrorismo e il crimine”, e che i suoi contratti erano “forniti solo dopo un controllo e completo consenso da parte del governo israeliano”. I sauditi si rifiutarono di accreditare l’indagine della Callamard, ignorando le sue richieste. Il The Washington Post ha riferito che il governo aveva offerto ai figli di Khashoggi case e somme mensili come compensazione per l’omicidio (il figlio di Khashoggi ha negato che sia stato raggiunto un qualsiasi accordo). Il regno ha aperto le sue porte a diversi importanti influencer di Instagram, ai quali ha offerto tour a pagamento per vedere il lato positivo del paese. “Non è propaganda”, aveva dichiarato a Bloomberg il principe responsabile dello sforzo. “È semplicemente un’attività di coinvolgimento.” Molti dirigenti del mondo della tecnologia e venture capitalist che avevano acclamato nella Silicon Valley il Mohammed bin Salman riformatore non erano disposti a coinvolgersi apertamente. Se un capitalista di ventura della Sand Hill Road – la strada della Silicon Valley dove risiedono la maggior parte delle compagnie di investimento – fosse stato accusato di aver commissionato un brutale omicidio, ci si sarebbe come minimo potuto aspettare che i partner e gli investitori si sarebbero allontanati – o che addirittura si pulissero completamente le mani da quel denaro sporco di sangue. Una volta messo sotto accusa un manovratore come bin Salman, seduto in un palazzo di Riyadh con in mano i cordoni di somme miliardarie ancora maggiori, la strategia sembrò essere il silenzio assoluto. Alcuni di loro, come Richard Branson e il CEO di Uber Dara Khosrowshahi, decisero di disertare una conferenza economica prevista per fine ottobre, ospitata da Mohammed bin Salman a Riyad, soprannominata “la Davos nel deserto”. Altri scelsero di allontanarsi silenziosamente dai progetti sauditi, come hanno fatto i dirigenti di Apple e lo studio di design IDEO, uscendo dal comitato consultivo di Neom, un progetto di “mega-città” in Arabia Saudita. Nessuno dei magnati tecnologici in erba che aveva sostenuto la propria curva di crescita con i miliardi sauditi sembrava però disposto a toccare la questione di Khashoggi, anche dopo che i fatti erano stati resi noti (Business Insider ha contattato una dozzina di startup tecnologiche che avevano direttamente o indirettamente ricevuto significativi investimenti dall’Arabia Saudita; i pochi che hanno risposto non hanno commentato il caso). L’unica società a ripudiare pubblicamente il denaro saudita è stata Endeavor, il colosso di scouting aziendale basato a Hollywood, che a marzo 2019 ha annunciato di restituire quattrocento milioni di dollari concessi dal fondo di investimento pubblico saudita. Lo scorso agosto, SoftBank ha annunciato che avrebbe presto iniziato a investire il suo Vision Fund Two in un nuovo gruppo di società. Nonostante l’affermazione fatta in ottobre da Mohammed bin Salman secondo cui i sauditi stavano immettendo nel fondo altri quarantacinque miliardi, i sauditi non sono presenti tra gli investitori. Non è chiaro se ciò sia dovuto a una nuova resistenza ai soldi sauditi o a una recente riluttanza da parte di Mohammed bin Salman a spenderli. Poiché la valutazione di Uber si è appiattita dopo la sua offerta pubblica iniziale e una WeWork sotto pressione ha dovuto rinviare la sua IPO, lo stesso Vision Fund iniziava a sembrare una scommessa poco sicura come investimento.
A giugno la Callamard e il suo team hanno pubblicato il loro straziante rapporto di 100 pagine, catalogando i raccapriccianti dettagli del complotto e della sua esecuzione. Si sosteneva che i processi segreti agli undici sicari accusati in Arabia Saudita non avrebbero fatto giustizia (Saud al-Qahtani, il principale pianificatore dell’omicidio, era nel frattempo scomparso dalla vita pubblica in Arabia Saudita, con voci non ancora confermate di un suo avvelenamento. A settembre Twitter ha improvvisamente deciso di sospendere il suo account, a lungo rimasto inattivo). La Callamard raccomandava agli Stati Uniti di aprire un’indagine dell’FBI sull’omicidio e di sanzionare Mohammed bin Salman – “secondo le credibili prove delle responsabilità del Principe ereditario nell’omicidio” – finché i sauditi non forniscano prove per stabilire se fosse o meno coinvolto nel complotto. Giorni dopo l’uscita del rapporto, tuttavia, Trump ha dichiarato in un’intervista su “Meet the Press” di non essere neanche riuscito a sollevare l’argomento dell’omicidio, durante una telefonata con Mohammed bin Salman. Era stato “un grande confronto”, ha detto. “ma in quella discussione non è proprio stato toccato l’argomento”. Anche se alcuni membri del congresso, sia repubblicani che democratici, continuavano a chiedere esiti in merito all’omicidio di Khashoggi, la famiglia Trump era rimasta ferma nella sua lealtà. Il presidente Trump ha ignorato una direttiva bipartisan del Congresso per pubblicare un rapporto sul coinvolgimento del principe ereditario e ha posto il veto al tentativo di fermare il sostegno degli Stati Uniti alla brutale guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen. In effetti, gli affari tra i due paesi continuavano a essere vivaci: meno di tre settimane dopo l’assassinio di Khashoggi, l’amministrazione aveva già concesso l’autorizzazione a due società private statunitensi per la condivisione di informazioni nucleari sensibili con il governo saudita. Per Mohammed bin Salman il messaggio non avrebbe potuto essere più chiaro. “Fintanto che il presidente Trump è al potere e finché Mohammed bin Salman offre denaro comprando armi, investendo in società statunitensi e nell’economia americana, saprà di avere una sorta di copertura, una sorta di protezione”, mi ha detto la Farouk di Carnegie’s. Dopo che due impianti petroliferi sauditi sono stati danneggiati dai recenti attacchi di droni che funzionari della Casa Bianca sostengono siano originari dell’Iran, un giornalista ha chiesto a Trump se avesse promesso ai sauditi “che gli Stati Uniti li avrebbero protetti”. “No, non l’ho fatto. Non l’ho promesso ai sauditi”, ha risposto Trump. “Ma li aiuteremmo sicuramente”, ha detto. “Sono stati un grande alleato. Negli ultimi anni hanno speso quattrocento miliardi di dollari nel nostro paese. Quattrocento miliardi di dollari.” L‘Arabia Saudita, ha osservato in conclusione, “paga in contanti”. Quasi due anni dopo la repressione da parte di Mohammed bin Salman della corruzione nel suo paese e due settimane prima dell’anniversario dell’omicidio di Jamal Khashoggi, un suo documento riferisce che Jared Kushner tornerà in Arabia Saudita per la “Davos nel deserto” di quest’anno. Il forum si svolgerà al Ritz Carlton di Riyad.
Il 20 ottobre del 2018 Hatice Cengiz si è svegliata al ronzio del suo telefono. Era un messaggio del migliore amico di Khashoggi. “Dio riposi la sua anima”, c’era scritto. In televisione il procuratore capo dei sauditi aveva appena ammesso che il suo promesso sposo era morto. Il 2 ottobre, quando Khashoggi non era riuscito a riemergere dal consolato, lei aveva passato la serata telefonando freneticamente, cercando una risposta su dove fosse andato. Le menzogne ufficiali sul suo destino sono state la causa di un crudele ottimismo che avrebbe potuto farlo considerare ancora vivo. Forse era stato rapito, portato fuori dal paese e riportato in Arabia Saudita. Scomparso, ma ancora vivo. Il fatto che lo avessero semplicemente ucciso sembrava non avere senso. Aveva trascorso le sue giornate parlando con i parenti e gli amici di lui, cercando di proteggersi dalle infinite ondate di curiosità e di preoccupazione da ogni angolo del mondo. Ha fatto alcuni commenti, ma non ha tenuto conferenze stampa. Quando Jamal fosse uscito da qualunque posto si trovasse, pensava, avrebbe parlato da solo. Per Cengiz la sua morte non ha causato soltanto dolore, ma anche portato domande. Alcune semplici, alimentate dalla rabbia: dov’era il suo corpo? Di chi era la colpa? Chi avrebbe potuto chiedere giustizia per lui? Altre domande, disse in seguito, non avevano risposta, girando e rigirando nella sua testa. “Era arrabbiato con me?”, si chiese. “Che cosa ha dovuto passare? Che cosa ha provato quando si è reso conto che lo avrebbero ucciso?” Lasciata a soffrire sotto la luce dei riflettori globali, aveva dovuto mettere da parte i suoi studi, mentre diplomatici e governi nascondevano, tessevano e razionalizzavano la morte dell’uomo che amava. Descrisse davanti alle telecamere della televisione l’agonia di quel giorno; scrisse un libro in turco che includeva pagine del suo diario scritte nei giorni successivi all’omicidio, intime professioni dell’amore che il suo paese aveva strumentalizzato. Tutto si tingeva della speranza di spingere il mondo verso la comprensione di ciò che era andato perduto quella mattina di ottobre – forse, persino la giustizia. “Credo che questi momenti siano molto preziosi per Jamal”, mi disse tramite un traduttore, quando ci incontrammo il 27 settembre in una suite d’albergo vicino alla Grand Central di New York. “Devo, quindi, fare tutto il possibile per lui.” Era venuta a New York per tenere un discorso in concomitanza con la riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tra le cose che stava caldeggiando c’erano le raccomandazioni del rapporto della Callamard: un’indagine completa di un’entità come l’FBI e la responsabilità di chiunque in Arabia Saudita fosse responsabile di quello che lei chiamava “un omicidio politico”. Quella con me è stata l’ultima di una serie di interviste, una di seguito all’altra, che Cengiz aveva dato quel giorno. In qualche modo, ogni scambio l’ha costretta a raccontare o riflettere sui momenti peggiori della sua vita e sul dolore che ne è seguito. Eppure, non sembrava stanca, ma irremovibile, diretta. “Sì, mi sono persa qualcosa in termini di carriera, ma per il momento non mi interessa”, ha detto. “Ciò che conta è Jamal, devo difendere i suoi diritti.” La questione della responsabilità di Mohammed bin Salman era riemersa quella mattina, quando il Public Broadcasting Service aveva pubblicato il trailer di un prossimo documentario di Frontline sull’Arabia Saudita. In esso, il giornalista Martin Smith dichiarava di aver rintracciato Mohammed bin Salman a un evento sportivo, chiedendogli del suo ruolo nell’omicidio di Khashoggi. “Mi prendo tutta la responsabilità,” riferisce Smith che il principe ereditario abbia detto, “perché è successo sotto il mio controllo.” Alla domanda su come l’omicidio sarebbe potuto succedere senza i suoi ordini, aveva detto “Siamo venti milioni di persone. Abbiamo tre milioni di dipendenti pubblici”. Pochi giorni dopo il principe ereditario ha rafforzato la sua smentita, in un’intervista a 60 Minutes. Definendo l’omicidio un “episodio atroce”, Mohammed bin Salman ha risposto “assolutamente no” a una domanda precisa sul fatto che lo avesse ordinato o meno, ribadendo poi che non avrebbe potuto tenere sotto controllo neanche le azioni dei suoi più stretti consiglieri, tra i milioni di cittadini dell’Arabia Saudita. Secondo la Cengiz, per Mohammed bin Salman aver concesso una dichiarazione del genere dimostrava che percepiva la pressione della copertura mediatica sull’omicidio. I suoi argomenti, come lei ha suggerito, avevano anche lo scopo di inviare un messaggio: “è lui il responsabile dell’amministrazione saudita e del governo saudita. Affermando ciò, sta anche consolidando la sua posizione”. Stava inoltre, pensava, implicitamente ammettendo che, in quanto sovrano onnisciente, sapeva esattamente cosa fosse successo nel complotto per l’esecuzione. “Ora è a lui che mi rivolgo”, ha detto. “Se è vero che hai confessato, condividi anche i dettagli di questo incidente.” Prima che ci alzassimo per andarcene, chiesi a Cengiz come potesse trattenersi dall’essere sopraffatta dal cinismo. “Questa storia ha cambiato totalmente la mia vita, dividendola in due”, ha detto. “Ho trentacinque anni e ho improvvisamente iniziato la seconda metà della mia vita con nuovi programmi. Non c’è niente altro che conti per me.” Aveva lasciato dietro di sé le preoccupazioni terrene, disse. Non aveva più paura della morte. “Amare ed essere amati è la cosa più importante”, ha detto. “Credo che dobbiamo vivere per le cose che valgono davvero la pena.”
· Daphne Caruana Galizia. I tre improbabili sicari e la scia dei dollari.
I tre improbabili sicari e la scia dei dollari. Poi i «pentiti» portano alle stanze del premier. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Francesco Battistini. Così il suo capo di gabinetto è finito al centro delle accuse. Cinquantamila euro a killer. Tanto valeva la vita di Daphne Caruana Galizia: 150 mila euro che furono versati ai tre sicari — Alfred Degiorgio che piazzò la bomba sotto il sedile della giornalista, suo fratello George che da uno yacht fece esplodere la carica con l’invio d’un sms, Vince Muscat che sostiene d’aver fatto solo da palo —, rotoli di banconote che i tre si videro recapitare in due tranche, prima del delitto e una decina di giorni dopo, in un resort. Chi fece arrivare quei soldi? È attorno a questa domanda che ruotano le grazie negoziate in cambio di rivelazioni, le proteste di piazza, le dimissioni politiche che stanno facendo tremare l’isola dei mille misteri. Gli ultimi arresti hanno chiarito come andò quel 16 ottobre 2017, il giorno dell’assassinio. Daphne alle tre del pomeriggio esce dalla sua casetta residenziale di Bidnija e sale sulla Peugeot 108, da poco noleggiata, che la sera prima il figlio le aveva parcheggiato al solito posto. Non sa che nella notte Alfred Degiorgio detto «Ic-Ciniz» (il cinese) ha già fatto il suo lavoro, sorvegliato a distanza da George detto «Ic-Fulu», il fagiolo, e da Vince, piccoli precedenti per reati come l’importazione d’uccelli rari, tirapiedi tuttofare dei due fratelli appassionati d’arti marziali. L’esplosione, che manda in mille pezzi anche l’auto, è l’epilogo d’un copione studiato per mesi. La gang spia la reporter ogni giorno e ci sono anche un paio di prove: una volta, a ferragosto, mentre Daphne si trova a una riunione di famiglia all’hotel Phoenicia; un’altra, a settembre, quando va col marito Peter in aeroporto e parte per un viaggio all’estero (al tassista Theuma vien dato l’incarico di controllare a distanza l’auto, per sapere se i due rincasano). All’inizio, l’idea è d’eliminare Daphne con un fucile di precisione: da una gang maltese, mittente un clan mafioso italiano, viene spedita un’arma col mirino telescopico. Troppo perfetta, forse, anche per Alfred che è l’unico a sapere sparare bene. Viene individuata una finestra della casa di Bidnija, lo studio dove Daphne lavora spesso al computer. La banda mette pure delle ciabattine su un muro, per segnalare al cecchino il punto, tirare lì dentro sarebbe la cosa migliore. Ma qualcosa non convince, i tre temono di fallire. E alla fine restituiscono agli italiani il fucile, chiedendo in cambio l’esplosivo. La svolta nelle indagini c’è con l’arresto d’un milionario maltese, lo scorso 20 novembre, mentre sul suo yacht cerca di fuggire a Dubai via Tunisia. Appena preso, Yorgen Fenech chiede la grazia in cambio di soffiate. Esattamente come l’ha chiesta poche ore prima Melvin Theuma, un tassista-usuraio ammanettato come intermediario nell’affaire criminale. Proprio come la domandò mesi fa Vince Muscat, per incastrare Theuma. È Fenech a fare il nome di Keith Schembri, il capo di gabinetto del premier Joseph Muscat prima arrestato e poi rilasciato su cauzione. Ma è Vince, a far franare tutto. Sperando d’avere un’impunità che non arriverà mai, lui che sa poco dei mandanti. Additando alla polizia il piccolo pesciolino Theuma che, invece, a sorpresa quella grazia l’ottiene e subito fa il nome che conta: quello di Fenech. È il premier Muscat a concedere l’impunità a Theuma, scavalcando il governo, e dando al solo Schembri la possibilità d’essere informato ogni istante sulle indagini. Proprio Schembri. L’uomo che per gli investigatori merita il carcere. E che da quelle stanze credeva di poter controllare tutto. Fra le mille inchieste giornalistiche di Daphne, una si rivela la pista giusta: la scoperta a Panama d’una società off-shore, la 17 Black, che attraverso Fenech arriva a Schembri e all’ex ministro dell’Energia (poi riciclato al Turismo) Mizzi. Fenech ottiene la gestione d’una centrale elettrica e sui conti della 17 Black girano soldi che puzzano di tangente. Caruana Galizia l’aveva capito, in parte l’aveva scritto. Senza fare ancora tutti i nomi, ma dicendo profetica: tutto è marcio, qui intorno…
Daphne Caruana Galizia: il premier Malta verso le dimissioni. Muscat avrebbe già annunciato la decisione al presidente. Redazione ANSA 29 novembre 2019. Il ciclone delle indagini sulla morte per autobomba della giornalista Daphne Caruana Galizia continua a scoperchiare i palazzi di Malta. Quello del governo di Joseph Muscat, diventato premier l'11 marzo 2013, potrebbe presto cambiare inquilino. Ma per ora il primo ministro resta almeno fino alla chiusura del caso poi "parlerà del futuro", assicura in serata una nota del governo. Ma intanto la tempesta giudiziaria e morale entra fin dentro le case, dove si litiga tra sostenitori del governo laburista e dei suoi successi economici ed indignati critici degli evidenti segni di corruzione, endemica ma sempre più diffusa e scoperta nel paese. "Non escludiamo un' ondata di violenza" ha confidato una fonte dei servizi di sicurezza maltesi, specificando che un'eventuale crisi del Tumas Group, la holding del principale sospetto che "fa mangiare 40mila persone", sarebbe un terremoto per il paese. La tensione palpabile a Malta è emersa anche nella notte, quando un gruppo di giornalisti, inclusi gli italiani Paolo Borrometi e Sandro Ruotolo in rappresentanza della Fnsi, è stato circondato e "sequestrato" per una decina di minuti da persone che sono state riconosciute da colleghi maltesi non essere poliziotti in borghese ma, nelle parole di Borrometi, "picchiatori e criminali, pluripregiudicati, a quanto pare sostenitori del primo ministro maltese". L'episodio è avvenuto la notte scorsa quando il gabinetto dei ministri, dopo aver autonomamente ascoltato la riconferma dei pareri negativi del Procuratore generale e del Capo della Polizia (col premier Muscat fuori della sala), dopo una burrascosa seduta durata oltre sei ore ha deciso "all'unanimità" di non concedere la grazia a Yorgen Fenech, il re dei casinò e capo dell'impero Tumas Group ma anche della sulfurea 17Black. Era il secondo rifiuto di una grazia richiesta in cambio di presunte rivelazioni che inchioderebbero l'ex braccio destro di Muscat, Keith Schembri. Che invece è stato rilasciato ed è rimasto sull'isola, contrariamente alle voci che lo davano in partenza. Gli avvocati di Fenech sono passati subito al contrattacco riproponendo la richiesta per la terza volta, direttamente al presidente. Inoltre hanno presentato richiesta di ricusazione dell'ispettore a capo delle indagini. Nell'udienza, Fenech ha sostenuto di avere registrazioni audio di colloqui con Schembri ed una foto di Melvin Theuma, il tassista-usuraio che si è autoaccusato di essere stato l'intermediario di morte tra Fenech ed i tre sicari, nell' ufficio dell'allora capo di gabinetto all'Auberge de Castille, sede del governo. Per ora i responsabili delle indagini non gli hanno creduto e punterebbero sui possibili legami con mafie (italiane e non) emersi in casi di riciclaggio collegati a società controllate da 17Black.
Caruana Galizia, l’avvocato «Il premier maltese complice dell’omicidio». Alessandro Fioroni il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. La denuncia del legale di famiglia della giornalista. La donna aveva scoperto un caso di corruzione tra politici e uomini di affari. Arrestato anche l’ex capo di gabinetto Keith Schembri. Un vero e proprio terremoto politico giudiziario sta scuotendo il governo dell’isola di Malta in seguito agli sviluppi sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia. «Abbiamo chiesto l’aiuto dell’Europa. Il primo ministro è un possibile complice nell’omicidio», ha spiegato Jason Azzopardi, avvocato della famiglia della giornalista rimasta uccisa nell’esplosione della sua auto nel 2017, mentre stava indagando, e aveva rivelato, una trama di corruzione che coinvolgeva il governo. Le dichiarazioni del legale arrivano dopo l’arresto nella notte tra martedì e mercoledì di Keith Schembri, ex capo di gabinetto del primo ministro Joseph Muscat. L’uomo, in fermo dopo un interrogatorio di polizia e una perquisizione nella sua abitazione, era il politico più vicino al premier fin da quando il partito laburista è salito al potere nel 2013. Il suo arresto arriva dopo quello della scorsa settimana di Yorgen Fenech, il potente uomo di affari catturato mentre tentava di fuggire a bordo del suo yacht. Si ritiene che siano proprio le dichiarazioni rese alla giustizia da parte di Fenech, accusato di complicità nella morte della giornalista, ad aver coinvolto pesantemente l’ex stretto collaboratore di Muscat, ciò nel tentativo di ottenere il perdono presidenziale. Ma anche il premier non naviga in buone acque, la protesta popolare sull’isola monta di giorno in giorno, manifestazioni di protesta si susseguono, lo stesso Muscat è stato più volte fischiato e insultato in occasioni pubbliche. Davanti al primo ministro sembra aprirsi così il baratro delle dimissioni anche a seguito della perdita di appoggio da parte dell’influente giornale Malta Today, da sempre vicino al premier. La famiglia di Caruana Galizia ha esortato il movimento di protesta a mantenere alta la pressione sul governo e di non partecipare ad eventi di partito. «Questo non è un momento per la politica tribale. Joseph Muscat vuole che entriamo in guerra gli uni contro gli altri. La nostra guerra è contro la corruzione», ha dichiarato il figlio della giornalista Matthew. Con l’arresto di Schembri salgono a quattro i personaggi eccellenti coinvolti nell’inchiesta, in cella è finito anche il medico personale di Fenech Adrian Vella, sospettato di aver fatto da tramite tra l’ex re dei casinò maltesi e l’ormai ex capo di gabinetto. Ma lo scandalo ha travolto anche il ministro dell’Economia Chris Cardona e soprattutto il responsabile del dicastero del Turismo Konrad Mizzi. Su quest’ultimo si erano incentrate le inchieste di Caruana Galizia la quale, mettendo mano ai famosi “Panama Papers”, aveva scoperto che Schembri e l’ex ministro maltese erano diventati beneficiari di alcune società offshore. Indagini successive poi avevano scoperto che esisteva un’ulteriore fondo segreto, il “17 Black” appartenente a Fenech, dal quale proveniva un flusso di denaro diretto proprio verso i conti nascosti di Schembri e Mizzi. Una storia di corruzione che doveva far ottenere all’imprenditore una concessione governativa per gestire una centrale elettrica.
· Il mistero di Atlanta: 24 morti, 1 sospetto.
Il mistero di Atlanta: 24 morti, 1 sospetto. 40 anni dopo si riapre il caso sul serial killer di bambini. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 da Corriere.it. File di casi del 1981 nella sala prove: la polizia di Atlanta sta riesaminando i profili dei ragazzini uccisi. L’indagine è ripartita nel marzo di quest’anno. La raccapricciante storia dell’assassino dei bambini di Atlanta comincia con un nome da orsacchiotto di pezza, Teddy, e la quindicesima lettera dell’alfabeto, la “Q”. Edward Smith, che tutti chiamano Teddy, ha 14 anni quando scompare il 21 luglio 1979. Quel giorno si è recato con gli amici in una pista di pattinaggio, in un sobborgo di Atlanta, in Georgia. Da quel momento, di lui si perdono le tracce. Fino al 28 luglio, quando il corpo di un ragazzino afroamericano viene rinvenuto in un bosco di Niskey Lake Road con un proiettile conficcato in testa. La madre, che da giorni lo cerca disperata per le strade di Atlanta, lo identifica: è Teddy. Ma il ragazzo non è solo. Poco lontano da lui c’è il corpo di un altro bambino. Ci vorranno giorni per identificarlo: il suo nome è Alfred Evans, conosciuto dai ragazzi del suo quartiere come Q, scomparso da casa quattro giorni prima. Teddy e Q sono i primi due nomi di un lungo e macabro elenco: quello delle piccole vittime del serial killer di Atlanta.
L’omicidio di due adolescenti dovrebbe bastare per mettere in allarme polizia e stampa. Ma le vittime sono afroamericane e ci troviamo ad Atlanta, dove non a caso poco più di quarant’anni prima Margaret Mitchell ambientava uno dei romanzi americani più celebri del Novecento e insieme uno dei più razzisti: Via col vento. La polizia non ritiene sia il caso di allarmarsi per la morte di due ragazzini neri di un sobborgo povero della città. Saranno regolamenti di conti nel giro della droga, si dice. E i giornali relegano le due piccole vittime nelle pagine interne. Ma quando il 4 settembre scompare il quattordicenne Milton Harvey, uscito di casa in bicicletta, e il 21 ottobre Yusuf Bell, di soli 9 anni, nei quartieri neri di Atlanta si inizia a parlare di un serial killer. Qualcuno ha visto Yusuf salire su un’auto di colore blu: il bambino doveva conoscere il suo assassino oppure l’autista è riuscito facilmente a carpirne la fiducia. I cadaveri dei due piccoli verranno ritrovati solo alla fine del 1979.
Camille Bell, madre del piccolo Yusuf, organizzò un comitato delle madri delle vittime con lo scopo di fare pressione sulla polizia e indirizzarla nella caccia a un solo assassino per tutti gli omicidi: «Non riuscivamo a farci ascoltare». Per Milton sarà impossibile stabilirne la causa della morte, mentre il piccolo Yusuf è stato strangolato. Il nuovo decennio si apre con una nuova ondata di omicidi. All’inizio del marzo 1980 il corpo di Angel Lenair, 12 anni, la prima bambina di un elenco che arriverà a contare 24 vittime minorenni accertate, viene trovato legato a un albero. In gola le hanno infilato le sue mutandine. Fino al ritrovamento del corpo, la polizia non aveva ascoltato i timori della madre, liquidando l’assenza della bambina come una fuga volontaria. Il buon nome della città andava preservato e parlare di un serial killer avrebbe danneggiato turismo, affari e l’immagine del sindaco appena eletto. Ma la rete di omertà delle istituzioni crolla quando scompare Jeffrey Mathis. Le ricerche si intensificano, la città resta col fiato sospeso. Mentre si cerca Jeffrey, viene rinvenuto il cadavere di Eric Middlebrooks, 15 anni, ammazzato di botte. La madre di Jeffrey dovrà attendere un anno prima di poter piangere sui resti del figlio. Tre settimane dopo la morte di Eric, il killer strappa la vita ad altri tre bambini. Tra loro, la vittima più piccola del mostro, LaTonya Wilson, di soli 7 anni, rapita in giugno dalla sua cameretta e ritrovata cadavere l’ottobre seguente. La comunità afroamericana è in fermento, si sente non protetta, mentre la polizia è in un vicolo cieco. Camille Bell, la madre di Yusuf, organizza un comitato delle madri delle vittime con lo scopo di fare pressione sulla polizia e indirizzarla nella caccia a un solo assassino per tutti gli omicidi. Come raccontò in seguito Camille, «più parlavamo, più capivamo di non riuscire a farci ascoltare. La polizia registrava le nostre denunce, ma nessuno ci richiamava. Nessuno faceva niente, mentre i nostri figli venivano ammazzati». Camille è certa che gli omicidi abbiano uno sfondo razziale. Ad Atlanta il Ku Klux Klan, il gruppo di suprematisti bianchi che inneggia alla guerra razziale, è una realtà che ha i suoi affiliati nei tribunali e nell’amministrazione pubblica. È tra quei fanatici che si deve cercare il killer. Intanto, i bambini continuano a scomparire, per riapparire come bambole di stoffa gettate in una discarica o sotto un ponte: dopo LaTonya tocca ad Aaron Wyche, 10 anni, poi al novenne Anthony Carter. Altri sei bambini scompariranno prima della fine dell’anno, altri sette verranno uccisi nel 1981.
Un momento del primo processo per gli omicidi di bambini ad Atlanta. Alcune delle vittime si conoscevano, molte frequentavano gli stessi luoghi. I collegamenti sono evidenti e costringono il sindaco a istituire una task force, mentre il Governo invia gli agenti migliori dell’FBI. Tra loro c’è John Douglas, giovane profiler al quale si è ispirata la serie tv Mindhunter, la cui seconda stagione dedicata al killer di Atlanta è sulla piattaforma di Netflix da questa estate. Per Douglas, l’assassino è un afroamericano tra i venti e i trent’anni, ma la polizia è convinta che la pista da seguire sia quella del KKK. E infatti salta fuori un nome, quello di Charles Sanders, un suprematista bianco che ammette di aver minacciato di strozzare Lubie Geter, colpevole di avergli graffiato l’auto. Il cadavere di Lubie è stato trovato strangolato nel gennaio 1981: è la vittima numero 18. La polizia è sicura di avere messo le mani sul mostro, ma Sanders supera la prova della macchina della verità e non ci sono prove per accusarlo. Intanto, una ricompensa a sei cifre per chi aiuterà a catturare l’assassino risveglia l’interesse dei quartieri bianchi della città. Wayne Williams, 23 anni, accusato di due delitti: venne condannato a due ergastoli per due omicidi di adulti suoi presunti complici; ma non per quelli dei bambini. Negli anni, sempre più persone, tra giornalisti e familiari delle vittime, si sono convinte che Williams non sia il serial killer. Migliaia di persone vogliono aiutare nelle indagini. La stampa dà sempre più rilievo alla vicenda, ma una fuga di notizie influenza il modus operandi dell’assassino. Un quotidiano svela che gli investigatori hanno trovato sui corpi di alcune vittime fibre e peli di cane. Da questo momento, i cadaveri non verranno più rinvenuti sulla terraferma ma riaffioreranno dal fiume. L’assassino, braccato, getta i corpi nell’acqua sperando di lavare via le prove. I poliziotti restano appostati lungo il fiume Chattahoochee per settimane. Ma tutto sembra inutile. Fino alla notte del 22 maggio, quando l’agente Robert Cambell sente un tonfo nel fiume, come quello di un corpo che precipita in acqua. Gli agenti bloccano sul ponte una station wagon blu: al volante c’è l’afroamericano Wayne Williams. Williams ha 23 anni ed è un aspirante talent scout alla ricerca, come spiega lui stesso, «del nuovo Michael Jackson». La sua professione lo porta ad avvicinare con facilità i ragazzini, ma l’uomo nega ogni coinvolgimento e alla polizia non resta che lasciarlo andare. Ma due giorni dopo, il fiume restituisce il corpo del ventisettenne Nathaniel Cater, vicino di casa della piccola LaTonya e forse colui che era stato visto da un testimone insieme al rapitore della bambina. La polizia fa irruzione in casa di Williams e preleva alcune fibre identiche a quelle ritrovate sui corpi delle vittime, così come i peli del suo pastore tedesco. Il 21 giugno 1981, l’uomo è arrestato per l’omicidio di Cater e per quello di Jimmy Payne, un altro ragazzo ripescato nel fiume e nelle cui tasche fu trovato l’indirizzo di casa della prima vittima del killer. L’ipotesi è che i due uomini abbiano aiutato Williams negli omicidi, prima di diventare loro stessi vittime.
Il ponte da cui Wayne Williams gettò il corpo del 27enne Nathaniel Cater. L’FBI ha finalmente trovato qualcuno che corrisponde al profilo stilato da Douglas. Ma è davvero lui l’assassino? Douglas dichiara alla stampa che l’uomo è l’autore di molti degli omicidi, ma non di tutti. Si fa strada l’ipotesi inquietante che un membro del KKK stia approfittando dei delitti del mostro per compierne indisturbato altri. Il processo a Williams inizia nel gennaio del 1982. L’accusa ritiene che abbia ucciso i bambini dai quali si sentiva attratto ma che riteneva «feccia» per le loro condizioni economiche. Diciannove frammenti di fibre e peli di cane prelevati da casa di Williams corrispondono a quelli trovati su almeno sei delle vittime. Ma non bastano per provare che sia lui il serial killer. Il 27 febbraio Williams è condannato a due ergastoli: ha ucciso Cater e Payne, ma non i bambini. Negli anni, sempre più persone, tra giornalisti e familiari delle vittime, si sono convinte che Williams non sia il serial killer. Il fatto che sia nero lo avrebbe reso il capro espiatorio perfetto. Lo scorso marzo, il sindaco di Atlanta ha annunciato la riapertura del caso: gli investigatori stanno lavorando su una finestra di 15 anni, dal 1970 al 1985, durante la quale in Georgia sono stati rapiti e uccisi 157 bambini, bianchi e neri. Se molti di questi omicidi verranno ricondotti alla stessa mano, ci troveremmo davanti a uno dei più prolifici serial killer della storia.
· Samuel Little: il Van Gogh dei serial killer.
Angela Marino per Fanpage.it il 10 ottobre 2019. “Dicevo loro che ero un artista come Van Gogh, che le avrei ritratte e fatte apparire bellissime”. A parlare è un uomo afroamericano di quasi 80 anni, seduto in carrozzina, con un paio di occhi verdi che si animano quando nella sua mente si riavvia la pellicola dei ricordi. Samuel Little, a sentirlo parlare, sembra quasi un attempato seduttore che rivanga gli anni ruggenti, ma così non è. Little, classe 1940, nato in Georgia, ex pugile peso massimo leggero, è il più prolifico serial killer d’America ancora in vita. Ha ucciso più vittime di Gary Ridgway, più di Ted Bundy, ma fino al 2018 era semplicemente un ergastolano condannato per aver strangolato tre donne. È stato nell’ultima fase della sua vita, davanti a un ranger del Texas e poi davanti agli agenti dell’FBI, che ‘Sam Little’ ha cominciato a confessare tutti gli omicidi commessi negli ultimi 35 anni. Ne conta 93.
Samuel Little, il serial killer che ha fatto più vittime. Dopo anni passati a marcire in un carcere ai confini del deserto del Mojave, in California, a pochi passi dalla patinata Beverly Hills, Samuel ha cominciato a confessare davanti a un ranger del Texas, James Holland, che andò da lui con il sospetto che fosse l’autore dell’omicidio di Denise Brothers, una donna uccisa fuori dallo Stato. E fu così che Little, con l’aria da tenero pensionato, ha raccontato come ha ucciso quasi un centinaio di donne dagli anni Settanta fino al 2005. Little, però, è stato in grado di fare molto di più che che rivangare i crimini: ha disegnato, con quel talento artistico che aveva affinato in carcere, i volti delle vittime. Afroamericane, bianche, ispaniche, mature, giovani, Samuel Little è in grado di ricordare ogni linea del volto di quelle donne, ogni sfumatura di colore dei capelli, ogni piega degli occhi. Uccidendole le ha fotografate per sempre. Ne sono nati centinaia di ritratti/identikit che hanno permesso a decine di famiglie di riconoscere nelle vittime di Little le loro donne scomparse e hanno dato a Samuel la possibilità di rivivere quei delitti. E grazie alla collaborazione con la giustizia, di farsi revocare la pena di morte.
Da ex pugile a serial killer. Tutto inizia in Georgia, negli anni ’40, quando il piccolo Samuel viene abbandonato sul ciglio di una strada sterrata da sua madre adolescente. Cresce per lo più con la nonna, in Ohio, ma l’attrazione per il crimine si manifesta subito, entra ed esce dal carcere 26 volte per aggressione, tentato stupro, rapina, taccheggio, oltraggio a pubblico ufficiale. È un pugile di talento, peso massimo leggero, ma viene allontanato dalla boxe per il suo carattere iracondo e incontrollabile. Ha una ragazza, Jeane, anche lei sbandata e taccheggiatrice. Paradossalmente, Sam sta dentro tre anni per aver rapinato un negozio di mobili, mentre nel 1976, viene arrestato nel Missouri, per stupro, aggressione, lesioni e rapina a Pamela K. Smith. La ragazza era riuscita fuggire dall'auto di Sam, nuda e con le mani legate dietro la schiena. In questo caso Sam viene condannato solo per la minore delle accuse e condannato a 3 mesi. L’aveva strangolata, morsa, picchiata e stuprata.
I ritratti di Samuel Little. ‘Little Sam' ha così il tempo di affinare il suo modello, perfezionare il metodo, scegliere i luoghi. Per Sammy uccidere è come fare sesso, le strangola mentre si masturba prolungando la loro agonia il più possibile per raggiungere il piacere sessuale. La sua vittima preferita incarna un modello di donna sola ed emarginata, per cui nessuno si sarebbe fatto domande. Tossicodipendenti, prostitute, donne transessuali sole, alcolizzate, madri single. Semina i delitti in diversi Stati d’America (19), così che mai a nessuno venga in mente di collegare i casi. Senza segni di arma da fuoco o di coltello sui corpi, strangolate a mani nude, queste donne sembrano morte per il degrado delle loro vite. Per overdose, stenti o percosse. Agisce impunemente fino al settembre 2012, quando viene arrestato in Kentucky per l’omicidio di Carol Elford, Guadalupe Apodaca, e Audrey Nelson, uccise nel 1987. Stavolta non c’è scampo, il DNA lo collega a tutti e tre i casi, e Sam little viene estradato a Los Angeles e condannato all’ergastolo per i 3 omicidi. Ha 76 anni.
L'FBI mette gli interrogatori su internet. Avrebbe potuto portarsi nella tomba quei 93 omicidi di cui mai nessuno avrebbe saputo niente, ma alla soglia degli 80 anni, Little ha deciso di fare coming out. E quando gli hanno messo davanti un foglio e una matita chiedendosi se sarebbe stato in grado di ricordare i volti delle vittime, lui ha sorpreso tutti disegnando facce praticamente identiche alle foto delle vittime. Sotto alcune lasciava degli appunti: "Sam mi ha ucciso, ma io lo amo", faceva dire a una delle sue vittime. È stato così che l'America ha scoperto il suo più prolifico serial killer ancora in vita. "Anche se Little è in prigione noi vogliamo ottenere giustizia per ogni vittima" hanno detto i profiler dell'Federal Bureau, che ha deciso di mettere sul proprio sito web gli interrogatori del killer, accompagnati dal ritratto di ciascuna vittima, in modo che ogni famiglia di una donna scomparsa possa poter verificare se sia stata una delle tante vittime di Sam.
Samuel Little oggi. "La prima cosa che ho capito è quanto fosse malvagio e intelligente – ha detto James Holland, il ranger che lo ha fatto confessare – la sua memoria fotografica è impressionante. Nulla di ciò che ha mai detto è risultato essere falso. Siamo stati in grado di provare quasi tutto ciò che ha detto. Sam, però, non vuole essere definito stupratore, a lui piace essere definito ‘assassino'". Oggi Sam Little è rinchiuso in carcere, da dove continua a fornire dettagli sui suoi crimini. Tutte le sue confessioni sono state ritenute credibili e hanno portato alla chiusura di diversi casi in America.
· John List, l’uomo qualunque che (finiti i soldi) sterminò la famiglia.
John List, l’uomo qualunque che (finiti i soldi) sterminò la famiglia. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Beltramin e Federico Ferrero. John List aveva perso il lavoro ed esaurito il conto in banca della madre: decise che la sua famiglia avrebbe dovuto «andare in paradiso». Uccise 5 persone e fuggì: fu arrestato 18 anni dopo, grazie a un programma tv. John List poco dopo l’arresto: nato a Bay City nel 1925 e morto nel 2008 a Trenton, nel New Jersey, mentre stava scontando l’ergastolo. Il 9 novembre del 1971 uccise a colpi di arma da fuoco la moglie, i tre figli e la madre nella loro casa di Westfield «Signor Clark, sono dell’Fbi. Devo confermare la sua identità. Mi dice il suo nome per esteso?». «Robert Peter Clark». L’impiegato dello studio contabile Maddrea Joyner di Richmond, in Virginia, abito anonimo, capelli grigi e radi, occhiali di tartaruga, è in piedi davanti alla scrivania. Non sembra stupito, né teso. «Signor Clark, lei ha una cicatrice dietro l’orecchio?». «Sì». «Lei è nato in Michigan?». «Sì». «Lei è John Emil List?» «No». Diciotto anni prima, nell’autunno del 1971, John Emil List non si vede in giro da settimane. Né lui, né la moglie Helen, né i loro figli adolescenti Patricia di 16 anni, John, 15, e Frederick, 13, e nemmeno l’ottuagenaria madre Alma. Abitano a Westfield, 30 mila anime a una ventina di chilometri da New York, in una magnifica casa vittoriana: Breeze Knoll, «il poggio della brezza». Alla scuola dei ragazzi è stata recapitata una lettera, firmata dal padre, nella quale si chiede di giustificare la loro assenza: i List devono andare fuori città per assistere la madre di Helen, gravemente malata. Insospettito dal protrarsi dell’assenza, il 7 dicembre l’insegnante di teatro di Patricia, Ed Illiano, decide di fare un salto alla villa. I vicini credono sia un ladro e chiamano la polizia. Arrivati sul posto, gli agenti Haller e Zhelesnick chiariscono l’equivoco; già che sono lì decidono di dare un’occhiata. C’è un odore pungente, terribile; la radio, ancora accesa, diffonde musica organistica. Stanza dopo stanza, Haller arriva davanti a una grande porta, coperta da un tendone di velluto, che dà sulla sala da ballo. Oltrepassata la soglia, trova quattro cadaveri distesi a terra. Il quinto è al piano di sopra. Sono tutti i membri della famiglia, tranne uno. La casa di Westfield, nel New Jersey, dove List compì la strage della propria famiglia: era ossessionato dai debiti, ma il solo lampadario (un Tiffany originale, valutato ai tempi 100.000 dollari) della villa avrebbe potuto ripianare i conti. Figlio di immigranti tedeschi di stretta osservanza luterana, John Emil ha avuto un’infanzia fin troppo tranquilla. «Era il ragazzino più pulito e ordinato che avessi mai visto», ricorda Laura Werner, vicina di casa. «Era così silenzioso che, spesso, non ti accorgevi neanche che fosse nella tua stessa stanza». Poco incline a socializzare, passava le giornate a leggere. Tutte le sere, madre e figlio si chiudevano in camera a studiare passi della Bibbia. Di sé, in vecchiaia, List avrebbe detto: «Ero sempre solo. Non avevo amici né fratelli con cui giocare o litigare». Nel 1943, appena maggiorenne, John era partito per il fronte in Germania. Al ritorno si era iscritto all’università del Michigan. Dopo la laurea e un master in contabilità, era stato richiamato nell’esercito per la guerra in Corea. A Fort Eustis, in Virginia, aveva conosciuto Helen, giovanissima vedova di un ufficiale morto in battaglia. Dopo appena tre mesi, nel 1951 erano diventati marito e moglie. Al suo psichiatra in carcere, List racconterà che non aveva intenzione di sposarsi ma lei, per convincerlo, aveva finto di essere incinta; detestando gli scontri, una volta scoperto l’inganno, lui se ne era sùbito fatto una ragione. I figli poi erano arrivati davvero. La carriera di John invece stentava. Revisore dei conti in una cartiera, poi impiegato in uno studio di commercialisti, e ancora contabile per la Xerox, non manteneva mai a lungo il posto di lavoro, nonostante il titolo di studio, l’approccio sofisticato e la meticolosità. Secondo i suoi superiori alla Xerox, «sembrava bravo, ma non lo era. Gli imprevisti lo atterrivano, non riusciva a coordinare le persone né a farsi ascoltare». Nel 1965 la First National Bank di Jersey City gli aveva finalmente offerto la carica di vicedirettore. Fu allora che si trasferirono a Breeze Knoll. Una villa che non pensava di potersi permettere e che, in definitiva, non voleva. Ma che la moglie desiderava a tutti i costi: John, ovviamente, si era fatto convincere. Dodici mesi dopo era già stato licenziato. Quella volta, però, List non se la sentì di ammettere il fallimento. Anche perché la notizia avrebbe creato il panico: casa, moglie e figli a carico avevano bisogno di essere finanziati. Così decise di far finta di niente. Tutte le mattine usciva di casa; prendeva il treno, scendeva dopo un paio di fermate e passava la giornata in stazione, a leggere il giornale. Sonnecchiava, guardava i convogli che passavano. Andò avanti così per cinque anni, fino a quando non esaurì il conto dell’anziana madre, dal quale all’insaputa di tutti prelevava quanto serviva per pagare mutuo, bollette, rette della scuola, spese al supermercato. John E. List con la moglie Helen, 46 anni, e i figli: Patricia, 16 anni, John F., 15, e Fredrick, 13. Furono trovati uccisi insieme alla madre di List, la signora Alma List, 85, nella casa di Westfield, nel New Jersey. Il capofamiglia sparì. Quel 7 dicembre 1971 l’agente Heller trovò una lunga lettera di List al suo pastore luterano. «Sono dispiaciuto di aggiungere quest’altro fardello al suo lavoro. So che quello che è stato fatto è sbagliato. Non guadagnavo più una cifra neanche vicina a quella che serviva per mantenerci. Certo, avremmo potuto dichiarare bancarotta e magari ottenere assistenza sociale. Ma conoscevo già il tipo di ambiente in cui i miei figli si sarebbero trovati, era più di quanto pensavo potessero e dovessero sopportare». Il problema però non era solo economico. «Con Patricia così determinata a perseguire la carriera da attrice, ero anche timoroso per quanto ciò avrebbe avuto a che fare con il suo continuare a essere cristiana. In più, con Helen che non frequentava la chiesa, sapevo che questo, alla fine, avrebbe danneggiato anche i ragazzi. Se ci fossimo trovati in uno solo di questi guai, forse ce la saremmo potuta cavare. Ma tutto insieme era troppo. Almeno, ora sono certo che tutti quanti sono andati in paradiso». L’omicida aveva ritagliato con cura il suo volto da tutte le foto di famiglia. Due giorni dopo, un agente trovò la sua Chevrolet Impala nel parcheggio dell’aeroporto Jfk. Dal biglietto sul parabrezza, si capì che era ferma dal 10 novembre. John Emil List era dissolto nel nulla. Con quasi un mese di vantaggio sulla polizia e l’Fbi, trovare le sue tracce risultò complicato: senza telecamere, computer o web, nascondersi era più facile. Forse List era volato all’estero sotto falso nome, forse era andato ad ammazzarsi chissà dove. A Denver, 2.800 chilometri a ovest di Westfield, poche settimane più tardi Robert Peter Clark aveva trovato lavoro all’Holiday Inn West, un albergo con ristorante affacciato sulla Interstate 70. Schivo e riservato, veniva dal Michigan ed era vedovo senza figli. Il suo capo lo riteneva efficiente — anche se di sé diceva di essere stato un contabile e non un cuoco — ma anche rigido e troppo abitudinario. Religiosissimo, si era iscritto subito nella parrocchia luterana; proprio in chiesa, nel 1977, conobbe Delores H. Miller, che 7 anni dopo avrebbe sposato. Nel mentre, si era fatto assumere come contabile in due piccole aziende. Dopo poco tempo, però, entrambe lo avevano lasciato a casa. A fine anni 80, Robert e Delores sono in seri problemi economici. A forza di rispondere alle inserzioni, trova lavoro in un altro Stato: a Richmond, in Virginia, di nuovo come contabile. Il 21 maggio 1989, su Fox tv va in onda una puntata della serie «America’s Most Wanted» dedicata al caso List. La seguono 22 milioni di telespettatori. Gli autori hanno chiesto a un celebre scultore forense, Frank Bender, di aiutarli nelle indagini. Basandosi sulle poche fotografie disponibili, Bender ha ricostruito il volto di un ipotetico List anziano. Lo psichiatra che l’ha aiutato nel creare il profilo, Richard Walter, ha insistito perché aggiungesse un paio di occhiali con la montatura in tartaruga, «un po’ da intellettuale, per offrire di sé un’immagine distinta». Durante la puntata, arrivano al centralino 350 segnalazioni. Una è di Wanda Flanery, grande amica di Delores. Dopo il breve interrogatorio in ufficio, Robert Clark è trasferito alla stazione di polizia e gli vengono prese le impronte digitali: coincidono con quelle lasciate da List durante il servizio militare. Condannato a 5 ergastoli, dopo la sentenza si complimenta con Bender per la sua scultura, che gli somiglia in modo impressionante. John Emil List è morto in carcere il 21 marzo 2008, per le complicazioni di una polmonite. Aveva 82 anni. La villa di Westfield era andata a fuoco nel 1972 per un incendio doloso rimasto irrisolto. All’epoca i giornali riportarono la voce che il lampadario della sala da ballo, distrutto dal crollo del soffitto, fosse un Tiffany originale, valutato ai tempi 100.000 dollari, e che nessuno in casa se ne fosse mai reso conto. Al cambio di oggi, la cifra corrisponde a più di mezzo milione di euro. Abbastanza per chiudere il mutuo e risolvere le pendenze contabili della famiglia List.
· Laura e Paolo Fumu sono morti. Chi è stato?
Dall’account instagram di Carmelo Abbate il 2 ottobre 2019. Lei è Laura, ha 9 anni. Lui è Paolo, 7 anni. Sono sorella e fratello. Vivono a Sa Serra, una frazione di Buddusò, in provincia di Sassari. È il 1977. Laura e Paolo sono molto legati. Ai matrimoni fanno spesso i paggetti. Girano sempre insieme, mano nella mano. È il 5 ottobre. Laura e Paolo tornano da scuola. La mamma sta cucinando. Chiedono il permesso di uscire per cercare funghi vicino a casa. Passa un’ora. I bambini non tornano. La mamma li chiama. Non rispondono. La donna bussa alle porte dei vicini. Le dicono di non preoccuparsi, staranno giocando da qualche parte. Lei non è tranquilla. Telefona ai parenti, che vivono nel paese vicino. Dice di correre, devono aiutarla a cercare i suoi figli. Arrivano al fiume. Paolo è dentro l’acqua. Sopra il suo corpo ci sono delle pietre. Un cugino lo solleva, lo prende in braccio e lo porta dalla mamma. La donna urla. Passa qualche ora. Poco lontano c’è Laura. Sulla testa ha un grosso macigno. Laura e Paolo Fumu sono morti. Secondo l’autopsia i bambini sono stati colpiti alla testa con delle pietre prima di essere gettati nel fiume. Sono morti affogati. Sul corpo di Laura ci sono tracce di violenza sessuale. Scattano le indagini. Dopo qualche giorno gli inquirenti fermano un uomo con problemi psichici. Lui è Totoi. Nel paese è conosciuto come lo scemo. Lo interrogano. Lui si proclama innocente. Ha assistito alla scena nascosto dietro una siepe. Ha visto il vero assassino. Farebbe parte della sua famiglia. I parenti vengono interrogati. Hanno un alibi, ma indicano un nipote. Lui è Mario. Ha 13 anni. Totoi conferma. È lui. Ha avvicinato i fratellini, li ha portati al fiume, ha colpito Paolo con una pietra, ha violentato Laura e poi l’ha uccisa. Il giudice gli crede. Totoi viene assolto per non aver commesso il fatto. Mario Pau ha meno di 14 anni, non è imputabile. La famiglia Fumu chiede altre indagini. Il ragazzo non può aver fatto tutto da solo. È il 13 aprile del 1978. Il caso viene chiuso. La famiglia di Laura e Paolo ancora oggi chiede giustizia.
· Il rapimento di Claudio Chiacchierini.
«Io, ex sequestrato, vi racconto i miei giorni di prigionia da bambino». Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Maggio 1975, Claudio Chiacchierini aveva 11 anni. Fu liberato in cambio di un miliardo di lire. Oggi insegna alla Bicocca di Milano. Quella sera degli anni Settanta in cui tre banditi narcotizzarono il cane lupo, si calarono un passamontagna sul volto, impugnarono i fucili a canne mozze e fecero irruzione in casa, gridando «Fuori i soldi!» per disorientare le donne presenti, l’Italia in bianco e nero doveva accontentarsi di un solo Telegiornale e dopo cena rideva con Erminio Macario. Claudio Chiacchierini, ex sequestrato, oggi docente universitario alla Bicocca «Ragazzo di 11 anni sequestrato a Roma». La notizia finì in prima pagina. Non per il fatto in sé, i rapimenti erano frequenti. Era già toccato a Paul Getty III, il rampollo di una dinastia miliardaria che si ritrovò senza un orecchio, e al gioielliere Gianni Bulgari. La novità era l’età della vittima. Capelli biondi e occhi azzurri. Un bambino. Claudio Chiacchierini, figlio di Ernesto, docente universitario, e nipote di Francesco Parrillo, manager bancario di chiarissima fama, stava giocando in corridoio con una canna da pesca, quando, all’ora di cena del 17 maggio 1975, i banditi lo sollevarono per le braccia, facendogli strisciare i piedi sul pavimento, e se lo portarono via. Lui di dimenava, strillava, piangeva. Ma nonna Caterina e la domestica, legate in una stanzetta della villa di Torrimpietra, sull’Aurelia, non poterono nulla. L’allarme partì in ritardo, quando rientrò il nonno. Tutta Italia in angoscia per lui…
Professore, il bambino con il pigiamino a rombi era lei. Ricorda la foto nella sua camera, con i Pupi siciliani alla parete, uscita sui giornali? Ancora traumatizzato?
Si fa una risata. «Orribile!»
Non parlavo del pigiama, ma della sua esperienza.
«Posso essere sincero? No, quei disgraziati non mi hanno lasciato segni. Forse per la breve detenzione, forse perché nel pericolo estremo ci si distacca dalla realtà, ci ho sempre pensato poco. Considero il sequestro un fatto estraneo alla mia vita. Me ne dimentico, ma non ho problema a parlarne».
Lei ha seguito le orme del nonno materno e ora insegna Economia e gestione delle imprese alla Bicocca di Milano. Nel tempo libero, scopro su Facebook, pratica sport: padel, surf. Fa piacere ritrovarla sereno, dopo quelle foto con il faccino triste di 44 anni fa.
«Calma, calma. Va bene l’ottimismo, ma non a tutti è andata altrettanto bene. La storia dei sequestri di persona in Italia è lastricata di lutti e sofferenza...»
Cominciamo dai 17 giorni di prigionia.
Ernesto Chiacchierini e sua moglie Ornella nel giugno 1975, dopo la liberazione di loro figlio Claudio «Li stavo per uccidere e l’avrei fatto volentieri, mi creda. Ne ebbi la possibilità. Dopo avermi caricato in macchina, mi portarono in un bosco e legarono a un albero. Ripetevano di volermi ammazzare, e non scherzavano. Il mangiare era abbastanza da schifo. Mi davano latte dolcissimo, nelle bottiglie della birra, dove di sicuro aggiungevano qualche sonnifero, e pane casareccio con dentro fettine di carne striminzita, fredda».
Fortuna che non ricordava.
«Sono sopravvissuto, questa è stata la vera fortuna. La legge dei sequestri è: se ti prendono dei professionisti, hai qualche possibilità di salvarti, se capiti in mano a dei rapitori improvvisati rischi di brutto. I miei erano disorganizzati, e una mattina…»
Vada avanti.
«Ero buttato come sempre nel terriccio, incatenato, con gli incappucciati che mi giravano attorno, quando uno poggiò il fucile a un metro da me. Potevo allungarmi e afferrarlo. Mi prese l’istinto di ammazzarli. Mi prudevano le dita. Ma fortunatamente prevalse il raziocinio. Pensai: e se l’arma è scarica? Io la punto e loro mi fanno fuori».
Bella lucidità a 11 anni. Suo padre, che è famoso anche per il manuale universitario, il «Chiacchierini» di Merceologia, dovette consegnare una valigia pesante 37 chili contenente banconote per un miliardo di lire.
«Papà fu determinante per la mia liberazione, dimostrò grande coraggio e sangue freddo. Acquistò una Fiat 500, applicò un faro bianco e uno giallo come concordato, per farsi riconoscere, e si mise a girare l’Italia per trattare con i rapitori».
Roba da rischiare la pelle.
«Certo, fu una cosa complicatissima. Anche perché erano spezzettati: c’era la banda che aveva ideato il piano, quella che mi aveva preso, quella che mi ha tenuto nel bosco, a Pratoni del Vivaro, quella che ripuliva i soldi. Mio padre fu anche malmenato, ma alla fine riuscì nell’intento. Quei criminali mi lasciarono in campagna, sulla Cassia, dove camminai a lungo fino a che un automobilista di passaggio mi portò a casa».
Era il 3 giugno 1975. Da quel giorno, come suol dirsi, tornò a vivere.
«Importantissimi furono gli amici. Se prima ne avevo due o tre, dopo la liberazione venivano a trovarmi a gruppi. Casa era sempre allegra».
Studi?
«Liceo scientifico, poi la laurea. Un matrimonio, un figlio, la separazione. La passione per l’economia, l’insegnamento, e la certezza che tutto dipende dal legislatore: ci sono regole che contrastano le illegalità e altre che le facilitano. Se uno Stato sceglie le prime è a metà dell’opera, ma purtroppo non sempre accade».
La legge sul blocco dei beni, del 1991, di fatto stroncò l’Anonima sequestri, sardi o calabresi che fossero.
La banda dei rapitori a processo, con gli schiavettoni ai polsi«Il blocco è stato indubbiamente utile, anche se ha avuto un prezzo: la vita di qualche rapito, ucciso per ritorsione. Ma il grosso del merito va agli avanzamenti tecnologici: la possibilità di mettere sotto controllo i telefoni, la tracciabilità, il divieto di prelevare somme ingenti. La moneta elettronica è la prima difesa, e infatti dove non è sviluppata, vedi l’Africa, i sequestri di cooperanti e volontari sono all’ordine del giorno».
I rapitori sardi, presto acciuffati, presero condanne fino a 12 anni di carcere. In aula sfilarono con gli schiavettoni ai polsi. Li ha perdonati?
«Non esageriamo. Però è indubbio che siano loro le vere vittime. Si distruggono a vita, dedicandola al male, per avidità. Pene più severe servono a dissuadere da un sicuro destino di dolore e detenzione. Mi ha disgustato vedere il capo di questo Stato dare la grazia a uno dei più famosi capiclan di sequestratori».
Si riferisce all’uscita dal carcere di Graziano Mesina, nel 2004?
«Evitiamo polemiche, il presidente non c’è più. Ma in quel caso si scese a patti. Un delinquente all’ergastolo uscì di galera per aver fatto da mediatore nella vicenda del piccolo Farouk (rapito a Porto Cervo nel 1992, ndr). Inaccettabile. Il famoso economista premio Nobel, Douglass North, ama ripetere che se le regole premiano la pirateria avremo una società di pirati. Verissimo. Tutto il male nella società, vale a dire la criminalità, l’ingiustizia, la corruzione, è il frutto di regole morali e legali sbagliate».
Ma intanto lei ha dimenticato, sta bene.
«Sono vivo. Andiamo avanti. Però non dimentico il dolore di mia mamma: quel 17 giorni furono per lei uno choc incancellabile».
· Cristoforo Verderame. Ucciso davanti ai bimbi a scuola.
Ucciso davanti ai bimbi a scuola. Il caso riaperto dopo 31 anni. Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 su Corriere.it da Cesare Giuzzi. Cristoforo Verderame, 32 anni, colpito da quattro colpi il 3 ottobre 1988 a pochi passi dal cortile di un asilo. Ora un boss pentito ha parlato. I due killer sparano davanti alla scuola senza lasciargli il tempo di estrarre la pistola che ha sotto la giacca. Le pallottole lo inseguono lungo il vialetto, lui cerca rifugio verso il portone. I proiettili bucano il lunotto delle macchine parcheggiate e uno finisce nel cortile dell’asilo. A pochi metri dall’ingresso. Cristoforo Verderame, 32 anni, viene trafitto da quattro colpi calibro 7.65 e 38. L’ultimo, letale, è alla nuca.Era l’ora di pausa e quel giorno i bambini dovevano essere in giardino a giocare. La strage è stata evitata dalla casualità della decisione delle maestre che avevano preferito lasciare i ragazzi nell’atrio. Loro, almeno una ventina, hanno sentito i colpi e hanno guardato oltre le vetrate, testimoni oculari dell’esecuzione. Erano le 12.45 di lunedì 3 ottobre 1988, a San Giuliano Milanese. Per tutta la vita quei bambini si sono portati dentro l’immagine del sangue e l’odore di polvere da sparo. L’odore di quella mattina di scuola. Non sapevano che sotto ai loro sguardi si stava combattendo una guerra. Una faida di mafia a mille chilometri dalla Sicilia. Per 31 anni l’omicidio di Cristoforo Verderame è rimasto senza colpevoli. Una storia chiara nella memoria di magistrati e investigatori, ma che mai, nonostante più tentativi, è arrivata vicina a una soluzione. Un «cold case» che la Direzione distrettuale antimafia di Milano ha riaperto negli ultimi mesi, grazie anche alle dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia, Emanuele Tuccio, mafioso di Gela (Caltanissetta). Tra un mese, giovedì 14 novembre, ci sarà l’udienza davanti al gip Manuela Cannavale per il boss gelese Antonio Rinzivillo, oggi detenuto al 41 bis, e per il collaboratore di giustizia Antonino Pitrolo, entrambi di 62 anni. Sono loro, secondo le indagini del pm della Dda Stefano Ammendola, mandante e killer dell’omicidio. Pitrolo avrebbe ricevuto da Rinzivillo non solo l’ordine di uccidere, ma anche la pistola usata per l’agguato. Ma perché è stato ucciso Verderame? Un primo tentativo di spiegazione di quel delitto ha cercato di darlo il pm Marcello Musso — scomparso ad agosto in un incidente stradale — in un’inchiesta su sei omicidi ordinati dalla Cupola di Cosa nostra a Milano negli anni 80 e 90. Per quel delitto le indagini del 2006, partite grazie alle dichiarazioni del «boia di Capaci» Giovanni Brusca, avevano individuato come responsabili Alessandro Barberi, Giovanni Pietro Flamia «u Cardiddu» e Giuseppe «Piddu» Madonia, capo della Commissione provinciale di Cosa nostra a Caltanissetta. Il delitto era legato alla guerra che la mafia di Totò Riina, Binnu Provenzano e Madonia aveva scatenato contro i «ribelli» della Stidda, il clan di Gela nato da una costola di «cacciati» da Cosa nostra. Un omicidio inserito in una catena di agguati come quello di Carmelo Scerra, anche lui freddato a Milano. Era stato crivellato di colpi la sera del 26 maggio ‘89 davanti a un bar di piazzale Cuoco. Secondo i magistrati il 34enne effettuava trasporti di droga e armi da Milano verso Gela per conto della Stidda. La ricostruzione però non aveva convinto i giudici. Gli imputati erano stati assolti per questi delitti, ma condannati per le uccisioni di Gaetano Carollo e Alfio Trovato. Ergastolo per Riina e Madonia, 30 anni per Cataldo Terminio, Antonio Rinzivillo e Grazio Salvatore Gerbino. L’inchiesta è stata ora riaperta grazie alle parole di un altro collaboratore, Emanuele Tuccio di Niscemi. Secondo la nuova ricostruzione Rinzivillo, difeso dall’avvocato Flavio Sinatra, al momento del delitto era il reggente della «famiglia mafiosa di Gela», perché il capoclan Salvatore Polara (ucciso due mesi dopo a Gela con la moglie e i due figli) si trovava agli arresti. Per i pm, quindi, sarebbe stato Rinzivillo a dare il via libera alla sentenza di morte e a ordinare a Pitrolo, assistito dai legali Maria Assunta Biondi ed Eliana Zecca, di uccidere Verderame. Con lui un secondo sicario, ancora ignoto. I killer erano arrivati in via Sesto Gallo, davanti alla scuola materna e media «Enrico Fermi», su una Fiat Uno metallizzata. Verderame, originario di Gela, pregiudicato per droga e prostituzione, era uno «stiddaro» e per questo doveva morire.
· Pietro Maso, il documentario seguito da 500 mila persone. Solo morbosità?
Pietro Maso, il documentario seguito da 500 mila persone. Solo morbosità? Pubblicato venerdì, 11 ottobre 2019 da Corriere.it. I numeri non parlano, ma proviamo a dare un senso ai numeri. Giovedì sera, 10 ottobre, sul canale Nove, è andato in onda «Pietro Maso – Io ho ucciso» un lungo racconto dello stesso Maso, il diciannovenne che massacrò i genitori il 17 aprile 1991. Un episodio di cronaca nera che sconvolse il paese per l’efferatezza dell’assassinio (i genitori vennero uccisi a sprangate e padellate) e per le motivazioni (vennero massacrati per poter avere l’eredità). Il viso freddo, cinico, di quel ragazzo è rimasto a lungo impresso nella memoria di tutti noi. Giornalisticamente il documentario è stato realizzato molto bene: il racconto dell’assassino, i commenti dei giornalisti che si occuparono del caso, del giudice, della scrittrice, della psicologa. Il tutto per cercare di dare un senso (forse impossibile da trovare) a quell’evento. Per questo è difficile in questi casi capire e soprattutto dare una valutazione sui numeri, sugli ascolti: è un bene che siano alti o bassi? È giusto seguire, informarsi, capire, riflettere ? O chi ha guardato quel documentario quella sera l’ha fatto solo per morbosità? È meglio rimuovere, dimenticare, guardare altro? Ognuno darà la sua lettura. «Pietro Maso – Io ho ucciso» è stato seguito da 471.000 spettatori (2% di share) che rappresenta il miglior dato per i programmi che la rete dedicata al crime. Nelle 24 ore, Nove è stato l’ottavo canale nazionale con l’1,7% di share sul pubblico totale. Se si considera che l’intervista è stata riproposta subito dopo la premiere, in seconda serata, giovedì l’hanno dunque vista in totale quasi 700.000 telespettatori (695.000). Un dato davvero significativo. Peraltro quando andò in onda sempre sul Nove « Living Neverland» (il documentario sugli abusi di Michael Jackson) il risultato fu più o meno lo stesso: 400.000 telespettatori con il 2% di share. Come dicevamo non ha senso parlare di numeri alti o bassi. La rete ha ottenuto un buon seguito ma forse quel che importa ancora di più è che ha reso un buon servizio giornalistico e che di fronte a quel lungo racconto non si poteva restare indifferenti. E ha costretto tutti a riflettere su cosa abbiamo dentro, sui valori da dare ai nostri figli, sui diversi colori del male, sulle tragedie che non sappiamo riconoscere (e quando accadono è sempre troppo tardi). Un’ora e mezzo dove parla quasi sempre lui, Pietro Maso, piuttosto freddo - a parte qualche raro momento di commozione. Rievoca tutto, da quando è nato a oggi. Le emozioni che arrivano al telespettatore anche grazie a filmati d’epoca, ai commenti dei giornalisti e di altri esperti sono davvero molteplici: stupore, rabbia, pietà, incredulità, amarezza, tristezza. Pensi a quei poveri genitori, pensi a quelle due sorelle che hanno perso i genitori e hanno dovuto fare i conti con un fratello che desiderava uccidere anche loro (anche se adesso sembrerebbe davvero pentito) , pensi a quegli amici aridi e stolti, pensi alla provincia dipinta troppo spesso come luogo a misura d’uomo e che invece è sempre più spesso teatro di delitti, luogo di solitudine, frustrazione e droghe. Pensi alle tue inadeguatezze di genitore e alle paure perchè i tuoi figli non incrocino mai sul loro cammino il baratro. Pensi al significato delle parole perdono, giustizia, vendetta. Pensi che sempre di più il dio Denaro sta rovinando i rapporti. O forse è sempre stato così. Sono due i momenti di reale commozione. Il primo è quando Maso ricorda la telefonata del Papa «sì Papa Francesco mi ha telefonato. Lui ha chiesto a me, il mostro, il maledetto di pregare per lui». L’altro momento è quando lui racconta di essere andato di recente sulla tomba dei genitori «a chiedere perdono e a presentare il Pietro nuovo. L’ho fatto nel momento in cui pensavo di essere davvero cambiato e ho chiesto loro aiuto. Perchè senza i genitori è impossibile farcela e loro mi mancheranno fino al giorno della mia morte». Come spesso accade i social sono il luogo della sintesi, della rabbia immediata e non-mediata. E dunque su twitter i commenti al documentario sono stati tutti molto duri. Eccone alcuni. «Danno visibilità a un assassino che non si è certo pentito. Altro che giustificazioni, spiegazioni e chiacchiere: 3 anni fa minacciò di morte anche le sorelle. Questo non lo dicono? #pietromaso #iohoucciso #noveracconta; #pietromaso è ANAFETTIVO, non può “guarire”, merita solo il carcere a vita per non danneggiare gli altri! Questo, come certi serial killer, passerebbe la macchina della verità ad occhi chiusi, maledetto. Comunque a me sembra ancora tanto compiaciuto quando parla di sé e di quando ha premeditato quel progetto di morte. #pietromaso; #pietromaso rappresenta il fallimento della rieducazione in carcere; #PietroMaso ma questo non era tornato dentro perché aveva già pianificato la morte di sua sorella? non si è mai commosso mentre parlava di sua madre e di suo padre..e di come li ha uccisi..ma si commuove perché il papa gli telefona...la mania di grandezza non è ancora passata...#pietromaso; #PietroMaso racconta la pianificazione dell’omicidio dei genitori con la stessa serenità di uno che pianifica una gita al mare; . #noveracconta a me sembra che se ne vanti anche ora , con i sorrisini che fa parlando della pianificazione dell’omicidio, lo vedo ancora compiaciuto #PietroMaso; Piange per la telefonata del Papa, ma non per aver ucciso i genitori... #pietromaso; Io sono sconcertata. Che fosse un essere immondo già lo sapevo, ma questo racconto è vomitevole; . #pietromaso Mi hai sempre fatto schifo. Sei una merda, altro che voler essere Don Johnson; #pietromaso #noveracconta #disagio Ah ma quindi è un’intervista dove lui si fa anche l’autoanalisi?Interessante #pietromaso; Ma a me non sembra tu abbia percepito la gravità di quello che hai fatto neanche adesso #pietromaso A padellate poi??? È un misto di tristezza e ironia sta cosa.. Dio mio. #pietromaso #iohoucciso; Dopo 28 anni fai ancora più senso. L’arroganza e la cattiveria ti si leggono in faccia. Ce la vorresti incartare da psicologo autodidatta ma sei solo un fallito e un assassino. Mi domando sempre queste che se li sposano, ‘sti mostri, chi sono. #PietroMaso; #pietromaso Parla in maniera così distaccata Come se raccontasse una bravata qualsiasi Voce strascicata da fatto o bevuto Fa veramente paura Perché è libero Già; Allora se parliamo di annoiarsi... nei paesi succede uno sterminio....ma dai, su.... a’ coso....mavacaghé #pietromaso #noveracconta Direi che #pietroMaso sta cercando di buttarla in caciara Mi dà fastidio solo sentirlo #noveracconta Avete sentito cos’ha detto: non ho più i miei genitori e i miei vestiti! Cioè mette sullo stesso piano i genitori i vestiti! Non mi sembra molto guarito. #pietromaso #iohoucciso Racconta il delitto come se stesse dettando la lista della spesa, il momento più drammatico per lui è stato quello in cui è stato beccato. #pietromaso Ma questi psicologismi non li capisco: ma quale parte di sé da eliminare ammazzando i genitori: li ha massacrati (e avrebbe ucciso anche le sorelle se fossero state in casa) per soldi! Per denaro! Per l’eredità! #pietromaso #pietromaso ciò è questo tranquillo parla di un’ altra persona è sarebbe pronto x la società!?!non lo vorrei neanche a 50km di distanza Psicologa non vada troppo nel profondo, qui non c’è niente da psicanalizzare: ha ucciso i genitori perché voleva disporre dei soldi e basta! Non gliene fregava niente né dei genitori nè delle sorelle! Buonannulla! #pietromaso #iohoucciso
Sabrina Cottone per “il Giornale” il 28 ottobre 2019. La professoressa aveva novantasei anni ma ne dimostrava ottanta, nei vestiti neri che facevano risaltare i capelli bianchi. Bassina, originaria di un piccolo paese vicino Salerno, lucida, dopo quarant' anni trascorsi a insegnare lettere tra Firenze, Brescia, Roma. Nessuno ad accompagnarla, semplice nei modi e nei gesti. È entrata nella sede dell' associazione romana che l' aveva aiutata a salvarsi da una cartella esattoriale non pagata, in mano un foglio di suo pugno. Un testamento olografo, cioè scritto interamente a mano, il solito sguardo generoso, come la racconta l'uomo che l'ha accolta e ha parlato con lei. Ne ricevono tanti tra queste mura dove aiutano chi non riesce a cavarsela da sé con il fisco e la burocrazia. Questo però era speciale: l' uomo scelto come figlio da questa donna senza eredi si chiama Pietro Maso. Era il 28 settembre 2019 quando la prof ha consegnato le sue ultime volontà: tra casa, terreni e conti correnti il patrimonio al momento è stimato intorno agli ottocentocinquantamila euro. Meno di un mese dopo, il 21 ottobre, Gina è morta. Esecutore testamentario, secondo le volontà della signora, sarà Alessandro Romano, laureato in giurisprudenza, dell' associazione GiustItalia. Ora Pietro Maso ha sei mesi di tempo per decidere: lui, colpito dall' indegnità morale per avere assassinato i genitori, ha trovato un' altra madre dalla quale può accogliere un' eredità. Quella sera del 17 aprile del 1991, diciannovenne, con tre della sua compagnia aveva indossato le maschere del diavolo per entrare nella casa di famiglia a Montecchia di Crosara, provincia di Verona, e uccidere papà e mamma Maso. Un'enormità per il movente da figliol prodigo a mano armata: voleva subito i soldi. Il resto è la condanna a trent'anni, il pentimento, la conversione, l' accompagnamento spirituale, i trascorsi difficili con le sorelle, la nuova causa, l' assoluzione, l' aiuto di don Mazzi, la lettera a papa Francesco e Pietro Maso che si raccontava in tv e diceva: «Non ci potevo credere. Mi ha anche chiesto di pregare per lui. Lui, il Papa, che chiedeva a me di pregare per lui. Io, che sono l' ultimo, il maledetto, l' assassino, il mostro». Ma qui, come è stato detto, già comincia una nuova storia, il graduale passaggio di un uomo da un mondo all' altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignota. Vengono in mente parole come queste per il gesto della professoressa dagli occhi celesti, nata in un giorno d' aprile del 1922 e in pensione per modo di dire, perché con il suo testamento di dieci righe in calligrafia antica ha dato un' ultima lezione di fiducia nel genere umano. «Dispongo che il mio patrimonio vada interamente a Pietro Maso nato a San Bonifacio il 17 luglio 1971, in ragione del pentimento e del ravvedimento dimostrato, perché possa rifarsi una nuova vita onesta». Ora pare che Pietro sia in Spagna. Lei, Gina, forse avrà fatto simili cose o più grandi dalla cattedra, o durante le lezioni private, nascosta tra le mura delle case.
· Salvatore Pappalardi. Il padre di Ciccio e Tore.
Il padre di Ciccio e Tore: «Capii che quei corpi nel pozzo erano dei miei bimbi dalla descrizione dei vestiti». Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 su Corriere.it da Giusi Fasano. Nella vecchia casa di Gravina di Puglia è rimasta intatta la cameretta di Francesco, 13 anni, e Salvatore Pappalardi, 11: sulla sinistra un poster con alcune delle foto che li ritraggono prima della scomparsa (foto Simone Donati)«Francesco ha fatto 27 anni l’altro giorno. Salvatore invece ne ha fatti 25 il 24 di agosto». Signor Pappalardi, i suoi figli sono morti... Filippo Pappalardi, abbassa gli occhi. «Sì, è vero». Proprio non ce la fa a parlare al passato. I suoi bambini, che tutti hanno imparato a conoscere come Ciccio e Tore, per lui sono «qui presenti, sempre». E nel dirlo si tocca il petto nel punto in cui si è fatto tatuare i loro volti, vicino al cuore. Nemmeno gli orchi di tutte le favole potrebbero raccontare una storia così nera come quella che hanno vissuto nel finale delle loro vite Ciccio e Tore. Una storia fatta di un buio che paralizza, di un freddo che fa battere i denti e di un dolore insopportabile. Fino alla morte. Prima Ciccio, 13 anni, e dopo più di un giorno il piccolino di 11 anni. È il 5 giugno del 2006, tardo pomeriggio. I due fratellini escono dalla loro casa di Gravina in Puglia (Bari) per andare «a girare un film» perché uno dei loro amichetti può mettere a disposizione la telecamera del padre. Un gioco. Ma si fa tardi e a casa non tornano. Il padre chiama la loro madre (e sua ex moglie) che vive in un Comune dei dintorni ma niente, non sono con lei. Esce a bussare a mille porte: i parenti, i loro compagni di scuola e di giochi, i vicini. Nessuno ne sa nulla. Raccoglie solo qualche vaga indicazione, niente che possa metterlo sulle loro tracce. Allora va in commissariato e lì, quella sera, comincia anche la storia della sua guerra personale contro le istituzioni e la giustizia. Era un uomo che chiedeva aiuto, è finito sotto accusa e infine in carcere per aver sequestrato, ucciso e nascosto i suoi due bambini: di questo si erano convinti gli inquirenti. Tutto sbagliato. Filippo Pappalardi, padre dei due bambini: accusato e condannato per il loro omicidio, venne scarcerato un mese dopo la scoperta dei corpi di e Ciccio e Tore. I ragazzini scomparvero la sera del 5 agosto 2006 e vennero ritrovati nel 2008. Ciccio e Tore sono stati ritrovati in fondo a una cisterna il 25 febbraio del 2008, una specie di pozzo con stanzoni enormi ma con un solo piccolissimo accesso dall’alto di un vecchio palazzo abbandonato. Un posto dai muri molto spessi che tutti chiamano «la casa delle cento stanze», temperatura fissa a sei gradi. In quella casa entravano a giocare gruppi di ragazzini e quel giorno di febbraio uno di loro precipitò nella cisterna. Gli amici diedero l’allarme e i vigili del fuoco andarono a soccorrerlo. Furono le loro torce a illuminare i resti di Ciccio e Tore. I fratellini erano là sotto da più di un anno e mezzo, a due passi da casa.
Signor Pappalardi, quel giorno lei come ha saputo del ritrovamento?
«Ero in carcere a Velletri e c’era la televisione accesa. Dicevano che erano stati trovati in fondo a un pozzo i corpi di due bambini, non davano nessun nome ma a un certo punto hanno dato la descrizione dei vestitini. Erano i vestitini dei miei figli...».
Qual è stata la prima cosa che ha pensato in quel momento?
«Come faccio a descriverlo? Sei accusato ingiustamente di aver ucciso i tuoi figli. Li trovano morti e tu, innocente, non puoi nemmeno correre a vederli, a piangere davanti a loro. C’è da diventare pazzi, mi creda. Ma in quel momento ho capito che dovevo mantenere la calma altrimenti non sarei sopravvissuto. Ora vivo per conoscere la verità».
Giocavano e sono caduti. Secondo lei non è questa la verità?
«Secondo me, come dico da sempre, quella sera non erano soli. Giocavano assieme ad altri ragazzini, da alcuni non si separavano mai. Se qualcuno avesse dato l’allarme si sarebbero salvati perché erano feriti ma, come hanno poi detto le autopsie, sono sopravvissuti per ore e ore. Mi fa stare male anche solo il pensiero. Erano là sotto, sofferenti, al buio, al freddo, e nessuno avrebbe mai sentito le loro urla. Chissà quante volte avranno chiesto aiuto, chissà quanta paura avranno avuto, poveri bambini miei.... Dicono che Tore abbia vegliato per più di un giorno il fratello morto...» (Pappalardi scaccia le immagini mai viste di quell’agonia e guarda la sua avvocatessa, Maria Gurrado). «Sono passati 13 anni da quella sera. Io credo che sia arrivato il momento di dire la verità».
A chi lo sta chiedendo?
«A chiunque abbia visto o sappia qualcosa. Non possiamo tornare indietro, ormai i miei figli non ci sono più ma io ho bisogno di sapere com’è andata. Ne ho bisogno per vivere in pace. So che si può sbagliare, si può avere paura di finire in qualche guaio e rimanere zitti, soprattutto se si è ragazzini e spaventati. Ma adesso quei ragazzini sono diventati uomini. Sono abbastanza grandi per capire che io, da padre, non mi posso rassegnare alle spiegazioni che ho avuto finora».
Perché non glielo chiede direttamente? Le capita di incontrarle queste persone in paese?
«A volte mi passano accanto, sì. Ma non voglio essere frainteso, magari posso sembrare aggressivo oppure fare le domande sbagliate. In questi anni, proprio cercando la verità, sono finito nei territori delle malelingue, dei veleni incrociati, dei retroscena che hanno alimentato bugie su bugie. Nei paesi come Gravina è così, e quand’è così ogni domanda potrebbe essere interpretata male. Io spero tantissimo che la Procura di Bari possa e voglia aiutarmi a fare chiarezza. Se fossero loro a fare domande sarebbe tutto diverso».
Ma non ci sono reati possibili per riaprire il caso. E anche se ipotizziamo che all’epoca ci fossero è tutto ormai prescritto.
«Ho chiesto aiuto a esperti, abbiamo fatto dei sopralluoghi in quella casa, abbiamo chiesto alcuni atti delle indagini di allora. Le ripeto: io sono il padre di quelle due creature. Non mi posso arrendere. E vorrei che fosse chiara una cosa».
Quale?
«Che non voglio incolpare nessuno, a questo punto non mi interessano colpe e condanne. Voglio solo sapere cosa è successo ai miei figli e nonostante quello che ho passato, dimostro di avere ancora fiducia nelle istituzioni e nella giustizia chiedendo il loro aiuto. Vanno a indagare su casi vecchi di trent’anni, perché sul mio no?».
Se domani venisse da lei qualche ragazzo a dirle che quel giorno vide cadere Ciccio e Tore e a raccontarle come andò, lei che farebbe?
«Lo abbraccerei e gli direi: grazie, adesso posso vivere in pace. Potrei finalmente scrivere la parola fine su questa storia. Potrei tornare a dormire di notte e non servirebbe più nessuna domanda. Magari fosse vero... Io ho bisogno di credere che prima o poi succederà».
Quanto tempo ha passato in carcere?
«Più di quattro mesi. La sera dell’arresto vennero a prendermi dei poliziotti e mi dissero: vieni, andiamo a fare un giro. Uno di loro poi mi disse: ora ti metto i braccialetti d’argento...».
Quando i suoi figli furono ritrovati nacque un vero e proprio movimento per la sua liberazione, fuori e dentro il carcere.
«Sì, è vero. Quella fu un’ondata di calore umano che non scorderò mai. Dopo aver trovato i bambini ci misero comunque più di un mese a restituirmi la libertà. Che poi, posso dirle una cosa?».
Prego.
«Ne ho subite assai in questi 13 anni. Contro di me hanno detto e scritto cose di una cattiveria incredibile. Mi hanno accusato di azioni che non sono degne di un essere umano e di un padre. Ho imparato che la calma è davvero la virtù dei forti e non ho mai urlato, imprecato, accusato. Ma nonostante tutto quello che ho vissuto vorrei essere ancora in carcere detenuto ingiustamente e sapere però che i miei bambini sono vivi. Se potessi fare una magia farei il cambio adesso: la mia vita in prigione e loro di nuovo in questo mondo».
Ha mai avuto un risarcimento?
«Mi hanno dato 65 mila euro per ingiusta detenzione. Ne ho spesi la gran parte per i funerali e per la tomba. È bellissima. E ho fatto costruire nel cimitero un monumento in memoria dei miei figli: sono due angeli, uno che cade e l’altro che cerca di aiutarlo».
Se in questo momento pensa ai suoi figli qual è il primo ricordo che le viene in mente?
«La loro allegria che riempiva l’aria. Non abito più nella casa dove hanno vissuto loro, ci vado ogni tanto ma cerco di non entrare nella cameretta, fa troppo male. È rimasto tutto com’era, i giocattoli, la chitarra, i quaderni, le fotografie... Tutto come lo hanno lasciato quella sera. Pensi che proprio due giorni prima che sparissero il tribunale aveva deciso di affidarli definitivamente a me e non alla madre. Ero così felice di sapere che sarebbero cresciuti accanto a me e alla donna che poi è diventata la mia seconda moglie...».
Lei crede in Dio?
«Molto. Di notte spesso non riesco a prender sonno. Mi metto lì e prego. Chiedo al Signore che mi aiuti a sopportare il dolore di non averli più con me e che mi dia la forza di fare tutta la strada per arrivare alla verità. Io ne sono certo, magari sarà una strada lunghissima ma prima o poi ci arrivo».
Oggi Ciccio e Tore sarebbero due giovani uomini. Pensa mai a come sarebbero diventati?
«Ci penso ogni giorno. Li vedo in giro per casa, magari con dei bambini per mano, me li vedo alti... Del resto Francesco ha appena fatto 27 anni, Salvatore 25...».
Signor Pappalardi i suoi figli sono morti.
Occhi di nuovo bassi. «Sì, è vero».
· Omicidio di Angelo Vassallo ed il ruolo dei carabinieri.
Omicidio Vassallo, Morra (M5s): “Qualche istituzione non ha fatto il suo dovere?”. Le Iene il 7 novembre 2019. Angelo Vassallo è stato ucciso il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. “Per accertare la verità tutti debbono fare il loro…” ha scritto su Facebook Nicola Morra, il presidente della commissione parlamentare antimafia. Con Giulio Golia e Francesca Di Sefano stiamo indagando sul mistero dell’omicidio del sindaco di Pollica. Dopo le inchieste de Le Iene, si muove anche la politica: Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare antimafia, è intervenuto su Facebook per parlare del caso di Angelo Vassallo: “Giulio Golia ha raccolto nuovi elementi di grande interesse sulla storia dell’omicidio del sindaco di Pollica, ucciso il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. A nove anni dall'omicidio non è ancora stato trovato il responsabile”. Nicola Morra, dal 2013 deputato per il movimento 5 Stelle, ha scritto: “Qualche giorno mi son rapportato telefonicamente con Golia per ringraziarlo del lavoro giornalistico di inchiesta che sta portando avanti anche su questo triste caso”. Poi il presidente della commissione antimafia getta una ulteriore ombra sul caso: “Per accertare la verità tutti debbono fare il loro... e se son giornalisti a dare un contributo fondamentale, intanto li dobbiamo ringraziare. Poi però dobbiamo domandarci se qualche istituzione non abbia fatto il suo dovere”. ’omicidio del sindaco di Pollica Angelo Vassallo è ancora avvolto da una fitta nebbia: noi de Le Iene stiamo cercando di dipanarla, partendo da tutto quello che sembra non tornare nella ricostruzione ufficiale della vicenda. Nella seconda parte ci siamo invece concentrati sul numero curiosamente alto di carabinieri a vario titolo coinvolti nella vicenda. Nella terza parte abbiamo raccontato il giro di droga nella frazione di Acciaroli: sappiamo infatti che Angelo Vassallo si era lamentato più volte con la locale caserma dei carabinieri chiedendo duri interventi per arginare lo spaccio di sostanze stupefacenti. Nell’ultima puntata, che potete vedere qui sopra, abbiamo raccontato del possibile ruolo del generale Domenico Pisani e della sua famiglia nella storia dell’omicidio Vassallo. Noi de Le Iene continueremo ad analizzare a fondo la morte del sindaco di Pollica, per cercare di capire chi si celi dietro ai nove colpi di pistola che hanno spento la vita di Angelo Vassallo. Intanto ribadiamo l’appello a chiunque conosca qualsiasi dettaglio su questa storia a contattarci per aiutare a fare luce su questo mistero irrisolto.
Omicidio Vassallo, una lettera anonima e nuovi dubbi sul caso. Le Iene il 20 novembre 2019. Angelo Vassallo è stato ucciso il 5 settembre 2010. Vi abbiamo parlato con Giulio Golia e Francesca Di Stefano di questa storia, su cui aleggiano dubbi e ombre. Ora abbiamo ricevuto una lettera anonima che contiene possibili nuove rivelazioni. L’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sull’omicidio del sindaco di Pollica Angelo Vassallo, ucciso il 5 settembre del 2010 in circostanze ancora da chiarire, continua con una nuova (possibile) rivelazione. Nella prima puntata abbiamo raccontato tutto quello che sembra non tornare nella ricostruzione di quella notte. Nella seconda parte ci siamo concentrati sul numero curiosamente alto di carabinieri a vario titolo coinvolti nella vicenda. Nella terza parte ci siamo invece concentrati sul giro di droga nella frazione di Acciaroli: sappiamo infatti che Angelo Vassallo si era lamentato più volte con la caserma locale dei carabinieri chiedendo duri interventi per arginare lo spaccio di sostanze stupefacenti. Nella quarta parte dell’inchiesta, infine, abbiamo parlato del possibile ruolo della famiglia del generale Pisani in questa storia. In questo nuovo capitolo partiamo da una lettera che abbiamo ricevuto: una persona che chiede di rimanere anonima e si qualifica come carabiniere fornisce alcune informazioni sul caso dell’omicidio di Angelo Vassallo. L’autore di questa lettera si concentra su due carabinieri di cui vi abbiamo già parlato nelle precedenti puntate: Lazzaro Cioffi e Fabio Cagnazzo. All’epoca della morte del sindaco erano rispettivamente brigadiere e comandante del nucleo investigativo della stazione di Castello di Cisterna. A oggi Lazzaro Cioffi è l’unico indagato per l’omicidio di Angelo Vassallo. L’estate della morte, Cagnazzo era in vacanza ad Acciaroli, frazione del comune di Pollica, e avrebbe preso alcune iniziative investigative senza informare preventivamente gli inquirenti titolari dell’indagine. Secondo la magistratura Lazzaro Cioffi sarebbe un carabiniere infedele e attualmente è in carcere accusato di essere connivente del clan Fucito di Napoli. Per quanto riguarda l’omicidio Vassallo, Cioffi è stato indagato l’anno scorso. Nel 2013 però un testimone oculare avrebbe fatto un ipotetico collegamento tra Cioffi e il caso della la morte del sindaco di Pollica. Secondo la lettera che abbiamo ricevuto, il clan avrebbe regalato a Cioffi una macchina costosa per i suoi presunti servizi al gruppo criminale. Sempre secondo la lettera che abbiamo ricevuto, il nome di Lazzaro Cioffi sarebbe però già emerso nel 2005 alla procura di Napoli quando durante un’indagine sul traffico di droga a Caivano sarebbero risultati alcuni rapporti intrattenuti tra carabinieri e pregiudicati: il militare in questione sarebbe stato proprio Cioffi. Secondo l’autore della lettera Cioffi sarebbe stato accompagnato dagli inquirenti da Fabio Cagnazzo, che lo avrebbe difeso a spada tratta. Sentito telefonicamente, Cagnazzo ha detto di aver accompagnato Cioffi dai pm perché lui non ci voleva andare e gli fu richiesto di portarlo dai magistrati in qualità di comandante. L’autore della lettera aggiunge poi un ulteriore particolare: uomo chiave nella storia dell’omicidio Vassallo sarebbe Pasquale Fucito, leader del clan che avrebbe favorito Cioffi. Fucito avrebbe colto l’opportunità paventatagli dal militare di espandere i suoi affari nella piazza di spaccio di Acciaroli. L’attività di spaccio sarebbe avvenuta sfruttando un camper. Una sera sarebbe stato effettuato un controllo alle roulotte parcheggiate nella zona e lì sarebbe stato trovato proprio Cioffi in compagnia di altre persone. Per cavarsi d’impaccio il militare avrebbe fatto intervenire proprio Fabio Cagnazzo che avrebbe garantito per lui. Cagnazzo, sentito telefonicamente, nega però categoricamente che questa cosa sia mai avvenuta. Non abbiamo modo di verificare che le informazioni arrivateci nella lettera anonima siano vere, ma qualora lo fossero getterebbero una nuova luce su tutta questa storia. A ogni modo ribadiamo l’invito a chiunque possa sapere qualcosa sul caso dell’omicidio di Angelo Vassallo a contattarci.
L'ombra del generale Pisani sulla storia dell'omicidio Vassallo. Le Iene il 6 novembre 2019. Una fonte anonima apre un nuovo fronte nell’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sull’omicidio di Angelo Vassallo: c’è un ruolo del generale Pisani e della sua famiglia nel caso della morte del sindaco eroe di Pollica? Nelle scorse settimane con Giulio Golia e Francesca Di Stefano vi abbiamo parlato dell’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo: Nella prima puntata dell’inchiesta abbiamo raccontato tutto quello che sembra non tornare nella ricostruzione di quella notte. Nella seconda parte ci siamo concentrati sul numero curiosamente alto di carabinieri a vario titolo coinvolti nella vicenda. Nella terza parte ci siamo invece concentrati sul giro di droga nella frazione di Acciaroli: sappiamo infatti che Angelo Vassallo si era lamentato più volte con la locale caserma dei carabinieri chiedendo duri interventi per arginare lo spaccio di sostanze stupefacenti. Adesso una nuova e clamorosa rivelazione getta nuove ombre sull’omicidio del sindaco di Pollica, ucciso il 5 settembre del 2010 con nove colpi di pistola. La fonte ci spinge ad approfondire il possibile ruolo di una figura molto importante: l’ex generale dei Carabinieri e fondatore dei Ros Domenico Pisani. Il militare, originario di Pollica, tornava spesso nella città. E sembra che i rapporti tra lui e il sindaco Vassallo non fossero esattamente idilliaci. Dietro a queste tensioni ci sarebbe stata la richiesta del militare di concedere ai fratelli Esposito una concessione balneare, rifiutata però da Angelo. Questo sembra che fosse un comportamento normale da parte del sindaco Vassallo, che aveva deciso di non permettere ulteriori concessioni: atteggiamento che gli avrebbe provocato molti nemici, secondo il ricordo della vedova di Angelo. Il lido in questione avrebbe dovuto essere gestito dalla figlia del generale, Ausonia. Ausonia, vigilessa ad Albano Laziale, fu coinvolta l’anno successo alla morte del sindaco in un famoso caso di cronaca: si sarebbe trovata coinvolta in un caso di spaccio di droga, sfociato in una sparatoria in cui morirono due persone. La persona che avrebbe materialmente sparato alle due vittime è Sante Fragalà, all’epoca compagno di Ausonia. Entrambi sono stati condannati per quegli omicidi: Fragalà a 26 anni di carcere, la figlia del generale Pisani a 16 anni. Questo fatto di cronaca sarebbe collegato alla morte di Angelo Vassallo per un dettaglio, cioè la pistola posseduta da Ausonia ma originariamente proprietà del generale: l’arma era simile a quella che avrebbe ucciso il sindaco di Pollica. La perizia svolta sulla pistola, però, avrebbe escluso che si tratti della stessa arma. In ballo però ci sarebbe anche un’altra pistola: sembra infatti che Ausonia Pisani quel giorno avesse con sé un’altra arma, dello stesso modello ma con la matricola abrasa. Quella pistola fu però trovata nascosta in casa sua solo due anni dopo, nel 2013. È stata fatta una perizia anche su quella? Se fosse quella l’arma dell’omicidio Vassallo? Non lo sappiamo, ma c’è una coincidenza che fa pensare: sembra che nei giorni della morte del sindaco i telefoni ci Ausonia Pisani e Sante Fragalà si fossero agganciati alla cella della zona di Pollica. E il compagno della figlia del generale, secondo gli investigatori, sarebbe stato uno dei capi del Clan Fragalà, presunta associazione mafiosa attiva sul litorale di Roma. Dopo la condanna per quel doppio omicidio Sante Fragalà è diventato un collaboratore di giustizia e ha contribuito a far arrestare quasi tutti i componenti della sua famiglia. Non sappiamo se esista un possibile collegamento tra questa vicenda e l’omicidio di Angelo Vassallo: noi de Le Iene ribadiamo l’appello a chiunque conosca qualsiasi dettaglio su questa storia a contattarci per aiutare a fare luce su questo mistero irrisolto.
Omicidio Vassallo, il fratello del sindaco: “All'Antimafia ho fatto i nomi di chi l'ha ucciso”. Le Iene il 4 novembre 2019. Dario Vassallo, fratello del sindaco ucciso nel 2010, in un’intervista a Repubblica fa riferimento ai nuovi dettagli emersi dall’inchiesta di Giulio Golia e Francesca di Stefano. “Secondo me siamo molto vicini alla verità”. “Ho detto tutto alla commissione Antimafia. Durante l’audizione dei giorni scorsi ho fatto i nomi di quelli che, secondo me, sono i responsabili dell’omicidio”. Da nove anni Dario Vassallo cerca la verità sull’omicidio di suo fratello Angelo, il sindaco di Pollica ucciso il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. Un caso ancora avvolto dal mistero su cui noi de Le Iene abbiamo riacceso i riflettori con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca di Stefano. Intervistato da Repubblica, Vassallo fa riferimento proprio ai nostri servizi: “Secondo me siamo molto vicini alla verità. In questi ultimi giorni ho appreso, anche grazie alla trasmissione Le Iene, dettagli che non conoscevo. Continuo a pensare che la vera svolta debba essere cercata qui, ad Acciaroli, dove ci sono tre o quattro personaggi che presto avranno un nome e un cognome”. Nella prima puntata della nostra inchiesta abbiamo raccontato tutto quello che sembra non tornare nella ricostruzione di quella notte e tutti i dubbi ancora da sciogliere intorno all’omicidio. Nella seconda parte ci siamo concentrati sul numero curiosamente alto di carabinieri a vario titolo coinvolti nella vicenda: dal “carabiniere sordo” che non avrebbe sentito gli spari a pochi metri dal luogo dell’omicidio fino al colonnello Fabio Cagnazzo, che nelle ore successive all’omicidio avrebbe condotto alcune indagini senza mandato da parte della procura. Nella terza parte, che potete vedere qui sopra, ci siamo concentrati invece sul giro di droga nella frazione di Acciaroli: sappiamo infatti che Angelo Vassallo si era lamentato più volte con la locale caserma dei carabinieri chiedendo duri interventi per arginare lo spaccio di sostanze stupefacenti. Secondo la Procura di Salerno, che coordina l’inchiesta condotta dai carabinieri, il movente più accreditato sarebbe proprio la guerra che il sindaco aveva dichiarato allo spaccio di droga. Dario Vassallo, si legge su Repubblica, chiede anche un incontro con il comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri. E riguardo all’audizione da parte della commissione Antimafia conclude: “Sotto quegli omissis ci sono i nomi di quelli che, a mio avviso, sono i responsabili dell’omicidio di mio fratello. E sono gli stessi nomi che avevo fatto nel 2018 in Procura”. A oltre nove anni dal suo omicidio, ancora nessun colpevole è stato assicurato alla giustizia. Attualmente l’unico indagato è l’ex sottufficiale Lazzaro Cioffi, ora sotto processo perché accusato di alcune complicità con il boss della droga del Parco Verde di Caivano.
Omicidio Vassallo: la Procura acquisisce il servizio de Le Iene. Le Iene il 19 ottobre 2019. Il “sindaco eroe” di Pollica Angelo Vassallo viene ammazzato il 5 settembre 2010. Nella storia della sua scomparsa, come raccontato in esclusiva a Le Iene da una fonte, ci sarebbe il ruolo di un carabiniere forse legato ai clan di camorra. Ora la Procura di Salerno ha acquisito il servizio e i filmati realizzati da Giulio Golia e Francesca Di Stefano. La Procura di Salerno ha acquisito il servizio e i filmati girati da Giulio Golia e Francesca Di Stefano sul caso della morte del sindaco eroe di Pollica, Angelo Vassallo, ammazzato il 5 settembre 2010 (qui sopra potete vedere il servizio). Un fatto che potrebbe rappresentare una svolta nella tragica vicenda di cui vi abbiamo raccontato. Le Iene, nel consegnare il materiale, hanno ovviamente tutelato l’anonimato della fonte che ha parlato in esclusiva alle nostre telecamere. Vi abbiamo parlato, nel ricostruire la storia della tragica scomparsa di Angelo Vassallo, dei molti carabinieri che potrebbero forse essere coinvolti. A partire dal maresciallo Maffia, che comandava la stazione di Pollica e con cui il sindaco ucciso avrebbe avuto un cattivo rapporto a causa di contrasti sulla lotta allo spaccio di droga nella frazione di Acciaroli. C’è anche la strana visita dei carabinieri alla casa della famiglia Vassallo due giorni dopo l’omicidio, una visita di cui i pm sarebbero stati all’oscuro. E non si è nemmeno sicuri che a bussare alla porta siano stati davvero dei carabinieri. Il secondo militare è il colonnello Fabio Cagnazzo, all’epoca comandante della stazione di Castello di Cisterna, che su questa vicenda è stato indagato e poi archiviato: era in vacanza ad Acciaroli nei giorni dell’omicidio e avrebbe condotto alcune indagini senza mandato ufficiale della magistratura. Dalle indagini del colonnello viene redatta un’annotazione di servizio, che sarà poi la base di partenza di tutte le indagini. In quel testo viene raccontata la piazza di spaccio di Acciaroli e tra le persone citate emerge uno spacciatore brasiliano, che per anni è stato al centro delle indagini. La posizione di quest’ultimo sull’omicidio però è stata archiviata due volte. C’è poi il “carabiniere sordo”, una persona che alloggiava a venti metri dal luogo dell’omicidio e che ha sostenuto di non aver sentito i nove spari che hanno ucciso Vassallo. L’uomo, secondo quanto riportato dai familiari del sindaco, avrebbe detto di non aver udito i colpi, perché era in casa con le finestre chiuse. Il primo ad andare a chiedere informazioni a questo militare fu proprio Cagnazzo. Infine c’è Lazzaro Cioffi, un carabiniere che sarebbe infedele, attualmente in carcere accusato di essere connivente con il clan Fucito di Napoli. All’epoca dei fatti faceva parte della stazione di Castello di Cisterna, quella comandata dal colonnello Cagnazzo. A oggi è l’unico indagato per l’omicidio di Angelo Vassallo, ma il suo nome era già emerso nel 2013: qualcuno scrisse al figlio del sindaco su Facebook, dicendo che nel delitto poteva essere coinvolto Lazzaro Cioffi. Giulio Golia è andato a incontrare una fonte che vuole rimanere anonima. “Se è la pista giusta io sono a rischio, un rischio grosso”, ci dice. “Possono fare la "sorpresa" pure a me, come l’hanno fatta ad Angelo Vassallo”. E poi, dopo averci dato conto delle minacce ricevute, spiega come sia arrivato al nome di Lazzaro Cioffi: “Lessi il trafiletto su La Repubblica dove fu inquisito Cagnazzo, per il fatto che prese le registrazioni dal paese e le portò a Castello di Cisterna”. E l’episodio gli sembrò molto strano. “Da lì mi feci un attimo due conti”. La nostra fonte conosceva bene Lazzaro Cioffi: “Nel 2009 mi aveva minacciato di morte perché feci arrestare 22 trafficanti. Mi chiese perché facevo la spia alle guardie. Io mi incazzai, gli dissi che non si doveva permettere”. Da diversi anni la fonte racconta di aver visto “che (Cioffi) aveva atteggiamenti strani, era un frequentatore di locali. Fucito (il boss di Caivano di cui sarebbe complice, ndr) lo veniva a prendere fuori dalla caserma con il Mercedes. E non ero l’unico che lo vedeva”. Ci sarebbe poi un altro punto: “È impossibile che tu, carabiniere, abbia un suocero criminale e nessuno lo sa in caserma”. Cioffi si era sposato, secondo la testimonianza, con la figlia di un boss e a un certo punto la fonte nota un radicale cambio di stile di vita: “Aveva una macchina molto costosa e dissi "questo fino a poco tempo fa puzzava di fame, aveva un vecchio mezzo. Bello e buono questo exploit"”. La cosa non lo convince e allora decide di mettersi in contatto con il figlio di Vassallo per raccontargli la situazione. “Da lì poi mi ascoltarono in interrogatorio e ho detto tutto quello che dovevo dire in Procura”, dice la nostra fonte. Questa testimonianza però sarebbe rimasta sepolta per cinque anni, per riemergere solamente con l’iscrizione di Cioffi nel registro degli indagati. C’è un altro punto da considerare in questa vicenda: secondo il Fatto Quotidiano, i pm della Dda di Napoli avrebbero trasmesso i verbali di un pentito di camorra, Francesco Casillo, ai colleghi di Salerno che indagano sul delitto. Il pentito è accusato di corrompere carabinieri con soldi e regali di lusso per proteggere traffici di droga della camorra napoletana. Ma cosa c’entra Casillo con Acciaroli? Il 29 agosto 2009, nel porto turistico della frazione di Pollica, i carabinieri di Castello di Cisterna sequestrano una imbarcazione e una vettura di lusso noleggiati a terzi, ma in realtà nella disponibilità di Francesco Casillo che era lì in vacanza. A sequestrarli fu il colonnello Cagnazzo. Un episodio questo che viene utilizzato per descrivere i cosiddetti “rapporti opachi” tra Francesco Casillo e un carabiniere, l’appuntato Acunzo, perché risultava che fosse stato proprio il carabiniere a noleggiare la barca. Un fatto che per gli inquirenti sarebbe importante in quanto costituirebbe il motivo per cui Casillo avrebbe intrapreso una falsa collaborazione, per allontanare ogni sospetto sui rapporti instaurati con il militare. Cioè Casillo si sarebbe pentito solo dopo esser stato beccato con questo scambio di soldi e barche con il carabiniere. E facendo finta di pentirsi avrebbe così fatto pensare che il loro rapporto era solo di confidente, non di corruttore. Secondo quanto sostenuto da Casillo, sarebbero stati i carabinieri infedeli a suggerirgli di comportarsi così: lui sostiene di non aver avuto inizialmente alcuna intenzione di fare una finta collaborazione. Poi però uno di questi militari gli avrebbe detto: “Ci sono delle eminenze grigie che ci permettono di fare queste operazioni con le giuste coperture”. Secondo Casillo si sarebbe riferito ai servizi segreti. C’è ancora un ultimo carabiniere che sarebbe coinvolto in questa storia: l’ex generale di corpo d’armata Domenico Pisani, il fondatore del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dell’Arma. Originario di Pollica, era rimasto un assiduo frequentatore del luogo e nel periodo precedente all’omicidio si sarebbe fatto portavoce di una richiesta ad Angelo Vassallo. “C’era una richiesta di rilascio di una concessione in un’area che il sindaco aveva liberato da un lido abusivo”, racconta l’attuale primo cittadino di Pollica. “Il generale Pisani più volte sollecitava di lasciare aprire a dei ragazzi uno stabilimento balneare”. Si sarebbe trattato dei fratelli Esposito che già avevano investito in varie attività sul territorio. Ma Angelo Vassallo aveva sempre negato la concessione: l’eventuale stabilimento avrebbe dovuto esser gestito dalla figlia del generale. Nel maggio del 2012 la figlia, Ausonia Pisani, vigilessa, fu arrestata. Durante un regolamento di conti legato a una partita di droga, sparò e uccise due persone. Oggi è in carcere, dove sta scontando sedici anni per quegli omicidi. “I magistrati hanno fatto un collegamento con l’omicidio di Angelo Vassallo perché la pistola era simile a quella che l’ha ucciso”, racconta il fratello del sindaco. L’arma usata da Ausonia era del padre, il generale Pisani. I magistrati hanno chiesto una perizia balistica per verificare se la pistola fosse la stessa usata nell’omicidio Vassallo ma i risultati sarebbero negativi. Sono comunque tantissime le curiose coincidenze che si sommano l’una all’altra. È possibile quindi che ci sia qualcuno che ancora non ha raccontato tutto quello che sa? “Chissà se un giorno saprò la verità…”, è l’amara conclusione della vedova di Angelo Vassallo, un sindaco eroe. Una verità che adesso, dopo l’acquisizione dei filmati de Le Iene da parte della Procura di Salerno, speriamo sia più vicina.
Omicidio di Angelo Vassallo, qual è il ruolo dei carabinieri nella storia? Le Iene il 18 ottobre 2019. Angelo Vassallo è stato ucciso il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. Era il sindaco di Pollica, nel Cilento. A nove anni dalla morte ancora non è stata fatta giustizia. Giulio Golia prova a chiarire la posizione di molti carabinieri che sarebbero coinvolti in questa oscura vicenda. Un caso insoluto, con vari elementi che portano su tante strade diverse. E l’ombra di tanti carabinieri che potrebbero essere coinvolti, facendo sorgere ulteriori dubbi. È questo l’intricato puzzle da risolvere per cercare di capire qualcosa in più sull’omicidio di Angelo Vassallo, il sindaco eroe di Pollica ammazzato il 5 settembre 2010 di cui vi abbiamo parlato nel primo servizio di Giulio Golia. Dopo la nostra inchiesta, il fratello Dario Vassallo è stato ascoltato dalla Commissione antimafia. Il procuratore Greco si sarebbe inoltre presentato autonomamente in procura per chiarire la rivelazione secondo cui la mattina dell’omicidio Angelo lo avrebbe contattato al telefono per comunicargli di avere importanti informazioni da consegnare alla magistratura. Le ipotesi su chi potrebbe essere stato a uccidere il sindaco di Pollica con nove colpi di pistola sono davvero tante, anche perché Angelo Vassallo con la sua azione si era fatto molti nemici. Ma a nove anni dall’omicidio, non c’è alcuna verità giudiziaria. Nella ricostruzione della storia appaiono a vario titolo molti carabinieri che potrebbero essere coinvolti. Tra questi c’è il maresciallo Maffia, comandante della stazione di Pollica, con cui il sindaco avrebbe avuto un cattivo rapporto per divergenze sul contrasto allo spaccio di droga nella frazione della movida di Acciaroli. E c’è anche la strana visita dei carabinieri alla casa della famiglia Vassallo due giorni dopo l’omicidio, di cui i pm sarebbero stati all’oscuro: non si è nemmeno sicuri che fossero davvero militari quelli a bussare alla porta. Appare poi il colonnello Fabio Cagnazzo, all’epoca comandante della stazione di Castello di Cisterna, che su questa vicenda è stato indagato e poi archiviato: il militare era in vacanza ad Acciaroli nei giorni dell’omicidio e avrebbe condotto alcune indagini senza mandato ufficiale della magistratura. Dalle indagini del colonnello viene redatta un’annotazione di servizio, che sarà poi la base di partenza di tutte le indagini. In quel testo viene raccontata la piazza di spaccio di Acciaroli e tra le persone citate emerge uno spacciatore brasiliano: per anni è stato al centro delle indagini ma la sua posizione sull’omicidio è stata archiviata due volte. In questo curioso elenco di carabinieri, c’è un altro nome: Gino Molaro. Da sempre molto vicino a Cagnazzo, la sera dell’omicidio i due erano a cena insieme. Gino si era fatto notare molto, facendo un gran baccano pur essendo noto come una persona molto tranquilla. C’è poi il “carabiniere sordo”, una persona che alloggiava a venti metri dal luogo dell’omicidio e sostiene di non aver sentito i nove spari che hanno ucciso Angelo Vassallo. Avrebbe dichiarato, secondo quanto riportato dai familiari del sindaco, di non aver udito i colpi perché si trovava in casa con le finestre chiuse. Il primo ad andare a chiedere informazioni a questo militare fu proprio Cagnazzo. Infine c’è Lazzaro Cioffi, un carabiniere che sarebbe infedele. Attualmente è in carcere accusato di essere connivente con il clan Fucito di Napoli. All’epoca dei fatti faceva parte della stazione di Castello di Cisterna, quella comandata dal colonnello Cagnazzo. A oggi è l’unico indagato per l’omicidio di Angelo Vassallo, ma il suo nome era già emerso nel 2013: qualcuno scrisse al figlio del sindaco su Facebook, dicendo che nel delitto poteva essere coinvolto Lazzaro Cioffi. Giulio Golia è andato a incontrare questa fonte, che vuole rimanere anonima. “Se è la pista giusta io sono a rischio, un rischio grosso”, ci dice. “Possono fare la ‘sorpresa’ pure a me, come l’hanno fatta ad Angelo Vassallo”. E poi, dopo averci dato conto delle minacce ricevute, spiega come sia arrivato al nome di Lazzaro Cioffi: “Lessi il trafiletto su La Repubblica dove fu inquisito Cagnazzo, per il fatto che prese le registrazioni dal paese e le portò a Castello di Cisterna”. E l’episodio gli sembrò molto strano. “Da lì mi feci un attimo due conti”. Questa fonte conosceva bene Lazzaro Cioffi: “Nel 2009 mi aveva minacciato di morte perché feci arrestare 22 trafficanti. Mi chiese perché facevo la spia alle guardie. Io mi incazzai, gli dissi che non si doveva permettere”. Da diversi anni la fonte racconta di aver visto “che (Cioffi) aveva atteggiamenti strani, era un frequentatore di locali. Fucito (il boss di Caivano di cui sarebbe complice, ndr) lo veniva a prendere fuori dalla caserma con il Mercedes. E non ero l’unico che lo vedeva”. Ci sarebbe poi un altro punto: “E’ impossibile che tu, carabiniere, abbia un suocero criminale e nessuno lo sa in caserma”. Cioffi si era sposato, secondo la testimonianza, con la figlia di un boss e a un certo punto la fonte nota un radicale cambio di stile di vita: “Aveva una macchina molto costosa, e dissi ‘questo fino a poco tempo fa puzzava di fame, aveva un vecchio mezzo. Bello e buono questo exploit”. La cosa gli puzza, e allora decide di mettersi in contatto con il figlio di Vassallo per raccontargli la situazione. “Da lì poi mi ascoltarono in interrogatorio e ho detto tutto quello che dovevo dire in Procura”, dice la nostra fonte. Questa testimonianza però sarebbe rimasta sepolta per cinque anni, per riemergere solamente con l’iscrizione di Cioffi nel registro degli indagati. C’è un altro punto da considerare in questa vicenda: secondo il Fatto Quotidiano, i pm della dda di Napoli avrebbero trasmesso i verbali di un pentito di camorra, Francesco Casillo, ai colleghi di Salerno che indagano sul delitto. Il pentito è accusato di corrompere carabinieri con soldi e regali di lusso per proteggere traffici di droga della camorra napoletana. Ma cosa c’entra Casillo con Acciaroli? Il 29 agosto 2009, nel porto turistico della frazione di Pollica, i carabinieri di Castello di Cisterna sequestrano una imbarcazione e una vettura di lussa noleggiati a terzi, ma in realtà nella disponibilità di Francesco Casillo che era lì in vacanza. A sequestrarli fu il colonnello Cagnazzo. L’episodio viene utilizzato per descrivere i cosiddetti “rapporti opachi “ tra Francesco Casillo e un carabiniere, l’appuntato Acunzo, perché risultava che fosse stato proprio il carabiniere a noleggiare la barca. Secondo gli inquirenti questo episodio sarebbe importante perché costituirebbe il motivo di Casillo a intraprendere una falsa collaborazione per allontanare ogni sospetto sui rapporti instaurati con il militare. Cioè Casillo si sarebbe pentito solo dopo esser stato beccato con questo scambio di soldi e barche con il carabiniere. E facendo finta di pentirsi avrebbe così fatto pensare che il loro rapporto era solo di confidente, non di corruttore. Secondo quanto sostenuto da Casillo, sarebbero stati i carabinieri infedeli a suggerirgli di comportarsi così: lui sostiene di non aver avuto, inizialmente, alcuna intenzione di fare una finta collaborazione. Poi però uno di questi militari gli avrebbe detto: “Ci sono delle eminenze grigie che ci permettono di fare queste operazioni con le giuste coperture”. Secondo Casillo, si sarebbe riferito ai servizi segreti. Infine c’è un ultimo carabiniere che sarebbe coinvolto in questa storia: l’ex generale di corpo d’armata Domenico Pisani, il fondatore dei Ros. Originario di Pollica, era rimasto un assiduo frequentatore del luogo e nel periodo precedente all’omicidio si sarebbe fatto portavoce di una richiesta ad Angelo Vassallo: “C’era una richiesta di rilascio di una concessione in un’area che il sindaco aveva liberato da un lido abusivo”, racconta l’attuale primo cittadino di Pollica. “Il generale Pisani più volte sollecitava di lasciare aprire a dei ragazzi uno stabilimento balneare”. Si sarebbe trattato dei fratelli Esposito, che già avevano investito in varie attività sul territorio. Ma Angelo Vassallo aveva sempre negato la concessione: l’eventuale stabilimento avrebbe dovuto esser gestito dalla figlia del generale. Nel maggio del 2012 la figlia Ausonia Pisani, vigilessa, fu arrestata. Durante un regolamento di conti legato a una partita di droga, sparò e uccise due persone. Oggi è in carcere, dove sta scontando sedici anni per quegli omicidi. “I magistrati hanno fatto un collegamento con l’omicidio di Angelo Vassallo perché la pistola era simile a quella che l’ha ucciso”, racconta il fratello del sindaco. L’arma usata da Ausonia era del padre, il generale Pisani, e per qualche ragione era in suo possesso. I magistrati hanno chiesto una perizia balistica per verificare se la pistola fosse la stessa usata nell’omicidio Vassallo, ma risulterebbe di no. Sono comunque tantissime le curiose coincidenze che si sommano l’una all’altra. È possibile quindi che ci sia qualcuno che ancora non ha raccontato tutto quello che sa? “Chissà se un giorno saprò la verità…”, è l’amara conclusione della vedova di Angelo Vassallo, un sindaco eroe.
Omicidio Vassallo, cosa aveva scoperto il sindaco di Pollica? Le Iene il 9 ottobre 2019. Angelo Vassallo è stato ucciso il 5 settembre 2010. Nove anni dopo ancora non si sa chi lo abbia ammazzato. Giulio Golia è stato a Pollica per cercare di aprire uno squarcio di verità su questa storia. Nove colpi di pistola mentre guidava per andare a casa: è morto così Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso il 5 settembre 2010. Dopo nove anni ancora non si sa chi sia l’assassino ad aver premuto il grilletto. Giulio Golia è stato nel piccolo comune del Cilento per fare luce su cosa sia successo quella notte. Parlando con i familiari, gli inquirenti e i cittadini di Pollica la Iena scopre che Vassallo la mattina del 5 settembre 2010 chiama il procuratore di Vallo della Lucania, Alfredo Greco, e gli dice: “Io devo parlare con te urgentemente”. Il magistrato gli dà appuntamento per il giorno successivo: il sindaco però viene ucciso la sera stessa. Cosa doveva dire di così urgente al procuratore? “Aveva visto qualcosa che non avrebbe voluto vedere”, ha detto l’ex segretario comunale. Cosa aveva visto di così sconvolgente da volerne parlare subito con il procuratore Greco?
Omicidio Vassallo, il sindaco eroe e quella morte ancora senza risposta. Le Iene l'11 ottobre 2019. Angelo Vassallo è stato assassinato il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. Dopo anni di indagini ancora non è stato scoperto chi sia stato a uccidere il sindaco di Pollica. Giulio Golia è andato nel paese del Cilento per indagare su questo mistero italiano. Angelo Vassallo era il sindaco di Pollica, un piccolo comune del Cilento. Il 5 settembre 2010 è stato ammazzato con nove colpi di pistola mentre tornava in auto a casa: aveva 57 anni. Vassallo non era un semplice sindaco, ma il simbolo di uno sviluppo diverso in un territorio martoriato dalla criminalità organizzata. A nove anni dal suo omicidio, non c’è ancora nessuna verità sulla sua morte. L’unico indagato è un carabiniere, Lazzaro Cioffi, in carcere perché accusato di essere connivente con il clan Fucito di Napoli. Giulio Golia è andato a Pollica e nella frazione di Acciaroli per cercare di aprire uno squarcio di verità. Per capire cosa è successo, bisogna partire dalla notte in cui Angelo è stato ammazzato: mentre tornava a casa in auto, qualcuno lo avvicina e lo uccide con nove colpi di pistola. Vassallo è stato colpito in una stradina di campagna che di notte è buia e isolata. La macchina era ferma a bordo della strada e dalla dinamica sembra che il sindaco si fosse fermato volontariamente, come se conoscesse il suo assassino. “Non è una macchina che è stata costretta a fermarsi bruscamente”, dice l’ex pm antimafia e avvocato di parte civile della famiglia Vassallo, Antonio Ingroia: “Lui ha decelerato e si è fermato per parlare con qualcuno”. “Lui sarà rimasto sorpreso: non se l’aspettava una cosa del genere”, racconta a Giulio Golia la vedova di Angelo Vassallo. Secondo la polizia scientifica, l’aggressore spara con una pistola piccola e facile da nascondere: l’arma non è mai stata ritrovata. Il primo colpo è già fatale: gli altri vengono sparati quasi con rabbia, per infierire sul corpo senza vita. “Hanno sparato allo Stato”, dice l’ex segretario comunale. Non si è mai arrivati alla verità su quanto accaduto, forse anche perché la scena del delitto sarebbe stata compromessa: “C’era un solo carabiniere e tanti curiosi che stavano a guardare”, racconta il figlio di Angelo. “C’era un via vai di gente che andava e tornava mentre il corpo era ancora in macchina”, dicono gli abitanti di Pollica. “La manomissione era molto semplice”, aggiunge Ingroia. A questo si somma un fatto strano, riportato dal Fatto Quotidiano a otto anni dall’omicidio: i carabinieri si presentato in borghese a casa Vassallo all’insaputa dei pm. “Non risulta che fossero operanti e incaricati delle indagini”, spiega Ingroia. “Non c’è un decreto di perquisizione o un verbale, c’è solo una relazione di servizio, cioè un atto interno. Come minimo è strano, se vogliamo dirla tutta è grave”. Non si sa se quei carabinieri in borghese, ammesso che fossero tali, abbiano portato via qualche documento di Vassallo. Nessuno sa cosa sia successo davvero in quella visita. A ogni modo, si sa per certo che Angelo Vassallo si era creato molti nemici con la sua azione da sindaco. Quando era necessario si rapportava con il procuratore Alfredo Greco di Vallo della Lucania. E proprio il giorno dell’omicidio il sindaco chiama il pm, chiedendogli di incontrarsi urgentemente. Il procuratore gli dà appuntamento per il giorno successivo, ma Vassallo viene assassinato la notte stessa. “È probabile che avesse conosciuto dei fatti non comodi, che hanno scatenato una reazione. Ma cosa aveva scoperto?” si domanda l’attuale sindaco di Pollica, Stefano Pisani. Ma chi riguardava quella scoperta? Nessuno lo sa per certo. Tutte le piste possibili vengono esplorate: presto le indagini si indirizzano sulla strada della droga, perché la movida della frazione di Acciaroli sembra ne avesse portata molta nel comune di Pollica. E Angelo Vassallo aveva cercato di contrastare in tutti i modi gli spacciatori. “Aveva chiesto il supporto dei carabinieri, ma se ne sono fottuti” dicono gli abitanti di Pollica a Giulio Golia. Il sindaco sarebbe arrivato quasi allo scontro con la stazione, chiedendo perfino l’intervento del comando generale. Le indagini si concentrano su uno spacciatore di origini brasiliane, arrivato da poco tempo a Pollica all’epoca dell’omicidio e con cui Vassallo aveva avuto uno scontro verbale: fu visto ad Acciaroli la sera dell’omicidio, per poi andare in Sudamerica solo due giorni dopo la morte del sindaco. Ma non fu mai trovato nessun riscontro oggettivo: oggi questo spacciatore è in carcere per reati legati alla droga, ma la sua posizione per l’omicidio di Vassallo è stata archiviata ben due volte. “C’è stata una regia ben precisa che ha dirottato le indagini su questo brasiliano e ha fatto perdere agli inquirenti almeno tre anni”, ci dice il fratello di Angelo Vassallo. Che cosa avrebbe dirottato le indagini? L’annotazione di servizio di Fabio Cagnazzo, colonnello dei carabinieri all’epoca comandante della stazione di Castello di Cisterna vicino a Napoli. Nel curriculum del colonello c’è una lunga storia di lotta alla camorra: conosceva Acciaroli anche perché d’inverno era una delle località protette dove venivano inviati i pentiti di cui si occupava. E questo via vai di camorristi, sebbene pentiti, complica ancora di più il quadro della situazione. Quell’estate Cagnazzo finì nella bufera mediatica per le accuse di un pentito, secondo cui il colonnello era stato corrotto: le accuse, però, si rivelarono infondate. Nei giorni dell’omicidio di Vassallo Cagnazzo si trovava ad Acciaroli. “Dopo l’omicidio cercava di capire, raccolse anche alcune deposizioni”, racconta il figlio del sindaco, ma sembra che il colonnello non avesse ricevuto alcun mandato dalla magistratura. Cagnazzo, di sua iniziativa, avrebbe acquisito le immagini delle telecamere di sorveglianza di un negozio che davano sull’esterno, che hanno ripreso le ultime immagini del sindaco in paese. “Le immagini le porta a Castello di Cisterna per analizzarle”, sostiene il fratello di Vassallo. “Le dà alla magistratura dopo qualche giorno. È venuto fuori che sempre in quella caserma di Castello di Cisterna c’era Lazzaro Cioffi, arrestato perché era un confidente del clan Fucito”. A oggi, non si sa su quali basi, è l’unico indagato riguardo all’omicidio di Angelo Vassallo. Sulla notte dell’omicidio c’è poi un’altra stranezza, che riguarda ancora un altro carabiniere. “Una persona che alloggiava a distanza di venti metri” dal luogo dell’omicidio “non ha sentito i colpi di pistola: quella persona era un carabiniere”, racconta il figlio. Giulio Golia fa la prova per capire se è davvero possibile non aver sentito gli spari, gridando dal punto dove Vassallo è stato ucciso: il proprietario della casa lo sente e si affaccia dalla finestra. La Iena allora lo incontra: “Qui si sente tutto”, racconta, e sembra stupìto del fatto che il carabiniere non abbia udito nulla. Dopo l’omicidio, il primo a chiedere qualcosa al militare sarebbe stato proprio Cagnazzo: sembra inoltre che il colonnello sia andato accompagnato da civili, che non avevano alcun ruolo nelle indagini. Cagnazzo comunque ha un alibi di ferro per la notte dell’omicidio: era a cena con molte persone. Giulio Golia lo va a trovare a Frosinone, dove ora è comandante provinciale: “Nessuno può mettersi nei miei panni, io ho fatto il mio lavoro come Cristo comanda”, esordisce. “Io sono un coglione, perché quando è successo quel fatto mi dovevo fare i cazzi miei. Io ho fatto la relazione di servizio, con quello che mi aveva raccontato la gente”. In quella relazione appare anche il nome dello spacciatore brasiliano. Il colonello respinge ogni illazione su un suo eventuale coinvolgimento nella morte di Angelo Vassallo: “Ma io contro di lui cosa avevo? Niente, niente di niente”. La Iena poi gli chiede perché fosse andato a parlare insieme a un civile con il carabiniere nella casa vicina al luogo dell’omicidio: “Mi aveva attivato il procuratore il comando generale, dopo. Nell’immediatezza dell’omicidio mi attivò Alfredo Greco”. Cioè il procuratore che per primo arrivò sul luogo del delitto. Per quanto riguarda le telecamere, Cagnazzo dice che se non le avesse prese lui sarebbero andate perdute. A distanza di nove anni, le indagini continuano tra mille dubbi e sospetti. Poche settimane fa i carabinieri sono tornati a Pollica a chiedere nuovamente le immagini delle telecamere di quella sera. “Angelo non può essere un mistero italiano, altrimenti consegniamo al Paese un elemento molto grave: le persone normali possono essere dimenticate. E lui ha invece dimostrato che le persone normali possono cambiare il mondo”, chiude il nuovo sindaco di Pollica.
Omicidio Vassallo, il fratello Dario sarà ascoltato dall'Antimafia. Le Iene il 14 ottobre 2019. Angelo Vassallo è stato assassinato il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola: era il sindaco di Pollica nel Cilento, e con la sua azione contrastava anche i clan camorristici della zona. Con Giulio Golia abbiamo ricostruito la storia di questo omicidio ancora senza colpevoli. Dario Vassallo sarà ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia: il fratello di Angelo, sindaco di Pollica assassinato il 5 settembre 2010, interverrà sul tema delle infiltrazioni mafiosi nel salernitano. “Finalmente si apre uno spiraglio di luce sul lavoro che abbiamo condotto in questi nove anni e mezzo”, ha commentato Dario, che è presidente della fondazione "Angelo Vassallo, sindaco pescatore". Qualcosa si muove, dunque, in un caso che sembrava paralizzato ormai da tempo: noi de Le Iene abbiamo riacceso i riflettori su questa vicenda, nel servizio di Giulio Golia e di Francesca Di che potete vedere qui sopra. Angelo Vassallo era il sindaco di Pollica, nel Cilento, quando il 5 settembre 2010 venne assassinato con nove colpi di pistola mentre rientrava a casa. Il giorno del suo omicidio aveva contattato il pm Alfredo Greco, chiedendogli un incontro urgente: “È probabile che avesse conosciuto dei fatti scomodi, che hanno scatenato una reazione. Ma cosa aveva scoperto?”, si domanda l’attuale sindaco di Pollica Stefano Pisani parlando con Giulio Golia. A oltre nove anni dal suo omicidio, ancora nessun colpevole è stato assicurato alla giustizia. Ci sarebbe un solo indagato, il carabiniere Lazzaro Cioffi, attualmente in carcere perché accusato di essere connivente con il clan Fucito di Napoli. Potrebbe esserci la camorra dietro all’assassinio di Angelo Vassallo? Giovedì alle 21.15 su Italia1 non perdetevi la seconda parte dell’inchiesta di Giulio Golia.
· Il Giallo della morte di Re Cecconi.
Re Cecconi, parla Maestrelli jr: «Mai creduto allo scherzo della rapina». Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Gennaio ‘77, il calciatore ucciso in un’oreficeria. Il figlio Massimo: «Cecco ci rivolse un sorriso dolce... Quella frase non può averla detta» “Io c’ero”. Volti da prima pagina.
«Io c’ero, fuori da quella gioielleria. Era buio, faceva freddo. Babbo ci aveva lasciato da poco più di un mese e in quegli istanti, steso su un marciapiede a due passi da casa, in attesa dell’ambulanza che tardava, se ne stava andando anche Cecco...»
Bella e terribile, la vita.
«Vero. Ci aveva riservato la gioia più grande e ora ci presentava un duro conto...»
Lui era a terra e…
«Cecco era stato portato fuori dal negozio e giaceva sull’asfalto, con la testa sostenuta da qualche passante…»
Maestrelli, Re Cecconi. Il mister dello scudetto e la mezzala imprendibile quando scattava sulle fasce. Trionfi e tragedie. Radiocronache sportive e fattacci di nera. Era appena iniziato un anno cruciale della storia italiana, spartiacque tra la fantasia al potere e il crepitio delle armi, quando la traiettoria tragicamente perfetta di un colpo di pistola Walther 7.65 consegnò alla storia cittadina una delle pagine più sconvolgenti. 18 gennaio 1977, ore 19.30. Il calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, 28 anni, sposato, due figli, entrando con il collega (terzino) Pietro Ghedin nella gioielleria di un amico in via Nitti, alla Collina Fleming, pensò di fare uno scherzo, stando alla versione accreditata. Si tirò su il bavero ed esclamò: «Fermi tutti, questa è una rapina». L’orefice, Bruno Tabocchini, fu una saetta: impugnò la pistola che teneva sotto il banco e fece fuoco. Un unico colpo. Al cuore. Re Cecconi ebbe solo il tempo di dire, stramazzando, «ma io scherzavo…» Massimo Maestrelli, figlio dell’allenatore dello scudetto della Lazio nel 1974Titoli di scatola sui giornali. Lo sport in lutto. L’Italia sconvolta dall’atrocità del destino. In una frazione di secondo, il tempo di uno sparo, due famiglie si ritrovarono legate indissolubilmente. Due cognomi-idolo della curva Nord, gli artefici, assieme a “Giorgione” Chinaglia, del tricolore del 1974. Papà Tommaso, l’allenatore di quei fenomeni, era morto il 2 dicembre 1976 per un tumore. Massimo Maestrelli, broker, ex procuratore di calcio, oggi ha 56 anni ed è l’unico che può ricordare… Anche Maurizio, il fratello gemello, è mancato. Anche la sorella Patrizia. Sempre lo stesso male.
La memoria selettiva l’aiuta a scartare i ricordi brutti?
«Macché, mi sembra ieri. Avevo 14 anni e quella sera io e Maurizio tornavamo dalle ripetizioni di latino da casa di nostra cugina Bina, a circa 200 metri. Man mano che ci avvicinavamo, il brusio cresceva. Ci guardammo perplessi e arrivati davanti al negozio, infilandoci nella folla, capimmo: Cecco era stato portato fuori e giaceva per terra, il capo tenuto su da qualche passante. Facemmo in tempo a guardarlo in viso e chiedergli cosa fosse successo. Lui ricambiò con lo sguardo dolce. Ma non parlò, era come stordito».
L’Angelo biondo, così lo chiamavate.
«Ci legava un affetto fortissimo. Babbo non voleva che i suoi calciatori avessero contatti con noi quattro figli, soprattutto per evitare storie con le mie due sorelle, ma con lui aveva fatto eccezione. Già dai tempi di Foggia, Cecco ci veniva a prendere una volta a settimana per portarci al cinema, a mangiare una pizza, il gelato. Avrò avuto sette anni... Nel film “Ninì Tirabusciò” Monica Vitti s’era alzata la gonna, facendo “la mossa”, e io e Maurizio restammo colpiti, emozionati. Lui era con noi. Restò il nostro segreto con Cecco».
Quella sera, in via Nitti…
«Tutti ci guardavano come i fratellini minori, qualcuno ci tirò in disparte. L’ambulanza non arrivava e Cecco fu caricato su un’auto. Tornammo di corsa a casa, tra le braccia di mamma, a raccontarle cosa era successo, ma l’aveva già saputo da un’edizione speciale del tg. Poi tutti noi Maestrelli andammo all’ospedale San Giacomo, ma Cecco era volato via».
Muore giovane chi al cielo è caro.
«Ci ho pensato. Io e Maurizio ci siamo detti tante volte “se fossimo arrivati cinque minuti prima, Cecco si sarebbe fermato a parlare con noi e sarebbe vivo”. Sembrerà strano, ma da quel doppio terribile lutto, la mia famiglia ha tratto valori positivi. Ci ha insegnato ad affrontare gli altri dolori e a capire che c’è qualcosa, oltre la vita su questa terra».
Maestrelli – Re Cecconi, sodalizio unico.
«Emozioni da riempire una vita. Cecco con babbo a Foggia, babbo alla Lazio che chiede Cecco e Bigon, Lenzini che ne concede uno solo e lui sceglie Cecco. Lo scudetto vinto, purtroppo, contro il “loro” Foggia. Entrambi campioni e volati troppo presto. Babbo portato al funerale dai suoi ragazzi, e Cecco davanti, impermeabile bianco e occhi gonfi: un’immagine che ancora mi commuove».
La ricostruzione dello scherzo è stata posta in dubbio. Da più parti si è ipotizzato che Luciano quella frase non l’abbia pronunciata e che sia andata in modo diverso. Stefano, il figlio che all’epoca aveva due anni, si è poi detto amareggiato, perché suo padre «è stato fatto passare per un cretino». Lei cosa pensa?
«Ci fu molta superficialità da parte di chi volle liquidare tutto parlando del solito calciatore che compiva un gesto stupido, e questo ci fece male. L’opinione pubblica era innocentista, l’orefice fu assolto. Noi non eravamo nella gioielleria, ma sono sicuro che Cecco non disse nulla, né tantomeno “questa è una rapina!” Non era nelle sue corde. Entrò con Ghedin, mani in tasca e bavero alzato per il freddo, ma senza cappello né sciarpa sul viso. Ghedin fece a tempo a tirare fuori le mani, vedendo la pistola, Cecco no: il tentativo di scansare il colpo fu fatale, perché espose il petto al proiettile. Se fosse stato fermo…»
L’unico a poter dire una parola definitiva, forse, è proprio Ghedin, in quanto presente.
«Con Pietro ho un bel rapporto, lo vedo spesso, ma non abbiamo mai affrontato cos’è accaduto quella sera. Io non ho chiesto e lui non me ne ha parlato. Peccato».
E ora quel furetto biondo è nella memoria collettiva.
«Quanto accaduto a Luciano ha influito sulla vita della città, non solo sportiva. Oggi chiunque sa chi è stato Cecco: un uomo sano, pulito, di grandi valori. L’unico di quella Lazio che dopo gli allenamenti faceva qualche giro di campo in più per assaporare l’odore dell’erba, sentire il tono dei muscoli, il respiro dei propri polmoni».
Sente ancora la moglie Cesarina, che tornò subito, vedova giovanissima, a Nerviano, vicino Milano?
«L’ho vista al matrimonio del figlio Stefano, meno di due anni fa. La nostra famiglia, soprattutto mamma, le è stata vicina. Ma da certe tragedie la vera forza va trovata in noi stessi. Lei è stata un leone. Con Stefano c’è una forte empatia. Ci sentiamo e vediamo, sempre col sorriso sulle labbra. I nostri occhi si illuminano come poche volte ci accade, consapevoli di aver vissuto parallelamente la storia di due grandi uomini, che si sono conosciuti, si sono piaciuti e hanno condiviso grandi gioie, sino alla fine assieme. I nostri papà».
· Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana».
Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana». Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Daniele Archibugi, direttore al Cnr, fu allievo dell’economista scomparso nel 1987: «Voleva essere aiutato a suicidarsi, e riuscì a non lasciare traccia» «Io c’ero». Volti da prima pagina Altre storie. «È stato un genio. Per il contributo che ha dato con le sue teorie e con l’insegnamento, ma anche per come si è tolto di mezzo…» Un grande uomo. Alto un metro e 50. Un economista famoso. Un docente universitario amatissimo. La scomparsa di Federico Caffè, professore nella facoltà di Economia e commercio della «Sapienza», è rimasta uno dei misteri dell’ultimo scorcio del Novecento. All’alba del 15 aprile 1987 quell’omino piccolo piccolo, stimato da ministri, banchieri e intellettuali controcorrente come Valentino Parlato, si vestì e uscì dall’appartamento che divideva con suo fratello Alfonso, a Monte Mario, avendo un’idea chiara in testa: a 73 anni, aveva deciso che non aveva altro da dire al mondo. Sul comodino della sua stanza lasciò gli occhiali, le chiavi, il libretto degli assegni, il passaporto. Non gli servivano più. All’alba, si ritrovò sul marciapiede di via Cadlolo e sparì. Daniele Archibugi, economista, fu allievo e amico del professor Caffè. Inghiottito dalla città. Evaporato nella foschia del primo mattino. La polizia lo cercò ovunque. Anche i suoi studenti si mobilitarono, organizzando battute per settimane. Tra questi Daniele Archibugi, il fratello di Francesca, la regista, che è diventato economista anche lui, e oggi è direttore di un istituto del Cnr, saggista, docente.
Caffè, per gli Archibugi, era uno di famiglia.
«Aveva conosciuto mio padre al ministero della Ricostruzione, nel lontano 1946. Aveva fatto da testimone di nozze ai miei. Ogni 6 gennaio, giorno del suo compleanno, andavo a trovarlo per gli auguri...»
Un secondo padre, per lei.
«Sì, oggi avrebbe 105 anni e lo penso spesso. Sono profondamente grato a Caffè per l’interesse che manifestava per le mie idee, anche se ero solo un ragazzo. Lui era curioso, ha sempre avuto il desiderio di capire. Se un giovane trova un autorevole professore disposto a dargli fiducia, inizia a credere in se stesso. Senza un mentore come lui, non sarei mai riuscito a fare quel poco che ho fatto».
Lei si laureò con Caffè. Che ricordo ha?
«Era il 27 gennaio 1983, tesi sull’economia keynesiana. Grande gioia, ebbi la lode. In borsa portai un dono per lui. Federico indossava solo vestiti blu. Finita la discussione, mi chiusi nella sua stanza e tirai fuori una cravatta. Sapevo che non potevo osare troppo: quella che gli diedi era ovviamente blu, ma con minuscoli puntini rossi. Caffè non voleva accettarla e provò a ricacciarla nella mia borsa. Gli storsi il braccio, rimisi il pacchetto sulla scrivania e gli dissi: “Non sono più uno studente”. Fu stupito dalla mia audacia e mi abbracciò».
Veniamo al 15 aprile 1987: esce di casa e non torna. Voi quando lo venite a sapere?
«Era un mercoledì. Mi chiamò prima delle 8 di mattina suo fratello Alfonso. Presi l’auto e corsi a casa sua. Vi trovai suo nipote Enzo con la moglie e l’allievo cui aveva lasciato la cattedra, Nicola Acocella».
Dove lo cercaste? Con che stato d’animo?
«Si creò un’improvvisata unità di crisi, composta dai suoi nipoti Enzo e Giovanna e da una decina di allievi. Sapevamo che Federico era in preda ad una brutta depressione e iniziammo a cercarlo a Monte Mario, lungo il Tevere, nei paraggi della facoltà. Parlammo con la polizia, ma per ben sei giorni fu deciso di non rendere pubblico il fatto: si voleva evitare di creare uno scandalo che gli avrebbe reso impossibile uscire dalla depressione. Fu un errore: se c’era qualche speranza di ritrovarlo, era rendendo pubblica la sua scomparsa. Solo il lunedì fui incaricato di portare un comunicato all’Ansa. Mi trovai a negare l’ovvio: se era sparito, ci doveva essere una ragione. Ma della sua depressione bisognava non parlare».
Pochi giorni prima si era tolto la vita Primo Levi, precipitando nella tromba delle scale. Caffè ne fu molto turbato, e appresa la notizia esclamò: «Perché cosi? Perché straziare i parenti?» Fu in quel momento che scelse di andarsene in punta di piedi?
«Possibile, è una delle ipotesi. Era da lui, uomo delicato, attento. Negli ultimi mesi mi diceva che l’unico modo in cui avrei potuto aiutarlo era facilitandogli il suicidio. Ma parlavamo anche di sparizione. Federico ed io avevamo l’abitudine di scambiarci romanzi. Nel 1978 gli prestai “Dissipatio H.G.”, di Guido Morselli. Narra la storia di un uomo che vuole uccidersi buttandosi in una sorgente dentro una grotta. Ma cambia idea, torna indietro e trova che a scomparire è stata tutta l’umanità. Morselli poi si era suicidato. A Caffè era piaciuto. Me lo restituì prestandomi “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, con il solito rimbrotto: “Si inizia leggendo i classici!”».
Che idea s’è fatto?
«Suicidio, appunto, o convento. Il capo della Squadra mobile di Roma, Nicola Cavaliere, ci fece sapere che in caso di suicidio la maggior parte dei corpi si ritrova al massimo in un paio di settimane. In quei giorni mi recai in Vaticano, grazie ai buoni uffici di un mio zio monsignore, per capire se fosse stato possibile rinchiudersi in un convento senza avvisare la famiglia. Un autorevole prelato mi disse che ufficialmente era impossibile perché c’erano specifiche procedure da rispettare. Chiesi: “E in realtà?” Il prete allargò le braccia: “Come possiamo sapere quel che succede in tutti i conventi d’Italia?”».
Il vostro ultimo incontro?
«Due giorni prima, nel suo studiolo. A seguito della depressione, noi allievi andavamo a trovarlo spesso, per fargli sentire che gli volevamo bene. Era stremato dalle notti insonni. Lo convinsi ad appoggiarsi sul lettino e si mise a dormire. Presi dalla libreria un suo vecchio opuscolo e mi misi a leggerlo in poltrona accanto a lui. A sera tornai a casa e non me lo sono perdonato. Conoscevo il fratello e i nipoti, avrei potuto restare lì da lui».
Le forze dell’ordine fecero il possibile per trovarlo?
«Sì, francamente sì. Nicola Cavaliere si dimostrò un uomo estremamente sensibile. La verità è che Federico ha fatto un colpo da maestro, si è dimostrato più furbo di tutti noi nello scegliere come uscire di scena. Una delle poche persone che è riuscita a sparire senza lasciare traccia. Abbiamo tutti provato almeno una volta nella via il desiderio di sparire descritto da Morselli e Pirandello, ma ben pochi, oltre a Ettore Majorana e lui, ci sono riusciti così bene».
Quanto ha inciso nella sua vita un evento tanto tragico e insieme sfuggente?
«Federico Caffè continua a venirmi a trovare nei sogni. È ancora una presenza benevola nella mia vita. Anch’io, ogni volta che ricevo uno studente, provo a chiedermi: cosa di nuovo può dire questo giovane? Allora ero pieno di capelli, e quando obiettavo ai suoi consigli mi ripeteva spazientito: “A lavar la testa all’asino, si perde la corda e il sapone”. Oggi ripeto lo stesso detto ai miei ragazzi».
Caffè non apprezzava il liberismo selvaggio degli anni ‘80. Il suo sentirsi keynesiano portava con sé l’aspirazione a una società più solidale e giusta. Come si sarebbe trovato nella società di oggi?
«Federico era un intellettuale malinconico, ma non pessimista. Ha sempre criticato la “strategia dell’allarmismo economico” perché aveva fiducia in quella che chiamava l’Italia operosa, capace di lavorare anche nelle avversità. È la persona più generosa che abbia conosciuto e aveva difficoltà a capire come si potesse essere egoisti e avidi».
Sua sorella avrebbe potuto farci un film…
«Gliel’hanno proposto ma ha rifiutato. Un personaggio simile, rigoroso, impegnato nelle istituzioni pubbliche, Francesca l’aveva già raccontato: lo psichiatra de “Il grande cocomero”. Comunque poi un film è uscito, “L’ultima lezione”, e gli ha fatto un gran regalo…»
Vale a dire?
«Venti 20 centimetri d’altezza. Era il suo cruccio. Lo diceva prima a mio padre e poi a me, che superiamo di parecchio il metro e 80: “Voi che siete così alti, mi potreste regalare qualche centimetro?”»
· Bertrand Cantat, l'idolo assassin. Storia del delitto maledetto di Marie Trintignant.
Bertrand Cantat: «Così ho picchiato Marie Trintignant». In tv il racconto del delitto. Accuse alla vittima dai parenti di lui. Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 su Corriere.it da Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi. Stasera alla tv francese andrà in onda per la prima volta il video della deposizione del cantante davanti ai giudici lituani. Nella notte tra il 26 e il 27 luglio del 2003 Bertrand Cantat picchiò a morte la sua compagna Marie Trintignant, che venne soccorsa solo alle sette del mattino, entrò in coma e morì il 1° agosto nonostante due operazioni alla testa. Dopo quella notte il cantante dei Noir Desir fu arrestato e interrogato dalla giudice lituana, e la rete francese M6 trasmette per la prima volta parte della sua deposizione. Sono i giorni dedicati in tutto il mondo alla lotta contro la violenza alle donne, ma accanto al video di Cantat nello stesso programma ci sono le affermazioni incredibili di suo fratello, che sembra difendere Cantat accusando la vittima Marie Trintignant: «Nel mondo dello spettacolo aveva la reputazione di essere una persona squilibrata, fragile e addirittura violenta». Insomma seconda questa visione la donna è stata uccisa perché se l’è cercata.
Nel commissariato. Le immagini sarebbero proibite se fossero state girate in un commissariato francese, ma l’avvocato della rete tv, Richard Malka, esperto di diritto della stampa, sottolinea che la loro provenienza dalla Lituania e il fatto che siano di interesse pubblico ne rende possibile la diffusione. Il video era stato girato dalle autorità lituane in modo che non ci fossero poi contestazioni sulle frasi pronunciate da Cantat e la loro traduzione.
La deposizione. Cantat comincia parlando di una prima aggressione ai suoi danni da parte della vittima. «Marie è diventata molto aggressiva, isterica, mi ha dato un pugno in faccia e poi mi ha preso il collo. Avevo segni ovunque». Il cantante giura che fino a quel momento non l’aveva mai picchiata. Poi il racconto della tragedia: «Sono entrato in una collera nera e da quel momento le ho dato dei colpi. E non piccoli. Non posso mentire. Dei colpi forti così (mima il gesto), 4, 5 o 6, fortissimi, usando il dritto e il rovescio delle mani, e avevo degli anelli». Poi Cantat l’ha lanciata sul divano, «solo che è caduta per terra. Non è atterrata completamente sul divano, a metà è finita per terra e ha battuto la testa». L’autopsia indica che Marie Trintignant, 41 anni, portava tracce di una ventina colpi: «Molti lividi sul viso dei quali tre enormi sul lato sinistro, distruzione delle ossa del naso dovuta a un pugno o a una testata, ferita sull’arcata sopracciliare dovuta agli anelli». Quella notte intorno alle 4 e 30 arrivò nella stanza il fratello della vittima, Vincent Trintignant, che propose di chiamare i soccorsi «ma Cantat diceva che bisognava lasciarla dormire, che sarebbe passato tutto con un’aspirina al suo risveglio. Sembrava sincero e non ero troppo preoccupato perché non c’erano tracce di sangue». Il ritardo nei soccorsi però è stato probabilmente fatale perché si è sviluppato a un edema cerebrale che ha portato alla morte dopo il trasferimento a Parigi e i due interventi chirurgici purtroppo senza successo.
La condanna. Bertrand Cantat venne condannato a otto anni di carcere. Nel 2004 venne trasferito in un carcere francese, e dal 2007 cominciò a godere di permessi di semilibertà. Il 29 luglio 2010 il controllo giudiziario è finito e Cantat è tornato un uomo libero. Ha tentato di tornare sulle scene, ma i concerti sono stati accompagnati da proteste, boicottaggi e polemiche, anche per le prese di posizione del padre della vittima, Jean-Louis Trintignant, che ha più volte criticato l’atteggiamento di Cantat, tra noncuranza e attenzione eccessiva alle proprie sofferenze.
Gli insulti. I responsabili della trasmissione hanno chiesto a Cantat una reazione, ma lui non ha risposto. In compenso stanno provocando molte polemiche le frasi del fratello Xavier e della sorella Ann, che infangano la memoria della vittima. «Consumava di continuo alcol e cannabis, ogni giorno. Nel mondo del cinema dicevano che era buona per fare la festa». Un modo per gettare su di lei la colpa della sua stessa morte. Nel documentario si ripercorre anche la storia della moglie di Cantat, Krisztina Rady, che si è uccisa dopo avere lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica dei genitori, parlando di una cartilagine rotta e delle violenze subite dal marito.
Cantat, dopo anni la deposizione sull'omicidio di Marie Trintignant. Nei giorni dedicati alla violenza sulle donne, la rete francese M6 trasmette per la prima volta la deposizione del cantante Bertrand Cantat, accusato e condannato per l'omicidio dell'attrice Marie Trintignant, avvenuto nel luglio del 2003. Federico Garau, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. A distanza di tempo si torna a parlare dell'omicidio dell'attrice Marie Trintignant, un crimine per il quale Bertrand Cantat, frontman dei Noir Désir, fu condannato ad 8 anni di reclusione. Proprio durante i giorni in cui si parla di violenza sulle donne, la tv francese ha stabilito di mandare in onda la deposizione rilasciata dal cantante dinanzi agli inquirenti. Trintignant morì dopo aver trascorso alcuni giorni in coma. Fu Cantat a causare la sua morte, dopo averla picchiata con forza fino a ridurla in fin di vita. I fatti risalgono al lontano luglio 2003, quando l'attrice si trovava in Lituania, per la precisione a Vilnius, per recitare il ruolo di Colette in un film. Bertrand, allora suo compagno, l'avava raggiunta lì per trascorrere del tempo con lei. Un incontro fatale. La notte del 23 luglio 2003, in seguito ad un violento litigio, il cantante aveva aggredito la donna, fino a causarne il decesso. Sono trascorsi molti anni dalla morte di Marie Trintignant, avvenuta pochi giorni dopo la violenza (1 agosto), e adesso le dichiarazioni di Cantat, rilasciate dalle autorità lituane, offrono una differente versione dei fatti. "Marie è diventata molto aggressiva, isterica, mi ha dato un pugno in faccia e poi mi ha preso il collo. Avevo segni ovunque", dichiara Cantat nella deposizione, come riportato da "Il Corriere della Sera". "Sono entrato in una collera nera e da quel momento le ho dato dei colpi. E non piccoli. Non posso mentire. Dei colpi forti, 4, 5 o 6, fortissimi, usando il dritto e il rovescio delle mani, e avevo degli anelli". Cantat, che giura di non aver mai alzato le mani sulla compagna prima di quella sera, ammette di avere perso il controllo, e di aver tentato di scagliare Marie lontano da sé, in direzione di un divano presente nella stanza. "Solo che è caduta per terra. Non è atterrata completamente sul divano, a metà è finita per terra e ha battuto la testa", spiega. Dopo l'aggressione, passano delle ore. Secondo la ricostruzione effettuata dagli investigatori, intorno alle 4:30 il fratello di Marie, Vincent, entra nella stanza e vede la sorella. Le condizioni della 41enne lo portano a voler chiamare i soccorsi, ma Cantat lo ferma. "Diceva che bisognava lasciarla dormire, che sarebbe passato tutto con un’aspirina al suo risveglio. Sembrava sincero e non ero troppo preoccupato perché non c’erano tracce di sangue", ricorda Vincent Trintignant. I soccorsi, così, arrivano troppo tardi. Sono le 7 del mattino quando finalmente Marie viene trasportata in ospedale. Trasferita d'urgenza a Parigi ed operata due volte alla testa per rimediare ad un gravissimo edema cerebrale, l'attrice muore dopo alcuni giorni di agonia. I referti dell'autopsia non coincidono con le dichiarazioni di Cantat. Il medico legale parla di una ventina di colpi. "Molti lividi sul viso dei quali tre enormi sul lato sinistro, distruzione delle ossa del naso dovuta a un pugno o a una testata, ferita sull’arcata sopracciliare dovuta agli anelli", riporta il "Corriere". Arrestato in Lituania, nel 2004 Bertrand Cantat torna in Francia, dove sconta la sua pena per poi tornare libero il 29 luglio del 2010. Con la messa in onda della rete francese M6, si riaccende la polemica, soprattutto a causa di alcune dichiarazioni che mettono in cattiva luce la vittima, Marie. "Consumava di continuo alcol e cannabis, ogni giorno. Nel mondo del cinema dicevano che era buona per fare la festa", è una delle affermazioni choc dei congiunti di Cantat.
Il video shock di Cantat: "Così ho ucciso Marie Trintignant". L'interrogatorio diffuso sedici anni dopo il delitto. ANAIS GINORI il 24 novembre 2019 su La Repubblica. «È diventata molto aggressiva, isterica, mi ha dato un pugno in faccia, poi sul collo, avevo segni dappertutto». Finora non si conosceva la versione che Bertrand Cantat aveva dato ai magistrati della tragica notte in cui aveva ucciso di botte la sua allora compagna, l’attrice Marie Trintignant. Le immagini della sua testimonianza, rivelate ieri per la prima volta da una tv francese in occasione della giornata mondiale contro i femminicidi, ricalca quello che molti avvocati osservano nelle vicende di violenza sulle donne. E cioè il tentativo dell’aggressore di discolparsi facendo passare la vittima per una pazza, un’«isterica», una provocatrice violenta. Era il 23 agosto 2003, tre settimane dopo la morte dell’attrice francese in Lituania, dove stava girando un film e Cantat l’aveva raggiunta. Davanti ai magistrati, l’allora leader della popolare band dei Noir Désir cerca di giustificarsi, dice di essere stato picchiato. Mostra presunte botte al viso, sulle braccia. «Lei urlava, urlava tutto il tempo» racconta. Si vede il suo avvocato sussurrare alcune frasi, incitare l’artista nella linea di difesa. «Nessuno ha pensato che l’aggressività potesse venire da qualcun altro che da me» dice Cantat come per giustificarsi. Delle lesioni di Cantat non esistono referti medici. L’autopsia registra invece una ventina di colpi inferti sul corpo dell’attrice, tra cui diversi ematomi in faccia, le ossa del naso fratturate, due nervi ottici distaccati, numerose ferite alle gambe, nella parte bassa della schiena, sulla pancia e sulle braccia. Il video della testimonianza di Cantat, un tempo idolo della sinistra alternativa, prosegue. «È successo nella follia, nella furia. È difficile descriverlo precisamente. Sono andato in preda alla rabbia e da lì ho cominciato a schiaffeggiarla». Un magistrato chiede al cantante di spiegare meglio come ha colpito la donna. «Non erano piccoli ma grandi schiaffi, e avevo anelli sulle dita». Cantat muove le braccia, imita il gesto, fa un suono di esplosione con la bocca. «Erano grandi colpi come questo. Quattro, cinque, sei volte. Forte, forte». Mostra le mani. «Ho usato entrambi i lati». E poi l’epilogo: «Ho cercato di buttarla sul divano, ma è caduta accanto, ho mancato il colpo». Il cantante aspetterà sei ore per chiamare i soccorsi, mentre l’attrice quarantenne giace a terra, in coma. Forse anche grazie alla linea di difesa, il rocker è stato condannato solo a otto anni per omicidio colposo. Liberato nel 2007, ha ricominciato la sua carriera d’artista, incidendo un nuovo disco dal titolo Amor Fati (“Accettare il proprio destino”). In pubblico Cantat non ha mai ripetuto la versione che aveva dato ai maigstrati lituani ma deve averne parlato al suo entourage. La tv M6 ha intervistato i suoi famigliari, tra cui il fratello Xavier che senza alcun pudore getta fango su Trintignant. «Alcune persone del mondo dello spettacolo — dice l’uomo — mi avevano raccontato che era una squilibrata, fragile, a volte violenta. Era la ragazza giusta per fare festa e sesso».
Cantat, l'idolo assassino storia di un delitto maledetto. Articolo pubblicato il 5 agosto 2003. La morte di Marie Trintignant cancella un mito dei no global. Il cantante era popolarissimo per l'impegno sociale. Gabriele Romagnoli il 24 novembre 2019 su La Repubblica. Un'attrice bellissima, famosa e malinconica viene ammazzata di botte nella stanza di un albergo lituano da un cantante adorato, ribelle e idealista. Non è cronaca nera. Non è, neppure, materiale da giornale scandalistico. Benché riempia la cronaca nera e i giornali scandalistici, il caso Trintignant-Cantat è una questione morale che da una settimana turba metà della Francia e diventa il tormentone di ogni conversazione in cui cade chi passa di qui, ma non possiede un solo cd dei Noir Desir e non ha mai visto un film con Marie Trintignant. Una storia che sconcerta, perché dimostra che, talora, non solo il re, ma anche Robin Hood è nudo e brutto a vedersi. Una storia che pone una serie di domande, di quelle che migliaia di fans, navigatori di Internet, lettori di Liberation, ragazzi new global (o come si chiamano adesso), tolleranti, antirazzisti, non violenti, non si erano mai posti: fin dove possiamo spingere la nostra compassione? Possiamo amare anche il mostro che è in noi e riconoscere che, come cantavano i Noir Desir, "abbiamo l'arte dell'abisso"? O dobbiamo fermarci sulla riva di questa tentazione per non affogare in quel mare sporco in cui abbiamo sempre rifiutato di immergerci? C'è, in quel che è accaduto in Lituania, molto di incomprensibile, ingenuamente incomprensibile, per chi oggi resta sgomento. I fatti, allora. In una suite dell'albergo domina l'afa di Vilnius si trovano due persone, un uomo e una donna. Lei, Marie Trintignant, ha 41 anni e il peso di una vita schiacciata sotto quel nome. Padre attore, madre regista. Avrebbe voluto fare la veterinaria, sta sul set da quando aveva quattro anni, con la madre a dirigerla. Dice che recitare l'ha guarita dal mutismo per timidezza. Gli occhi verdi e remoti istigano a crederle. Ha combattuto tutte le cause femministe e di sinistra. Ha avuto tre mariti e quattro figli. Conosce solo amori tumultuosi, ne accende le micce. Il suo film preferito è "La donna della porta accanto" di Truffaut, quello in cui Fanny Ardant dice a Gerard Depardieu la luttuosa frase: "Né con te né senza di te". Da sei mesi ha una nuova passione. Lui, Bertrand Cantat, è il cantante e leader di quello che, in Francia, è il complesso musicale. Da vent'anni fa rock impegnato. Considerato da una generazione un fratello e dall'altra un fratello maggiore. I testi che canta diventano linee guida. Le sue scelte, i suoi comportamenti fanno scuola. Questo è quel che conta: è un modello etico. I due sono lì perché lei sta girando, con l'immancabile madre alla macchina da presa, un film sulla vita di Colette. Sabato sera, hanno festeggiato l'ultimo ciak, salgono in camera. Lei riceve un sms dall'ex marito, padre di due figli. Le annuncia che un loro progetto lavorativo sta andando bene. Termina con una frase affettuosa. Non solo molte relazioni, perfino qualche vita, sarebbe stata risparmiata senza l'invenzione degli sms (ma anche viceversa: il conto è probabilmente in pari). Qui accadono le prime due cose che i "fratelli dei Noir Desir" non si aspettano. La prima: Bertrand strappa dalle mani di Marie il telefono e legge il messaggio. La seconda: fa una scenata di gelosia. Bertrand è Robin Hood, il ribelle che sputa sui soldi e sul manifesto di Le Pen, come riconoscerlo in questa scena borghese e ridicola? Una domanda ingenua, come lo sono quelli che se la pongono. Certo, la scena è patetica. Ma ogni uomo, lontano dal palco, dalla cattedra, dalla rappresentazione di se stesso è, spesso, quasi sempre patetico. Il privato è la soglia della credibilità umana. Oltre, se non l'abisso, qualche pozzanghera. Nel privato, fieri anticapitalisti non parlano che di soldi e scrittori macisti si infilano i collant. Ridicolo, non stupefacente. Ed è, ancora, qualcosa che possiamo comprendere e compatire. Poi accade qualcosa d'altro. Bertrand chiede spiegazioni. Marie rifiuta o dice quel che le viene di dire. Non importa. Litigano, urlano. Va bene. E' un diritto, per loro, un dovere. Hanno l'aria di due persone che debbono litigare con gli altri per non farlo con se stessi. Lei urla per fuggire dal proprio silenzio. Lui, sul palco, urla così tanto che ha dovuto, più volte, operarsi le corde vocali. Non hanno "l'arte del silenzio". Sono inquieti, intelligenti. Insoddisfatti, va da sé. Niente li appagherà perché non sono abbastanza autodistruttivi, perché, a differenza di Kurt Cobain la sera in cui se ne andò a dormire con i suoi angeli, si stanno ancora divertendo. Ma Bertrand è geloso. Come può esserlo? La gelosia è quel concetto borghese e destrorso che tutte le generazioni dei suoi fratelli hanno coperto con la sovrastruttura dalle incerte fondamenta. Crolla, infatti. E Bertrand perde il controllo. Colpisce Marie. Attenzione: non una volta sola. Lo dice l'autopsia dei medici lituani: la colpisce più volte, ha il viso coperto di ecchimosi. Una volta è impeto, istinto, poco più di una parola, un vento che abbatte la sovrastruttura e lascia nuda l'anima. E' una follia, una di quelle che, a essere uomini, capiamo. Più volte è un deliberato intento di violenza, una tempesta di cattivi sentimenti che smaschera Robin Hood e ci mostra un altro principe viziato. Non è "una follia" come Bertrand ora dice. E' un crimine, che solo la legge penale degli uomini comprende e classifica. Ancora due cose. La prima: tutto questo avviene durante la notte. Bertrand avverte al telefono il fratello di Marie, ma i soccorsi vengono chiamati soltanto alle 7.30. L'ultima: all'udienza di Vilnius Bertrand Cantat ha chiesto perdono, ma ha sostenuto la tesi dell'incidente involontario, che l'autopsia smentisce. Ha, come molti che gli assomigliano, rivelato una forma di allergia per la piena responsabilità. E qui siamo. I siti francesi sono sovraffollati di forum in cui i naviganti si dividono, come la massa dei fans, in due parti: c'è chi annuncia di avere rispedito alla casa discografica tutti i cd dei Noir Desir e chi confessa di non poter smettere di amare Bertrand. "Un amico non può cessare di esserlo di colpo - ha scritto Liberation - anche se ha tradito. Dobbiamo avere compassione per lui". Un lettore ha risposto di averne soltanto per Marie Trintignant e suggerito al giornale di pubblicare un dossier sulle donne picchiate (un milione e mezzo in Francia). Negli altri messaggi emergono preoccupazioni di varia natura, tra cui: "Chissà come se la sta ridendo Le Pen". Emerge il volto sconcertato di un movimento che non sa come reagire, diviso tra solidarietà e rigore, afflitto dal sospetto che la prima non rispetti la vittima e il secondo non rispetti la propria storia. Non hanno un metro di valutazione per giudicare Bertrand Cantat e non si fidano dell'istinto. Temono di usare quelle stesse categorie di giudizio che, con Bertrand, combattevano. Confondono l'ipocrisia con la debolezza, avvertono l'ombra del moralismo. Ma la battaglia di Bertrand Cantat, di cui, come di tutti, vanno pietosamente separate la vita e le opere, era proprio una battaglia per spostare la linea morale della società: un confine più lontano che lasciasse entrare visioni diverse, pratiche di vita, di morte e di amore più libere. Quella battaglia sopravvive e quel confine va ancora spostato, ma si ferma, senza se e senza ma, davanti al volto tumefatto e agli occhi chiusi di Marie Trintignant.
· Il mistero sulla morte di Desirée Piovanelli.
Fabio Poletti per “la Stampa” il 14 Novembre 2019. Ci sono storie che non finiscono mai. Fantasmi che dal passato tornano a galla. Basta un computer, una stampante, un foglio A4 e una minaccia anonima: «Piovanelli Maurizio sei un miserabile burattino appeso ai fili dei burattinai di Leno». Leno è questo piccolo centro di 15 mila abitanti nella bassa bresciana, punteggiato di aziende agricole e fabbrichette. Leno non lo conosceva nessuno, fino al 28 settembre 2002 quando finisce in prima pagina per il ritrovamento del corpo di Desirée Piovanelli, 14 anni, ammazzata a coltellate nella cascina Ermengarda da un branco di ragazzini: Nicola B. allora muratore di 16 anni, Nicola V. anche lui muratore stessa età, Mattia F. studente di appena 14 anni, aiutati da Giovanni Erra, un balordo di 35 anni con un passato di droga e violenze, l' unico ancora in carcere. Maurizio Piovanelli è il padre di Desirée. L' anno scorso ha fatto riaprire le indagini sostenendo che non c' era solo il branco, ma pure un mandante che voleva coinvolgere sua figlia in un giro di prostituzione minorile. «Sono passati 17 anni da quando è stata uccisa mia figlia, ma questo dolore non finisce mai. Ogni volta che spunta un cartello o una minaccia questo dolore diventa insopportabile come il primo giorno. Io voglio la verità su chi ha ammazzato mia figlia». A Maurizio Piovanelli, che continua ad abitare a Leno e a sistemare tegole sui tetti, non basta il processo che ha portato in carcere per 18 e 15 anni i due sedicenni, per 10 anni il più giovane e che ha inflitto una pesante condanna a 30 anni per Giovanni Erra. «Io so che dietro la morte di mia figlia c' è altro. Ho fatto il nome e il cognome del mandante dell' omicidio di Desirée. Ho raccolto le voci in paese e le indicazioni di chi sapeva. Dopo la denuncia sono stato ascoltato dai magistrati. Adesso aspetto giustizia». Il suo avvocato, Alessandro Pozzani, è convinto che ci sia un collegamento tra le denunce e le minacce via foglio A4: «Ogni volta che qualcuno viene sentito in questa inchiesta bis spuntano i cartelli. Sembra che stiamo dando fastidio a qualcuno». La cadenza dei cartelli e delle minacce è continua. A febbraio sul cancello di casa Piovanelli viene appeso un pupazzo con il volto che sembra quello di un teschio. Poi appaiono cartelli in un centro commerciale. Qualche settimana fa, come ha raccontato "Il Giornale di Brescia", gli ultimi cartelli: contro Maurizio Piovanelli, i carabinieri, un imprenditore che avrebbe collaborato con il padre di Desirée indicandogli un possibile mandante in paese e contro il padre di una ragazza finita in un giro di prostituzione minorile. I cartelli sono apparsi in via Damonte a Leno. In una zona centrale così che potessero vederli tutti. Poco distante dal Bar Sport in faccia al Municipio, gestito da una famiglia cinese e con i pensionati che si fanno il giro di carte sotto al grande schermo con la partita: «Quella storia lì non si è mai capita bene. Comprendiamo il desiderio di suo padre di sapere la verità». L' idea che ci possa essere un mitomane dietro alle minacce non convince il padre di Desirée: «I cartelli prendono di mira persone che sono solo nelle denunce». Solo una cosa non gli dà pace da diciassette anni: «Credo che dietro la morte di mia figlia ci siano anche altri. I tre assassini che erano minorenni non li ho mai visti né gli ho mai parlato. E nessuno di loro mi ha chiesto scusa».
· La confessione di Massimo Sebastiani: «Così uccisi Elisa Pomarelli nel pollaio».
La confessione di Massimo Sebastiani: «Così uccisi Elisa nel pollaio». Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Il racconto dell’uomo che il 25 agosto ha strangolato in un pollaio la sua amica Elisa: «L’ho afferrata con entrambe le mani per il collo. È caduta a terra e ho capito che era morta. Massimo Sebastiani, 45 anni, tornitore, insieme con Elisa Pomarelli, assicuratrice di Piacenza: sua amica e vittima. Non erano fidanzati. Lo chiamavano «tarlucc» perché era sempliciotto e un po’ spaccone. Da ragazzo si divertiva a scommettere per due soldi su imprese improbabili. «Una volta si buttò nell’acqua gelata di un laghetto... un’altra si mise su una tavola piena di chiodi tipo fachiro», ricorda il ristoratore Luigi Farina che lo conosce da sempre e per spiegarti il vecchio amico ti dice che non ha paura di nulla, che va per boschi come un cinghiale, che gira in maniche di camicia anche d’inverno. «Ma Massimo non è solo questo, stiamo parlando di un gran lavoratore capace di fare mille cose. Lui ama la terra ed è molto generoso. Quando avevi bisogno, arrivava subito. Altra cosa: non l’ho mai visto fare del male a nessuno». Massimo Sebastiani aveva infatti fama di uomo rude ma innocuo. «Non mi sembrava che Elisa fosse in pericolo con lui...», diceva con un filo di voce Maurizio Pomarelli nei giorni drammatici delle ricerche, quando sua figlia Elisa era scomparsa nel nulla con Sebastiani. Succedeva lo scorso 25 agosto e l’ultimo ad averli visti era stato proprio Farina, nella sua trattoria. «Avevano pranzato da me, venivano spesso di domenica. Mi erano sembrati normali, come sempre, lui scherzoso, lei più taciturna. Alla fine Massimo mi aveva salutato sorridendo dicendo che andavano a fare la casetta dei bambini». Da qualche anno Sebastiani viveva in solitudine fra i campi di Carpaneto, ai piedi delle colline piacentine, dove ha una casa, un trattore e un pollaio. Quel giorno, uscito allegro dalla trattoria, era andato lì con Elisa. E lì, nel pollaio, di colpo, ha fatto il mostro. «Per un attimo ho visto tutto buio... L’ho afferrata con entrambe le mani per il collo .... È caduta a terra e ho capito che era morta», ha confessato davanti al giudice di Piacenza Luca Milani nel corso di un lungo interrogatorio recuperato da 7. Ma perché l’ha fatto? «Elisa mi aveva detto che non c’era più bisogno di vedersi spesso. Era molto seria». Il «tarlucc» è diventato così un assassino. Si è macchiato del peggiore dei delitti con un movente letto molte volte sulle pagine di cronaca nera: non sopportava l’idea del distacco. E detta in questo modo sembra di trovarsi di fronte a un omicidio maturato all’interno di un rapporto di coppia. Errore. Perché Sebastiani, 45 anni divisi fra la passione dei campi e il lavoro di tornitore in fabbrica, ed Elisa Pomarelli, ventottenne assicuratrice piacentina, non erano fidanzati. Il particolare rende la vicenda unica e inquietante. E ha suggerito agli investigatori di non confinarla sbrigativamente nel recinto del raptus. L’improvviso buio di Sebastiani, oggi detenuto nel carcere di Piacenza, sembra infatti avere radi ci profonde, delle quali si trovano tracce nell’interrogatorio: «Vedendomi giù di morale, gli amici mi avevano spinto ad andare da una psicologa. Ero giù soprattutto per i debiti e per il mio rapporto con lei... da ultimo mi ero rivolto a una dottoressa di Bergamo che mi stava aiutando». Di questo aiuto pare però che nessuno sapesse nulla. Per capirne di più abbiamo ripercorso le sue dichiarazioni con la miglior amica di Elisa, Dayana Cabezas, che conosceva bene anche lui. Davanti al giudice, assistito dall’avvocato Mauro Pontini, Sebastiani è partito dal giorno in cui la incontrò per la prima volta: «Quattro anni fa, quando suo padre, che in passato mi aveva seguito come promotore finanziario, si presentò con lei... mi è piaciuta subito... Dopo un anno e mezzo di frequentazione, ricordo che durante una passeggiata mi ha rivelato che aveva delle preferenze per le donne, dunque non ero io il problema per lei. Ma mi ha assicurato che se avesse cambiato idea, sarei stato l’uomo con cui si sarebbe messa. Da quel momento in poi ammetto che anche altre persone mi avevano detto la stessa cosa. Io avevo comunque deciso di aspettarla». Un’aspettativa destinata al fallimento. Una bella amicizia «Elisa gliel’aveva detto chiaro che poteva esserci solo un’amicizia. Si era avvicinata a lui dopo aver perso una cara amica d’infanzia per la quale provava un sentimento non corrisposto - spiega Dayana - Era per lei un periodo difficile, di accettazione di queste sue pulsioni. Mi aveva detto che con Massimo c’era stato solo un bacio perché aveva capito subito di non poter avere un rapporto con lui». Dayana raccoglieva le confidenze di entrambi. «Siamo usciti varie volte tutti e tre insieme e mi sono trovata a discutere da sola con lui. Mi è rimasta impressa una sua frase: le faccio fare le sue esperienze e poi io sono qui.... Io credo che lui abbia vissuto una grande illusione perché mancavano proprio i presupposti di una relazione di coppia». Quando Elisa non c’era, Sebastiani parlava di lei come della sua fidanzata. «Lo diceva in giro ma pochi gli credevano perché si sapeva che non lo era», fa una smorfia Farina. Per Elisa, dunque, si trattava di una bella frequentazione, cementata da interessi comuni: per la campagna, per la natura e pure per i motori. «Facevamo il restauro di moto vecchie, le vespe, per poi rivenderle - ha precisato lui - e poi piccoli lavori nei campi e nei boschi... Ci vedevamo il martedì, il giovedì e nel fine settimana. Dopo le primissime volte, in casa mia non è però più entrata.... Voglio precisare che Elisa non mi chiamava praticamente mai, ero sempre io a prendere l’iniziativa». Con il passare del tempo lei era diventata il suo pensiero fisso, un’ossessione non del tutto confessabile, non a lei almeno. La situazione è esplosa domenica 25 agosto. «Nel tragitto in auto dal ristorante a casa mia mi ha parlato di una proposta che le era stata fatta la sera prima a una festa, a Sarmato: doveva custodire una busta in cambio di una somma di denaro. Sul momento non ho detto nulla, ci siamo diretti verso il pollaio... dove mi ha detto che avremmo ricavato molti soldi nascondendo quella busta e che forse non c’era più bisogno di vederci così spesso... Adesso che aveva trovato il modo di guadagnare non le servivo più». La luce si sarebbe spenta in quel momento. «C’ero alla festa di Sarmato», sospira Dayana «Eravamo a casa di un nostro amico. Ci siamo mangiati una pizza e ci siamo fatti delle belle risate.. Elisa l’ho accompagnata io a casa quella sera. Non c’erano buste e non è vero che lei lo frequentava per i soldi. E a chi ha parlato di quella busta pensando alla droga, rispondo che Elisa era lontanissima da quel mondo. Lavorava con suo padre e le bastava quello che guadagnava». Per Dayana la verità è un’altra. «Diciamo piuttosto che aveva iniziato a frequentare Silvia... So che voleva dirglielo e io credo che gliel’abbia detto quel giorno». Gli orari a questo punto sono importanti. Alle 14.31 una telecamera di videosorveglianza inquadra Sebastiani mentre esce dal pollaio portando in braccio Elisa. Per gli inquirenti l’aveva appena uccisa. Alle 14.34 parte una videochiamata whatsapp dal telefonino di Elisa. Il destinatario, che non risponde, è lei: Silvia, la ragazza che stava frequentando. «In macchina c’era il telefonino di Elisa» ha detto Sebastiani per spiegare cos’ha fatto subito dopo il delitto «L’ho guardato per vedere che ora fosse e se non sbaglio mi si è aperto un whatsapp che parlava di uova ed era rivolto alla sorella. Credo di aver aperto poi una chat con una certa Silvia, ma non ho fatto chiamate, non intenzionalmente». Comunque sia andata, Elisa non c’era più. E quel che è successo dopo è un racconto dell’orrore. Lui la porta in un bosco sulla vicina collina di Sariano, la nasconde, la veglia. «Ho anche dormito due notti tenendola per mano. L’unico mio pensiero era starle vicino». Dopo il delitto le ha inviato vari messaggi. «I listoni per la casetta li ho trovati Taty (la chiamava così, ndr), beh scusa se mi sono arrabbiato ma mettiti nei miei panni, dai fatti sentire». «Taty, va beh rispondi quando riesci». Per gli inquirenti è stato un misero tentativo di depistaggio. «Cercavo di contattarla ignorando quello che era successo», ha detto lui mettendola sulla follia. I primi giorni di fuga sono stati di vagabondaggio. Mangiava quel che trovava nei boschi e nei rari campi che attraversava, senza mai allontanarsi troppo da Elisa: «Bacche, pomodori, uva, mele, una volta avevo preso da terra una pagnotta secca che un gatto stava rosicchiando». A un certo punto, affamato e debole, era riuscito a trovare rifugio nella soffitta di una casa sulla collina di Sariano, quella di Silvio Perazzi, padre di una sua ex, persona che lui frequentava e che pare nulla sapesse della sua presenza. Perazzi, finito in carcere con il sospetto di averlo aiutato ma poi liberato, non abitava a Sariano. Ci andava di tanto in tanto a fare il pane. «Stremato, avevo deciso di avvicinarmi al suo giardino. Una notte ho dormito nel capanno degli attrezzi. Poi l’ho visto arrivare e mentre era nel cortile mi sono infilato in casa e sono andato nella soffitta che ho chiuso spostando un grande armadio... Durante il giorno uscivo saltando dalla finestra per andare a vedere Elisa». Nel frattempo le squadre di ricerca battevano la zona con l’aiuto dei cani molecolari. «Da Perazzi avevo trovato una radio, sentivo le notizie che riguardavano la mia scomparsa, l’intervista a un amico... la mia casa in disordine». Più volte ha avuto la tentazione di farla finita: «Nei giorni passati in quella soffitta ho pensato al suicidio ma non ho avuto il coraggio di farlo». Decise infine di consegnarsi ai carabinieri. Non prima però di chiudere l’ultimo terribile capitolo della storia. «Ho dormito con Elisa e poi l’ho seppellita». L’illusione era finita, l’orrore compiuto.
· Mostro del Circeo, Izzo parla dal carcere: «Non ho confessato tante cose».
Delitto del Circeo, la sorella di Rosaria: “Sul viso aveva una lacrima”. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci.
«Se quel criminale esce di nuovo di galera, giuro che faccio un casino…»
Scusi?
«Non è odio né voglia di vendetta. È incredulità. In quasi mezzo secolo, la violenza contro le donne in Italia invece di calare è aumentata. Può sembrare assurdo, ma è così. Io dico: come fate a non capirlo, maschi? È dal nostro utero che siete usciti. Siamo noi superiori, ci dovreste adorare. Noi facciamo i figli, noi li educhiamo».
E allora: che casino vuole fare, signora Lopez?
«Non accetterò che uno degli assassini di Rosaria, lo stesso che dopo di lei ne ha uccise altre due perché si diceva che era pentito, poverino, torni libero. Però me lo sento: accadrà. Angelo Izzo prima o poi uscirà e... E quel giorno io ci sarò. Con la sicurezza di interpretare i sentimenti di tutte le donne. Andrò in Parlamento, al Quirinale, in tutti i palazzi di giustizia, per gridare un concetto semplice: la certezza della pena. A furia di sconti, premi, benefici i criminali escono dal carcere e le donne continuano a essere ammazzate. Farò una diretta Facebook, chiamerò le tv, spero venga una marea di gente…»
Angelo Izzo oggi. In seguito ai nuovi omicidi del 2005 è tornato in carcere, con un’ulteriore condanna all’ergastolo. Il dolore, la memoria, la rabbia. E, nonostante tutto, la speranza. Eccola, Letizia Lopez. Una donna minuta e forte. Il destino le ha assegnato il ruolo di sorella maggiore di una ragazza sventurata, che voleva diventare famosa come attrice, tanto che fece anche i provini per «Romeo e Giulietta» avendo saputo che Zeffirelli cercava una fanciulla dal viso pulito, ma in prima pagina ci finì per tutt’altro: in quanto vittima di uno dei fatti più atroci che la cronaca nera ricordi. È il 30 settembre 1975. Il nuovo diritto di famiglia da poco ha sancito la parità tra coniugi e abolito l’istituto della dote. A giugno il Pci ha preso una valanga di voti. Italia democratica. Divorzio. Aborto. Femministe in piazza. Una Fiat 127 bianca sta rientrando a Roma dal litorale. Tre ventenni a bordo. Musica ad alto volume. Scherzano. Battute macabre. «Zitti, a bordo ci sono due morte». «Come dormono bene, queste». Una non dormiva, però. Passerà alla storia come il massacro del Circeo.
I nomi li sanno tutti. Rosaria Lopez, 19 anni, barista, ex collegiale, ultima di otto figli di un impiegato del Catasto emigrato a Roma da Palermo, in quel baule fu trovata morta. Donatella Colasanti, 17 anni, studentessa, si salvò: i suoi occhi scuri grondanti sgomento mentre si affaccia dal bagagliaio diventeranno lo specchio dell’Italia più truce. Proletarie. Amiche. Provenienti dalla Montagnola. I massacratori: Andrea Ghira, Gianni Guido, Angelo Izzo. Ragazzi della Roma cosiddetta bene. Pariolini. Cattivi. Le violentarono, le seviziarono, le sbeffeggiarono perché povere. A Rosaria l’affogarono nella vasca. A Donatella la trascinarono sul pavimento con una cinta al collo, e lei prima svenne, poi si finse morta. Letizia Lopez è tornata a vivere nella casa dell’epoca del fatto, a Roma. Letizia Lopez oggi ha 68 anni. Ha avuto una figlia e un grande amore, Ugo, morto in un incidente stradale. Ha fatto la commessa, l’impiegata, è stata a lungo disoccupata. All’epoca lei s’era già trasferita in Sicilia, dove ha sempre vissuto, ma qualche anno fa, rimasta sola, è rientrata a Roma. Ha vinto la nostalgia. Adesso vive nella stessa casa al pian terreno di via di Grotta Perfetta dove le cornici con le foto dei parenti morti riempiono un tavolino e dalla quale Rosaria uscì, nel pomeriggio, dopo essersi fatta bella, un filo di trucco e i capelli mossi tenuti con i fermagli, per incontrare dei ragazzi che sembravano tanto per bene... Donatella Colasanti, morta di tumore nel 2005. La foto risale al 1980, durante il processo ai tre assassini. La notizia. Signora, lei aveva 24 anni e…«Ero a Palermo, incinta di mia figlia. Ricordo tutto, minuto per minuto. Il 1° ottobre 1975, appena svegliata, mi sentivo agitatissima. Avevo percepito qualcosa. Al mio compagno che mi accompagnava al lavoro dissi di fermarsi alla prima cabina per chiamare a Roma, ma il telefono non funzionava. Poi provai altre volte: niente, squillava a vuoto. La sera andammo da un amico, Nino, al quale chiesi di fare un’interurbana. A casa non c’era nessuno, neanche mamma! Impossibile. Allora chiamai un’altra mia sorella ad Agrigento, che piangendo a dirotto mi disse: “Hanno ammazzato Rosaria!” Io non ci ho capito più niente, mi sono messa a urlare e sono svenuta». L’addio. «Ci precipitammo a Roma in aereo. Da quel momento la mia famiglia è esplosa: finita, bum! Ai funerali c’è stata la fine del mondo, una marea di gente, l’abbraccio di tutto il quartiere. Il nostro cognome era già diventato famoso in tutta Italia, la Lopez e la Colasanti, quelle del Circeo, e mi dava fastidio… Un marchio che mi sarei portata appresso sempre: essere nota per un fatto orripilante».
Rosaria nella bara. «Prima dei funerali ho voluto vederla. Era bellissima, tutta vestita di bianco. Il viso era sereno, con una lacrima, però… Qui, sotto l’occhio destro…» Letizia fa il gesto: si sfiora la gota destra con un dito. Ora ha gli occhi umidi anche lei. Il ricordo. «Rosaria era dolcissima, meravigliosa. Ma ingenua, tanto ingenua. E con un sogno grande, fare l’attrice di teatro. A me diceva sempre: “Non ti preoccupare, diventerò famosa, vi farò ricchi, ci sistemiamo tutti”. Famosa è diventata, ma all’inverso…». Andrea Ghira nel 1975I massacratori. «I 44 anni trascorsi sono stati amarezza, delusione… Innanzitutto per i due che avevano avuto l’ergastolo e li vedi fuori. Chi cerca di scappare, chi non si fa più trovare, come Ghira, chi chiede il permesso e se ne va in Inghilterra, Izzo, dove lo arrestano e poi lo rimettono fuori… La giustizia li ha favoriti. Questo è un delitto di classe, certo. Se a commetterlo fosse stato un semplice cittadino, stia certo che avrebbero buttato le chiavi…»
La violenza oggi. «Ma la delusione ancora più grande è stata vedere che nulla è cambiato. Ogni giorno penso a Rosaria e Donatella, che è sopravvissuta ma è rimasta segnata, distrutta, poverina. Apro il giornale e c’è quello di Palermo che uccide l’amante incinta, l’altro di Verona che violenta la figlia, i due di CasaPound condannati a una pena lieve per lo stupro a Viterbo. Uno schifo… Se uno entra in carcere con 20 anni e già sa che tra 8 uscirà lo Stato ha perso, tutti abbiamo perso».
30 settembre 1975, il ritrovamento del corpo di Rosaria Lopez nella Fiat 127 bianca intestata al padre di Gianni Guido. Le mamme. «Loro no, ma i genitori di Ghira, Guido e Izzo li incontrerei. Dovrebbero essere molto vecchi: sa per caso se sono ancora in vita? Soprattutto le madri. Io non cerco vendetta, ma confrontarsi è importante, è l’unico modo che abbiamo di migliorare la società… Dopo la certezza della pena, viene l’educazione, e quindi la famiglia. Parlerei con loro da donna a donna, chiederei come hanno potuto non accorgersene prima, quando i figli avevano già violentato, fatto rapine, e poi perché li hanno protetti, aiutati ad uscire… Coprire un reato tanto grave è come giustificare, non se ne rendono conto?» Letizia, Rosaria. Sorelle. La memoria che non evapora. Come quella lacrima, su un letto di morte.
Mostro del Circeo, Izzo parla dal carcere: «Non ho confessato tante cose». Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 da Corriere.it. Ha parecchie cose «di cui farsi perdonare», compresi quei deliri di onnipotenza che lo hanno reso tristemente famoso. Ma alla fine non rinnega praticamente nulla della sua vita. Rinchiuso nel carcere di Velletri, in provincia di Roma, il mostro del massacro del Circeo (in cui dopo una notte di violenze e sevizie di ogni tipo - compiute con Gianni Guido e Andrea Ghira - morì Maria Rosaria Lopez e si salvò fingendosi morta Donatella Colasanti), Angelo Izzo, ha accettato di parlare con l’Adnkronos. Pentito, conoscitore – a suo dire – dei segreti delle stragi che hanno segnato l’Italia (da piazza Fontana alla bomba alla stazione di Bologna), degli omicidi Pecorelli, dei ragazzi di sinistra Fausto e Iaio, addirittura di Piersanti Mattarella a Palermo. Non sempre alle sue dichiarazioni si sono trovati riscontri. A un certo punto, quando nel 2004 venne rimesso in libertà, ammazzò Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina Maiorano, 14enne, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, un ex affiliato alla Sacra Corona Unita per quello che passò alle cronache come il massacro di Ferrazzano, provincia di Campobasso. La sua ultima «ammissione» è stata quella dello stupro di Rossella Corazzin, la 17enne scomparsa 43 anni fa in Umbria, ma non certo perché voleva togliersi un peso: «Semplicemente volevo confessare alcuni dei fatti ai quali ho partecipato nell’ambito di una ricostruzione, chiamiamola storico-giudiziaria». E non è l’unico. Ci sono «parecchie cose - conferma Izzo - ma sinceramente sono stanco di avere a che fare con investigatori ai quali dovrei fornire io le prove, oltretutto in gran parte si tratta di episodi datati». Izzo non ha mai fatto la guerra a se stesso per i delitti commessi, così come non ha alcun pensiero per le sue vittime. «Non sento un bisogno di pace – dice -. Mi rendo conto che talvolta ho commesso cose crudeli, ma se pure provo dei rimorsi non mi sembra il caso di esibirli». Niente rimpianti, men che meno la necessità di chiedere perdono. «Trovo poco estetico questa specie di mercato che intercorre tra rei e parenti delle vittime - spiega Izzo -. Non appartiene al mio modo di essere e di fare». Chissà se, rinchiuso dentro una cella per gran arte della sua vita, ha mai ripensato alla sua esistenza, ai rimpianti, a eventuali gesti da cancellare. «Non so dire cosa rifarei o al contrario eviterei. Impossibile tornare indietro - risponde -. Certo oggi non vedo tante cose nello stesso modo in cui le vedevo, che so, a 20 anni. Se proprio ho un rimpianto è quello di aver “collaborato” con grandi magistrati come Vigna, Mancuso, Borsellino, Guido Salvini, Grasso, cioè, gente che come me ci credeva, poi invece ho incontrato uno Stato incapace di fare giustizia. Se penso ai vari Sergio Calore e Italo Ceci, assassinati recentemente senza manco ottenere giustizia, sono nauseato...». Sul delitto di Piersanti Mattarella, fratello del capo dello Stato, ha tirato in ballo ambienti dell’estrema destra. Ha fatto lo stesso anche con altre stragi. «Cercavo di far emergere una verità che consideravo importante – continua -. Ho parlato di centinaia di episodi riguardanti il terrorismo nero e la strategia della tensione. Mai ho avuto smentite o si sono trovati colpevoli diversi rispetto a quelli da me indicati».
Angelo Izzo è accusato di aver stuprato diverse donne. «Le violenze carnali che ho commesso facevano parte di un modo di vivere sbagliato dei miei anni verdi - dice quasi a giustificarsi - Avevano a che fare con l’idea che mi sentissi una specie di vichingo. Oggi penso siano atti sbagliati. Chi commette queste cose è un miserabile. Adoro le donne e penso siano meglio degli uomini».
· Delitto di Novi Ligure.
ANSA il 30 novembre 2019. Un delitto atroce, per la sua efferatezza, per la giovane età degli assassini, per la freddezza con cui cercarono di negare tutto. Sono passati 18 anni dal massacro di Novi Ligure, in provincia di Alessandria, quando "Erika e Omar", uccisero a coltellate la madre e il fratellino di lei. Da tempo i due sono usciti dal carcere e hanno cercato di farsi una nuova vita. E ora Erika De Nardo si è sposata. Lo ha rivelato al settimanale Oggi don Antoni Mazzi, fondatore della Comunità Exodus che ha ospitato la giovane. "Erika ha una nuova vita, si è sposata. Ha maturato la giusta consapevolezza sulla tragedia, quella che permette di continuare a vivere. Il padre è stato molto importante in questo processo", dice don Mazzi in una lunga intervista in cui affronta vari argomenti, alla vigilia dei suoi 90 anni. Erika De Nardo aveva 16 anni quando, il 21 febbraio 2001, a Novi Ligure, insieme all'allora fidanzatino Omar Favaro, anche lui sedicenne, uccise con 96 coltellate la madre Susi Cassini e il fratellino Gianluca, di undici anni. La donna venne ritrovata sul pavimento della cucina, il figlio nella vasca da bagno al piano superiore. Fu la stessa Erika a dare l'allarme, dicendo di essere riuscita a sfuggire a degli sconosciuti armati di coltello, entrati all'improvviso in casa, ma mentre si trova con Omar nella caserma dei carabinieri, venne filmata mentre mimava le coltellate e cercava di rassicurare il complice. I ragazzi vengono fermati e portati in carcere. In primo grado, nel dicembre 2001, il tribunale dei minori di Torino condanna Erika a 16 anni e Omar a 14 anni, sentenza confermata in Cassazione. Per effetto dell'indulto e dello sconto di pena per buona condotta, per entrambi il periodo di detenzione si riduce, fino al loro definitivo ritorno in liberta': per Omar da marzo del 2010, per Erika dal dicembre 2011. Lui, dopo essersi trasferito con i genitori da Asti ad Acqui Terme, ha provato a rifarsi una vita in Toscana con una compagna. Per lei, già prima del "fine pena", si erano aperte le porte della comunità Exodus di don Mazzi, dove è rimasta per alcuni mesi anche dopo. Nel periodo di detenzione Erika si è prima diplomata e poi laureata in filosofia con 110 e lode, mentre in comunità si è occupata di volontariato. In tutti questi anni il padre Francesco le è stato sempre vicino.
Erika De Nardo e la vita da sposata. «Ma qui nel suo paese non tutti l’hanno perdonata». Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra, inviata a Novi Ligure. Novi Ligure, la donna che aveva ucciso la madre e il fratellino con Omar Favaro da tempo si è trasferita. «Il suo papà è sempre stato straordinario». Persino la strada ha voltato pagina, nel quartiere del Lodolino di Novi Ligure. Oggi si chiama via Caduti di Nassiriya. La villetta ha le persiane chiuse, il giardino è ordinato. Il proprietario passa ogni giorno, dicono i vicini, per ritirare la posta e controllare che tutto sia in ordine. Ma la vita continua da un’altra parte. Per l’ingegner Francesco De Nardo, l’uomo al quale è stato tolto tutto meno che una ragione per vivere: essere il miglior padre possibile per Erika, la figlia che ha ucciso sua moglie e suo figlio una sera di diciotto anni fa. E continua anche per Erika, che adesso è una donna sposata. E lo scandalo è questo, tra chi nel paese non capisce l’abnegazione di quel padre che non si è mai sottratto al suo ruolo. «Gli altri non capiscono come abbia potuto perdonarla, io sì. Lui è un uomo straordinario», dice la proprietaria di una microscopica trattoria in centro, con il vincolo dell’anonimato. Per «gli altri», è stato uno scandalo ogni passo in avanti che allontanava Erika, centimetro per centimetro, dalle 97 coltellate inferte alla mamma e al fratellino il 21 febbraio del 2001 assieme al fidanzato di allora, Omar Favaro, ai tempi 17 anni, uno più di lei. «La mia migliore amica è mia sorella», scriveva Gianluca, undicenne, nei compiti in classe. E quindi eccoli a scandalizzarsi per le foto dell’assassina mentre giocava a pallavolo con gli occhiali da sole in permesso premio dal carcere di Brescia. Quanto stupore per le foto di lei con una carriola tra le mani nel «meraviglioso» maneggio della comunità Exodus di Lonato, sempre nel Bresciano. Che «choc» per lei che guidava l’auto della mamma, una Wolkswagen Polo grigia metallizzata. Dimenticando che il carcere serve a riabilitare i detenuti, non a seppellirli vivi (Erika ha scontato dieci dei sedici anni ai quali è stata condannata in via definitiva nel 2003 dalla Corte di Cassazione, oltre ai mesi di affidamento alla Fondazione Exodus di don Antonio Mazzi). Nel corto circuito di un padre che non aveva mai abbandonato la figlia assassina, «gli altri» non notavano che Erika De Nardo in prigione si era diplomata come perito geometra, e poi si era laureata con il massimo dei voti in Lettere e Filosofia, discutendo una tesi su Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici. Non volevano ascoltare don Mazzi, quando al settimanale Oggi diceva che «Erika si è sempre comportata nel modo migliore: lavora, rispetta le regole della comunità, accetta l’aiuto psicologico». Figuriamoci quando raccontava: «In futuro vorrebbe lavorare, sposarsi, avere figli. Ma non è ancora pronta per relazioni profonde. Ha momenti di serenità e di disagio, inquietudini, nervosismi. Sa di essere una bella ragazza. Ha una personalità forte. Ma no, non ha mai disubbidito». Forse per questo il sacerdote, che ha appena compiuto novant’anni, ha violato la cortina di riserbo intorno alla ragazza e con Maria Giuseppina Buonanno, che lo stava intervistando per Oggi, si è lasciato scappare: «Erika ha una nuova vita, si è sposata, ha maturato la giusta consapevolezza sulla tragedia, quella che permette di continuare a vivere. Il padre è stato molto importante in questo percorso». Felice che la donna, oggi trentacinquenne, si sia allontanata così tanto dal punto dell’indicibile. Ed è vero che se c’è riuscita è perché ha avuto accanto, sempre, un padre granitico nel ricoprire il ruolo di guida scelto con quella moglie che non c’è più. Non è mai crollato, davanti agli «altri». Non ha mai recriminato, a beneficio delle telecamere. Se avesse ceduto lui, Erika sarebbe stata perduta. Lei non lo sapeva. Ma lui sì.
Auguri! (E non ascoltare i cretini!) Caso Novi Ligure, Erika si sposa: un sì contro il giustizialismo. Angela Azzaro il 30 Novembre 2019 su Il Riformista. In una intervista al settimanale Oggi, Don Mazzi ha annunciato che Erika De Nardo si è sposata. Erika è la donna che quando aveva sedici anni, era il 2001, uccise insieme al fidanzato Omar la madre e il fratellino.
GLI HATERS – È stata condannata a sedici anni e nel 2001 è stata accolta nella comunità di Don Mazzi. La notizia del suo matrimonio, invece di suscitare compassione, ha istigato gli odiatori social che sui vari siti e su Facebook hanno iniziato a inveire contro di lei. Si va dai commenti più duri – «non dovevi nascere» – a quelli che ritengono che l’unica pena possibile sia quella del “fine pena mai”.
LA FORZA DEL PADRE – C’è anche chi fa ironia su ciò che potrebbe accadere al neomarito. Qualcuno, ma solo qualcuno, prova nei commenti a spendere una parola di pietà e di speranza, a ricordare che in Italia la pena è rieducativa. Erika, nel 2001, era piccola ed era un’altra persona. Oggi è una donna diversa, che non ha dimenticato ma che può pensare al futuro. E lo può fare anche grazie al padre che invece di abbandonarla, la ha perdonata e gli è stato accanto. Sì, a volte per interrompere la catena dell’odio serve un gesto, qualcuno che vada in una direzione diversa. Questo gesto lo ha compiuto il padre e oggi Erika, anche se molto probabilmente deve ancora fare i conti interiormente con il suo gesto, può provare a rifarsi una vita.
CARCERE RIEDUCATIVO – È o non è una bella notizia? Una volta tanto il carcere non diventa un luogo dove chiudere la cella e buttare la chiave, ma una possibilità per andare avanti: per scontare la pena e reinserirsi nella società. Eppure per molti questa è una notizia pessima perché contrasta con l’idea che chi sbaglia, che chi commette un reato debba pagare per sempre, debba essere marchiato per tutta la vita.
Per Erika non sarà facile. Avrà tanti occhi puntati su di lei e una società che sta diventando sempre più crudele, vendicativa, sempre meno disposta ad ascoltare il dettato costituzionale. Ma Erika ha pagato, è fuori, si sposa. Ha la possibilità di vivere una nuova vita. Non possiamo che sperare che ci riesca, che vinca lei e non chi dalla tastiera del proprio computer pensa di potere giudicare e condannare. Lo speriamo per Erika, per il padre, per tutti quelli che hanno sofferto. Ma lo speriamo anche per noi. Erika ha detto sì al suo sposo, ma ha detto sì anche alla vita. Per noi è un sì contro il giustizialismo, contro chi ha rinunciato alla pietà. Auguri, Erika.
· I delitti del Dams.
Bologna, la prof colpita con 47 coltellate e gli altri delitti del Dams. Nel 1983 il corpo di Francesca Alinovi, assistente al Dipartimento di arte, musica e spettacolo, viene trovato trafitto. Un suo allievo verrà condannato. Ma non è finita. Perché altri due omicidi creano la psicosi del mostro. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2019.
Francesco Ciancabilla, 24 anni giovane pittore di Pescara, fu condannato per l’omicidio di Francesca Alinovi, critica d’arte. Nata nel 1948, fu trovata morta, colpita da 47 coltellate, il 15 giugno 1983 nella sua casa di Bologna. Bologna, 15 giugno 1983. L’estate non è ancora cominciata eppure alle 7 di sera fa caldo come fosse mezzogiorno. L’aria è pesante dopo un’intera giornata di sole e il calore risale dai sanpietrini arroventati e ristagna sotto i portici. Un’auto dei vigili del fuoco arriva in via del Riccio, alle spalle di piazza Maggiore, poco più di un vicolo che taglia il cuore della città. Gli uomini portano a spalla una scala fino al civico 7 per raggiungere una finestra spalancata al secondo piano. Un uomo sale e si sporge all’interno della stanza, poi si gira verso i colleghi e grida: «Chiamate il 113!». Nel salotto ingombro di libri, quadri e dischi in vinile c’è il cadavere di una donna. Indossa pantaloni, una maglietta a righe, scarpe rosse e un giubbetto di pelle, anche se fa caldo. Il corpo è disteso a terra e ha la testa coperta da due grandi cuscini. È Francesca Alinovi, bella e stravagante critica d’arte e assistente di Renato Barilli al Dams di Bologna. Il suo corpo è stato trafitto da 47 coltellate, tutte poco profonde. Tranne una: quella che l’ha uccisa recidendole la giugulare.
La porta chiusa e quella scritta sulla finestra. Francesca è morta lentamente. L’autopsia dirà di soffocamento emorragico, affogata cioè nel suo stesso sangue. A chiamare i vigili è stato un suo amico, preoccupato perché la donna non rispondeva al telefono. Quando il capo della Mobile di Bologna arriva sul posto, appare chiaro che il delitto ha qualcosa di strano. Non ci sono segni di lotta, la porta è chiusa, anche se solo con lo scatto della serratura, e nonostante le finestre aperte nessuno dei vicini ha sentito gridare. Su una finestra del bagno, poi, una scritta inquietante in un inglese sgrammaticato: «Your not alone... any way» (Comunque non sarai mai sola). Le indagini si concentrano sull’ambiente dell’Alinovi, sul Dams, il corso di arte musica e spettacolo. Gli amici della donna si precipitano in Questura e fanno il nome di Francesco Ciancabilla, pittore 24enne e allievo di Francesca. Lei lo ha lanciato come artista e ne è innamorata, senza esserne ricambiata. Come annota nel suo diario, il ragazzo forse è omosessuale. A complicare le cose c’è la droga.
Le liti, le minacce di suicidio. I due litigano spesso, ma il rapporto dura da due anni, tra eccessi e minacce di suicidio. Una spirale morbosa che si interrompe solo con la morte di Francesca, dando il via a una vicenda giudiziaria dove gli orari sono fondamentali e uno scarto di minuti decide tra colpevolezza e innocenza. È una storia fatta di piccoli dettagli, quella della morte di Francesca, di elementi in apparenza insignificanti che, tuttavia, se messi insieme tratteggiano il volto di un colpevole. Il processo inizia nel gennaio del 1985, Ciancabilla ammette di essere stato con Francesca dalle 15 alle 19 circa, e quando l’ha lasciata era viva. L’ora della morte viene collocata in una finestra temporale compatibile con quelle quattro ore, ma il corpo è rimasto per giorni sotto il sole che entrava dalla finestra, accelerandone la decomposizione. In aula la battaglia tra i legali è a suon di perizie tecniche: il Rolex che Francesca aveva al polso è a caricamento automatico. Conoscendo la durata della carica si può risalire al momento in cui Francesca è stata uccisa, all’ultima volta che ha mosso il polso. La polizia, però, non ha fatto la cosa più semplice: girare le lancette fino allo scatto del datario per stabilire se l’ora sul quadrante è quella del mattino o della sera.
L’assoluzione tra i fischi del pubblico. I pareri sono discordi. E il 31 gennaio Ciancabilla viene assolto per assenza di prove. Il pubblico fischia la sentenza. Poi, a sorpresa, un anno dopo, la Corte d’Appello ribalta il giudizio sulla base di un castello accusatorio indiziario, confermato poi dalla Cassazione. Ciancabilla si dà alla fuga e per 10 anni vive a Madrid sotto falso nome. La sua latitanza finisce nel 1997. «Sono innocente» dice ai poliziotti che gli mettono le manette. Eppure, qualcosa non torna. Perché la morte di Francesca è misteriosa come la Bologna di allora, in equilibrio sui suoi contrasti: l’amministrazione comunista e la Madonna di San Luca, l’Alma Mater e lo spaccio in Piazza Verdi, i tortellini e i Bambini di Satana. La morte di Francesca non è l’unica in quei mesi a rendere spaventose le ombre sotto i portici.
Il ritrovamento del corpo di Angelo Fabbri, anche lui studente del Dams, allievo preferito di Umberto Eco: fu ucciso sei mesi prima di Francesca Alinovi. I sospetti sul killer degli intellettuali. Nel 1983 il Dams ha solo 12 anni, è il corso più moderno dell’ateneo più antico del mondo, ma fa già parlare di sé e non solo per gli studi: è in quell’anno che i giornali scrivono dell’assassino del Dams, il killer degli intellettuali. Sei mesi prima della morte di Alinovi scompare da via Mirasole Angelo Fabbri, uno degli studenti preferiti di Umberto Eco. L’ultima persona a sentirlo al telefono, nella sera del 31 dicembre 1982, è il suo migliore amico. I due parlano della festa di Capodanno che passeranno vicino a Roma. Poi, il nulla fino a quando due cercatori di tartufi ritrovano il cadavere di un ragazzo sulle colline di Bologna. È Angelo, anche lui come Francesca ucciso a coltellate. La vittima è stata trasportata lì nella speranza che il cadavere venga trovato il più tardi possibile. Ha ricevuto 12 coltellate: sei delle quali mortali, ma la profondità delle ferite dice che le mani sono diverse e la stazza di Angelo esclude sia stata una sola persona a trasportarne il corpo. Anche per Francesca c’è chi sospetta che l’omicida non fosse solo. Ma la Procura ha Ciancabilla e questo basta.
Secondo Eco fu «una vendetta organizzata». Sono passati quasi 37 anni da allora e l’omicidio di Angelo è ancora un cold case. Chi poteva volere la sua morte? Umberto Eco, al termine dei funerali, parlando coi giornalisti cerca di fugare alcuni dubbi, escludendo il movente politico, la droga, il delitto gay. Per Eco è una «vendetta organizzata». Ma da chi? Angelo era venuto in contatto con un brutto giro? Difficile dirlo a distanza di tanto tempo. Com’è difficile ormai fare luce sull’omicidio di Leonarda Polvani, laureanda al Dams e fresca di nozze. La sera del 29 novembre 1983 Leonarda sta parcheggiando l’auto a Casalecchio di Reno. Il marito la vede dalla finestra ma nei 5 metri che la separano dal portone del palazzo Leonarda scompare. Quattro giorni dopo dei guardiacaccia si imbattono nel suo corpo in una cava di gesso sul colle della Croara, zona di caverne dove si dice si celebrino messe nere. Una stringa le lega il collo, ma a ucciderla è stato un colpo di pistola. Nessun segno di stupro, nulla fa pensare a un’aggressione sessuale. Anni dopo, le tecniche del Dna riapriranno il caso: inutilmente. L’assassino di Leonarda è ancora senza nome. Come quello di Angelo, come forse quello di Francesca, stando a quanto sostiene ancora oggi Ciancabilla, che nel 2005 è uscito di prigione dopo aver pagato il suo conto con la giustizia. Non ha perdonato i giudici, dice, per quello che gli hanno fatto e «perché l’assassino di Francesca è ancora là fuori».
· Il Caso Emanuele Scieri.
Caso Scieri, per la procura militare non fu nonnismo. Il parà fu punito perché trovato al telefonino. L'Arno-Il Giornale il 5 dicembre 2019. Dopo vent’anni dalla morte, ancora senza colpevole, si torna a parlare di Emanuele Scieri, il militare di leva siracusano trovato senza vita il 16 agosto 1999, alla caserma Gamerra di Pisa, ai piedi di una torre per l’asciugamento dei paracaduti. Secondo la procura generale militare di Roma non si sarebbe trattato di un atto di nonnismo bensì di una “punizione” da parte dei caporali, che dopo averlo sorpreso al telefonino lo avrebbero “sanzionato”. La ricostruzione, come scrive La Nazione, è stata appresa dall’avvocato Andrea Di Giuliomaria, che difende Luigi Zabara, 40enne di Frosinone, raggiunto da un decreto di perquisizione che riporta il capo d’imputazione per cui la procura militare procede. Zabara, come ricordiamo, è indagato con Alessandro Panella, di Cerveteri, e Andrea Antico di Rimini, entrambi 40enni. Ma torniamo ai fatti, secondo la ricostruzione della procura militare. Scieri, con i suoi commilitoni, è appena arrivato a Pisa dal Car (Centro addestramento reclute) di Firenze. Dopo un giro in città è rientrato in caserma. I tre lo vedono al telefonino e decidono di punirlo, sottoponendolo ad una prova di forza fisica, chiamata “Esercizio 9“. In pratica ci si deve arrampicare su una scala con la sola forza delle braccia. Scieri si sottopone ma, per qualche ragione (mancata forza/allenamento o inesperienza) cade giù. I tre se ne vanno anziché soccorrerlo. Ed è proprio in questo dettaglio, il mancato soccorso, che c’è l’ipotesi di reato dell’omicidio, come sostenuto dalla procura di Pisa, che aveva ipotizzato anche la volontarietà. “Sul piano dell’ipotesi che Scieri sia stato trovato al cellulare – spiega l’avvocato Di Giuliomaria – non è mai emerso alcunché dagli atti che abbiamo potuto vedere. E ancora meno su questo Esercizio 9. Non trovo alcun elemento, quindi, a conforto delle due nuove circostanze indicate dalla procura militare. Tuttavia, per noi, che proceda la procura militare o quella ordinaria, è indifferente, come indifferente ai fatti resta la posizione del nostro assistito”.
· La morte di Denis Bergamini.
La sorella di Bergamini: «La verità prima che i nostri genitori muoiano. Non trasferite il pm». Pubblicato sabato, 07 dicembre 2019 su Corriere.it da Clarida Salvatori. La manifestazione davanti al tribunale di Cosenza contro il trasferimento del procuratore Facciolla che ha riaperto il caso. Trent’anni senza la verità. E ora che ci si stava avvicinando, a piccoli passi, l’inchiesta sulla morte di Denis Bergamini - calciatore del Cosenza morto a 27 anni in circostanze ancora tutte da chiarire sulla Statale 106 il 18 novembre del 1989 – rischia una nuova battuta d’arresto. Ecco perché la sorella del giocatore, Donata, sarà in prima fila durante la manifestazione organizzata oggi, sabato 7 dicembre, a Cosenza e lancia il suo grido di allarme: «Non lasciateci di nuovo soli. Abbiamo diritto a sapere che cosa è successo a Denis». La mobilitazione, alle 15 davanti al tribunale, è stata decisa per protestare contro il trasferimento a Potenza del procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, che aveva riaperto le indagini: trasferimento deciso dal Csm. Il magistrato è accusato infatti di corruzione e falso. In particolare gli viene contestato l’uso illecito di una scheda telefonica e falso su presunte irregolarità nell’affidamento alla Stm, società che si occupa di intercettazioni, del noleggio di apparecchiature. L’orologio, la collana e le scarpe che indossava Denis Bergamini: sono intattiNell’immediato la morte di Bergamini venne «bollata» come suicidio e l’unico imputato per omicidio colposo, il camionista che investì il corpo del centrocampista, venne assolto. Anche una seconda inchiesta, del 2011, si concluse con un’archiviazione, nonostante una consulenza del tribunale che parlava di omicidio: morto per soffocamento con un sacchetto di plastica in testa. Anche il fatto che l’orologio funzionasse ancora, i vestiti, le scarpe e la collana fossero intatti erano incompatibili con un trascinamento di 60 metri sull’asfalto. Poi due anni fa, si aprì uno spiraglio. Su istanza dell’avvocato Fabio Anselmo (lo stesso che difende la famiglia di Stefano Cucchi), la procura di Castrovillari dispose la riesumazione del cadavere di Denis e una nuova autopsia. I risultati furono inequivocabili e in linea con gli esami di qualche anno prima: Denis non si suicidò, ma venne ucciso. Soffocato. Solo dopo venne adagiato sulla strada e quindi investito, quando era ormai senza vita, dal mezzo pesante. Eppure il procuratore capo che ha permesso di avvicinarsi alla verità su quella morte avvolta nel mistero, Eugenio Facciolla, adesso viene trasferito. Ragione per cui oggi, sabato 7 dicembre, alle 15 davanti al tribunale di Cosenza si terrà una manifestazione e una raccolta firme per bloccare il provvedimento. Nata e cresciuta con il passaparola in rete. E a cui parteciperà anche la sorella di Denis, Donata, che da anni lotta per sapere chi ha tolto la vita a suo fratello. «Saremo tante lucciole della giustizia - racconta - a chiedere che Facciolla possa finire quello che ha iniziato. Mai nessuno ha fatto quello che ha fatto lui in appena due anni. Un lavoro capillare. Ha ascoltato centinaia di persone. Riletto faldoni accumulati in trenta anni. Ricostruito documenti cancellati. Ora arriva questo trasferimento. Improvviso. E immediato. Noi familiari non possiamo non pensare che sia legato alla vicenda di Denis».
La vostra speranza è che Facciolla finisca quello che ha iniziato?
«Visto che i primi veri risultati sono arrivati con lui, sì. I miei genitori, che hanno 80 anni, non godono di ottima salute e sono provati per tutto quello che hanno dovuto sopportare nella vita, con lui avevano ritrovato la speranza. Adesso gli è arrivata questa ennesima fucilata. Pregano ogni giorno perché i colpevoli paghino».
In questi trent’anni vi siete fatti un’idea di chi siano i colpevoli?
«Di chi siano no. Ma di chi ha mentito, in tutti questo tempo, sì. E a mentire sono stati i due testimoni oculari: Raffaele Pisano, il camionista, e Isabella Internò, ex fidanzata di Denis».
Che poi sono gli indagati di oggi?
«Due dei tre, esatto. A loro si è aggiunto Luciano Conte, poliziotto e marito della Internò, che lei stessa all’epoca dei fatti indicò come amico e confidente. Oggi è indagato per favoreggiamento».
Come sono stati questi tre decenni alla ricerca della verità?
«I primi anni se a Cosenza entravamo in un bar, si svuotava in un attimo. Neanche fossimo noi gli assassini. Eravamo soli. Poi però la gente ha cominciato a starci vicino. E nel 2009 un ragazzo, incuriosito dal caso Bergamini, ha aperto un gruppo Facebook. E lì ho capito che non eravamo affatto soli. Erano tantissimi gli iscritti, anche ragazzi calabresi».
Neanche il mondo del calcio ha mai dimenticato Denis...
«Mai. C’è una scuola calcio che porta il suo nome. La curva sud dello stadio di Cosenza è intitolata a Denis. I miei figli, che sono sui social, tengono viva la sua memoria. E mi spingono ad andare fino in fondo: perché loro zio abbia finalmente giustizia».
· Simonetta Cesaroni. Il Delitto di Via Poma.
LA VERA STORIA DEL DELITTO DI VIA POMA. Da It.notizie.yahoo.com. l'8 agosto 2019. Il delitto di via Carlo Poma è uno dei casi irrisolti in Italia che, a distanza di circa trent’anni, ancora sembra lontano dal trovare una conclusione che possa rendere giustizia alla famiglia Cesaroni.
Delitto di via Poma: chi era la vittima? Il delitto accadde il 7 agosto 1990 e la vittima fu Simonetta Cesaroni, una ragazza di 21 anni che lavorava presso uno studio commerciale di Roma che vantava, tra i suoi clienti, anche A.I.A.G. Simonetta, di carattere molto riservato e rispettoso, aveva diversi compiti presso lo studio commerciale per il quale prestava servizio: doveva contattare i clienti, recarsi presso le varie sedi degli stessi a consegnare documenti e diverse altre mansioni che contraddistinguevano la sua professione. Il giorno del 7 agosto 1990, qualche giorno prima delle sue ferie estive, Simonetta dovete recarsi presso la sede dell’A.I.A.G. in Via Poma, dalla quale non uscirà viva. Saranno i famigliari, che alle 21.30 non vedendola rincasare iniziano a preoccuparsi, ad andare alla ricerca della figlia, che verrà ritrovata priva di vita nell’ufficio parallelo nel quale lei doveva prestare servizio.
Delitto di via Poma: la storia. Secondo gli inquirenti Simonetta Cesaroni, oltre ricevere diverse telefonate anonime minatorie e completamente mute qualche giorno prima dell’omicidio, inizialmente non avrebbe opposto alcuna resistenza al suo aggressore. Questo dato, confermato dal fatto che non furono trovati segni di scasso nella porta dell’ufficio, fa presagire che la ragazza conoscesse colui che diverrà il suo assassino il quale una volta mostrate le sue intenzioni, pare abbia fatto in modo che Simonetta tentasse di reagire e fuggire. La ragazza ricevette 29 coltellate, di cui circa sei sul volto, dopo essere stata tramortita con un colpo alla testa: l’arma del delitto, che non venne mai ritrovata, si presume fosse un taglia carte affilato, utilizzato come sorta di pugnale. Scomparvero anche le chiavi dell’ufficio dove la ragazza lavorava, la sua biancheria intima e diversi oggetti personali della vittima, come se l’assassino volesse far credere che si fosse trattata di una rapina terminata nel peggiore dei modi.
I sospettati dell’omicidio. Pietrino Vanacore fu il primo a essere indagato per l’omicidio di Simonetta Cesaroni: secondo i suoi colleghi, l’uomo continuava a provarci con la ragazza che lo avrebbe respinto diverse volte. Approfittando del periodo estivo e dell’orario nella quale Simonetta si recò presso lo stabilimento di Via Poma, Vanacore avrebbe seguito la ragazza per poi provare a stuprarla: gli inquirenti ipotizzarono che il portiere, in preda alla frustrazione per non essere riuscito ad eccitarsi sessualmente, abbia sfogato la sua rabbia nei confronti della vittima, uccidendola, per poi aver tentato di ripulire l’ufficio venendo interrotto da qualcosa/qualcuno, che lo avrebbe costretto ad abbandonare la scena del crimine. Questa teoria decadde visto che non furono trovate prove tangibili per accusare il portiere dello stabilimento romano. Il secondo sospettato fu Raniero Busco, che all’epoca aveva una relazione molto difficile con Simonetta: il movente sarebbe stata la grande gelosia che il ragazzo avrebbe palesato frequentemente con scenate e minacce nei confronti della ragazza. Raniero venne accusato nel 2005 e grazie ai vari test del DNA, ripetuti diverse volte, le tracce di saliva trovati sugli indumenti della vittima corrispondono proprio al suo corredo genetico ma, nel 2012, il maggior indiziato venne scagionato in quanto le prove non vennero reputate sufficienti per incriminarlo. Ancora oggi rimane il dubbio su chi possa essere stato il reale assassino e per quale motivo, quel 7 agosto 1990, decise di togliere la vita a Simonetta Cesaroni, colpevole solamente di essersi recata sul posto di lavoro abituale.
Felice Manti Edoardo Montolli per “il Giornale” il 25 agosto 2019. Roma, uffici dell' associazione alberghi della gioventù, 7 agosto 1990. È un sabato pomeriggio, indicativamente, si stabilirà, tra le 17,30 e le 18,30. Il palazzo di via Poma è a ferro di cavallo. Ci abita molta gente, ma forse l' estate ha svuotato la città. A lavorare c' è una ragazza di 21 anni, Simonetta Cesaroni. Di certo, c' è solo questo. Pare sia lì da sola. E sembra chiami al telefono una collega per chiedere la password dei pc. Poi qualcuno entra in ufficio e infierisce su di lei con 29 coltellate. Forse. Perché potrebbe anche trattarsi di un' arma da taglio. Intorno al corpo non c' è sangue, come se qualcuno avesse pulito tutto accuratamente. Anche se verrà pure ipotizzato che il corpo, non si sa come, possa aver fatto da «otre» e lo abbia assorbito interamente. L'autopsia del medico legale Ozrem Carella Prada rivela poco altro, se non che sul seno c' è un segno, forse un pizzicotto, magari un morso, chissà: «In realtà, potrebbe essersi trattato solo di un pizzico dato con le mani. Anche perché altrimenti si sarebbero potuti eseguire rilievi morfologici per identificare la dentatura di chi lo aveva lasciato». L'intervista finirà in un libro di Massimo Polidoro Cronaca Nera, Piemme, datato 2005). Sembra un dettaglio, ma non lo è. Di fatto, non c' è arma, né movente, né un testimone. Il giallo di via Poma inizia così, nel pieno di un' estate torrida. E per trovare l' assassino, la macchina della giustizia sta per triturare un' altra serie di innocenti. Il primo è il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore. Lo arrestano il 10 agosto. E resta in carcere 26 giorni. Lo scagiona il sangue: quello trovato sulla scena del crimine non è il suo. Finita? Macché. Tre anni più tardi lo indagano ancora, per favoreggiamento nei confronti di un ragazzino, Federico Valle, il cui padre, Raniero, lavora nello stabile. Il nonno addirittura ci vive. Valle entra in scena grazie ad un curioso commerciante di auto austriaco. Si chiama Roland Voller e racconta agli inquirenti di aver conosciuto la madre del ragazzino al telefono. E questa gli avrebbe riferito che Federico, il giorno del delitto, è tornato a casa con il braccio ferito. Possibile credere ad una storia simile? Sì. Per la Procura Valle è l' assassino. E a tirarlo fuori dai guai è solo il Dna: il 18 giugno 1994 la Corte d' Appello decide il «non luogo a procedere» per lui e per il portiere. Voller verrà invece trovato in possesso di documenti riservati sul delitto dell' Olgiata, di un telefonino intestato al ministero dell' Interno che diranno clonato e di una misteriosa lettera di raccomandazione della Questura. Poi sparirà. Sul caso si alza e abbassa il sipario a fasi alterne. Le voci si rincorrono: si dice che Simonetta usasse il Videotel, chat antesignana di internet. Ha conosciuto così il suo boia? La Procura smentisce, il Videotel non c' entra niente. Eppure c' è un tabaccaio e scrittore di Gaeta, Antonio Ciano, che fa un racconto dettagliato della chat che avrebbe avuto il 7 agosto proprio con una ragazza che si era presentata come Simonetta di Roma, nickname Veronica, e che gli scrisse dall' ufficio fino alle 16,30 fino a quando non era entrato qualcuno. Ancora nel 2005 racconterà a chi scrive, che la sera si era riconnesso alla chat: «Lei non c' era. Ma notai un nick mai visto, dead is here: il morto è qui... lo contattai per convincerlo a cambiare il nome, che mi sembrava macabro. Mi rispose che aveva appena ucciso la sua fidanzata con una trentina di coltellate e che voleva morire. Lo presi per un pazzo...». C'è comunque un appunto, trovato su un block notes sulla scena del crimine che fa impazzire gli inquirenti: «Ce dead». Le piste imboccate portano nel vuoto. Nel frattempo i sospetti si allargano, in silenzio. Passano diciotto anni. E il 20 ottobre 2008 le forze dell' ordine fanno perquisire la casa di Monacizzo, Taranto, del solito portiere Pietrino Vanacore. Cercano un' agendina, non trovano niente di rilevante. E arriva la nuova richiesta di archiviazione del 26 maggio 2009. Quindi, tocca alle tecnologie dei Ris: annunciano di aver trovato nuove macchie di sangue. Di più. Dopo una fase di silenzio, vien fuori che c' è un Dna sul reggiseno di Simonetta. È possibile che appartenga all' assassino? Per il confronto genetico vengono chiamati tutti e 31 gli uomini che, in un modo o nell' altro, erano stati sentiti negli anni dagli inquirenti in merito al caso. Purtroppo qualcosa sfugge e la lista dei 31 appare in tv durante la trasmissione Matrix. Nel corso della stessa vien detto che il Dna sul reggiseno appartiene all' ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, ormai sposato e con figli. Viene indagato. E, nel contempo, all' improvviso, cambia un po' tutta la scena del crimine, variando tutte le certezze acquisite negli anni: l' orario della morte anticipato, qualche ricordo mutato. Soprattutto, il segno sul seno di Simonetta che Carella Prada aveva detto anni prima trattarsi verosimilmente solo di un «pizzico» («anche perché altrimenti si sarebbero potuti eseguire rilievi morfologici per identificare la dentatura di chi lo aveva lasciato») diventa un morso certo, che addirittura corrisponde alla dentatura di Busco. Un fatto due volte sorprendente, non solo perché la dentatura delle persone cambia nel tempo (figuriamoci in due decenni), ma soprattutto perché si tratta di esami ricavati dalle fotografie del cadavere e non dall' esame del cadavere. E le foto, si sa, possono ingannare. Sono passati ormai quasi vent' anni dal delitto. E Vanacore viene chiamato a testimoniare al processo. Ancora lui. E stavolta non regge: il 9 marzo 2010, tre giorni prima dell' udienza, guida la sua vecchia Citroen Ax fino alla piccola baia del litorale di Torre Ovo. Poi, presa una corda di trenta metri annodata a mano pezzo per pezzo, lega una cima ad un albero e l' altra alla caviglia. Quindi, entrato in mare, s' immerge a testa in giù, fino a morire. Nessun istinto alla vita lo fa desistere. Rimane lì fino alla fine e annega in 90 centimetri d' acqua. Lascia una serie di bigliettini. Il più noto recita: «Venti anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio». In primo grado Busco finisce condannato: 24 anni. Una superperizia in appello smonta però tutto: il sangue negli uffici dell' Aiag non è il suo, il Dna sul reggiseno appartiene a 3 uomini diversi e, com'era già ovvio da quella vecchia intervista al medico legale, non è un morso quello sul seno di Simonetta. Lo assolvono. Il caso di via Poma è ancora irrisolto.
· Busto Arsizio e la strana morte per peritonite.
Marco Gregoretti per Dagospia il 18 dicembre 2019. Sangue, sangue dappertutto. In soggiorno, in bagno, in cucina. Un vestito estivo da casa strappato con violenza, finito sotto una panca. Una donna anziana morta, seminuda, sul divano. Ma la Procura della Repubblica di Busto Arsizio ha chiesto di archiviare per morte naturale causata dalla peritonite! La scena che si presentò a Maurizio Fantoni, 60 anni, quando il 14 luglio 2019 entrò, la sera alle 23,30, nella villetta di Sesto Calende, dove viveva l’anziana madre, Maria Luisa Ruggerone 88 anni, ex primario all’ospedale milanese Niguarda, capo del famoso Centro veleni, fu terribile. Le luci del giardino e del salone erano spente… “Entrai con la vicina di casa di mia mamma, Elena Bonora, che mi aveva aperto perché aveva una copia delle chiavi. Mia madre era seduta sul divano del salotto senza vita. Era quasi nuda, senza gli slip. Indossava solo il reggiseno, con le spalline abbassate e la coppa di sinistra mal posizionata. Infatti le coprii il corpo con un tessuto che trovai lì , a fianco. L’addome di mia mamma era incredibilmente gonfio, i polsi e le mani erano di un intenso colore bluastro, mentre i piedi e le gambe non lo erano. C’erano a terra e sui tavolini adiacenti il divano circa una trentina di fazzoletti impregnati di sangue, la radio era accesa, una poltrona, sulla quale si era evidentemente seduta, era macchiata di sangue e spostata di circa un metro e mezzo dalla posizione abituale”. Fantoni è un imprenditore di buona famiglia, educato al pudore e alla riservatezza, anche se ora è triste e incazzato. “Non ho mai visto mia madre così scoperta” dice a Dagospia. “In casa indossava sempre una veste lunga fino al ginocchio”. Quando il figlio della sventurata donna è andato in bagno ha trovato questo spettacolo: “C’era sangue ovunque, a terra una chiazza enorme, abbondanti tracce ematiche pure sul coperchio, sull’asse e all’interno del WC, nel bidet, sul bordo della vasca e sull’anta dell’armadietto dal quale era stata prelevata una confezione di guanti di plastica, lasciata sulla vasca”. Fantoni, in una sorta di trance, mantenne freddezza e fotografò ogni dettaglio, compreso il cadavere della madre. Il suo racconto è assolutamente verosimile. Indossando guanti sterili e copri scarpe, sono entrato, infatti, anche io nella villetta: dopo cinque mesi non è stato toccato nulla. Ancora sangue, rappreso, dappertutto. Inoltre in un punto si vede bene come la recinzione del giardino sia stata schiacciata verso il basso, evidentemente da chi si è introdotto all’interno. “Immediatamente ho pensato a un’intrusione per rapina” racconta ancora Fantoni a Dagospia. “In effetti quando sono andato nella cameretta degli ospiti dove mia madre teneva alcuni effetti personali, la borsetta che conteneva il portafoglio con le carte di credito, i documenti, le chiavi dell’appartamento di Milano e quelle dell’auto parcheggiate nel garage al piano inferiore, era sparita. Non c’era più”. I Carabinieri, chiamati subito da Fantoni, erano nella villetta a mezzanotte. “Il maresciallo Di Raffaele era seduto sulla panca sotto la quale c’era il vestito strappato che indossava mia madre. Non se n’è neanche accorto. Più tardi sono stati fatti i rilievi scientifici, ma mi hanno invitato a uscire. Non è stato possibile neanche seguire l’autopsia”. Che, comunque, stabilì che Maria Luisa Ruggerone fosse morta per “peritonite stercoracea”, quindi per cause naturali, per una patologia che la stessa comunità scientifica non ritiene in grado di uccidere all’improvviso. Lo psichiatra e criminologo Alessandro Meluzzi, che si sta occupando di questa vicenda, avanza ipotesi molto più violente e invasive, arrivando a pensare che la vittima sia stata uccisa con un bastone. “D’altronde” spiega ancora il figlio della donna morta: “ne io ne mio padre, anche lui medico, siamo riusciti a capire se sia stata eseguita una ispezione rettale e vaginale accurata. Inoltre nessuno ha saputo spiegarci che cosa avesse provocato la fuoruscita di tutto quel sangue, almeno due litri”. Una scena horror, un vestito strappato, una recinzione manomessa, una borsetta e il contenuto spariti. Però il 26 settembre la procura della Repubblica di Busto Arsizio ha chiesto l’archiviazione. Il sette novembre i legali di Fantoni hanno presentato opposizione. Ma il giudice per le indagini preliminari non ha ancora risposto. Ma la a lunga e meticolosa perizia realizzata, per conto del figlio della vittima, dal medico legale Rita Celli, potrebbe finalmente convincere che si tratta di un delitto. Sono 52 pagine che smontano con millimetrica precisione le prime, forse frettolose, deduzioni medico-legali. La dottoressa Celli ha esaminato, goccia per goccia, anche il sangue, per determinare la dinamica dell’evento. “Ogni goccia rinvenuta sulla sena dei fatti, si legge a pagina 27, ha una storia da raccontare, rilevata attraverso un’attenta e accurata analisi del materiale repertato” E quindi? E quindi, scrive il medico legale a pag 50, “La causa della morte era chiara anche prima dell’autopsia e delle indagini effettuate dal dott Moretti e non può che essere ricondotta alle gravissime lesioni e al copioso sanguinamento con successivo shock emorragico e defaillance cardiaca e ipovolemia”. Gravissime lesioni, già. Celli invita a operare un esame Tac total body, “ancora eseguibile in corso di una eventuale seconda autopsia”. Perché, un fatto è certo, scrive ancora: “La lesività descritta nel corso degli accertamenti fin qui effettuati non si accorda con una morte da cause naturali”. Ha ragione Meluzzi a sostenere che una banda di balordi potrebbe essere entrata a casa della vittima per rubare e uccidere brutalmente, violentandola, una donna di 88 anni?
· Omicidio a Vercelli, il caso della donna nella valigia.
Omicidio a Vercelli, resta senza colpevole il caso della donna nella valigia. Redazione Il Riformista il 20 Dicembre 2019. Il cadavere di Franca Musso fu trovato in una valigia buttata nelle campagne di Vercelli. Aveva 54 anni quando scomparve di casa. Era il 4 novembre 2017, il suo cadavere fu ritrovato un anno dopo la sua scomparsa fatto a pezzi. Un omicidio terribile, di cui a due anni di distanza ancora non si è trovato un colpevole. La Procura di Vercelli si è arresa: “Non ci sono elementi concreti per proseguire con le indagini”. Con queste parole il caso è stato archiviato. Franca aveva 54 anni quando è scomparsa. Si era da poco trasferita a Tronzano, paese del Vercellese, dopo aver abitato a Fogliazzo nel torinese. Viveva sola con i suoi due cani in un cascinale, donna schiva che non dava mai confidenza a nessuno. Faceva dei lavoretti per vivere in modo modesto, nulla più. A un tratto scomparve nel nulla. A dare l’allarme sua sorella con la quale era molto legata. Franca era scomparsa senza lasciare nemmeno un biglietto di spiegazioni. “Non avevo più sue notizie da giorni e quando sono andata a cercarla la casa era vuota”, aveva detto la sorella affermando di aver presentato denuncia il 16 ottobre dell’anno precedente. “Questo silenzio non è da lei”, aveva confidato agli investigatori. Poi è passato un anno di nulla. A scoprire la valigia tra le sterpaglie, un cane di un gruppo di cacciatori lombardi, impegnati in una battuta tra i boschi. Era stato attratto dall’odore forte che emanava quel fardello. Difficile dare un nome a quei resti, ormai in avanzato stato di decomposizione. Non c’era un volto. Un’identità. Tanto che per riconoscere la donna e poterle dare un nome gli inquirenti hanno dovuto usare una protesi vertebrale individuata dall’autopsia, affidata al medico legale Cristina Cattaneo, lo stesso del caso di Yara Gambirasio. La valigia era probabilmente stata lanciata dal ponte dell’autostrada che passa sopra quel campo. La Procura le ha provate tutte. Sono stati passati al setaccio movimenti bancari e celle telefoniche agganciate dal suo cellulare, fatti esami sulla valigia, cercate impronte. Senza esito. L’ultima speranza era appesa ad alcuni peli ritrovati nella valigia. Una perizia affidata allo studio di biologia e genetica forense di Parma, che ha però certificato che i peli appartenevano a Franca Musso. Un buco nell’acqua. L’ennesimo. Così come l’indagato a cui gli inquirenti erano arrivati sfogliando il diario della donna. Era stata lei a raccontare di un litigio con quell’amico che frequentava assiduamente. Ma l’inchiesta non è decollata: il giallo della donna morta in valigia rischia di rimanere senza una fine.
Vercelli, il giallo della donna nella valigia: un omicidio senza colpevole. Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 su Corriere.it da Floriana Rullo. Il cadavere di Franca Musso, 54 anni, venne trovato due anni fra i prati di Alice Castello, forse lanciato da un vicino viadotto dell’autostrada. Inchiesta archiviata: nessuno pagherà. Resterà senza colpevole la morte di Franca Musso, la 54enne trovata senza vita in una valigia tra le campagne vercellesi. Era il 4 novembre del 2017. Ora, dopo due anni di indagini che hanno portato a un vicolo cieco, alla Procura di Vercelli non è rimasto che arrendersi: «Non ci sono elementi concreti per proseguire con le indagini». Così il caso è stato archiviato, come richiesto dal pm Francesco Alvino. Senza che nessuno si opponga. Nemmeno i familiari della vittima. Nonostante nel registro degli indagati ci sia anche il nome di un uomo accusato di omicidio e occultamento di cadavere. «Franca non avrà giustizia. Nessuno pagherà per la sua morte». Parole che a Tronzano, il paese nel Vercellese in cui si era trasferita a vivere da sola dopo aver abitato a Foglizzo, nel Torinese, per anni, tutti ripetono da tempo. Da quando il suo corpo, ormai senza vita, era stato abbandonato tra i prati di Alice Castello, piccolo paese in provincia di Vercelli. Lanciato dall’alto, probabilmente dal ponte dell’autostrada che passa sopra quel campo, almeno un anno prima. A scoprire la valigia tra le sterpaglie, un cane di un gruppo di cacciatori lombardi, impegnati in una battuta tra i boschi. Era stato attratto dall’odore forte che emanava quel fardello. Difficile dare un nome a quei resti, ormai in avanzato stato di decomposizione. Non c’era un volto. Un’identità. Tanto che per riconoscere la donna e poterle dare un nome gli inquirenti hanno dovuto usare una protesi vertebrale individuata dall’autopsia, affidata al medico legale Cristina Cattaneo, lo stesso del caso di Yara Gambirasio. Franca era sparita senza lasciare nemmeno un biglietto alla famiglia nel 2016. «Non avevo più sue notizie da giorni e quando sono andata a cercarla la casa era vuota», aveva detto la sorella affermando di aver presentato denuncia il 16 ottobre dell’anno precedente. «Questo silenzio non è da lei», aveva confidato agli investigatori. Quando i carabinieri avevano sfondato la porta del cascinale Caradola avevano trovato solo i due cani. Di Franca, donna schiva e riservata che non dava mai confidenza a nessuno e tentava di sbarcare il lunario come poteva, nessuna traccia. Un silenzio durato un anno e poi rotto da quel ritrovamento. Ma nonostante le indagini, le consulenze biologiche e scientifiche su quella morte non sono arrivate risposte e soprattutto non ci sono prove che possano individuare un colpevole . Anzi, non è stato possibile nemmeno stabilire se quello della 54enne sia stato un omicidio o una morte naturale. La Procura le ha provate tutte. Sono stati passati al setaccio movimenti bancari e celle telefoniche agganciate dal suo cellulare, fatti esami sulla valigia, cercate impronte. Senza esito. L’ultima speranza era appesa ad alcuni peli ritrovati nella valigia. Una perizia affidata allo studio di biologia e genetica forense di Paolo Garofano, figlio di Luciano, ex comandante dei Ris di Parma, che ha però certificato che i peli appartenevano a Franca Musso. Un buco nell’acqua. L’ennesimo. Così come l’indagato a cui gli inquirenti erano arrivati sfogliando il diario della donna. Era stata lei a raccontare di un litigio con quell’amico che frequentava assiduamente. Ma l’inchiesta non è decollata: il giallo della donna morta in valigia rischia di rimanere un cold case vercellese.
· Paolo Piccoli, il monsignore condannato per omicidio: Innocente?
Paolo Piccoli, il monsignore condannato per omicidio: «Non ho ucciso io don Giuseppe Rocco». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. «Sono innocente, non ho ucciso io don Giuseppe Rocco, contro di me hanno vinto i pregiudizi e le bugie. Vivo una grande sofferenza, come Giobbe sono stato messo alla prova». A parlare è monsignor Paolo Piccoli, ex parroco di Pizzoli e Rocca di Cambio e canonico della cattedrale all’Aquila (con un recente passato di cappellano della marina mercantile per le navi da crociera), condannato a 21 anni e 6 mesi più l’interdizione dai pubblici uffici per l’omicidio di Giuseppe Rocco, 92 anni, strangolato nella Casa del Clero di Trieste, un istituto di riposo per sacerdoti, la mattina del 25 aprile 2014. Monsignor Piccoli, 53 anni, di origini venete, è malato e per questo già in quiescenza. Figura fuori dalle righe, racconta che dopo il terremoto dell’Aquila ebbe anche una brutta depressione, che sfociò in un eccessivo consumo dell’alcol poi superato. «Niente che abbia mai influito sul mio comportamento», aggiunge lui. Vive a Verona ed è reduce da diversi interventi chirurgici. I fatti risalgono al periodo in cui entrambi i religiosi erano ospiti della casa di riposo. Don Paolo è stato condannato per aver ucciso l’anziano prete per rubargli una collanina (mai ritrovata) e alcuni altri oggetti di scarso valore materiale: una bomboniera a forma di veliero e una madonnina di legno. Contro la sentenza, comminata dalla Corte di Assise di Trieste, il legale del prelato, l’avvocato aquilano Vincenzo Calderoni, ha annunciato di voler proporre appello. «Non ci sono prove. Il sangue del mio assistito sul letto del morto è solo la conseguenza di una xerosi cutanea, lui infatti era lì a dargli l’estrema unzione. Inoltre, la ricostruzione basata sull’ipotesi dello strangolamento non è veritiera in quanto non ci sono infiltrazioni emorragiche sull’osso ioide. Manca, infine, nella maniera più assoluta, il movente», sostiene il legale. I fatti sarebbero avvenuti tra le cinque e le sette di mattina. Don Rocco fu trovato accanto al letto, privo di sensi. Provarono invano a rianimarlo. Pensavano a una morte naturale. Solo dopo, si scoprì la verità. «Lui non lo vedevo quasi mai, avevamo orari diversi – si difende Piccoli – e io quella mattina mi sono alzato alle sette e mezzo, ignaro di quello che era successo, perché avevo in programma una gita a Capodistria con altre persone. Mi riferirono della sua morte e così, in attesa del vicario del vescovo, andai ad impartirgli la benedizione. Sono state trovate delle macchioline del mio sangue sul suo corpo, è vero, ma sono collegate a una delle patologie di cui soffro. C’è una domanda fondamentale che nessuno si è mai posto. Perché mai avrei dovuto buttare 43 anni di vita religiosa, di cui 26 anni di sacerdozio e 23 di monsignorato, per una catenina e due bomboniere?». Don Piccoli continua a citare il libro di Giobbe, versetto 1.21, il quale viene messo alla prova e viene spogliato di tutte le sue cose: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del signore», ripete come se volesse arginare la condanna cadutagli addosso come un macigno. Testimone principale è la perpetua di don Rocco, la cui presenza nella Casa del clero, insieme ad altri elementi come il fatto che sia risultata beneficiaria di un testamento della vittima (firmato alcuni mesi prima), sono gli elementi della difesa per reagire alla condanna. La sentenza, intanto, non ha avuto conseguenze sulla libertà di monsignor Piccoli. Gli sono state risparmiate anche le sanzioni canoniche. «Manifestiamo profondo rispetto per il verdetto espresso dalla Corte d’Assise di Trieste, nella consapevolezza che, come sancito dal Codice civile e da quello canonico, fino alla sentenza definitiva spetta all’imputato la “presunzione di innocenza”», recita una nota dell’Ufficio Diocesano per le Comunicazioni Sociali dell’Aquila che auspica sia fatta giustizia.
· Un alibi per Alberto Stasi?
Un alibi per Stasi condannato per l'omicidio di Garlasco? Le Iene il 17 dicembre 2019. Chiara Poggi è stata uccisa il 13 agosto 2007 a Garlasco. Per l’omicidio è stato condannato l’ex fidanzato Alberto Stasi. Dopo 12 anni vi mostriamo in esclusiva a Le Iene un nuovo elemento che potrebbe scagionarlo. Alessandro De Giuseppe ci racconta tutto . Il 13 agosto 2007 Chiara Poggi, 26 anni è stata uccisa a Garlasco mentre si trovava nella villetta di famiglia. Il suo ex fidanzato, Alberto Stasi, è stato condannato in via definitiva per il suo omicidio. Per i giudici, la mattina di 12 anni fa Alberto va in bici alla casa di Chiara. Lei disinserisce l’antifurto alle ore 9.12, apre la porta e lo fa entrare. Dopo qualche minuto per uno scatto d’ira di cui non si sarebbe mai capito il movente, lui la prende a martellate con un oggetto contundente, mai ritrovato, fino a ucciderla. C’è però chi solleva molti dubbi sull’ultima sentenza. Ma oggi ci potrebbero essere nuovi elementi in grado di scagionare Stasi. “I giudici dicono che lui non ha un alibi”, sostiene il criminologo Alberto Miatello. Abbiamo ricostruito a 360° quello che una delle testimoni avrebbe visto all’esterno della villa dei Poggi negli istanti in cui Chiara è stata uccisa. Vi mostriamo qui sotto in esclusiva con Alessandro De Giuseppe questi nuovi clamorosi dettagli.
Garlasco, un alibi per Stasi condannato per l'omicidio di Chiara? Le Iene il 18 dicembre 2019. Dodici anni fa, il 13 agosto 2007 a Garlasco, è stata uccisa Chiara Poggi. Noi vi raccontiamo, e vi mostriamo con un video, un nuovo elemento che se confermato potrebbe dare un alibi ad Alberto Stasi, condannato in via definitiva per l’assassinio della ex fidanzata. Alessandro De Giuseppe ci mostra cosa avrebbe visto una testimone ritenuta attendibile nelle indagini Il 13 agosto 2007 Chiara Poggi è stata uccisa a Garlasco mentre si trovava nella villetta di famiglia. Il suo ex fidanzato, Alberto Stasi, è stato assolto nei primi due gradi di giudizio e poi condannato per il suo omicidio in via definitiva in Cassazione. Per i giudici quella mattina di 12 anni fa Alberto va in bici alla casa di Chiara. Lei disinserisce l’antifurto alle 9.12, apre la porta e lo fa entrare. Dopo qualche minuto per uno scatto d’ira di cui non si sarebbe mai capito il movente, lui la prende a martellate accanto alle scale con un oggetto contundente, mai ritrovato. A questo punto lui la trascina, Chiara si riprende e lui la colpisce nuovamente per poi buttarla dalle scale che portano in cantina, dove verrà ritrovato il corpo. Secondo la sentenza della Cassazione, Stasi ha girato diverse stanze della casa, per ultimo il bagno. Poi è tornato a casa in bicicletta, dove alle 9.35 ha acceso il computer. “Chiara Poggi dà l’ultimo segnale di vita alle 9.12 quando stacca l’antifurto di casa”, spiega il criminologo che fa parte del collegio difensivo di Stasi. “Invece lui dà il suo primo segnale alle 9.35 quando accende il computer. In questi 23 minuti stando ai giudici avrebbe potuto comodamente ucciderla e tornare a casa in bicicletta”. A questa ricostruzione potrebbe aggiungersi la testimonianza di Manuela Travain, lei insieme a un’altra donna sostiene di aver visto la bicicletta nera da donna appoggiata davanti a casa di Chiara. “La Travain passa davanti alla villetta Poggi verso le 9.30 e i giudici non la contestano come testimone”, sostiene Miatello. “Poi aggiunge di aver visto il cancelletto aperto e tutte le persiane chiuse. Ma quando arrivano i carabinieri le persiane della cucina sono aperte”. E allora chi le avrebbe aperte? “È pacifico sia stata Chiara Poggi, anche i giudici che condannano Stasi lo confermano. Se la Travain le vede chiuse alle 9.30, non può essere stato Stasi a uccidere Chiara in appena 5 minuti nei quali sarebbe tornato a casa in bicicletta per accendere il computer”. Questo elemento però non sarebbe stato considerato dai giudici. “Per loro la signora avrebbe visto le persiane del primo piano che erano chiuse e non poteva vedere quelle in basso”, sostiene Miatello. Abbiamo fatto un esperimento prendendo la stessa auto su cui viaggiava la Travain. Alla stessa velocità a cui andava lei (20 chilometri orari) siamo passati davanti a casa Poggi per capire che cosa effettivamente si vede. Per due secondi con un colpo d’occhio si può notare lo stato della porta finestra. E la Travain lo ha ribadito a quattro giorni dall’omicidio e un mese dopo. Anche a processo le è stato chiesto se fosse stata aperta e lei ha ribadito: “No, no tutto chiuso”. Potrebbe essersi trattato di un colpo d’occhio, ma la donna è sempre stata ritenuta attendibile. Quindi perché ritenere inattendibile solo questo elemento della sua testimonianza? A questo punto c’è da chiarire a che ora la testimone è passata effettivamente davanti a casa Poggi. “Non è mai stata fatta un’analisi per chiarire questo dettaglio”, sostiene Porta, ingegnere elettronico forense. Così gli abbiamo chiesto un parere tecnico basato sulle celle telefoniche agganciate dalla signora Travain quella mattina: “Determinare un istante quasi preciso è impossibile. Possiamo dire con ragionevole certezza che il passaggio davanti a casa Poggi è avvenuto tra le 09.27.41 e 09.28.40”. In questo minuto Chiara sarebbe stata ancora viva e Stasi avrebbe avuto meno di 8 minuti per uccidere la sua fidanzata e tornare a casa alle 9.35, quando ha acceso il computer. Per compiere l’omicidio Stasi avrebbe avuto bisogno infatti di almeno dieci minuti e di altri 7 per tornare a casa in bicicletta. Noi non possiamo sapere se quella porta finestra fosse effettivamente aperta nel momento del passaggio della Travain. Però sappiamo che dalla strada quelle persiane si potevano vedere e che lei l’ha sempre dichiarato tutte le volte che le è stato chiesto e tutti l’hanno considerata una testimone attendibile.
· Come è morto David Rossi.
Cos'è successo la notte in cui David Rossi, allora a capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, ha perso la vita precipitando dal terzo piano del suo ufficio. Costanza Tosi, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Sono passati quasi sette anni dalla sera del 6 marzo del 2013, quando David Rossi, allora a capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, venne trovato morto nella strada su cui affacciava il suo ufficio all'interno della sede di Mps. Le circostanze della sua morte non sono mai state chiarite, nonostante la giustizia italiana abbia archiviato la sua causa ben due volte, sancendo la pista del suicidio. Dopo le prime indagini, però, la famiglia di David ha posto moltissimi interrogativi che, ancora oggi, rimangono senza risposta.
Qualcuno "ha suicidato" David? Sono le 20.30 quando un importante manager della banca chiama il 118 per far arrivare un’ambulanza a Rocca Salimbeni, proprio nel centro di Siena. Nella telefonata si sente solo una spiegazione secca: "Si è appena buttata una persona dalla finestra". Quella sera David Rossi viene ritrovato steso a terra sotto il suo ufficio. Ma cosa è successo davvero? Nessuno lo sa. Proviamo però a ricostruire quei tragici momenti, ripartendo dalla cronaca di quei giorni, tormentati da una serie di scandali che scuotono le fondamenta non solo del Monte dei Paschi di Siena ma anche di tutta l’economia italiana. In quei giorni vengono infatti indagati per reati finanziari gli ex vertici della banca. Tra questi c'è anche il potentissimo ex presidente Giuseppe Mussari che, nel bel mezzo della crisi, è costretto a lasciare l’incarico da presidente dell’associazione bancaria italiana. David Rossi da molti anni è uno dei suoi più stretti collaboratori e, per questo motivo, tre settimane prima di morire subisce una perquisizione da parte della guardia di finanza. Si sta cercando di fare chiarezza sull’acquisto da parte del Monte dei Paschi di Siena di Banca Antonveneta e sui trucchi utilizzati per nascondere le perdite di quell’operazione. Secondo gli inquirenti sarebbe proprio quella perquisizione a preoccupare David tanto da buttarsi dalla finestra del suo ufficio al terzo piano. Il caso viene archiviato alla voce "suicido". Questa almeno è la versione più accreditata. Almeno fino a quando non diventano di pubblico dominio le immagini riprese da una telecamera di sorveglianza esterna al palazzo della sede storica della banca. Da questi frame, infatti, emergono alcune circostanze sospette, che spingono i familiari a porre dei punti interrogativi sull’accaduto. Si inizia a pensare che la morte di David non sia stato un suicidio ma un vero proprio omicidio.
Cronistoria di un decesso. Il 6 marzo David si trova a lavoro. È una giornata come tutte le altre: David pensa già a tornare a casa ed avverte la moglie, Antonella Tognazzi, che sarebbe tornato alle 19.30 per farle un'iniezione. I minuti però passano e David non arriva. Antonella si attacca al telefono, continua a chiamarlo ma non ottiene alcuna risposta. Dall'altra parte della cornetta c'è solo un silenzio assordante, che inizia a destare preoccupazione. Tanto che Antonella chiama sua figlia Carolina e le chiede di andare a cercarlo a lavoro. Nel frattempo il collega di David e amico di famiglia, Giancarlo Filippone parla con Antonella , dicendole che Carolina avrebbe dovuto aspettarlo proprio all’ingresso della sede della banca. Sarà la mamma a riferire subito alla figlia le indicazioni di Filippone. Quando i due si incontrano sotto la sede del Monte dei Paschi, Giancarlo dice a Carolina di aspettarlo nel suo ufficio e che sarebbe andato lui a cercare David nella sua stanza. Dopo pochi minuti, tornando dalla ragazza, pronuncia queste parole: "È successa una tragedia, David si è suicidato".
L'arrivo dei soccorsi. Il cadavere viene rinvenuto intorno alle 20.30. Dopo la notizia del decesso i pm si recano sul luogo dell’accaduto e iniziano il sopralluogo. Perquisizioni e ispezioni che duraranno fino al giorno seguente per recuperare tutte le informazioni necessarie sulla tragedia sia nell’area del vicolo Monte Pio dove è stato trovato il corpo, sia nell’ufficio del manager senese. In quelle ore viene raccolto il primo materiale investigativo: Il filmato di una telecamera di sicurezza della banca, tre lettere di addio indirizzate alla moglie di David, trovate, a pezzi, nel cestino accanto alla sua scrivania e il telefono cellulare, importante per leggere i messaggi e le ultime telefonate. Convocato sul posto anche il prof. Mario Gabrielli, ordinario di medicina legale all’Università di Siena. Sarà lui a compiere la prima ispezione esterna sul cadavere che, il giorno dopo, verrà sottoposto ad autopsia.
Il video delle telecamere di sorveglianza. Sono le 19.43. Dalle immagini si vede il corpo di David precipitare per circa 15 metri con il busto in verticale e la faccia rivolta verso il muro del palazzo. Poi il colpo a terra. Per i 22 minuti che seguono l’istante della sua caduta, David rimarrà a terra. Immobile e agonizzante. Dopo che il cuore del manager senese smette di battere passano altri 40 minuti. Durante tutto questo tempo, il suo corpo giace a terra, ma nessuno chiamerà i soccorsi. Eppure il vicolo in cui si trova è in pieno centro, in una strada che, solitamente, è di passaggio per molti. Come è stato possibile che nessuno abbia visto il colpo martoriato di David? Secondo una ricostruzione fornita dal perito della famiglia e resa possibile dalle immagini raccolte dalle telecamere, la strada potrebbe esser stata bloccata da un camion posizionato all’entrata del vicolo. Dalle ombre che passano sui muri del vicolo è inoltre ipotizzabile la presenza di altre persone. Ad un certo punto, inoltre, si vede anche un uomo entrare nella strada con un telefono all’orecchio. Non sappiamo se sia riuscito a vedere il corpo di David, ma ciò che è certo è che nessuno ha mai indagato per identificare chi fosse quella persona. Scorrendo in avanti con le immagini, verso la fine del video registrati da una delle telecamere di sorveglianza poste sul vicolo, si vedono due persone entrare nella stradina e avvicinarsi al corpo di David. Si tratta del già citato Filippone, capo della segreteria di David, e Bernardo Mingrone, capo dell’area finanza del Monte dei Paschi. Filippone è stato uno dei colleghi più stretti di David tanto che sarà proprio lui il primo ad avvertire i soccorsi della tragedia. Eppure, in quel momento, le immagini che fermano l’attimo in cui l’uomo vede il corpo dell’amico sono un colpo al cuore per la famiglia di David. L’uomo si avvicina al corpo, lo osserva per qualche seconodo e poi, senza nessuna visibile reazione, lo lascia lì. Inerme. Da quel momento, passeranno ancora alcuni minuti prima che Carolina, figlia della moglie di David, preoccupata perché non riesce a contattare David, deciderà di andarlo a cercare a lavoro. Lì, incontrerà proprio l’amico Giancarlo e sarà lui a dargli la notizia della morte di Rossi.
I segni sul corpo di David Rossi. David cade di schiena appoggiando prima il bacino a terra e poi sbattendo la schiena. Eppure sul suo corpo ormai esanime verranno ritrovati dei segni che difficilmente possono trovare una spiegazione nella sola caduta dall’alto. A marcare il suo volto sono due chiare ferite sul labbro superiore e sul naso, perfettamente in asse, che disegnano un a linea sottile che percorre la parte centrale del viso. Contusioni sul naso e sulla parte esterna dello zigomo sinistro, oltre ad alcune ferite sulla fronte. Sul polso sinistro, un profondissimo segno in corrispondenza della cassa dell’orologio fa pensare che qualcuno abbia spinto con una forte pressione sul polso di David fino a lasciare sulla sua pelle il segno profondo dell’orologio che indossava. Sulle braccia i segni evidenti di ematomi piccoli e ravvicinati che fanno pensare alla presa di una mano attorno al braccio. Un livido anche in mezzo all’addome. Ma il segno che lascia più sgomenti è una grande contusione nella parte interna della coscia, all’inguine.
David Rossi, il giallo della sua morte. In quella notte per tutti c’è solo una risposta: David si è suicidato. Una versione a cui i familiari crederanno solo in un primo momento. Le indagini che seguiranno quel fatidico giorno, portate avanti con forza dalla famiglia, ricostruiranno per filo e per segno gli ultimi giorni di vita di David. I pezzi del puzzle che gli esperti riusciranno a mettere insieme si riveleranno errori, terribili incongruenze, dolorosi campanelli d’allarme, che convinceranno la famiglia che quello di David non può essere stato un suicidio. Portando alla luce, passo dopo passo, tutte le incongruenze di una storia che ancora oggi rimane un mistero.
Un disegno prima di morire: quel messaggio di David Rossi. Carolina Orlandi racconta, al di là delle indagini, quello che lei e sua mamma Antonella hanno percepito da David in quel momento difficile della sua vita e la dura realtà che sono state costrette ad affrontare quando si sono viste voltare le spalle dai vertici della banca, dai colleghi di David e dagli amici di una vita. Costanza Tosi, Mercoledì 18/12/2019 su Il Giornale. Ha sofferto in silenzio e lottato a voce alta. Da agosto del 2013 ha portato avanti la battaglia più difficile: quella che grida "Verità per David". Carolina Orlandi è la figlia di Antonella Tognazzi, moglie dell'ex manager del Monte dei Paschi di Siena che ha perso la vita nell'ormai lontano 2013. Ma quando parla di David è come se parlasse di una persona che, in qualche modo, è sangue del suo sangue. Dopo anni le sue parole sono diventate chiare. I pensieri nitidi. La storia che racconta per ripercorrere le vicende drammatiche che si sono succedute dal giorno della tragedia fino ad oggi scorre veloce come una poesia dolorosa. A muoverla in questa lotta che ancora non vede la parola fine è una solo certezza: per lei, David è stato ucciso. Su questo, si legge dai suoi occhi, sarebbe pronta a scommettere. "Noi non siamo mai partiti dal complotto", ci racconta. "Io per prima, inizialmente, mi sono detta: 'Ogni parente di una persona che compie un gesto volontario di questo tipo non crede a suoi occhi'". Carolina ha cercato di farsene una ragione, passando i primi mesi dopo la morte di David a cercare di capire perché proprio lui avesse deciso di togliersi la vita. Poi, un giorno, tutto ha preso un’altra forma. "Abbiamo avuto i primi dubbi nell’agosto del 2013, quando ci hanno dissequestrato il materiale e abbiamo visto che c’erano delle cose che non tornavano". I video delle telecamere di sorveglianza, le mail in entrata e in uscita recuperate dai militari, dai dispositivi del manager senese, le immagini della scientifica che aveva immortalato l’ufficio del Rossi poco dopo il ritrovamento del suo corpo: tutte cose che hanno aperto quesiti inquietanti. Niente dà le risposte che la famiglia si aspetta. E le incongruenze, confermate dai periti incaricati dalla famiglia di approfondire le indagini, negli anni hanno spazzato via ogni dubbio e hanno convinto la famiglia che David, in quella notte di quasi sette anni fa, non avesse realmente deciso di abbandonarsi alla morte precipitando dalla finestra del terzo piano del suo ufficio. Quando entriamo a casa di Carolina la stanza del suo salotto è ancora spoglia. Da poco tempo si è trasferita a Roma per motivi di lavoro. Prima di presentarci e iniziare a parlare ci avverte: "Scusa il disordine”. Ma, nel mezzo del caos vivo degli scatoloni, una parete azzurro pastello illumina la stanza. È ordinata alla perfezione. Tra gli scaffali ireggolari a riempire gli spazi vuoti del muro ci sono i disegni di David. Sul mobiletto sistemato a terra una penna rossa con incise due iniziali. “D.R”. A sinistra ancora un quadro. Arancione e ben fatto. La firma in basso a destra è quella di David Rossi. E poi, tanti libri. "Ho sempre sognato di avere una libreria bella e grande come la sua", ammette. In quella piccola stanza, ancora nuda, tutto parla di lui. Di loro. Noi, dopo qualche minuto, iniziamo a ripercorrere i fatti di una sera di tanti anni fa, quando Carolina finì a parlare con David proprio davanti alla grande libreria nel salotto della casa in cui vivevano assieme. Pochissimo tempo prima che David perdesse la vita, una sera, a cena, la figlia si accorse di alcuni tagli sul polso del padre. In quei giorni l’uomo era preoccupato per questioni lavorative. “Lui era molto stressato - ricorda la ragazza - doveva difendere la posizione della banca in un momento in cui la banca non si poteva difendere. Perché era sotto gli occhi di tutti che ci fosse un ‘bordello’ là. Quindi io lo vedevo in casa che era strano. Ma sembrava quasi impaurito…”. Fu questo, quel giorno, a spingere Carolina a chiedere spiegazioni su quelle ferite a sua madre. La quale, poi, si rivolse direttamente al marito. “Quando gli abbiamo chiesto di spiegarci cosa fosse successo ha iniziato ad inventarsi cose che non stavano né in cielo né in terra", ci racconta. Poi, ad un certo punto, una frase che rimarrà scolpita nei ricordi della famiglia: “Sai com’è quando uno ha bisogno di tornare alla realtà deve sentire dolore”. L’uomo lasciò intendere di esseresi autoinflitto quei tagli e, sul momemento, la madre e sua figlia diedero credito a quella risposta. Se non che, dopo poco, David andò verso la libreria di casa e ad alta voce raccontò alla figlia di voler fare un disegno. Ma, sul foglio utilizzato da David, dopo pochi secondi, spunterà una frase indirizzata a Carolina: “Non parlare di questo né fuori né in casa”. Così, la ragazza gli chiese se in casa ci fossero le cimici, se lui pensasse di essere ascoltato. L’uomo annuì. Aveva questa convinzione, di essere controllato. Ma, nonostante questa certezza, perché preoccuparsene proprio dopo aver parlato dei tagli sul braccio? Se davvero l’uomo si fosse fatto del male da solo, chi e perchè non avrebbe dovuto saperlo? A destare ulteriori sospetti sull’origine di quei tagli sarà, più tardi, anche la ferita stessa trovata sul cadavere di David. I periti hanno infatti osservato che quelle lesioni al braccio sono state provocate con una pressione che va dall’interno verso l’esterno. Un movimento opposto rispetto a quello che solitamente farebbe chi si autoinfligge dei tagli in quella parte del corpo. “Io non ho le prove e non posso dire se qualcuno abbia provocato quei tagli a David. Certo è che non abbiamo la certezza di cosa sia successo sul suo corpo da quel punto di vista", continua Carolina. Eppure nessuno mai ha condotto delle indagini per capire la natura di quelle ferite, nonostante fossero ancora presenti al momento della morte. Magari qualcuno sapeva cosa stava succedendo a David in quel periodo della sua vita. Le persone che stavano a stretto contatto con lui, forse, sarebbero riuscite a spiegare con le loro testimonianze cosa potesse aver portato a quel giorno drammatico. Ogni singolo elemento sarebbe stato utile per provare a ricostruire, passo dopo passo, il quadro completo di quella vicenda. Eppure, nessuno ha mai proferito parola e da quel giorno la sede centrale della banca senese è diventata un covo di omertà. Un muro di silenzio. "Nessuno tra i vertici della banca si è mai fatto vivo con noi. Non ci hanno mai supportato nella nostra battaglia. Non hanno neanche partecipato alla manifestazione per ricordarlo che io organizzai a tre anni dalla sua morte". Silenzio di tomba. “Giancarlo Filippone era uno dei suoi più stretti collaboratori. Eravamo, in realtà, amici di famiglia e quella notte del 6 marzo io arrivai con lui alla porta dell’ufficio di David prima di scoprire cosa fosse successo. Abbiamo passato insieme un momento che non ci scorderemo mai, eppure, adesso se mi incontra per strada abbassa lo sguardo". Filippone è l’uomo che appare nel video ripreso dalle telecamere di sorveglianza. Si avvicina al corpo di David e dopo qualche secondo speso ad ossservare l’uomo inerme sull’asfalto esce dal vicolo senza nessuna visibile reazione. Carolina ancora una volta non può e non vuole pensare al peggio. "Io non credo che Giancarlo abbia responsabilità dirette con la morte di David. Credo però che lui sappia qualcosa o che abbia visto qualcosa che non gli tornava. E lui ci sta convivendo con questo. Altrimenti io non mi spiego il motivo di tagliare i ponti con noi".
Gli scandali di Mps: ecco perché Siena tace sulla morte di Rossi. Ecco cosa c'entrano gli scandali finanziari del Monte dei Paschi di Siena con il giallo sulla morte di David Rossi. Costanza Tosi, Domenica 22/12/2019, su Il Giornale. Il giallo sulla morte di David Rossi, sfociato in uno dei più grossi scandali giudiziari del nostro Paese, si sviluppa durante una delle più grandi crisi economiche e finanziarie di quella che era una delle banche più solide in Italia. Il Monte dei Paschi di Siena. Per comprendere cosa abbia portato, dopo la morte del manager senese, al verificarsi delle oscure vicende attorno a quel caso è importante ripercorrere le fila di quello che stavano affrontando, in quel momento storico, i più alti dirigenti della banca di Siena. Chi sono i protagonisti degli scandali di Mps? Di cosa erano accusati i più stretti collaboratori di David nel 2013, quando il Rossi è volato dalla finestra perdendo la vita? É novembre del 2007 quando, i capi di Mps, firmano l’affare che si rivelerà il primo passo falso che li metterà con le spalle al muro. L’acquisizione di banca Antonveneta. 9 miliardi spesi per la compravendita e più di 7 miliardi di debiti da risanare. Cifre da capogiro. Troppo altre per il Monte dei Paschi di Siena. Difficili da sostenere per chiunque, in quegli anni. Nel momento in cui si palesavano le conseguenze della più pesante crisi finanziaria degli ultimi anni. L’errore eclatante si materiallizzerà in dieci miliardi di aumenti di capitali persi. La Fondazione Mps precipita. Con un patrimonio di 6 miliardi andato in fumo e ridotto ad 500 milioni di euro. Nella ricca Siena tenuta in piedi dal colosso di Mps, dopo il 2007 tutto è iniziato a crollare. A sgretolarsi a poco a poco, a colpi di processi e inchieste da capogiro. Vengono indagati gli ex vertici della banca, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni e i capi della successiva gestione di Mps che avevano il compito di salvare la banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Il presidente della MPS (oltre che presidente dell’ABI.), Giuseppe Mussari, nel 2013 viene indagato dalla Procura di Siena per le presunte irregolarità nelle operazioni effettuate dalla banca senese, tra il 2008 e il 2012, per coprire le perdite dovute all'acquisizione di Antonveneta. Insieme a lui, finiscono a processo l’ex direttore generale Antonio Vigni e l’ex direttore dell’area finanza Gianluca Baldassarri. Oltre ad altri dieci imputati per un secondo filone d’inchiesta. Che riguarda, i contratti derivati sottoscritti con le banche straniere Nomura e Deutsche Bank che, secondo gli inquirenti, sono serviti per camuffare i bilanci e nascondere il reale disastro causato dall'acquisizione di Antonveneta. I reati ipotizzati dalla procura di Siena sono manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’autorità di vigilanza. In poche parole, l’obiettivo era quello di utilizzare i derivati per camuffare le perdite dovute alle operazioni fallimentari. La banca si affida prima al derivato Santorini (tramite la Deutsche Bank). Qualche anno dopo, ci prova anche con Alexandria. Poi lo scoppio. Entra nel vivo la crisi finanziaria. La Lehman Brothers crolla e l’Alexandria genera una perdita di oltre 200 milioni di Euro. Mps decide di non informare Bankitalia, non dichiarando i derivati in bilancio. Vende invece gli Alexandria alla banca giapponese Nomura. Nel frattempo anche il Santorini scende a impicchiata. La manovra fraudolenta porterà, nell’ottobre del 2014, alla condanna a tre anni e sei mesi di reclusione per Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarre, per ostacolo alla autorità di vigilanza oltre che alle accuse nei confronti di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Anche loro finiscono a processo. I due banchieri, nel 2012, avevano preso in mano le redini di Mps con il compito di salvare i conti della banca senese. Dopo poco, si ritroveranno accusati di aggiotaggio e falso in bilancio. Il ruolo di queste operazioni, volte a mascherare le perdite di Mps nel 2008, emergono proprio negli anni della loro gestione. Tutto quello che faranno, i nuovi uomini di Mps, sarà continuare l’opera di Mussari e Vigni proseguendo nell’impostazione di non contabilizzare i derivati come tali a bilancio. Tutto fino al 2015 quando la Consob ne imporrà la riscrittura. Ma perchè perseverare in questa gioco mortale? Il non avere dichiarato i derivati, secondo quando ipotizzato dalla procura, avrebbe consentito alla banca di mantenere i requisiti per accedere agli aiuti di Stato sotto forma di “Monti Bond”, senza far crollare il patrimonio della Fondazione. Si tratta delle obbligazioni emesse da Mps e sottoscritte dallo Stato per aiutare la banca a rafforzare il suo capitale. Un regalo di 4 miliardi. Ad alto tasso di interesse (sopra il 10% annuo), per Mps. Non era la prima volta che la banca dovette ricorrere a prestiti del governo e era chiaro quanto fosse importante intascare anche gli ultimi aiuti. La situazione dei conti di Mps, ridotti all’osso dopo l’acquisto di Antonveneta, precipita nel 2011. É lì infatti, che la banca è costretta a ricorrere ai "Tremonti-bond" per rafforzare il suo capitale. La cifra è di 1,9 miliardi. Prestito che Mps non riuscirà a restiturire. Nel frattempo, era scoppiata la crisi dello spread e il portafoglio del Monte era pieno di titoli di stato italiani. Così,si ricorre ai nuovi “Monti bond”. Sia per rifinanziare il vecchio debito, sia per ottenere nuovi capitali. Un errore dietro l’altro. Truffe, segreti e falsità per salvare la faccia di una delle tre banche più potenti d’Italia. E non solo. Perchè oltre alla sua potenza a livello nazionale quello che rimaneva unico, nella banca senese fondata nel lontano 1472, era la forza spietata del legame che aveva con la città che ne ospita la sede. Ed è in questo contesto che muore David Rossi. Nel bel mezzo dei maxi sequestri. Tra i processi che stavano per smascherare i segreti di uno dei colossi più rinomati di tutto il Paese. Mentre le fondamenta del Monte dei Paschi tremano, muore colui che, negli anni, era stato il braccio destro dei più alti esponenti della banca. Tutti finiti a processo. “Quando la Procura decide che quello di David è un suicidio. Il clima che c’è in qul momento a Siena è complesso.” Spiega Davide Vecchi, che al tempo seguì tutta la questione di Mps per Il Fatto Quotidiano. “Parliamo di una città che era la città più ricca d’Italia. Una ricchezza data fondamentalmente da Mps, dalla Fondazione. Questi, che avevano la nomea di essere i capi di una delle banche più forti d’Italia, si ritrovano, nel giro di pochi mesi, ad essere descritti come gli uomini ai vertici dell’inferno. A capo di un luogo cosparso dalle ombre della massoneria, delle tangenti…qualsiasi cosa orribile stava dentro il Monte dei Paschi.” Rossi e Mussari diventano da essere gli uomini più acclamati della città ad essere additati come i criminali che quella città l’avevano distrutta. “I pm che seguivano l’indagine venivano descritti come i tre moschettieri che sfidavano il potere - continua Vecchi - E anche se oggi sembra assurdo loro ci credevano. Si sentivano venerati in quel momento. Quando si sono trovati David morto sotto la finestra del suo ufficio hanno deciso subito, in maniera superficialissima, che quello fosse un suicidio.” Nonostante le evidenze di quella superficilità spudorata che ha trainato le indagini sul decesso del capo delle relazioni esterne di Mps nessuno avrà mai il coraggio di aprire bocca per disinnescare quel meccanismo intrinso di errori con cui la procura stava facendo le indagini. Chiunque avesse parlato, in quel momento, si sarebbe trovato incastrato in un tunnel buio e spaventoso dentro il quale avrebbe potuto esserci di tutto. Toccare i vecchi idoli del potere senese diventati i mostri della citta del Palio faceva e fa paura. E nel turbine di inchieste e segreti intangibili Siena tace. Si rivela il regno dell’omertà. Un’omertà che finirà per diventare la causa di una morte mai accertata.
L'oscura pista del Vaticano dietro la morte di David Rossi. Nella vicenda del capo comunicazione di Mps potrebbe c'entrare pure lo Ior. Ecco gli indizi su cui nessuno ha indagato. Costanza Tosi, Sabato 21/12/2019, su Il Giornale. Tra le ombre intimidatorie che da anni fanno da sfondo alla morte sospetta del manager del Monte dei Paschi di Siena ci sarebbe anche il Vaticano. Ma cosa c’entra la curia con il probabile omicidio di David Rossi? Andiamo con ordine e partiamo dall'inizio. Tutto parte con la trasmissione Report, che si era occupata dell’inchiesta sulla morte di Rossi e aveva intervistato un monsignore che, sfruttando l'anonimato, aveva confessato l’esistenza di quattro conti presso lo Ior, ovvero la banca del Vaticano. Questi conti, secondo la testimonianza, sarebbero stati formalmente intestati ad enti religiosi ma in pratica erano riconducibili a uomini del Monte dei Paschi di Siena. La stessa fonte disse anche che c'erano stati degli incontri presso la banca Vaticana e che a recarsi lì era stato, ai tempi, l’ex presidente di Mps, Giuseppe Mussari, accompagnato però dal capo delle relazioni esterne, David Rossi. Mussari si trovava a capo della banca proprio nel momento in cui Mps concluse la spericolata acquisizione di banca Antonveneta che fece sprofondare il Monte dei Paschi nel vortice mediatico sugli scandali finanziari legati proprio a quell’operazione. David Rossi era uno dei suoi più stretti collaboratori. Lavoravano assieme da circa dieci anni, tanto che i due avevano instaurato un rapporto non solo da colleghi ma anche di amicizia. Ma perchè alcuni uomini di Mps avrebbero avuto dei conti intestati ad enti religiosi alla banca del Papa? E cosa andavano a fare Mussari e Rossi allo Ior? I racconti della fonte anonima arricchivano di punti interrogativi la vicenda del manager volato dalla finestra in circostanze già sospette. Ma nessuno riuscì a dare una spiegazione a quelle strane informazioni passate dagli uomini della curia e oggi, quella del Vaticano, rimane una pista su cui nessuno ha mai voluto fare chiarezza. Qualcuno in realtà ci aveva provato a cercare conferme alla bomba lanciata da Report. Le Iene cercarono conferme in uno dei banchieri più potenti d’Italia: Ettore Gotti Tedeschi. Ma per capire cosa possa c'entrare quest’uomo in tutta questa storia dobbiamo fare un passo indietro.
Prima, durante e dopo essere stato il capo della banca del Vaticano, Ettore Gotti Tedeschi, è stato il massimo rappresentante di banco Santander. La banca che ha fatto l’ottimo affare rifilando al Monte dei Paschi di Siena Banca Antonveneta. Per dirla tutta, Gotti Tedeschi spiegò al giornalista de Le Iene che tutto ciò che avrebbe voluto fare, anni addietro, era proporre a Santander una banca italiana. Banca Antonveneta non andava bene. Non aveva valore. Non l’avrebbe voluta nessuno. Così, quello a cui sarebbe voluto arrivare Gotti Tedeschi, e che propose di fare al Monte dei Paschi, era fondere Mps e Banca Antonveneta. Secondo i racconti del banchiere però, la decisione di passare dalla fusione all’acquisizione fu voluta dalla Fondazione che, in quel momento, aveva molto potere sulla banca. Tanto da non volerne perdere il controllo. Ad ogni modo, l’operazione fu la rovina (momentanea) del Monte dei Paschi di Siena. Antonveneta, che all’epoca era una banca dal valore di appena sei miliardi, venne comprata nel 2007 da Giuseppe Mussari che ne spese nove. A quei nove miliardi si sono poi aggiunti i debiti che già aveva, fino ad arrivare ad un totale di 16 miliardi di euro spesi. Di quell’operazione distruttiva, che ha portato il Monte dei Paschi ad affrontare la tormenta qualche tempo dopo, Gotti Tedeschi seguì ogni singolo movimento. Ma in fondo, non è questo che può far pensare che l’uomo conoscesse David Rossi. A destare ulteriori sospetti è stato infatti un semplice bigliettino evidenziato da Le Iene nelle foto scattate dalla scientifica il giorno dopo il dissequestro dell’ufficio di Rossi. Tra i documenti posti sulla scrivania spunta un post it con scritto, a mano e con il pennarello, il nome del capo della banca del Vaticano. Sotto, il suo numero di cellulare. Perché Rossi aveva il numero di Gotti Tedeschi? I due si erano sentiti? C’entravano qualcosa i conti allo IOR? Le domande iniziarono a moltiplicarsi e i sospetti ad essere sempre più forti.
Intervistato dal giornalista Monteleone, Gotti dichiarerà di non aver mai conosciuto David. L’uomo ha sempre detto di non saperne niente della storia del capo della comunicazione di Mps e di non ricordare neanche se, anche solo per caso, si fossero mai incontrati. L’ex presdiente dello Ior dichiarerà non essere nemmeno a conoscienza di quanto è stato riportato all’interno di un’annotazione di polizia giudiziaria della guardia di finanza nella quale una fonte confidenziale parla di quattro conti riconducibili a uomini di Mps e riferiva di una presunta tangente relativa all’acquisizione di banca Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena transitata sui conti correnti accesi presso lo Ior. Anche quell’inchiesta della guardia di finanza non è mai riuscita a confermare quanto dichiarato da “la fonte confidenziale”. Sebbene Gotti Tedeschi non dichiarerà mai di sapere qualcosa, ciò che arriverà a dire sarà molto più preoccupante. L’ennesima pugnalata per la famiglia di David. L’ennesimo indizio che apre nuovi scenari. L’uomo dichiarerà, infatti, di non far fatica a credere che quei conti siano esistiti davvero. Forse si tratterebbe di tangenti. Solo supposizioni, sia chiaro, ma per Gotti niente è impossibile se si parla di curia vaticana. E chi meglio di lui potrebbe sapere cosa si nasconde in quell’ambiente oscuro dove lui stesso ha transitato per anni? Durante i suoi racconti l'uomo farà intendere che qualcuno all’interno della curia sarebbe stato capace perfino di commissionare un omicidio. Motivo per cui, quando era presidente dello Ior, era stato incaricato da Papa Benedetto XVI di “ripulire” l’Istituto per le Opere Religiose e non si sarebbe mai occupato dei conti né tantomeno di scoprire gli intestatari di questi. Come se questo potesse esporlo a qualsiasi rischio. Perchè lì c’erano persone in qualche modo pericolose.
“Quando venni a conoscenza di queste affermazioni rimasi scioccata. E i dubbi su questa pista ancora aperta mi hanno spinto a fare un appello al Papa in persona. In cui io chiedevo che si sciogliesse dal segreto queste persone perché potessero dire quello che sapevano, ci dice Carolina Orlandi, che poi ammette: “Io non so se lo Ior abbia a che fare con la morte di David". Di fatto, nessuno può saperlo. Perchè nessuno ha mai indagato su questa pista che rimane ancora tutta da scoprire. Ancora oggi, nessuno ha mai risposto all’appello di Carolina. “Da parte dello Ior e del Vaticano nessuno si è fatto vivo".
Quelle ombre sulla procura dopo la morte di David Rossi. Lo strano caso dell'indagine sul giornalista che trovò le mail in cui Rossi annunciava di voler raccontare la verità su Mps. Costanza Tosi, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. È l’estate del 2013 quando la procura di Siena archivia il primo fascicolo sulla morte di David Rossi. Dal punto di vista giudiziario la vicenda del decesso dell’ex manager del Monte dei Paschi di Siena era stata scritta: suicidio. Poi il paradosso. La fine giudiziaria sarà l’inizio delle indagini che metteranno in dubbio proprio la dolorosa conclusione a cui erano giunti i pm. In quello stesso periodo Davide Vecchi, allora giornalista de Il Fatto Quotidiano e attuale direttore gruppo Corriere (Umbria, Arezzo, Siena, Viterbo e Rieti) si trovava a Siena. Stava seguendo la questione intricata degli scandali di Mps sulla compravendita di banca Antonveneta. “Iniziai a lavorare anche sulla morte del Rossi. Le vicende di Mps erano quasi giunte a termine. Avevano già fatto i maxi sequestri e noi stavamo 'levando le tende'. I fatti di quella sera furono una sorpresa", racconta Vecchi. Quando, a luglio, la procura iniziò a procedere veloce verso l’archiviazione del fascicolo gli atti d’indagine erano prossimi a diventare pubblici. “Tra il materiale sequestrato per le indagini saltarono fuori alcune mail - spiega Vecchi - Mail che David aveva mandato due giorni prima di morire all’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola". Mail nelle quali David anticipava la volontà di togliersi la vita e, anche e sopratutto, la volontà di andare a parlare con i magistrati. Nei messaggi, il manager senese diceva di aver lavorato con tutti, che avrebbe voluto parlare con i pm perché sapeva tutto di Mussari (ex presidente di Mps), della banca, della fondazione e del comune. “Quando trovai quello scambio di mail era il 4 luglio del 2013. Riportai tutto in un articolo e il giorno dopo venne pubblicato su Il Fatto Quotidiano”. Dopo la pubblicazione di quelle mail i pm indagarono Davide Vecchi e la vedova di David, Antonella Tognazzi. Il capo d’imputazione era “violazione della privacy”. Aver reso pubbliche quelle prove avrebbe violato la privacy di Viola. La cosa assurda è che “noi lo abbiamo saputo due anni dopo che c’erano delle indagini su di noi. Questo è indicativo per capire come agiva la procura…”. Dopo sei mesi, al massimo un anno, dall’inizio delle indagini a proprio carico, l’imputato dovrebbe essere avvisato e invece qualcuno stava indagando su di loro. A loro completa insaputa. “In quel periodo - racconta Vecchi - io venni anche convocato per un interrogatorio. Ed ero indagato”. Ancor peggio fu per la moglie di Rossi. Antonella andava a rivolgersi al pm, Aldo Natalini, titolare in quel momento del fascicolo sulla morte di Rossi e che quindi avrebbe dovuto occuparsi delle indagini sulla morte di David. Più volte aveva parlato con lui per capire come stavano procedendo e se ci fossero novità in proposito, per poi scoprire in realtà che Natalini non stava indagando sulla morte del marito, ma contro di lei. Secondo la procura, infatti, sarebbe stata proprio lei a fornire le mail al giornalista e tutto, a dire dell’accusa, per pubblicarle sul giornale in modo da ricattare la banca. Uno strano stratagemma per ricattare qualcuno...Ancora una volta la supposizione non sta in piedi. Ma questa presa di posizione sposterà i pm dalle indagini su David a quelle sul nuovo caso: la pubblicazione della mail tra il capo della comunicazione del Monte dei Paschi e l’amministratore delegato Fabrizio Viola. “Fu assurdo. Io neanche la conoscevo Antonella prima di finire insieme a lei in un aula di tribunale". Il processo è andato avanti per tre lunghi anni. L’accusa avrebbe voluto nove mesi di reclusione per Vecchi e sei per la Tognazzi. Un altro doloroso capitolo dell’assurda vicenda che si è poi chiuso con una sentenza di assoluzione piena nei confronti dei due indagati. Rivelandosi l’ennesimo scivolone della procura. Un errore che ha lacerato l’anima di una donna che si è vista accusata in un aula di tribunale a pochi mesi dalla scomparsa di suo marito. Un’ingiustizia che le è costata tre anni di processi e giustificazioni ad accuse infondate. Tre anni nei quali lei, ha continuato a lottare per qualcosa di ancora più grande e doloso. La verità sulla morte di David. Eppure, sebbene le ricerche su di lei partirono subito dopo la pubblicazione degli articoli di Vecchi, nello stesso momento le indagini su Rossi non solo vennero accantonate, ma si lavorò per far sparire alcune tra le altre prove in possesso degli investigatori. “Lo stesso Natalini aveva distrutto dei reperti fondamentali. Come i fazzoletti sporchi di sange trovati nel cestino dello studio di David. Li aveva distrutti senza analizzarli e prima ancora che il gip avesse disposto la prima archiviazione", spiega ancora Davide Vecchi. In quel periodo infatti il gip aveva ricevuto la richiesta di archiviazione. Ma, dopo la pubblicazione delle mail, che erano state, di fatto, un campanello d’allarme per provare a riprendere in mano le prove che non erano state prese in considerazione fino a quel momento, avrebbe potuto procedere con una proroga che permettesse di fare ulteriori indagini in un momento in cui ancora era possibile tirare fuori qualsiasi cosa dagli elementi acquisiti e in cui, per giunta, gli investigatori sarebbero stati ancora in tempo di richiederne altri. “Il pm dispone la distruzione di quelle prove ad agosto. In pieno agosto. Due giorni prima di ferragosto. Quando a Siena non è solo il giorno di ferragosto ma c’è il palio. Lì, lo sappiamo, per l’evento si ferma tutto. E loro invece si sono presi la briga di andare a distruggere dei reperti. Questa, per me, rimane una delle cose più inspiegabili".
L'ora, i lividi e una strana mail: i misteri sulla morte di David Rossi. Le indagini si sono rivelate un buco nell'acqua. Ecco tutto quello che non torna nelle ricostruzioni ufficiali. Costanza Tosi, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale, Le indagini sulla morte di David Rossi sono diventate, negli anni, uno dei grovigli giudiziari più complessi da sciogliere.
Il manager del Monte dei Paschi di Siena cade dal terzo piano di uno degli uffici della banca. Nel centro storico della città toscana, però, nessuno vede né sente nulla. Eppure, il vicolo su cui affaccia la finestra della stanza è un’area videosorvegliata. Come mai questo vuoto? Come mai questo silenzio a cui nessuno sa - o forse sarebbe meglio dire osa - rispondere? Per cercare di ricostruire il quadro completo degli avvenimenti di quella sera di marzo è stato acquisito un solo video delle decine di telecamere del palazzo di Mps e, da quelle poche immagini che riprendono la caduta del corpo, sono emersi col tempo alcuni dettagli fondamentali per comprendere cosa sia successo in quelle ore e a convincere i parenti di David che la sua morte non può esser derubricata a suicidio.
Le dinamiche della caduta. ll corpo di David precipita per circa 15 metri. Dal video si può osservare la sagoma che cade con il busto in verticale e la faccia rivolta verso il muro del palazzo. Poi il colpo a terra. Le dinamiche della caduta rappresentano il primo interrogativo che mette in dubbio l’ipotesi del suicidio. Secondo gli ingegneri che hanno studiato con attenzione i video delle telecamere, la prima cosa inspiegabile è l’assenza di rotazione del corpo di David che, se si fosse spontaneamente lasciato cadere dalla finestra senza opporre resistenza, sarebbe caduto in una posizione differente, con le spalle rivolte verso terra o, addirittura, di testa. Ma c’è di più. Perchè secondo i giudici che hanno archiviato il caso, a quella caduta verrebbero ricondotti tutti i segni e le ferite riportati sul corpo di David. Sul viso ci sono due chiare ferite. Una, nel labbro superiore, e l’altra sul naso. Entrambe sono collegate da una lesione lineare che percorre tutta la parte centrale del volto. Sulla zona esterna dello zigomo sinistro, lividi marcati. Oltre ad alcune ferite sul capo. Sul polso sinistro una ferita circolare e profonda ricalca le forme della cassa dell’orologio che l’uomo teneva al braccio. Come se qualcuno avesse premuto con forza sull’oggetto, ferendo il corpo dell’uomo. Sulle braccia i segni evidenti di ecchimosi piccoli e ravvicinati sembrerebbero disegnare la presa di una mano attorno all’arto. Nella parte centrale dell’addome, un altro livido e una grande contusione all’inguine. Secondo i periti che hanno osservato con attenzione i video della caduta di Rossi, tutti quei segni ritrovati sul suo corpo non possono essere riconducibili alla caduta. Se a provocare le lesioni fosse stato il colpo sull’asfalto, con ogni probabilità, le ferite sarebbero state ritrovate, quasi unicamente, nella parte posteriore del corpo, tra la schiena e il bacino, essendo David precipitato con la schiena rivolta verso il suolo. Eppure il viso è tumefatto e l’addome e l’inguine colpiti. Nelle relazioni dgli investigatori è stato ipotizzato che il manager avesse sfregato contro il muro del palazzo. Ma rimane inspiegabile come, se le cose fossero andate così, sul corpo non siano state ritrovate profonde abrasioni. E allora com’è che David si era provocato delle ferite? C’era stata una colluttazione antecedente alla tragedia? Siamo di fronte a nuove domande senza risposta. I familiari però non faticano a crederci. David, per loro, è stato picchiato.
Il mistero dell'orologio. Sono le 20.16. È passata mezz’ora dal momento della caduta di David. Dal video delle telecamere di sorveglianza si vede precipitare qualcosa dalla finestra. La direzione in cui atterra l’oggetto misterioso è la stessa in cui verrà ritrovato l’orologio di Rossi. La lancetta delle ore segna un punto tra le 20 e le 20 e trenta. Se l’uomo avesse avuto il suo orologio al polso al momento della caduta questo si sarebbe fermato prima delle otto di sera, proprio dopo la botta. E invece il meccanismo ha continuato a funzionare fino a dopo le 20. Un’ipotesi confermata da una delle perizie richieste dai familiari e che rende ancora più plausibile la pista precedente. Le colluttazioni avvenute prima della caduta già suggerite dai segni sul corpo di David. Durante lo scontro fisico l’orologio si sarebbe staccato dal polso e poi, qualcuno, avendolo trovato ancora nell’ufficio, avrebbe deciso di farlo piombare giù, proprio accanto al corpo di David.
La telefonata di Carolina. Le 20.16 segnano il momento di un altro fatto straordinario e senza spiegazione. È proprio quello l’istante in cui Carolina prova a chiamare suo papà sul cellulare e, a quella chiamata, qualcuno risponderà per circa tre secondi. Ma chi? Chi c’era in quel momento dentro l’ufficio per poter rispondere alla telefonata? Un minuto dopo, sempre dal telefono di David parte una chiamata verso un numero misterioso. Il 4099009. Forse il numero di un conto dormiente, una successione di numeri casuali, un codice pin per accedere ad un dispositivo? Cosa fosse quel numero contattato nessuno ha mai saputo spiegarlo.
Le indagini. Quando la polizia entra nell’ufficio di David trova nel cestino tre fogli accartocciati che sembrerebbero il tentativo di una lettera, indirizzata alla moglie, in cui l’uomo cerca di spiegare i motivi della sua decisione di farla finita. In quelle righe però, alcune parole insospettiscono Antonella. “Toni, amore e scusa”. Secondo la donna le parole ritrovate su quei fogli accartocciati non sono state scritte volontariamente da suo marito. “Non mi chiamava mai in quel modo né Toni, né tantomeno amore e lo faceva volontariamente, scherzavamo su questo - ci spiega - la parola scusa non faceva proprio parte del suo vocabolario, lui non diceva mai scusa”.
Il caso David Rossi, le incongruenze nelle indagini. Eppure secondo la perizia calligrafica quella è proprio la scrittura di David. Ma la moglie non ha dubbi “è stato il suo modo di farmi capire che non l’ha scritto di suo spontanea volontà, voleva mandarmi un campanello d’allarme per dirmi: guarda che sono stato costretto. E così è stato da lì sono nati i primi dubbi". Su questo, però, il gip ha forti perplessità. I fogli ritrovati sono tre, come se chi stesse obbligando David a scrivere quel foglio avesse anche fatto attenzione a come la lettera venisse scritta. Improbabile per gli inquirenti in un momento di così alta tensione.
"Help. Stasera mi suicido". È il 4 marzo del 2013 quando David scrive alcune e-mail a Fabrizio Viola, amministratore delegato della banca. Uno scambio di messaggi di lavoro, suddiviso in 14 email che si succedono, sempre con lo stesso oggetto. Tranne una. Dall’indirizzo di David parte un messaggio dall’oggetto “Help” e dal testo scioccante: “Stasera mi suicido, sul serio, Aiutatemi!”. Nelle mail successive né David né Viola fanno riferimento a quella richiesta di aiuto mandata dal manager che morirà solamente due giorni dopo. Ciò di cui continuano a discutere è invece dell’intenzione di David di andare a parlare con i magistrati e della richiesta all’amministratore di fare da tramite. Quando David capisce che l’amministratore delegato non è d’accordo all'idea del suo incontro con i magistrati, allora sembra fare marcia indietro. Lo fa intentendere nelle successive email. Tre, consecutive. In cui sembra voler far capire a Viola che ha rinunciato alla sua idea. Il manager spiega che forse non è necessario anche perché non ha niente di sostanziale da dire e chiede scusa per l'inconveniente all’amministratore. Un cambio di rotta che sembra far trapelare una paura: quella di aver detto alla persona sbagliata le proprie intenzioni. David non riuscirà mai ad andare a parlare in procura. Ma quella fatidica mail in cui David avrebbe fatto trapelare la sua disperazione qualcuno l’aveva notata. Si tratta di Lorenza Pieraccini, allora assistente di Fabrizio Viola. Quando la donna vide quel messaggio inquietante decise di andare dal responsabile della segreteria con quelle parole stampate nero su bianco. Ma nonostante la denuncia della Pieraccini nessuno ha fatto niente e dopo tre, quattro giorni, quella mail è sparita. Più tardi Viola dichiarerà ai magistrati di non aver mai visto quel messaggio. Che invece, la testimone mai ascoltata dalla procura, dichiara di aver visto aperta e quindi visualizzata. Dunque, anche nel caso si trattasse veramente di un suicidio, da quanto trapela dalla testimone delle mail ben due persone oltre a lei avrebbero saputo del campanello d’allarme lanciato da David e, entrambe, non avrebbero fatto niente per impedire la tragedia.
Il mistero dell’ufficio di David. Secondo i racconti di una dipendente e collega di David del Mps quando lei, la stessa sera, esce dal luogo di lavoro la porta dell’ufficio di David è aperta e la luce ancora accesa. Si scoprirà poi che all’ora dell’uscita della donna, attorno alle 20, David era già sul selciato eppure, quando la figlia entrerà, circa mezz’ora dopo, all’interno della stanza, troverà la porta chiusa. Chi è entrato nell’ufficio del manager dopo la caduta? Perché la porta non era ancora aperta all’arrivo di Carolina? Nelle stesse ore in banca un’altra persona era presente. Si tratta del sorvegliante alle telecamere di sicurezza che, nonostante fosse di turno, non si è accorto di niente e per ore non ha notato se all'interno dell'edificio ci fosse qualcuno, né la caduta o il corpo di David Rossi inerme a terra. In un video girato dal primo poliziotto che entra nell’ufficio di David due ore dopo l’accaduto si notano alcune incongruenze nella posizione degli oggetti all’interno della stanza rispetto alle foto della polizia scientifica arrivata poco dopo per fare i rilievi. La giacca di David, nel video, si trova sulla sedia appoggiata in maniera disordinata e la sedia è rivolta verso la scrivania. Nelle fotografie presentate dalla scientifica, invece, la stessa giacca cambia posizione. È sistemata, in maniera ordinata, sulla spalliera della sedia che adesso non è più rivolta verso la scrivania bensì girata di lato. Eppure in quelle ore la stanza sarebbe dovuta essere sotto sequestro e nessuno sarebbe dovuto entrare. Ma anche se qualcuno si fosse recato lì, perché mettersi ad ordinare gli oggetti in un momento del genere? A cambiare posizione sono anche alcuni documenti posti sopra la scrivania del manager. Nel video i fogli si trovano di fronte alla sedia, al centro del tavolo sul porta documenti in pelle mentre; nelle foto, si sono spostati in fondo al tavolo accanto ad alcune agende. Le stesse agende che nel video sono posizionate all’angolo della scrivania; nelle foto invece sono al centro del tavolo. Accade lo stesso per le ante della libreria dello studio: nel video sono chiuse, mente nel materiale della scientifica sono aperte, spalancate. Nel video il monitor del pc è nero, in stand by, mentre nelle foto della scientifica, scattate ore dopo, lo schermo è acceso. Qualcuno ha inquinato la scena del crimine? Errori che, in parte, sono stati persino ammessi dallo stesso giudice. Mancanze evidenti che hanno contaminato per sempre le dinamiche di quella tragedia e marchiato col mistero gli eventi di quella notte. Persino sulle carte, scritte nero su bianco, si ritrovano inesattezze inspiegabili. È nella prima ordinanza che il giudice certifica un errore investigativo che ha influenzato le indagini. L’ora della caduta di David viene posticipata di 26 minuti rispetto a quando è realmente avvenuta; il giudice inoltre crede che David sia rimasto in vita per qualche minuto mentre ne sono passati più di 20. Ma questo è solo l’inizio. Nella seconda ordinanza viene dato atto che la segretaria dell’amministrazione di Fabrizio Viola, Lorenza Pieraccini, è stata sentita come testimone dalla procura. Cosa che invece non è mai avvenuta e che succederà soltanto anni dopo durante il processo penale della moglie di David e del giornalista Davide Vecchi. La procura e il tribunale fanno un comunicato stampa per rispondere a “queste accuse” e giustificare il proprio operato. Secondo quanto dichiarano non è stato necessario analizzare i vestiti di David perché si dava per scontato che fosse stato un suicidio. E sul suo corpo? Perché non è mai stato fatto niente? Su questo la procura ammette che non vi è stato un accertamento medico-legale adeguato. E ancora. Sempre secondo la procura, “con il senno di poi” sarebbe stato necessario mantenere sotto sequesto i tovaglioli con il sangue. Anche se, secondo gli inquirenti, i risultati delle rilevazioni su quei pezzettini di carta non avrebbero potuto verificare se effettivamente prima della morte ci fosse stata una colluttazione che avrebbe provocato le ferite ritrovate sul corpo di David. Sulla presunta caduta dell’orologio, invece, la giustificazione è stata che la ferita sul polso di David è stata provocata dallo schianto del braccio sinistro a terra. Ciò che però lascia spazio ai dubbi, anche in questo caso, sono proprio le dinamiche del botto. David infatti, cadendo, sbatte prima il braccio destro e poi, quando è già sull’asfalto, quello sinistro in cui ha l’orologio. Ma se la cassa dell’orologio viene trovata adiacente alla mano destra di Rossi il cinturino, invece, misteriosamente finisce in basso a destra accanto alla scarpa dell’uomo. Eppure dal video non si vede nessun rimbalzo del cinturino che sarebbe dovuto schizzare in avanti e che, per giunta, non è stato notato neanche dagli operatori del 118 che hanno soccorso David. Per verificare questo punto però sarebbero servite le immagini del video anche nel momento dell’intervento dei sanitari. Quel pezzo di riprese che i pm non hanno mai richiesto.
Quelle ombre sulla procura dopo la morte di David Rossi. Lo strano caso dell'indagine sul giornalista che trovò le mail in cui Rossi annunciava di voler raccontare la verità su Mps. Costanza Tosi, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. È l’estate del 2013 quando la procura di Siena archivia il primo fascicolo sulla morte di David Rossi. Dal punto di vista giudiziario la vicenda del decesso dell’ex manager del Monte dei Paschi di Siena era stata scritta: suicidio. Poi il paradosso. La fine giudiziaria sarà l’inizio delle indagini che metteranno in dubbio proprio la dolorosa conclusione a cui erano giunti i pm. In quello stesso periodo Davide Vecchi, allora giornalista de Il Fatto Quotidiano si trovava a Siena. Stava seguendo la questione intricata degli scandali di Mps sulla compravendita di banca Antonveneta. “Iniziai a lavorare anche sulla morte del Rossi. Le vicende di Mps erano quasi giunte a termine. Avevano già fatto i maxi sequestri e noi stavamo 'levando le tende'. I fatti di quella sera furono una sorpresa", racconta Vecchi. Quando, a luglio, la procura iniziò a procedere veloce verso l’archiviazione del fascicolo gli atti d’indagine erano prossimi a diventare pubblici. “Tra il materiale sequestrato per le indagini saltarono fuori alcune mail - spiega Vecchi - Mail che David aveva mandato due giorni prima di morire all’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola". Mail nelle quali David anticipava la volontà di togliersi la vita e, anche e sopratutto, la volontà di andare a parlare con i magistrati. Nei messaggi, il manager senese diceva di aver lavorato con tutti, che avrebbe voluto parlare con i pm perché sapeva tutto di Mussari (ex presidente di Mps), della banca, della fondazione e del comune. “Quando trovai quello scambio di mail era il 4 luglio del 2013. Riportai tutto in un articolo e il giorno dopo venne pubblicato su Il Fatto Quotidiano”. Dopo la pubblicazione di quelle mail i pm indagarono Davide Vecchi e la vedova di David, Antonella Tognazzi. Il capo d’imputazione era “violazione della privacy”. Aver reso pubbliche quelle prove avrebbe violato la privacy di Viola. La cosa assurda è che “noi lo abbiamo saputo due anni dopo che c’erano delle indagini su di noi. Questo è indicativo per capire come agiva la procura…”. Dopo sei mesi, al massimo un anno, dall’inizio delle indagini a proprio carico, l’imputato dovrebbe essere avvisato e invece qualcuno stava indagando su di loro. A loro completa insaputa. “In quel periodo - racconta Vecchi - io venni anche convocato per un interrogatorio. Ed ero indagato”. Ancor peggio fu per la moglie di Rossi. Antonella andava a rivolgersi al pm, Aldo Natalini, titolare in quel momento del fascicolo sulla morte di Rossi e che quindi avrebbe dovuto occuparsi delle indagini sulla morte di David. Più volte aveva parlato con lui per capire come stavano procedendo e se ci fossero novità in proposito, per poi scoprire in realtà che Natalini non stava indagando sulla morte del marito, ma contro di lei. Secondo la procura, infatti, sarebbe stata proprio lei a fornire le mail al giornalista e tutto, a dire dell’accusa, per pubblicarle sul giornale in modo da ricattare la banca. Uno strano stratagemma per ricattare qualcuno...Ancora una volta la supposizione non sta in piedi. Ma questa presa di posizione sposterà i pm dalle indagini su David a quelle sul nuovo caso: la pubblicazione della mail tra il capo della comunicazione del Monte dei Paschi e l’amministratore delegato Fabrizio Viola. “Fu assurdo. Io neanche la conoscevo Antonella prima di finire insieme a lei in un aula di tribunale". Il processo è andato avanti per tre lunghi anni. L’accusa avrebbe voluto nove mesi di reclusione per Vecchi e sei per la Tognazzi. Un altro doloroso capitolo dell’assurda vicenda che si è poi chiuso con una sentenza di assoluzione piena nei confronti dei due indagati. Rivelandosi l’ennesimo scivolone della procura. Un errore che ha lacerato l’anima di una donna che si è vista accusata in un aula di tribunale a pochi mesi dalla scomparsa di suo marito. Un’ingiustizia che le è costata tre anni di processi e giustificazioni ad accuse infondate. Tre anni nei quali lei, ha continuato a lottare per qualcosa di ancora più grande e doloso. La verità sulla morte di David. Eppure, sebbene le ricerche su di lei partirono subito dopo la pubblicazione degli articoli di Vecchi, nello stesso momento le indagini su Rossi non solo vennero accantonate, ma si lavorò per far sparire alcune tra le altre prove in possesso degli investigatori. “Lo stesso Natalini aveva distrutto dei reperti fondamentali. Come i fazzoletti sporchi di sange trovati nel cestino dello studio di David. Li aveva distrutti senza analizzarli e prima ancora che il gip avesse disposto la prima archiviazione", spiega ancora Davide Vecchi. In quel periodo infatti il gip aveva ricevuto la richiesta di archiviazione. Ma, dopo la pubblicazione delle mail, che erano state, di fatto, un campanello d’allarme per provare a riprendere in mano le prove che non erano state prese in considerazione fino a quel momento, avrebbe potuto procedere con una proroga che permettesse di fare ulteriori indagini in un momento in cui ancora era possibile tirare fuori qualsiasi cosa dagli elementi acquisiti e in cui, per giunta, gli investigatori sarebbero stati ancora in tempo di richiederne altri. “Il pm dispone la distruzione di quelle prove ad agosto. In pieno agosto. Due giorni prima di ferragosto. Quando a Siena non è solo il giorno di ferragosto ma c’è il palio. Lì, lo sappiamo, per l’evento si ferma tutto. E loro invece si sono presi la briga di andare a distruggere dei reperti. Questa, per me, rimane una delle cose più inspiegabili".
David Rossi, le prove distrutte: cosa hanno voluto nascondere? Ecco tutto quello che la magistratura non ha fatto nelle prime indagini. Gli errori che oggi, potrebbero costare il prezzo di una mancata verità. Costanza Tosi, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. Niente è rimasto uguale dal giorno in cui David Rossi ha perso la vita. La vicenda che descrive la scomparsa di quell’uomo, anche a distanza di anni, non si è mai cristalizzata. Mese dopo mese, nuovi capitoli del tragico racconto sono stati scritti. Dalle testimonianze (poche), dalle indagini dei periti (molte) e grazie alla famiglia che non ha mai smetto di chiedere giustizia. Della tragica morte del mangaer del Monte dei Paschi di Siena solo una cosa è rimasta ferma da quel giorno di marzo del 2013. La verità giudiziaria. “Dal punto di vista processuale siamo fermi al processo principale. Le indagini sulle cause della morte del dottor Rossi sono di fatto state archiviate. Per ben due volte", ci spiega Carmelo Miceli, legale della famiglia Rossi. "Sono aperte delle indagini parallele. Delle indagini collegate presso altra procura di altro tribunale. Delle indagini che potrebbero essere collegate presso lo stesso tribunale di Siena". La prima archiviazione del caso che definiva il decesso del capo della comunicazione di Mps un suicidio è avvenuta immediatamente dopo la scomparsa di David. Dopo alcuni mesi, con il dissequestro del materiale da parte della procura di Siena, la manacata accuratezza nelle indagini emerse in maniera tanto chiara quanto dolorosa. L’ipotesi accreditata dalla magistratura non era l’unica pista percorribile, secondo gli indizi suggeriti dalle prove rinvenute della scena del crimine. "Io credo che ci sia stato un condizionamento molto forte, all’inizio, da parte di chi, a tutti i costi, vedeva in quei fatti un suicidio - continua Miceli - E quindi questa visione ha condizionato tutto. È una teoria che condiziona gli eventi. Di fatto qualsiasi cosa è stata affrontata, nella migliore delle ipotesi, con il massimo della superficialità". Una superficilità che, oggi, potrebbe costare il prezzo di una mancata verità. Dopo due anni il caso viene riaperto. Per la prima volta si iniziano a fare delle indagini. Si comincia ad andare a fondo su tutti gli aspetti fondamentali tralasciati durante i primi accertamenti. Il magistrato che si occupa del caso deciderà di riniziare a mettere in ordine tutti i tasselli dell’assurda vicenda. E lì scoprirà che, molte delle informazioni fondamentali per arrivare a comprendere le dinamiche di quello che fino a quel momento era stato definito un suicidio, sono andate perdute. Il tempo aveva reso gli errori della procura di Siena irrecuperabili. Non sono mai stati chiesti nell’immediato i tabulati delle celle telefoniche di tutti cellulari che sono transitati nei pressi della banca nelle ore dell’accaduto. Se fosse stato fatto avrebbero, ad esempio, potuto rintracciare l’identità dell’uomo, mai identificato, che ad un certo punto entra nel vicolo in cui si trovava il corpo di David con un telefono all’orecchio. I vestiti di David non sono mai stati sequestrati, sui suoi indumenti nessuno ha mai fatto delle analisi. Così come sulle ferite identificate sul corpo dell’uomo. Non è mai stato fatto l’esame istologico. Indagini che avrebbero permesso di capire il momento in cui David si sarebbe procurato quelle ferite e, forse, tolto i dubbi su una possibile colluttazione avvenuta proprio quella sera, prima che il corpo di David precipitasse. Non si è fatto immediatamente l’esame del Dna sul corpo di David. Né sul suo orologio, né sui suoi telefoni cellulari. I fazzoletti sporchi di sangue ritrovati nel cestino del suo ufficio non sono mai stati analizzati e distrutti dalla procura il 14 di agosto, prima ancora che fosse decretata l’archiviazione del caso. "Quei fazzolettini sono stati confiscati al pm un giorno dopo aver avanzato una richiesta di archiviazione - spiega l’avvocato - e quindi a processo ancora in corso, a indagine ancora in corso, senza una pronuncia dell’autorità giudiziaria, in pendenza del termine per l’opposizione". Di chi era quel sangue? Rimane un mistero.
Non sono mai state acquisite le immagini di tutte le telecamere interne ed esterne alla banca, escluso quella che ha ripreso la caduta. Elementi che avrebbero permesso di identificare tutte le persone che avevano transitato fuori e dentro la banca in quelle ore. Anche il video rinvenuto non è integrale ma è stato tagliato. Parte un minuto prima della caduta e finisce prima dell’arrivo dei soccorsi. La procura non ha aperto nell’immediato un fascicolo per il reato di omissione di soccorso per ritrovare la persona che entra nel vicolo con il telefono all’orecchio dopo le 20. A novembre del 2015, nel momento della riapertura del caso, niente di tutto ciò era ormai più recuperabile. In quei due anni, il tempo trascorso ha reso impossibile ritrovare tutti gli elementi mai presi in considerazione e utili a capire se quello di David è stato davvero un suicidio. "Ci sono ancora molte cose che si possono fare", ammette senza ombra di dubbio l’avvocato Miceli. “Ora è necessario comprendere se quella caduta è una caduta accidentale o meno, comprendere se all’atto della caduta David fosse o meno lucido e vigile, comprendere se prima di quella caduta ci siano state delle colluttazione che darebbero una spiegazione palese ai segni rinvenuti sul corpo, comprendere dove sono avvenute quelle colluttazioni e quindi da lì comprendere chi era in prossimità del luogo in cui tutto è avvenuto. Accertate queste cose sarà più semplice risalire al movente". Una ricerca della verità che prosegue attraverso le indagini della famiglia che, assieme al legale, attende di comprendere le ragioni per cui pende un procedimento a Genova, la procura compente per reati che hanno o come persona offesa o come indagato altri magistrati, per il sistema di rotazione di Siena. “Siamo curiosi di capire se e cosa deciderà Genova e poi all’esito faremo le nostre valutazioni per capire se depositare un’eventuale istanza di riapertura”. Parallelamente è stata avviata anche un’azione parlamentare, su proposta dell’onorevole Valter Rizzetto, di Fratelli d’Italia, è stata presentata una proposta di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta. Sottoscritta e condivisa da tutti i gruppi parlamentari. “È ancora al vaglio della capigruppo della Camera dei Deputati e aspettiamo che almeno questa venga esitata per comprendere almeno se, ancorchè in sede parlamentare, si possano nel frattempo avviare i dovuti approfondimenti", spiega Miceli. Che poi ammette: "Non mi preoccupa il tempo trascorso. La giurisprudenza ci dice che, a distanza di trent’anni, ci sono state sentenze di primo grado per omicidio che hanno reso giustizia alle vittime".
David Rossi, in vendita online il "suo" orologio: “Lucrano sul nome di mio padre”. Le Iene il 23 settembre 2019. Alcuni annunci sfruttano la morte del manager di Mps per guadagnare su internet, e non è la prima volta: “Avevano già messo in vendita alcuni suoi quadri: mia madre li ha ricomprati per non lasciarli a quella gente”, dice a Iene.it la figlia Carolina Orlandi. “David Rossi e l’orologio della discordia”, “David Rossi e le ombre segrete sull’orologio di Rocca Salimbeni”: questi sono solo alcuni degli annunci online che sfruttano il nome del manager di Mps per lucrare in modo macabro sulla sua morte. Appaiono su vari siti, mostrano un modello Sector Expander 308, come quello appartenuto a David Rossi, morto il 6 marzo 2013 in circostanze sospette. “Ma ovviamente non è il suo”, dice a Iene.it la figlia Carolina Orlandi. “Non sappiamo se queste persone vogliono vendere orologi dello stesso modello sfruttando la vicenda di mio padre, o se invece è semplicemente una truffa. In ogni caso stiamo valutando di prendere provvedimenti”. Non è la prima volta, purtroppo, che qualcuno cerca di guadagnare con il nome di David Rossi: “Qualche anno fa mio padre aveva venduto dei quadri all’asta, e dopo la sua morte le opere erano finite online a prezzi esagerati sfruttando in maniera veramente vergognosa quello che è successo. Alla fine li aveva ricomperati mia madre, per evitare che rimanessero nelle mani di questa gente orribile”. Noi de Le Iene ci occupiamo da tempo del caso della morte del manager. David Rossi era il capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena quando il 6 marzo 2013 è volato giù della finestra del suo ufficio, mentre l’istituto era al centro di una bufera finanziaria e mediatica. Ma si è trattato di un suicidio o di omicidio? Sono molti i punti che non tornano in questa vicenda, che abbiamo ricostruito nello speciale di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti che potete vedere qui sopra. Nel caso, l’orologio di Rossi gioca un ruolo importante: sarebbe infatti stato gettato dalla finestra venti minuti dopo la caduta del corpo, secondo uno studio disposto dai familiari del manager. E questo dimostrerebbe che nella stanza, subito dopo la caduta, ci sarebbe stato qualcuno. Nonostante le due archiviazioni delle inchieste sulla morte, considerata un suicidio, la famiglia continua a chiedere giustizia nella convinzione che qualcosa non torni nella ricostruzione della magistratura. E dopo le nostre inchieste, i parlamentari di tutte le principali forze politiche hanno chiesto che sia istituita una commissione d’inchiesta per far luce su tutti quei punti oscuri ancora aperti. “La caduta del governo, purtroppo, ha bloccato tutto” chiude Carolina. “Siamo deluse, c’è sempre qualcosa che ostacola la ricerca della verità. Adesso speriamo che il nuovo esecutivo tenga fede alla volontà espressa da tutti i partiti e si vada avanti con la commissione”.
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 23 settembre 2019. Un dolore tanto profondo quanto silenzioso. Una mancanza quotidiana che si appalesa ad ogni passo, ad ogni respiro. Ma anche la consapevolezza che la verità sulla morte di suo padre David Rossi un giorno si raggiungerà. La persona che lotta per tutto questo è Carolina Orlandi, figlia della moglie di Rossi - Antonella Tognazzi, intervistata la settimana scorsa da Libero. Carolina, che ha sempre considerato il manager morto il 6 marzo del 2013 in circostanze non ancora chiarite «l' altro padre». «Sì, David era per me come un padre. Sono cresciuta in una famiglia allargata, che si è sempre voluta bene e rispettata» racconta Carolina, per cercare di far comprendere quale legame sostanziale ci fosse. Un legame che diventa ancora più palpabile leggendo il libro che Carolina ha scritto, intitolato "Se tu potessi vedermi ora" (Mondadori editore). Il quale, oltre a valerle il Premio Stresa 2018, è il racconto-memoriale di un rapporto profondo tra padre e figlia, dove il legame è ancora più forte perché non di sangue.
Carolina, raccontaci la sera del 6 marzo del 2013.
«Era apparentemente una sera come tante altre, ma David in quel periodo era molto nervoso. L'inchiesta sul Monte dei Paschi l'aveva messo sotto pressione e lui aveva la responsabilità di difendere la banca. Io sono tornata a casa un po' prima perché avevo voglia di parlargli, ma quando arrivai David non era ancora tornato».
E tua madre?
«La mamma era a casa malata e, appena vista, mi manifestò le sue preoccupazioni: papà non era tornato e questo la rendeva inquieta. In più non rispondeva agli sms e la preoccupazione, a quel punto, si trasformava in ansia».
E che cosa fece tua madre?
«Chiamò Giancarlo Filippone, amico e collaboratore di mio padre, per chiedere se sapeva qualcosa e dirgli che sarei andata alla banca per cercarlo».
Filippone (la persona, ripresa dalle telecamere, che si affaccia per poi allontanarsi nel vicolo dove è ripreso il corpo agonizzante di David) che cosa disse a tua mamma?
«Disse a mia mamma di dirmi di aspettarlo fuori, nella piazza antistante. Questa circostanza inizialmente non mi sembrò per nulla strana, ma con il passare del tempo e con l' andare avanti delle indagini cambiai opinione».
Da che cosa sei stata colpita, dal fatto che Filippone ti abbia detto di aspettarlo fuori?
«Quello sinceramente no, perché poteva essere una delicatezza verso una ragazza di ventun anni. La cosa che mi ha sempre sorpreso è come Filippone fosse arrivato alla Banca. Era tutto di corsa, agitatissimo, come se si immaginasse già qualcosa di brutto. La mia sensazione, ex post, è quella di una persona che aveva visto poco prima qualcosa nella stanza di mio padre che non andava, e che dopo la telefonata di mia mamma aveva già capito che poteva essere successo qualche cosa».
E poi che cosa accadde?
«Salimmo nella stanza di David e Filippone mi chiese di rimanere fuori dalla porta, che era chiusa: sarebbe entrato solo lui. Ricordo ogni attimo di quei minuti: a un certo punto sento il respiro affannato di Filippone che si avvicina e mi dice "una tragedia, David si è ammazzato". Mi cade il mondo addosso e proprio in quel momento squilla il telefono di Giancarlo: era mia mamma. Mai dimenticherò il suo urlo. Io scappai via».
In che senso?
«Volevo correre da mia mamma. Cercai la strada per uscire e in quel mentre vidi l’altro collega di David, Bernardo Mingrone, e il portiere del Monte Paschi, Massimo Ricucci».
E tua mamma?
«Arrivai a casa e la trovai in stato di choc. Quando sentimmo l'ambulanza passare, la nostra casa era in centro a Siena e a pochi minuti dalla sede della banca, i nostri sguardi si incrociarono: capimmo che non c'era più nulla da fare».
Quale era stata la tua prima valutazione sull'accaduto?
«Sinceramente pensai che David si fosse effettivamente suicidato».
Quando hai percepito il primo segnale che qualche cosa di strano era accaduto e che tuo padre, più che essersi tolto la vita, poteva invece essere stato ucciso?
«Fin dal giorno seguente. Immediatamente il pm Marini non dispose l' autopsia di David, ma la distruzione del corpo. Come sai l' autopsia è dovuta per legge, e quella negligenza mi fece capire che si voleva subito chiudere il caso».
Quali altre chiamiamole "disattenzioni" ritieni siano state fatte in fase di indagine?
«Sono talmente tante, le negligenze, che la lista sarebbe davvero infinita. Credo che tutta la fase di reperimento delle informazioni e delle prove sia stata condotta in modo non adeguato alla gravità dell' accaduto. La sensazione, ripeto, è che si volesse chiudere tutto con troppa fretta, derubricando il fatto come "suicidio". Il fatto è che indagare su mio padre morto per un omicidio mentre il Monte dei Paschi era sotto inchiesta per l' acquisizione di Banca Antonveneta, era scomodo e inopportuno».
Mi fai qualche esempio di "leggerezze" investigative?
«Il procuratore Natalini dispose la distruzione dei fazzoletti intrisi di sangue trovati nel cestino della stanza di David. Certo, poteva essere il sangue di mio padre, ma una analisi sarebbe stata importante e avrebbe eliminato ogni dubbio. Così come la restituzione e poi la distruzione dei vestiti di David a mia zia, senza nemmeno analizzarli. E ancora: fuori da Monte Paschi esistono credo una quindicina di telecamere che riprendono ogni movimento che avviene lì davanti, ma nessuna immagine è stata recuperata se non quella del vicolo dove per più di venti minuti agonizzava e moriva David. In più fu recuperata solo un' ora di immagini di quella telecamera, dalle 19,59 alle 20,59: perché?».
Mi stai dicendo che dalle indagini hai capito che c' era qualcosa che non andava?
«Ma certamente. Considera che il corpo di David era pieno di segni non compatibili con la caduta . Il torace aveva segni importanti, i polsi avevano lividi. Le scarpe erano rovinate sulla punta come se mio padre avesse cercato di risalire dentro la finestra. Man mano che passava il tempo, capii che non poteva essere un suicidio».
Mi hai detto che ci sono tante telecamere: ma il portiere di Monte Paschi non si è mai accorto di nulla, guardando il monitor della sua guardiola?
«No. Massimo Ricucci non ha visto nulla. Quasi mezz' ora in cui David moriva, e lui nulla».
È ancora a Monte Paschi, lui? Hanno intrapreso iniziative disciplinari, che tu sappia?
«Sì, il custode a cui è "sfuggita" l' agonia di David lavora ancora lì, e non credo che alcun provvedimento disciplinare sia stato preso».
Come era il rapporto con tuo padre?
«Era un rapporto eccezionale. Mio padre era riservato e non faceva mai trapelare la sua sensibilità e la sua dolcezza. Era un uomo che non ha mai fatto mancare nulla a mia madre e a me. E in più era colto: sapeva tutto, leggeva e mi stimolava a leggere, io non vedevo l'ora di finire un libro per potermi confrontare con lui. Condivideva il mio progetto di diventare giornalista e mi spronava continuamente».
Ti manca?
«Mi manca confrontarmi con lui nelle scelte professionali che sto facendo, vorrei sentire la sua voce che mi consiglia per il meglio. E sai una cosa? Una sera gli dissi che volevo scrivere un libro, lui mi rispose che per farlo bisognava avere qualcosa da raccontare. Ora, nel mio primo libro, ho raccontato la più dura delle storie: la sua».
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 15 settembre 2019. Antonella Tognazzi è la vedova di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Monte dei Paschi, la banca di Siena e una delle più importanti d' Italia, trovato morto la sera del 6 marzo del 2013 nel vicolo dove affacciava la sua stanza all' interno dell' istituto di credito. La caduta di David Rossi e la sua agonia durata quasi un' ora restano un ricordo indelebile e violento per ognuno di noi. Quelle ombre che si avvicinano subito dopo la sua caduta, riprese dalle telecamere di sorveglianza, per poi andare via senza prestare soccorso sono il paradigma di una violenza umana che è impossibile da spiegare. Poi i soccorsi che, dopo pochi minuti e già nel primo referto scrivono "suicidio", come a voler chiudere in fretta una vicenda inopportuna e scivolosa per troppe persone. La parola "suicidio" copre tutto, e lascia alla fragilità di chi non c' è più la responsabilità di un gesto senza ritorno. Dietro alla vicenda giudiziaria, che vanta ben due archiviazioni (mentre, in genere, in Italia si manda a giudizio per qualsiasi cosa), esiste potente la parte umana di una donna che con sua figlia si è vista privare dell' amore più caro, e che pretende giustizia.
Antonella, a che punto siamo processualmente?
«Dopo le due archiviazioni, stiamo aspettando che la Procura di Genova concluda le indagini nei confronti della Procura di Siena».
Sei fiduciosa che qualcosa possa accadere?
«Io ho sempre avuto fiducia nella giustizia. Viviamo in uno stato di diritto e credo che la verità, prima o poi, possa emergere».
Ad oggi però questo non è accaduto, anzi sembra che ci sia stata sempre una fretta incredibile a chiudere tutto con la parola "suicidio". O sbaglio?
«Gli unici che sono andati a processo siamo io e il giornalista Davide Vecchi, rei secondo la Procura di aver violato la privacy per la pubblicazione di uno scambio di mail tra Rossi e l'ex amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola. Naturalmente siamo stati assolti perché "il fatto non sussiste"».
Che cosa si aspetta da questa nuova indagine?
«Intanto spero che nessuno sia stato reticente come accaduto precedentemente, e spero che ci sia il coraggio di rimarcare tutte le lacune e gli errori che ci sono state in fase di indagine. Io e mia figlia Carolina siamo state già sentite».
Tante sono state le lacune durante le indagini, molte evidenziate sia da libri come quello di sua figlia Carolina ("Se tu potessi vedermi ora", Mondadori) e l' altro di Davide Vecchi «"Il caso David Rossi.
Il suicidio imperfetto del manager Mps", Chiarelettere)che da inchieste televisive come quelle delle "Iene" . Come mai secondo lei nessuno ha pensato di riaprire le indagini e andare a processo?
«Io credo che archiviando la morte di mio marito come suicidio si sia messo a tacere tutto. Far luce sulla morte di David sarebbe scomodo per tanti».
Che tipo era suo marito?
«David era un uomo molto dedito alla famiglia, serio e per bene. Ai più poteva sembrare non simpatico, in realtà era semplicemente un tipo schivo e taciturno».
Che cosa accadde quella sera?
«Io non stavo bene e alle 19 chiamai David per chiedere se passava a prendere delle medicine; deve sapere che mio marito non faceva mancare mai nulla, era un uomo attento a ogni sfumatura che mi riguardasse. In quella telefonata lui mi disse che dopo mezz' ora sarebbe stato a casa».
E invece?
«Il tempo passava e lui non arrivava, così cominciai a chiamare ripetutamente e gli mandai dei messaggi, "così mi fai preoccupare"».
Perché lei si preoccupava se poteva essere semplicemente al lavoro?
«Guardi, a parte che David era puntuale e, sapendo che mi servivano delle punture per il mio malessere, mai avrebbe tardato, e poi in quei giorni era molto teso per la vicenda che stava attraversando il Monte dei Paschi»
C'è qualcosa che ricorda di quel periodo?
«Mio marito voleva riferire ai magistrati e in questo senso aveva scritto una mail all'amministratore delegato».
Pensa che questa sua volontà di parlare con i magistrati possa aver allarmato qualcuno?
«Penso di sì; ricordo quando mia figlia si accorse dei tagli ai polsi e chiese spiegazioni, la risposta di David fu "non parlare mai di questa cosa ne a casa ne fuori". Un atteggiamento che non era da lui».
Quei tagli sui polsi secondo lei se li inflisse lui stesso?
«Ma come è possibile, visto che sono stati fatti da destra a sinistra, dunque al contrario rispetto a quello che sarebbe stato normale se se li fosse inflitti lui da solo?».
Poteva essere un avvertimento?
«Non so. Ma sicuramente non se li è causati lui».
Torniamo a quella sera: dunque suo marito non rispondeva al telefono. E lei che cosa fece?
«Avvisai mia figlia, che chiamò il signor Giancarlo Filippone per avere notizie mentre si dirigeva verso Montepaschi».
Filippone è la persona che si vede nel video entrare nella strada, vedere suo marito e tornare indietro?
«È lui. Rispose a Carolina di andare verso piazza Salinbeni e di aspettarlo fuori.
Strano, no?».
Sua figlia arrivò. E poi?
«Salirono insieme nella stanza di David ed entrò solo Filippone, che guardando giù dalla finestra disse: "È successa una tragedia". Mia figlia mi avvisò e corse a casa da me. Da quel momento la mia vita, la mia bella vita con al fianco mio marito, cambiò per sempre. E cambiò anche per mia figlia, che era legatissima a lui pur non essendo suo padre».
Lei si è sempre battuta come un leone per arrivare alla verità. Mai nessuno le ha chiesto scusa per ciò che è accaduto?
«Poco tempo fa il procuratore di Siena Vitello mi ha chiesto scusa per il processo a mio carico. Da una parte mi ha fatto piacere perché è il riconoscimento di qualcosa che non ha funzionato, ma dall' altra spero che proprio per questo si possano riaprire le indagini».
Lei mi ha detto che non ha mai visto le immagini della caduta di suo marito.
«Non sono riuscita e non riuscirò mai. Credo che ci siano così tante cose che non tornano che c' è solo l' imbarazzo della scelta. Ci vorrebbe un po' di desiderio di verità».
Al di là di tutte le incongruenze e gli errori nelle indagini, perché lei è convinta che David non si sia suicidato?
«David è stato ucciso! Mai e poi mai avrebbe fatto un gesto così sapendo del dolore che mi avrebbe provocato. La nostra era una meravigliosa storia d' amore, unica e irripetibile, e lui era "l' altro padre" per mia figlia Carolina. Noi siamo una bellissima famiglia allargata, dove il mio ex marito e sua moglie mi sono stati sempre accanto. C' era una grande armonia tra di noi».
Che cosa spera che succeda adesso?
«Voglio che venga aperto un fascicolo su David con la scritta "omicidio " e non "suicidio". E sono convinta che ci riuscirò».
Non è l'arena, la figliastra di David Rossi inchioda Papa Francesco: "Parla di rivoluzioni, poi...", scrive l'8 Aprile 2019 Libero Quotidiano. A Non è l'arena di Massimo Giletti si torna a parlare della strana, stranissima, morte di David Rossi, l'ex capo della comunicazione di Mps. Il caso, come è noto, è tornato di strettissima attualità in seguito all'inchiesta de Le Iene, che ha sollevato tantissimi dubbi sull'ipotesi di suicidio. Ipotesi a cui non crede neppure la figliastra di Rossi, Carolina Orlandi, che era ospite di Giletti nello studio di La7. E dopo aver rivolto un appello a Papa Francesco proprio a Le Iene, a Non è l'arena torna a rivolgersi al Pontefice. Il punto è che l'ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, al programma di Italia 1 ha rilasciato una pesantissima intervista in cui spiega che in un qualche modo la morte di Rossi potrebbe essere legata proprio allo Ior e a vicende vaticane. Dunque, la Rossi da Giletti va dritta al punto: "Io chiedo a Papa Francesco di sciogliere dal segreto queste persone che potrebbero avere informazioni sulla morte di David e su quei conti". E ancora: "Papa Francesco ha parlato di Rivoluzione della Chiesa, penso sia arrivato il momento dio metterla in atto, non si può permettere un coinvolgimento del Vaticano in questa morte", ha concluso. Il Papa la ascolterà?
Le Iene, appello a Papa Francesco per la morte di David Rossi: Mps, uno scoop clamoroso, scrive il 4 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un appello rivolto direttamente a Papa Francesco, al quale viene chiesto di sciogliere dal segreto chi, forse, potrebbe sapere qualcosa tra chi ha lavorato in Vaticano con Monte dei Paschi di Siena. L'appello, a Le Iene, lo rivolge Carolina Orlandi, figlia di David Rossi, il padrigno caduto dalla finestra dello studio di Mps a Siena nel 2013, il responsabile dell'area comunicazione la cui morte continua ad essere un mistero. La Orlandi ha infatti scritto un libro in cui sostiene una tesi differente da quella ufficiale, tesi sposata da molti e su cui indaga il programma di Italia 1: ovvero che David Rossi non si sia suicidato. Ora anche l'appello a Bergoglio, una lettera pubblica in cui gli chiederà di svincolare dal segreto chi lavorava allo Ior o in altri organismo del Vaticano e che potrebbe essere a conoscenza di fatti utili per risolvere il mistero. Il punto è che l'inviato de Le Iene, Antonino Monteleone, nel corso di uno speciale dedicato alla vicenda, ha proposto inquietanti dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior. Solo pochi giorni prima della morte di Rossi, avvenuta il 6 marzo 2013, Benedetto XVI lasciava il soglio di Pietro, le storiche "dimissioni" da Papa del 28 febbraio 2013. Secondo alcune indiscrezioni lo avrebbe fatto anche per i troppi problemi incontrati nel rendere trasparenti i conti del Vaticano. Ratzinger aveva affidato nel 2009 questo incarico, come presidente dello Ior a Ettore Gotti Tedeschi, "sfiduciato" dal Consiglio di Sovrintendenza dello Ior nove mesi prima. Sulla scrivania di Rossi, fu ritrovato un bigliettino scritto a penna con il nome e il numero di Gotti Tedeschi. Monteleone dunque ha chiesto all'ex presidente dello Ior dei chiarimenti. E ne è uscita un'intervista clamorosa in cui ha parlato anche di tangenti e omicidi. In un secondo colloquio si è parlato anche di quattro presunti conti correnti che sarebbero stati aperti presso la banca del Vaticano e che sarebbero riconducibili a uomini della Fondazione Mps. Dopo queste rivelazioni, dunque, la mossa di Carolina Orlandi: un appello al Papa per fare luce su uno dei più misteriosi casi di cronaca degli ultimi anni.
Mediaset. Le Iene il 21 maggio 2019. C’è un nuovo testimone sui presunti “festini a luci rosse” a cui secondo alcune testimonianze raccolte avrebbero partecipato anche magistrati che indagavano sulla morte di David Rossi. L’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla morte dell’allora capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi, precipitato giù da una finestra della sede della banca il 6 marzo 2013, ha fatto emergere il caso “festini”. A fare riferimento a “una villa al mare dove facevano i festini” è stato per primo l’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, in un incontro con la Iena. “…Ci andavano anche i magistrati senesi?”, si chiede Piccini, “ci andava anche qualche personaggio nazionale? Mah…”. Ora un uomo si sarebbe presentato alle forze dell’ordine di Siena dicendo di essere a conoscenza di particolari proprio su questi festini e sarebbe disposto a parlare. Gli atti saranno trasmessi nei prossimi giorni alla procura di Genova. Antonino Monteleone, nell’approfondire la pista dei “festini”, aveva incontrato un escort che vi avrebbe partecipato. L’uomo ci ha raccontato di feste a base di sesso e droga “per intrattenere ospiti di alto profilo”. Avrebbero partecipato, secondo i suoi racconti, esponenti di spicco del mondo senese (compresi dirigenti Mps, tra questi non c’era David Rossi) e nazionale. Antonino Monteleone gli ha mostrato alcune foto di questi personaggi e lui ha riconosciuto precisi esponenti, pur avendo dichiaratamente paura di eventuali ritorsioni. Ovviamente politici, dirigenti bancari, magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine nel privato possono fare quello che vogliono. Partecipare a festini gay a base di droga, potrebbe esporli però a ricatti. L’ipotesi di Piccini era appunto che, su David Rossi, “la magistratura potrebbe avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale”. Che possa insomma aver insabbiato tutto per evitare che scoppiasse anche questo caso. Dopo il nostro incontro con l’ex sindaco, la Procura di Genova ha aperto un fascicolo per abuso d'ufficio a carico di ignoti. Mentre i pm senesi hanno presentato querela per diffamazione per le dichiarazioni di Piccini.
David Rossi, speciale Iene/1: si tratta di suicidio o di omicidio? Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Prima parte dello speciale Iene dedicato alla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi precipitato giù da una finestra della sede della banca il 6 marzo 2013. Prima parte dello Speciale Le Iene “Caso David Rossi: suicidio o omicidio?”. Torniamo a parlare, a un anno dagli ultimi servizi sul caso, con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, di David Rossi, capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, morto la sera del 6 marzo 2013 in circostanze che molti, a partire dalla famiglia, considerano più che misteriose. La giustizia italiana ha archiviato per due volte l’indagine su questa morte come suicidio. David Rossi muore a 51 anni nel mezzo della più grande tempesta finanziaria dal dopoguerra a oggi, che ha visto nel mondo 70 banchieri morti per ragioni non naturali. Ripartiamo da quanto ci ha detto Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena ed ex dirigente Mps: “La città è convinta che sia stato ucciso”. Piccini ci ha parlato anche di “una villa al mare dove facevano i festini”: “ci andavano anche i magistrati senesi? Ci andava anche qualche personaggio nazionale? Mah…”. Per queste dichiarazioni Piccini è stato indagato per diffamazione assieme a Le Iene dalla procura di Genova, competente a procedere su fatti che riguardano i magistrati toscani. A Genova è stato aperto anche un fascicolo per presunte omissioni e abusi d’ufficio commessi dai pm senesi nelle indagini sulla morte di David Rossi. Abbiamo incontrato anche un ragazzo che ci ha detto di aver partecipato a quei festini come escort “per intrattenere ospiti di alto profilo”. Il Corriere di Siena intanto riferisce che sul caso la Procura “segue un nuovo elemento”. Anche noi ne abbiamo raccolti moltissimi.
David Rossi: il video della morte e tutti i dubbi. Speciale Iene/2. Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Ci concentriamo ora, nella seconda parte dello speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, su tutti i dubbi che sorgono guardando il video della sua morte. 6 marzo 2013, ore 20.45: dalla sede centrale del Monte dei Paschi di Siena, al centro da mesi di una bufera giudiziaria, mediatica e finanziaria, viene chiesta un’ambulanza perché “si è suicidata una persona”. David Rossi, da 7 anni capo della comunicazione e quindi uno dei manager più importanti della terza banca d’Italia, viene trovato riverso a terra dopo essere volato giù dalla finestra del suo ufficio al terzo piano. Eccoci alla seconda parte dello Speciale Iene su questo caso. “Quando ho visto le immagini degli ultimi minuti di vita di mio padre ho capito che forse non era stato un suicidio” ci dice Carolina Orlandi, figlia della moglie di David Rossi, Antonella Tognazzi. Anche Antonella non crede al suicidio. David Rossi due settimane prima della morte subisce una perquisizione. I magistrati stanno indagando sull’acquisto nel 2007 di Banca Antonveneta da parte di Mps per 9 miliardi di euro (invece dei 6 del suo valore). Un’operazione, che con i debiti accumulati da Antonveneta, arriverebbe a un costo di 16 miliardi. La magistratura indaga sui presunti trucchi finanziari usati per nascondere i debiti di Mps dopo quell’acquisto. Guardando le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza in vicolo Monte Pio, si vede la caduta mortale di David alle 19.43. Passano 22 minuti in cui resta agonizzante senza soccorso, poi altri 40 prima che qualcuno chiami l’ambulanza. Luca Scarselli, consulente informatico della famiglia, sostiene che la caduta diritta, senza slancio e rotazione, non è quella di un suicida. Perché nessuno interviene in un’ora in cui la zona è molto frequentata? Secondo Scarselli, l’unica ipotesi è che l’entrata del vicolo sia stata bloccata per esempio con un veicolo e delle persone che controllavano. Nel video si vedono in effetti dei fari e alle 20.11 si vede comparire un uomo con il telefono all’orecchio che si affaccia come per controllare. Perché nessuno ha cercato di sapere chi era? Nelle immagini si intravede comparire un’altra ombra, pochissimi minuti dopo la caduta, senza vederne l’uscita (qualcuno ha manomesso il video?). I primi a comparire riconoscibili nel video, un’ora dopo, sono Giancarlo Filippone, al tempo capo della segreteria di David Rossi, e Bernardo Mingrone, ex capo dell’area Finanza di Mps, quello che chiama l’ambulanza. Entrambi sembrano molto freddi, secondo Antonella Tognazzi. Carolina Orlandi ci racconta che Filippone, uno delle ultimi ad averlo visto vivo, l’aveva da poco accompagnata nell’ufficio del padre, chiedendole di restare fuori. “E’ uscito con le mani nei capelli: ‘Carolina, una tragedia: s’è ammazzato’”. Filippone, amico fin da ragazzo con David che ora ha chiuso i rapporti con la sua famiglia, si è rifiutato di parlare con noi. Mingrone parla invece con Antonino Monteleone e si dice convinto che si sia trattato di un suicidio, ma non vuole approfondire. Torniamo alle immagini della morte: David ha delle ferite sul labbro e sul naso e contusioni sul viso che non sarebbero riconducibili alla caduta. E un segno profondissimo sul polso sinistro dove portava sull’orologio. Per Paolo Pirani, avvocato del fratello maggiore di David, Ranieri, è frutto di una “presa”: “qualcuno gli ha afferrato il polso”. Ci sono lividi sul braccio destro (con quattro segni che sembrano lasciati da una mano), contusioni anche sul braccio sinistro, un ematoma sulla pancia che sembra la conseguenza di un pugno e una contusione all’inguine. Tutto questo, secondo il nuovo avvocato della vedova di David Rossi, Carmelo Miceli, vorrebbe dire che “prima di volare dalla finestra è stato picchiato”: “Autolesionismo? Anche la procura in questo caso non si spiega i segni sul volto”. “Secondo la testimonianza di una collega, Lorenza Bondi, alle 20.05 la porta dell’ufficio di David era aperta”, dice l’avvocato Pirani. “Mezz’ora dopo la porta è chiusa, David Rossi è caduto alle 19.43”. Chi ha chiuso quella porta? Lorenza Bondi non vuol parlarne però con noi di quella sua testimonianza. E Massimo Ricucci, di turno in portineria alla sorveglianza delle telecamere quella sera? Dice di non aver visto niente. Con Antonino Monteleone anche lui si rifiuta di parlare con modi molto bruschi. Altro elemento ancora senza spiegazione: nelle immagini si vede volar giù un oggetto vicino al corpo, mezz’ora dopo la caduta, alle 20.16, nella zona dove è stato ritrovato l’orologio, con la lancetta delle ore ferma tra le 20 e le 21 (quella dei minuti è staccata). “Sempre alle 20.16 qualcuno dal telefono di David mi ha risposto per tre secondi: tutti questi dettagli mi fanno pensare che c’era qualcuno nel suo ufficio a quell’ora”, ci dice Carolina Orlandi. Subito dopo, sempre dal suo telefono parte una chiamata verso un numero misterioso, il 4099009. Telecom Italia prima parla di una conversazione durata pochi secondi, poi che quel numero è quello di una “Sos ricarica per credito esaurito”. Il perito e consulente informatico Simone Bonifazi sostiene che nei tabulati non c’è quel numero, Carolina Orlandi aggiunge che David aveva un abbonamento, non una scheda ricaricabile. Prima di concentrarci, nel prossimo appuntamento, su quello che non tornerebbe nelle indagini e nelle conclusioni dei giudici, ecco i due elementi principali su cui punta chi crede al suicidio. 1. Tre fogli accartocciati ritrovati nel cestino del suo ufficio che sembrano il tentativo di scrivere una lettera d’addio (la moglie Antonella nota che le parole “Toni, amore”, lui con lei non le aveva mai usate, come “scusa”, e compaiono invece in quei fogli, che secondo una perizia calligrafica sembrerebbero scritti sotto dettatura). 2. Pochissimo tempo prima della sua morte, la figlia Carolina vede dei taglietti sul polso di David. Lui spiega di esserseli autoinflitti. Poi però chiede alla figlia, scrivendo, di non parlarne a voce alta in casa perché teme ci siano cimici in casa.
David Rossi, speciale Iene/3: i 10 errori delle indagini secondo la famiglia. Scrivono Le Iene il 21 marzo 2019. Terza parte dello Speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Vi parliamo di tutto quello che, secondo la famiglia, non torna nelle indagini. Nella terza parte dello Speciale Iene ci concentriamo su un momento cruciale (clicca qui per vedere la prima parte di presentazione e qui per la seconda dedicata ai dubbi che sorgono guardando il video della sua caduta). David Rossi, nel mezzo della bufera giudiziaria che coinvolge Mps, scrive via email all’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, che vuole andare a parlare con i pm. In questo scambio di messaggi ce n’è una scritta da David due giorni prima di morire: “Stasera mi suicidio, sul serio, Aiutatemi!!!!”. Seguono altri messaggi in cui ribadisce di voler parlare con i magistrati. Giuseppe Mussari, ex presidente della banca e dell’Associazione bancaria italiana, amico di Rossi, non ne vuole parlare con Antonino Monteleone. Poi però ci dice: “Parlarne mi fa piangere, per me David è un grande dolore”, ribadendo l’affetto per la vedova Antonella Tognazzi. “Quello che crede Antonella, lo credo io”. Un’altra pista porta a Roma, in Vaticano però. Sulla scrivania di David Rossi c’è un appunto con un nome: Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente della banca del Vaticano Ior e allora capo italiano della spagnola Banca Santader (da cui il Monte dei Paschi di Siena comprò Antonveneta nell’acquisto al centro allora delle indagini dei magistrati). Siamo andati da Gotti Tedeschi e ci ha rilasciato delle dichiarazioni esplosive che potrebbero ampliare gli scenari di quello che David Rossi voleva dire ai magistrati. Ve ne parleremo. “Chi sa parli, se no come fa a guardarsi nello specchio la mattina”: era l’appello di Carolina Orlandi. Quasi a risponderle l’ex sindaco di Siena e dirigente Mps, Pierluigi Piccini, ci dice sull’amico David: “La città è convinta che sia stato ucciso”. “David fa un errore storico, cioè dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontare tutto". Ci parla anche di “una storia parallela”, di “una villa al mare dove facevano i festini”: “…Ci andavano anche i magistrati senesi? Ci andava anche qualche personaggio nazionale? Mah…”. Piccini parla anche di indagini fatte male. Cosa si poteva fare e non si è fatto secondo la famiglia? 1. richiedere i tabulati telefonici nella zona; 2. sequestrare e analizzare i vestiti di David; 3. analizzare le ferite sul suo corpo; 4. chiedere l’esame del dna sul suo corpo e nel suo ufficio; 5 non distruggere i fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio; 6. identificare tutte le persone presenti in banca in quel momento; 7. acquisire le immagini di tutte le video camere interne ed esterne; 8. il video della morte di David non è integrale: si poteva chiederlo; 9. aprire un’indagine per omissione di soccorso per l’uomo che si affaccia nel vicolo mentre c’era David a terra; 10. riaprire le indagini prima del 2015 e non due anni dopo la prima archiviazione del 2013, così molti elementi non sarebbero diventati forse indecifrabili.
David Rossi, speciale Iene/4: una testimonianza clamorosa. Scrivono Le Iene il 21 marzo 2019. Quarta parte dello Speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Con una testimone, che la Procura dice di aver sentito ma non ha fatto e che ci fa rivelazioni clamorose. Eccoci alla quarta parte dello Speciale Iene: “David Rossi: suicidio o omicidio?”. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale e la terza a quelli sulle indagini, parliamo del caso di Lorenza Pieraccini, ex segretaria dell’allora ad di Mps, Fabrizio Viola. Non è mai stata sentita dalla Procura come invece risulta agli atti. Noi ci abbiamo parlato: ha dei dubbi anche lei sulla morte di David Rossi e ci conferma di non essere mai stata sentita dagli inquirenti. Si tratta tra l’altro di una delle ultime persone che l’ha visto vivo. Come vi abbiamo detto, David Rossi scrive via email all’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, che vuole andare a parlare con i magistrati. In questo scambio di email ce n’è una molto strana scritta da David due giorni prima di morire: “Stasera mi suicidio, sul serio, Aiutatemi!!!!”. Seguono altri messaggi in cui ribadisce di voler parlare con la Procura. Lorenza Pieraccini, ex segretaria di Viola, conferma che l’ad ha letto quell’email in cui David annunciava il suicidio (ai magistrati ha detto invece di non ricordarsene). Quell’allarme l’avrebbero letto anche il capo della segreteria Valentino Fanti. Nessuno si sarebbe mosso per fermare o aiutare Rossi. E nessuno dei due vuole parlarne.
David Rossi: i festini e l'escort. Speciale Iene/5. Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Un escort ci fa rivelazioni che ci lasciano senza parole sui “festini” a base di sesso e droga, quelli di cui ha parlato l’ex sindaco di Siena Piccini. Eccoci alla quinta parte dello Speciale Iene sulla morte di David Rossi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: “David Rossi: suicidio o omicidio?”. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini e la quarta al caso di Lorenza Pieraccini, ex segretaria dell’allora ad di Mps, Fabrizio Viola, torniamo a concentrarci sulle indagini e a parlare con la madre di David Rossi, la moglie (finita pure indagata per divulgazione di atti che avrebbero violato la privacy) e la figlia che chiedono giustizia. La Procura risponde con un comunicato ufficiale a tutti i dubbi della famiglia. Lo analizziamo punto per punto. In particolare ci concentriamo sui cambiamenti che ci sarebbero stati sulla “scena del crimine” e su una chiamata a cui qualcuno risponde nell’ufficio di David la mattina dopo la sua morte (mentre il suo cellulare è acceso e riceve un messaggio). Per quanto riguarda il caso “festini”, di cui ha parlato l’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, invece, abbiamo incontrato una persona le cui dichiarazioni ci hanno lasciato senza parole. Si tratta di un escort che avrebbe partecipato a quei festini. Ci ha contattato lui e ci parla in anonimo e con un cappuccio e racconta di feste a base di sesso e droga “per intrattenere ospiti di alto profilo”. Avrebbero partecipato, secondo i racconti dell’escort, esponenti di spicco del mondo senese (compresi dirigenti Mps, tra questi non c’era David Rossi) e nazionale. Antonino Monteleone gli mostra alcune foto di questi personaggi e lui riconosce precisi esponenti, pur avendo dichiaratamente paura di eventuali ritorsioni. Stefano (il nome è di fantasia) dice di averci contattato rispondendo all’appello della figlia di David Rossi, Carolina Orlandi: “Chi sa, parli”. Ovviamente politici, dirigenti bancari, magistrati, religiosi e appartenenti alle forze dell’ordine nel privato possono fare quello che vogliono. Partecipare a festini gay a base di droga, potrebbe esporli però a ricatti. È l’ipotesi di Piccini: su David Rossi “la magistratura potrebbe avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale”, per evitare cioè che scoppiasse anche questo caso coinvolgendo “troppe” persone importanti.
Caso Rossi, Antonella Tognazzi: “Il lavoro de Le Iene ha portato a risultati eccezionali”, scrive il 22 marzo 2019 la Redazione di Radio Siena. “Le Iene ci hanno portati a risultati insperati, adesso lavoriamo per la riapertura delle indagini”. “Un lavoro enorme quello svolto dalla redazione de Le Iene, che ha portato però ad un risultato eccezionale ovvero che una Procura abbia riconosciuto un errore in un’azione intrapresa da questa stessa.” Sono queste le parole di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, che abbiamo raggiunto telefonicamente questa mattina, dopo la messa in onda di una puntata speciale de “Le Iene” dedicata proprio alla morte dell’ex capo comunicazione di Mps. La Tognazzi ha anche parlato dell’incontro con il Procuratore Capo Salvatore Vitello ” Ho visto in lui la disponibilità a collaborare, nell’intento di trovare risposte. Il mio avvocato intanto ha ripreso gli atti ex novo per poterle rianalizzare. Ci devono essere nuovi elementi, non ci può essere una riapertura senza nuovi quesiti.”
''POTEVO FAR SALTARE IL VATICANO''. Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini, la quarta a una testimonianza fondamentale e la quinta al “caso escort”, siamo arrivati alla sesta e ultima parte dello Speciale Iene: “David Rossi: suicidio o omicidio?” che nel finale contiene rivelazioni veramente clamorose. Continuiamo intanto con la testimonianza dell’escort Stefano, iniziata nella quinta parte, che parla in particolare del suo dubbio che quei festini a base di sesso e droga fossero videoregistrati. Il che aumenterebbe il rischio di ricatto per gli esponenti di primo piano del mondo senese e nazionale che avrebbero partecipato. Stefano accetta di incontrare anche Carolina Orlandi e gli dice di non aver mai visto il padre David Rossi ai festini. Antonino Monteleone va poi alla ricerca anche di una villa teatro di quelle feste. Antonino Monteleone intervista anche la moglie di un uomo importante nelle istituzioni che sarebbe stato coinvolto nei festini e forse anche nelle indagini sulla morte di David Rossi. Torniamo poi a inquadrare il caso nella crisi finanziaria in cui era coinvolta Mps quando è volato giù da una finestra della sede centrale della banca. Torniamo allora al biglietto con il nome di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, e il suo numero di cellulare trovati sulla sua scrivania quel giorno. Di viaggi frequenti a Roma per andare allo Ior di David Rossi avrebbe parlato anche un testimone misterioso a Luca Goracci, che ha seguito il caso per la famiglia. L’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari cosa pensa del “caso Ior”? “È una bufala”. Antonino Monteleone incontra a questo punto, in un lungo colloquio, Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior e artefice dell'acquisto per conto del Banco Santander della Banca Antonveneta, che rivendette successivamente a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese. E proprio sull'acquisto di Banca Antonveneta da parte di Mps, che costò alla banca senese nove miliardi di euro (cui però vanno sommati i miliardi di debiti che la banca aveva in pancia), Gotti Tedeschi dice: "Mussari non voleva comprare l'Antonveneta. Della vendita se ne occupò Rothschild (la banca d'affari che curava per conto di Santander la vendita di Antonveneta, ndr). Mussari era entusiasta della fusione. Non dell'acquisto. Chi volle l'acquisto era la Fondazione". "Quindi Mussari ha subito la l'acquisto?", gli chiede Monteleone. "Questa è sempre stata la mia opinione", risponde il banchiere. E la Iena gli chiede anche dei quattro conti correnti presso lo Ior che sarebbero stati aperti da uomini riconducibili alla Fondazione. Gotti Tedeschi risponde: "Credo che fosse vero. Chi si occupava di questi conti all'interno dello Ior era direttamente ***** della Fondazione. E naturalmente col presidente, ma mi tagliavano completamente fuori visto il mio ruolo con Santander nella vicenda Montepaschi. Quindi non sapevo assolutamente niente. E non ho mai visto Mussari venire in Vaticano. In realtà operava per conto di altri, diciamo per il sistema senese". E perché la fondazione Mps potrebbe avere quattro conti correnti accesi presso lo Ior?", chiede Monteleone. "Sono tangenti, mi pare evidente", risponde il banchiere. "Se dice tangenti penso alla politica", lo incalza la Iena. "È evidente! Ma nessuno le confermerà l'esistenza di quei conti, perché lì c'era di tutto! Qua si tratta della Curia vaticana. Lì dentro c'era tutto quello che lei non può immaginare. C'erano delle persone che in un secondo cambiavano le intestazioni di tutti i conti. Un sistema che non permetteva a nessuno, se non alla Cupola, di risalire ai conti. È molto probabile quindi che quei conti ci fossero. Stavo per perdere la fede". "Quando dice che la Curia vaticana le stava facendo perdere la fede...", gli fa eco Monteleone. "Anche La vita!", lo interrompe Gotti Tedeschi. "La Curia vaticana può commissionare un delitto secondo lei?". "Ci sono persone all'interno che non mi meraviglierebbe per niente se lo facessero. Dove c'è il bene c'è sempre il male. Nella Chiesa si perpetrano cose che non si dovrebbero neanche immaginare".
David Rossi/6. Gotti Tedeschi: i conti di Mps allo Ior? "Tangenti!" Scrivono Le Iene il 22 marzo 2019. Sesta e ultima parte dello speciale Iene "Caso David Rossi: suicidio o omicidio?". Rivelazioni clamorose dell'ex presidente dello Ior Gotti Tedeschi: in Vaticano possono arrivare persino a uccidere. E su David Rossi dice...Sesta e ultima parte con rivelazioni ancora più clamorose dello speciale Iene “David Rossi: suicidio o omicidio?”. Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini, la quarta a una testimonianza fondamentale e la quinta al “caso escort”. Antonino Monteleone incontra in un lungo colloquio Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior e artefice dell'acquisto per conto del Banco Santander della Banca Antonveneta, che rivendette successivamente a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese. E proprio sull'acquisto di Banca Antonveneta da parte di Mps, che costò alla banca senese nove miliardi di euro (cui però vanno sommati i miliardi di debiti che la banca aveva in pancia), Gotti Tedeschi dice: "Mussari non voleva comprare l'Antonveneta. Della vendita se ne occupò Rothschild (la banca d'affari che curava per conto di Santander la vendita di Antonveneta, ndr). Mussari era entusiasta della fusione. Non dell'acquisto. Chi volle l'acquisto era la Fondazione". "Quindi Mussari ha subito la l'acquisto?", gli chiede Monteleone. "Questa è sempre stata la mia opinione", risponde il banchiere. E la Iena gli chiede anche dei quattro conti correnti presso lo Ior che sarebbero stati aperti da uomini riconducibili alla Fondazione. Gotti Tedeschi risponde: "Credo che fosse vero. Chi si occupava di questi conti all'interno dello Ior era direttamente ***** della Fondazione. E naturalmente col presidente, ma mi tagliavano completamente fuori visto il mio ruolo con Santander nella vicenda Montepaschi. Quindi non sapevo assolutamente niente. E non ho mai visto Mussari venire in Vaticano. In realtà operava per conto di altri, diciamo per il sistema senese". E perché la fondazione Mps potrebbe avere quattro conti correnti accesi presso lo Ior?", chiede Monteleone. "Sono tangenti, mi pare evidente", risponde il banchiere. "Se dice tangenti penso alla politica", lo incalza la Iena. "È evidente! Ma nessuno le confermerà l'esistenza di quei conti, perché lì c'era di tutto! Qua si tratta della Curia vaticana. Lì dentro c'era tutto quello che lei può immaginare. C'erano delle persone che in un secondo cambiavano le intestazioni di tutti i conti. Un sistema che non permetteva a nessuno, se non alla Cupola, di risalire ai conti. È molto probabile quindi che quei conti ci fossero. Stavo per perdere la fede". "Quando dice che la Curia vaticana le stava facendo perdere la fede...", gli fa eco Monteleone. "Anche La vita!", lo interrompe Gotti Tedeschi. "La Curia vaticana può commissionare un delitto secondo lei?". "Ci sono persone all'interno che non mi meraviglierebbe per niente se lo facessero. Dove c'è il bene c'è sempre il male. Nella Chiesa si perpetrano cose che non si dovrebbero neanche immaginare".
David Rossi, Gotti Tedeschi e quei 4 conti “pericolosi” allo Ior, scrivono Le Iene il 26 marzo 2019. Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente della banca del Vaticano, parla dei presunti quattro conti che sarebbero stati aperti allo Ior da uomini riconducibili alla Fondazione Mps. Con altri elementi che, dopo lo Speciale Iene, aprono nuovi scenari nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. “Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda: ‘che lei sappia ci sono questi conti’?'”. Continua l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sul caso David Rossi, dopo lo Speciale Iene di giovedì 21 marzo, con nuove eclatanti rivelazioni da parte di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la banca del Vaticano, tra il 2009 e 2012. David Rossi, ex capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, vola giù dalla finestra del suo ufficio, al terzo piano della sede centrale della banca, il 6 marzo 2013. Si è trattato di suicidio, come stabilito con due archiviazioni dalla magistratura, o è stato ucciso, come sostiene la famiglia? Nello speciale, che vi riproponiamo qui sotto nelle sei parti in cui è diviso (clicca qui per vederlo integralmente), abbiamo ripercorso tutti i dubbi che avvolgono la morte di David Rossi, dai quelli sul video della sua caduta mortale ai dubbi su alcuni aspetti delle indagini, ascoltando anche la testimone Lorenza Pieraccini, che dice di non essere mai stata sentita dalla Procura, come invece risulta agli atti, e valutando la storia dei festini a base di sesso e droga raccontata da un escort. Fino alle clamorose rivelazioni fatte proprio dall’ex presidente della banca del Vaticano, che ha parlato non solo della possibile esistenza di tangenti e soldi sporchi, ma ha addirittura lasciato intendere che uomini interni alla Curia vaticana potrebbero essere capaci anche di commissionare un delitto. È proprio Gotti Tedeschi a fare nuove clamorose dichiarazioni nell’intervista che vedete qui sopra. Nel primo incontro tra la Iena e l’ex presidente dello Ior, Monteleone gli ha chiesto dei quattro conti correnti che sarebbero stati aperti presso la banca del Vaticano e che sarebbero riconducibili a uomini della Fondazione Mps. “Credo che fosse vero”, risponde l’ex presidente dello Ior sull’esistenza di questi conti. “Sono tangenti mi pare evidente”, dice, come avete visto nella sesta parte dello speciale che abbiamo dedicato al caso. Dopo la prima intervista, Antonino Monteleone è tornato da Gotti Tedeschi, per capire come fosse possibile che l’allora presidente dello Ior non sapesse nulla sulla presunta esistenza di quei conti. Le dichiarazioni di Gotti Tedeschi a riguardo sono davvero clamorose. “Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. Come faceva a non occuparsi di tutti i conti e della loro provenienza, proprio lui che, come ci ha detto nell’ultima intervista, era stato chiamato da Papa Benedetto XVI per “ripulire lo Ior”? “Io non ho mai voluto vederli. Non era il mio compito”, risponde l’ex presidente. “Il mio incarico era di attuare le necessarie procedure per fare trasparenza, e mi fu anche detto: ‘lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti’, infatti io non volli mai sapere”. E perché non ha mai voluto sapere? “Se tu hai visto i conti e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti?”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. “A proteggerla, ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare” e nomina il giornalista Mino Pecorelli. “Si ricorda perché è morto?”, chiede a Monteleone. “Ha messo le mani su che cosa? Sui nomi”. Monteleone gli fa notare che sapere chi ha i soldi allo Ior è un potere. “Sarei morto”, risponde l’ex presidente della banca del Vaticano. Perché le dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi sono così rilevanti? Primo perché mentre era presidente dello Ior, Gotti Tedeschi era stato a capo per l’Italia di Santander e partecipò all'acquisto per conto di quell’istituto della Banca Antonveneta, che è stata poi rivenduta nel 2007 a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese che venne travolta da una bufera mediatica e finanziaria. Quella durante la quale muore David Rossi, volando giù dalla finestra del suo ufficio. L’ex presidente dello Ior, nell’ultima intervista andata in onda, ci ha detto di non ricordarsi di lui. Su una foto scattata dalla polizia scientifica il giorno del dissequestro dell’ufficio di David si vede un biglietto sulla scrivania con scritto a penna il nome "Ettore Gotti Tedeschi" e il suo numero di cellulare. I due si dovevano parlare? Nel caso, chi aveva cercato chi e, soprattutto, perché l’allora capo dell’area comunicazione di Mps doveva parlare con il presidente dello Ior? Si tratta solo di una coincidenza? Davvero Ettore Gotti Tedeschi non conosceva David Rossi? Esistevano davvero quattro conti riconducibili a uomini della Fondazione presso lo Ior? E chi poteva sapere i nomi legati a quei conti? Sono solo alcuni dei dubbi che legherebbero il Monte dei Paschi e David Rossi alla banca del Papa.
Ecco per esteso l'intervista inedita a Ettore Gotti Tedeschi.
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti proprio per questa ragione. Per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda che lei sappia ci sono questi conti? Io non ho mai voluto vederli".
Cioè è come se lei fosse un pilota di Formula 1 che si rifiuta di guardare cosa c’è nel cofano della sua monoposto?
"Esattamente”.
È un po’ spericolata come cosa.
"Non era il mio compito. Primo perché non sono un meccanico, se anche avessi aperto il cassone, avrei dovuto avere competenza per la meccanica. Io so guidare la Formula 1. Non significa saper cambiare le gomme".
Però siccome è lei che guida...
"Ho avuto un incarico…estremamente preciso, direttamente dal Papa. Quello di attuare le necessarie procedure, per fare la trasparenza. E mi fu anche detto lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti, infatti io non volli mai sapere".
Però c’è una cosa che lei mi ha detto, io non volevo sapere chi erano i nomi, perché…
"Su questo non deve dubitare…".
"No no non dubito…".
"E non li so!".
Ma se io avessi avuto un mandato da Sua Santità Benedetto XVI di…
"Eh, come è stato…".
Io ho bisogno di ripulire questo istituto. Come si concilia il mandato per la trasparenza assoluta senza entrare a gamba tesa su chi ci ha messo i soldi.
"No no no… le rispondo, a poco a poco dal 2001 al 2008 sono stati chiusi tutti i paradisi fiscali nei Paesi, chiamiamoli democratici, non canaglia. va bene? si ricorda San Marino?
Certo…
"Bene. Quale era l’unico e ultimo aperto? Quello all’interno dello stato della Città del Vaticano. Benedetto dice: se noi non ottemperiamo ai criteri di massima trasparenza esemplare, mettiamo a repentaglio la credibilità della Chiesa e del Papa. Dottore. vada, faccia quello che deve fare. Santità, devo fare una legge antiriciclaggio. Sevo fare delle procedure e un’autorità di controllo che controlli che le procedure alla lettera vengano applicate. Vada! Cosa ho detto: come faccio io a evitare che ci siano dei conti intestati a chi non devono essere intestati? Transazioni che non devono essere fatte, cosa faccio? Senza voler andare a vedere chi li ha fatti fino al giorno prima. Faccio una legge che dice: da oggi chi li fa è un fuorilegge. Ma ha capito?"
In questo modo come si fa a sapere: noi abbiamo i soldi della mafia nelle casse dello Ior?
"Ma non voglio saperlo!".
Eh però se vogliamo toglierli quei soldi bisogna saperlo se ci sono, sennò ce li teniamo, è un gioco strano.
"No, lei mi sta chiedendo delle cose talmente, scusi eh, per me talmente semplici e banali. Io non dovevo guardare i conti. non dovevo".
Ma chi li guardava?
l’unica persona al mondo che io sappia che conoscesse i conti di chi erano era Cipriani, Tulli e Mattietti.
Qui Gotti Tedeschi sostiene che gli unici a sapere di chi erano i conti fossero l’ex direttore aggiunto dello Ior Giulio Mattietti, licenziato nel 2017 con l’accusa di avere tradito la fiducia del Papa. E insieme a lui Paolo Cipriani, ex direttore generale, e Massimo Tulli, il suo vice. Entrambi condannati a risarcire 47 milioni lo Ior per danni in primo grado. Mentre Gotti Tedeschi, che era il Presidente, afferma che di chi fossero quei conti non ne avrebbe saputo niente. Ma perché lei rinuncia ad avere informazioni che ha una figura all’interno dell’istituto che le è sottoposta.
"Allora stia a sentire. Lei fa il giornalista d’inchiesta, si ricorda perché è morto Mino Pecorelli? si ricorda chi era?".
Sì certo faceva…
"Si ricorda perché è morto? ha messo le mani su che cosa? sui nomi. allora..."
Cioè lei mi sta dicendo che chi mette le mani sui nomi schiatta.
"Cosa mi viene detto? me lo ricordo come se fosse adesso: non volere mai sapere, non andare a cercare... se ti vengono a dire le facciamo vedere rifiutati di vedere. Per due ragioni. La prima, che prima o poi succederà uno scandalo allo Ior, tu verresti immediatamente interrogato. Ti dicono lei ha guardato i conti? Tu dici: sì che l’ho guardati. Allora ci dica di chi sono i conti. Oppure tu dici non li ho guardati, hai mentito perché li hai guardati, in tutti e due i casi tu sei morto. se tu hai visto i conti…"
Professionalmente?
"… e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti? a proteggerla. ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare. seconda ipotesi: tu li hai visti ma dici noooo, non li ho visti, ti arrestano, perché sanno perfettamente che li hai visti!"
Tutti pensano di lei, cazzo Gotti Tedeschi sa chi c’ha i soldi allo ior. Cioè, che potenza…
"Sarei morto. non, si potrebbe aver recitato molti requiem…".
Se Gotti Tedeschi fosse stato più spericolato, lei mi dice sarebbe morto...
"Senta…"
Ma morto professionalmente o morto schiattato, cioè morto... morto
"Ehhhhhhh… lei deve riflettere sulla morte di quel giornalista".
Pecorelli.
"Vada a rileggersi i giornali dell’epoca e vada riflettere, cioè, se lei sa dei nomi e li dice nel modo sbagliato, alla persona sbagliata e questi nomi potrebbero non gradirlo, avere un segreto è un’arma a doppio taglio. Se lei è forte le permette di influenzare gli altri. Se lei è debole o decide di essere debole... lei è morto".
· Jennifer Levin, uccisa e umiliata dai media.
L’altro delitto di Central Park: Jennifer, uccisa e umiliata dai media. Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Paolo Beltramin. Un giallo nella New York rampante degli Anni 80 con protagonisti ragazzi giovani belli e di buona famiglia. Una storia da cui è nata la battaglia per i i diritti delle donne, decenni prima del #metoo. Era appena uscito in libertà condizionata dalla prigione di Rikers Island, lei non lo vedeva da poco più di un mese, dalla notte in cui Jennifer Levin era stata strangolata a Central Park. Ora, mentendo ai suoi genitori, Alexandra Kapp stava correndo da lui. Non riusciva a credere che il suo fidanzato fosse un assassino. Deve essere stato un incidente, oppure lei l’ha provocato, si diceva. «Richard indossava un maglione a collo alto blu scuro. Sembrava più magro e pallido, ma aveva lo stesso sguardo penetrante. Il mio cuore batteva all’impazzata. È imbarazzante ripeterlo adesso da adulti, ma mi ricordo di aver pensato: ci baceremo?». Appena entra nella stanza, Alexandra osserva sotto la scrivania pile di giornali con le foto di lui in prima pagina. Fa una battuta per sciogliere la tensione: «Be’, almeno hai ottenuto quello che hai sempre voluto: adesso sei famoso». Lo risposta di Robert è un ghigno che la fa tremare fino al midollo. Inventa una scusa e scappa il più veloce possibile: non si volterà mai indietro. Sono gli anni Ottanta a Manhattan, il decennio di Gordon Gekko, dei ricchi che possono tutto e di metà della popolazione che a stento riesce a sfamare i propri figli. Sotto la superficie lucida, la Grande Mela è marcia. Se siete stati a New York nel nuovo secolo, avete visitato un’altra città: in quel 1986, il NY Police Department registra la cifra record di 1.582 omicidi, quasi cinque al giorno (nel 2018 sono stati meno di trecento). Molti, quelli legati alle gang o al traffico di droga, non vengono nemmeno riferiti all’ufficio stampa della polizia, tanto ormai non fanno più notizia. Ma se i protagonisti sono bianchi, di buona famiglia, giovani e belli, è tutta un’altra storia. Una storia che è arrivata fino a noi. Alle 6 e mezza della mattina del 26 agosto un ciclista trova il corpo di Jennifer Levin, diciott’anni, disteso nell’erba. La gonna sollevata sopra il petto, i vestiti attorno al collo e ferite ovunque. Nascosto da un muretto dietro il Metropolitan Museum, il suo amico Robert Chambers, un anno più di lei, osserva di nascosto l’arrivo della polizia e dell’ambulanza sulla scena del delitto. Due ore prima, lui e Jennifer avevano lasciato il Dorrian’s Red Hand nell’Upper East Side, che insieme allo Studio 54 è uno dei principali punti di ritrovo dei giovani benestanti, spesso trascurati dai genitori impegnati nella finanza, tutti con in tasca un documento di identità falso per bere prima dell’età consentita. Quella sera Robert e Alexandra avevano litigato, e lei gli aveva fatto una scenata davanti a tutti: «Tieni, usali con un’altra», aveva urlato lanciandogli un mazzo di preservativi. Lui era rimasto al bancone del bar, impassibile. Poco dopo gli si è avvicinata Jennifer. I due hanno già dormito qualche volta insieme, lei lo trova bellissimo, irresistibile; tra una settimana partirà per il college, vuole prendersi quello che desidera. E ci riesce: all’alba escono dal locale insieme. Due anni prima Madonna ha scandalizzato l’America con Like a Virgin: un inno liberatorio all’indipendenza delle donne, anche a letto, o per i più conservatori una delle tante prove del degrado dei costumi. Dopo aver visto i medici portare via il corpo di Jennifer, Robert rientra a casa, si fa una doccia e va a dormire come niente fosse. Poche ore dopo bussano alla sua porta: gli investigatori vogliono ascoltarlo perché è l’ultima persona ad aver visto la ragazza viva, non si aspettano di trovarsi davanti all’omicida. Ma i graffi sul suo volto parlano chiaro. «Era matta. Continuava a dire quanto fossi carino e come sarei stato ancora più carino legato. Avevo graffi ovunque, urlavo dal dolore»: arrivato in Centrale, davanti a una telecamera, Chambers prova a difendersi. «Mi faceva male, le chiedevo di fermarsi, ma lei mi ha ficcato le unghie nel petto, ecco perché ho questi segni». È a quel punto, racconta agli inquirenti, che reagisce: si libera, le stringe il collo, riesce a togliersela di dosso. Solo quando le chiede di rivestirsi si accorge che Jennifer non respira più. Nel suo racconto, la vittima diventa aggressore: era «rough sex», sesso violento, e non ha cominciato lui, giura il ragazzo. I giornali ci vanno a nozze. Prima del caso O.J. Simpson, è The Preppy Murder — «preppy» sono gli adolescenti che frequentano le scuole private, i «fighetti» — il processo del secolo, in un ambiente che sembra uscito dritto da un romanzo di Bret Easton Ellis, nello stesso quartiere dove più tardi agirà il magnate pedofilo Jeffrey Epstein. «A volte Robert poteva comportarsi in modo strano» racconta un amico in un’intervista «ma ci sballavamo tutto il tempo, quindi è difficile stabilire se fosse la sua personalità o l’effetto della droga».
Dopo l’omicidio, Chambers è diventato una star. Il giovane Robert, però, non faceva che deluderla. Buttato fuori da un istituto dopo l’altro, aveva cominciato a drogarsi giovanissimo: a 14 anni era già dipendente dalla cocaina. Quell’estate, era rientrato dal Minnesota dopo essere scappato da un centro di riabilitazione. Fairstein scopre poi il suo coinvolgimento in una ventina di furti. Perfino dal portafogli di Jennifer mancavano 40 dollari, quella mattina, e gli orecchini che indossava nel locale non sono mai stati ritrovati. «Era un depravato, un sociopatico», ha raccontato quest’anno Fairstein ad Amanda Knox, che al “Preppy Murder” ha dedicato una intera serie del suo controverso podcast sui grandi crimini. La difesa però, grazie alla complicità dei media, riesce a sminuire questi elementi, e anche in aula sotto accusa finisce Jennifer, il suo passato, la sua vita sessuale, la sua presunta “disinvoltura”, come si dice in quegli anni. Quando il caso arriva in tribunale nell’autunno del 1987, è stato così tanto dibattuto sui giornali e in tv che selezionare giurati non prevenuti risulta complicato. Una donna viene scartata perché alla domanda se si fosse formata una impressione di Chambers risponde: «È molto più bello di persona». La narrazione che aveva tenuto banco sui media viene però smentita dalle prove materiali: le immagini della vittima con un occhio nero e segnata dalle ferite, le testimonianze degli esperti secondo i quali per morire di asfissia occorre tempo. Chambers aveva applicato pressione dai tre ai cinque minuti, sviluppando quindi l’intenzione di uccidere. «In più di ottomila casi di violenza sessuale denunciati negli ultimi dieci anni a New York» dirà Fairstein «questo è il primo in cui un uomo sostiene di essere stato assalito da una donna». Un uomo robusto, alto molto più di lei, che pesava quasi il doppio. Eppure, alla fine la giuria è in stallo: per nove giorni i giurati si chiudono in camera di consiglio senza riuscire a scegliere tra incidente e omicidio volontario. Temendo che il processo venga annullato, la procuratrice si consulta con la famiglia di Jennifer e cede al patteggiamento. Chambers si dichiara colpevole di omicidio colposo di primo grado: dovrà scontare soltanto 15 anni.
Il secondo arresto di Chambers. Nei decenni successivi Jennifer Levin è diventata un simbolo e la battaglia per la «rape shield law», la legge che vieta alla difesa di portare prove sulla condotta sessuale delle vittime di violenza, è ispirata anche al suo nome. In queste settimane, una produzione di Amc e SundanceTv, «The Preppy Murder: Death in Central Park», ha provato a restituire finalmente, attraverso le voci degli amici che al processo non parlarono perché minorenni, chi era veramente quella ragazza, vittima non abbastanza perfetta per i canoni dell’epoca. Con in sottofondo una domanda: come è stata possibile una difesa così totalmente centrata sulla colpevolizzazione della donna? E quanto sono cambiate davvero le cose da allora? Quanto a Chambers, è uscito dal carcere nel 2003, ma ci è tornato appena cinque anni dopo per spaccio di cocaina. Ha preso una condanna più severa — diciannove anni — che per aver ucciso (e infangato) una ragazza che aveva appena finito il liceo.
· Curtis Flowers: Il «perseguitato d’America».
Il «perseguitato d’America» torna a casa dopo 23 anni salvato (per ora) da un podcast. Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Stefano Sabattini. Condannato a morte, salvato (per ora) da un podcast che ha fatto scuola. La Corte Suprema: giurie truccate, i membri neri costantemente esclusi. Non c’erano ali di folla a proteggerlo dai venti di tempesta fuori dal carcere di Louisville, Mississippi. C’erano le braccia di due sorelle che non hanno mai smesso di sorreggerlo, pur non potendolo toccare da ormai 23 anni. Curtis Flowers — un nome dolce da cantante soul e un destino amaro da capro espiatorio — torna a casa una settimana prima di Natale, in libertà vigilata, per la prima volta in quasi un quarto di secolo. È con ogni probabilità il carcerato più perseguitato d’America: processato sei volte per lo stesso crimine (non si ricordano casi simili), un quadruplice omicidio, che sostiene di non avere commesso; è nel braccio della morte da 20 anni. La sua è una storia incredibile, ripescata e ribaltata da un podcast che ormai ha fatto scuola e storia. Dal buio di un villaggio dimenticato nel cuore dell’America fino alla Corte Suprema Usa e alle fragili ali della libertà arrivata quasi per miracolo. Eppure non ci sarebbe niente di miracoloso, nel (temporaneo) epilogo di questi giorni. Piuttosto, le assurdità riempiono fino farli scoppiare i 23 anni precedenti. Il primo livello — quello delle ripetute condanne a morte — in fondo è persino il meno sorprendente. Una strage di periferia dentro un negozio di mobili a Wynona, Mississippi: 4 morti tra dipendenti e clienti. Chi è stato? Gli inquirenti locali puntano subito il dito su Curtis Giovanni Flowers, un ex dipendente appena licenziato per banali negligenze. «È lui: voleva vendicarsi», dicono. Trovano le impronte delle scarpe tra il sangue delle vittime, le tracce di polvere da sparo, i proiettili compatibili (non l’arma). Tutto a carico del giovane Flowers, incensurato, che allora ha 26 anni e una figlia piccola. Un ragazzone afroamericano in un paese fermo agli anni 60, quelli di Mississippi Burning: i bianchi da una parte, i neri dall’altra, due mondi separati. E infatti sono tutti sollevati dalla condanna, che pare risarcire una comunità sconvolta. Solo che la Corte Suprema del Mississippi ribalta la sentenza: il processo è stato ingiusto. Lo stesso «colpo di scena» si ripeterà altre 3 volte, dopo altrettanti processi fotocopia. E qui si passa al secondo livello della vicenda, che ha un contro-protagonista: il procuratore distrettuale Doug Evans, l’uomo che per 20 anni ha provato senza sosta a far condannare Flowers è si è visto rispedire indietro tutte le condanne (in due casi non si è riusciti a raggiungere un verdetto). La ragione è semplice, al netto delle prove rivelatesi sempre più fragili: Evans ha sistematicamente «sbiancato» le giurie, facendo rimuovere i componenti afroamericani. Poteva farlo? Tecnicamente sì: il sistema americano dà facoltà alla pubblica accusa di sostituire i giurati «sospetti». Solo che Evans lo fa solo con i neri. E quando non ci riesce, la condanna non arriva. Avanti così per anni, senza che Flowers possa mai lasciare il carcere. Poi, l’estate scorsa, dopo una sesta condanna a morte, il caso sbarca a Washington: tocca alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Che fa a pezzi la condotta di Evans: finisce 7-2, con tre giudici conservatori che votano assieme ai liberal. «Condotta palesemente discriminatoria della pubblica accusa, un caso disturbante», scrivono i giudici. Scavando nel passato di Evans si scopre che ha «fatto fuori» i membri neri delle giurie per tutta la sua carriera. Si torna al punto di partenza, ma Flowers resta in galera, e Evans al suo posto: è una carica elettiva. Proverà a condannarlo un’altra volta? Ormai però il castello è crollato, e lunedì scorso un giudice del Mississippi non ha potuto negare la libertà su cauzione. Ma chi ha bonificato il suolo avvelenato di Wynona, Mississippi? Chi ha fornito tutto il nuovo materiale a giudici e avvocati? È il terzo livello della storia. Porta il nome di un podcast: In the Dark. Sedici puntate prodotte da American Public Media, in parte finanziate dal fundraising, costate pare 100.000 dollari l’una. Un lavoro enorme, avvincente, impressionante. In the Dark ha sgonfiato ogni presunta prova, intervistato testimoni rivelatisi inattendibili, voltagabbana, corrotti, ha stanato un possibile colpevole alternativo. Ed è stato il primo podcast della storia ad aggiudicarsi il prestigioso Polk Award. A conti fatti, Curtis Flowers deve ringraziare soprattutto loro. In attesa che, dopo le accuse, cada anche il braccialetto elettronico e arrivi la libertà totale. Quella vera.
· Il Caso Estermann.
Caso Estermann, la madre di Tornay chiede riaprire indagini. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Riaprire le indagini sul caso Estermann. Lo chiedono ai magistrati della Città del Vaticano i familiari di Cedric Tornay, il vicecaporale delle Guardie svizzere accusato del duplice omicidio, il 4 maggio 1998, dell’ufficiale svizzero Alois Estermann e della moglie Gladys Meza Romero. Proprio quel giorno Estermann era stato confermatoLa coppia uccisa accanto al Papa comandante. Molteplici le versioni della vicenda, fra cui quella, mai confermata dalla Germania, che Estermann fosse una spia al servizio della Stasi, con un ruolo nel caso Orlandi e nell’attentato a Giovanni Paolo II. Già nel 2011 la madre di Tornay aveva scritto in Vaticano - sul soglio pontificio Benedetto XVI - per richiedere l’accesso a documenti che facessero finalmente chiarezza. Ora la nuova richiesta, dettata dall’acquisizione di documenti che proverebbero l’esistenza di un diverso disegno. «Abbiamo domandato di accedere al fascicolo integrale, com’è nel pieno diritto della signora Muguette Baudat, madre di Tornay - ha spiegato all’Ansa l’avvocato Laura Sgrò -. È evidente che l’invito a riaprire le indagini, sulla base di nuove prove, non può prescindere da un attento studio degli atti e della comparazione con il nuovo materiale raccolto. Carte allo studio anche dei nostri consulenti. Non appena avremo fra le mani il fascicolo integrale nomineremo un team di altri esperti, per fare finalmente luce». L’avvocato evidenzia alcune «criticità» che il tempo non ha dissolto, come il fatto che la signora Baudat, nonostante le numerose richieste, non abbia mai potuto leggere gli atti d’inchiesta, né i suoi avvocati ne abbiamo mai potuto estrarre copia. Le sole informazioni in suo possesso derivano dai pochi decreti che le sono stati notificati, e da scarni comunicati della sala stampa vaticana, che ha diffuso stralci dell’istruttoria. Mai viste foto, mai il luogo del delitto. E mai video, risultati di esami o verbali di deposizioni. Perché tanta reticenza? A stupire i familiari dell’unico ritenuto colpevole del delitto anche la fretta con cui il portavoce vaticano Joaquin Navarro-Valls ricostruì i fatti, versione che venne confermata alla chiusura delle indagini. Non basta, per gli avvocati al lavoro su questo supplemento d’inchiesta. La sera in cui lei arrivò a Roma, un sacerdote inviato dalla Segreteria di Stato avrebbe cercato di convincere la signora Baudat a cremare il corpo di Cedric: in prima battuta lei aveva acconsentito, la mattina dopo cambiò idea, nonostante le pressioni. E poté vedere la salma del figlio. L’autopsia fu effettuata in Vaticano, e la famiglia, a distanza di anni, non comprende perché non sia stata affidata a una struttura ospedaliera come il Gemelli, in cui si diceva sarebbero state portate le salme. Baudat non ha mai nominato un consulente di parte che partecipasse all’autopsia, né ha mai letto la perizia consegnata alla magistratura. Dispose però un’autopsia privata, effettuata all’Università di Losanna dai professori Krompecher, Brandt e Maugin che giunsero a diverse conclusioni. Non avendo mai letto la relazione d’ufficio, resta però difficile comparare i risultati dei due esami del cadavere. Domande riguardano anche gli esami balistici: i rilievi furono infatti eseguiti sul corpo dagli stessi medici legali. I familiari di Tornay ne fecero eseguire di propri. L’esito: il proiettile restituito alla madre con il quale Cedric si sarebbe ucciso non poteva avergli attraversato il cranio, essendo intatto e senza alcuna striatura. Il foro sulla testa di Cedric peraltro è più piccolo rispetto alla pallottola. Cedric lasciò una lettera in cui dichiarava intenti suicidi, ma non mancano i dubbi sulla sua stessa autenticità. Le indagini furono condotte dal capo della Gendarmeria Camillo Cibin e da Raoul Bonarelli, che finì indagato per la scomparsa di Emanuela Orlandi. E gli effetti personali della guardia svizzera arrivarono solo in parte nelle mani della madre, compresi i vestiti, che - le venne detto - erano stati bruciati. Tanti nodi mai sciolti, che ad anni di distanza e con l’acquisizione di nuovo materiale conducono alla richiesta di riaprire la vicenda. «Caso chiuso» titolavano i giornali a maggio 1998. Ma è possibile si aprano nuovi scenari.
· La storia di Giuseppe Zangara.
La storia di Giuseppe Zangara, giustiziato per l’omicidio del sindaco di Chicago. Gioacchino Criaco il 13 Dicembre 2019 su Il Riformista. «Neanche un fotografo di merda, a vedere gli occhi di un anarchico che muore. Attacca i fili boia che voglio tornare a casa», Giuseppe Zangara visse 33 anni e morì dopo un processo di 33 giorni, l’esecuzione più rapida della storia giudiziaria americana, dopo la fine della Frontiera Western. Tentò di uccidere il presidente eletto americano, F.D. Roosevelt, il 15 febbraio del ‘33, in visita a Miami, sbagliò mira, il presidente si salvò e nell’attentato morì il sindaco di Chicago, Cermak e per questo si disse che Zangara era solo un sicario della mafia col mandato di uccidere un sindaco ostile ai traffici. In realtà Giuseppe Joe Zangara era un anarchico, partito da Ferruzzano, in Aspromonte, con l’idea di cambiare il mondo, abbattere il massimo simbolo dell’imperialismo e dello sfruttamento dei lavoratori. Ferruzzano stava nella Locride, terra che fu Nazione, sempre contro gli imperi: che aiutò Annibale, e Spartaco, contro Roma. Un paese totalmente anarchico che si rivoltò all’Italia nel 1911 per protestare contro la guerra in Libia, in una sommossa che contò morti e feriti e quasi tutto il paese posto agli arresti. Joe aveva 11 anni e decise di diventare un eroe, ma era nato sotto la stella della sfortuna: aveva le orecchie a punta quando vide la luce, gliele operarono ma lui rimase per molti un simbolo del malocchio, una specie di folletto. La madre morì e il padre lo mandò a lavorare a 6 anni, gli venne un mal di pancia che lui attribuì alla fatica e lo perseguitò per tutta la vita. I ricchi diventarono il nemico, e gli anarchici furono gli unici a non evitarlo per il suo malocchio. Nel ‘22 il treno che doveva portarlo a Reggio Calabria, per uccidere Vittorio Emanuele III, ebbe un ritardo, e il re era già andato quando arrivò Joe. Nel ‘23 puntò più in alto, partì per l’America, ma non trovò mai l’occasione buona per uccidere il presidente Hoover, gli astri si congiunsero per portarlo a Miami, nel ‘33, a incrociare la strada di Roosevelt: lo fregò il suo metro e cinquanta, dovette montare su un banchetto e non riuscì a prendere bene la mira. Roosevelt si salvò e al suo posto perì il sindaco di Chicago. «Sfortuna», disse lui, e il Miami Herald scrisse: «È un italiano, scuro, tipico della sua razza……non dobbiamo più lasciare un posto libero sulla nostra terra per questa gente». Quanto mancava la sua terra a Joe, i boschi di querce e lecci dietro Ferruzzano, quel mare di smeraldo che lo salutava all’uscita di casa a ogni alba. Il profumo delle ginestre a primavera, l’odore del mosto che dopo la vendemmia faceva le bolle dentro i tini, le grida felici della mietitura. Tutta la sua vita era stata una mancanza, sua madre l’aveva mollato per il cielo che aveva solo due anni e lui quel cielo perennemente azzurro l’aveva sempre odiato. La scuola l’aveva mollato, mandandolo nei campi dopo i primi due mesi. E gli erano mancati solo pochi centimetri con i quali si sarebbe aggiustato la mira e avrebbe vendicato gli oppressi del mondo. E dopo trentatré anni l’avrebbe mollato la vita, e lui il supplizio della sedia elettrica lo voleva affrontare con più gioia di Nostro Signore. Non aveva paura di morire, solo non gli andava giù di farlo senza un giornalista che raccontasse del suo coraggio, per questo incitava il boia a fare in fretta. E non gli andava giù di averlo fallito il suo obiettivo. Quella stupida calibro trentotto a canna lunga non li valeva neanche i suoi otto dollari. E nessuno ora avrebbe potuto dire se il mondo sarebbe cambiato senza quel presidente americano. E l’anarchia di cui Giuseppe era figlio non avrebbe mutato le sorti del mondo. Gli era mancato il colpo giusto, come in tutta la sua vita sempre qualcosa di importante gli era fuggita via al momento opportuno. Gli era mancata l’innocenza di Sacco e Vanzetti per smuovere il cuore dei giusti. Così si sforzava, non avrebbe voluto morire, avrebbe semplicemente voluto tornare a casa a Ferruzzano, ma era tardi ormai e questa volta il coraggio non doveva abbandonarlo. Lo tenne stretto, lo prese fra i denti. «Ecco come muore un anarchico» disse al boia che per pochi dollari lo avrebbe fritto. Lui strinse gli occhi, e in un attimo tornò a Ferruzzano.