Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2019

 

L’AMBIENTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L'Ossessione del Mangiar bene. Il Senza non è sempre sinonimo di Sano.

L’Euro-Fregatura per il Made in Italy a tavola.

L’Unione fondata sulla lunghezza delle…

Addio foie gras.

L’Agro-fashion.

Non si piange sul Latte versato.

Ma cosa hai messo nel caffè?

Cos’è un mondo senza la Mortadella?

La Storia è un cocktail.

Il vino è passione.

La storia degli Spaghetti.

Festival da mangiare.

Dieta, missione difficile ma non impossibile: come fare a dimagrire dopo i 45 anni.

Nas nei ristoranti etnici, la metà è irregolare.

Nell'antica Roma una dieta da ricchi anche per gli scaricatori di porto.

Cosa mangeremo nei prossimi anni.

Addio Tumore, Prof Berrino: “Ecco gli alimenti che lo nutrono, mai mangiare la…”

Anche i cibi sani possono far male...a parte il Peperoncino, le Verdure e l’Aglio.

Il cibo può essere una medicina?

In campagna si muore di burocrazia.

Il Prezzo del pomodoro.

Il prezzo dell’Olio extra vergine, i conti proprio non tornano.

Una chimera chiamata sovranismo alimentare.

Gli stranieri? Li nutriamo a casa loro.

L’acqua in bottiglia è uno dei maggiori imbrogli del secolo.

La sinistra senza Nutella.

Le Bufale sulla carne.

Cosa si mangia? I regimi alimentari assurdi.

I Vegetariani sono sempre esistiti.

Chi vuol essere vegano!

La Guerra al Made in Italy.

I cibi contaminati.

“La porcata” di Parma.

Le problematiche degli allevamenti intensivi.

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Unesco, la transumanza è patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Dove non osano le aquile.

La Parabola dell’Orso.

L’animale più pericoloso? La Zanzara.

Brigitte Bardot: la prima vera animalista.

Animali da Circo: Incolpevoli delle disgrazie.

Muto come un pesce.

La pesca che, con la plastica, uccide il Mediterraneo.

La Sardine.

Il polpo "umano".

Gli squali tra fobia e attacchi mortali: sono davvero pericolosi?

Gli animali 007.

Il “gatto-volpe”.

Il Ligre.

Non chiamatelo ciuco.

Varenne va in pensione.

Il Marketing degli animali.

La ricetta elettronica.

I Farmaci Veterinari.

Che orrore la corrida delle lacrime.

Gli animali che maltrattiamo.

Combattimenti tra cani.

I Cani vittime di poliziotti violenti ed assassini.

Perché i cani ci salutano quando arriviamo e mai quando partiamo?

Tale cane…tale padrone.

Morte da cani.

Gli amanti della caccia.

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Le Allerte Meteo.

È il Paese delle frane.

Vivere sotto il vulcano.

Macerie e borghi spopolati.

Rigopiano, la tragedia dell'hotel si poteva evitare?

Il Terremoto delle Istituzioni.

L’Aquila non vola.

I furbetti del finanziamento per la ricostruzione.

Addio Tommy. Il Cane eroe.

Le tragedie italiane.

Gli sprechi sul terremoto.

Terremoto in Albania.

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Farmaci: da una parte ci curano, dall’altra ammalano pesci, animali e piante.

Sabbia d’oro.

Tossico…ma non per tutti.

Gli ultimi scalatori di Uluru.

«Mondo ambientalista inquinato come le fogne».

Bruxelles, la rete delle lobby "green" del clima.

L’ambientalismo? È il nuovo socialismo.

Il catastrofismo ambientale? Una religione!

Ecologia. Il climate-change tra religione e politica.

L’utopia delle emissioni-zero. 

L'uomo ha cominciato a modificare il clima ben 10.000 anni fa.

Come moriremo? Prevedere il futuro, ricordando il passato.

La natura batte i catastrofisti.

Disastri Ambientali. «Pago i faggi a prezzo pieno per far partire la rinascita dei boschi».

Gli animali di Chernobyl ci svelano quanto noi umani siamo insignificanti.

Così si leggono le nuvole. Quali portano pioggia e quali aria fredda?

Il clima (impazzito) brucia energia.

Se gli ambientalisti litigano sui "gas" emessi dalle mucche.

I sacrifici contro i cambiamenti climatici. Diventare Vegetariani-Vegani. Cambiare la nostra cultura e la nostra natura.

Lo Sport inquina?

Lo Smog uccide.

Fermare tutte le auto o aerei? Non ferma il CO2.

La Bufala delle Auto Elettriche per ricchi?

La raccolta e lo smaltimento dei rifiuti.

Rifiuti, ecoballe senza fine.

Si fa presto a dire plastic-free.

Perché nella guerra alla plastica l'Europa si è dimenticata dei bicchieri.

La "zarina" del Fai con la mania dei ruderi e di vezzeggiare il Pci.

Il Talebano dell’ecologia: Fulco Pratesi.

Shellenberger, l’ambientalista moderno.

Prima di Greta.

I Gretini.

Un coleottero di nome Greta.

Da Bill Gates a JLo: le star «ecologiste» che inquinano di più.

Non solo Greta.

L'anti-Greta.

Quelli che…non sono Gretini.

5G, rischi per la salute?

Terra dei fuochi e il processo all’Italia.

Ex Ilva e la condanna all’Italia.

La mappa degli inquinanti le nostre città.

Terre a Fuoco.

Chi gioca col fuoco.

In fumo l'ambientalismo grillino.

Xylella, tutte le colpe di scienziati e tecnici: “Falsi e negligenti”.

Lo smaltimento illecito del materiale nucleare.

Farmaci contaminati e contaminanti.

 

  

 

 

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L'Ossessione del Mangiar bene. Il Senza non è sempre sinonimo di Sano.

Roberta Salvadori per corriere.it il 30 novembre 2019.

Il rischio ossessione. Invitare a cena un gruppo di amici è sempre più difficile: è diventata un’impresa fare contenti tutti, con un solo menu. C’è chi non mangia glutine, chi ce l’ha col colesterolo, guai al lattosio, alla larga dai grassi e così via. In pratica 74 italiani su 100 (sondaggio Istituto IXé) escludono qualche componente dalla propria alimentazione. Per qualcuno (in caso di allergie specifiche, gravi intolleranze, problemi dietetici), le limitazioni sono prescritte dal medico. Per altri invece si tratta di scelte spontanee, ritenute salutistiche da chi le adotta. Per pochi (ma in crescita in tutti i Paesi sviluppati), la scelta di mangiare senza… qualcosa, si potrebbe addirittura configurare una vera ossessione per il cibo sano, cioè quello ritenuto, a torto o a ragione, privo di elementi nocivi per l’uomo e per l’ambiente. Questo recente disturbo del comportamento alimentare ha già un nome: ortoressia, e che, secondo il ministero della Salute, in Italia interessa per il momento circa 300 mila persone. Però: «l’abitudine di escludere, dalla propria alimentazione questo o quello, senza che ci sia una reale indicazione medica, può portare a diete squilibrate, troppo povere di proteine, vitamine, oligoelementi», avverte Marco Silano, direttore del reparto Alimentazione, nutrizione e salute dell’istituto superiore di sanità. Il fatto è che, data la richiesta crescente, i banchi dei supermercati grondano di prodotti a cui è stato sottratto questo o quell’elemento. Facciamo dunque un piccolo slalom con l’aiuto degli specialisti, fra i «senza» più comuni.

Senza zucchero. Lo zucchero da tavola, o saccarosio (disaccaride formato da glucosio e fruttosio), si può trovare normalmente in molti prodotti confezionati, soprattutto in marmellate, bibite, biscotti ma anche in yogurt, cereali da prima colazione, succhi di frutta ecc. «La riduzione quotidiana di saccarosio è indicata per chi soffre di diabete, obesità, malattie cardiovascolari. Per gli altri, bisogna intendersi: fino al 10 per cento delle calorie quotidiane da zucchero da tavola è consentito per gli adulti», afferma Silano. Questo significa che su 1500 calorie al giorno, 150, pari a meno di 40 g al dì, sono permesse dai nutrizionisti. Quindi, violentare il proprio palato per negargli un po’ di dolcezza, in genere non è necessario. Nemmeno per dimagrire. Secondo lo specialista: «la sensibilità individuale allo zucchero può variare da persona a persona. Non tutti, diminuendo lo zucchero, riescono a dimagrire. La dieta deve essere personalizzata per funzionare». In ogni caso, chi opta per i prodotti sugar free, dovrebbe tenere d’occhio le etichette nutrizionali. La scritta in etichetta senza zucchero/i aggiunti, non esclude di per sé la presenza di zuccheri semplici nel prodotto alimentare (per esempio le marmellate, contengono pur sempre il fruttosio, naturalmente presente nella frutta). «Oltre a quello che non c’è, il consumatore dovrebbe sempre controllare sull’etichetta nutrizionale che cosa è stato introdotto in quell’alimento al posto dell’ingrediente mancante al fine di ottenere un prodotto finale ugualmente appetibile», avverte Marisa Porrini, direttore del Dipartimento di scienze per gli alimenti, nutrizione e ambiente, Università degli studi di Milano. «In pratica, se un prodotto è dolce, o contiene zuccheri o additivi dolcificanti», precisa l’esperta.

Senza lattosio. Il lattosio (costituito da glucosio e galattosio) è il classico zucchero del latte. Se ne trova soprattutto in formaggi molli, gelati, latti fermentati, panna ecc. «Chi non lo tollera, non può che cercare di evitarlo», ammette Silano. Secondo l’Efsa, l’intolleranza al lattosio nella dieta può infastidire 7 persone su 10. In genere non è assoluta ma i livelli possono essere molto vari. Prodotti industriali dichiarati senza lattosio sono, fra gli altri latti vegetali e bevande di cocco, mandorla, soia, riso; latte privato della lattasi, certi biscotti ecc. In ogni caso, occhio alle etichette. Per non contenere lattosio, un prodotto non deve riportare in etichetta, oltre al latte, nemmeno siero, caglio e sottoprodotti del latte. «Certo, la rinuncia a latte e latticini comporta anche la rinuncia a elementi come calcio, fosforo, importanti per le ossa fino a 25 anni di età, cioè fino a quando lo scheletro è in costruzione. Ma le persone adulte, dopo la crescita, se vogliono, possono farne a meno, senza particolari danni», spiega lo specialista.

Senza glutine. Viene dagli Stati Uniti la moda di mangiare cibi senza glutine, (la proteina del frumento formata da gliadina e glutenina) nella convinzione che questa scelta sia più salutare e aiuti a perdere peso ma in realtà non è cosi. «Sono solo i celiaci con diagnosi certa di celiachia, che devono obbligatoriamente togliere non solo il glutine ma anche frumento, orzo, farro dalla propria alimentazione», avverte Silano. «Per tutti gli altri, la rinuncia a pane, pasta ecc. significa privarsi di elementi importanti per la dieta: carboidrati complessi, proteine vegetali, fibre, sali, vitamine. Non solo. L’uso di prodotti gluten free può comportare anche qualche inconveniente per la linea. I prodotti senza glutine in commercio possono essere più ricchi di calorie, perché sono in genere addizionati di grassi, hanno un minore effetto saziante e un più alto indice glicemico, che comporta un maggiore aumento dello zucchero nel sangue dopo il loro consumo».

Senza colesterolo. «Chi ha problemi di colesterolo alto e quindi è a rischio di patologie cardiovascolari come l’infarto, deve stare attento a evitare non tanto al singolo prodotto, dichiarato senza colesterolo, quanto regolare la propria dieta nel suo complesso», osserva Andrea Ghiselli, nutrizionista, ricercatore del Crea (Centro Ricerca Alimenti e Nutrizione). Il fatto è, puntualizza lo specialista, che ben l’80 per cento del colesterolo che può intasare le nostre arterie, viene prodotto dal nostro stesso organismo. L’alimentazione quotidiana può influire solo sul restante 20 per cento. «E il modo migliore per tenerlo sotto controllo consiste nel mangiare soprattutto, verdura, cereali integrali e un po’ di frutta, secondo le classiche indicazioni della dieta mediterranea» conclude Ghiselli.

La questione additivi. Coloranti, addensanti, conservanti, ecc. Sono centinaia i composti chimici consentiti dalla legge, perché considerati sicuri per la salute, che l’industria può aggiungere nei prodotti alimentari perché non si deteriorino troppo presto, non ci intossichino e per migliorarne gusto e appetibilità. «Eppure, fra tutti i possibili senza, che troviamo sulle etichette, l’eliminazione degli additivi è particolarmente delicata», afferma Ernestina Casiraghi, docente di Tecnologie alimentari all’Università Statale di Milano. Il fatto è, spiega la specialista, che gli additivi possono essere indispensabili per la produzione di molti alimenti. Per esempio conservanti e antiossidanti garantiscono sicurezza e durata di conserve a base di carne e pesce. Meno necessari ma pur sempre importanti, gli aromatizzanti migliorano l’appetibilità dei prodotti. I coloranti ne migliorano l’estetica e così via. «Oggi l’industria alimentare tende a usare meno additivi chimici possibile», afferma Casiraghi. Ma chi vuole limitarne il consumo deve rassegnarsi a controllare le etichette nutrizionali senza affidarsi esclusivamente alle dichiarazioni sulle confezioni. È inutile scegliere, per esempio, un prodotto senza coloranti, se poi, quello stesso prodotto è pieno di aromi. La strategia migliore è mangiare prodotti freschi e poco elaborati.

·        L’Euro-Fregatura per il Made in Italy a tavola.

Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2019. Dopo i trattati di libero scambio firmati dall'Unione europea con Canada e Giappone, già in funzione e quello con i Paesi del Mercosur - Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Venezuela, Bolivia Cile, Perù, Colombia ed Ecuador - si profila una nuova euro-fregatura per il made in Italy a tavola. Nelle stanze del potere a Bruxelles starebbe prendendo corpo un accordo sul nutri-score, l' etichetta nutrizionale a semaforo che con la scusa di avvertire i consumatori sulla presenza di grassi, zucchero e sale, attribuisce un giudizio di «pericolosità» del tutto arbitrario. Ai cibi viene attribuito un voto su una scala a 5 posizioni che va dal verde scuro al rosso intenso, passando per il verde pisello, il giallo e l' arancione. Non a caso questo sistema viene definito etichetta a semaforo. A lanciare l' allarme è stato l' altroieri Matteo Salvini, parlando dagli studi di Porta a porta. «C' è un' altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella che si chiama nutri-score», spiega il leader della Lega, «un bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde per dire quelli che fanno bene o male. Alimenti come il prosciutto San Daniele o il Pecorino Romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. Una boiata pazzesca».

SEGRETEZZA. E la segretezza si spiegherebbe proprio con l' intento di evitare la levata di scudi dell'Italia. Il «no» al nutri-score è trasversale nel nostro Paese. Tutta la filiera agroalimentare, da Coldiretti fino a Federalimentare è fortemente contraria all' etichetta a semaforo perché boccerebbe i campioni del made in Italy promuovendo gli alimenti con un basso contenuto di grassi, sale e zucchero. Così se la Red Bull, nota bevanda energetica, prenderebbe un verde pieno, al Gorgonzola sarebbe attribuito l' arancione e al Parmigiano Reggiano il rosso. Il sistema, in realtà, utilizza due scale correlate per classificare la qualità dei prodotti: una cromatica divisa in cinque gradazioni dal verde al rosso e una alfabetica con lettere che vanno dalla A alla E. I prodotti vengono suddivisi in cinque categorie e il punteggio è determinato in base ai nutrienti che contengono. Fibre, proteine, frutta, verdura rientrano tra gli ingredienti giudicati «buoni» e ottengono un punteggio positivo. Altri ingredienti come grassi saturi, zucchero e sale influiscono negativamente e fanno scattare il rosso o l' arancione. E ha ragione Salvini a protestare. Con la scusa di favorire un' alimentazione sana, il nutri-score, in realtà, finirebbe per penalizzare le nostre eccellenze alimentari, dalle quali i consumatori sarebbero invitati a tenersi alla larga. Mentre molti cibi industriali sarebbero promossi a pieni voti. Fra l' altro, proprio in questi giorni il governo olandese ha annunciato l' intenzione di adottare l' etichetta a semaforo a partire dal 2021. Ad anticipare l' atto ufficiale, atteso prima della fine dell' anno è stato il ministro della Salute, Paul Blockhuis, anticipando su Twitter che l' etichetta a semaforo arriverà sugli scaffali nell' estate del 2021, dopo aver adattato il sistema di calcolo del Nutri-Score alle linee guida dietetiche olandesi. Ma l'Olanda non è sola. L'etichetta a semaforo è già stata introdotta in Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Svizzera, Germania. Pare destinato a finire in soffitta il sistema alternativo proposto dall' Italia, l' etichetta «a batteria» che attribuisce comunque un punteggio alla presenza di grassi saturi, sale e zucchero nei cibi, pesandoli però in base alla dose giornaliera consigliata nell' ambito di una dieta salutare, mentre il nutri-score valuta 100 grammi di prodotto, quando ad esempio, ben difficilmente si potrebbero assumere giornalmente 100 grammi di olio extravergine, che si prende comunque un giallo.

NUTRIZIONISTI. I nutrizionisti, non solo quelli italiani, si sono espressi a favore del nostro sistema di etichettatura che assicurerebbe, fra l' altro, un regime alimentare equilibrato, con apporti calorici, di proteine e di vegetali molto simili a quelli della dieta mediterranea a cui tutti gli organismi internazionali attribuiscono un peso rilevante per la longevità raggiunta dagli italiani. Ma la scelta dei Paesi che si stanno aggregando come sempre attorno all' asse Parigi-Berlino lascia poche speranze. Prima ancora che la Commissione Ue abbia analizzato la proposta italiana, la scelta è di fatto già compiuta e ci penalizzerà duramente. In compenso si avvicina la data di entrata in vigore del Regolamento Ue numero 775 del 2018, il 1° aprile del prossimo anno, quando decadranno tutte le norme sull' origine dell' ingrediente primario in etichetta introdotte in via sperimentale dal nostro Paese. Facendo ripiombare nell' anonimato alimenti quali burro, formaggi, yogurt, latte a lunga conservazione, pasta, riso e sughi a base di pomodoro. A meno che compaiano elementi come il tricolore che ne richiamino l' italianità i produttori potranno omettere ogni riferimento al Paese d' origine degli ingredienti. La Germania ringrazia sentitamente.

Emanuele Bonini per "lastampa.it" il 5 dicembre 2019. L'Aceto balsamico non è quello di Modena. Non solo quello. Il noto marchio del «made in Italy» ha valenza solo se associato al nome della città, altrimenti non è più prodotto di qualità certificata e non può essere protetto. Così ha stabilito la Corte di giustizia dell'Ue, che apre le porte del mercato ai concorrenti di tutto il mondo. Già, perché chiarendo che l’Igp (indicazione geografica protetta) è tutelata e tutelabile solo nella parte «geografica» della denominazione, si dice che chiunque potrà immettere in commercio il proprio aceto balsamico. In realtà i giudici di Lussemburgo esprimono il concetto in un altro modo, dicendo cioè che la protezione della Igp in questione «non si estende all'utilizzo dei termini individuali non geografici della stessa». Ma cambia poco. Nella pratica non si può contraffare il marchio «Aceto balsamico di Modena», ma non è contraffazione scrivere sulle boccette prodotte altrove «aceto balsamico» e basta. E’ la provenienza dall’area modenese a rendere specifico e caratteristico il prodotto registrato e protetto da Igp. Il resto non ha natura distintiva. Il termine «aceto» è un termine comune, mentre «balsamico» è un aggettivo comunemente impiegato per designare un aceto che si caratterizza per un gusto agrodolce. Niente da fare, dunque. L’aceto balsamico non è solo quello di Modena, dunque. A ciascuno il proprio, dunque. Ma solo quello di Modena è sinonimo di made in Italy. A proposito di eccellenze italiane: la Corte UE rileva che i termini comuni non tutelabili in quanto tali compaiono nelle Dop (denominazioni di origine protetta) registrate «Aceto balsamico tradizionale di Modena» e «Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia». Due diciture che non pregiudicano la protezione dell’Igp modenese.

Nuova mina sul governo: il dossier segreto Ue letale per il Made in Italy. L'Europa vuole etichette che promuovono la Coca Cola e bocciano insaccati e formaggi. Giuseppe Marino, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. La dieta più sana secondo l'Unione europea: Coca cola e Red Bull. Purché siano light o senza zucchero. Vade retro parmigiano, grana padano, prosciutto San Daniele, pecorino e, ovviamente, la Nutella. Piano pure con il gorgonzola. Tutti cibi da tempo finiti nel tritacarne prima del «semaforo nutrizionale» inventato nel Regno Unito e, dal 2018, in una sua evoluzione spinta soprattutto dai francesi: il sistema nutri-score. Si tratta di un'etichettatura stampata sul fronte della confezione che semplifica il giudizio su ogni alimento assegnandogli un colore e una lettera sulla scala: verde (A), verdino (B), giallo (C), arancio (D), rosso arancio (E). Verde indica maggior contenuto di nutrienti giudicati positivamente: fibre, proteine, frutta, verdura, leguminose e oleaginose. Il rosso è l'allarme per nutrienti da limitare: calorie, grassi saturi, zuccheri e sale. Il problema è che così si crea un pregiudizio sul cibo a prescindere dalla quantità consumata e da come è inserito nel contesto di una dieta. Il risultato è che la Coca cola light è verdina e lo speck rosso fuoco. Cosa che avrebbe senso se si consumassero interi pasti fatti esclusivamente di speck. Così concepito, il sistema è un siluro contro la collaudata dieta mediterranea che mescola sapientemente le materie prime tipicamente made in Italy, grande risorsa per l'export italiano. Ma mentre l'Unione europea aveva addirittura avviato una procedura di infrazione contro il sistema a semaforo degli inglesi, quello francese, adottato furbescamente come sperimentale, non ha suscitato le ire dell'Ue. Al contrario: la Dg Sante (ovvero la direzione generale Salute e sicurezza del cibo), poco prima che la Commissione Juncker lasciasse il posto, ha prodotto un'analisi riservata che valuta positivamente i sistemi a colori per i cibi. Non è ancora un endorsement per il sistema francese, che nel frattempo ha preso piede anche in altri Paesi, vedi Spagna e Belgio. Ma di certo è la base per una futura legislazione europea che, a fronte del fatto che il sistema sta facendo proseliti in diversi Paesi dell'Unione, potrebbe raccomandarne l'adozione a tutta l'Ue pur di armonizzare le etichette. Il documento preoccupa talmente la Lega che Matteo Salvini ha denunciato il rischio a Porta a porta: «C'è un'altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella sul bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde. Alimenti come l'olio di oliva o il prosciutto San Daniele o il pecorino romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. È una boiata pazzesca». Nulla è deciso e il governo italiano sta presentando un sistema alternativo di classificazione, ma potrebbe comunque essere tardi: il sistema dei colori banalizza la questione e proprio per questo è efficace nella comunicazione. A essere preoccupato non è il solo Salvini. «Si rischia di sostenere, con la semplificazione, modelli alimentari sbagliati che mettono in pericolo non solo la salute dei cittadini ma anche il sistema produttivo di qualità del made in Italy», dice il presidente di Coldiretti Ettore Prandini. E per Federalimentare «nutri-score è peggio dei dazi».

Salvini: "Nella Nutella nocciole turche. Preferisco mangiare italiano". Salvini in un comizio a Ravenna: "Ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". Angelo Scarano, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. "No signora, non ho freddo...sto bene. Poi mangio pane e salame e due sardine e sto ancora meglio...". Scherza Matteo Salvini a Ravenna, quando una simpatizzante sotto il palco gli chiede se non ha freddo. Il leader della Lega però torna serio quando gli ricordano di mangiare la Nutella. "La Nutella? Ma lo sa signora che ho cambiato? Perché ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". E proprio oggi è arrivato un nuovo schiaffo all'Italia da parte della Ue. Uno schiaffo che minaccia direttamente il Made in Italy. "Il nostro cibo fa male": questo il messaggio contenuto nel dossier segreto dell'Ue, secondo cui la dieta più sana è Coca cola e Red Bull. Purché siano light o senza zucchero. Come ha spiegato Giuseppe Marino sul Giornale, "vade retro parmigiano, grana padano, prosciutto San Daniele, pecorino e, ovviamente, la Nutella. Piano pure con il gorgonzola. Tutti cibi da tempo finiti nel tritacarne prima del «semaforo nutrizionale» inventato nel Regno Unito e, dal 2018, in una sua evoluzione spinta soprattutto dai francesi: il sistema nutri-score. Si tratta di un'etichettatura stampata sul fronte della confezione che semplifica il giudizio su ogni alimento assegnandogli un colore e una lettera sulla scala: verde (A), verdino (B), giallo (C), arancio (D), rosso arancio (E). Verde indica maggior contenuto di nutrienti giudicati positivamente: fibre, proteine, frutta, verdura, leguminose e oleaginose. Il rosso è l'allarme per nutrienti da limitare: calorie, grassi saturi, zuccheri e sale. Il problema è che così si crea un pregiudizio sul cibo a prescindere dalla quantità consumata e da come è inserito nel contesto di una dieta. Il risultato è che la Coca cola light è verdina e lo speck rosso fuoco. Cosa che avrebbe senso se si consumassero interi pasti fatti esclusivamente di speck. Così concepito, il sistema è un siluro contro la collaudata dieta mediterranea che mescola sapientemente le materie prime tipicamente made in Italy, grande risorsa per l'export italiano". Sul tema Salvini aveva dichiarato: "C'è un'altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella che si chiama Nutriscore. Un bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde per dire quelli che fanno bene o male. Alimenti come l'olio di oliva o il prosciutto San Daniele o il pecorino romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. È una boiata pazzesca".

Salvini: "Nella Nutella nocciole turche. Preferisco mangiare italiano". Salvini in un comizio a Ravenna: "Ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". Angelo Scarano, Giovedì 05/12/2019, su Il Giornale. "No signora, non ho freddo...sto bene. Poi mangio pane e salame e due sardine e sto ancora meglio...". Scherza Matteo Salvini a Ravenna, quando una simpatizzante sotto il palco gli chiede se non ha freddo. Il leader della Lega però torna serio quando gli ricordano di mangiare la Nutella. "La Nutella? Ma lo sa signora che ho cambiato? Perché ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". E proprio oggi è arrivato un nuovo schiaffo all'Italia da parte della Ue. Uno schiaffo che minaccia direttamente il Made in Italy. "Il nostro cibo fa male": questo il messaggio contenuto nel dossier segreto dell'Ue, secondo cui la dieta più sana è Coca cola e Red Bull. Purché siano light o senza zucchero. Come ha spiegato Giuseppe Marino sul Giornale, "vade retro parmigiano, grana padano, prosciutto San Daniele, pecorino e, ovviamente, la Nutella. Piano pure con il gorgonzola. Tutti cibi da tempo finiti nel tritacarne prima del «semaforo nutrizionale» inventato nel Regno Unito e, dal 2018, in una sua evoluzione spinta soprattutto dai francesi: il sistema nutri-score. Si tratta di un'etichettatura stampata sul fronte della confezione che semplifica il giudizio su ogni alimento assegnandogli un colore e una lettera sulla scala: verde (A), verdino (B), giallo (C), arancio (D), rosso arancio (E). Verde indica maggior contenuto di nutrienti giudicati positivamente: fibre, proteine, frutta, verdura, leguminose e oleaginose. Il rosso è l'allarme per nutrienti da limitare: calorie, grassi saturi, zuccheri e sale. Il problema è che così si crea un pregiudizio sul cibo a prescindere dalla quantità consumata e da come è inserito nel contesto di una dieta. Il risultato è che la Coca cola light è verdina e lo speck rosso fuoco. Cosa che avrebbe senso se si consumassero interi pasti fatti esclusivamente di speck. Così concepito, il sistema è un siluro contro la collaudata dieta mediterranea che mescola sapientemente le materie prime tipicamente made in Italy, grande risorsa per l'export italiano". Sul tema Salvini aveva dichiarato: "C'è un'altra trattativa tenuta nascosta a Bruxelles, quella che si chiama Nutriscore. Un bollino sugli alimenti con semaforo rosso, giallo o verde per dire quelli che fanno bene o male. Alimenti come l'olio di oliva o il prosciutto San Daniele o il pecorino romano avrebbero il semaforo rosso. È un paper segreto. È una boiata pazzesca".

Fiorella Mannoia ironizza su Salvini: "Anche le nocciole sono migratorie". I social si scatenano: "Salvini non mangia Nutella perché contiene nocciole turche? Pensate quando scoprirà che l'Italia non produce la canna da zucchero per il rum". Luca Sablone, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Tutto si poteva pensare tranne che pure la Natura avrebbe rappresentato un fronte di duro scontro nella politica italiana. Tutto è partito da un'affermazione di Matteo Salvini durante un comizio a Ravenna: "Ho scoperto che per la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani". Sulla questione è intervenuta senza troppe parole e in maniera ironica Fiorella Mannoia. La cantante, sul proprio profilo Twitter, ha scritto: "Anche le nocciole sono migratorie". Più duro l'intervento di Matteo Renzi, che ha criticato la caduta di stile da parte del leader della Lega: "Nei giorni di Ilva, Alitalia, legge di bilancio, summit Nato il senatore Matteo Salvini attacca la Nutella. La Nutella, sì, la Nutella. Dice che così sembra più vicino al popolo. E io ingenuo che insisto a voler parlare di cantieri, tasse, Europa". Sui social non sono mancati i commenti ironici. "Salvini ha deciso di non mangiare più la Nutella perché contiene nocciole turche, da oggi in poi solo Pisella, fatta con verdissimi piselli padani", scrive un utente. Sulla vicenda è intervenuta anche la pagina satirica Vujadin Boskov ispirata all'ex allenatore della Roma e della Sampdoria: "Salvini ha detto che non va più da meccanico perchè visto che lui usa chiave inglese invece di quella italiana". C'è chi ha voluto ricordare i giorni d'estate trascorsi dal segretario federale del Carroccio a Milano Marittima, che aveva scaturito le polemiche sul mojito: "Pensate al dramma umano quando Capitan Mojito scoprirà che l'Italia non produce la canna da zucchero per il rum".

Sinistra contro Salvini per la Nutella: “Danneggia il made in Italy”. Salvini attacca ancora la Nutella e lancia un appello alla Ferrero: "Comprate prodotti italiani". Il Pd: "È un irresponsabile, danneggia il made in Italy". Federico Giuliani, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. La confessione di Matteo Salvini di non mangiare più Nutella perché è fatta con "nocciole turche" ha provocato un vero e proprio terremoto politico.

"Preferisco mangiare italiano". Giovedì scorso, quando a Ravenna il leader leghista a margine di un comizio aveva spiegato a una signora di “mangiare italiano” per “aiutare gli agricoltori italiani”, lasciando intendere che nella sua dieta non c’era più spazio per la Nutella, nessuno si aspettava di assistere a un simile terremoto. E invece Salvini ha preso sul serio la "battaglia" contro la crema spalmabile alle nocciole di casa Ferrero, tanto che, parlando in diretta Facebook, l'ex ministro dell'Interno si è rivolto direttamente all’azienda dolciaria di Alba. Il segretario del Carroccio ha lanciato un appello in cui ha chiesto a Ferrero di comprare prodotti italiani: "Signori Ferrero comprate zucchero italiano, nocciole italiane, latte italiano. Posso chiedere alle aziende che hanno tanti appassionati clienti in Italia di comprare prodotti italiani?”.

L'affondo di Renzi. Le parole di Salvini hanno scatenato un putiferio. Tante sono le voci di coloro che hanno risposto per le rime al segretario del Carroccio, a cominciare da Matteo Renzi. Il fondatore di Italia Viva ha colto l'occasione per contrapporre la polemica sulla Nutella scatenata dal segretario del Carroccio alle altre problematiche italiane: “Nei giorni di Ilva, Alitalia, legge di bilancio, summit Nato, il senatore Matteo Salvini attacca la Nutella. La Nutella, sì, la Nutella. Dice che così sembra più vicino al popolo. E io ingenuo che insisto a voler parlare di cantieri, tasse, Europa”.

Le altre reazioni. Il viceministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni, del Movimento 5 Stelle, si è lanciato in un’invettiva ancora più dura contro quanto dichiarato da Salvini. Il post pubblicato su Facebook da Buffagni è emblematico: “Ormai 'Capitan bacionì è passato dall'essere alla frutta direttamente al dolce. Il suo attacco a uno dei prodotti italiani più conosciuti e venduti al mondo, la Nutella, ne è l'ennesima prova". Non è poi mancata la strenua difesa dell'azienda piemontese, difesa a spada tratta da Buffagni: "Ferrero è un'azienda leader in Italia che dà lavoro a migliaia di dipendenti, il 40% donne, e si distingue nel panorama del Paese per le sue politiche di welfare aziendale". Il fatto che Ferrero importi nocciole dalla Turchia non è un problema in quanto "un quarto delle nocciole utilizzate" per fare la Nutella "proviene dall'Italia". Infine, l'ultimo affondo contro l'ex alleato di governo: "Ormai più che il politico Salvini sembra fare l'influencer. Ma anche per fare quest'attività bisognerebbe essere bravi e preparati". Per il Pd, invece, Salvini è un “irresponsabile” che “danneggia il made in Italy”. Il vice capogruppo dei dem alla Camera, Chiara Garibaudo, ha consigliato al leader leghista di non attaccare Nutella perché con le sue parole il segretario del Carroccio potrebbe mettere in pericolo posti di lavoro e danneggiare la reputazione di un'azienda e del suo prodotto, considerato "un biglietto da visita per l'Italia". Anche Osvaldo Napoli, del direttivo di Forza Italia alla Camera, ha puntato il dito contro le parole di Salvini: “Se tutti sapessero, non solo Salvini, che l'Italia non è in grado di produrre la quantità di nocciole necessarie alla Ferrero per produrre l'ineguagliabile Nutella oggi la politica si occuperebbe di cose molto più serie e urgenti. Invece il demone della propaganda elettorale riesce a fare danni terribili, anche preterintenzionali". Prova a spegnere l’incendio il presidente del Piemonte, Alberto Cirio. Queste le sue parole ai microfoni di Rainews: “La dichiarazione di Salvini non era sicuramente un attacco alla Nutella ma legata alla follia di Bruxelles di mettere un semaforo per dire i cibi che fanno bene e quelli che fanno male". Nonostante questo, Cirio ha spiegato come "la Ferrero consuma il 40% delle nocciole del mondo quindi sarebbe difficile che potesse usare solo le nocciole italiane perché le finirebbe in una settimana".

L'autogol di Salvini sulla Nutella: senza nocciole turche, non si può fare. Ankara è la leader indiscussa della produzione globale: dalla Turchia arriva il 70% della materia prima. L'Italia è seconda, ma si ferma al 14%. Mentre la Ferrero assorbe il 20% delle nocciole di tutto il mondo: attingere all'estero è necessario. Alba ha anche lanciato un progetto di filiera per far crescere i frutti tricolori. Ettore Livini il 06 Dicembre 2019 su La Repubblica. Niente nocciole turche, niente Nutella. La guerra autarchica di Matteo Salvini contro l'invasione della materia prima straniera nelle creme spalmabili made in Italy ha un difetto all'origine: il nostro paese produce molti meno frutti di quelli di cui ha bisogno la sola Ferrero (una delle ultime multinazionali tricolori sopravvissute allo shopping estero) per la sua produzione. I numeri parlano da soli: la penisola ha prodotto nella campagna 2017/2018 circa 125mila tonnellate di nocciole, pari al 14% circa del totale mondiale. La società di Alba, dicono stime di settore, consuma più del 20% del raccolto globale. Ragione per cui è costretta a comprare parte del suo fabbisogno oltre frontiera e ha lanciato un progetto di filiere destinato ad aumentare del 30%, entro il 2025, la coltivazione nel nostro paese. Il numero uno indiscusso del settore è la Turchia - entrata non a caso nel mirino del leader della Lega - cui fa capo oggi circa il 70% della produzione mondiale. Una leadership che Recep Tayyip Erdogan ha intenzione di consolidare grazie all'accordo di sviluppo e cooperazione a tre appena siglato con Georgia e Azerbaijan, i due astri nascenti che stanno scalando rapidamente le gerarchie del mercato e sono vicine al sorpasso degli Stati Uniti che occupano oggi il terzo gradino del podio alle spalle dell'Italia. La produzione in Italia è circoscritta per ora a quattro regioni: il Lazio mette sul mercato circa 45mila tonnellate di nocciole l'anno, quasi tutte in arrivo dalla provincia di Viterbo, segue la Campania con 39mila (metà da Avellino e dintorni), il Piemonte con 20mila e poi la Sicilia. Troppo poco per garantire al paese l'autosufficienza. La Ferrero - alla luce anche delle fibrillazioni geopolitiche nell'area turca e caucasica e delle oscillazioni dei raccolti legati alle variabili climatiche - ha deciso lo scorso anno di varare il Progetto Nocciola Italia. Obiettivo: aumentare del 30% la produzione nel nostro paese in cinque anni, portando da 70mila a 90mila gli ettari coltivati. Il piano prevede una sorta di censimento dei terreni più vocati alla coltivazione assieme all'Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) per allargare ad altre aree la piantumazione dei nuovi noccioleti. La società piemontese si è impegnata a firmare accordi di filiera a lungo termine con le singole aziende agricole, garantendo una consulenza nella scelta delle piante in vivaio, la formazione costante e l'impegno a comprare il 75% della produzione fino al 2037 a prezzi che prevedono un ritocco all'insù rispetto alla media di mercato e premi legati alla qualità del prodotto consegnato.

·        L’Unione fondata sulla lunghezza delle…

Stefano Filippi per “la Verità” il 31 ottobre 2019. Sapevamo che l' Europa è un'Unione fondata sulla lunghezza delle banane (al massimo 14,27 centimetri) e sulla curvatura del cetriolo: 10 millimetri ogni 10 centimetri di lunghezza per un prodotto di prima qualità. Ora però dobbiamo aggiungere un terzo pilastro all' edificio comunitario, cioè la lunghezza delle vongole. Venticinque millimetri, non uno di meno: è la misura aurea delle valve stabilita da un regolamento di Strasburgo. Peccato che quelle pescate in Adriatico non possano raggiungere una lunghezza superiore ai 22 millimetri. Peccato anche che 8 «poveracce» comunitarie su 10 vengano proprio dall' Italia. Ognuno ha la sua specialità: dalla Francia arriva l' 86% delle ostriche, dalla Spagna il 45% delle cozze e dall' Adriatico l' 80% delle vongole. Quei 3 millimetri mettono in ginocchio un prodotto tipico italiano. Questa delle mini vongole condannate all' estinzione è l' ennesima storia di euroburocrazia dannosa. È la prova dell' incapacità del colosso comunitario di piegarsi sul dettaglio e valorizzare la diversità. Tutto nell' Ue dev' essere standard, omologato ai voleri di chi guarda solo a settentrione e considera il Mediterraneo un bacino minore rispetto al Baltico o al Mare del Nord. E se protesti sei uno scocciatore, non un cultore della biodiversità e della sostenibilità, parole che oggi vanno di gran moda ovunque, fuorché nei sordi palazzi del potere europeo. Quando il regolamento fu pubblicato, nel 2015, l' Italia ebbe la forza soltanto di chiedere una deroga, non di bloccare o fare riscrivere il testo. Ci fu concessa una deroga di 36 mesi. Uno strappo carico di commiserazione: i soloni di Bruxelles non amano essere contraddetti. In questi tre anni dovevamo metterci in riga, oppure produrre argomenti in difesa della piccola vongola nostrana. Fior di consorzi tutelano vini e formaggi dagli innumerevoli tentativi di imitazione sparsi nel mondo. Per la minuscola Venus gallina si è messo in campo un pezzo da 90, nientemeno che il Consiglio nazionale delle ricerche. Secondo gli studi a senso unico dell' Unione, se una vongola non raggiunge i 25 millimetri non è in grado di riprodursi. Raccogliere quelle di taglia inferiore significa, alla lunga, depauperare la specie. Il Cnr ha invece certificato le elevate qualità della vongola nostrana: per esempio, le conchiglie che si pescano lungo la riviera veneta, romagnola e anche più in giù sarebbero già pronte quando raggiungono i 15-16 millimetri, e lasciarle crescere fino a superare i 22 significa condannarle a morte. Per i fondali marini, la pesca delle vongole piccole è più sostenibile perché bastano meno passate delle reti a strascico. L' Adriatico è un ecosistema tutto particolare, con fondali bassi e sabbiosi, dove i pescatori hanno un' attività completamente diversa dai loro colleghi dei mari nordici. Per una volta, l' Italia ha fatto il suo dovere. Ha fornito le ragioni scientifiche e ambientali per le quali la normativa europea dovrebbe essere modificata. Ma il regolamento è rimasto tale e quale. Quei 3 millimetri non si toccano e alla fine del 2019 scade la delega triennale generosamente concessa da Bruxelles. In previsione della ghigliottina, l' europarlamentare leghista Rosanna Conte, componente della Commissione pesca, veneziana di Caorle e quindi sensibile alle preoccupazioni dei vongolari, ha presentato una nuova richiesta di deroga biennale.

Con l' assemblea di Strasburgo appena rieletta, non c' era il tempo di fare altro. La Commissione pesca si è riunita. La discussione è stata una battaglia. «Dopo ore di dibattito», dice Conte, «il presidente è intervenuto chiedendomi come mai avessi così a cuore una conchiglia. Non sapeva neppure che la vongola è un mollusco. Mi veniva da piangere. Si è scusato». Per la cronaca, il presidente della Commissione pesca è un inglese, si chiama Chris Davies, è un liberal democratico esperto di questioni ambientali. La Conte È stata ascoltata a metà perché la sua proposta è stata dimezzata. Proroga di un anno, fino a tutto il 2020: meglio che niente. La decisione, però, non è ancora stata presa dalla Commissione pesca. Il 28 agosto scorso sono stati concessi due mesi di tempo ai componenti per esaminare le carte, chiedere approfondimenti e sollevare obiezioni. Il che è puntualmente successo: gli spagnoli si sono messi in mezzo. Un po' per ragioni di concorrenza commerciale dei pescatori dell' Andalusia, un po' per difendere le grandi compagnie di produzione ittica, un po' perché i sudditi di re Felipe sono in campagna elettorale più spesso di noi, fatto sta che i commissari iberici hanno chiesto e ottenuto altri due mesi per valutare se opporsi alle ragioni dell' Italia. Le vongole valgono oltre un quinto dell' acquacoltura europea, 1,1 miliardi di euro su quasi 5 miliardi, una nicchia in crescita continua che nell' Ue dà lavoro a 73.000 persone. Dunque, il 28 ottobre scadeva il termine entro il quale porre questioni e votare sulla richiesta italiana di proroga. Ora la scadenza slitta al 28 dicembre. «Sono ragionevolmente fiduciosa», sospira Rosanna Conte, «ma la firma non c' è ancora. I nostri pescatori hanno già fatto moltissimo, hanno ridotto le quantità prelevate e i periodi di pesca. Il mare è la loro azienda, non hanno interesse a danneggiarlo». Il problema è che tra un anno saremo daccapo. «I governi di Italia e Spagna devono sedersi a un tavolo e trovare un' armonizzazione sulla taglia delle vongole», dice Vadis Paesanti, vicepresidente di Confcooperative Fedagripesca Emilia Romagna. Ma in Italia abbiamo Giuseppi Conte e in Spagna per ora non c' è nessuno. E quei 3 millimetri di euroburocrazia resteranno una distanza incolmabile.

·        Addio foie gras.

Da ilmessaggero.it l'1 novembre 2019. Un piatto di foie gras a New York costa mediatamente 30 dollari al cliente. Da ieri, molto di più rischia di costare al ristoratore che lo servirà: fino a mille dollari (2mila in caso di recidiva) e perfino un anno di carcere. Il consiglio comunale della Grande Mela ha infatti messo fuori legge il ricercato piatto di origine francese. Su 48 votanti in 42 hanno approvato il pacchetto di provvedimenti sul benessere degli animali che vieta anche la cattura di uccelli selvatici e aggiunge restrizioni alle carrozze trainate da cavalli. È la vittoria degli animalisti che da sempre contestano l'alimentazione ipercalorica forzata di anatre e oche. Più è grasso il fegato dei volatili (la traduzione letterale è proprio fegato grasso) più è gradito dagli appassionati, tanto da spingere gli allevatori a ingozzare le oche di mangime conficcando un tubo in bocca per due-tre settimane. La tecnica si chiama gavage ed è estremamente dolorosa per l'animale. Una vera tortura, alla quale sono sottoposti ogni anno circa 80 milioni di oche. New York non è la prima città a vietare il commercio e il consumo di foie gras. Nel 2006 lo aveva fatto Chicago, ma poi due anni dopo il divieto era stato rimosso. Nel 2012 è stata la volta dell'intera California, ma nel 2015 anche in questo caso il divieto era stato poi rimosso dalla decisione della Corte d'appello federale. La Corte Suprema in gennaio aveva deciso invece di non intervenire nella disputa. Entro tre anni, per entrare in vigore, l'amministrazione del sindaco Bill de Blasio dovrà varare le norme attuative, ma - secondo il Times di ieri sera l'intenzione è di far scadere la legge. Puntualmente sono riesplose le polemiche. Il primo a farsi sentire è stato lo chef più famoso a New York nella preparazione di piatti col fegato d'oca. «Sarà un duro colpo per noi», ha detto Ken Oringer che nel suo ristorante di tapas Chelsea Toro, prepara piatti come i torchies di foie gras con biscotti al latte e sandwich di foie gras katsu. «I commensali vogliono mangiare qualcosa di diverso, qualcosa di delizioso», dice, e il foie gras lo fornisce. In Italia sono ormai più di 10mila i supermercati italiani che hanno tolto il foie gras dagli scaffali. Ma resta una chicca a cui i francesi non rinunciano mai. Il mese scorso alla cena di Stato offerta dal premier Conte al presidente francese Macron il foie gras è stato servito con una emulsione di oli e aceti diversi.

·        L’Agro-fashion.

DOPO L'ECO-CHIC C'È L'AGRO-FASHION. Mariangela Latella per ''Italia Oggi'' il 24 settembre 2019. Dopo il boom degli agriturismi, la nuova frontiera dell' agricoltura è l' agri-atelier. Un connubio perfetto tra filiera agricola e moda Made in Italy aggiornato alla versione 4.0. Quella eco-friendly, che promuove non solo la diffusione di tessuti vegetali come cotone, lino, seta o canapa, ma soprattutto le tinture 100% «green» ricavate, cioè, da prodotti ortofrutticoli, fiori o erbe. È questo il progetto della eco-stilista Eleonora Riccio, che ha appena costituito una start-up e un brand di abbigliamento 100% eco-friendly a Roma, dove usa solo tessuti e tinte naturali per la realizzazione delle sue collezioni che spaziano dal prêt-à-porter all' haute couture con un unico filo conduttore: la ricerca spasmodica di prodotti naturali, come gli scarti ortofrutticoli (la cipolla, ad esempio, o i carciofi), per creare i colori con cui decorare i suoi vestiti. Trentotto anni, una laurea all' Accademia di costume e moda di Roma. Dopo i primi lavori presso le maison Ferrè e Ferragamo, Eleonora Riccio si mette in proprio, aprendo un laboratorio nel quartiere romano di Monte verde, dove tinge i tessuti di sua fabbricazione, con la tecnica di co-printing, immergendoli in pentoloni dove il materiale vegetale viene messo a macerare. Una tecnica tanto vecchia quanto poco diffusa sul mercato, che, però, in poco tempo sta ottenendo riscontri dalla filiera produttiva, che, di fatto, le ruota attorno: produttori ortofrutticoli, aziende erboristiche, ecc. Una di queste è Aboca; già conquistata dalla start-up della giovane eco-stylist, vende i suoi foulard green realizzati con le erbe officinali esposte al museo di Aboca a San Sepolcro. «Mi sono accorta», spiega la Riccio a ItaliaOggi, «che il mercato aveva un gap importante: i grandi brand non hanno collezioni green con tinture naturali. Così ho aperto un laboratorio a Monte Verde, nel centro di Roma, dove tingo i tessuti con infusioni di melograno, cipolla, carciofi, robbia o ginestra. Ora sto cercando un atelier dove proporre i miei capi con degustazioni dei cibi da cui sono ricavati in un percorso che tocchi tutti e cinque i sensi». Ci vogliono le bucce di circa tre melagrane per tingere di ocra uno dei suoi foulard veduti al Museo delle Erbe Aboca, oppure 10 foglie di castagno per un foulard marrone. Ed i prezzi sono per tutti i gusti: dalle t-shirt a 50-70 euro fino ai capi haute-couture da 4 mila euro. Oggi sono circa un centinaio le aziende italiane pioniere di questa filiera inedita, che mette insieme agricoltura e fashion e che è ancora tutta da costruire; soprattutto perché le blasonate maison della moda stanno iniziando adesso a guardare con crescente interesse al settore. Certamente di nicchia, ma con una domanda in costante crescita: il 78% degli italiani ha dichiarato di essere disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly, ma in Svezia si trovano consumatori ancora più attenti, disposti a pagare fino al 300% in più del prezzo attuale. Creare la rete e arrivare al primo contratto di filiera «agro-fashion», è il progetto di Donne in Campo, l' associazione femminile di Cia-Agricoltori italiani, che ha appena lanciato anche il marchio registrato, Agritessuti: sarà presentato, con le prime case history, il prossimo 24 settembre, ore 10.30, nella terrazza dell' Auditorium Giuseppe Avolio a Roma, durante l' evento «Agritessuti: Paesaggi da indossare - Le Donne in Campo coltivano la moda». «Si tratta di una filiera necessaria se consideriamo che l' Onu ha già bollato l' industria tessile come la seconda più inquinante al mondo, perché responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di CO2 e gas serra», precisa Cia-Agricoltori a ItaliaOggi, anticipando i dati dello studio: «Servono circa 2.700 litri di acqua per fare una maglietta e ben 10 mila litri per un paio di jeans». E ancora: «Le coltivazioni di cotone sono responsabili del 24% dell' uso di insetticidi e dell' 11% dei pesticidi, nonostante occupino solo il 2,4% della superficie agricola mondiale». A fronte di questo impegno di risorse, solo l' 1% dei tessuti gettati viene riciclato e, secondo l' associazione Fashion for Goods, entro il 2030 il consumo di capi di abbigliamento aumenterà del 65%, con una maggiorazione di rifiuti del 61% e un aumento dell' uso di acqua del 49%. «Nei mesi scorsi abbiamo avuto un incontro con l' ex sottosegretario all' agricoltura Alessandra Pesce, ci svela Pina Terenzi, presidente di Donne in Campo, «per presentare le potenzialità di queste innovative filiere basate sull' economia circolare e il riuso degli scarti della produzione agricola per creare tessuti e colori. Confido che l' attenzione non venga meno con il cambio dei vertici del Mipaaft». Del resto, «il know-how, in Italia già c' è», dice Terenzi: «L' abbiamo perché i processi usati per la tintura con materiale vegetale attingono alla tradizione tessile italiana. Nell' immediato potrebbero ri-coinvolgere almeno 3 mila aziende produttrici di piante officinali in tutto il Paese».

·        Non si piange sul Latte versato.

Latte versato. Report Rai PUNTATA DEL 25/11/2019 di Rosamaria Aquino. Dopo oltre trent'anni la magistratura inchioda la politica alle proprie responsabilità sulle quote latte. Ma la musica, in uno dei settori chiave dell'economia del nostro paese, non è cambiata. Chi e perché ha messo un segreto sulle aziende italiane produttrici di formaggio che utilizzano latte straniero? Report entra in possesso in esclusiva della lista secretata per anni dal ministero della Salute. Dalle mozzarelle, alle dop, ai formaggi “similari”: vecchie e nuove incognite affliggono allevatori e produttori. L'etichetta indica sempre l'origine del latte, ma quanti formaggi proposti sul mercato come italiani, sono realmente prodotti con materia prima del nostro paese?

LATTE VERSATO Di Rosamaria Aquino. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Italia produciamo ogni anno 11 milioni di tonnellate di latte solo per destinarle ai formaggi, ma non basta. In altri paesi l’estate è meno torrida, c’è più produzione di latte e quindi i prezzi sono più bassi. E allora il risultato è che lo importiamo. Non ci sarebbe nulla di male, senonché abbiamo notato una certa difficoltà a parlarne. Il sospetto è che si voglia celare un segreto. Uno sicuramente l’ha custodito un tenace e caparbio dirigente di un ministero. Solo che sulla sua strada questa volta ha trovato una più tenace di lui. La nostra Rosamaria Aquino.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Vipiteno, ore 9. Questo è il primo dei camion di latte straniero che raggiungerà le aziende italiane.

ROSAMARIA AQUINO Da dove viene questo latte?

AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Allora questo latte viene dalla Germania.

ROSAMARIA AQUINO E dove va?

AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Ed è diretto a Verona.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO In poche ore passano decine di camion. I finanzieri controllano le bolle e consultano i siti delle aziende riceventi per vedere cosa dichiarano sui formaggi che producono.

AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Utilizziamo solo latte 100% molisano.

ROSAMARIA AQUINO Ah, quindi questi stanno andando in Molise a portare questo latte tedesco... AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Doveva fare i chilometri...

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I camion si mimetizzano: davanti motrici straniere, dietro i rimorchi rigorosamente italiani. Così come italianissimi risulteranno i formaggi che saranno prodotti col latte di queste cisterne.

AGENTE GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Chi c'ha la Spagna?

ALTRO AGENTE La Spagna ce l'ho io.

MANFRED LIBERA - COMANDANTE GDF BRESSANONE Qui passa anche latte spagnolo. Questo è latte di capra... qui abbiamo 23mila litri. Dice: “Principalmente da aziende agricole del Veneto”.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Altro camion fermato, altra sorpresa.

AGENTE GDF La provenienza è sempre dalla Germania. Destinazione: in provincia di Campobasso. AGENTE GDF Questo è il carico del latte, questo il documento di trasporto.

MANFRED LIBERA - COMANDANTE GDF BRESSANONE Facciamo una chiamata alla sala operativa così vediamo....

ROSAMARIA AQUINO “Solo latte vaccino e latte di pecora dai migliori allevamenti locali”.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dopo i controlli con la Guardia di Finanza siamo sempre più confusi: latte straniero, formaggi italiani, linee produttive diverse. É ora di andare a chiedere direttamente a loro: i casari.

AZIENDA MOLISANA Questo è fiordilatte molisano, ancora non è tutelato dalla DOP.

ROSAMARIA AQUINO Ma che tipo di latte utilizzate?

AZIENDA MOLISANA Il latte... abbiamo selezionato un latte dalla Sassonia, è tedesco.

ROSAMARIA AQUINO Quindi mozzarella italo-tedesca.

AZIENDA MOLISANA Sì. Comunque è secondo la tradizione del fiordilatte molisano.

AZIENDA PUGLIESE Non ci siamo resi conto, ma un buon 40% in Italia se non lo importiamo dalla Germania o dai paesi limitrofi, noi non possiamo produrre perché non c'è tanto latte in Italia. Perché io mi ricordo quando c'erano le quote latte i produttori producevano, poverini poi si son trovati a dover pagare le multe perché avevano prodotto in più.

ROSAMARIA AQUINO Le quote latte introdotte nel 1984 e abolite nel 2015, dovevano servire a controllare la quantità di latte che si produceva in Europa. Funzionava così: a ogni paese veniva assegnata una quota di latte da produrre e all’interno di quel paese, veniva assegnata a ogni allevatore la sua personale quota. Vietato sforare, perché l’Europa multava il paese e il paese multava a sua volta l’allevatore che aveva barato. Ma alla fine qualcosa si è inceppato.

FRANCA MIRETTI PERETTI – ALLEVATRICE Qui era tutto pieno di animali, qui c'era tutta la rimonta... tutti dove c'è il box che adesso vedi vuoto. Abbiamo tenuto duro fino all'altro anno, l’altro anno poi abbiamo deciso di chiudere.

ROSAMARIA AQUINO Qui quante multe ci sono? Lei? Ha detto?

ALLEVATORE 1 Un milione e 200mila euro più o meno.

ROSAMARIA AQUINO La sua?

ALLEVATORE 2: Settecentodieci...

ALLEVATORE 3 Sui 400mila.

ALLEVATORE La multa è su un milione e centocinquanta.

ALLEVATORE 5 Praticamente c'è più multa del valore aziendale.

ALLEVATORE 3 Diciamo che non li paghiamo perché quei soldi non son dovuti, assolutamente, perché l'Italia non è mai uscita dalla quota.

ALLEVATORE 5 Chi ha sbagliato sicuramente è Agea che ha falsificato i dati.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’Agea è l’agenzia dello Stato che coordina e controlla l’erogazione dei Fondi per l’agricoltura. E che ci fosse qualcosa di anomalo, viene il sospetto ascoltando la registrazione ambientale all’ex capo di gabinetto dell’allora ministro dell’Agricoltura Galan quando un investigatore gli fa capire che i dati sugli sforamenti delle quote latte sarebbero falsati.

GIUSEPPE AMBROSIO – EX CAPO DI GABINETTO MINISTRO GALAN La nostra cosa è corretta. Comunque, politicamente non la possiamo utilizzare, perché se, diciamo, abbiamo verificato che i dati so' sbagliati, cade tutto il castello e la Commissione Europea per come ci troviamo ci si incula.

MARCO MANTILE – EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Sì sì, ma noi non possiamo... non ci può coinvolgere in questo. Quelli sono dati oggettivi, dottore.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il castello è rimasto in piedi. Hanno preferito far crollare una parte del comparto, fermando chi aveva indagato sul sistema.

ROSAMARIA AQUINO Dopo quella richiesta cos'è cambiato nella sua attività?

MARCO MANTILE - EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Sono stato sollevato dall'attività operativa. Non era dignitoso continuare a rimanere in un reparto dove ero confinato.

ROSAMARIA AQUINO Lei avrebbe continuato quell'indagine?

MARCO MANTILE - EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Assolutamente sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mantile, oggi è direttore della rappresentanza della Regione Veneto qui a Roma e anche a Bruxelles. Mentre invece l’ex capo di gabinetto, Ambrosio, ex capo di gabinetto di Galan poi diventato consulente del ministro Centinaio, è stato denunciato da alcuni allevatori con il reato di tentata concussione. Il procedimento è attualmente pendente. Ma l’inchiesta dell’ispettore Mantile è confluita in quella dei Ros, il reparto speciale dei carabinieri. Che cosa è emerso da quell’indagine? Che 6 milioni di bovini sono stati inseriti nelle banche dati come producenti latte e invece latte non ne producevano. Ci hanno infilato dentro le vacche che non avevano partorito, qualche furbo ci ha infilato tori e vitelli, che insomma, anche a stimolarli, latte non ne fanno. Tutto questo che cosa ha contribuito? I dati falsi hanno contribuito a far incassare a chi non doveva dei contributi, soprattutto, hanno contribuito a far sanzionare il nostro paese. L’Italia ha pagato 4 miliardi e oltre di multe, per aver sforato delle quote latte nazionali che probabilmente se i fatti stanno così, non ha mai superato. E allora perché si è dichiarato di aver munto più latte di quello che serviva? C’è forse un segreto da nascondere?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO NUOVO Il tribunale di Roma, dopo aver a lungo indagato sulla falsità dei dati forniti all’ Europa, è stato costretto a chiudere con un’archiviazione, “perché”, scrive il gip, “la falsità dei dati è nota a tutte le autorità amministrative e politiche rimaste consapevolmente inerti per vent'anni”. Ma ha inviato gli atti al ministero delle Politiche Agricole, perché facesse pulizia al suo interno.

ROSAMARIA AQUINO Salve, Rosamaria Aquino di Report.

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Ah. ROSAMARIA AQUINO La stavamo cercando, abbiamo chiesto più volte di incontrarla.

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Ah. ROSAMARIA AQUINO Senta, volevamo sapere, questa commissione di verifica interna dei dati per le quote latte a che punto è e concretamente cosa sta facendo?

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO No non è stata.... ma mi sta registrando? ROSAMARIA AQUINO Certo, stiamo riprendendo.

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Ok... e non... non è partita perché dopo il cambio di Governo non è più successo niente. ROSAMARIA AQUINO Non è partita la commissione interna?

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Assolutamente no.

ROSAMARIA AQUINO Ma la gip di Roma aveva mandato gli atti proprio al Ministero.

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Beh io però....

ROSAMARIA AQUINO Chi ha deciso che questa commissione non partisse?

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Non lo so. Semplicemente non è partita.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Chi parla è Cristina Gerardis che a luglio era stata designata come presidente della commissione interna al ministero dell'Agricoltura per verificare i dati delle quote latte.

ROSAMARIA AQUINO Era l'ultimo baluardo per avere una risposta su queste quote latte.

CRISTINA GERARDIS – AVVOCATO DELLO STATO Poteva essere utile fare una verifica rispetto a quello che dice il gup del Tribunale Penale di Roma, che ci sono dati falsi. Valuterà il nuovo Ministro che azioni assumere.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO NUOVO Ora la palla passa alla ministra Bellanova. Chissà se avrà voglia di scoprire perché sono stati forniti dei dati falsi all’Europa sulla produzione di latte. Tra gli allevatori che chiedono giustizia e che hanno dovuto chiudere c’è chi ha un’idea precisa.

ROSAMARIA AQUINO Perché hanno aumentato i capi di bestiame?

FRANCA MIRETTI PERETTI - ALLEVATRICE Secondo me serviva a fare coprire tutto il latte in nero che arrivava dall'estero. E già vent'anni fa arrivava latte dall'Austria e superato il confine diventava magicamente italiano, no?

MARCO MANTILE - EX VICECOMANDANTE CARABINIERI MIPAAF Un'ipotesi che secondo me non è peregrina è quella di coprire una presenza di latte non italiano sul territorio nazionale.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dati fasulli per favorire l'ingresso di latte straniero. E oggi che le quote non ci sono più? In Italia produciamo oltre 1 milione di tonnellate di formaggi, per farlo abbiamo bisogno di molto latte e non ce la facciamo.... Dal 2017 però c'è l'obbligo di indicare in etichetta l'origine del latte; è sufficiente un generico “latte UE”. Ma da quali paesi viene?

PRODUTTORE DI LATTE ANONIMO Questi camion normalmente arrivano nelle ore notturne e scaricano la mattina presto, per esempio sappiamo che arrivano delle cagliate oppure del latte.

ROSAMARIA AQUINO Da dove vengono?

PRODUTTORE DI LATTE ANONIMO Soprattutto Romania, Lituania, Estonia...

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A raccontarci come funziona il sistema è un grosso produttore di latte che preferisce restare anonimo.

ROSAMARIA AQUINO Perché c'è questa corsa al latte straniero?

PRODUTTORE ANONIMO Il latte costa meno, intorno ai 4/5 centesimi in meno del nostro latte.

ROSAMARIA AQUINO Cosa ha significato per voi agricoltori l'ingresso di questo latte estero?

PRODUTTORE ANONIMO Una concorrenza sleale.

ROSAMARIA AQUINO Parliamo di un milione e mezzo di tonnellate di latte straniero che entra ogni anno nei nostri caseifici. Proprio adesso che in nome dell’italianità difendiamo i prodotti dai dazi che vorrebbe imporre Trump.

ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Non è giusto far credere che stai acquistando un prodotto italiano, quando italiano non è. É giusto che tu possa acquistare un prodotto lituano, io non lo farei mai...

ROSAMARIA AQUINO Perché non lo farebbe mai?

ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Perché se io utilizzo oggi un farmaco all'interno di un'azienda zootecnica italiana sono costretto a registrare qualsiasi passaggio, qualsiasi farmaco utilizzo. In tanti altri paesi a livello europeo quest'obbligo non c'è.

ROSAMARIA AQUINO Quindi potrebbe essere che un bovino prenda un antibiotico e questo non venga tracciato?

ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Se allevato all'estero questo può assolutamente esistere. Tu puoi utilizzare latte proveniente dalla Romania, però devi scrivere che è latte rumeno. Questo noi vogliamo. Il massimo della trasparenza.

ROSAMARIA AQUINO Secondo lei in Italia quanto auto-italian sounding produciamo con tutto questo latte estero?

ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Se noi avessimo oggi la possibilità di accedere ai dati glielo darei nella virgola.

ROSAMARIA AQUINO In una recente intervista lei individua proprio una persona singola e fisica che mette il segreto su questi dati. Di chi parliamo?

ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI Silvio Borrello.

ROSAMARIA AQUINO Deve essere potente questo funzionario…

ETTORE PRANDINI – PRESIDENTE COLDIRETTI O lui o chi c'è dietro di lui.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La lista delle aziende italiane che comprano latte estero c’è, ma il custode che da anni impedisce l’accesso è un solerte funzionario del ministero della Salute. In questi anni ha detto no. Ai politici che chiedevano e persino alla Magistratura, dopo che una sentenza lo costringeva a renderla accessibile. Tuttavia è rimasto al suo posto.

SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE Io non posso dare dei dati che lei come cittadino mi affida. Sono dei dati anche privati, commerciali. É come se qualcuno chiedesse di sapere il suo conto in banca, lei sarebbe felice?

ROSAMARIA AQUINO Sembra un po' come se la politica dicesse qualcosa e poi il Ministero viaggiasse un po' per i fatti suoi.

SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE Allora la politica dà degli indirizzi politici però i provvedimenti li firma il direttore generale e se io faccio un danno economico come è stato paventato da alcune industrie che hanno detto che non volevano l'ostensione dei dati... mi hanno in qualche modo avvisato che avrebbero fatto una richiesta di risarcimento danni.

ROSAMARIA AQUINO A luglio di quest'anno, l'allora vicepremier Di Maio, dice: se questo dirigente non vuole ottemperare a quello che dice la sentenza è meglio che cambi lavoro. Si riferiva a lei?

SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE Ah non lo so, io non l'ho sentito. Però se si riferiva a me io sono ancora qua.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come dargli torto? Però come è possibile che il direttore generale del Ministero della Salute, Borrello, tuteli le aziende private e non risponda agli input delle Istituzioni? Ha resistito anche all’ordine della magistratura che gli imponeva di consegnare senza indugio la lista e di renderla pubblica. Ecco, se è rimasto al suo posto e nessuno gli ha chiesto conto ha fatto bene a essere caparbio. Solo che sulla sua strada ha incontrato la nostra Rosamaria, che è più caparbia di lui e la lista l’ha ottenuta. Come non lo diciamo. L’ha ottenuta anche Coldiretti al termine di una lunga battaglia legale solo che si riferisce solo a tre mesi del 2017. Se è questo il grande segreto che custodiva Borrello, ma non lo crediamo, sa di beffa. Tuttavia aiuta a capire il fenomeno. Dentro ci sono i nomi di 1800 aziende e multinazionali che acquistano latte straniero e aiuta a comprendere la dimensione. Galbani acquista tonnellate di cagliate lituane, creme di latte dalla Spagna, mozzarelle dalla Francia. Dice che le cagliate sono solo l'1% delle loro produzioni le utilizzano per formaggini e mozzarelle per la ristorazione e riportano l'origine in etichetta. Prealpi: tonnellate di formaggi e cagliate dalla Germania, formaggi a pasta dura persino dalla Finlandia – pensate un po’ - mozzarelle dalla Danimarca. Ci ha scritto che mette l’origine in etichetta. Granarolo compra latte dalla Francia, dalla Repubblica Slovacca, dalla Slovenia e dall'Ungheria. Il gruppo Newlat che significa Giglio, Polenghi, Torre In Pietra tonnellate di latte crudo dall'Ungheria. Parmalat di Collecchio, Parmalat, compra tonnellate di latte crudo dalla Slovenia, Belgio, Croazia, Ungheria, Repubblica Slovacca e formaggi dalla Polonia equivalenti a circa il 30 % della produzione complessiva; lo indica in etichetta, ci scrive. Poi ci sono i produttori di mozzarelle Francia e Cuomo che dalla Germania comprano le mozzarelle. Francia dice che commercializza prodotti a marchio tedesco in Italia e che le mozzarelle sono destinate alla ristorazione. Poi ci sono anche i caseifici del Grana Padano che oltre la produzione DOP fanno i grattugiati misti e acquistano latte e formaggi da Germania, Polonia, Ungheria. Quelli del Parmigiano che acquistano da Lituania e Lettonia. Su nostra domanda ci hanno risposto che utilizzano il prodotto straniero solo per i formaggi generici. Se è tutto così trasparente non capiamo perché poi i casari sono così stitici nel parlare di questo problema.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questa è Forme, fiera di Bergamo. Aspira a diventare il Vinitaly dei formaggi. In gara ci sono formaggi presentati come italiani - almeno in etichetta - e quelli provenienti da tutto il mondo.

ROSAMARIA AQUINO Si può capire assaggiando un formaggio se c'è latte italiano o no?

GIUDICE DONNA No. Non è possibile capire se è italiano o no. Mi permetto anche di dire che ci sono territori anche al di fuori dell'Italia, che consentono di produrre materie prime di eccellente qualità.

ROSAMARIA AQUINO Io però se compro un prodotto italiano vorrei sapere se è veramente italiano.

GIUDICE DONNA Io personalmente lo vorrei assolutamente sapere. Certo non è che made in Italy è sempre sinonimo di migliore.

GIUDICE UOMO Io sono pro Italia tutta la vita, però sinceramente i cugini francesi o gli inglesi... noi qua stiamo valutando senza sapere da dove vengono.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alla fine ha vinto un erborinato dell'Oregon, con buona pace di chi oggi fa resistenza a Trump. I formaggi più colpiti dall’introduzione dei dazi sono proprio quelli della DOP: il costo di una forma di Parmigiano passerebbe dai 40 a 60 dollari al chilo. Alla base della difesa della DOP italiana c’è un mantra: di latte straniero non se ne deve nemmeno sentir parlare.

PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Il latte per il Parmigiano reggiano deve esclusivamente provenire dalle seguenti province: Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna a sinistra del Reno e Mantova a destra del Po, quindi una piccola fetta di Mantova e una piccola fetta di Bologna.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO É uno dei caseifici di Parmigiano che il latte va a prenderlo direttamente in stalla a 100 metri da dove si produce. La fama è arrivata addirittura in Vaticano, il suo formaggio l’ha gradito pure il Papa, e da quelle parti ne capiscono. Ma quanto costa produrre seguendo con rigore il disciplinare della DOP?

PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Sui 300 euro.

ROSAMARIA AQUINO 300 euro a forma.

PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Esatto.

ROSAMARIA AQUINO Se questo latte non provenisse da area DOP, magari latte estero, quanto verrebbe a costare?

PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Mediamente sui... 100 euro.

ROSAMARIA AQUINO C'è qualcuno che fa il furbo?

PAOLO CROTTI – PRODUTTORE PARMIGIANO REGGIANO Che cosa mi vuoi arrivare a far dire?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Queste, secondo stralci della lista segreta del Ministero che abbiamo potuto leggere, sono alcune delle aziende che producono sia DOP che formaggi cosiddetti “similari”, che finiscono per fare concorrenza alla stessa DOP.

 ROSAMARIA AQUINO Questi sono fatti con latte italiano o straniero?

 UOMO AZIENDA DOP Essendo dei mix non può che esserci...

DONNA AZIENDA DOP No no no, non puoi mandare... scusa.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alla prima domanda arriva subito un membro dell'azienda a controllare cosa stiamo chiedendo.

ROSAMARIA AQUINO Vabbè quindi non possiamo vedere se c'è latte straniero, non straniero, latte Ue. No.

UOMO AZIENDA DOP Allora... uhm.... Dovrebbe esserci latte Ue... se c'è... se c'è latte...

ROSAMARIA AQUINO La DOP abbiamo detto, viene fatto con latte italiano. E quello per forza. Però volevamo capire se invece questi erano prodotti col latte…

UOMO AZIENDA DOP Dovrei aprirvi le vetrine, sono un po' in difficoltà come faccio?

DONNA AZIENDA DOP Posso aiutarvi?

ROSAMARIA AQUINO Sì: volevamo sapere una cosa, se questo formaggio che diciamo è simil grana è prodotto con latte italiano o straniero.

DONNA AZIENDA DOP Questo io non glielo so dire, ma non è una produzione nostra. Noi non lo produciamo, produciamo solo formaggi

DOP. ROSAMARIA AQUINO Però voi lo distribuite e non sapete che latte c’è?

DONNA AZIENDA DOP No, no, no, noi sappiamo esattamente che prodotto è, abbiamo anche tutte le specifiche, ma io personale non autorizzato dall'azienda non so dare le specifiche di un prodotto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E dopo qualche altra domanda sull'origine del latte arriva la telefonata dello staff della fiera.

STAFF FIERA “FORME” Io ho il dovere di seguirvi, far vedere come van le cose... se mi girate così. ROSAMARIA AQUINO Devi inseguirci intervista per intervista?

STAFF FIERA “FORME” Sì sono qua apposta. Devo capire un attimino il taglio che state dando alle varie domande.

ROSAMARIA AQUINO Ma te le ho dette prima le domande.

STAFF FIERA “FORME” Sì però visto che sento già qualche difficoltà negli stand, han chiamato subito quello che ha organizzato la fiera. Cioè, mi fa: “c’è un casino con Report e adesso sono cazzi vostri”, mi ha proprio detto così.

ROSAMARIA AQUINO Ce ne andiamo controllate a vista e senza risposte. Continuando a scorrere la lista notiamo che alcune aziende che fanno anche la DOP acquistano formaggi e latte straniero a colpi di 50mila chili al giorno. Ma se uno volesse scoprire se nella DOP ci finisce latte straniero dovrebbe andare nell’unico laboratorio esistente per questo tipo di analisi. É l’istituto agrario San Michele all’Adige. La proprietà dei dati è dei Consorzi e il Grana vorrebbe accompagnarci in tutte le fasi, sin dalla campionatura.

STEFANO BERNI – DIRETTORE CONSORZIO GRANA PADANO San Michele all'Adige può ricevere solamente campioni consegnati da un pubblico ufficiale o un agente vigilatore del consorzio riconosciuto

ILARIA PROIETTI Ok cioè noi non possiamo andare lì e portare dei campioni che abbiamo prelevato diciamo personalmente, questo giusto? Ho capito bene?

STEFANO BERNI – DIRETTORE CONSORZIO GRANA PADANO No. Né voi né nessun altro eh!

ILARIA PROIETTI Ok. ROSAMARIA AQUINO Ma che rapporto c'è tra Consorzio e laboratorio?

FEDERICA CAMIN – IST. AGRARIO SAN MICHELE ALL'ADIGE Il consorzio Grana Padano è il consorzio più serio che abbia mai conosciuto. Perché loro finanziano - ma danno un finanziamento abbastanza grosso alla fondazione - per scovare chi dei loro associati imbroglia. ROSAMARIA AQUINO Se io dovessi trovare il campione di Grana Padano prodotto da una persona che ha una carica nel consorzio che cosa succede in quel caso?

FEDERICA CAMIN – IST. AGRARIO SAN MICHELE ALL'ADIGE Mah io veramente loro sono...cioè… beh innanzitutto quelli che hanno una carica non penso possano essere anche produttori. Ma comunque a me non è mai successo…

ROSAMARIA AQUINO Alcuni lo sono eh.

 DOTTORESSA FEDERICA CAMIN – ISTITUTO SAN MICHELE ALL'ADIGE Comunque non m'è mai successo che loro dicessero: “eh non questo non”...no veramente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Nel 2017 la Procura di Reggio Emilia indaga 27 persone per frode e contraffazione di Grana Padano e Parmigiano. Nell'inchiesta finiscono anche pezzi grossi dei consorzi, tra cui lo stesso Berni sul quale pende una richiesta di rinvio a giudizio per abuso d'ufficio, perché, sarebbe venuto meno al suo dovere di terzietà cercando di diminuire la responsabilità della Nuova Castelli, alla quale erano state sequestrate 7.700 forme. Chi controlla come controllano i controllori? In un film giallo a questo punto entrerebbe in gioco “la scientifica”.

SILVIA CANADELLI – VICEDIRETTRICE ISTITUTO SPERIMENTALE LAZZARO SPALLANZANI Essendo il Grana Padano un formaggio made in Italy estremamente contraffatto, abbiamo deciso di tracciare praticamente tramite la tecnica del Dna la zona di provenienza del Grana Padano.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il ministero dell'Agricoltura alle analisi già in vigore, ha deciso di affiancare da qualche anno una ricerca pubblica chiamata Newtech, che dal Grana Padano e dal suo latte, tirerà fuori nientemeno che il Dna. Partner del progetto sono il Centro di ricerca Agricola e l’istituto Spallanzani. Ma come avviene l'analisi?

GRAZIELLA BONGIORNO – RESPONSABILE LABORATORIO GENETICA MOLECOLARE Quello che viene mangiato dalla bovina, quota parte di questo Dna vegetale viene secreto nel latte. Dal latte riusciamo a recuperare il Dna, quindi andando a fotografare i latti prelevati da tutti i caseifici che aderiscono al Consorzio del Grana Padano sarà possibile dato un campione di latte ignoto valutare se è compatibile o meno con il latte che viene prodotto nell'areale del Grana Padano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma ci vuole un anno e mezzo per ottenere i risultati. L’alternativa è quella di andare al laboratorio dove le analisi sono finanziate dal consorzio. Il vigilante che veste i panni del vigilato, questo per legge. Ed è vigilato a sua volta dal Ministero delle politiche agricole. Che non è che abbia dato poi così prova di saper controllare bene, visto che sotto il naso per anni sono passati i dati falsi che la sua agenzia Agea aveva fornito all’Europa in termini di quote latte. Dati “assolutamente falsi”. Lo scrive il gip Paola Di Nicola, con una sentenza emessa a giugno scorso che mette sotto accusa tutta l'amministrazione pubblica. Ma è stata costretta a chiudere con un’archiviazione, scrive il gip, perché è esistita “per decenni una totale incapacità, superficialità e connivenze” da parte di tutti gli organi di controllo dello Stato. “La falsità dei dati era nota a tutte le autorità amministrative e politiche rimaste consapevolmente inerti per vent’anni per evitare di scontentare singole corporazioni o singoli centri di potere, di interesse, determinando ingenti danni allo Stato e a i quei singoli allevatori onesti che invece le regole dello Stato le hanno rispettate. Il Gip aveva anche dato le carte al ministero delle Politiche agricole perché facesse pulizia. Hanno istituito una commissione durata pochi mesi, è caduta con il Governo. Buonanotte ai suonatori. Rincorrono così tanto l’oblio, a discapito di quegli allevatori onesti e della qualità, che non vogliono neppure piangere sul latte versato. Poi però si rammaricano se alle olimpiadi dei formaggi a Bergamo, quest’anno la medaglia d’oro se l’è aggiudicata un formaggiaio dell’Oregon.

·        Ma cosa hai messo nel caffè?

Report Rai PUNTATA DEL 03/06/2019 di Bernardo Iovene in collaborazione di Michela Mancini. Gli italiani pensano di essere grandi intenditori di caffè, in realtà hanno il gusto tarato su una qualità dal sapore legnoso, amaro e spesso rancido; un equivoco dovuto a una importazione di caffè di bassa qualità, tostato al limite del bruciato, che uniforma il sapore. Il simbolo di questa mentalità è Napoli: dopo la nostra inchiesta del 2014, siamo tornati al Gambrinus per un confronto sulla qualità del caffè dell’antica caffetteria e in generale sul caffè che si beve nei bar napoletani.  Le sorprese non sono mancate. In questo giro di degustazioni Report è stato accompagnato da alcuni esperti di fama internazionale. Siamo stati anche nei nuovi Specialty coffee, nei bar e nelle torrefazioni dove importano caffè selezionati e li abbiamo confrontati con il gusto e gli aromi del caffè che beviamo nei nostri bar. Abbiamo assaggiato e valutato i caffè di Starbucks a Milano e abbiamo degustato persino il caffè al ginseng, prodotto con un preparato in polvere. Ma nella nostra tazzina quanto ginseng c'è?

PRECISAZIONE DEL 20/06/2019

Precisiamo che ci sono produttori di caffè al ginseng che hanno una concentrazione di zucchero inferiore. Come abbiamo documentato nel servizio ci sono anche quelli che non utilizzano zucchero ma usano dolcificanti e sciroppo di glucosio.

“CAFFÈ: IL BUONO, IL RANCIDO E IL GINSENG” Di Bernardo Iovene Collaborazione di Michela Mancini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il nostro Bernardo Iovene è tornato sul tema, e ha distrutto quelle poche certezze che c’erano rimaste. Ci crediamo un popolo di intenditori, crediamo che il miglior caffè al mondo sia il nostro espresso, in realtà il migliore lo bevi o in Giappone o in Australia, qualche volta a Londra o a Parigi. Questo perché? Perché indugiamo più che altro sulla ritualità o sulla liturgia quotidiana che ruota intorno alla tazzulella di caffè piuttosto che sulla qualità. Siamo tra i peggiori importatori al mondo, spendiamo male e poco. Questo perché i nostri bar sono ostaggi della torrefazione che è, diciamo così, il finanziatore occulto dei bar, offre la macchina per il caffè, i macinini, il tavolo, le tazzine, anche la ristrutturazione del bar purché vengo comprata la loro miscela di caffè che non è poi tra le qualità migliori. Se a questo aggiungi anche la macchina che è un po’ sporca, il fatto che viene servito il caffè in un’acqua che non è pulitissima, perché ci sono dentro le scorie del caffè bruciato rischi la ciofeca quando invece il caffè è un seme esotico e dovrebbe liberare nella tua bocca l’aroma.

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Questo è un caffè con uno spiccato tenore di acidità, basso tenore di caffeina. Floreale, fruttato; lieve ed elegante in entrata, molto lungo, complesso e persistente in retrogusto.

BERNARDO IOVENE Questo? Del Perù?

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Sì, più fruttato che floreale. Anche questo ha un discreto tenore di acidità; cresce in montagna anche questo, a 2mila metri.

BERNARDO IOVENE Che sapore ha?

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Frutta, frutta esotica.

BERNARDO IOVENE Questo qua invece? Guatemala?

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Sì, ancora frutta secca e frutta esotica.

BERNARDO IOVENE Questo qua India?

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Mandorla, tabacco biondo.

BERNARDO IOVENE Voi cambiate sempre oppure avete sempre gli stessi?

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA 2 Cambiamo sempre. Tutte le settimane compriamo caffè, tutte le settimane cambia l’offerta.

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Pianta il naso in mezzo ai chicchi, senti che meraviglia di profumo. Profumo di fiori, profumo di cioccolato bianco, profumo di gelsomino, no?

BERNARDO IOVENE Sì.

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Meraviglioso.

BERNARDO IOVENE Sì.

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Caffè profumatissimo, pensa che è un seme, non è un fiore.

BERNARDO IOVENE In questo mondo – che è un mondo infinito diciamo – però quando arriviamo alla macchina del caffè, ai bar che noi frequentiamo, c’è proprio inconsapevolezza di tutto questo no?

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Purtroppo torrefattori e baristi rischiano di essere – anche inconsapevolmente - degli assassini.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si chiamano Specialty Coffee, sono i nuovi bar che servono caffè selezionati: sono tutti associati, baristi e torrefattori, alla Associazione specialty coffee, la Sca. Hanno un’alta preparazione sia tecnica che culturale sul prodotto caffè.

PAOLA CAMPANA – TORREFAZIONE CAMPANA CAFFÈ Questo è un caffè che viene dall’Etiopia, che è la patria del caffè in quanto è dove è nato il caffè, ha sentori di frutti rossi, liquore allo cherry. È un’esplosione di sapori.

BERNARDO IOVENE Il titolare di questo bar va in giro per piantagioni?

SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE Va in giro per piantagioni, esattamente.

BERNARDO IOVENE A scegliere i caffè? SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE Seleziona i caffè. Seleziona… BERNARDO IOVENE Non è uno normale questo.

SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE 3 Avere un contatto diretto con i produttori, in maniera da conoscere la materia prima, sapere come trattarla al meglio.

BERNARDO IOVENE Proviamo a leggere qua

RISTINA CAROLI – COORDINATRICE SPECIALTY COFFEE ITALY Il territorio da cui viene è il Ruanda, la varietà che è un Red Barbon, il tipo di lavorazione che ha subìto – una naturale, una lavorazione a secco, a che altezza è nato, chi è il produttore, quando è stato raccolto, a maggio del 2018.

BERNARDO IOVENE Quindi qua io posso scegliere…

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Tra le varie piantagioni. Questo Julian Palomino è l’agricoltore di questa finca in Colombia; Fazenda Uma…

BERNARDO IOVENE Questo è un Brasile.

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA È un Brasile. Questo è una fattoria etiope.

BERNARDO IOVENE Colombia. DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Un’altra Colombia.

BERNARDO IOVENE E sono? Robusta o…

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Noi abbiamo, una nostra caratteristica è fare solo arabica.

BERNARDO IOVENE Ma quanti siete qua? Vedo tantissimi…

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA In totale siamo nove.

BERNARDO IOVENE Nove?

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Nove.

BERNARDO IOVENE Uno per ogni caffè? DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Uno per ogni caffè, sì. 4

FABIO MILANI – EUROPEAN BARTENDER SCHOOL Questa qua è una classe di studenti stranieri. C’è un po’ di tutte le nazionalità, magari dopo chiedi un po’ a loro. Li ho portati qua perché credo che sia uno dei migliori coffee shop della città.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questo bar arrivano anche gli alunni di una scuola internazionale di baristi per studiare l’espresso specialty e tutti gli altri modi di fare il caffè.

BERNARDO IOVENE Dove hai studiato?

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Sono stato due anni in Australia, due anni a Londra, un anno e mezzo a Berlino. Sempre in delle torrefazioni, sempre lavorando con specialty.

BERNARDO IOVENE E hai imparato là a fare il caffè?

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA In Australia. BERNARDO IOVENE In Australia?

BERNARDO IOVENE A Melbourne c’è una gran cultura del caffè.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi viaggiano e quando tornano in Italia si trovano davanti al paradosso: ci crediamo i migliori intenditori di caffè al mondo - così ci hanno sempre fatto credere - e invece non è così.

LORENZO SORDINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE L’Italia – a livello qualitativo – è uno dei peggiori importatori del mondo. Sul prodotto medio – si parla di prodotto medio - siamo tra quelli che spendono meno per l’importazione del prodotto caffè e siamo il più grande importatore di robusta nel mondo. E oltretutto viene utilizzata anche robusta – tante volte – di scarsa qualità: dà alla tazza sapore di bruciato, di copertone di gomma, di legno, di affumicato.

MANUEL TERZI – TORREFATTORE CAFFÈ TERZI BOLOGNA Per me robusta non è caffè. Robusta non è caffè. Non ha senso: non ha aromi, non ha eleganza, non ha piacevolezza. Solo intensità e sensazione tattile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Di arabica e robusta ne abbiamo parlato ampiamente nella inchiesta Espresso nel caffè qualche anno fa. Dai grandi spedizionieri abbiamo imparato la quantità di robusta che arriva e in che condizioni.

DA REPORT DEL 7/4/2014 LUCA ROMANI – SPEDIZIONI CAFFÈ 5 All’interno del caffè ci possono essere un’infinità di corpi estranei: troviamo piatti, bicchieri, di tutto. Per cui come potete vedere c’è una grandissima quantità di pietre. BERNARDO IOVENE Poi c’è una selezione ottica per isolare i chicchi scuri.

LUCA ROMANI – SPEDIZIONI CAFFÈ Questo può essere utilizzato magari in prodotti di fascia inferiore. Però il chicco scuro è un chicco che – quando viene tostato – se viene poi in buona quantità miscelato, crea un senso di amaro. BERNARDO IOVENE Non si butta niente diciamo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Kimbo imparammo a distinguere nei loro laboratori la differenza in tazza tra la qualità robusta e arabica.

BERNARDO IOVENE Questa parte nera qua…

GENNARO DEL PRETE – QUALITÀ PANEL LEADER KIMBO No questo diciamo è il caffè, la percentuale di robusta ha più cera e quindi c’è questa possibilità.

BERNARDO IOVENE È cera, si chiama cera questa?

GENNARO DEL PRETE – QUALITÀ PANEL LEADER KIMBO Si chiama cera. È quella che dà il corpo alla tazza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi la robusta ha più caffeina e più cera. La cera l’abbiamo vista per caso girando in uno stabilimento dove fanno il decaffeinato.

BERNARDO IOVENE Dentro al caffè c’è questo? UOMO Sì. Sopra il caffè c’è questo soprattutto.

BERNARDO IOVENE Questo qua invece è arabica.

GENNARO DEL PRETE – QUALITÀ PANEL LEADER KIMBO 80 per cento di arabica. È più pulita. Diciamo che la tazza è più pulita.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A quel punto girammo l’Italia assaggiando e valutando i caffè, con esperti assaggiatori. I risultati furono mediocri; alla fine approdammo a Napoli e qui la sorpresa fu veramente grande. 6

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Allora al palato è molto amaro. È astringente; una sensazione di allappamento al palato, il retrogusto è di gomma bruciata, legno bruciato, cenere. Questo caffè lo possiamo valutare al 2. Da 1 a 10.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il nostro viaggio si concluse nel bar simbolo e tempio del caffè. Al Gambrinus.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Annusiamo l’aroma. Allora è molto amaro, non è acido, è astringente. Dei sentori leggeri di terra, darei una valutazione di 3 e mezzo.

BERNARDO IOVENE 3 e mezzo?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA 3 e mezzo.

BERNARDO IOVENE Al Gambrinus, questo è il migliore.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, sì. Ma io degusto tecnicamente e valuto quello che sento in bocca.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Voti da 2 a 3,5: insomma è un duro colpo per l’orgoglio di quello che viene considerato il miglior caffè di Napoli ma per tutta l’autostima partenopea. Però il parere di Andrej Godina, il nostro assaggiatore, che è laureato in scienze del caffè ed ha anche un dottorato in ricerca per l’analisi sensoriale, è assolutamente indiscutibile. Il nostro Bernardo Iovene, che cosa ha fatto? Dopo cinque anni a distanza delle polemiche che aveva suscitato all’epoca, è tornato sul luogo del delitto al Gambrinus. Questa volta ha portato con se un degustatore napoletano, Mauro Illiano, il re del food napoletano Luciano Pignataro, poi ha messo insieme in una tavola rotonda intorno seduti anche esperti torrefattori, e anche i proprietari del bar che stanno raccogliendo firme per far considerare il caffè napoletano come un bene dell’Unesco. Però fate attenzione, a dire la verità, perché il nostro Bernardo Iovene prima di presentarsi con telecamere a vista è andato ad assaggiarlo di nascosto per vedere se il trattamento riservato è lo stesso di quello riservato agli altri clienti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo cinque anni siamo tornati al Gambrinus. Questa volta ad assaggiare e giudicare il caffè ci sarà anche un assaggiatore di formazione napoletana, Mauro Illiano; ad accoglierci c’è il proprietario, il direttore del locale, il rappresentante della torrefazione, giornalisti ed esperti chiamati dalla caffetteria. Cominciamo l’assaggio al banco principale.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io sento cioccolato fondente, caramello, un leggero sentore di paglia. 7

LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Tu ti trovi Mauro? MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Decisamente, l’analisi tecnica è perfetta.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Abbastanza amaro, allappa al palato e sempre una sensazione piuttosto intensa di astringenza. Nel caffè viene considerata negativa perché potrebbe essere che la ciliegia è stata raccolta verde. Potrebbe essere dovuto a una tostatura molto scura, oppure potrebbe anche essere un segnale di sovra estrazione.

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Esatto, classica la macchina a leva. Tu hai sottolineato – soprattutto dove c’è tanto lavoro – ci può essere un problema di sovra estrazione.

LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Queste caratteristiche che hai dato, dipendono anche dalla composizione della miscela?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Certo.

LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Robusta piuttosto che arabica…

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA E poi robusta di quali paesi e arabica di quali paesi.

BERNARDO IOVENE Qua abbiamo il direttore, da dove viene il caffè vostro?

GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Dal centro America.

BERNARDO IOVENE Dal Centro America, ma quale paese?

GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Questa è una cosa che sa la torrefazione. Noi usiamo il caffè che è arabica e robusta.

BERNARDO IOVENE Cioè è una miscela arabica e robusta?

GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS È una miscela che noi abbiamo fatto principalmente per i nostri clienti, che sono abituati a prendere questa tipologia di caffè. 8

BERNARDO IOVENE Però lei non sa da quale paese viene?

GENNARO PONZIANI – DIRETTORE CAFFETTERIA GRAN CAFFÈ GAMBRINUS No, questo no, so che viene dal centro America.

BERNARDO IOVENE Ah quindi questa è una ricetta segreta questa del caffè?

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Sicuramente.

BERNARDO IOVENE Però lei rappresenta la torrefazione qui?

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Io collaboro con la torrefazione.

BERNARDO IOVENE Ci può dire da dove viene questo caffè?

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Il caffè che è stato fatto per loro è una ricetta creata apposta per…

BERNARDO IOVENE Sì, ma da dove viene? Il paese di origine.

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Principalmente l’80 per cento Sud America.

BERNARDO IOVENE Sud America. Il resto? SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO L’altra parte del mondo.

BERNARDO IOVENE Cioè Vietnam?

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Assolutamente no, non c’è assolutamente caffè che arriva dal Vietnam.

BERNARDO IOVENE Eh, dall’altra parte del mondo.

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Indonesia. BERNARDO IOVENE Non è segreto dire da dove viene il caffè, mi sembra il segreto di Pulcinella.

SANDRO LAUGELLI – CONSULENTE TORREFAZIONE MORENO Assolutamente, la miscela è segreta. Mi consenta. 9 BERNARDO IOVENE Ah.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da un lato ci sono i Coffee Specialty che si vantano delle origini del caffè dall’altro ci sono le miscele segrete. Ci spostiamo poi nella saletta riservata per un altro assaggio. Qui è il direttore del locale che prepara il caffè, dopo l’assaggio si analizzano anche i chicchi.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sfortunatamente ci sono dei difetti in queste tazze, che sono considerate a livello internazionale: l’astringenza è un difetto, l’amaro eccessivo è un difetto, il sentore di legno generalmente è un difetto. Poi appartiene molto alla specie robusta, canefora, che è considerata comunque di più basso livello a livello internazionale e infatti costa anche di meno. Rispetto al 2, 2.5 di cinque anni fa, per fortuna, almeno dal mio punto di vista tecnico, siamo migliorati molto perché io direi 4.5, 5. Poi qui siamo migliorati perché l’altro caffè era molto astringente, ma questo probabilmente perché era dovuto a una sovra estrazione della macchina.

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Tecnicamente Andrej fa una valutazione corretta, insomma. Da un punto di vista invece del gusto e del palato e di quella che è la piacevolezza del caffè, inevitabilmente bisogna fare i conti con quello che il caffè è a Napoli e sicuramente questo è un caffè perfettamente in linea con i gusti del pubblico partenopeo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo assaggio però è stato annunciato ed è avvenuto davanti alle telecamere. Noi siamo stati al Gambrinus anche in incognito una settimana prima con gli stessi assaggiatori. Nessuno li ha riconosciuti; il primo assaggio è ai tavoli esterni.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Si sente che ha tanta robusta.

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Sì.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Questa astringenza, forse un po’ di sovra estrazione. Sì però senti che anche qui adesso viene fuori la nota di rancido?

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Alla lunga sì. Sta amaricanza che alla lunga dà un attimo una scodata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 10 L’analisi sulla tazzina più o meno è la stessa della settimana dopo, ma c’è una novità: il sentore di rancido. Per avere conferma fanno un ulteriore assaggio del caffè servito al banco. BERNARDO IOVENE Siamo tornati nel luogo del delitto.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Siamo tornati al Gambrinus, esatto. Dopo cinque anni.

BERNARDO IOVENE Questa volta però ci siamo fatti accompagnare da un napoletano. Come è andata?

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Ok, un caffè a mio avviso non eccezionale da un punto di vista tecnico. Se poi mi dici il Gambrinus rispetta quella che è l’attesa di un bevitore di caffè qui a Napoli quando degusta un caffè non ha delle aspettative tecniche altissime.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA In particolare al retrogusto una nota forte di rancido. Quindi sopra il 4 non..

BERNARDO IOVENE Oltre il 4 non andiamo.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io non mi sentirei di dare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sapore forte di rancido nell’assaggio ufficiale con le telecamere a vista non c’era. Il dubbio è che sapendo che il caffè veniva sottoposto a giudizio ci sarà stata forse un attenzione alla qualità o alla freschezza del prodotto o alla pulizia delle macchine. E dunque almeno il sapore di rancido si può evitare. Nello stesso giorno abbiamo fatto un assaggio in altri bar del centro. E tutti mantengono il riserbo più assoluto sulle origini delle miscele.

BERNARDO IOVENE Da dove viene questo caffè? Il chicco da dove viene? BARISTA Il chicco sinceramente non lo so. La torrefazione è qui a Napoli.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA C’è sicuramente robusta, è una miscela con anche un po’ di arabica.

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Riconosco in questo caffè una matrice partenopea. 11

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In ogni bar abbiamo anche prelevato dei chicchi per verificare la qualità.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Provando ad annusare i chicchi, c’è un odore fortissimo di rancido. Ovviamente questo rancido te lo porti in tazza.

BERNARDO IOVENE Questo è un caffè rancido?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA È molto rancido, sì.

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Però secondo me quando ci si approccia alla degustazione di un caffè napoletano, con la consapevolezza di ciò che ai napoletani piace.

BERNARDO IOVENE Però è un dato di fatto che questo è un chicco rancido o no?

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Assolutamente, il colore non mente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questo bar invece l’analisi è stata divergente.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Si sente un forte odore di rancido. Anche qui un sentore anche leggero anche di terra bagnata.

MAURO ILLIANO – ANALISTA SENSORIALE PER ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIER NAPOLI Per un napoletano questo è un buon caffè. Un caffè più che sufficiente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tracce di rancido ci sono anche nel mitico caffè del Professore che assiste molto disponibile al giudizio degli assaggiatori.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA C’è una leggera nota di rancido alla fine che si sente, poco eh. Perché rispetto ad altri che ho assaggiato era molto, molto di più. Probabilmente deve essere, dalla tostatura finché arriva qui, il periodo di degassamento o forse in silos o prima di impacchettarlo, forse un po’ troppo a lungo.

RAFFAELE FERRIERI – VERO BAR DEL PROFESSORE NAPOLI Io non sono tanto convinto, perché noi purtroppo, per fare un certo tipo di caffè, abbiamo bisogno di avere questa sensazione che lei prova prendendo il caffè. 12

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh ma se è rancido, è rancido. È un difetto nella tazza il rancido.

RAFFAELE FERRIERI – VERO BAR DEL PROFESSORE NAPOLI Ma ciò che è gradito dalla gente non è un difetto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma si ammette che c’è un sapore di rancido ma che è comunque gradito, forse perché mascherato con tanto zucchero e cremine varie. Anche Aldo, il gestore del mio caffè preferito che è persona competente e obbiettiva esprime lo stesso concetto.

ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Quando ti esce un caffè…

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh si vede, ma poi quando si vedono questi nei neri sono segni di… è un difetto cosiddetto di tostatura – si dice tipping – perché poi dà un pochino di amaro, un po’ di bruciacchiato.

ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Però loro…

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Però è quello che piace qui.

ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Bravo. ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Che i napoletani sono abituati sostanzialmente a ...

ALDO CASTAGNOLA – BAR MEXICO NAPOLI Quando tu gli dai un sapore molto delicato, molto largo, sembra che dicono: “Ma che mi hai fatto? Mi hai fatto l’acqua?”.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infine tiriamo le somme in una tavola rotonda al Gambrinus, dove avevamo invitato a discuterne oltre ad alcuni giornalisti ed esperti, anche i maggiori torrefattori napoletani: Passalacqua, Toraldo e Kimbo. Ma non sono venuti.

BERNARDO IOVENE In città abbiamo sentito tanto rancido noi, tanto.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Dappertutto.

BERNARDO IOVENE 13 Non c’è un bar dove non abbiamo sentito rancido.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Significa che nel processo, dalla tostatura alla preparazione in tazza, i grassi che sono contenuti nel caffè sono rimasti esposti all’ossigeno troppo a lungo. Oppure la macchina da caffè è sporca.

LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Ci sono sicuramente dei parametri che si riscontrano evidentemente oggettivamente a prescindere. Io penso che il caffè debba essere la terza grande rivoluzione gastronomica napoletana dopo la prima che è stata il vino, perché all’epoca i contadini che bevevano e noi che bevevamo quei vini da ragazzi, belli tannici che lasciavano tutti i resti, ci piacevano tanto. Poi abbiamo capito che andavano un po’ più ripuliti e magari c’era un’estrazione di sapore superiore. Stessa cosa per la pizza, anche grazie alla vostra trasmissione iper criticata, però alla fine ha avuto effettivamente l’effetto di dare una…

BERNARDO IOVENE Sferzata di qualità dal punto di vista degli ingredienti.

LUCIANO PIGNATARO – GIORNALISTA IL MATTINO Sì. È una cosa oggettiva col senno di poi. E poi credo che per il caffè ci sia bisogno anche di questo.

MICHELE SERGIO – PROPRIETARIO GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Il caffè del Gambrinus rispetta la tradizione napoletana. A Napoli il caffè è qualcosa che va tutelato. Io ho incominciato insieme a Francesco Borrelli una petizione per raccogliere delle firme per candidare a patrimonio Unesco il caffè napoletano. Perché il caffè al di là della tazzina – la tazzulella ‘e cafè, cara a Pino Daniele e a Sofia Loren - non è soltanto questo, è anche un rito. Il caffè è un momento aggregante, è un catalizzatore sociale.

 ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA A me piacerebbe, però sarebbe meglio dire “il rituale” del caffè napoletano. Perché se poi noi all’Unesco gli presentiamo o gli proponiamo la qualità organolettica sensoriale del caffè napoletano, scusate…

MICHELE SERGIO – PROPRIETARIO GRAN CAFFÈ GAMBRINUS Mi perdoni, all’Unesco non interessa la tazzina, la bevanda. All’Unesco interessa il rito, la socialità. Però alla fine, se mi posso permettere, il caffè napoletano è qualcosa che esce dagli schemi, che non può essere valutato secondo i criteri, perché noi ricordiamo che in Italia esistono due tipi di caffè: il caffè napoletano e il caffè italiano. Punto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Punto. Quando morirò, poi portami un caffè che io resusciterò come Lazzaro. Questa è la citazione dell’inimitabile Eduardo De Filippo in “Fantasmi a Roma”. Forse, però non immaginava proprio questo caffè che c’aveva un po’ di retrogusto rancido. Il professore ha provato la difesa estrema, ha detto “ciò che è gradito dalla gente non ha difetti” insomma, questo per antonomasia. Vale anche quando c’è l’espressione della democrazia. Però certo che se tu offri al popolo il rancido a colazione, a pranzo e 14 a cena, anche il rancido è buono. E puoi magari ingannare anche il palato mettendoci la cera e una cremina zuccherata. Alla fine però anche quello che era stato più critico con noi, Luciano Pignataro, ha dovuto ammettere con il senno del poi che dopo aver fatto la denuncia sulla piazza napoletana che era migliorata la qualità e, ha detto, “ora si aspetta la rivoluzione, che però è quella più difficile, quella intorno al caffè partenopeo”. Anche perché è difficile, perché c’è una vera e propria ritualità. È un veicolo di affetto, di socialità ed è per questo che quelli del Gambrinus stanno raccogliendo firme per farlo considerare bene per l’umanità, patrimonio dell’Unesco. Ma puoi farlo anche migliorando la qualità, eliminando il rancido. Anche perché un caffè diverso è possibile farlo a partire dalla tostatura, abbiamo capito che è lì intorno che si gioca la partita, noi abbiamo in Italia un’eccellenza, abbiamo il campione del mondo di tostatura. Ma non è napoletano. Vedremo di dov’è. E c’è anche chi l’ha capita, e punta molto sulla scelta della materia prima, sulla qualità, sulla formazione, sulla competenza. Anche perché il barista ha un ruolo: se tu bevi un caffè bruciato è possibile che la macchina stia lavorando ad una temperatura troppo alta, oppure è stato macinato il caffè troppo fino, o è stato pressato troppo o è stato servito in un’acqua che non è limpida ma perché non è stato fatto il purge. Stanno nascendo in tutta Italia gli specialty coffee, dove tutto è trasparente a partite da dove viene piantato e coltivato il caffè. Perché l’eccellenza la devi mostrare, non la devi nascondere. Il risultato è che il nostro Godina ha assegnato un bel 9,5! A chi?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’Italia si è sempre autoproclamata la patria del caffè, noi l’abbiamo girata tutta, abbiamo assaggiato caffè anche sui treni, in autogrill, nei bar delle piazze storiche delle maggiori città italiane: piazza Navona a Roma, a Firenze, a Milano, e a parte rare eccezioni - che ci sono - i fattori negativi sono abbastanza comuni.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Quando si tosta molto scuro, il chicco come vedete si danneggia, viene via una scaglia superficiale e si brucia. Questo procura poi in tazza amaro e astringenza, aroma di bruciato e del cosiddetto difetto di scorching.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi una tostatura spinta brucia anche gli aromi positivi che una tostatura più chiara invece esalta. DONNA Questo in tazza risulta più fruttato.

BERNARDO IOVENE Questo è vostro?

DONNA Sì. E questo in tazza risulta, può risultare anche rancido.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I caffè Specialty puntano proprio sull’esaltazione degli aromi che possono regalare le singole origini, è una nuova generazione che sta rivoluzionando l’approccio al caffè, valorizzandolo dal seme alla tazza. E a proposito di valori in pochi sanno che in materia di caffè abbiamo un campione del mondo. Ed è a Forlì.

BERNARDO IOVENE 15 Cioè tu qua a Forlì…

RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Eh nella zona industriale di Forlì qui siamo.

BERNARDO IOVENE Non si è mai sentito il caffè a Forlì. Tu sei il primo torrefattore al mondo?

RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Il primo torrefattore italiano ad aver vinto il campionato mondiale di tostatura. Qui abbiamo dei sacchi, per esempio quello che sta inquadrando è del Guatemala, un lotto del Guatemala. Possiamo avere del Colombia, dell’Etiopia, due etiopi, Ruanda. Il tostatore non può fare altro che rovinarlo. Se fa un buon lavoro, ottiene quello che il verde sa dare. BERNARDO IOVENE La regola di base: più è bruciato e più si ammazzano gli aromi?

RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Ah sì. Si sente solo il bruciato, aumenti un po’ il corpo. Come ti dicevo Bernardo, non è sudato, vedi? Non c’è olio, è un colore medio chiaro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questi caffè costano dagli 8 euro fino ai 25: poi ci sono quelli pregiatissimi che viaggiano anche sotto vuoto. RUBENS CARDELLI – TORREFATTORE SPECIALTY COFFEE Se lo brucio, che viene fuori da questo? Che senso ha spendere 200 euro al chilo verde per poi bruciarlo? E senti solo l’amaro… non ha senso.

BERNARDO IOVENE Quindi viene macinato direttamente nel filtro? DONNA Viene macinato direttamente nel filtro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La tostatura non basta, è importante come viene conservato e come viene trattato e cucinato all’interno del bar, anche la migliore specie può essere rovinata. Negli specialty il caffè si macina al momento. I grammi devono essere perfetti e sono pesati ogni volta, si pulisce il filtro sempre e si pressa il macinato dall’alto verso il basso. Poi, prima di inserire il filtro è d’obbligo fare il cosiddetto purge. In queste caffetterie se recuperiamo l’acqua prima dell’erogazione è limpida. BERNARDO IOVENE Eccola qua. Bianca.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo provato a fare la stessa operazione in alcuni bar dove il purge non lo fanno. BERNARDO IOVENE Basta, basta, basta. Quanti caffè hai fatto da stamattina? 16 DONNA Parecchi. Un chilo e mezzo. BERNARDO IOVENE E l’acqua bisogna farla scorrere ogni tanto, no, qua? DONNA Eh sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Eh sì, si sa ma non si fa, noi consumatori dovremmo pretendere che puliscano il filtro e che facciano il purge sennò l’acqua con cui ci fanno il caffè è questa. Invece negli Specialty la combinazione di tutte le attenzioni intorno alla tazza di caffè alla fine dà questi risultati.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Soprattutto marzapane, caramello, un po’ di latte caramellato. Una leggera nota agrumata di arancia rossa: nove e mezzo.

BERNARDO IOVENE Nove e mezzo? ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Nove e mezzo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo a Milano dove da poco è sbarcato Starbucks. Pare che il fondatore - proprio a Milano nel 1983 - affascinato dai bar italiani ebbe l’idea di realizzare una catena di caffetterie che oggi nel mondo sono circa 30 mila. GIANPAOLO GROSSI – GENERAL MANAGER STARBUCKS Infatti Howard Schultz dice sempre che questo è un cerchio che si chiude in circa 35 anni di storia, perché dal 1983, quando è venuto qua a Milano, è venuto ad imparare da noi italiani come bevevamo il caffè.

BERNARDO IOVENE Adesso ha la presunzione di venire qua a dire agli italiani come si fa il caffè?

GIANPAOLO GROSSI – GENERAL MANAGER STARBUCKS Assolutamente no. Siamo arrivati in Italia con rispetto e umiltà. BERNARDO IOVENE State facendo un tentativo di invasione…

GIANPAOLO GROSSI – GENERAL MANAGER STARBUCKS No, è un tentativo di condivisione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Milano in questo meraviglioso spazio c’è anche la torrefazione; il caffè tostato viaggia in questi tubi fino alla tazzina. 17

UOMO Abbiamo appunto il blend che è una miscela… L’Uganda e invece l’Honduras sono entrambe delle mono origini. Noi usiamo solo 100 % arabica.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Starbucks non ci sono segreti. Miscele e origini sono ben specificate. È scritto tutto su queste tesserine che vengono offerte insieme al caffe. Questo è un Uganda, questo un Honduras. Dietro c’è la descrizione del gusto, dove è situata la piantagione e la storia di chi la coltiva. I baristi hanno tutti una formazione tecnica e culturale che si trasforma anche in passione per il caffè. UOMO Sono stato a Londra, poi sono venuto qui e ho fatto tre mesi all’area gusto con Starbucks dove ci hanno insegnato tutto riguardo alle macchine, il caffè, da dove proviene come dare l’eccellenza, quindi come pressare il caffè quando appunto andiamo a tampare.

DONNA Mi si è aperto un mondo quando sono arrivata qua.

BERNARDO IOVENE Ma avevi già lavorato?

DONNA Avevo già lavorato, ma mi si è aperto un mondo.

BERNARDO IOVENE Cioè che cosa non sapevi?

DONNA Non sapevo i vari metodi di estrazione, non sapevo tutti i tipi di caffè, come vengono raccolti, come vengono lavati, asciugati, tutti i vari procedimenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Come negli specialty oltre all’espresso troviamo anche gli altri modi di bere il caffè, a filtro a goccia, ma a noi interessa valutare i vari espressi con il nostro assaggiatore. Assaggiamo prima la miscela Gravitas.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sento un aroma di frutta candita, scorza di arancia candita, pan tostato, caramello, anche una nota di marmellata di frutta di bosco, forse un pochino di fragola, caramello. Io direi che gli possiamo dare 7.5.

BERNARDO IOVENE Questo è Uganda?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA È Uganda. Ha una nota di marmellata di frutta, di fragola, frutta rossa di bosco. Il voto: otto e mezzo.

BERNARDO IOVENE 18 Otto e mezzo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Concludiamo cercando di tutelare il nostro Sigfrido che arriva in Rai prima dell’alba e beve tanto caffè al bar di via Teulada.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Una nota prevalente di cacao, pan tostato, leggermente legnoso e forse un pochino rancido. Che non sono cose positive.

SIGFRIDO RANUCCI Io ne bevo 7/8 qui di caffè al giorno. Capito Gabri? Dice che sa leggermente di rancido... Simone niente sufficienza. BARISTA RAI Quanto è? Cinque?

SIGFRIDO RANUCCI Cinque, ha detto. Che però rispetto alla media com’è?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA In questi giorni che abbiamo assaggiato caffè, siamo più o meno in media.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo nella media italiana e allora rivolgiamo un’attenzione anche a tutti i nostri colleghi che invece sempre in via Teulada si servono alla macchinetta.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZE DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Odore leggero di muffa, di terra, terra bagnata, legno, leggero cacao, muschio, leggera muffa, legno, come lo definisco a volte straccio bagnato di qualcosa di sporco, fava di cacao, bastoncino di liquirizia. Io direi leggermente anche rancido in retrogusto, poi con un corpo molto molto basso. Una votazione di due e mezzo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Due e mezzo. Mamma mia. Proprio nella sede gloriosa della Rai di via Teulada, dove i tg anni fa annunciavano lo sbarco sulla Luna, il caffè della macchinetta ha il sapore dello straccio bagnato. E invece il nostro Godina ha dato tra 4 e 5 al caffè del bar di Via Teulada. Ecco sotto la sufficienza ma più alto di quello che ha dato al Gambrinus. Questo grazie al lavoro del nostro Simone e di tutti gli altri ragazzi che lavorano lì freneticamente ma sempre con il sorriso sulla bocca per renderci più sopportabili la lunga giornata in redazione. Abbiamo però visto che un altro modo di fare il caffè è possibile ma si è trasformato in un incubo perché sono gli americani di Starbucks che ce lo insegnano. Tu prendi il chicco di caffè, vedi tostarlo, poi lo segui, viene macinato direttamente nel filtro pulito e servito in acqua calda trasparente perché è stata pulita la macchinetta. E vengono poi allegate tutte le informazioni. Tu hai qualità della materia prima, competenza, trasparenza, tutto insieme condensati in un caffè, che meraviglia. Adesso però lasciateci una preoccupazione, il nostro Godina: riuscirà a prender sonno dopo tutti i caffè che ha tirato giù? Meno male che l’abbiamo esentato dall’ assaggiare il caffè che va più di moda in questi ultimi tempi, quello al ginseng. Uno crede di tirar giù gli effetti benefici, miracolosi, di una radice coreana e invece… 19

BARISTA I ginseng nell’ultimo periodo stanno crescendo, ma in maniera molto importante.

BARISTA 2 Il ginseng va molto in voga ora.

BERNARDO IOVENE Ah sì?

BARISTA 2 Sì.

BERNARDO IOVENE Ne vendete tanto?

BARISTA 2 Sì.

BERNARDO IOVENE Chi è il consumatore medio del ginseng?

BARISTA 2 Chi non può prendere caffè o chi gli dà noia la caffeina, o chi, diciamo, ha bisogno di energia.

CLIENTE Io lo prendo spesso, perché è energizzante. Non contiene la caffeina, però a me piace moltissimo. Anche il gusto, l’aroma sì.

BERNARDO IOVENE Ma anche perché è salutare?

CLIENTE Sì, e ne prendo anche di più al giorno. Più di uno.

CLIENTE 2 Ginseng.

BERNARDO IOVENE Sempre? CLIENTE 2 Sempre.

BERNARDO IOVENE Ma come mai?

CLIENTE 2 Mi dà più spinta, più coraggio. Lo prendo perché non potendo prendere altro caffè in quanto ho colite, gastrite, eccetera … il ginseng mi dà un sollievo.

BERNARDO IOVENE 20 Ah, e non le dà queste controindicazioni?

CLIENTE 2 No. Io lo prendo tutte le mattine.

BERNARDO IOVENE Ah, mentre se prende il caffè?

CLIENTE 2 Se prendo il caffè ho degli spasmi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per tutti ormai è caffè al ginseng. In realtà se chiediamo al barista di leggere le etichette scopriamo che è un “preparato in polvere per bevanda al gusto di caffè e ginseng”. Si beve perché ha meno caffeina e si pensa che faccia anche bene.

BERNARDO IOVENE Ah, ma lei ha mai visto che c’è dentro la bevanda ginseng?

CLIENTE 2 No. BERNARDO IOVENE Lei lo sa cosa c’è dentro quello che beve?

CLIENTE No, non lo so. Perché fa male il ginseng?

BERNARDO IOVENE Però le piace?

CLIENTE No, mi dica: fa male il ginseng?

BERNARDO IOVENE Però le piace?

CLIENTE A me si piace molto.

BERNARDO IOVENE Eh quello è il punto allora.

FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Intanto non scordiamoci che il consumatore questa cosa la beve al bar: quindi quando va al bar è alla ricerca di qualcosa che sia alternativo a qualche altra bevanda e quindi quello che beve deve anche essere buono. Altrimenti non lo consuma. Oppure deve andare in farmacia.

BERNARDO IOVENE Sì. FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS 21

Se vuole invece qualcosa che lo aiuti a migliorare.

BERNARDO IOVENE Deve andare in farmacia.

BERNARDO IOVENE Chi è lui?

SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Lui è il titolare, mister YO.

BERNARDO IOVENE Piacere. Un coreano originale.

SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE È un coreano originale… T

ITOLARE PERSALUTE Pelle coreana, testa coreana.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è coreano il ginseng puro. Si estrae dalla la radice di questo fiore che si coltiva a 800 metri sugli appennini della Corea del sud. Da questa radice essiccata si estrae il Ginseng in polvere o in estratto molle.

SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE La radice viene centrifugata ad altissima velocità, per cui se ne estrae il succo.

BERNARDO IOVENE Posso?

SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Prego.

BERNARDO IOVENE Non muoio?

SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Non muore. È un gusto particolare, abbastanza forte. Forte.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un grammo al giorno di ginseng puro rafforza il sistema immunitario, perché in questa qualità rossa coreana che è il Panax ci sono 32 tipi di ginsenosidi, il principio attivo che dà benessere, forza ed equilibrio.

SERGIO MATTARELLA – DIRETTORE COMMERCIALE PERSALUTE Affinché ciò avvenga bisogna consumare ginseng puro per un periodo abbastanza lungo – diciamo di almeno 2/3 settimane – prendendone almeno un grammo puro al giorno. BERNARDO IOVENE Estratto di ginseng 0,3? 22

UOMO Esatto.

BARISTA Come vedi, l’estratto di ginseng è all’1%.

BERNARDO IOVENE Ah. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il ginseng contenuto in questi preparati varia dall’0,3% al 1%, ma parliamo della percentuale rispetto al peso del contenuto nel barattolo. In tazzina ne arriva molto meno.

FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Le dico anche quanto ce n’è per tazzina: in una tazzina di ginseng, l’estratto è 0,04 grammi.

BERNARDO IOVENE 0,04? FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Ogni tazzina 0,04 grammi di ginseng.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per arrivare a un grammo e avere i benefici del ginseng ci vogliono 25 tazzine al giorno! Restano gli ingredienti dell’altro 99 e rotti per cento. Ci sono dei bar, che quando hanno letto l’etichetta l’hanno tolto con tanto di cartello. BERNARDO IOVENE Non più ginseng?

RICCARDO SCHIAVI – CAFFETTERIA LA PASQUALINA BERGAMO No.

BERNARDO IOVENE Ecco il perché. Perché?

RICCARDO SCHIAVI – CAFFETTERIA LA PASQUALINA BERGAMO Mi sono reso conto che poi effettivamente all’interno del prodotto che vendevamo di ginseng c’era solo lo 0,8/0,9 %. Tutto il resto era fatto di zuccheri, additivi come mono trigliceridi e aromi chimici. E allora ovviamente non mi sono sentito coerente. Qualche cliente ci ha ringraziato e ha apprezzato la scelta, qualche altro si è un po’ arrabbiato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In alcuni caffè specialty il ginseng non l’hanno mai avuto.

SIMONE AMENINI – BARISTA SPECIALTY COFFEE Non utilizziamo nessun tipo di surrogato del caffè.

BERNARDO IOVENE Quindi il ginseng? 23

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Noi il ginseng non lo abbiamo.

DONNA Come mai?

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Non usiamo prodotti liofilizzati…

BERNARDO IOVENE La signora dice che è una cosa salutare il ginseng.

DONNA Beh, fa bene.

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Fa bene?

DONNA È ottimo il ginseng, sì, e poi è un’alternativa al caffè e a chi non prende la caffeina.

DARIO FOCIANI – CAFFETTERIA FARO ROMA Noi preferiamo il caffè buono.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Negli ingredienti c’è anche il caffè: in media è il 10%, ma i primi ingredienti che troviamo su tutte le etichette e che rappresentano l’altro 90% del contenuto sono zucchero, sciroppo di glucosio, grassi di cocco, aromi, stabilizzanti. Analizziamo queste etichette insieme al professor Spisni nutrizionista dell’università di Bologna.

ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Quelli zuccherati contengono una quantità di zucchero impressionante. Siamo circa per tazzina o per tazza circa, 100 ml di preparato, intorno ai 14 grammi di zucchero.

BERNARDO IOVENE Che significa?

ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Tre bustine di zucchero. Cioè in un caffè uno mette una bustina di zucchero se proprio ne mette tanta, sennò mezza insomma.

BERNARDO IOVENE Il beneficio del ginseng – se si vuole avere – bisogna prendere una zuccheriera intera.

ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Esatto. Che poi lo zucchero non è sempre solo saccarosio, ma spesso c’è sciroppo di glucosio, che da un punto di vista fisiologico è peggio. Non tutti, ma molti di questi, hanno anche grassi all’interno che sono su base cocco. Latte scremato in polvere, 24 oppure proteine del latte, diversi additivi, tra cui emulsionanti, anti agglomeranti … insomma tutta questa parte è una chimica che non fa bene. Poi abbiamo appunto gli stabilizzanti, aromatizzanti. Mettono polifosfati – sono quelli che abbiamo tolto dai formaggini - abbiamo fatto la battaglia per togliere i polifosfati dai formaggini e adesso ce li rimettono nel ginseng. BERNARDO IOVENE E 471, E 472: cioè qui c’è un colorante? E-450.

ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sì. È tutta chimica che potremmo assolutamente evitare. Come le ho detto, a parte il caffè io qui dentro non ci vedo nulla di salutare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se ne è accorto anche il signor Lusetti, la sua ditta da poco ha introdotto un Ginseng senza zucchero.

FRANCO LUSETTI – DIRETTORE FOODNESS Noi abbiamo cercato di pulire questa etichetta. Quindi quello che lei dice – che c’è il 99,9 % di altre cose – ma le altre cose sono latte, caffè, nel nostro caso maltitolo – che è un dolcificante naturale che proviene dal mais, non alza l’indice glicemico, ha meno calorie - perché poi io devo dare un prodotto dolce, altrimenti lei non me lo beve. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma secondo il professor Spisni i dolcificanti non sono migliori del saccarosio né come effetti sull’intestino né come effetti non ingrassanti.

ENZO SPISNI – DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Alla fine se uno vuole l’effetto del ginseng, è un effetto sicuramente interessante, ma non lo tira fuori da queste bevande.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma una pensa di beneficiare degli effetti miracolosi della radice rossa coreana, invece butta dentro 3 bustine di zucchero, grassi, aromi chimici e additivi. Ma uno come fa a saperlo se con la tazzina non ti servono anche la lista degli ingredienti. È stato bravo quel gestore di bar che l’ha ritirato di sua iniziativa dal commercio. Contrariamente all’avidità di chi pensa al profitto o al consenso dei clienti, lui ha pensato alla tutela della salute. In quanti pensano al bene consumo al rischio anche di sembrare inadeguati?

Ma cosa hai messo nel caffè? Report Rai PUNTATA DEL 21/10/2019 di Bernardo Iovene. Le capsule del caffè ormai sono una realtà nelle nostre case, tra i vari sistemi soltanto Nespresso è arrivata a un accordo con il Cial, Consorzio italiano alluminio, per riciclare tonnellate di capsule, tutte le altre vanno in discarica (o in inceneritori). Abbiamo sottoposto dieci capsule, tra le più vendute, ad analisi sensoriale del trainer Andrej Godina e a nove professionisti dell’Istituto Internazionale assaggiatori. Abbiamo poi chiesto alle case coinvolte di avere un confronto diretto sull’assaggio con Godina, ha accettato soltanto una. Le capsule sono state inoltre analizzate da tre laboratori diversi per la ricerca di metalli eventualmente rilasciati e poi sono stati esaminati separatamente acqua e caffè macinato. I risultati sono stati commentati dalle maggiori case coinvolte e da esperti dell’Istituto Ramazzini, dell’Università di Padova e dell’Arpa Roma-Lazio.  Le osservazioni del Gruppo Gimoka, a cui abbiamo sottoposto le analisi realizzate da Bernardo Iovene e quelle dei laboratori di Arpa Lazio a cui abbiamo sottoposto gli esiti delle indagini interne all’azienda Come anticipatovi in occasione della nostra comunicazione del 14/10/2019, siamo a condividere con voi le risultanze delle analisi commissionate allo scopo di verificare ed approfondire il tema da voi evidenziato con la vostra @mail del 9 Ottobre 2019. Premettiamo che le analisi sono state condotte da un laboratorio accreditato (Mérieux NutriSciences), al quale affidiamo buona parte delle analisi annualmente previste dall’azienda. Sono stati dunque analizzati alcuni campioni di caffè prelevati in corrispondenza delle differenti fasi maggiormente caratterizzanti il nostro processo produttivo, al fine di determinarne il contenuto di alluminio, con lo scopo di rilevarne la concentrazione sia nel del caffè macinato, sia nel prodotto finito confezionato. Nella tabella sottostante vengono riportati i valori di alluminio rilevati all’interno del caffè macinato (Nome campione: Caffè macinato_Gran Bar_ L08U), all’interno del caffè confezionato (Nome campione: Prodotto finito_Gran Bar_L08U) e all’interno della bevanda erogata (Nome campione: Caffè erogato_ Gran Bar_ L08U), riferiti al prodotto Gran Bar, risultato il secondo più critico dalle vostre analisi. Come sottolineato nella nostra comunicazione precedente, la descrizione “caffè in polvere a marchio Gimoka (sacchetto alluminio)” con la quale viene marcata la prima referenza all’interno del rapporto di analisi fornito, risulta talmente generica da non poterci permettere una chiara identificazione del prodotto oggetto di analisi. ID Prova Parametro di analisi Nome campione Valore/Incertezza (mg/kg) Quantità di campione analizzata Metodo utilizzato 1 Alluminio – caffè macinato Caffè macinato_Gran Bar_ L08U 25,3±5,0 100 g MP 1288 rev. 16 2019 2 Alluminio – caffè macinato Prodotto finito_Gran Bar_L08U 26,2±5,1 100 g MP 1288 rev. 16 2019 3 Alluminio – caffè erogato Caffè erogato_ Gran Bar_ L08U < xx, 00 mg/kg 100 g MP 1288 rev. 16 2019 I risultati ottenuti, oltre ad evidenziare dei valori ben al di sotto di quelli da voi rilevati, indicano una concentrazione di alluminio nel caffè erogato inferiore rispetto al limite di rilevabilità dello strumento: nulla di quanto presente all’interno della matrice originaria migra in tazza a seguito del processo di erogazione, evitando dunque qualsiasi tipo di esposizione al consumatore finale. Questo elemento, rafforza la validità dell’analisi che vi abbiamo sottoposto in occasione della nostra precedente comunicazione del 14 ottobre, comprese tutte le considerazioni, metodologiche e non, che ne derivano. Ci teniamo inoltre a sottolineare che il laboratorio che si è occupato di effettuare le analisi, non solo è accreditato per la prova di determinazione dell’alluminio all’interno del caffè (requisito non garantito invece per i laboratori Arpa), ma partecipa anche a prove di Proficiency Test. Questi, in particolare, sono strumenti utili per garantire qualità e affidabilità dei metodi analitici e, di conseguenza, dei risultati delle prove condotte in laboratorio. Sinteticamente ciò significa che in ogni circuito interlaboratorio i partecipanti effettuano una o più prove sul medesimo campione. Ciascun laboratorio raffronta i propri risultati analitici con quelli ottenuti dagli altri, provvedendo così ad una costante autoverifica delle proprie capacità di prova e, allo stesso tempo, ad una verifica ad ampio spettro della performance e dell'affidabilità del laboratorio stesso. Tramite i Proficiency Test, infatti, si verifica la gestione e l’applicazione nell’esecuzione di una prova sotto tutti gli aspetti di sistema previsti e, pertanto, rappresentano un mezzo per garantire il corretto svolgimento delle analisi, l’affidabilità degli operatori e la qualità dei laboratori nel tempo. A valle di tutte le considerazioni esposte in precedenza e delle relative risultanze analitiche fornite a supporto, certi di avere contribuito ad una valida, completa e trasparente informazione, confidiamo nella divulgazione di informazioni corrette, obiettive e non fuorvianti. Di seguito alcune utili precisazioni a supporto dell’attività analitica svolta dai laboratori dell’Agenzia e in particolare dal laboratorio sanitario di Roma che ha determinato il tenore dei metalli sui campioni di “caffè in polvere” che ci avete consegnato. Il laboratorio sanitario ARPA nella sede territoriale di Roma è il laboratorio ufficiale nell'ambito del controllo sugli alimenti nella Regione Lazio ed è accreditato secondo la norma UNI CEI EN ISO/IEC 17025 che definisce i "Requisiti generali per la competenza dei laboratori di prova e di taratura". L’accreditamento, rilasciato da un Ente terzo, in Italia ACCREDIA, attesta che il laboratorio soddisfa sia i requisiti tecnici che quelli relativi al sistema di gestione della qualità, necessari per garantire dati e risultati accurati e tecnicamente validi. Il mantenimento della competenza tecnica del laboratorio è inoltre assicurata dalle attività di sorveglianza periodica svolte dagli ispettori ACCREDIA. Il laboratorio utilizza metodi ufficiali e accreditati per la determinazione dei metalli nei prodotti alimentari e per assicurare la validità dei risultati partecipa a circuiti interlaboratorio, Proficiency Testing Providers (PTP) gestiti da organizzatori accreditati ai sensi della norma ISO/IEC 17043. Entrando nel dettaglio delle analisi eseguite, si vuole precisare che i campioni di caffè consegnati presso la nostra sede, a marchio GIMOKA, non corrispondono a quelli denominati “Gran Bar” cui fa riferimento la ditta GIMOKA, rendendo quindi non corretto un confronto dei risultati analitici ottenuti dai due laboratori. A supporto di quanto detto, si vuole inoltre evidenziar che il tenore dei metalli nei campioni di “caffè in polvere” analizzati presso il nostro laboratorio era in generale molto variabile soprattutto per quanto riguarda il contenuto in mg/kg di Alluminio. Tali differenze si riscontravano tra caffè di diverse denominazioni commerciali, ma anche tra tipologie diverse di caffè aventi stessa denominazione commerciale, probabilmente riconducibili a differenti miscele di caffè utilizzate.

“MA COSA HAI MESSO NEL CAFFÈ” di Bernardo Iovene collaborazione di Alessia Marzi immagini di Cristiano Forti - Alfredo Farina – Davide Fonda S

IGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, il nostro Bernardo Iovene, nella scorsa stagione aveva fatto infuriare i napoletani perché aveva messo in discussione una loro ritualità, il caffè. Questa volta riuscirà a recuperare? Vediamo, la prendiamo un po’ dalla fine. UOMO Laggiù non ci deve andare.

BERNARDO IOVENE No, no. Sto vedendo le capsule che già stanno là. UOMO Lo so, però adesso facciamo finire di caricare. Poi dopo semmai fai la ripresa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune di Capannori è all’88 per cento di raccolta differenziata. Quello che resta – il 12 per cento – viene caricato su questi camion e va in discarica.

ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO CAPANNORI Questo qui è un ufficio, questo è un ufficio. Guarda la roba. BERNARDO IOVENE Questa è una roba che non si smaltisce.

ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO CAPANNORI Eh no. Eccoli qua, Dolce Gusto. Questa era roba… andrebbero sanzionati però, eh. Questo non va bene. Questo è un caffeinomane.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Fanno eccezione le capsule Nespresso, che attraverso accordi con le aziende di raccolta dei rifiuti e il Consorzio Imballaggi Alluminio e grazie alla sensibilità dei consumatori che le riportano esauste nei punti vendita, vengono trasformate in grani di alluminio riutilizzabile. La polvere del caffè invece serve da compost per fare il riso…

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA L’abbiamo proprio chiamato “Da chicco a chicco”, proprio per il fatto che un chicco di caffè si trasforma in un chicco di riso. E sappiamo che il riso poi va al banco alimentare della Lombardia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutte le altre capsule, che utilizzano ancora la vaschetta di plastica, vanno invece in discarica o negli inceneritori.

ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO - CAPANNORI Si stima che siano un miliardo all’anno le capsule che vanno o in discarica o negli inceneritori. 2

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però, bravi quelli di Nespresso, con la cialda riciclata fanno, coltivano il riso. Ma sono svizzeri. Noi siamo italiani, ci crediamo intenditori, ma avevamo visto nella scorsa puntata che non è così. Il nostro assaggiatore, Andrej Godina, una laurea in scienza del caffè e un dottorato nell’analisi sensoriale, aveva girato l’Italia e aveva bocciato gran parte dei caffè fatti nei nostri bar, ma soprattutto aveva distrutto un rito: il caffè napoletano che molti vogliono candidare a patrimonio dell’Unesco. Secondo lui invece aveva un sapore di rancido e bruciacchiato. Quando avevamo denunciato, eravamo stati sommersi dalle critiche. Questa volta il nostro Bernardo invece che cosa ha fatto? Ha analizzato, ha messo sotto inchiesta il caffè delle cialde e anche il caffè fatto con la moka. E per tutelarsi dagli attacchi l’ha portato ad assaggiare a 9 professionisti, gli assaggiatori ufficiali dell’istituto internazionale, che hanno assaggiato il caffè senza conoscere la marca, senza sapere. Quindi il loro parere è inappellabile. Il caffè è il seme di un frutto esotico, dovrebbe avere un retrogusto di arancia, mandarino, limone, bergamotto, di nocciola tostata o di fava di cacao. E invece qui che cosa hanno trovato i nostri assaggiatori? Hanno trovato un retrogusto di cartone da imballaggio, straccio bagnato, cicoria bollita, gomma bruciata e addirittura l’empireumatico. Ma che cos’è l’empireumatico? Ma cosa ci mettono dentro il caffè?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se non è moka, ormai è espresso. In casa nostra arriva con le capsule di alluminio o in plastica. Il massimo per la sostenibilità ambientale sarebbero quelle di carta, ma il caffè se prende aria, diventa rancido.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Quel caffè prende aria.

BERNARDO IOVENE Non è il massimo.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Infatti è necessario… ti faccio vedere qui, è necessario un altro imballo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono le compostabili, ancora poche, le fa anche Lavazza, costano 42 centesimi per capsula. E ci sono anche quelle che possono essere utilizzate con il metodo Nespresso.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Qui viene utilizzato un materiale che viene derivato da composti organici: funghi, mais, vegetali sostanzialmente, e si può gettare insieme al caffè esausto nel compostabile. Bene questi sono i vari format: ogni format necessita di una macchina di erogazione differente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cominciamo con il sistema Lavazza, analizziamo l’originale e qualche compatibile più diffusa. Partiamo proprio con la Passionale.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE 3 PROFESSIONISTA Il corpo è morbido, è leggermente dolce, è amaro. Sostanzialmente non è acido, forse un pochino. E il retrogusto è sostanzialmente di pan dolce, caramello e legno. Legnoso. Retrogusto abbastanza intenso. Quindi a questo caffè io darei cinque.

BERNARDO IOVENE Cinque?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Va bene, andiamo a inserire quindi il prossimo, il compatibile. Fa più bolle, potrebbe essere dovuto al fatto di una percentuale maggiore di robusta. Il corpo è molto intenso, il gusto amaro è molto intenso. E ha un aroma molto molto intenso e persistente di terra. Leggermente si, di sottobosco, di muschio, forse un pochino di gomma, di gomma bruciacchiata. Sì, questo caffè… la cosa positiva – se proprio si vuole dire di questa tazza – è un corpo molto morbido. Però, con i sentori che ho descritto precedentemente, gli darei tre.

BERNARDO IOVENE Tre?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Tre. Perché la terra, la gomma…non sono considerate positive.

BERNARDO IOVENE Quindi abbiamo la Lavazza cinque e abbiamo la compatibile tre.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, che è questo colore blu, Borbone. Abbiamo tre, adesso passiamo alla rossa, sempre una compatibile.

BERNARDO IOVENE Di che marca è?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Rossa Borbone.

BERNARDO IOVENE Sempre Borbone.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Un po’ di carta o cartone, cartone da imballo. Molto amaro: sa di un retrogusto di cicoria, cicoria bollita, bruciacchiato, fumo, un pochino anche qui di gomma, misto a una liquirizia e una fava di cacao fondente. È leggermente astringente al palato. Astringente è quando si passa la lingua sul palato e si sente il ruvido. Ed è anche leggermente rancido, il retrogusto. Due e mezzo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 4 Abbiamo proposto un confronto diretto tra Godina e Borbone, ma l’azienda non ha accettato. Ci siamo rivolti allora all’Istituto Internazionale Assaggiatori dove nove professionisti hanno valutato gli stessi caffè. LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ È ignoto ai giudici come sono ignoti i tipi di caffè che noi assaggiamo. BERNARDO IOVENE Loro non lo sanno che cosa assaggiano…

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Non sanno neanche se si tratta di cialde, di capsule.

BERNARDO IOVENE Quindi al buio assaggiate?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sempre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I caffè vengono preparati in questa stanza e serviti nell’aula adiacente. Ogni assaggiatore ha una scheda, che compila sul tablet. Indica il punteggio per la percezione visiva, olfattiva, gustativa e retro olfattiva. Una centrale elabora i dati e dà un’unica valutazione per ogni caffè. Cominciamo con i primi tre, Sistema Lavazza.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Vediamo che ha un’intensità di colore abbastanza elevato, una buona tessitura, una buona intensità olfattiva, un buon corpo, scende sull’acido logicamente. BERNARDO IOVENE È poco acido?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ È poco acido. È più amaro che acido e abbiamo un che di fiori e frutta fresca e un che di vegetale per poi esprimersi tutto sul tostato.

BERNARDO IOVENE Quindi che giudizio diamo? Sufficiente…

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Visto così, vorrei dire che è un giudizio standard. Uno si beve un caffè…

BERNARDO IOVENE Standard.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ 5 Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passiamo ai risultati della capsula Borbone rossa.

BERNARDO IOVENE Borbone rossa.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Borbone rossa: ancora più amaro del precedente.

BERNARDO IOVENE Molto amaro.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ E praticamente con un’acidità quasi assente. Più vegetale.

BERNARDO IOVENE Vegetale che significa?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sentore di paglia.

BERNARDO IOVENE Paglia? Legno?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Potrebbe essere. Poi abbiamo Don Carlo miscela blu, sempre caffè Borbone. L’amaro aumenta ancora. Fiori e frutta fresca proprio non ne troviamo più la presenza. Abbiamo già un qualcosa sull’empireumatico. Cos’è l’empireumatico? Fumo e di bruciato.

BERNARDO IOVENE Ah… fumo e bruciato.

 LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Quindi questo scendiamo ancora leggermente. Poi andiamo a vedere se abbiamo ragione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La valutazione dell’Istituto Assaggiatori si esprime in centesimi. Tecnicamente è complicatissima, per noi terreni è più comprensibile il grafico: se Lavazza è standard e – diciamo – vale 6, i due Borbone sono meno della metà.

BERNARDO IOVENE Se standard vale sei, abbiamo detto, no, standard… 6

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì…

BERNARDO IOVENE Questi valgono tre? LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ

Sì, è un modo di comunicare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Torniamo a Pistoia da Godina e passiamo al sistema Nespresso, con un originale Colombia.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al gusto è particolarmente acido, leggermente dolce, poco amaro, il corpo è molto leggero, le note sono agrumate: limone, lime, un pochino di mandarino, leggermente fiorito. In laboratorio questa è una buona tazza di caffè. Otto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche Illy ha fatto le sue capsule compatibili con le macchine Nespresso.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al palato ha un acidità abbastanza intensa, piacevole, dolce, mi ricorda in retrogusto un po’ il bergamotto, il pan tostato, un po’ di caramello, leggermente floreale. Questa invece è una buona tazza, non ho riscontrato difetti. Sette e mezzo. Forse anche otto. Molto piacevole anche il retrogusto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passiamo a Kimbo. Atra capsula compatibile con il sistema Nespresso.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al palato è molto corposo, è denso. Leggermente astringente. Un aroma di legno piuttosto importante, muschio, carta, un pochino di cartone che ha degli aromi che abbiamo già sentito in altre capsule, soprattutto amaro e leggermente dolce. Sì… è terroso.

BERNARDO IOVENE Terroso?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, nel retrogusto lungo, un voto da quattro. E poi terminiamo…

BERNARDO IOVENE Con Napoli non ce la facciamo proprio?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA 7 A Napoli non ce la facciamo. Se vogliamo provare un’altra torrefazione partenopea.

BERNARDO IOVENE Che cosa è questo? ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Borbone. Anche loro fanno la capsula alluminio, e vedi, plastica, un pochino… Al gusto è molto corposo, è molto astringente. Ha un retrogusto di terra, di muschio, forse leggermente muffa, fungo. Hai presente il sottobosco quando si va a camminare e ha appena piovuto?

BERNARDO IOVENE Ce l’ho proprio qua.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Appunto, è intenso nel retrogusto. Io direi tre. BERNARDO IOVENE Tre?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Tre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Riepilogando: Nespresso e Illy otto. Lavazza cinque. Kimbo ed Esselunga quattro. Borbone miscela blu, Borbone Respresso ed Aneri 3. Borbone miscela rossa 2 e mezzo. Sembra un giudizio severo. Sentiamo allora i nove assaggiatori dell’Istituto internazionale, prima che uscissero i risultati e quando ancora non sapevano i nomi delle marche dei caffè assaggiati.

BERNARDO IOVENE Allora che caffè ha bevuto?

ASSAGGIATORE 1 Direi tra il mediocre e il pessimo. ASSAGGIATORE 2 Decisa presenza di robusta.

BERNARDO IOVENE Quindi negativo?

ASSAGGIATORE 2 Per il nostro gusto, sì.

ASSAGGIATRICE Sì, son d’accordo sul mediocre, livello non molto alto.

BERNARDO IOVENE Non molto alto? Conferma lei? 8

ASSAGGIATORE 3 Le dirò soltanto una cosa: è stato un purgatorio, mi son guadagnato delle indulgenze.

ASSAGGIATORE 4 Molto tostati, sensazione di cenere, di gomma bruciata e pochissimo – anzi non son riuscito a trovare – l’aspetto floreale che solitamente è quello che ricerco in un caffè.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed ecco i risultati finali.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Come primo Nespresso Colombia. Come secondo abbiamo un Lavazza.

BERNARDO IOVENE Lavazza è secondo?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Secondo la scala in centesimi Nespresso è primo con un voto che potrebbe corrispondere a un sette, segue Lavazza con sei, poi Illy con cinque e mezzo, e poi Esselunga con quattro. Tre Aneri e Borbone Nero, e poi sotto il tre gli altri Borbone e per ultimo Kimbo.

BERNARDO IOVENE L’ultimo? LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Dispiace per te che sei napoletano, che vuoi che ti dica?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci spiace sì, i caffè napoletani Borbone e Kimbo risultano ultimi della scala ed è la stessa valutazione – a parte invertite – che ha dato anche il nostro assaggiatore. E, d’accordo con Godina abbiamo proposto un confronto diretto sia a Kimbo che a Borbone, ma non hanno accettato. Lavazza invece che è stato giudicato con un sei dai nove assaggiatori e un cinque da Godina ha accettato la sfida.

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Ecco qua. Assolutamente. BERNARDO IOVENE Quindi cominciamo l’assaggio?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Ha una nota intensa di amaro, è leggermente dolce, una nota acida molto molto bassa. Forse un po’ bruciacchiato. 9

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Assolutamente. Mi ritrovo anche assolutamente nella descrizione della tazza.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Il voto non sarà molto alto, ma perché l’intensità di amaro per me in questa tazza – considerando che è arabica – è abbastanza elevato.

BERNARDO IOVENE Il legno?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA No, legno qui non l’ho sentito.

BERNARDO IOVENE Qui non c’è… Perché nella capsula che hai assaggiato l’altra volta sentivi legno.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh un pochino sì infatti. BERNARDO IOVENE Quindi è differente, ci hanno imbrogliato, hanno messo nella capsula…

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA No. Non credo proprio, perché poi i lotti dovrebbero essere…

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI No, assolutamente. Diciamo che sicuramente un amaro è presente. Sicuramente è ben bilanciato dall’acidità bassa, da una buona dolcezza.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io direi che – almeno per quanto mi riguarda – un sei lo prende.

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Concordo assolutamente su moltissime di queste valutazioni. Non mi permetto di andare sul voto, diciamo che parlo chiaramente di un buon bilanciamento, di questo bel finale di caramello. Questo è un gusto che incontra moltissimo i nostri consumatori.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine Lavazza ha recuperato un punto. È un dato di fatto comunque che sulla qualità del caffè c’è confusione: a noi italiani piace la robusta, che è considerata mediocre ma fa tanta schiuma, bella, alta. L’arabica invece ha uno strato inferiore ma non è schiuma, è crema, che sviluppa – se buona – solo aromi. BERNARDO IOVENE Arabica vediamo, questa qua è crema?

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Sì. Vedi come è, subito lo spessore è molto più basso. Però è ben specifico. 10 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sandalj a Trieste importa caffè verde di qualità da oltre settant’anni. Eddy Bieker ci spiega la differenza tra crema e schiuma, con un caffè arabica che costa otto euro al chilo all’ingrosso e un caffè robusta di due euro.

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Guarda lo spessore di questa… ovviamente il consumatore medio italiano…

BERNARDO IOVENE Gli piace questo? EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Ahh, questa qui sì che una bella crema… BERNARDO IOVENE Questa fa impazzire gli italiani?

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Esatto. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La crema dell’arabica persiste, mentre la schiuma della robusta, dopo un po’ sparisce.

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Vedi quanto è già calata la crema?

BERNARDO IOVENE Un fuoco di paglia questa crema? Quindi la robusta poi dopo cala, perché è tutta schiuma e non è crema.

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Sì, sì, esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E non è un caso che i caffè premiati dai nostri assaggiatori sono tutti arabica, come Illy, che utilizza anche nelle capsule - sia compatibili Nespresso, che quelle dedicate alle proprie macchine - lo stesso caffè. BERNARDO IOVENE Voi non utilizzate robusta?

MORENO FAINA - DIRETTORE UNIVERSITÀ DEL CAFFÈ- ILLY Non utilizziamo robusta.

BERNARDO IOVENE Solo arabica? MORENO FAINA- DIRETTORE UNIVERSITÀ DEL CAFFÈ - ILLY Una scelta strategica originale, che ci ha portato a fare queste selezioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 11 In casa Illy la robusta è considerata un difetto. In questo laboratorio vengono campionati i chicchi difettosi. E tra quelli rotti, tarlati e immaturi ci sono anche della qualità robusta.

BERNARDO IOVENE Anche robusta è un difetto?

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Per noi che siamo 100 per cento arabica, se troviamo un solo chicco è come se fosse presente un difetto grave. Quindi quando quel chicco passerà tra le due telecamere, automaticamente il chicco sarà scartato. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il cento per cento arabica è la qualità del caffè primo classificato unanimemente tra tutti gli assaggiatori. Siamo andati a provarlo anche noi. È un colombiano che ha una maturazione particolare.

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Le ciliegie vengono fatte maturare più a lungo rispetto agli altri caffè, fino a quando raggiungono il colore e le caratteristiche adeguate. Addirittura i coltivatori le controllano ogni due giorni per cogliere il momento migliore per la maturazione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che più ci brucia come italiani è lasciare lo scettro agli svizzeri di Nespresso. Chi esce invece ancora con le ossa rotte è il povero Bernardo: il caffè napoletano proprio non ce la fa. È una questione anche di mancanza di cultura del gusto. I produttori, anche per risparmiare, preferiscono la miscela con il caffè robusta, invece della più nobile arabica. Ma chi non ha il palato fine di Godina, come fa ad accorgersi se un caffè è arabica o robusta? Basta fare il caffè, lasciarlo riposare per 10 minuti, se è robusta all’inizio fa una bella cremina poi si sgonfia perché per lo più è schiuma. Mentre se è arabica la crema iniziale è minore, ma poi rimane e dovrebbe essere anche aromatica. Invece qui i sapori che sono stati ascoltati, sentiti, percepiti, sono quello di straccio bagnato, cicoria bollita e anche di gomma bruciata. “Ci avete costretto a un purgatorio” questo ha detto uno degli assaggiatori. Ma cosa c’è nel caffè? A Bernardo è venuto in mente di andarlo a verificare, per la prima volta. Ha scelto dei campioni di caffè, lo diciamo subito, tra quelli più diffusi e anche quelli meno diffusi, però a campione. Quello che ha trovato, lo diciamo, non è pericoloso, tuttavia è importante saperlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo prelevato tre campioni di caffè da capsule Nespresso, Lavazza e da una compostabile. Abbiamo usato la stessa acqua. Imbottigliati e sigillati, li abbiamo portati in laboratori diversi per la ricerca dei metalli. Da Gesteco, vicino Udine, ai laboratori Giusto di Oderzo e gli stessi campioni all’Arpa di Roma Lazio. Dai risultati abbiamo subito notato che l’acqua utilizzata contiene 73 microgrammi litro di bario.

BERNARDO IOVENE Quindi non abbiamo utilizzato un’acqua pura, noi?

ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Abbiamo utilizzato un’acqua che contiene bario. Molte acque contengono bario. Molte acque contengono bario, in concentrazioni significative. Sono 70 microgrammi per litro. Il bario è uno dei metalli che si accumula, quindi si accumula nell’organismo. È tossico 12 per alcuni animali, attualmente viene ancora adoperato come tossico per i topi. Quindi veleno per i topi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Perfetto. Il bario nell’acqua è il primo metallo che ritroveremo in tutti i caffè. Vediamo adesso se c’è presenza di altri metalli.

ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Abbiamo osservato che c’è presenza significativa di alcuni metalli: ferro, manganese, rame, zinco, e alluminio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I risultati dei tre laboratori sostanzialmente coincidono. Abbiamo però qualche sorpresa: avevamo usato una capsula compostabile non ancora in commercio e pensavamo di trovare zero metalli. Invece il bario è a 230 microgrammi, il valore più alto. L’alluminio 107 microgrammi litro, rispetto a 89 di Nespresso e 70 di Lavazza e ha il doppio del manganese e del rame. Seconda sorpresa: questi metalli non vengono né dalle capsule, né dalle macchine, perché l’acqua che abbiamo estratto senza il caffè è priva di metalli, c’è solo il bario originale.

LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Arriviamo alla conclusione che la presenza di metalli che poi ritroviamo nel caffè vero e proprio è data dal caffè che c’è all’interno della capsula.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E alla stessa conclusione sono arrivati anche all’Arpa di Roma.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Il caffè ha una concentrazione più o meno costante di questi metalli. Questi sono stati ritrovati in concentrazioni significative: quindi rilevabili…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi i metalli sono contenuti nel caffè. A questo punto abbiamo pensato di analizzare anche il caffè della moka, sia di alluminio che di acciaio. Ma prima anche qui abbiamo estratto l’acqua senza la polvere di caffè, e ci arriva la brutta sorpresa.

LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Per cui la moka in alluminio ha una cessione dell’alluminio. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La nostra moka ha rilasciato 346 microgrammi litro di alluminio, siamo al di sotto di un milligrammo/chilo. La soglia consigliata è 5: ma è una linea-guida europea, non è una norma.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Per l’alluminio la normativa non prevede delle prove di migrazione, ma soltanto una verifica della composizione del materiale alluminio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella moka d’acciaio invece c’è solo il bario dell’acqua. Non ci sono migrazioni di altri metalli. Ma attenzione. C’è acciaio e acciaio. Noi l’abbiamo fatta su questa caffettiera.

BERNARDO IOVENE 13 Se io consumatore voglio capire che è un acciaio che non rilascia…

GIULIO COLPANI - DIRETTORE TECNICO GIANNINI Noi lo marchiamo dicendo che è acciaio inox 18.10, praticamente implica una determinata classe di acciai che non hanno alcun problema nel contatto con gli alimenti, col caffè innanzitutto.

LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Poi vediamo l’acqua invece con la polvere di caffè e vediamo che l’alluminio aumenta, 811.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All’alluminio della moka si aggiunge quello del caffè e arriviamo a 811 microgrammi, dieci volte l’alluminio contenuto nel caffè delle capsule. Con la moka d’acciaio però scende a 312 ed è lo stesso caffè: anche il valore del piombo è più del doppio delle capsule e il rame è tre volte tanto. Il ferro arriva fino a 955, il manganese parte da 1161 della capsula Nespresso ai 1675 della Lavazza. Il nichel invece è presente nelle capsule, ma è assente nella moka.

ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Un po’ di preoccupazione c’è: abbiamo verificato che la coltivazione del caffè è sottoposta a uno stress particolare per avere prodotto in quantità elevate, quindi antiparassitari a tutta botta e concimi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La preoccupazione del professor Giusto è condivisa anche dalla direttrice dell’area ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini di Bologna, alla quale abbiamo inviato tutte le analisi dei vari laboratori. BERNARDO IOVENE Sono state mai fatte analisi sui caffè?

FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI Io credo proprio di no. Il primo sentimento che provo è quello di meraviglia, rimango abbastanza sorpresa dal fatto che ci siano dei livelli di questo genere nelle analisi che sono state fatte. Direi che questi sono quelli che mi preoccupano di più perché queste sostanze hanno degli effetti. Se vuole le faccio un esempio. Alluminio: un aumento di cancro nell’uomo della vescica e anche del polmone. Anche l’arsenico c’è presente, ma in piccolissime quantità. Quando eccede quei livelli, tumori della vescica, della pelle e dei polmoni. Il ferro a certe quantità…

BERNARDO IOVENE Fa bene. FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI È un beneficio. Se l’abbiamo in maniera esagerata può portare a un aumento di tumori del polmone. Il manganese è un agente neurotossico anche a basse dosi.

BERNARDO IOVENE Ad esempio?

FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI 14 Il Parkinson per esempio. Da tossicologo le dico, io se vedo dei livelli così alti di manganese, mi vengono subito in mente i carbammati perché noi abbiamo fatto uno studio sul Mancozeb che contiene appunto Man, come manganese, contiene il manganese e abbiamo visto un aumento di tumori della tiroide veramente esagerato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma, la presenza di metalli nel caffè – anche se in dosi minime – preoccupa i tossicologi, ma non è così per gli esperti dei produttori. Qui siamo da Lavazza.

 FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Consideri che i metalli sono dei naturali costituenti del caffè. E in questo senso peraltro contribuiscono assolutamente alla crescita delle piante.

BERNARDO IOVENE Lei li considera elementi nutrienti questi qua?

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Contribuiscono proprio alla crescita della pianta del caffè così come della maggior parte delle specie vegetali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sulla stessa linea si trova Nespresso.

BERNARDO IOVENE Lo sapevate già, immagino.

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Sì. Noi non siamo meravigliati, perché questi metalli si trovano in natura e nell’acqua e il caffè derivando da una pianta, sicuramente il suolo ne è una fonte. BERNARDO IOVENE Noi sappiamo che questi metalli si accumulano, no?

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Certo, ma guardi per ogni metallo abbiamo immaginato di consumare cinque tazze di caffè. Se io bevessi solo caffè Nespresso dovrei bere più di 2800 tazzine al giorno per raggiungere la dose tollerabile giornaliera.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo ribadiamo i quantitativi di metalli che abbiamo riscontrato sono abbondantemente sotto la soglia di rischio. Tuttavia vale un principio, un regolamento europeo: negli alimenti devono essere mantenuti quanto più bassi possibile. Solo per piombo, cadmio, mercurio e stagno sono fissati dei limiti. Mentre invece per l’alluminio, il manganese, ferro, zinco, nichel, l’Efsa, l'Agenzia per la Sicurezza Alimentare, fissa delle dosi di tolleranza. Però per la prima volta quello che sappiamo è che ci sono dei metalli dentro il caffè che è la seconda bevanda più diffusa dopo l’acqua. È importante saperlo per chi come me beve 6 -7 caffè ogni giorno. E poi c’è anche un fatto, che tutti gli studiosi a cui abbiamo portato le analisi, che hanno contribuito anche alle analisi, quelli dei laboratori indipendenti, quelli dell’Arpa Lazio-Roma che si sono appassionati nella ricerca e li ringraziamo, e anche la dottoressa Belpoggi, del prestigioso Istituto Ramazzini, si sono meravigliati e poi la Belpoggi anche un po’ preoccupata. Il nostro Bernardo Iovene che cosa ha fatto? Si è intestardito ed è andato a vedere anche che 15 cosa c’è nel caffè che facciamo con la moka, la vecchia moka. È andato a vedere anche quello biologico, anche qui i campioni sono stati scelti tra i caffè più diffusi, e anche qui le sorprese non sono mancate.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal caffè liquido a quello in polvere: in collaborazione con l’Arpa Lazio di Roma abbiamo analizzato una dozzina di caffè, dai più cari ai più economici, compresi alcuni biologici. Alla fine tiriamo le somme avendo un quadro generale.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Ci sono stati dei caffè che abbiamo analizzato che presentavano questa concentrazione che erano significativamente maggiori rispetto alla media analizzata. Ora ci dobbiamo chiedere da dove provengano questi metalli nel caffè.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio abbiamo confrontato due caffè della stessa marca: Lavazza qualità oro e Tierra biologico. Quello biologico ha una concentrazione inferiore di metalli: meno alluminio, meno manganese e zinco. BERNARDO IOVENE Da dove viene? Se nel biologico ce ne è la metà, vuol dire che nello standard… cioè non è contenuto nella pianta, ma che la pianta è trattata diversamente?

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA I numeri che stava leggendo prima sono numeri che hanno un’unità di misura assolutamente infinitesima rispetto a quelle che sono soglie significative.

BERNARDO IOVENE Però non mi ha spiegato come mai il biologico ha la metà dei metalli rispetto a quello standard.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Come dicevo prima, parliamo di ordini di grandezza assolutamente infinitesimi…

BERNARDO IOVENE Quello che non mi è chiaro… è che io trovo un dato: 7,1 milligrammi di alluminio. In quello biologico c’è 2,8. C’è una bella differenza.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Intanto l’importante è sempre l’unità di misura…

BERNARDO IOVENE Quindi vuol dire che questo alluminio non viene dalla terra.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA I valori sono comunque assolutamente inferiori alla soglia.

BERNARDO IOVENE E l’abbiamo detto già dieci volte questo. Quello che non abbiamo detto è da dove vengono, perché il manganese è probabile che possa venire da trattamenti di Mancozeb per esempio, no?

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA 16 Ribadisco il concetto che parlando di questi ordini di grandezza, la differenza che si può cogliere è una differenza che giudichiamo non significativa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra le decine di caffè che abbiamo analizzato c’è anche Illy. Abbiamo mostrato le analisi agli esperti dell’azienda.

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Vedendo questi dati di queste analisi Illy si posiziona o più basso degli altri, o in linea con gli altri. Il caffè contiene già il metallo di suo. Poi ci sono anche delle altre fonti esogene.

BERNARDO IOVENE Noi abbiamo trovato dei valori altissimi di alluminio o di manganese…

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY È molto probabile che sia fertilizzanti sia erbicidi possano contenere metalli, diciamo, ulteriori…

BERNARDO IOVENE Questo ci dice che se noi mettiamo fuori legge il Mancozeb, nel caffè non possiamo, non possiamo controllarlo perché viene da altre parti?

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per capirne di più siamo andati da una delle aziende simbolo del biologico. Alce Nero vende un caffè biologico prodotto in Perù e Nicaragua. Ma se confrontiamo le analisi dei metalli non sono differenti da Illy, che non è biologico. Anzi, ha un valore leggermente superiore di alluminio e di bario. I valori di ferro e manganese invece sono gli stessi.

BERNARDO IOVENE Il biologico Lavazza ha meno alluminio del vostro, però voi avete addirittura più alluminio dell’Illy che non è biologico. Voi avete mai fatto analisi di metalli?

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, noi le facciamo ma non per i metalli, perché i metalli normalmente non sono… andiamo a vedere i prodotti chimici e non i metalli che sono in natura nel terreno. Quindi qui, secondo me, la differenza la fa proprio dal tipo di terreno; ci sono terreni che sono ricchissimi di metalli perché ad esempio sono vulcanici.

BERNARDO IOVENE Il manganese potrebbe venire dal Mancozeb…

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Potrebbe. Poi rispetto alla certificazione “biologico”, la presenza di inquinanti, diciamo così, di chimica, non è sempre una discriminante.

BERNARDO IOVENE C’è un certificatore sul posto che dice: “Questo caffè è biologico”. No? MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO 17 Sì.

BERNARDO IOVENE Quando entra, entra come già biologico?

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, un certificatore non può mettere in discussione il lavoro di chi lo ha preceduto.

BERNARDO IOVENE Di un altro certificatore. Quindi è certificato là, quindi è biologico e basta, finisce là.

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono caffè che costano la metà o meno della metà. Ad esempio, nel Gimoka Tiago, la concentrazione di alluminio è di 142,9 milligrammi chilo. Se pensiamo che Illy ne ha solo 3,6 Lavazza 7, siamo a valori fino a 40 volte superiori. Gimoka Gran Gusto ha 96,8 milligrammi e così per il ferro, il caffè Tiago arriva a 191. Ci sono anche tracce di nichel, 1,6.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO In questi caffè dove avevamo riscontrato una presenza di metalli più alta, hanno poi anche una concentrazione di ocratossina più alta rispetto alla media.

BERNARDO IOVENE Proprio siamo al limite?

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Siamo in prossimità del limite e sotto il limite.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo stati anche a Padova, dal professor Carlo Foresta, direttore di Endocrinologia. Nel 2017 ha scoperto che nelle capsule del caffè si libera una sostanza chimica – lo ftalato – dannosa per il sistema riproduttivo dell’uomo. Attenzione: anche in questo caso siamo al di sotto della soglia consentita, che è lo 0,1.

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA L’Europa ha dato questo limite e quindi dobbiamo attenerci a questo. Io sono un po’ scettico su questa faccenda, perché a dire il vero son presenti in tante altre condizioni: nei rivestimenti alimentari, negli abiti, nelle sostanze di plastica, quindi gli ftalati sono in giro dappertutto. La sommatoria di tutte quante queste contaminazioni, potrebbe essere –stiamo attenti – essere superiore al limite consentito.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il professore, con il suo staff, ci spiega che lo ftalato è una sostanza chimica che si sviluppa nella filiera e si libera ad alte temperature.

BERNARDO IOVENE Quindi attraverso queste capsule.

LUCA DE TONI - RICERCATORE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA 18 Esattamente queste capsule, le abbiamo provate di diverse tipologie.

BERNARDO IOVENE Quindi avete analizzato il liquido?

LUCA DE TONI - RICERCATORE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Abbiamo analizzato il caffè, quello che poi alla fine noi beviamo. Vedete in questo campo, le celluline che vedete muoversi sono proprio gli spermatozoi. Sono tutta una serie di prove secondo le quali l’esposizione a questi interferenti endocrini inficia e quindi peggiora in modo estremamente rilevante le caratteristiche del liquido seminale dei pazienti.

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA La ricaduta è che ci sono – soprattutto negli uomini – un aumento del rischio di infertilità, di tumori del testicolo, di criptorchidismo, di ipospadia. Criptorchidismo è quando non scendono i testicoli, l’ipospadia determina un’alterazione della emissione delle urine.

BERNARDO IOVENE Lei beve il caffè?

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Io bevo il caffè sì, ma per fortuna però sono già nato e non ho più bisogno di far figli.

BERNARDO IOVENE Come lo beve il caffè?

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Purtroppo qui ho la capsula.

BERNARDO IOVENE E ma vabbè, allora…

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Eh, ma non lo diciamo. E che cosa faccio?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Simpatico il prof. Foresta. Ha scoperto che le cialde di plastica rilasciano degli ftalati, in dosi sotto la soglia di rischio, che lui stesso peraltro critica, tuttavia continua a berlo con il sorriso sulle labbra, con la consapevolezza. Cosa che vorremmo fare anche noi, ma in mancanza di etichette, continuiamo a farlo al buio. E anche se scegliamo un prodotto, un caffè bio, rischiamo di tirare giù più metalli di un caffè come quello Illy, che bio non è. Questo perché poi dobbiamo affidarci ai certificatori anche se vengono da paesi stranieri, i nostri certificatori non possono metter in dubbio la certificazione bio, dobbiamo fidarci. I controlli vengono fatti in dogana, su 600 milioni di chili di caffè che importiamo, in dogana controllano il 3%, a caso, a campione, solo il 3%. Insomma. Chiudiamo però con una buona notizia, arriva dal prof. Ghiselli, del centro ricerche del Crea, studia i rapporti tra la nutrizione e gli alimenti e secondo lui, bere dalle 2 alle 4 tazzine di caffè al giorno fa bene, aiuta a combattere delle malattie croniche, 19 cardiovascolari e il diabete, questo perché il caffè contiene degli antiossidanti e degli antinfiammatori naturali. Poi chiudiamo con un consiglio: per chi vuole fare il caffè con la moka scelga l’acciaio almeno vi lascia meno metalli e poi quando mette l’acqua, mi raccomando, sotto la valvoletta. Non fate come me, a me vengono delle ciofeche.

·        Cos’è un mondo senza la Mortadella?

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. «Non riesco a immaginare un mondo senza musica. Sarebbe come immaginare un mondo senza mortadella: impossibile!», sosteneva tempo fa Zucchero Fornaciari. Che in un una delle più note canzoni Cuba libre aveva precisato le sue priorità: «Mi piace la Bologna e poi mi piaci tu». Dal bel color rosa, profumata, vellutata in bocca e con un sapore chiaro, la lussuriosa mortadella è del resto uno dei simboli irrinunciabili del mangiare italiano. Sicuramente romane con buona pace dei bolognesi - sono le sue origini quando era aromatizzata al mirto. Il nome deriva infatti da myrtatum oppure mortarium, il mortaio per schiacciare la carne di maiale. Poi Boccaccio nel Decameron citò il mortadello. Ma è Bologna che vanta il primo disciplinare di produzione. Era il 24 ottobre 1661 quando il cardinal Farnese emanò il Bando e provisione sopra la fabbrica delle Mortadelle e salami. La ricorrenza verrà celebrata giovedì dal Consorzio dei produttori con l'inaugurazione di un'ala del Museo della Storia di Bologna interamente dedicata al salume e degustazioni a Fico. A Roma la mortazza si gusta con la rosetta o la pizza bianca. È il salume più amato, popolare e a buon mercato, come nel resto d'Italia: in Sicilia si dice che «a' mortadella costa picca e sape bella», costa poco ed è buona. Eppure un tempo era un prodotto riservato all'élite di buongustai ricchi che potevano permettersi un prezzo superiore a quello del prosciutto, dovuto al valore della materia prima e ai più alti costi di produzione e del lavoro degli artigiani specializzati. Oggi come ieri è fatta di carne suina: la parte rosa - quella più magra è la muscolatura striata, prevalentemente dalla spalla; per i lardelli dal colore bianco si utilizza il grasso di gola, cioè la parte più pregiata dell'animale. «In cucina è un sapore protagonista», sostiene Luca Marchini, stella Michelin a Modena, presidente di JRE, i giovani ristoratori europei. «Questo orgoglio gastronomico tutto italiano dice Marchini - è tra gli insaccati più utilizzati, magari per insaporire altri impasti, gustato con del semplice pane o servito come amuse bouche, che ad esempio io propongo in crema in una pomme soufflé». Però, come per ogni prodotto, la mortadella necessita di rigorosa qualità. «Quindi aggiunge Marchini va scelta senza conservanti, avvolta in budello naturale, da maiali allevati su suolo italiano con foraggi naturali». Lo chef modenese indica anche i criteri per valutarla: «Nei gusti e profumi più pregiati si ritrova un lievissimo tono d'aglio. L'impasto è consistente al morso, ma scioglievole una volta in bocca. Anche il colore è un ottimo indicatore di qualità. La mortadella è rosa, certo, ma quella da scegliere ha un tono poco acceso. La parte olfattiva è essenziale, come la sua facile digeribilità». La bontà dipende moltissimo dai lenti tempi di cottura e dalla qualità delle spezie usate. Tra le produzioni industriali le migliori stando alla guida salumi del Gambero Rosso sono Ibis (Parma), Lem Carni (Bologna), Villani (Modena). Tra le artigianali la Bidinelli (Reggio Emilia). Ma ci sono anche le varianti del resto d'Italia. Spesso sembrano salami, come quella di Camaiore (con lombo, prosciutto, coppa, spalla e pancetta) e Prato (più carica di spezie). In Abruzzo a Campotosto la concia di aromi è segreta e nell'impasto è inserito un lardello lungo una decina di centimetri. Davvero caratteristica. Come il nome (per la sua forma): coglioni di mulo.

·        La Storia è un cocktail.

La Storia è un cocktail e non sbaglia miscela. Dal punch importato in Inghilterra dall'India al Proibizionismo. Filologia ad alta gradazione. Marco Zucchetti, Domenica 24/11/2019 su Il Giornale. La storia è un bar affollato, tenete sempre gli occhi sul barista. Soprattutto se oltre ad essere uno dei più influenti bartender del mondo, «padre» del Cocktail Renaissance dei primi Duemila, il barista in questione è anche un bibliofilo accanito, un maniaco della ricerca filologica e un folle in grado di snocciolarvi l'etimologia araba della parola alcol (da «colorare», dato che indicava un cosmetico tipo ombretto) o di citare Mies Van der Rohe parlando di quel moderno altare che è il bancone. Su quell'altare Jim Meehan, fondatore del locale mito newyorchese PDT, è sommo sacerdote e scriba. E in tale veste, dopo diversi libri di ricette di drink, ha deciso di stendere un suo vangelo, Il manuale di Jim Meehan (Readrink, pagg. 471, eruo 37). Ora, se Hemingway aveva ragione e c'è più filosofia in una bottiglia di vino che in tutti i libri del mondo, probabilmente in queste pagine si trovano distillate tutte le altre materie scolastiche. Perché al netto del titolo poco accattivante e del generale snobismo con cui ci si avvicina di solito ai baristi con aspirazioni letterarie, questo libro è come la drink list di un grande locale: ciascuno ci trova la chicca che cerca. La storia della miscelazione, la tecnica e la geografia che hanno influenzato l'evoluzione delle ricette, la logica cartesiana che sta dietro ai singoli cocktail. Dove «come nel jazz, tutto è sincretismo e improvvisazione», ma mai a casaccio. È questa erudizione la parte più rivoluzionaria e affascinante del libro. Chi lavora nel settore manderà a memoria i capitoli (iper-tecnici) sull'organizzazione della bottigliera, il design delle sale o la formazione del personale. Tutti gli altri naufragheranno dolcemente in una miriade di curiosità e osservazioni, frutto di una cultura mostruosa formatasi sui «classici» della storia della mixology, che Meehan comprava da giovane spendendo ogni dollaro di paga: dal The Bar-tenders guide di Jerry Thomas del 1862 al Savoy cocktail book di Harry Craddock (1930), fino a The fine art of mixing drink di David Embury. Rapito dal fluire del tempo, che gocciola inesorabile come birra da una spina guasta, Meehan riflette su quanto lo Zeitgeist sia ingrediente base di ogni drink. Su come «il terroir culturale conti più di quello geografico»: la rilassatezza caraibica più della frutta crea la miscelazione tiki, mentre - come ben sintetizza nell'introduzione Alex Frezza - «a noi europei ci ha sempre fottuto il romanticismo, al bar». Partendo da qui, e conscio del fatto che «collezionare ricette è come far salire gli animali sull'Arca», Meehan compila un compendio enciclopedico in piccoli sorsi, con un solo obiettivo: passare la torcia di mixologist illuminato alla generazione successiva, perché «la storia dei bar è basata sulla tradizione orale, diffusa nella nebbia di una notte passata a bere. E leggere libri antichi mi ha spinto a capire che il valore del nostro lavoro potrebbe perdersi se non lo conserviamo». D'altronde «miscelare è raccontare una storia», dunque perché non accoccolarsi ad ascoltarla, tramandandola? Storie minuscole, come quella del Moscow Mule, il drink a base di vodka, ginger beer e lime servito in tazze di rame: inventato nel '46 agli albori della Guerra Fredda per smaltire vodka che nessuno voleva e sfruttando l'eredità ricevuta da una manifattura di rame. O come quella del Vesper di James Bond, l'immortale variante del Martini descritto da Ian Fleming in Casino Royale. Ma anche Storia maiuscola, la grande mano che shakera esperienze e suggestioni. Dei vini aromatizzati di greci e romani, dei monaci italiani e francesi che distillavano erbe medicamentose e degli olandesi che crearono il gin non per diletto ma per spirito mercantile, ormai si sa. Ma ogni tendenza, ogni scelta di liquore contiene un mondo. Il primo cocktail (a proposito, la parola compare sulla stampa inglese nel 1806 ma dalla coda di gallo all'aqua decocta latina, l'etimologia è incerta) fu il punch, introdotto nel XVII secolo dall'India, dove un'acquavite di palma era mescolata ad agrumi, zucchero e spezie. Patriottico e imperiale perché ogni ingrediente proveniva dalle colonie, salubre perché si conservava più di birra e vino, collettivo perché servito da bowl con un mestolo. Almeno fino a quando James Ashley cominciò a offrirlo in porzioni singole: a ognuno il suo. Era nato il drink moderno. L'idea del bere era stata rivoluzionata. Esattamente come accadde poi con Frederic Tudor, che brevettando una macchina per trasportare il ghiaccio diede il via negli Usa ai julep. E a tutto il resto. Pian piano in filigrana compare il disegno di Meehan. Ricopiare pedissequamente le ricette per quanto originali e accurate -, come i bartender in pensione che se le rivendevano, non basta. Cosa significa la misura «un bicchiere di vino»? Di cosa sapeva lo champagne a San Francisco nel 1930, com'era stato conservato? Nell'epoca superficiale di Google, la conoscenza fa la differenza. Anche al bar. Ci sono dinamiche da comprendere e miti da abbattere. Per esempio l'esausto cliché degli speakeasy, i bar clandestini durante il Proibizionismo. Oggi sono di moda, ma ai tempi servivano schifezze letali e fecero fuggire in Europa i bartender, stanchi di cocktail «svuota-dispensa» come il Corn Popper, in cui sciroppi, panna, soda, latte e qualsiasi altra cosa venivano usati per coprire il sapore di distillati tremendi, che spesso rendevano ciechi. Perché l'approvvigionamento degli ingredienti e le contingenze hanno sempre plasmato il gusto più delle mode. La miscelazione esplose nel XIX secolo negli Usa per diversi fattori: gli immigrati europei che portavano i loro prodotti, 40 anni di esenzione fiscale sugli alcolici e la legge che dava licenza di somministrazione anche senza affittare camere a ristoranti e taverne, sostenuti da partiti che offrivano drink in cambio di voti. Allo stesso modo, durante la Seconda Guerra Mondiale, con il blocco dell'importazione di Scotch, gli States furono invasi dal rum (il Cuba Libre comparve per la prima volta nel 1946). I cocktail sono creature sensibili, «percepiscono» il clima. Non è un caso se durante la guerra del Vietnam la scena andò degenerando, con i drink sostituiti dalle droghe. Non è un caso se a fine Settanta la Discomusic portò con sé gli shot bevuti d'un fiato, se l'edonismo degli Ottanta partorì i cigar bar, la riscoperta dei cocktail classici e dei distillati invecchiati e il Cosmopolitan di Toby Cecchini, se dopo l'11 Settembre la lezione di Sacha Petraske l'uomo considerato inventore della moderna cultura del cocktail di qualità prese piede. E così, immaginando un fresco Pimm's Cup bevuto sugli spalti di Wimbledon e studiando la chimica guardando l'acqua che precipita gli oli essenziali nel bicchiere, ci si perde fra le pagine fra racconti di spezie e soldati salvati dalla china antimalarica, fra il sindaco di Digione che offriva il Kir ai suoi ospiti e il Bloody Mary figlio del progresso e dei succhi di pomodoro industriali. E si capisce che «la storia è un archivio, non una messinscena da riesumare come i baffi a manubrio di certi bartender vestiti come in Boardwalk Empire». Siamo quello che beviamo, beviamo quello che siamo stati.

·        Il vino è passione.

Dagospia il 21 novembre 2019. Estratto del libro “Il metodo Easywine”, editore Pendragon Bologna, di Cristiana Lauro. Vi piace il vino? Ottima scelta. Basta non scambiare un prodotto alcolico per una vitamina o un ricostituente. È soprattutto questo il senso del consumo consapevole. Siamo fra più importanti e migliori produttori di vino al mondo. Ricordatelo e andatene fieri perché il vino concorre parecchio a tenere alta la nostra bandiera. Saper descrivere le caratteristiche di un vino o trovare il suo felice abbinamento a un piatto, è un esercizio florido per il nostro ego che può risolvere molte serate senza troppo impegno sui libri a studiare. Però il vino, dal punto di vista della degustazione, non è una scienza esatta ed è per questo che tutti possiamo parlare di vino. Il fatto che uno di noi apra bocca o scriva la sua roteando un calice, non indica assolutamente che abbia ragione o torto. A bottiglia aperta e col bicchiere in mano chiunque parli di quel vino trascurando la storia produttiva che lo ha preceduto, esercita prevalentemente il suo ascendente, la sua capacità di persuasione. E condiziona, inoltre, il pubblico che lo ascolta. Soggezioni, insicurezze e cerimoniali inclusi. La percezione del bicchiere di vino non è una scienza esatta ed è molto sensibile al contesto. Ma va educata, condotta. Quindi non abbiate paura perché tutti potete imparare a parlare di vino.  I sentori “olfattivo” e “gustativo” di quel momento e in quel contesto, sono soggettivi e fugaci. Sarebbe meglio accompagnarli fuori scena con un applauso come la maggior parte delle opinioni del primo che capita. Non esiste una verità nel bicchiere perché il vino e la sua interpretazione non hanno molto senso. Insomma dipende dalla storia di quel vino, da chi lo ha prodotto ed è per questo che la passione per il vino dovrebbe condurvi in giro a conoscere i produttori e chi lavora in cantina e nelle campagne. Ecco un’antologia di alcune boiate sul vino che ho condiviso in giro per l’Italia con professionisti del mondo del vino e del servizio di sala.

 - A tavola. Un tipo annusa il calice di vino e prima ancora di assaggiarne un sorso spara la sua: “sentite che tannini!” (I tannini all’olfatto non si percepiscono. E’ bene che si sappia).

- In enoteca, fra scaffali pieni di ottimi vini: “ stiamo cercando delle bottiglie di Insolaia provate qualche sera fa a casa di amici. (Curioso mix fra un vitigno bianco siciliano di nome Insolia e una nota etichetta di rosso "toscano" che si chiama Solaia).

- Avete un Brunello bianco? Ricordo di averlo bevuto e mi piacque parecchio. (più che altro avevi alzato il gomito quella sera, perché il Brunello di Montalcino bianco non esiste).

- Il tipo che si fa aprire un buon Barbaresco: “ scusi ma perché è rosso? Io ne ho bevuto uno bianco” (Forse su Marte).

- “A noi piacciono i vini bianchi molto secchi non fruttati, per esempio il nostro preferito è il Sauvignon Blanc"....(urca, ma quindi avete preso fischi per fiaschi fratelli: il Sauvignon Blanc è aromatico e fruttato per precetto).

- Il top sono comunque i giapponesi: “Barolo di Montalcino o Brunello di Montepulciano”. (Molto difficile accontentarli).

- Posso avere un vino senza soffitti? (Si chiamano solfiti, perdio).

- un cliente italiano ordina Dom Perignon di annata 2006 ma si lamenta perché non è lo stesso dell’anno prima che era il 2004. ( povero cuore, si è perso nel frattempo anche la 2005 che era diversa dalla 2004 e dalla 2006).

- il saputello:” il Gewürztraminer rosso che fa questa azienda è il più buono della storia. (Il Gewürztraminer è notoriamente un ottimo vitigno aromatico bianco che sarebbe bene smettere di chiamare con buffe e frequenti storpiature come Straminer Ghevizztraminer o Giustraminer.

- Al ristorante la signora appassionata di yoga chiede un vino senza solfiti perché i solfiti le chiudono i chakra.

- E per finire quella che fa cascare le braccia: “ci dia un Prosecco, però quello francese” (No comment).

Tratto da Il Metodo Easywine di Cristiana Lauro. Capitolo 8. Alcune cose che devi assolutamente sapere sul vino.

– In natura i vigneti, come li vediamo in mezzo alle campagne, non esisterebbero. La vite infatti è una liana, come quelle che usava Tarzan per spostarsi nella giungla. È una pianta rampicante che l’azione dell’uomo costringe in filari. Quindi i vigneti adatti alla produzione di uva da vino o da tavola sono una sorta di bonsai.

– La vinificazione avviene per mano dell’uomo e interrompe, di fatto, il processo naturale dell’uva. Quindi l’uva non diventa vino se non per mezzo della tecnica applicata attraverso la tecnologia.

– Va bene il vino rosso sul pesce? Dipende, può starci. Ad esempio, se il piatto contiene pomodoro e a patto che il vino rosso sia giovane, semplice e leggero.

– È corretto abbinare un vino spumante secco con un dolce? Meglio di no, ma così fan tutti.

– Caraffare un vino, o “decantarlo” come si dice in gergo tecnico, vuol dire eliminare eventuali sedimenti e farlo ossigenare dopo un lungo periodo di permanenza in bottiglia. È una pratica dedicata a vini rossi e di una certa età. Caraffare un vino giovane è solo ridicolo e non serve a nulla.

– La parola sommelier non è semplicemente sinonimo di “esperto di vino”, ma vuol dire in francese “mescitore” o “coppiere”. Era ed è usata nel mondo per indicare chi al ristorante consiglia e serve il vino ai clienti ed è un titolo professionale preciso.

– Una delle leggende metropolitane enologiche è quella secondo cui mischiare vini diversi farebbe male. L’unica controindicazione sta nel fatto che cambiando vino si tende a bere di più, ma di per sé bere vini diversi durante un pasto non fa assolutamente venire mal di testa. State piuttosto attenti a non alzare il gomito.

– I solfiti contenuti nel vino non sono certo una panacea, però in quantitativi limitati servono come disinfettanti e antibatterici. Evitano fenomeni come lo spunto (sentore di aceto) e l’ossidazione, nonché la formazione di sostanze che farebbero male alla salute.

– Vini minerali. Per definire un vino ricco di acidità e di aromi diversi da quelli della frutta, molti usano il termine “minerale”. In realtà si tratta di un uso traslato, perché di minerale nel vino non c’è nulla. Le sostanze contenute nel vino appartengono al mondo della chimica organica e nessun minerale (che non è organico) si scioglie nella saliva. Perdipiù, non ha sapore e non è volatile, quindi non ha odore.

 – Non tutti i vini invecchiano bene, dunque affermare che il vino vecchio sia il migliore è quasi sempre sbagliato. Ricordate che un vino cattivo non diventerà mai buono con l’invecchiamento, ma è vero che i vini migliori possono invecchiare bene.

– Conservare il vino in casa non è semplice. Le bottiglie devono essere coricate e tenute possibilmente al buio e lontano da fonti di calore come i termosifoni e le cucine.

– Aspettate sempre una decina di minuti prima di bere qualsiasi vino appena aperto perché diventa più buono. Ha dormito per parecchio tempo, lasciatelo risvegliare con calma.

Vincenzo Chierchia per ilsole24ore.com il 30 ottobre 2019. Conoscere il vino significa conoscere la storia, i territori, la botanica, la geologia, l'evoluzione del gusto e dei costumi. «La convivialità è il fattore chiave dell'esperienza enologica, la degustazione è un momento magico» amano ripetere celebri chef de caves come Hervé Deschamps (Perrier Jouët) o Vincent Chaperon (Dom Pérignon). Degustazione, convivialità, esperienza e cultura sono gli elementi richiamati da Cristiana Lauro nel suo agile libro sul vino, edito da Pendragon.

Il metodo easywine. Di solito chi si accosta all'esperienza enologica si trova davanti guide che pesano chili visto che le etichette, solo in Italia, sono migliaia. Districarsi non è facile. Il volume della Lauro mantiene le promesse: «Il metodo easywine-Impara il vino in poche mosse». In effetti, in poco più di cento pagine si acquisiscono le nozioni base con un racconto piacevole e diretto, che coinvolge il lettore come un'appassionante novella. Gli elementi importanti ci sono tutti, a partire dal richiamo a bere in maniera responsabile, soprattutto valorizzando il rapporto con il cibo. Il libro accoglie i contributi di Daniele Cernilli (il Dizionario dei vini e le Parole del vino) anche in relazione agli accoppiamenti con il cibo. Così, con una piacevole lettura, ci si può accostare ad un mondo complesso, ricco di sfumature e molto vasto. L'esperienza del vino oscilla tra degustazione e narrazione. Ma soprattutto servono gli elementi base per poter scegliere e condividere questa esperienza: il metodo easywine aiuta a comprendere, per esempio, cosa vogliamo, cosa stiamo acquistando e perché.

Gli abbinamenti tra vino e cibo. Così potremo scambiare opinioni e racconti nel momento in cui condividiamo l'esperienza di un buon vino (e di un buon cibo). Il rapporto vino-cibo è complesso. Lo chef Gualtiero Marchesi, principe della cucina italiana moderna, arrivò a dire che con i suoi piatti avrebbe servito solo acqua. Una provocazione che fa riflettere sul senso delle esperienze del gusto e dell'olfatto. La Lauro sgombra subito il campo da falsi miti e luoghi comuni e fornisce gli elementi essenziali per approcciare sia momenti quotidiani sia occasioni importanti in maniera agile e consapevole. Che piatti metteremo in tavola e con quali bottiglie? Le risposte semplici e dirette ci sono, così come c'è una descrizione, con simpatica ironia, dei personaggi che si incontrano nel mondo del vino. Per imparare a conoscere gli interlocutori, e a prendere le dovute distanze se serve, avendo appreso il metodo per amare il vino con intelligenza consapevole.

Da identitagolose.it il 23 ottobre 2019. Aprire una carta dei vini ricca nell’assortimento e non sapere cosa scegliere, un grande classico. Come superare l’impasse? Acquistando “ "Il Metodo Easywine. Impara il vino in poche mosse"”, il nuovo libro di Cristiana Lauro che detta poche mosse per degustare e acquistare le migliori bottiglie oppure abbinare quel vino a quel tal piatto. Figurone assicurato. Ogni capitolo consente di arricchire, in modo semplice, le vostre conoscenze in materia, senza farvi perdere di vista la terminologia del vino. Capitolo dopo capitolo, riuscirete a comprendere un’etichetta, la vera carta d’identità della bottiglia e saper distinguere un vitigno da un vigneto. Un esempio pratico: non esiste il vitigno Prosecco (mai dire “spumante da uve Prosecco”) perché l’uva dell'ubiqua bollicina, prodotta in Veneto e in Friuli, si chiama Glera. L’autrice, origini bolognesi ma romana d’adozione, si definisce ironicamente «assaggiatrice seriale» avendo avuto un maestro preparatissimo, Daniele Cernilli. Ha collaborato con lui per molti anni, per la Guida ai Vini d’Italia del Gambero Rosso mentre da qualche anno cura una rubrica su Dagospia. Lo stesso Cernilli ha integrato alcune parti più tecniche del libro e, per la felicità dell’autrice, ha supervisionato e approvato il suo metodo. «Il vino può essere un’esperienza appagante, un flacone di territorio, un modo per condividere esperienze e sensazioni, ma solo se affrontato con intelligenza», è scritto giustamente nella prefazione del testo. Lauro è stata coraggiosa a scriverne con schematicità e semplicità, sintetizzando in due pagine i metodi di spumantizzazione che, normalmente, vengono descritti in capitoli infiniti e spesso con tecnicismi indecifrabili a molti del settore. La scintilla è stato “Elogio dell’invecchiamento”: «Il testo di Andrea Scanzi», ci spiega l’autrice, «mi ha convinto che dovevo avvicinare la gente all’argomento in maniera rispettosa, ma sdrammatizzando al tempo stesso una materia complessa. Il vino non va spiegato ma raccontato. Questo testo è indirizzato a un pubblico digiuno di materia enologica. È un metodo che colma l’ignoranza in materia. Mi piacerebbe che il lettore si incuriosisse a conoscere produttori, cantine, aree vinicole del nostro bel Paese, per condividere in primis un buon calice di vino. Tutti possono diventare bravi degustatori attraverso l’esperienza e la curiosità». Per Cristiana la missione è culturale e il linguaggio immediato, a tratti irriverente. Il volume spiega le differenze tra biologico, biodinamico e vegano; illustra le regole fondamentali per assaggiare un vino o servirlo alla giusta temperatura e nel calice più adatto. Ci ha colpito la sezione relativa all’abbinamento cibo/vino: zero tecnicismi, utilizzo dell’arte della concordanza di colori: un piatto di contenuti a prevalenza rossi chiama un vino dello stesso colore. Se invece state mangiando una bella sogliola o un branzino al sale, puntate su un bianco leggero. E su un rosato in presenza di gamberi. Facile, no? C’è anche un capitolo dedicato agli “enomostri”: «Sono quelli», ci spiega, «che si autodefiniscono ‘esperti di vino’ ma poi si trasformano in creature abominevoli. Chi usa l’olfatto come elemento distintivo per raccontare noiose sensazioni o chi esalta la polvere, notoriamente inodore! Poi c’è l’acidista, l’amanuense, il bio-talebano, ossia il vero fanatico dei vini biologici. E la gatta morta, di solito molto forte sui social e pur avendo un bel diploma da sommelier e corteggiatori discutibili, in verità fuori dall’ambiente non è che si distingua poi tanto. Un altro enomostro è il millantatore che consuma il suo tempo tra una degustazione e l’altra, cercando prevalentemente di farsi notare». Un’ultima riflessione intelligente che abbiamo letto nel libro: Italia e Francia producono in media 40-50 milioni di ettolitri di vino all’anno. Ma la cantina più grande del mondo è in California con una produzione annua di più di un miliardo di bottiglie…

Stefania Cigarini per leggo.it il 16 ottobre 2019. Diritti al piacere del vino, senza perdere tempo in tecnicismi e birignao. Lo dice anche il sottotitolo del manuale breve Il metodo easywine: impara il vino in poche mosse. Lo conferma l’autrice, Cristiana Lauro:  «Perché secondo me il vino va raccontato e non insegnato. Io ho imparato le basi leggendo dispense che parlavano un linguaggio semplicissimo. Poi ho fatto i corsi, ho avuto un maestro come Daniele Cernilli, ma le basi sono state quelle, semplici»

Una esigenza pop.

«Dica pure nazional popolare, non mi offendo. Lavorando nel mondo del vino, promuovendo incontri internazionali, sentivo l’esigenza di parlare a più persone possibili attraverso un linguaggio replicabile da tutti».

Ce l’ha con i super esperti che se la tirano?

«Gli enofighetti, enopazzoidi, enomostri, come li chiamo io? Sì (ride)».

Consigli veloci.

«Abbinare il vino al colore dominante del cibo: Fiorentina? Chianti; caciucco?, rosé; carpaccio di pesce?, bianco. E dove sia possibile, abbinare sempre un vino locale».

Quanto conta essere bolognese nel suo mestiere?

«È fondamentale, siamo gaudenti di natura. La mia cultura del vino è iniziata in giro per osterie. Per lavoro frequento chef stellati, ma sono una che a casa fa le tagliatelle al ragù, innaffiate da un buon Sangiovese di Romagna».

Dei tortellini dell’accoglienza ripieni di pollo del vescovo di Bologna?

«Polemica inutile, i grandi chef reinterpretano qualsiasi cosa. Per me, inclusivo o popolare, va bene tutto, purché si mangi bene. Se non fosse stato il vescovo di Bologna nessuno ne avrebbe parlato. Tra parentesi, noi storpiamo tutte le cucine etniche, pensate di mangiare davvero "cinese" in Italia? Per non parlare della deroga della cotoletta alla milanese, che andrebbe cotta nel burro, ma siccome il burro "fa male", viene cotta nell'olio. Interpretare è indice di libertà».

C’è chi ha detto che vino e cibo sono la nuova religione in un mondo senza valori.

«Ecco sì, dovremmo sempre ricordarci che stiamo parlando di pane, salame, vino. Più valori e meno foodporn. Un piatto di alta cucina non è religione, nemmeno un borgogna o un riesling, vini di cui tutti ora si riempiono la bocca».

Però esistono i veri esperti.

«Certo, ma sono l'uno per cento di chi beve vino, aggiungendo chi ne capisce un po' di più siamo al due per cento della popolazione che beve. Questo libro è scritto per avvicinare con criterio al mondo del vino, per scegliere  la bottiglia giusta sullo scaffale del supermercato, perché ormai anche i supermercati hanno ottimi vini. Poi, se ti prende la passione, fai tutti i corsi che vuoi».

Lei tiene una rubrica sul sito Dagospia.

«Roberto D'Agostino aveva scritto la prefazione al mio primo manuale, Delirium tremens, appunti di una wine killer, aveva apprezzato il mio linguaggio, semplice, diretto, schietto. Il suo è uno dei siti più letti in Italia, e mi lascia totale libertà. I titoli dei miei pezzi sono suoi, è un genio in questo».

Estratto del libro di Cristiana Lauro “Il metodo Easywine” (Pendragon) per Dagospia il 3 ottobre 2019. Perché abbiamo paura di scegliere il vino? Come mai cerchiamo mille vie di fuga pur di non assumerci la responsabilità di decidere per l’intero tavolo? Succede al ristorante, in trattoria, a casa di amici e via dicendo. Un po’ meno quando invitiamo a casa nostra perché fare la spesa e cucinare per tutti è un impegno riconosciuto che ci assolve da molti peccati. Il vino buono oggi ha un costo non indifferente che incide sul prezzo della cena e nessuno di noi ha la fabbrica dei soldi, quindi scegliere quella bottiglia è una responsabilità nei confronti dell’intero tavolo. Questa potrebbe essere la prima causa di dubbi, incertezze e fugoni. Oggi però si possono comprare prodotti interessanti a prezzi umani e - mi spingo oltre - si può bere molto bene anche a buon mercato. Negli scaffali delle enoteche e dei supermercati si trovano un sacco di vini veramente buoni a prezzi ragionevoli e, credetemi, i soldi spesi per quella bottiglia si riveleranno un ottimo investimento per il vostro benessere. È anche questo il senso di “bere responsabilmente”. L’altro motivo che può indurre i comportamenti curiosi che ho descritto sopra è che negli ultimi anni si è cercato di creare intorno al vino una specie di aura intellettuale che lo ha raccontato come qualcosa di nobile, complesso e colto al punto da sembrare inafferrabile. Ma il vino non è ricco, non è complesso e non è un totem. Il nostro Paese è fra i migliori e più importanti produttori di vino al mondo. Impariamo quindi a conoscerlo, questo vino, a berlo senza esagerare (perché contiene alcol che non è una vitamina o un ricostituente) e a parlarne con disinvoltura, leggerezza e il giusto rispetto. Non è difficile e ne vale la pena. Ma non fermatevi a questo piccolo saggio, andate con le vostre famiglie o con gli amici in giro a visitare le cantine e a vedere la produzione del vino italiano da Nord a Sud e sulle isole. Parlate coi cantinieri e gli enologi, con gli agronomi e i contadini che vivono la campagna, i climi e le regole della natura che non sono mai scritte. Rimarrete stupiti dall’intima bellezza di tante diversità e imparerete un sacco di cose interessanti senza stare per ore con la schiena piegata sui libri. Il mondo del vino è pieno di persone che hanno storie curiose e divertenti da raccontare. Andate a conoscerle, sono certa che la vostra anima non mancherà di ringraziarvi. Questo non è un vero e proprio libro ma una specie di quaderno che nasce dalla mia idea sedimentata, calcificata, quasi fossile direi, che il vino vada raccontato e non insegnato, bevuto e non santificato, condiviso e mai tracannato in solitario. E, comunque sia, non dobbiamo aver paura di parlarne. A nessuno piace sentirsi dire che è ignorante, quindi avvicinatevi e imparate il vino e i suoi abbinamenti in poche mosse. Se poi ci prendete gusto, esistono interi scaffali di biblioteche che i grandi maestri - quelli bravi per davvero -hanno scritto per noi. Oppure potete scegliere di approfondire l’argomento attraverso i corsi ufficiali di formazione per i sommelier. Il vino è passione. La passione sia con voi!

(Tratto dal libro di Cristiana Lauro “Il metodo Easywine”, Pendragon, ottobre 2019, per gentile concessione dell’editore).

·        La storia degli Spaghetti.

Marino Niola per “Robinson - la Repubblica” il 4 ottobre 2019. Gli spaghetti al pomodoro sono il piatto simbolo dell' italianità in cucina, un autentico monumento della gastronomia patria. Ma l' irresistibile ascesa che ne ha fatto il cibo più celebre al mondo, insieme alla pizza, è stata lunga. E Massimo Montanari, storico dell' alimentazione, la ricostruisce in Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro ( Laterza), che aiuta a capire come sono nati pasta e sugo di pomodoro. Per un po' i due ingredienti hanno camminato per conto proprio, anche perché il rosso tomate è arrivato in Europa con gli spagnoli dopo la scoperta dell' America. E la pasta ha percorso un cammino ramificato come un fiume ricco di affluenti. Che solo alla fine confluiscono e prendono lo stesso nome. Lo dicono le parole stesse che costituiscono la preistoria di spaghetti, rigatoni e tagliatelle. Dal risnatu mesopotamico, alla rishta persiana, alla lagana latina, antenata di lasagne e pappardelle. Ma sono paste fresche, lontane dalla nostra idea di maccheronità. A fare il passo decisivo sono gli arabi che, tra il IX e l' XI secolo, combinano il grano duro e l' essicazione dell' impasto, dando vita alla cosiddetta itriyya, da cui la parola tria, che in molte parti d' Italia, come Salento e Liguria, ancora identifica certi formati. Così quando le armate del Profeta occupano la Sicilia, l' isola diventa la capitale della pasta secca. Prodotta industrialmente ed esportata in tutto il Mediterraneo. I primi mangiamaccheroni sono dunque i siciliani. Poi la produzione si sviluppa in altre località costiere ( Sardegna, Pisa, Genova e Napoli). L' universo della pasta diventa via via più ricco. Dando vita a tecniche come il ferretto o la canna per essiccarla meglio. Nel '400 compare la parola " spagho". Un assist per gli spaghetti, che faranno gol secoli dopo. Un nuovo step verso il successo è l' incontro con il formaggio. Che ha letteralmente l' effetto del cacio sui maccheroni. All' inizio raccomandato dai medici, in quanto asciuga l' umido colloso della pasta, che viene stracotta. In seguito, però, pecorino, provolone e parmigiano diventano il tocco gourmet. È proprio grazie a vermicelli e fedelini che in Italia la forchetta si diffonde prima che in altri paesi europei. Ma la pagina decisiva è scritta con l' inchiostro rosso pomodoro. Alla base della cosiddetta " salsa spagnola", entrata nel '600 a far parte del repertorio di celebri cuochi come Antonio Latini, chef della corte vicereale di Napoli. Lentamente l' epicentro della cultura pastaia si sposta all' ombra del Vesuvio, facendo di Torre Annunziata e Gragnano le università dei maccaronari. Grazie anche alle innovazioni tecniche come il torchio, che trafila l' impasto, facendo risparmiare tempo e denaro. E grazie all' incontro con la pummarola che, conquista sia il favore dei gastronomi che dei medici, convinti delle sue proprietà digestive. Così una pioggia benefica di San Marzano cade sugli spaghetti rivoluzionando la nostra cucina. Ad assegnare ai partenopei il copyright del piatto simbolo del Belpaese è un ricettario anonimo del 1807, siglato M. F. e intitolato La cucina casereccia. Dove compare la ricetta dei "maccheroni alla napoletana", cotti al dente, altra innovazione vesuviana, spruzzati di caciocavallo grattugiato e irrorati di un denso ragù di carne. Mentre nei vicoli il popolo deve accontentarsi di un sugo low cost, a base di passata soffritta nel lardo. A riprova del fatto che la dieta mediterranea non ha tabù ma solo virtù. Il resto lo fa il gastronomo partenopeo Ippolito Cavalcanti nel 1837, quando raccomanda di profumare il sugo con abbondante basilico, che arriva dall' India e dall' Africa. Lo spaghetto è servito. Morale della favola. L' identità alimentare e non solo, non deriva da un passato lontano, da una autoctonia immodificabile, ma nasce e prospera grazie agli scambi, alle migrazioni, alle contaminazioni. E la storia degli spaghetti ne è la prova. Perché quello che consideriamo il cibo più nostro, studiato da vicino si rivela uno straniero nel piatto. Ma così ben integrato da sembrare nato qui. A dimostrazione del fatto che la cosiddetta denominazione d' origine in realtà è sempre incontrollata.

·        Festival da mangiare.

Festival da mangiare: le Woodstock del cibo conquistano i gourmet. Da LSDM a Paestum a Gather JW a Venezia l'autunno è la stagione delle kermesse golose. Anna Muzio, Sabato 28/09/2019, su Il Giornale.  Quest'autunno si va alla sagra. Anzi, pardon, al food festival. Se volete essere davvero à la page ne dovete frequentare almeno uno, considerando che questa (insieme a maggio) è la stagione ideale, anzi occorre affrettarsi. Un fenomeno che ha assunto proporzioni globali quello delle giornate dedicate al «dio cibo» che nell'ultima decina di anni hanno subito una sorta di mutazione antropologica. Passando dalla chiassosa, solitamente ipercalorica e molto popolare sagra di paese quella dove si incontra il vecchio compagno di scuola e si mangia e beve come se non ci fosse un domani a festival, appunto, dove è d'uopo farsi vedere con un sobrio piattino di finger food e un calice di bollicina in mano, a prendere appunti al convegno sul futuro della ristorazione o a riscoprire oscuri presidi territoriali ignoti pure alla bisnonna cuoca sopraffina. Fondamentale la prenotazione, rigorosamente online. Andare al food festival insomma è diventato un po' come frequentare l'essenziale stagione (estiva) dei grandi festival musicali: Primavera Sound, Roskilde, Rock am Ring, Lollapalooza. Happening sparsi in giro per il mondo dove giovani da ogni dove si recano accampandosi per due o tre giorni sul posto, sfoggiando uno streetwear attentamente calibrato, gomito a gomito con star del cinema e della moda per assistere a una macedonia musicale con le band e gli artisti del momento. Sono i grandi eventi frequentati dai Millennials, i trenta-quarantenni vittime favorite del cosiddetto marketing esperienziale. Non si va più a guardare un concerto o a pranzo o cena, si vive un'esperienza, si cerca qualcosa da ricordare (e postare sui social). Tanto che ormai le ex sagre mettono insieme promozione territoriale (Fish&Chef sul lago di Garda), musica, narrazione, artigianato locale e beneficenza (Festa a Vico a Vico Equense), arte e spettacolo (Girotonno a Carloforte) oltre naturalmente al cibo, che ha sostituito la politica e anche un po' la musica nel cuore dei Millennials di cui sopra. Preparato davanti a folle osannanti dalle vere rockstar della nostra epoca, gli chef, possibilmente stellati o comunque mediatizzati. Ma tornando a noi, quali sono dunque gli eventi da non perdere in questo inizio di autunno, il Woodstock della salamella, il Coachella della mozzarella, il Glastonbury della porchetta? Ultimo weekend a disposizione per il Cous Cous Fest di San Vito lo Capo (dal 20 al 29 settembre) dove il piatto simbolo del Mediterraneo viene celebrato e declinato in oltre 30 ricette, con proclamazione del vincitore finale. Si svolge in questi giorni (fino a domani) il festival culinario Gather by JW al JW Marriott hotel di Venezia, con esperti di cucina provenienti da tutto il mondo (tra gli italiani Ciccio Sultano, Martina Caruso e Fabio Trabocchi) che proporranno cene, esperienze e cooking class. Si ragiona sul cibo e soprattutto sulla sua sostenibilità al congresso Le Strade della Mozzarella (LSDM), l'1 e 2 ottobre a Paestum. La Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d'Alba (dal 5 ottobre al 24 novembre), che quest'anno celebra il binomio tra uovo e tartufo, è un lusso da concedersi almeno una volta l'anno nel cuore della sua produzione, mentre la dolcezza è di casa a Eurochocolate (a Perugia dal 18 al 27 ottobre). Per chiarire poi che il fenomeno è tutt'altro che nazionale, ricche opportunità ci sono anche per gli esterofili. Gli amanti della birra e dei bagni di folla chiassosa non si perderanno uno dei più tradizionali, l'Oktoberfest (dal 21 settembre al 6 ottobre a Monaco di Baviera), i più modaioli che ci tengono a essere sempre sul pezzo prenderanno l'aereo per la Grande mela dove dal 6 al 13 ottobre c'è il New York City Wine and Food Festival, mentre gli annoiati che han già visto tutto si dirigeranno a Dubrovnik dove chef, ristoratori e pasticcieri dal 14 al 20 ottobre imbandiranno un lungo tavolo nella via principale. E non temano gli originali a tutti i costi di rimanere a pancia vuota: per loro c'è il Campionato mondiale di porridge a Carribridge, Scozia, il 12 ottobre.

·        Dieta, missione difficile ma non impossibile: come fare a dimagrire dopo i 45 anni.

Simone Valesini per repubblica.it il 21 novembre 2019. Invecchiando l’udito peggiora. È un processo inevitabile che inizia più o meno con l’ingresso nell’età adulta, e non fa che peggiorare col passare degli anni. Quando il problema diventa abbastanza marcato da complicare la comunicazione e la vita delle persone prende il nome di presbiacusia, o sordità legata all’età: un disturbo che colpisce circa il 40% degli italiani a partire dai 65 anni di età. Come sempre, fortunatamente, l’alimentazione può fare molto per evitare, o ritardare, gli acciacchi causati dall’invecchiamento. Una nuova ricerca del Brigham and Women's Hospital di Boston, pubblicata sull’American Journal of Epidemiology, rivela infatti che una dieta bilanciata, come la nostra cara dieta mediterranea, potrebbe ridurre anche di un quarto il rischio di sviluppare problemi di udito legati all’età. L’esistenza di un legame tra alimentazione e udito, di per sé, non è una novità. Diverse ricerche in passato hanno infatti dimostrato che specifici nutrienti, come carotenoidi e betacarotenoidi (contenuti nei frutti rossi come arance o carote), il folato (presente in legumi e verdure) o gli omega 3 possono proteggere l’udito dagli effetti dell’invecchiamento. Ma nessuna ricerca aveva ancora indagato, più in generale, il rapporto tra perdita dell’udito e differenti modelli alimentari, come possono essere la dieta mediterranea o un’alimentazione ricca di grassi o proteine animali. Ovviamente, era proprio questo l’obiettivo della ricerca. Lo studio ha coinvolto oltre 3.000 donne americane con un’età media di 59 anni, di cui i ricercatori avevano a disposizione sull’alimentazione seguita negli ultimi 20 anni. Grazie a questi dati hanno potuto valutare quanto la dieta quotidiana di ognuna si avvicinasse ad alcuni dei più consigliati regimi alimentari salutari, come al dieta mediterranea, o la dieta Dash (sviluppata in America per prevenire l’insorgenza di ipertensione). Ognuna delle partecipanti è quindi stata sottoposta a un esame audiometrico, per valutare lo stato del loro udito, che è stato ripetuto anche a distanza di tre anni dall’inizio dello studio per valutare i cambiamenti sopravvenuti. Incrociando i dati sull’alimentazione e quelli sulla capacità uditiva delle partecipanti, i ricercatori hanno ottenuto quanto desiderato: le probabilità di un declino uditivo nel corso del periodo di studio è risultato minore per chi seguiva un’alimentazione paragonabile alla dieta mediterraneo o altri regimi alimentari salutari. Del 30% circa considerando le frequenze sonore medie, e del 25% analizzando quelle alte, solitamente compromesse prima e più pesantemente dall’invecchiamento. "L’associazione tra dieta e declino della sensibilità uditiva riguarda frequenze di importanza cruciale per la comunicazione verbale”" spiega Sharon Curhan, epidemiologa del Brigham and Women's Hospital che ha coordinato la ricerca. "Quello che ci ha sorpreso inoltre è la quantità di donne che hanno subito un declino dell’udito in un arco temporale tutto sommato breve come quello analizzato nel nostro studio. L’età media era di 59 anni, molte partecipanti avevano tra i 50 e i 60 anni: un’età inferiore a quella in cui solitamente si pensa che inizino i problemi di udito. E dopo solamente tre anni, il 19% ha riportato una perdita di udito nelle frequenze basse, il 38% in quelle medie e quasi il 50% in quelle alte".

Dagospia il 22 novembre 2019. Pubblichiamo un articolo che il direttore Vittorio Feltri ha scritto negli anni Ottanta sull'obesità e sulla mania delle cure dimagranti. Un'ulteriore testimonianza di come, in questi 30 anni, nel nostro Paese nulla sia cambiato anche in fatto di diete alimentari. Leggere per credere. Articolo di Vittorio Feltri pubblicato da “Libero quotidiano”.  Parecchi lettori, dopo le precedenti puntate sulla questione della ciccia, mi hanno telefonato ponendomi dei quesiti specifici: quanti sono gli italiani che pesano troppo? Oppure: qual è la soglia dell' obesità, un quintale? Mi hanno preso per un esperto. O per un panzone, che per molti, probabilmente, è la stessa cosa, persuasi che solamente la gallina abbia i titoli per accertare che l' uovo sia marcio. Scusate se mi cito, un po' me ne vergogno, ma sono magrissimo, genere Biafra. Però ho consultato degli esperti veri e mi hanno assicurato che la magrezza - addio, illusioni - non è affatto garanzia di buona salute. Ci sono personcine filiformi che hanno la pressione arteriosa a 200, il colesterolo a 500 e i trigliceridi a 600. Scoppiano in malattia. Come mai? I motivi possono essere numerosi, anzitutto una dieta errata. È provato che su alcuni individui gli eccessi a tavola non si ripercuotono sul volume della pancia, bensì rendono il sangue vischioso, ricco di grassi: l' ideale per l' infarto, la trombosi, l' ictus cerebrale. I medesimi esperti hanno altresì ammesso che nel nostro Paese, e pure in altri considerati, a torto o ragione, più evoluti, non esistono statistiche attendibili sulla percentuale di obesi in rapporto alla popolazione. Perché, è presto detto: nei moduli del censimento non è ancora stata inserita la voce: «Quanto pesi?»; inoltre, la Saub o le Usl non provvedono a catalogare gli assistiti secondo la stazza. Tuttavia, a spanne, si può azzardare che il 30 per cento della gente abbia polpa in avanzo. Il dato ha un supporto non trascurabile: i consumi alimentari, in 35 anni, sono aumentati di quattro volte. Poiché in pari tempo il numero degli italiani non si è neppure raddoppiato, si deduce che la cospicua parte di cibo non destinata a bocche nuove finisca in quelle vecchie e, di conseguenza, si trasformi in lardo.

L'IPERNUTRIZIONE. Saranno forse conteggi un po' aleatori, ciononostante servono quantomeno a dimostrare, qualora ve ne fosse bisogno, che l' ipernutrizione non è un'ubbia del Censis, ma un allarmante fenomeno nazionale. In quanto poi all'altra domanda: qual è la soglia dell'obesità? Si potrebbe rispondere consultando una delle copiose tabelle stilate con cura da alcuni studiosi. Per esempio quella che indica l' altezza come miglior parametro. Ossia, se una persona è alta 1,70 dovrebbe pesare all' incirca 60 chilogrammi, cioè dieci di meno rispetto ai centimetri eccedenti il metro. Questo per i maschi. Per le donne si tollera un paio di chili in più, questione di cavalleria. Ma è il caso di scomodare la matematica? O non è sufficiente darsi un'occhiata allo specchio per verificare se la trippa deborda? Attenzione, nelle valutazioni è necessario essere verso se stessi né troppo benevoli, né troppo critici; e non scordare che il problema non è esclusivamente estetico, come sembra pensare la maggior parte dei cittadini di ambo i sessi, stando almeno all'andamento dell'industria dell'abbigliamento. Nel 1985, infatti, mentre l' economia in complesso ha registrato incrementi inferiori al 10 per cento, il fatturato della sola moda maschile ha fatto un balzo del 14,7 per cento, arrivando alla quota primato di 9.500 miliardi. È evidente, insomma, che, più di ogni altra cosa, all'uomo contemporaneo preme la bella presenza. Nessuno mette in dubbio che sia importante, tuttavia non dimentichiamo che oltre alla carrozzeria, c'è il motore. E va tenuto da conto, altrimenti si guasta e le riparazioni non sempre sono facili. Come si tutela la "meccanica" del corpo? Negli ultimi anni, mezzo mondo ha scoperto trionfalmente che il carburante più idoneo per la macchina umana è il cibo semplice e genuino: in due parole, dieta mediterranea, di cui in questi articoli ci siamo già occupati, sottolineandone l'efficacia, non per spirito patriottico, ma per fedeltà all' informazione scientifica. Se però non vi sono dubbi che spaghetti, verdure e pane non ingrassano, né intasano vene e arterie con sostanze nocive(sono, cioè, quanto di meglio per star bene sia "fuori" sia "dentro"), vi sono molti alimenti dannosi nei menù di svariate metropoli. Perché ormai, dopo lustri di abitudine alla cucina basata sulla carne fresca o insaccata e sulla abbondanza di condimenti animali, il mercato si è adeguato. Nei negozi si offrono prevalentemente prodotti adatti a una rapida elaborazione culinaria: la classica fettina, i salumi affettati e quant'altro - magari in scatola - si presti ad andare subito in tavola.

ALIMENTI INTEGRALI. Quasi tutto ciò che si espone al pubblico è raffinato: dallo zucchero al sale, dalla patata al riso, dal pane all' olio. E il consumatore, perfino colui che ha intuito la necessità di nutrirsi in modo naturale, viene scoraggiato: è vero che esiste in commercio una gamma relativamente vasta di alimenti integrali, e recentemente sono comparsi anche negli scaffali dei supermarket, ma i prezzi sono da gioielleria, alla portata di stipendi non comuni. I maccheroni con le fibre sono più cari di quelli senza, costano il doppio, tanto per fare un esempio. Ma la farina grezza non è quotata meno di quella "ripulita"? E allora, se la materia prima è più economica, non dovrebbe esserlo anche quella finita? Sarebbe come se l'Alfa Romeo pretendesse per un' auto non verniciata più soldi di quanti se ne devono sborsare per una luccicante. Eppure l' assurdità (apparente) una ragione ce l' ha e va ricercata nella fisiologia della compravendita: la domanda di prodotti integrali è ancora troppo bassa per giustificare un capillare e rifornito circuito distributivo, senza il quale, però, non è possibile ridurre i listini. La marce rara, benché di scarso valore, è obbligatoriamente cara. Qualcosa, però, si sta muovendo. I vegetariani - ovvero gli estremisti del desco - non sono più una esigua minoranza filorientale, composta da santoni e seguaci, ma abbondano in ogni classe sociale. Parecchi individui hanno detto basta alla grigliata mista per ragioni ecologiche: non è giusto, sostengono, che si facciano stragi di animali per soddisfare la gola profonda; e non è civile incrementare la macellazione, gli allevamenti in batteria, i trasporti di maiali, bovini e cavalli stipati su camion, sotto il sole o al freddo, per giorni e giorni senza mangime, foraggio né acqua. Crudeltà inutili esercitate quotidianamente tra la generale indifferenza. Gli erbivori, come già dieci anni fa aveva anticipato il professor Carlo Sirtori al congresso di Grosseto sul cibo verde, sono meno esposti sia alla pinguedine sia alle malattie, specialmente al cancro dell' intestino. E in ogni caso sono in buona compagnia: Leonardo Da Vinci, Einstein, Tolstoj e Shaw, per non parlare di Gandhi e di Schweitzer, erano assolutamente vegetariani.

VEGETARIANI. La "dieta esangue", che un tempo era al bando in quanto ritenuta carente di proteine, è stata rivalutata anche nello sport: hanno scoperto che i famosi e imbattibili maratoneti etiopi o non masticano carne, o ne masticano pochissima. Perché dalle loro parti non ce n' è. Ma ciò non toglie che siano al mondo i più resistenti alla fatica. La teoria che "le bistecche facciano l'atleta" è così miseramente caduta. E questo ha contribuito a rendere popolare l' insalata in ogni ambiente, compreso quello delle indossatrici che, per mantenere la linea senza farsi venire i crampi allo stomaco per i digiuni, cominciano a convertirsi ai piatti definiti poveri. Ai quali, presto, dovranno aggiungere gli spaghetti poiché - e lo dice Ottavio Missoni - dal capriccioso mondo della moda arrivano segnali strani: il pubblico, forse sollecitato dall' indomabile lievito maschilista, non gradisce più le donne ossute tanto care alle riviste femminili; preferisce qualche rotondità. Un po' di misura è necessaria. Va bene la magrezza, ma non esageriamo. In fondo, mangiare è un piacere, e nella vita qualcosa bisogna concedersi. Anche chi campa di rinunce non è eterno, e morire sani non è una gran consolazione.

Dieta, missione difficile ma non impossibile: come fare a dimagrire dopo i 45 anni. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 30 Settembre 2019. Perché dopo i 50 anni si fa più fatica a controllare il peso, e si tende ad ingrassare? E perché diventa così difficile ridurre il girovita e dimagrire anche mangiando poco? Lo rivela uno studio condotto dall' Istituto Karolinska di Stoccolma e dall' Università Uppsala di Lione, pubblicato sulla rivista Nature Medicine, nel quale si spiega come gli adipociti, ovvero le cellule adipose della "massa grassa", a causa del cambiamento ormonale che inizia dopo i 45 anni, con l' avvicinarsi della menopausa e dell' andropausa, rallentino bruscamente il ricambio del grasso, il loro ciclo di rimozione subisce un marcato calo del metabolismo, favorendo l' accumulo di materiale lipidico al loro interno, che viene trasformato in "grasso di deposito" non più fluido ma denso, una fonte di energia conservata e custodita tenacemente dall' organismo per le emergenze fisiche e cliniche (malattie infettive o debilitanti), che spesso si stabilizza, si solidifica e si raddensa, determinando l' aumento di peso, e tutto questo avviene indipendentemente da altri fattori, quali per esempio l' alimentazione. Gli esperti infatti, hanno osservato, nell' arco di 13 anni, il turnover, cioè la velocità di ricambio del grasso contenuto nel tessuto adiposo di 104 soggetti di entrambi i sessi, dimostrando come tale velocità cali inesorabilmente per tutti con il trascorrere degli anni, predisponendo quindi all' aumento di peso o comunque rendendo più difficile perdere gli odiati chili di troppo. Nutrizionisti in crisi - risultati della ricerca indicano cioè, per la prima volta, che sono proprio i processi di ricambio nel nostro tessuto adiposo a regolare i cambiamenti del nostro peso corporeo con l' invecchiamento, e non c' entra niente come, quanto e cosa si mangia, perché questo accade inesorabilmente, e indipendentemente dal tipo di alimentazione. Una evidenza scientifica che rischia di mettere in crisi tutti i nutrizionisti del mondo, poiché la questione non si può quindi più ridurre a un semplice calcolo aritmetico o automatico, ovvero se si ingeriscono meno calorie di quelle che si consumano si tenderà a perdere peso, mentre se accade il contrario inevitabilmente si ingrasserà, perché il corpo umano è una macchina molto più complessa, sofisticata e intelligente, e mantenere il peso ideale può diventare un' impresa molto faticosa per motivi che trascendono dalla volontà personale. Il desiderio di mangiare, che non è necessariamente connesso alla fame, è controllato dal sistema limbico, il centro del piacere del cervello, che si accende di fronte a un bel piatto di pasta o una pietanza succulenta, ma non è programmato per gestire gli stimoli provocati dall' abbondanza di cibo che abbiamo a disposizione e sotto gli occhi tutti i giorni, e la continua eccitazione del centro limbico ad opera della sovraesposizione ai richiami alimentari è uno degli ostacoli più grandi al dimagrimento, in quanto produce un desiderio incessante di mettere qualcosa sotto i denti. Certamene vi sono persone che hanno una predisposizioni genetica verso l' accumulo di peso, che nascono con un numero maggiore di cellule adipose, con un punto di equilibrio del rapporto peso-altezza più elevato rispetto alle persone normopeso, e che fanno molta più fatica a raggiungere il senso di sazietà. Inoltre, e sembra banale ripeterlo, la vita sedentaria in ufficio, l' uso della macchina e la mancanza di movimento aerobico sono tutti comportamenti che non stimolano il metabolismo a reagire, innescando un circolo virtuoso nell' organismo difficile da invertire. La massa grassa - Ogni individuo inoltre, con l' aumentare dell' età, tende a diminuire la massa magra e, in particolare, la massa muscolare, mentre aumenta la massa grassa, che diventa molto più attiva dal punto di vista metabolico. Da qui uno dei punti cardine di tutte le strategie per dimagrire, cioè non basta semplicemente perdere peso, ma è necessario ridurre la massa grassa, poiché è inutile cercare scorciatoie con diete troppo drastiche, fantasiose e poco credibili, oltre che inadeguate sotto il profilo nutrizionale, perché i regimi restrittivi non comportano risultati duraturi e rischiano ricadute sulla salute generale. Le diete iperproteiche per esempio, possono essere prese in considerazione solo in casi selezionati e per brevi periodi, quando occorre un dimagrimento rapido, e comunque quando si riduce fortemente l' apporto calorico, diventa progressivamente più difficile soddisfare il fabbisogno di alcuni elementi essenziali, tra cui il ferro e il calcio, per cui le donne in età fertile, a causa della fisiologica e regolare perdita di ferro attraverso il ciclo mestruale, dovrebbero compensare tale squilibrio con il consumo di carne e pesce, che contengono il ferro più facilmente assorbibile. Il calcio è un nutriente fondamentale per le ossa, ed un regime alimentare che ne risulta privo (esclusione del latte e suoni derivati) favorisce una progressiva riduzione della densità ossea, che raggiunge il suo culmine negli anni successivi al calo ormonale. Durante la menopausa e l' andropausa sia gli uomini che le donne si accorgono della tendenza ad ingrassare rapidamente pur mangiando le stesse cose e le stesse quantità di sempre, o addirittura riducendole, e in questo periodo si fa così in fretta a mettere su qualche chilo che poi diventa difficilissimo perderlo. Meglio quindi giocare d' anticipo, e quando si avvicina la menopausa vale la pena darsi una regolata, imparando a rinunciare a piccoli snack e golosità che fino a poco tempo prima ci si concedeva, perché con il calo ormonale sale il colesterolo nel sangue, così come la pressione, per cui bisogna fare attenzione anche al "sale nascosto" contenuto nei cereali, nel pane, nei formaggi, affettati e in molti altri alimenti conservati o trasformati. Nella seconda fase della vita delle donne inoltre, il crollo rapido degli ormoni sessuali dovuto alla menopausa, oltre a favorire l' accumulo di peso, modifica anche la forma del corpo, che dalla forma "a pera" (grasso sui fianchi, glutei e cosce), tende a passare a quella "a mela", con adipe localizzato soprattutto al girovita e all' addome, che poi è quello più pericoloso per la salute. Una taglia in meno - Aumentare l' attività fisica in questo periodo è certamente utile, poiché aumentando la massa magra si può arrivare a perdere una taglia, e ridurre la quantità di cibo ingerito rallenta l' accumulo di adipe nei depositi, creando una nuova "memoria" negli adipociti, tarata su un introito calorico più basso, che cambia il loro punto di equilibrio. Il nostro corpo si modifica inesorabilmente di decennio in decennio, e dopo il quinto è imperativo modificare il regime alimentare, anche perché l' accumulo di peso innesca una serie di complicanze metaboliche, cardiovascolari e pressorie che favoriscono l' insorgere di molte patologie, sovente anche mortali. Niente diete punitive e restrittive quindi, difficili da mantenere, ma imparare a gestire la fame emotiva, quella che spinge ad assaggiare e a lasciarsi andare anche senza provare appetito, con la scusa di accusare attacchi di fame che fame non sono, ricordando che se si vuole vivere a lungo, dopo gli anta bisogna rinunciare alle golosità, ridurre le porzioni e fare attività fisica per mantenere una linea accettabile, e tenendo bene in mente che nessuna persona obesa è mai diventata centenaria. Melania Rizzoli

·        Nas nei ristoranti etnici, la metà è irregolare.

Nas nei ristoranti etnici, la metà è irregolare. Controlli dei carabinieri anche nei locali che offrono la formula "all you can eat". Cibi scaduti e scarsa igiene. La Repubblica il 14 giugno 2019. Cibi scaduti, scongelati e ricongelati, mancato rispetto delle norme igieniche, etichette incomprensibili, importazioni vietate. I controlli dei Nas dei Carabinieri in tutta Italia su ristoranti etnici e depositi di alimenti provenienti dall'estero hanno accertato irregolarità in 242 strutture, quasi la metà dei locali ispezionati. L'incidenza è maggiore nel settore della ristorazione, specie negli "all you can eat": nel 48% dei locali sono state trovate irregolarità. Chiuse o sospese 22 attività, riscontrate 477 violazioni di legge e sequestrate 128 tonnellate di cibo. Irregolarità anche nel 41% dei controlli a grossisti e depositi di alimenti etnici. Sequestrate 128 tonnellate di prodotti ittici, carnei e vegetali per irregolarità e non idonee al consumo perché prevalentemente privi di tracciabilità ed in cattivo stato di conservazione, per un valore di 232mila euro. I Nas hanno trovato magazzini abusivi di stoccaggio dei prodotti, cucine mantenute in pessime condizioni igienico-sanitarie, ambienti mancanti dei minimi requisiti sanitari, strutturali e di sicurezza per i lavoratori. Sono stati applicati provvedimenti di chiusura o sospensione dell'attività per 22 imprese commerciali per un valore di 5,3 milioni di euro. Complessivamente sono state contestate 477 violazioni penali ed amministrative, deferiti all'Autorità giudiziaria 23 operatori del settore alimentare, mentre altri 281 sono stati sanzionati per infrazioni amministrative per 411mila euro. In ambito penale i reati maggiormente riscontrati, in totale 27, sono stati la frode in commercio e la cattiva conservazione degli alimenti. "Particolare attenzione è stata riservata agli esercizi di ristorazione veloce e a quelli che adottano la formula "all you can eat" per accertare che mantengano i livelli essenziali di corretta prassi igienica e la fornitura di materie prime idonee ad assicurare un livello accettabile di sicurezza per il consumatore", ha spiegato il generale di divisione dei carabinieri Adelmo Lusi. "Il piano di controlli - ha aggiunto - è stato realizzato con una metodologia finalizzata alla verifica del rigoroso rispetto delle procedure di preparazione, conservazione e somministrazione degli alimenti, dello stato igienico e strutturale dei locali di ristorazione e degli esercizi di vendita al dettaglio di prodotti preconfezionati, del mantenimento della catena del freddo soprattutto in relazione ai cibi da mangiare crudi, estendendo la vigilanza anche ai canali di importazione e distribuzione delle derrate alimentari e delle materie prime provenienti da Paesi esteri, gestiti da aziende di commercio all'ingrosso, di deposito e di trasporto".

Da Adnkronos.com il 14 giugno 2019. All'inizio c'è chi addirittura pensava fosse un fake. Ma l'immagine condivisa dal canale Facebook ufficiale del Movimento 5 Stelle - Luigi Di Maio che con sguardo severo e mano ferma annuncia "controlli anche sui negozi di cinesi e pakistani" - non ha lasciato spazio a dubbi. La stretta annunciata dal ministro del Lavoro non è piaciuta a molti deputati e senatori grillini. Ma ancor meno il 'meme' della discordia, che ha fatto il giro delle chat dei parlamentari al punto che qualcuno vorrebbe ora chiedere di sottoporre a 'graticola' anche lo staff della comunicazione. Quell'immagine è "una porcheria" dice all'Adnkronos senza esitazione un eletto alla Camera. "Chi prende queste decisioni?", tuona un'altra parlamentare. "Ormai - dice un senatore - ci ritroviamo a scimmiottare la Lega: perché non annunciare più controlli nei negozi italiani dove si fa il nero o dove, soprattutto al Sud, ragazzi lavorano anche solo per 200 euro al mese?". Nei commenti degli attivisti sui social alla foto 'incriminata' in tanti plaudono alla decisione di Di Maio ma non mancano le voci critiche: "Io direi semplicemente che vanno controllati tutti gli esercizi commerciali - scrive ad esempio Mara -, non ci salvinizziamo dividendo tutti in base all'etnia, siamo famosi per evasione fiscale e lavoro nero". Dello stesso tenore il commento di Fabio, che suggerisce: "Andate a fare i controlli nei ristoranti, bar e hotel stagionali e vedrete quanta evasione e quanti camerieri assunti con pochi soldi e tante ore di lavoro senza giorni di riposo!". Tra i favorevoli alla stretta c'è Raffaele: "Finalmente qualcuno che incomincia a far rispettare le regole, ottimo lavoro". "Da leghista, hai il mio vivo apprezzamento signor ministro... Bravo", è invece il commento di Fabio.

·        Nell'antica Roma una dieta da ricchi anche per gli scaricatori di porto.

Nell'antica Roma una dieta da ricchi anche per gli scaricatori di porto. Nei resti umani trovati nell'antico porto le prove: fino al V secolo, i facchini mangiavano gli stessi cibi dei più abbienti. L'alimentazione si è impoverita dopo il sacco dei Vandali, diventando più povera e campagnola. La Repubblica il 12 giugno 2019. Carne, pesce, grano, olio d'oliva e vino: c'era di tutto nel piatto degli scaricatori di porto nell'antica Roma. Al pari dei banchetti consumati dai più ricchi e benestanti. A impoverire la loro dieta, rendendola più simile a quella dei contadini, furono gli sconvolgimenti politici e dei commerci portati dalla discesa dei Vandali con il sacco di Roma del 455 d.C.. Lo dimostrano le analisi condotte sui resti umani, animali e vegetali ritrovati nel sito dell'antico Portus Romae dagli archeologi dell'Università di Cambridge, che pubblicano i risultati sulla rivista Antiquity. I resti umani trovati nell'antico porto di Roma "appartengono alla popolazione locale impegnata in pesanti lavori manuali, probabilmente facchini che scaricavano le navi in entrata", spiega la coordinatrice dello studio, Tamsin O'Connell. "Se guardiamo gli isotopi presenti negli individui vissuti tra l'inizio del II secolo fino alla metà del V, vediamo che hanno avuto una dieta piuttosto simile a quella delle classi ricche e benestanti seppellite nel cimitero di Isola Sacra", situata vicino alla foce del Tevere. "E' interessante notare - continua l'esperta - che nonostante le differenze di status sociale, entrambe le popolazioni avevano accesso alle stesse risorse alimentari". Fu poi la discesa dei Vandali a determinare un drastico cambiamento non solo politico, ma anche delle rotte commerciali e delle importazioni di cibo: così i lavoratori del porto dovettero cambiare le loro abitudini, portando in tavola piatti più poveri e frugali a base di proteine vegetali, come zuppe di piselli e lenticchie. 

·        Cosa mangeremo nei prossimi anni.

Cosa mangeremo nei prossimi anni. Dalla genetica al bioprinting la ricerca scientifica sta rivoluzionando le nostre tavole. Nei prossimi anni vedremo cibi molto più sofisticati a tutto vantaggio della salute e degli animali da carne. Luca Sciortino il 9 settembre 2019 su Panorama. Una nota multinazionale pubblicizza una birra sottolineando che è stata fatta con un raro lievito della Patagonia. Questa nuova trovata del marketing è una sorta di finestra sul futuro: nei prossimi anni cibi e bevande ottenuti per fermentazione saranno il frutto della selezione e della ingegnerizzazione di microrganismi come lieviti e batteri. « L’obiettivo sarà quello di ottenere alimenti con più elevato valore nutraceutico, cioè con maggiore contenuto di sostanze nutritive dagli effetti benefici sulla salute» dice Manuela Giovannetti, docente di Microbiologia Agraria al Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa. Facciamo alcuni esempi:« Recentemente sono stati riscoperti e ristudiati per il loro valore come probiotici alimenti come il Kefir, il Kimchi e il Kombucha» spiega Giovannetti « il primo è una bevanda originaria del Caucaso ottenuta facendo fermentare il latte con l’introduzione di particolari lieviti e batteri. Alcuni di questi microrganismi sopravvivono indenni al processo digestivo ed entrano a far parte del nostro bioma, la popolazione microbica del nostro organismo. Selezionandoli o ingegnerizzandoli si possono ottenere benefici come la protezione contro centre malattie o la formazione di anticorpi». Nel Kimchi, fatto di verdure fermentate e spezie, la selezione di particolari batteri può fornire un maggiore contenuto di alcuni tipi di vitamine come la A, la B1 e la B2; nel Kombucha, un tè addolcito fermentato con una particolare coltura, la selezione e l’ingegnerizzazione verrà fatta sui lieviti, con effetti disintossicanti. «Nei prossimi anni anche il pane, la birra, lo yogurth e tutti gli altri alimenti ottenuti da fermentazione saranno ingegnerizzati ad hoc per le esigenze di individui con simili esigenze o caratteristiche genetiche» conclude Giovannetti «io stessa sto coordinando un progetto nazionale sul pane che studia più di trecento ceppi diversi di lieviti. Vogliamo comprendere come migliorarli per ottenere un pane con varie proprietà, per esempio quella anti-infiammatoria». I cibi del futuro cambieranno anche in funzione del fatto che sempre di più genomi di piante commestibili verranno sequenziati. Per esempio, ad Aprile scorso Nature Genetics ha dato notizia del sequenziamento del genoma di grano duro con il contributo del Crea e del Cnr. Grazie alle biotenologie, questi dati permetteranno un grano più calibrato ai gusti dei consumatori e quindi a tipi di pane molto più diversificati di quelli attuali. Forme di trapianti di parti di Dna da un organismo a un altro daranno luogo a varietà di cibi che nessuna selezione riproduttiva potrebbe fornire. Già adesso un aminoacido come la metionina è stato aggiunto al genoma del mais rendendolo più nutritivo e non si contano esempi simili: patate e riso con più proteine; pomodori con antiossidanti presi da altre specie vegetali; lattughe che contengono forme di ferro più digeribili. Le tecniche del bioprinting, ovvero la stampa in tre dimensioni di tessuti e organi, permetteranno di produrre hamburger e bistecche a partire da da cellule di bovino prelevate con una biopsia e dunque senza uccidere l’animale. La stampa avviene strato per strato sulla base di un modello 3D digitale e una stampante dalle testine 3D che contengono “bio-inchiostro”, ovvero biomateriali, come per esempio fattori di crescita, cellule e altre biomolecole. Hamburger di vitello saranno presto in commercio con il marchio della ditta americana Modern Meadow, un fatto che indurrà molti vegetariani a riprendere il consumo di carne, visto che la sofferenza animale sarà evitata. Altri settori della ricerca potranno avere potenziali ricadute sul sapore dei cibi. Uno di questi è il settore delle nanotecnologie: nanoparticelle di natura biologica che al momento vengono create per rilasciare più lentamente i farmaci in certe zone dell’organismo, potranno essere usate per fornire una sorta di retrogusto a certi cibi o per rimuovere certe sostanze che danno a vini e altre bevande un certo aroma. L’industria lavora poi a cosa è più redditizio e non necessariamente significa che ciò sarà di grande beneficio per i consumatori. Ci saranno gelati e tavolette di cioccolato che non si sciolgono nelle giornate calde, birre ottenute da acque reflue, vernici commestibili da applicare ai cibi per renderli più appariscenti e zucchero filato per bloccare il singhiozzo. Anche le neuroscienze daranno il loro contributo suggerendo come devono apparire i piatti per essere più allettanti al consumatore. La “scienza” che sorgerà si chiamerà “neuro-gastronomia” e ci regalerà la conoscenza di come dovrà essere servito un dato tipo di cibo o quale dovrà essere il suo grado di croccantezza: una crema servita in una particolare tazza sembrerà più cremosa. D’altonde, bisognerà pure vincere quella naturale ritrosia umana ad assaggiare le molte novità in arrivo, dagli hamburger di farina di insetti alle barre a base di alghe.

·        Addio Tumore, Prof Berrino: “Ecco gli alimenti che lo nutrono, mai mangiare la…”

Addio Tumore, Prof Berrino: “Ecco gli alimenti che lo nutrono, mai mangiare la…” Più Donna l'8 settembre 2019. Il Dott. Franco Berrino, medico ed epidemiologo italiano, attraverso questa intervista, fa il punto sui “12 comandamenti anticancro” del Codice Europeo. Queste raccomandazioni contro il cancro sono delle raccomandazioni per “la prevenzione dei tumori” e sono molto importanti anche per chi ha un tumore, ma non devono essere viste come delle soluzioni alternative alle normali cure; ciò che la medicina moderna propone, e cioè le terapie per la cura dei tumori, devono essere fatte perché indispensabili in questo tipo di patologie, ma è indispensabile, affinché questi trattamenti risultino efficaci, seguire una corretta alimentazione e il giusto stile di vita. Il Codice Europeo per la prevenzione del cancro sono delle raccomandazioni, proposte dalla Comunità Europea per i suoi abitanti, fatte da una serie di commissioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che hanno rivisto gli studi scientifici e hanno deciso ciò che può e che è sensato raccomandare, sulla base di una considerazione molto prudente di tutti questi studi. Berrino, I 12 punti di questo codice sono i seguenti:

Non fumare ed evitare qualsiasi tipo di tabacco. È importante evitare la dipendenza da fumo, abbassando di molto la probabilità dello sviluppo di neoplasie, soprattutto a livello polmonare.

Non fumare in casa. Il fumo passivo predispone i bambini alla sviluppo di leucemie e ne aumenta il rischio di ammalarsi. È anche importante seguire le direttive contro il fumo sul luogo di lavoro: questo eviterà che le persone non fumatrici siano esposte al fumo passivo dei colleghi fumatori.

È importante mantenere il peso forma o tornare al nostro peso ideale. I chili in eccesso sono dovuti al tipo di alimentazione troppo ricca di proteine, questo confermato dai numerosi studi presenti, contrariamente da quanto sostenuto dalle cosiddette “diete farlocche” iperproteiche che causano soltanto intossicazioni nell’organismo.

Pratica esercizio fisico tutti i giorni. Si sa molto chiaramente che chi esegue quotidianamente dell’esercizio fisico ha meno probabilità di ammalarsi di cancro.

Seguire una dieta sana basta sui cereali integrali non raffinati, sulla verdura e la frutta. È molto importante evitare le carni rosse, sappiamo come l’elevata quantità di ferro ossidante al loro interno favorisca la patogenesi di tumori dell’apparato digerente, le carni conservate, gli zuccheri e le bevande zuccherate. Di tutto ciò il Ministero della Sanità Italiana non ne parla per non danneggiare la nostra industria alimentare; dobbiamo però fare in modo che questa industria cambia i suoi metodi di lavorazione ed eviti di utilizzare gli alimenti citati. Infine, si parla di ridurre il sale nella nostra alimentazione, ma chi segue una dieta a base di vegetale deve aggiungere questo ingrediente affinché ci sia il giusto apporto di sodio, esagerato nella dieta mediterranea.

Limitare il consumo di alcolici. Per la prevenzione del cancro è assolutamente sconsigliata l’assunzione di bevande contenenti alcol.

Evitare lunghe esposizioni al sole, soprattutto per i bambini, utilizzare le protezioni solari e non utilizzare le lampade solari. Fondamentalmente il rischio di melanoma c’è in caso di scottature e non in caso di esposizioni prolungate al sole; si eviti il sole, nel caso in cui non si utilizzino le protezioni solari, e le lampade solari, a causa delle radiazioni UV che vengono emanate e assorbite dalla pelle.

Proteggersi dall’esposizione ad agenti cancerogeni sul luogo di lavoro. È importante che siano seguite le normative in merito alla sicurezza e che il lavoratore sia informato sugli agenti chimici che sta utilizzando.

Controllare se in casa si è esposti a elevati livelli di radiazioni radon. Il radon è un gas emesso dalle pietre di costruzione e dal cemento; può causare tumore al polmone e il suo effetto si somma a quello del tabacco nei fumatori e ne aumenta la predisposizione anche nei non fumatori. Tanto più si chiudono ermeticamente le nostre abitazioni, per risparmiare su condizionatore e riscaldamento, tanto più sarà maggiore l’esposizione alle radiazione del radon.

Nelle donne, l’allattamento riduce il rischio di cancro. È importante allattare il proprio bambino ed evitare le terapie ormonali sostitutive in menopausa, a meno che non ci sia una forte ragione per farlo. È importante in questo caso utilizzare il progesterone naturale perché secondo gli studi non è associato ad un aumentato rischio di cancro alla mammella, mentre i farmaci progestinici sintetici che le case farmaceutiche producono (brevettandoli e ricavandone denaro) sono associati ad una aumentata probabilità di ammalarsi.

Assicurarsi che i bambini siano vaccinati per il virus dell’Epatite B (i neonati) e il Papillomavirus (per le ragazze). Si raccomanda di eseguire queste vaccinazioni perché evitano la formazione del cancro al fegato (virus epatite B) o alla cervice uterina (HPV). Ovviamente la vaccinazione non è sufficiente perché copre solo il 70% dei virus, essendone presenti anche altri ceppi, ed è importante eseguire gli esami di controllo (es. pap test).

Aderire ai programmi di screening per il cancro all’intestino (uomini e donne), cancro al seno (donne) e cancro alla cervice (donne). È importante partecipare ai programmi organizzati, cioè di prevenzione, ma non sono consigliati quelli di controllo per il polmone e la prostata.

È indispensabile aderire a questo programma, magari migliorandolo in alcuni punti, ma è comunque un importante mezzo da utilizzare per evitare di ammalarsi; seguirlo in tutti i suoi punti può evitare di sviluppare numerose neoplasie e permettere di vivere in salute.

Quella dieta (sbagliata) degli ospedali. Si succedono studi che provano che certi cibi aumentano il rischio di recidiva nei malati operati di tumore. Però in molti ospedali si continuano a servire pasti senza tener conto di queste conoscenze. Salvo alcune eccezioni...

Luca Sciortino il 24 luglio 2019 su Panorama. Nella letteratura scientifica sta crescendo la consapevolezza dell'importanza della dieta nella cura dei pazienti affetti da tumore. Una recente statistica condotta su degenti in cura al Karolinska Institute mostra che una dieta appropriata subito dopo l'intervento accelera i tempi di guarigione e determina un risparmio nelle spese di gestione del paziente. Un altro studio pubblicato da Plos One su un campione di 522 pazienti oncologici dimessi dopo un intervento mostra che la qualità della dieta e l'attività fisica diminuiscono il rischio di morte prematura. Inoltre, è ormai assodato che certi cibi possono contrastare efficacemente l'insorgenza di metastasi o recidive, a tal punto che esistono linee guida alimentari codificate sia nel "Codice europeo contro il cancro" sia nel documento del "Fondo mondiale per la ricerca sul cancro". Ci si chiede allora se gli ospedali tengano conto di queste conoscenze nella preparazione dei pasti e nei suggerimenti inclusi nelle lettere di dimissione. L'esperienza di alcuni pazienti curati in vari centri italiani è che i piatti, spesso forniti da ditte esterne, non sono preparati tenendo conto delle linee guida. Inoltre, le lettere di dimissioni non contengono alcuna indicazione su cosa è bene mangiare o non mangiare appena usciti dall'ospedale. Questa impressione è confermata da Franco Berrino, ex direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: «In generale, la classe medica non ha una preparazione adeguata sul ruolo della dieta per favorire la guarigione e prevenire l'insorgenza di recidive. In particolare, un giovane appena laureato in medicina non ha studi del genere alle spalle. Questa mancanza di cultura si riflette in una bassa attenzione alla dieta e alle linee guida alimentari all'interno degli ospedali». Berrino nota anche che, «se da una parte la ricerca individua un nesso tra l'eccesso di zuccheri e la crescita dei tumori, in quanto l'aumento di insulina che ne deriva favorisce la divisione cellulare, negli ospedali vengono somministrati cibi che fanno molto aumentare la glicemia, ovvero il contenuto di glucosio nel sangue» e cita alcuni esempi: «Uno dei pasti tipici degli ospedali è il prosciutto con il purè di patate: grave che si ignori che il secondo aumenta la glicemia e il primo è altamente sconsigliato dalle linee guida del Codice europeo contro il cancro, come tutte le carni lavorate. Per non parlare del fatto che nelle corsie di ospedale si trovano distributori di bevande zuccherate, altro alimento sconsigliato nella prevenzione. Succede perfino qui nell'Istituto Tumori di Milano. Tra l'altro bisognerebbe dare ai malati l'esempio e aiutarli così a capire cosa non dovrebbero fare dopo le dimissioni». Secondo Berrino bisognerebbe anche evitare il pane bianco e le farine raffinate: «ciò non avviene per una certa inerzia delle amministrazioni degli ospedali, che sperano di risparmiare affidandosi a ditte esterne le quali non hanno alcuna conoscenza di come la dieta possa aiutare il malato. Di fatto, però, risparmierebbero molto di più con diete corrette e calibrate: come mostrano vari studi, queste riducono i tempi di degenza e quindi i costi dell'ospedale». Le eccezioni, come sempre, non mancano: «Ci sono ospedali come il Policlinico San Donato di Milano o come il Policlinico Sant'Orsola di Bologna o l'Ospedale di Mantova i quali hanno intrapreso una strada differente, che tiene in conto le linee guida del Codice europeo» conclude Berrino. È quindi importante capire meglio la politica in fatto di alimentazione di questi ospedali dalla voce diretta di coloro che la stanno mettendo in atto. Livio Luzi, responsabile dell’area Endocrinologia e malattie metaboliche al Policlinico San Donato e Direttore del comitato scientifico Progetto EAT Alimentazione sostenibile, dice: «Che ci sia poca attenzione all'alimentazione dei malati è provato dal fatto che spesso negli ospedali si trova malnutrizione, soprattutto nel caso di anziani, di pazienti oncologici, o di pazienti con chirurgia intestinale maggiore, che vedono quindi ancora di più allungarsi i tempi di degenza. Noi ci impegniamo perché all'entrata i pazienti vengano visti da un nutrizionista-dietista, o ricevano indicazioni dietetiche dal personale del reparto. In questo modo individuiamo carenze o eccessi e formuliamo indicazioni dietetiche importanti non solo durante la degenza ma anche dopo la guarigione. Nella lettera di dimissioni includiamo almeno alcune indicazioni alimentari sulla base della diagnosi e del decorso della malattia. Nei casi di obesità-diabete, neoplasie, interventi di chirurgia maggiore, pazienti in rianimazione, i suggerimenti dietetici sono basati sulla misurazione del dispendio energetico mediante calorimetria indiretta». In particolare Luzi ha introdotto nel percorso diagnostico terapeutico calorimetri per la misurazione del consumo di calorie. Sulla base dei dati acquisiti, al San Donato sono così in grado di calibrare le diete nella degenza dando, se necessario, indicazioni dettagliate alle ditte che forniscono i pasti. «Sulla figura del nutrizionista-dietista bisogna notare che esistono anche figure professionali non sanitarie (laurea magistrale in scienze agro-alimentari), che non possiedono le competenze per operare in ambiente ospedaliero. Noi utilizziamo altre figure, specialisti che hanno anche conoscenze mediche come biologi nutrizionisti o dietisti, oltre ai Medici Dietologi» fa notare Luzi. Nell’Azienda ospedaliera-universitaria Policlinico di Sant’Orsola di Bologna c’è un’analoga consapevolezza delle potenzialità di una dieta ottimale, come spiega Marco Storchi, direttore dei "Servizi di supporto alla persona": «mentre gran parte degli ospedali compra menù già confezionati e uguali per tutti i pazienti, noi abbiamo mantenuto le cucine sotto il nostro controllo e abbiamo lanciato il progetto “Crunch” per unire cucina, ristorazione e nutrizione. Un team di dietisti e cuochi, coordinato da un nutrizionista esperto in collaborazione con la Dietetica Clinica e i medici delle diverse Unità Operative, provvede al miglioramento della dieta del paziente agendo sulla componente nutrizionale, sul gusto del piatto e sull’innovazione delle ricette. Grazie a queste strategie non solo riusciamo a essere più competitivi economicamente di un'eventuale gestione esterna, ma offriamo un servizio di migliore qualità e otteniamo benefici per i pazienti, che poi si traducono in risparmi ». Secondo Storchi il contesto dell’ospedale, ovvero Bologna, una città di grande cultura gastronomica, ha favorito una gestione attenta alla dieta. «I malati sono più esigenti e si rendono conto dell'importanza dell'alimentazione: ciò è stato un grande stimolo per noi. Per i pazienti oncologici abbiamo ridotto gli alimenti di origine animale a favore dei vegetali e dei legumi.  In più abbiamo realizzato alcuni studi interni, per esempio uno riguardante i pazienti disfagici, cioè che hanno difficoltà a deglutire, tra i quali vi sono anche pazienti affetti da tumore. Questi pazienti, che hanno caratteristiche di particolare fragilità, sono costretti a nutrirsi di cibi frullati o morbidi e, a causa di ciò, spesso non riescono a mangiare le stesse quantità degli altri, motivo per il quale sono spesso a rischio malnutrizione. Noi non ci limitiamo a frullare il pasto, come fanno molti ospedali, ma abbiamo reingegnerizzato il processo produttivo per offrire contenuti nutrizionali e apporti calorici in linea con i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (LARN) anche a fronte di minori quantità. Alimentare i pazienti disfagici in modo corretto significa accelerare il loro processo di guarigione». «Noi invece abbiamo attivato un progetto denominato “Chef in ospedale”» racconta Consuelo Basili, direttrice del Presidio Ospedaliero di ASST Mantova «una biologa nutrizionista e uno chef stellato supportano il personale della cucina ospedaliera in tutte le fasi principali, dalla formulazione dei menù alla preparazione dei pasti. Questo lavoro di contaminazione culturale tra cucina collettiva ospedaliera e alta ristorazione ha portato a rivisitare alcuni piatti classici dei menù ospedalieri, nella consapevolezza che una dieta sana permette di guarire più rapidamente. Così rendiamo il purè di patate più sano preparandolo con brodo di verdure fresche senza l’uso dei fiocchi, che causano un aumento del picco glicemico, e senza il burro. Il grande punto di forza dell’Ospedale di Mantova è possedere una cucina interna a gestione diretta e poter intervenire sull’acquisto delle materie prime. Appositi capitolati di gara ci aiutano a tutelare la qualità degli alimenti e la composizione dei menù. Se un piatto sano e anche buono si hanno maggiori probabilità che i pazienti continuino a mangiarlo anche fuori dall’ospedale. In questo modo avremo contribuito a quel cambiamento dello stile alimentare che influisce sullo stato di salute. Con questo spiritoo abbiamo richiesto la sostituzione delle bevande zuccherate con acqua e altre bevande senza zuccheri aggiunti. Abbiamo anche intrapreso una campagna informativa e formativa sui corretti stili alimentari rivolta a pazienti e dipendenti e a breve verrà attivato un ambulatorio di medicina integrata rivolto alle donne affette da tumore per il controllo nutrizionale durante il periodo del follow up». La scarsa attenzione agli effetti della dieta avviene in un contesto storico nel quale alcuni chef diventano popolari proponendo ricette d'avanguardia estremamente raffinate. Esiste perfino una nuova "scienza", la "neuro-gastronomia", che si avvale delle neuroscienze per comprendere come meglio presentare un piatto. Tutto ciò stride con la situazione negli ospedali, dove il "mangiar male" è considerato un fatto normale, con il quale bisogna convivere. Questa contraddizione profonda in seno alla nostra società è necessariamente destinata a esplodere man mano che sempre più pazienti ne prenderanno coscienza.

·        Anche i cibi sani possono far male...a parte il Peperoncino, le Verdure e l’Aglio.

DAGONEWS il 2 ottobre 2019. Mangiare verdure cotte o crude potrebbe cambiare drasticamente i nostri batteri intestinali. Nella ricerca condotta sia su topi che su esseri umani, gli scienziati hanno scoperto che mangiare cibi cotti non solo cambia il nostro microbioma, ma anche il fatto che i geni di questi batteri vengono "attivati" o "disattivati". I ricercatori affermano che ciò è dovuto al fatto che mangiare cibi cotti può migliorare la salute dell'intestino, mentre molti cibi crudi contengono composti che uccidono i microrganismi, il che significa che molti dei nostri batteri intestinali vengono distrutti. Il team, guidato dalla University of California San Francisco, afferma che i risultati ci aiutano a capire come alimenti crudi o cotti possono cambiare i batteri del nostro corpo e come il nostro  microbioma si è evoluto quando i primi umani hanno imparato a cucinare il cibo. «Il nostro laboratorio ha studiato in che modo diversi tipi di dieta - come le diete vegetariane rispetto alle diete a base di carne - incidono sul microbioma - ha affermato il dottor Peter Turnbaugh, professore associato di microbiologia e immunologia presso l'UCSF - Siamo rimasti sorpresi nello scoprire che nessuno aveva studiato la questione fondamentale di come la cottura stessa alterasse la composizione degli ecosistemi microbici nelle nostre viscere». Per lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Microbiology, il team ha diviso i topi in quattro gruppi. I roditori venivano nutriti con una di quattro diete: carne cruda, carne cotta, patate dolci crude o patate dolci cotte. I ricercatori hanno scoperto, con loro sorpresa, che non vi era alcuna differenza nei microbiomi dei topi che mangiavano carne cruda rispetto a quelli che consumavano carne cotta. Tuttavia, c'era una differenza significativa tra i topi che mangiavano patate crude o cotte. I ricercatori affermano che uno dei motivi di questi cambiamenti è che diversi cibi crudi contengono composti antimicrobici che danneggiano o uccidono i batteri nei nostri corpi. I ricercatori dell'UCSF volevano vedere se simili cambiamenti microbiotici si sarebbero verificati nell'uomo e hanno collaborato con uno chef professionista per preparare menù crudi e cotti. Incredibilmente lo stesso risultato si è riscontrato negli umani. «È stato emozionante vedere che l'impatto della cottura che vediamo nei roditori è rilevante anche per gli esseri umani - ha detto il dottor Turnbaugh - Siamo molto interessati a fare studi più ampi sugli esseri umani per comprendere l'impatto dei cambiamenti dietetici a più lungo termine».

Da Leggo.it il 2 ottobre 2019. Le proprietà antiossidanti dell'aglio ne fanno un vero e proprio viagra naturale. Lo consiglia il famoso sessuologo Marco Rossi, che è intervenuto a “Dee Notte” su Radio DeeJay spiegando come deve essere assunto per ovviare ai problemi di erezione negli uomini. Ciò che lascia perplessi è che si sconsiglia l'assunzione per via orale. «C'è una ricerca, neanche troppo recente, che ne parla. Sappiamo che l'aglio ha proprietà benefiche per l'organismo, nell'antichità veniva usato dai soldati romani e dagli schiavi che costruivano le Piramidi in Egitto» - ha spiegato Marco Rossi, noto per diverse apparizioni in tv - «Può anche curare la disfunzione erettile, ma siccome l'assunzione per via orale comporta un alito poco gradevole, la ricerca consiglia di introdurre per via rettale due spicchi d'aglio, come se fossero delle supposte». Quando i due conduttori, Nicola e Gianluca Vitiello, si chiedono se una simile tecnica possa provocare bruciore in un punto poco piacevole, Marco Rossi risponde così: «Andrebbe provato, personalmente non saprei. La ricerca comunque consiglia di assumere per via rettale gli spicchi d'aglio almeno 24 ore prima del rapporto sessuale».

Viola Rita per wired l'1 ottobre 2019. Oggi i riflettori si accendono di nuovo su un tema a lungo discusso, gli effetti (nocivi) sulla salute di un consumo eccessivo di carne rossa e della carne processata (cioè quella lavorata e conservata, come salumi, salsicce e wurstel), quella che fa più male. Un nuovo studio controcorrente, infatti, indica che interrompere il consumo di queste carni non sembra apportare dei benefici importanti per salute. Anzi i vantaggi dell’esclusione di questi alimenti sarebbero piccoli se non nulli. Ad affermarlo è un panel internazionale di esperti, che ha condotto una serie di revisioni scientifiche su questo argomento. I loro risultati, pubblicati sugli Annals of Internal Medicine, contengono nuove linee guida sull’alimentazione. E indicano che in generale non bisogna demonizzare il consumo della carne rossa, eliminandola completamente. Il dibattito rimane aperto e ad oggi le raccomandazioni sul consumo della carne sono le seguenti.

Le raccomandazioni attuali. Il risultato sembra in contraddizione con le raccomandazioni attuali. Numerosi recenti studi hanno richiamato l’attenzione sull’importanza di abbassare il contenuto di carne rossa e lavorata per diminuire il rischio di diverse patologie, come alcuni tipi di tumore, diabete e malattie cardiovascolari. Tanto che nel 2015 lo Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che fa parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha classificato come probabilmente cancerogena la carne rossa (classe 2A) e sicuramente cancerogena la carne lavorata (classe 1). Per questo molte autorità internazionali, fra cui l’Organizzazione mondiale della sanità, hanno recentemente raccomandato di ridurre l’assunzione di carni rosse (mangiandone non più di tre porzioni a settimana, ovvero non più di 500 grammi) e indicano che un elevato consumo di carni lavorate al giorno (50 grammi) aumentano del 16% il rischio di tumore del colon-retto – che per questo dovrebbero essere evitate quanto più possibile.

Il risultato di oggi. Gli autori sono partiti dalla stima del consumo medio di carne rossa e lavorata, in Europa e nell’America settentrionale, che va dalle 2 alle 4 porzioni a settimana. Un rigoroso insieme di revisioni sulle prove su questo argomento, come scrivono i ricercatori, mostra che i benefici associati alla riduzione del consumo di queste carni sono ridotti se non assenti. Per questo le nuove linee guida riportano che “la maggior parte degli adulti (ma non tutti) possono continuare ad assumerle seguendo le loro abitudini medie”. Gli esperti tuttavia sottolineano che si tratta di una “raccomandazione debole” e un “livello di evidenza ancora basso”.

Come è stato ottenuto il risultato. Insomma, il dato, seppure basato – a detta degli stessi autori – su un’evidenza limitata, sembrerebbe andare controcorrente rispetto a molte delle raccomandazioni fornite fino ad oggi. Ma come è stato ottenuto? Il risultato si basa su “cinque revisioni sistematiche di alta qualità”, ovvero revisioni e recensioni di studi già pubblicati sul tema, in particolare sulla relazione fra consumo di carne e salute.

Le ricerche esaminate – 12 trial randomizzati – includono i dati di circa 54mila persone. Dall’analisi non emerge un’associazione statistica significativa o importante fra l’assunzione di carne rossa o lavorata e il rischio di diabete, malattie cardiovascolari e tumori. In pratica, spiegano gli autori, “non ci sono prove stringenti che carni rosse o lavorate causino queste patologie”. A fronte di questo riscontro, i ricercatori indicano che per molti è possibile continuare a mangiare queste carni, spesso apprezzate proprio perché percepite come salutari. Ma allora come interpretare il risultato? La carne rossa e gli affettati fanno bene o fanno male? Secondo gli autori eliminare del tutto queste carni potrebbe non avere un senso, in termini di salute, mentre un consumo medio potrebbe non essere nocivo. Lo stesso Iarc, ad esempio, indica che in persone non particolarmente a rischio di determinate malattie, un’assunzione moderato di carni rosse, non superiore ai 500 grammi a settimana (pari a circa 3 porzioni), potrebbe non aumentare i rischi, mentre mangiarne di più potrebbe non far bene. Diverso il discorso dello Iarc sulle carni lavorate, che dovrebbero essere fortemente limitate se non evitate. Il dibattito, dunque, resta aperto (soprattutto sulle carni lavorate), fermo restando che anche in questo caso la chiave è sempre quella di scegliere la strada della moderazione ed evitare gli eccessi.

Carni rosse e salumi: uno studio riapre la discussione sul legame con i tumori. Una metanalisi appena pubblicata pone dubbi sulla forza delle correlazione tra il consumo di questi alimenti e l’insorgenza di tumori, diabete e malattie cardiovascolari. Vera Martinella 1 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera.

L’allarme del 2015. Sembrerebbe un contrordine rispetto all’allarme «esploso» nel 2015, quando l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione, massima autorità in materia di studio degli agenti cancerogeni che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), aveva inserito le carni rosse e lavorate fra le sostanze che possono causare il cancro negli uomini. Un panel di esperti internazionale, in una serie di raccomandazioni pubblicate oggi sulla rivista scientifica Annals of Internal Medicine, conclude che «per restare in salute non c’è alcun bisogno di ridurre il consumo di carni rosse e processate», ovvero quelle salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate con conservanti per migliorarne il sapore o la conservazione. Affermazione che però va soppesata e compresa.

Pericolo di tumori di colon-retto, pancreas, prostata. Moltissimi dati sono arrivati negli ultimi anni a indicare che il sovrabbondante (troppe quantità e troppo frequente) consumo di carni rosse è connesso allo sviluppo di tumori, soprattutto dell’apparato digerente. Era già apparso anche chiaro che molto dipende dal tipo di cottura: carni alla brace, affumicate, conservate possono comportare maggiori problemi durante la preparazione. «I dati del 2015 sulla base dei quali lo IARC inserì le carni rosse nell’elenco delle sostanze potenzialmente cancerogene deponevano per un aumento di rischio di sviluppare tumori di colon-retto, stomaco, pancreas e prostata, ma la qualità modesta di questi dati veniva comunque già sottolineata all’epoca dagli stessi esperti» ricorda Roberto Bordonaro, segretario nazionale dell’Associazione di Oncologia Medica Italiana (Aiom).

Esiti contrari a tutte le altre linee guida. Allora quello di oggi è un cambio di rotta? Un contrordine? Non proprio. I ricercatori dei Centri Cochrane canadesi, spagnoli e polacchi hanno fatto una revisione di una dozzina di studi differenti, riguardanti in totale circa 54mila persone, con l’intento di verificare quanta carne rossa e lavorata fosse effettivamente consumata in media dalla popolazione adulta in Nord America ed Europa (le stime riportano tre o quattro volte a settimana) e quali fossero le conseguenze a livello oncologico e cardiometabolico. Ne hanno concluso che la maggior parte delle persone può continuare con le attuali abitudini nel mangiare carne e insaccati, nelle stesse quantità, perché non comportano un aumento del rischio di malattie cardiache, diabete o cancro. Una conclusione che va però contro praticamente tutte le linee guida attuali.Tanto che, sullo stesso numero degli Annals of Internal Medicine viene pubblicato un editoriale di commento in cui gli autori dell’Indiana University Schcool of Medicine si dichiarano consapevoli che queste loro nuove raccomandazioni sono controverse e destinate ad essere ampiamente dibattute.

Parola d’ordine: «moderazione». Fin dal 2015, gli stessi esperti dello IARC che avevano incluso carne rossa e insaccati fra le possibili sostanze in grado di provocare il cancro, si erano appellati a buon senso e moderazione: «La carne rossa contiene anche proteine e micronutrienti importanti (come la vitamina B, il ferro e lo zinco) - avevano scritto -. Inoltre il contenuto di grassi dipende dalla specie dell’animale, dall’età, dal sesso, da come è stato allevato e nutrito. E, infine, dal taglio della carne». Senza dimenticare che molto varia poi in base alla cottura, perché essiccare, grigliare, friggere o affumicare qualsiasi cibo può portare alla formazione di agenti chimici a loro volta cancerogeni.

L’importanza di una dieta equilibrata. Allora la carne rossa è «sicura» e se ne può mangiare quanta se ne vuole? «La notizia è che se si approccia in maniera scientificamente corretta lo studio del rapporto tra il consumo di carni rosse e il rischio di sviluppare il diabete, il cancro o le malattie del cuore, i risultati sembrano smentire l’esistenza di una correlazione — risponde Roberto Bordonaro, che è anche direttore dell’Unità Operativa di Oncologia Medica dell’Ospedale Garibaldi di Catania —. La vera risposta alla domanda ritengo sia che la carne rossa debba continuare a far parte di diete equilibrate, con consumi variabili con le esigenze personali e con l’età».

Comunque necessarie ulteriori verifiche. Che cosa cambia fra quanto uscito con clamore nel 2015 e questo nuovo studio? «La qualità dell’evidenza scientifica su cui si basano le conclusioni di questa nuova revisione pubblicata sugli Annals of Internal Medicine è significativamente maggiore rispetto a quella dei dati del 2015, per cui i risultati attuali sono più attendibili. Il metodo utilizzato sembra scientificamente valido e le conclusioni sembrano ragionevoli. Certo ogni giudizio definitivo non può che rimanere sospeso in attesa di ulteriori conferme». Una cosa è certa: almeno 3 casi di cancro su 10 sono dovuti a quello che mangiamo e al sovrappeso, grande fattore di rischio per molti tipi di neoplasie. Ed è altrettanto certo che la dieta mediterranea svolge una funzione protettiva, contro i tumori moltissime altre malattie.

Il troppo fa sempre male, anche se si tratta di cibi sani. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. È la dose che fa il veleno: l’aforisma di Paracelso vale per tutto, anche per i cibi. La moderazione è un’indicazione che riguarda tutti gli alimenti, non solo quelli sempre nel mirino come sale, zucchero e grassi. Non esiste infatti un cibo che permetta di concedersi eccessi senza dare conseguenze negative, soprattutto a lungo termine. Così come non esistono alimenti «cattivi» in assoluto se vengono assunti in porzioni corrette. Le fibre che fanno tanto bene all’intestino se sono troppe, e all’interno di una dieta squilibrata, possono causare costipazione. Persino le vitamine o i preziosi minerali, come il calcio e il ferro, in dosi massicce alterano l’equilibrio del nostro corpo diventando tossici. E che cosa dire dell’acqua? Quando i reni funzionano poco non riescono a espellere l’eccesso e può insorgere iponatremia: un disturbo che si verifica quando i livelli di sodio sono troppo bassi per la diluizione dei minerali nel sangue e che può portare in terapia intensiva. E gli spinaci? Contengono gli ossalati, composti che, unendosi al calcio, possono favorire la formazione di calcoli renali.

Come facciamo a sapere cosa può far male anche se è sano?

«L’effetto tossico dei nutrienti è comunque un’evenienza rara — spiega Laura Rossi, specialista in Scienza dell’alimentazione e ricercatrice del Crea (Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione) —. Comunque abbiamo a disposizione i Larn, i Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana: le raccomandazioni che riguardano tutti i nutrienti e fissano anche le dosi massime che possiamo ingerire senza subire conseguenze negative. È quello che in termini tecnici si chiama Upper Level ed è fissato per alcune vitamine e minerali. Va ribadito che è molto difficile, se non impossibile, raggiungere le dosi tossiche di nutrienti con la sola alimentazione: quando accade il fatto solitamente riguarda persone che fanno già diete molto squilibrate, cui aggiungono integratori presi senza consulto medico, allora la probabilità di avere qualche problema aumenta».

Ci sono nutrienti più pericolosi di altri?

«I problemi nascono quando il “troppo” è continuativo. L’accumulo non riguarda un singolo giorno, bensì squilibri cronici e quindi alte concentrazioni prolungate nel tempo. L’evento episodico non crea grandi problemi. Riguardo alle conseguenze sono diverse. L’eccesso più preoccupante nella dieta di tutti i giorni riguarda lo zucchero e l’alcol. Lo zucchero per l’aumento che comporta della cosiddette “calorie vuote”, ossia energia che non apporta nutrienti importanti e determina aumento di peso con tutte le patologie correlate (diabete, malattie cardiovascolari e sindrome metabolica). Il binge drinking, ovvero il bere smodato, è per definizione qualcosa che mette molto a rischio il nostro organismo e può perfino portare al coma etilico. Una pratica purtroppo sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani».

E cosa accade, invece, quando semplicemente si mangia troppo un po’ di tutto?

«Si arriva all’indigestione, il modo con cui il corpo segnala che il nostro sistema digestivo non regge la quantità di cibo ingerita. Di solito tutto si risolve con l’espulsione del cibo mangiato nel giro di poche ore e non comporta conseguenze se è legata a un eccesso di quantità. Se invece il malessere è frutto di una congestione per l’ingestione di alimenti o bevande che determinano uno sbalzo termico oppure di cibi contaminati, il quadro clinico è completamente diverso».

È LA DOSE CHE FA IL VELENO.  Silvia Turin per “Salute - Corriere della sera” il 22 settembre 2019. È la dose che fa il veleno: l'aforisma di Paracelso vale per tutto, anche per i cibi. La moderazione è un' indicazione che riguarda tutti gli alimenti, non solo quelli sempre nel mirino come sale, zucchero e grassi. Non esiste infatti un cibo che permetta di concedersi eccessi senza dare conseguenze negative, soprattutto a lungo termine. Così come non esistono alimenti «cattivi» in assoluto se vengono assunti in porzioni corrette. Le fibre che fanno tanto bene all' intestino se sono troppe, e all' interno di una dieta squilibrata, possono causare costipazione. Persino le vitamine o i preziosi minerali, come il calcio e il ferro, in dosi massicce alterano l' equilibrio del nostro corpo diventando tossici. E che cosa dire dell' acqua? Quando i reni funzionano poco non riescono a espellere l' eccesso e può insorgere iponatremia: un disturbo che si verifica quando i livelli di sodio sono troppo bassi per la diluizione dei minerali nel sangue e che può portare in terapia intensiva. E gli spinaci? Contengono gli ossalati, composti che, unendosi al calcio, possono favorire la formazione di calcoli renali.

Come facciamo a sapere cosa può far male anche se è sano?

«L'effetto tossico dei nutrienti è comunque un'evenienza rara - spiega Laura Rossi, specialista in Scienza dell' alimentazione e ricercatrice del Crea (Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione) -. Comunque abbiamo a disposizione i Larn, i Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana: le raccomandazioni che riguardano tutti i nutrienti e fissano anche le dosi massime che possiamo ingerire senza subire conseguenze negative. È quello che in termini tecnici si chiama Upper Level ed è fissato per alcune vitamine e minerali. Va ribadito che è molto difficile, se non impossibile, raggiungere le dosi tossiche di nutrienti con la sola alimentazione: quando accade il fatto solitamente riguarda persone che fanno già diete molto squilibrate, cui aggiungono integratori presi senza consulto medico, allora la probabilità di avere qualche problema aumenta».

Ci sono nutrienti più pericolosi di altri?

«I problemi nascono quando il "troppo" è continuativo. L'accumulo non riguarda un singolo giorno, bensì squilibri cronici e quindi alte concentrazioni prolungate nel tempo. L' evento episodico non crea grandi problemi. Riguardo alle conseguenze sono diverse. L'eccesso più preoccupante nella dieta di tutti i giorni riguarda lo zucchero e l'alcol. Lo zucchero per l' aumento che comporta della cosiddette "calorie vuote", ossia energia che non apporta nutrienti importanti e determina aumento di peso con tutte le patologie correlate (diabete, malattie cardiovascolari e sindrome metabolica). Il binge drinking , ovvero il bere smodato, è per definizione qualcosa che mette molto a rischio il nostro organismo e può perfino portare al coma etilico. Una pratica purtroppo sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani».

E cosa accade, invece, quando semplicemente si mangia troppo un po' di tutto?

«Si arriva all' indigestione, il modo con cui il corpo segnala che il nostro sistema digestivo non regge la quantità di cibo ingerita. Di solito tutto si risolve con l' espulsione del cibo mangiato nel giro di poche ore e non comporta conseguenze se è legata a un eccesso di quantità. Se invece il malessere è frutto di una congestione per l' ingestione di alimenti o bevande che determinano uno sbalzo termico oppure di cibi contaminati, il quadro clinico è completamente diverso».

Morello Pecchioli per “la Verità” il 22 settembre 2019. È il terzo moschettiere della più classica tra le paste di mezzanotte. Quando la compagnia batte la fiacca, ecco la proposta che rianima: «Ahò, ce famo du spaghi ajo, ojo e peperoncino?». Il romanesco è d' obbligo, il piatto è nato nell' urbe caput mundi. Il peperoncino, in giuste dosi, esalta ogni piatto, perfino le minestrine più scialbe. Nella cucina italiana è protagonista di piatti leggendari: penne all' arrabbiata, spaghetti alla puttanesca, bucatini alla corsara, seppioline piccanti, pollo alla diavola... Ugo Tognazzi, attore, raffinato gourmet, cuoco per passione, ne L'Abbuffone, propone due ricette che preparava agli amici in cui il peperoncino è fondamentale: spaghetti alla sgualdrina (variazione della puttanesca), penne all'infuriata, per le quali usava una vodka polacca al peperoncino «formidabile, tremenda, fortissima, piccantissima, micidiale». Aldo Fabrizi, ne La Pastasciutta, considerava il peperoncino, con cipolla, aglio e basilico, uno dei quattro elementi fondamentali: «Quanno ner sangue circola 'sto fôco/ se sente un friccicore dapertutto,/ perchè la qualità che cià 'sto frutto/ infiamma, dà salute e dico poco». Dopo Marilyn Monroe il peperoncino è la creatura più piccante arrivata dall' America. Quando la Nina, la Pinta e la Santa Maria gettarono l' ancora a San Salvador, gli amerindi conoscevano la bacca piccante da almeno 7.000 anni. Al Vecchio mondo il peperoncino era ignoto. L' Egitto dei faraoni odorava di aglio, i Greci insaporivano le vivande con olio d' oliva, cipolla ed erbette aromatiche, i Romani usavano il garum, salsa di colatura di pesce, che mettevano a manetta un po' dappertutto: su verdure, carni e zuppe. I nostri antenati conoscevano il pepe dono degli dei e conosciuto fin dalle epoche più remote sia come condimento che come conservante e medicamento. Fu proprio andando a caccia di pepe e di altre spezie che Cristoforo Colombo nel 1492, partito da Palos per «buscar el levante por el poniente», buscò l' America e buscò, oltre a parecchi altri prodotti sconosciuti in Europa, il peperoncino. Il navigatore genovese riferì che gli indigeni ne facevano largo uso per insaporire i cibi e ne sottolineò i poteri medicamentosi. Di ritorno dal secondo viaggio (1493) lo portò in dono ai sovrani di Spagna che si ripromettevano di trarre lauti guadagni con il commercio di quella nuova spezia che era molto piaciuta ai palati aristocratici. Ma non avevano fatto i conti con lo stesso peperoncino, pianticella di natura popolare, democratica. Il «pepe d' India» si ambientò fin da subito nella vecchia Europa. Solo settant' anni dopo il suo arrivo in Spagna, il botanico Pietro Andrea Mattioli ne parla come di «una pianta alquanto comune». Nel Cinquecento il peperoncino non ha ancora un nome suo. Il riferimento al pepe è costante: «pepe d'India», «pepe cornuto», «pepe delle Molucche». I conquistadores lo chiamano pimiento, pepe. Nel Seicento la catena dei nomi si chiude: pepe, peperone, peperoncino. Nel Settecento Linneo gli regala il nome scientifico: Capsicum anuum. Capsicum viene dal latino capsa, scatola (di semi). Non tutti apprezzarono le doti di quel rosso diavoletto vegetale che arrivò dall' America con la fama di stuzzicare la gola, ma anche la passione, tanto che si raccontava che l' imperatore azteco Montezuma fosse un gran divoratore di chili (peperoncino) e di donne. Il gesuita spagnolo José de Acosta, giovane missionario in Centro America nella seconda metà del Cinquecento, condannò il diavoletto rosso, accusandolo di suscitare «insani propositi». Non aveva tutti i torti. Ancora oggi i messicani chiamano affettuosamente il pene chili e tra le varietà di capsicum ce n' è uno che, a parte il color rosso intenso, sembra il gemello dell' organo sessuale maschile. È il Peter Pepper, più conosciuto come chili-penis. L' Organic gardening magazine, rivista di giardinaggio americana, lo ha definito «peperoncino pornografico». Isabel Allende, scrittrice nata in Perù e cresciuta in Cile, in Afrodita scrive del peperoncino: «È il fiero elemento di tutti quei piatti esotici che lasciano la bocca in fiamme e stimolano l' immaginazione e l' appetito amoroso». Forse fu per stimolare meglio l' immaginazione e la partecipazione della gente al Peperoncino Festival, che un paio di anni fa, a Diamente, in Calabria, fu invitata, come madrina, Belen Rodriguez. La soubrette ebbe, secondo il Codacons, un cachet assai piccante: 60.000 euro. L' Accademia del peperoncino, organizzatrice del festival, smentì: la signora ha percepito «solo» 30.000 euro. Il giornalista Marcello Veneziani commentò con l' usuale sarcasmo: «Immaginate che miscela esplosiva, che ordigno atomico, è combinare l' afrodisiaco peperoncino, la bomba sexy Belen e un popolo di allupati». Gabriele d' Annunzio, famoso per le imprese poetiche, guerresche e amorose, adorava il peperoncino al quale dedicò una poesia, l' Ode al diavolicchio che esalta il brodetto di pesce della sua terra d' Abruzzo. Dopo aver messo in pentola cefalo, merlango, orata, rombo, scorfano e murena, il poeta passa al procedimento: «...dai fiorenti orti cogliemmo il timo,/ i rossardenti diavoletti folli e le virenti erbette fini,/ il fuoco lento infine alle terrine porose demmo,/ e il canto alle marine spiagge che vider navi anche col rostro,/ nessun brodetto mai eguaglia il nostro!». Grazie alla sua dirompente natura il peperoncino si salvò dal rogo futurista che si prefiggeva di ridurre in cenere la cucina tradizionale italiana, in principal modo gli spaghetti. Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del movimento, inaugurando a Torino la Taverna Santopalato, volle che all' antipasto fossero serviti peperoncini verdi che nascondevano all' interno, come i baci Perugina, un cartiglio: niente frasi romantiche, ma muscolose espressioni futuriste. Il peperoncino vanta un esercito di celebri estimatori: Gregory Peck, Frank Sinatra, Giorgio Albertazzi,Maria Grazia Cucinotta, la pittrice messicana Frida Kahlo che amava cucinare per il marito Diego Rivera, pure lui famoso pittore, il mole, specialità che richiede diversi tipi di peperoncino, cioccolato, noci, cannella e sesamo. Zubin Mehta, direttore d'orchestra indiano, lo ama talmente che ne ha sempre qualcuno in tasca per aggiungerlo ai piatti che ordina al ristorante. Probabilmente lo usa anche come portafortuna: il peperoncino, per la forma a cornetto, è considerato un benefico talismano. Si racconta che durante un concerto Mehta trasse dalla tasca il fazzoletto per detergersi la fronte, ma tra le pieghe c' era del peperoncino sbriciolato che lo fece lacrimare vistosamente. Sono più di 3.000 le varietà di peperoncini coltivati nel mondo. Tra le varietà più famose (e piccanti) la chayenna, habanero, red savina. Hanno una piccantezza gradevole paprika, delicatesse, serrano. Ottimo il peperoncino calabrese che dà sapore e piccantezza alla 'nduja, insaccato di maiale. Sono apprezzate in tutto il mondo le salse al peperoncino: paprika, worchester, chimichurri, chutney, harissa, tabasco. Si chiama carolina reaper il peperoncino più piccante al mondo. Prende il nome da uno stato Usa, la Carolina, e il cognome dalla sua sconvolgente piccantezza: reaper, mietitrice: non uccide, ma chi ne mette troppa in bocca ci va vicino. Secondo il Guinness dei primati è il peperoncino più bruciante al mondo per la concentrazione di capsaicina, l' alcaloide che provoca la piccantezza. La mietitrice toglie letteralmente il respiro e provoca, secondo le testimonianze di chi l' ha assaggiato,un acuto dolore fisico. Bisogna stare attenti anche a come si maneggia: brucia. Ma il peperoncino è buono e fa bene. Medici e ricercatori universitari riconoscono che previene le malattie cardiovascolari, purifica il sangue, è utile per combattere l' obesità, la depressione e la dipendenza dall' alcol, è decongestionante e antifiammatorio, aiuta a digerire e protegge il fegato. Secondo Giulio Tarro, virologo di fama internazionale, il contenuto di vitamine antiossidanti e immunostimolanti e della capsaicina combatte la formazione di tumori.

·        Il cibo può essere una medicina?

Il cibo può essere una medicina? Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Maria Giovanna Faiella su Corriere.it. La natura come laboratorio per un nuovo regime alimentare e per il benessere; il cibo visto come una “medicina”; l’agricoltura a supporto della salute grazie alla nutraceutica, disciplina che sta a indicare il connubio tra nutrizione e farmaceutica e studia gli effetti benefici dei principi attivi contenuti negli alimenti, quali antiossidanti, sali minerali, acidi grassi essenziali, vitamine e tanti altri. Delle potenzialità dei prodotti di origine naturale nella prevenzione e nel trattamento delle malattie si è discusso in un convegno a Roma, organizzato da Foragri, Fondo paritetico nazionale interprofessionale per la formazione continua in agricoltura. Da sempre l’uomo si è curato con le erbe medicinali, poi nel XIX secolo è arrivata la chimica in campo medico, oggi si punta a un recupero di tradizioni secolari coniugate con le moderne tecnologie e la ricerca scientifica. L’anno scorso, col varo del «Testo unico in materia di coltivazione, raccolta e prima trasformazione delle piante officinali», c’è stato un riassetto della normativa in tema di piante officinali, per favorirne la crescita e lo sviluppo, valorizzare le produzioni nazionali e, al tempo stesso, dare maggiori garanzie al consumatore finale. Del resto, nel settore l’Italia è al secondo posto nel mondo per produzione, dopo gli Stati Uniti, con un giro di affari di 3 miliardi di euro l’anno. «L’esistenza di una relazione tra alimentazione, stato di salute e patologie cronico-degenerative, note come malattie non trasmissibili, è ormai riconosciuta - dice Laura Di Renzo, professore associato presso la sezione di Nutrizione clinica e nutrigenomica all’Università Tor Vergata di Roma -. Grazie a nuove discipline, come la nutrigenetica e la nutrigenomica, si ha oggi la possibilità di prevenire l’evento patologico, partendo da un piano nutrizionale che non si basa più su mere basi empiriche ma sulla profonda conoscenza dell'individuo, della sua genetica, della regolazione di geni legati allo stato infiammatorio e alla stress ossidativo». «Dobbiamo puntare alla prevenzione - concorda Valentino Mercati, presidente di Aboca, azienda che coltiva col metodo dell’agricoltura biologica 67 specie di piante medicinali su oltre 1.750 ettari di terreno e ha dato vita a una piattaforma “Evidence Based Naturali” che si basa sui principi della medicina basata sulle evidenze scientifiche applicata al mondo vegetale -. Il medico del futuro dovrà dare meno medicine e guidare i pazienti a nutrirsi avendo cura di sé e attraverso i frutti di un’agricoltura sostenibile. Le sostanze naturali sono le uniche in grado di interagire con il nostro organismo rispettandone la fisiologia, e poi - ricorda Mercati - nella natura e nella terra c’è tutto: si tratta solo di trovarlo e di combinarlo nel modo opportuno, avvalendosi della ricerca più avanzata, per un nuovo equilibrio tra uomo e ambiente che sia vantaggioso per entrambi».

·        In campagna si muore di burocrazia.

In campagna si muore di burocrazia. Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da Susanna Tamaro su Corriere.it. La via per comprendere la profonda contraddittorietà del nostro Paese è una sola. Provare a fare qualcosa. Finché si resta nel campo della teoria, infatti, si può anche trovare un bandolo, una traccia che, apparentemente, illumini il groviglio delle inutili complessità. Se invece ci si attiva in modo concreto, ben presto ci si rende conto della situazione: più ci muoviamo, più siamo prigionieri. Personalmente mi sono sottoposta a diverse prove iniziatiche. Ho restaurato una casa, ne ho costruita un’altra, le ho dotate di un sistema fotovoltaico, ho creato una piccola azienda agricola. Tutto questo l’ho realizzato grazie unicamente ai soldi guadagnati con il mio lavoro, senza chiedere contributi e facilitazioni a nessuno, e l’ho fatto semplicemente perché sono convinta che, una volta risolti i tuoi problemi, devi provare a risolvere quelli degli altri. Ho sempre pensato che i soldi che stanno fermi, magari chiusi in qualche bel pouf — abitudine piuttosto diffusa a livello nazionale — non siano altro che carta. Non servono a niente e, dunque, non sono niente. Un’alluvione, un incendio, una famiglia di topolini affamati, il crack di una banca o un tonfo in Borsa bastano a vanificare ingentissimi risparmi. Dunque, armata delle migliori intenzioni e sedotta da quello che ora si chiama, purtroppo, storytelling — il ritorno alla terra, la superba eccellenza del Made in Italy alimentare ecc. ecc. — mi sono lanciata in quest’avventura. Sulla stampa e sui media siamo bersagliati da continue immagini da Mulino Bianco, che ci testimoniano le ardimentose esperienze di giovani sprezzanti del pericolo che hanno lasciato un’attività — o un’inattività — cittadina per dedicarsi alla terra, trasformando, grazie alle potenzialità offerte da questi tempi, quello che una volta era un lavoro inviso a tutti — lavorare la terra — in un’attività invidiabile oltre che, naturalmente, successful. Le attività verdi, insomma, sembrano diventate la mecca della nostra società. Sulla carta ciò non è sbagliato, il settore agricolo ha — o meglio avrebbe — grandi potenzialità. Potenzialità che però attualmente vengono vanificate in modo sistematico dai problemi cronici del nostro Paese.

Da dove cominciare? Forse dalla bilancia della mia cucina dove, oltre a pesare la farina e lo zucchero, spesso controllo il peso degli incartamenti burocratici. Per mettere in funzione l’impianto fotovoltaico ci sono voluti ben due chili di carte. Per ottenere il Psr, vale a dire il Programma di sviluppo rurale, finanziato con i fondi della Comunità europea, dallo Stato e dalle Regioni per sostenere — e incrementare? — questo settore, non credo che le carte necessarie siano molto inferiori di numero. Neanche gli addetti ai lavori sono ormai in grado di decifrare la scrittura cuneiforme dei burocrati! Dato che il mio principale strumento di lavoro è la lingua italiana, provo un senso di indignazione assoluta davanti alla perversione del burocratese. In questa nebbia legislativa può avvenire tutto e il contrario di tutto e — tra questo tutto e il contrario di tutto — prospera la grassa intercapedine della corruzione. Le imprese agricole dunque, come d’altronde ogni settore del nostro Paese, sono intrappolate in una quantità abnorme di leggi, molto spesso in contraddizione tra di loro, con un’aggravante in più. L’agricoltura è un’attività viva e mutevole, condizionata dalle stagioni e — ora più che mai — dalle bizzarrie meteorologiche. Aspettare, essere fermati, ritardare, bloccare per un intoppo burocratico può voler dire perdere o aver danneggiato il lavoro di un anno. L’allegro storytelling del ritorno alla terra mostra il suo vero volto di fronte alla nuda crudezza dei dati. Il ritmo di chiusura delle attività agricole è di 60 al giorno, per un totale di 172.000 aziende chiuse negli ultimi anni. Continuando di questo passo, secondo gli studi di Coldiretti, tra 33 anni nel nostro Paese non esisterà più neppure un’azienda agricola. Forse, allora, la scienza avrà trovato delle pillole in grado di sostentarci senza alimentazione ma, se così non sarà, anche «il Paese dove fioriscono i limoni» si trasformerà in una landa di migranti ambientali. Tra l’altro i limoni, povero Goethe, fioriscono sempre meno. In Sicilia, tanto per fare un esempio, il 50% degli agrumeti sono stati divelti, la stessa sorte stanno subendo i pescheti dell’Emilia, per non parlare dell’ecatombe di ulivi già avvenuta in buona parte delle regioni del Sud. Le politiche e le leggi comunitarie hanno — credo — una grande responsabilità in questo campo. Per quale ragione, infatti, una zucchina, per rientrare nella legalità, deve misurare 13 cm? E per quale altra, se non il delirio di un perverso, un grappolo di ribes deve avere almeno 12 chicchi per essere messo sul mercato? A chi giovano i frutti della terra trasformati in prodotti da catena di montaggio? Il resto del danno lo fa un mercato malato per cui un chilo di mele viene pagato 4 centesimi al produttore, mentre la sola raccolta ne costa 18. Si potrebbe farle raccogliere da chi ha bisogno, naturalmente, ma la legge non lo consente. Le grandi raccolte che venivano fatte unendo le forze — un giorno mi aiuti tu, un altro ti do una mano io — non possono più esistere e, oltre alla civiltà umana, è la frutta la prima vittima di questo sistema. Non resta allora che lasciarla marcire sugli alberi. Ma lasciar marcire qualcosa che era nato per nutrirci non può che evocare sinistri presentimenti. Presentimenti che si aggravano fino al panico quando a venir sradicati dalle ruspe sono centinaia, migliaia di alberi nel pieno del vigore vegetativo e produttivo. Come si può pensare che tutto questo non abbia conseguenze tragiche?

Fino ad ora, purtroppo, l’agricoltura nazionale è stata trattata alla stregua di un malato terminale: tenuta in vita con trasfusioni, tende di ossigeno, iniezioni di miracolosi prodotti rigeneranti il cui effetto è destinato a vanificarsi nel breve corso di una stagione. Di questo sostentamento artificiale hanno beneficiato soprattutto le realtà di grandi dimensioni. Alle aziende piccole, familiari, che costituiscono — o meglio, costituivano — l’ossatura della campagna italiana non è rimasto che soccombere. L’idea che la terra, lasciata a se stessa, ritrovi l’arcaica armonia di un primitivo Eden è un sogno da seguaci di Gaia che poco o nulla ha a che fare con la realtà. Abbandonati a sé, gli alberi in breve non producono più frutti, i campi lasciati incolti non generano cibo ma rovi e copiose malerbe. La stessa sorte subiscono i pascoli dismessi. In poco tempo la vegetazione prende il sopravvento ovunque, annullando la possibilità di creare risorse alimentari. Ormai da molto tempo coltivare la terra non rende più. Per le estensioni modeste, come quelle dei cereali, nel migliore — ma proprio nel migliore — dei casi, al massimo non si va in perdita. Il 23% del nostro territorio presenta ormai avanzati stati di degrado, percentuale che sale al 41,1% per il Centro-Sud. Dove degrado vuol dire deserto che avanza. E il deserto, è bene ricordarlo, è quel luogo in cui non cresce più nulla. Un Paese che avesse a cuore il proprio futuro farebbe estesissime campagne di ri-alfabetizzazione agraria, concederebbe incentivi e sgravi — per ora presenti soltanto, credo, in Lombardia e Veneto — a chi applica l’agricoltura antideserto. Modalità di agricoltura che, oltre a essere lungimirante, consentirebbe un risparmio da subito. La preparazione di un letto di semina, infatti, con il sistema tradizionale costa 375 euro a ettaro, mentre con le tecniche scientificamente più moderne può arrivare a costare 68 euro per ettaro. Invece, per il momento, lo Stato continua a spendersi con gran zelo nell’unica attività che sembra davvero capace di fare: sorvegliare le irregolarità e somministrare multe. Parafrasando il detto evangelico, verrebbe da dire che lo Stato va in cerca con spasmodica meticolosità di pagliuzze mentre con allegra sbadatezza si fa sfuggire le travi. «Mi arrendo! Non ce la faccio più!». Quante volte ho sentito ripetere queste parole! E quante realtà ho visto chiudere, mandando a casa uno, due, tre lavoratori! 

In chiusura, dato che il mio mestiere è quello di raccontare storie, permettetemi di fare qualche esempio in grado di aiutare la comprensione concreta della tanto inneggiata vita in campagna per chi non ne ha la consuetudine. L’anno scorso la vendemmia di un mio conoscente è stata interrotta bruscamente da un controllo dell’Inps. Abominio! Risultava che pagava quattordici operai e invece nella vigna ce ne erano soltanto tredici! Inutile spiegare che il quattordicesimo aveva la febbre e che sarebbe stato grave il contrario: tredici operai pagati e uno in nero. Per i funzionari questa incongruenza nascondeva qualcosa di losco che necessitava di ulteriori, vessatori accertamenti. Dunque, niente più vendemmia. Con il bel risultato che l’anno dopo il mio amico ha comprato una bella macchina con cui ha fatto la vendemmia e i tredici, anzi i quattordici, a malincuore, li ha lasciati per sempre a casa. A me è capitato, ad esempio, di dover ridipingere una serra — serra peraltro visibile soltanto dal cielo! — perché la tinta non è stata ritenuta perfettamente in linea con la volontà dei sorvolatori. La multa dunque può arrivare per una tinta «sbagliata» ma può venire anche per un cugino o una zia che sono venuti a darti una mano nel vigneto o nell’uliveto — sfruttamento di mano d’opera —, per una piccola tettoia ombreggiante che hai tirato su durante la canicola estiva — falso ideologico —, per un vecchio ciuchino che hai salvato dal macello e che non hai dotato di regolare passaporto.

Già, i passaporti degli equini! A raccontarla adesso viene da ridere ma qualche anno fa questa vicenda ha fatto piangere diverse persone. Un bel giorno, infatti, qualcuno in qualche stanza aveva deciso, di punto in bianco, che tutti i quadrupedi di origine equina dovessero essere forniti di questo documento. Decisione naturalmente mai comunicata per lettera agli interessati, vale a dire ai proprietari di vari ronzinanti, e così, senza nessun preavviso, erano fioccate le multe. «Dov’è il passaporto della bestia?». «Perché? Serve un passaporto?». «Certo! Non si è adeguato alla normativa?». «Veramente non sapevo...». «Non legge la Gazzetta Ufficiale?». «A dire il vero, no...». «Allora sono tremila a capo. Lei ne ha quattro. Dunque fanno dodicimila». Come sfuggire al dubbio che si trattasse dell’ennesimo folle balzello, dato che, dopo solo due anni, il passaporto degli equini non è stato più considerato obbligatorio? 

E per finire — potrei andare avanti all’infinito come Sherazade nelle Mille e una notte— vorrei raccontare ciò che è accaduto a una mia vicina di casa. La loro azienda produce bovini da carne e cereali. Oltre a questo, affittano una casa per le vacanze. Proprio mentre era intenta a pulire la casa per l’imminente arrivo degli ospiti, piomba un controllo dell’Inps. «A che titolo lavora in questa casa?» le chiedono. E lei serena: «Sono la padrona di casa». «Non è vero» le rispondono. «La casa risulta essere di suo marito». «Appunto...» cerca di controbattere la mia amica. «Ma lei non ha un regolare contratto di lavoro». «Sono la moglie» balbetta confusa, «siamo sposati da quarant’anni». Tutto inutile. L’alternativa era tra pagare ventimila euro di multa per lavoro in nero o l’immediata iscrizione all’Inps della moglie da parte del marito, anche se lei ha superato da un bel po’ i sessant’anni. Che dire? I caporali ringraziano! Nel 1840, John Ruskin durante un suo viaggio in Italia, annota nel suo diario: «Sono giunto alfine alla meta dopo aver subito l’assalto di una folta schiera di doganieri [...]. Vediamo nell’ordine: porta di Bologna, uscita: passaporto e gabella. Ponte, mezzo miglio più avanti: pedaggio. Dogana, due miglia innanzi, lasciati gli Stati Pontifici: passaporto e gabella. Dogana, dopo un quarto di miglio, entrati nel ducato di Modena, prima l’ufficiale della dogana, poi l’addetto ai passaporti. Versato un tributo a entrambi. Porta di Modena, entrata: dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Modena uscita: passaporto, gabella. Porta di Reggio, dogana, gabella, passaporto, idem. Porta di Reggio, uscita: passaporto, gabella. Cambio di cavalli, più avanti: passaporto, gabella. Entrata nel ducato di Parma, ponte: pedaggio, dogana, gabella, passaporto, idem. Dunque in totale sedici soste, con una perdita media di tre minuti e un franco ogni volta. Quello della dogana di Modena non s’è rabbonito per meno di cinque paoli; l’ufficiale pontificio di Bologna ci ha assicurato che in coscienza non poteva evitare la perquisizione per meno di una piastra. Nell’intero sistema c’è un che di furtivo e abietto: arriva il doganiere, poggia la mano lurida sulla carrozza e non molla la presa finché non vi infili un franco, altrimenti attacca a frugarti». Dal viaggio di Ruskin sono trascorsi centosettantasei anni. Le cose sono cambiate? Mah! Dato che il mio ciuchino ormai ha il passaporto, vien voglia davvero di saltare in groppa e lanciarsi al trotto verso le Alpi. Evitando ogni dogana, naturalmente.

·        Il Prezzo del pomodoro.

LA TERRA GIUSTA. IL PREZZO DEL POMODORO. Chiara Nardinocchi il 2 ottobre 2019 su La Repubblica. Non solo caporalato. Il costante ribasso dei prezzi da parte del mercato agricolo soffoca i piccoli produttori, mette in difficoltà le aziende di trasformazione e alimenta il circolo vizioso del lavoro nero. A farne le spese a cascata tutti i componenti della filiera. Eppure, con qualche centesimo in più e leggi ad hoc si potrebbero garantire i diritti e la legalità. Più della metà di tutti i pomodori prodotti in Europa arriva dall’ Italia, il 12% della coltivazione mondiale. Numeri non difficili da credere per chi percorre le strade del foggiano, del salernitano e di parte del sud Italia durante il periodo della raccolta. Il rosso e il verde sono i colori che predominano e in questa tavolozza ogni tanto si scorgono piccole chiazze. Sono i braccianti agricoli, per lo più provenienti da paesi extraeuropei, che ogni anno d’estate arrivano e mettono la loro forza lavoro a servizio di agricoltori. La manodopera agricola, la cui presenza è sempre più minacciata dai nuovi decreti sicurezza che rendono difficile ottenere un permesso di soggiorno, compongono la base su cui poggia l’intera piramide del business. Nel mezzo ci sono piccoli imprenditori, trasformatori, addetti ai trasporti e in alto, al vertice si erge la Grande distribuzione organizzata che da tempo determina il valore, le quantità e i compromessi cui dovranno scendere tutti gli altri attori per far fronte ai prezzi, troppo bassi, imposti. Un peso che a cascata ricade su tutti i componenti fino appunto alla base, agli operai agricoli che più di tutti pagano il conto salato dei prezzi stracciati di conserve e passate sugli scaffali dei supermercati. Una situazione insostenibile che sta dando vita giorno dopo giorno a iniziative che cercano di ritornare ad una dimensione di equità e giustizia sociale. Tra queste c’è Funky Tomato, il primo progetto in Italia che garantisce un contesto di legalità e rispetto di diritti per tutta la filiera. Buone pratiche che si traducono in lavoro contrattualizzato e in prezzi della materia prima concordati direttamente dall'azienda di trasformazione e dai piccoli imprenditori.

Il giusto prezzo, viaggio nella filiera del pomodoro. Dalla Puglia alla Basilicata, dalla Campania ai supermercati di mezza Italia. Un viaggio con Oxfam Italia per raccontare una filiera corta, legale e che ricompensa tutti gli attori in base al lavoro svolto. L'esperimento del progetto Funky Tomato intende dimostrare come un altro mercato sia possibile. L'economia circolare oltre a combattere lo sfruttamento ripartendo equamente il profitto, garantisce agli agricoltori un prezzo bloccato che permette di fare investimenti sul medio e lungo periodo e incrementare il guadagno. “Tutti i comparti della filiera agricola sono sotto scacco della figura dominante, è un processo inevitabile. Quando il rapporto è basato esclusivamente tra capacità di gestione dei rischi e capitale effettivo, è inevitabile che si generi questo meccanismo ed è per questo che abbiamo lavorato sul concetto di filiera”.Paolo Russo, fondatore di Funky Tomato. L’iniziativa è sostenuta da Oxfam Italia promotrice di questa “comunità economica solidale”, una filiera trasparente e partecipata di produzione del pomodoro che promuove rapporti di scambio orizzontali, democratici e mutualistici. A questo va affiancata la campagna “Al giusto prezzo” realizzata col contributo dell'Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo nell'ambito del progetto New business for good e nata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle dinamiche a volte malate del mercato. Accorciare la filiera quindi per diminuire il rischio speculazione e sfruttamento. Ma per combattere l’illegalità non basta. Agricoltori e imprenditori puntano anche sulla meccanizzazione dell’agricoltura che da sola non può essere la soluzione ma solo parte di questa. Alla meccanizzazione infatti deve affiancarsi il gioco di squadra dei diversi attori. Nelle aree a vocazione agricola gli imprenditori iniziano ad unirsi per aumentare le tutele per sé e per le parti più deboli della catena. Su questa scia è nata nel territorio della Capitanata, nel foggiano, Op Mediterraneo, una catena di piccole imprese agricole (circa 15) che hanno deciso di svincolarsi dai mediatori, per mettere al centro cooperazione e mutualità. “Questo meccanismo di sfruttamento del lavoro a noi ci reca dei danni. Si generano dei costi di produzione economici molto bassi che fanno sì che venga messo sul mercato un prodotto molto più competitivo”. Maria D’Aloia, vice presidente della OP Mediterraneo

“A questa - continua D'Aloia - va aggiunto il problema delle aste a doppio ribasso della grande distribuzione che di fatto soffocano i produttori”. La filiera dunque deve accorciarsi per poter garantire maggior controllo e la distribuzione differenziarsi e non guardare solo alla Gdo.

L'etichetta trasparente. Ingredienti, valori nutrizionali e data di scadenza sono solo alcune delle informazioni imposte per legge sulle etichette dei prodotti alimentari confezionati. Basterebbero poche altre indicazioni per rendere più 'trasparente' la filiera del prodotto e consapevoli i consumatori sulla legalità di ciò che stanno acquistando: qui un esempio di cosa c'è e cosa invece manca. Ma è possibile ripartire equamente i compensi, guadagnare e contemporaneamente non proporre un prodotto di élite? A rispondere è un imprenditore campano, a capo dell’azienda di trasformazione “La Fiammante” che oltre ad aver sposato il progetto, è stato anche uno dei primi a denunciare il fenomeno delle aste a doppio ribasso. Denunce che hanno portato alla presentazione di un disegno di legge, ad oggi approvato alla Camera e in attesa di esser votato al Senato, contro la vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari.

“Abbiamo fatto una scelta etica, ma siamo comunque una spa e dobbiamo fatturare”. A sottolinearlo è Francesco Franzese, ceo dell’azienda che ribadisce come il fine che è appunto il profitto, può essere raggiunto anche in un contesto di legalità. “La scelta è stata quella di puntare su prodotti di una qualità maggiore che permettono di minimizzare i costi di dispersione durante il processo produttivo e aumentare di qualche centesimo il prezzo del prodotto finale.”

Dizionario

ASTE INVERSE O A DOPPIO RIBASSO. Il meccanismo delle aste elettroniche inverse, o al doppio ribasso, viene utilizzato da alcune catene distributive. Le centrali d’acquisto della GDO aprono l’asta per uno stock di prodotti. Raccolte le proposte, lanciano una seconda asta, nuovamente al ribasso, partendo dal prezzo inferiore raggiunto durante la prima. In pochi minuti, su un portale web, il fornitore è chiamato a competere per aggiudicarsi la commessa. Chi si aggiudica la fornitura, dato il prezzo molto basso raggiunto, per garantirsi un esiguo margine, deve rivalersi sui produttori da cui acquista la merce. A loro volta, questi ultimi si possono trovare in difficoltà nel garantire i diritti fondamentali ai lavoratori agricoli. In tal modo, il meccanismo delle aste al doppio ribasso contribuisce a rendere più difficile l’eradicazione dello sfruttamento e del caporalato.

CAPORALATO. Forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, spec. agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali(da Enciclopedia Treccani).

FILIERA. Catena di passaggi produttivi che precedono l’arrivo della merce sullo scaffale del negozio (per es., nel settore della pasta secca, la filiera produttiva comprende la produzione di grano, la molitura, la produzione di pasta, il settore del confezionamento con film, inchiostri, adesivi, ecc., il magazzinaggio del prodotto finito, il trasporto fino alla vendita nei punti di distribuzione)(da Enciclopedia Treccani).

GDO. Acronimo di Grande distribuzione organizzata. Tipologia di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non di largo consumo, realizzata tramite la concentrazione dei punti vendita in grandi superfici (non minori di 200 m2 ma che arrivano anche a superare 4000 m2) e la gestione a carico di catene commerciali che fanno capo a un unico marchio. Tali aggregati sono costituiti da centri commerciali, mall, factory, outlet centre, catene di discount, e così via(da Enciclopedia Treccani).

ECONOMIA CIRCOLARE. Sistema economico che tende ad autosostenersi sia da un punto di vista ambientale che socioeconomico. Si contrappone al modello economico “lineare” adottato dal XIX secolo in poi fondato su un’economia industriale, estrattiva e basato sul consumo di massa. Negli ultimi anni alcuni grandi nomi della grande distribuzione organizzata hanno fatto passi avanti verso un nuovo mercato, più giusto, legale e rispettoso dei diritti individuali. Altri invece restano sordi alle richieste di produttori, ong e sindacati. Il tutto per garantire prezzi sempre più competitivi e attirare quindi più consumatori. I cittadini possono dunque fare la differenza con le loro scelte e chiedere a gran voce più rispetto e più informazioni. “Il futuro è solo questo, i processi produttivi devono essere inclusivi. Si parla di responsabilità ambientale e sociale d’impresa che è quello che stiamo facendo noi. Noi siamo avanguardia di quello che inevitabilmente sarà per tutti. Se tu produci impatti e quando impatti devi ridistribuire. Questo è il futuro dei processi produttivi”.Paolo Russo, fondatore di Funky Tomato.

La normativa. Negli ultimi anni il fenomeno del caporalato è stato al centro del dibattito politico in seguito a fatti di cronaca spesso tragici avvenuti durante la stagione della raccolta soprattutto in specifiche aree d’Italia. Fatti che hanno scosso l’opinione pubblica e che hanno portato a formulare un nuovo impianto normativo volto a tutelare i braccianti. La legge 199/2016 dal titolo “Disposizioni per contrastare il fenomeno del lavoro irregolare e dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura” stabilisce che commette caporalato chi, sfruttando la loro condizione di povertà, recluti braccianti destinati a lavorare in condizioni di sfruttamento o chi ricorra a questi intermediari e sfrutti persone bisognose. A sostegno di questa norma c’è anche la legge regionale del Lazio approvata il 14 agosto 2019 che introduce a livello regionale gli indici di congruità per individuare le aziende virtuose e quelle che invece impiegano personale irregolare, offrendo premialità alle prime e penalizzando le seconde nell'erogazione dei fondi. Inoltre, istituisce un osservatorio sul lavoro in agricoltura e gli elenchi di prenotazione, ovvero delle liste in cui sono messe a confronto domanda e offerta di lavoro col fine di far emergere il sommerso. Contro le dinamiche del mercato che portano allo sfruttamento c’è la direttiva europea 2019/633 approvata ad aprile 2019 che dovrà essere recepita dall’Italia e da tutti gli stati membri entro maggio 2021. La legge vuole combattere le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare e "contrastare le pratiche che si discostino nettamente dalle buone prassi commerciali, che sono contrarie ai principi di buona fede e correttezza e che sono imposte unilateralmente da un partner commerciale alla sua controparte". Sul tavolo c’è anche la proposta di legge 1549-A “Disposizioni concernenti l’etichettatura, la tracciabilità e il divieto della vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari, nonché delega al Governo per la disciplina e il sostegno delle filiere etiche di produzione”. Il testo già approvato alla Camera, è ancora fermo al Senato. Nata dall’iniziativa privata, la proposta vuole vietare dinamiche che avvelenano le filiere produttive asfissiando i produttori e ricadendo sui braccianti come le aste a doppio ribasso.

·        Il prezzo dell’Olio extra vergine, i conti proprio non tornano.

Olio extra vergine, i conti proprio non tornano: nei supermercati bottiglie a 2,99 euro al litro. Eppure... Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 27 Ottobre 2019.  Con l' autunno arriva anche il raccolto delle olive che quest' anno, fra l' altro, non è poi così male. Secondo le previsioni del consorzio Italia Olivicola, dai nostri uliveti dovrebbe uscire il necessario per ottenere 330mila tonnellate di olio, un dato che quasi raddoppia (+89%) la produzione finale dello scorso anno, fermatasi intorno alle 175mila tonnellate. Ora più che mai sui social media, Facebook soprattutto, si moltiplicano le polemiche sulle offerte che si trovano nella grande distribuzione, con gli olivicoltori e i piccoli frantoiani - più i primi dei secondi, in verità - incazzati come tori da corrida. «2,99 euro al litro! Manco l' olio da motore», scrive ad esempio Santino, produttore del Barese. «Uno scandalo senza fine: con questi prezzi moriamo», gli fa eco Carmine, che coltiva olive attorno a Mazara del Vallo, Sicilia. «Smetto, vadano al diavolo tutti, anche i consumatori», sentenzia invece Francesco che produce extravergine nella Val Vibrata, in Abruzzo. Le esternazioni degli olivicoltori, infarciti da epiteti irriferibili, sono più o meno tutte di questo tono. E raccolgono migliaia di «mi piace». Il popolo della rete si indigna e sta dalla parte dei nostri piccoli e piccolissimi produttori. Il tema è il solito. Non si può vendere olio extravergine a questi prezzi. Una bottiglia di «vero» olio extravergine di oliva, si dice, non dovrebbe costare meno di 10-12 euro. Ma siamo sicuri che sia così? L'equivoco dell'origine - Vi confesso che in passato anch' io sono caduto nella trappola e ho ricostruito, voce per voce, i costi di un piccolo frantoio come ce ne sono a centinaia, sparsi per le colline del nostro Appennino. Arrivando alle medesime conclusioni: per un litro di oro verde italiano, imbottigliato ed etichettato correttamente, si arriva a spendere facilmente dagli 11 ai 13 euro. Ma si tratta di un equivoco. Vediamo perché. Innanzitutto i prodotti offerti con i super sconti nella grande distribuzione dichiarano tutti: «origine Ue». Dunque non ha senso paragonarli con i nostri. Proprio per una questione di costo. Bastano due cifre a chiarire la questione. Nella terza settimana di ottobre, quella che va dal 14 al 20, le quotazioni all' origine dell' extravergine 100% italiano sono risalite un po' attestandosi a 4,43 euro al chilogrammo, in aumento del 4% sulla settimana precedente, ma in calo del 13,7% sul medesimo periodo del 2018. Sempre nella terza settimana di ottobre l' extravergine origine Spagna si pagava 2,36 euro al chilo, il greco 2,73 e 2,31 quello made in Tunisia. Occhio al confronto - Decisivo il confronto fra queste quotazioni e i prezzi non scontati dichiarati sui cartellini per le bottiglie vendute in offerta nella grande distribuzione. E visto che quasi tutti i prodotti messi in vendita a sconto, tranne due, dichiarano «origine Ue», il raffronto non va fatto con i costi della materia prima italiana, ma con quella straniera. Ad esempio i 2,36 euro dell' extravergine spagnolo. Così i 5 euro di prezzo intero dell' olio «Oliveta classico» - offerto dalla Coop con lo sconto del 40% a 2,99 euro al litro - sono comunque più del doppio rispetto alla materia prima «made in Spain». Un valore compatibile con i costi della grande industria olearia che movimenta milioni di bottiglie. Dunque c' è poco da scandalizzarsi. Semmai è meno comprensibile che si trovi in vendita, al Lidl, una Dop come Terre di Bari Bitonto a 5,99 euro al litro. Ma nei discount tutto è possibile. Attilio Barbieri

·        Una chimera chiamata sovranismo alimentare

Una chimera chiamata sovranismo alimentare. Fabrizio de Feo, Mercoledì 15/05/2019, su Il Giornale. Non sono più i tempi dell'autarchia alimentare e della spinta di Stato (o di regime) al consumo dei prodotti nazionali come il grano e il riso, della sostituzione del tè - in mano alla Perfida Albione - con il carcadé proveniente dall'Eritrea, allora colonia italiana (oggi diventato uno smartfood piuttosto di moda), degli orti di guerra, dello zucchero e del caffè banditi dalla tavola degli italiani. Il Ventennio è lontano e l'Italia oggi lotta in un mercato globale per difendere le proprie eccellenze. Ma nella stagione del sovranismo il nostro Paese continua a faticare a trovare l'autosufficienza alimentare, stretta in un meccanismo in cui terreni, allevamenti, marchi, reti distributive sono sempre più concentrate in mani straniere e in cui si perdono milioni di ettari coltivabili a causa dell'abbandono delle terre. Un paradosso che resiste nel tempo e si aggrava a causa della diminuzione dei terreni destinati all'agricoltura. «Abbiamo un fiorire di movimenti sovranisti, ma il ministero delle Politiche Agricole ci ricorda invece che oggi il nostro Paese è in grado di produrre appena l'80-85% del nostro fabbisogno alimentare, contro il 92% del 1991. In neanche 20 anni abbiamo ridotto dal 7 al 12% la nostra sovranità alimentare» raccontava alcuni giorni fa Domenico Finiguerra del Forum nazionale «Salviamo il paesaggio-difendiamo i territori» in un'audizione davanti alle commissioni Agricoltura e Ambiente del Senato. «Per tutelare e riprenderci la sovranità alimentare - spiega - dobbiamo fare i conti col fatto che stiamo perdendo suoli agricoli tutti i giorni».

O SI INVESTE O SI MUORE. Il caso più eclatante è quello delle scorte dell'olio 100% italiano che si sono esaurite a inizio maggio a causa di un calo della produzione del 58%. Ma il discorso è più ampio e riguarda il grano duro per la pasta, lo zucchero, il pesce. E ancora il settore lattiero caseario e in generale tutto il comparto zootecnico nel quale scontiamo i vincoli strutturali del territorio italiano privo delle grandi estensioni necessarie per lo sviluppo di un settore ad alto fabbisogno di suolo come quello zootecnico. Gli allevamenti italiani, insomma, come spiega l'Ismea «non hanno dimensioni tali da soddisfare il fabbisogno interno di materia prima». Tanto che due prosciutti su tre derivano da maiali stranieri. Il ministro dell'Agricoltura Centinaio sta cercando, con la vendita di 7700 ettari in tutta Italia, di attirare giovani verso l'agricoltura. Ma il problema resiste. Con alcuni paradossi, come quello dell'olio, settore dove spesso si esporta qualità e si importa prodotto scadente in uno scambio non certo conveniente per il consumatore italiano. «È stata una stagione complicatissima» spiega David Granieri, presidente di Unaprol, la più consistente associazione del settore olivicolo a livello nazionale e comunitario che rappresenta gli interessi di 250 mila imprese associate in Italia. «Il 2018 è stato segnato da una produzione eccezionalmente contenuta per quanto riguarda il nostro olio producendo ammanchi di produzione del 50%. Siamo a un minimo storico di 180mila tonnellate e il primo maggio le scorte di olio italiano sono finite, secondo i dati di Frantoio Italia. L'Italia è un produttore importante, ma è anche un grande Paese consumatore di olio. Il nostro autoconsumo si attesta sulle 600mila tonnellate, ma ne rivendiamo all'estero 550mila tonnellate. In sostanza quest'anno rischiamo di poter coprire soltanto il 15% del nostro fabbisogno».In questa situazione l'Italia rischia di trasformarsi in una facile preda per altri Paesi produttori come la Spagna: Madrid, di fronte a questo scenario, si trova nelle condizioni di entrare ancora più pesantemente nel mercato italiano. «Siamo a rischio, noi che da sempre siamo il Paese simbolo dell'olio extravergine. Se il governo non decide di investire in questo comparto rischiamo di scomparire».

LA SFIDA FRANCESE. Il tema dell'autosufficienza sta tornando prepotentemente di attualità. «La sovranità produttiva è parte fondante del nostro sistema agroalimentare» continua Granieri. «L'Italia si fonda su un modello agroalimentare e turistico in cui si esporta la cultura del territorio. Negli anni passati abbiamo ceduto quote importanti del nostro mercato, oggi sta tornando al centro del dibattito la necessità di essere autosufficienti, come già fa la Francia». Raffaele Maiorano, presidente di Confagricoltura Giovani, si sofferma sul paradosso qualitativo dell'import-export. «In annate normali produciamo quasi tutto l'olio che ci serve, ma in gran parte lo esportiamo quindi siamo costretti a comprarlo. E spesso la qualità importata è più bassa». Una lettura diversa arriva da Francesco Bruno, docente di diritto alimentare alla Sapienza e al Campus Biomedico. «Per ogni problema complesso c'è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. Sicuramente George Bernard Shaw non aveva contezza del sistema produttivo italiano quando ha coniato questa frase. L'olio di oliva e molte derrate agricole sono ai minimi storici produttivi, la dieta italiana e il Made in Italy nei consessi internazionali sono sotto attacco, incombe un atteggiamento governativo (almeno di una parte di esso) anti-imprenditoriale. Ma non serve l'autosufficienza alimentare, serve una nuova di politica di settore. Le imprese agroalimentari necessitano di una competizione regionale, interregionale e globale, di un approccio selettivo e qualificato che guardi a una dimensione quantomeno mediterranea se non planetaria degli scambi in cui il valore aggiunto della nostra penisola può ancora giocare una partita vincente. E c'è un precedente incoraggiante. Lo scandalo del vino al metanolo fu l'occasione per la riconversione dell'intero settore vitivinicolo. Dobbiamo giocare la stessa partita vincente per l'intero comparto alimentare italiano».

NON SOLO CANNA. Un altro settore che è in sofferenza è quello dello zucchero. «Fino al 2005 l'Italia era autosufficiente» spiega Claudio Gallerani, presidente della Cooperativa Produttori Bieticoli (Coprob) «poi è arrivata la riforma europea del 24 novembre 2005 in cui venivano tagliati i prezzi alla produzione del 36% e aumentate le compensazioni; la produzione italiana ha subito una ecatombe». Nell'ultimo decennio, insomma, l'Italia ha notevolmente ridotto la propria capacità produttiva e la maggior parte degli zuccherifici è stata chiusa. Se dieci anni fa c'erano 19 zuccherifici in Italia, oggi ce ne sono solo due; la superficie coltivata era di 233mila ettari e oggi sono 34mila; la produzione di zucchero era di 1,4 milioni di tonnellate e oggi è di 300mila; i dipendenti erano 7mila e oggi sono 1.200, con una copertura del 15-20% del nostro fabbisogno». Oggi «Coprob è l'unico produttore nazionale di zucchero 100% made in Italy» continua Gallerani, «sostenibile e di alta qualità e sta investendo in innovazione e qualità con lo zucchero biologico, ma anche con il lancio di Nostrano, il primo zucchero grezzo ricavato dalla barbabietola, anziché dalla canna da zucchero come avviene solitamente (è uno zucchero più scuro e meno dolce), pensato per consumatori orientati verso cibi genuini e poco raffinati la garanzia della qualità e della sicurezza alimentare tipiche del made in Italy». Il mito dell'autosufficienza alimentare da sempre si lega con la produzione di grano, tanto più in un Paese che ha nella pasta il simbolo dell'italianità a tavola. Gli italiani consumano 26 kg a testa di pasta l'anno. Neppure in questo campo, però, siamo autosufficienti. Si importa grano duro dall'estero per soddisfare un fabbisogno annuo di 6 milioni di tonnellate rispetto a una produzione nazionale media di 3,5/4 milioni di tonnellate ma soprattutto per rispondere alle esigenze qualitative che spesso il grano italiano non soddisfa.

UN POPOLO DI PASTASCIUTTARI. L'Italia è il primo produttore europeo di grano duro, con una raccolta che nel 2015 è arrivata attorno ai 4 milioni di tonnellate. Tuttavia non siamo mai stati autosufficienti dall'Ottocento, quando era straniero il 70% di grano duro, il doppio di oggi e nei porti di Napoli, Genova e Bari arrivava un grano proveniente per il 90% dal Mar Nero. Da allora la produzione di pasta è aumentata di circa sei volte negli ultimi 80 anni. Oggi la nostra produzione copre solo il 70% del fabbisogno. All'origine della pasta c'è sempre il grano, quello duro anzitutto, più ricco di proteine, ma anche i grani antichi, come Tumminia o Senatore Cappelli. Ma ogni anno ne arriva tanto da Francia, Canada, Stati Uniti o Australia. E tutto questo nonostante il settore pasta rappresenti la prima voce del nostro export agro-alimentare valendo da solo un quinto delle esportazioni. Per i grandi produttori usare solo grano italiano è difficilissimo. Ma per i produttori medio-piccoli usare solo grano 100% italiano sta diventando una opzione sempre più attraente e una leva di marketing importante per evocare storia, appartenenza e suggestione del territorio. E fondere cibo, terra e prodotto in una sola parola.

·        Gli stranieri? Li nutriamo a casa loro.

Gli stranieri? Li nutriamo a casa loro. Ecco i migliori ristoranti italiani in sei delle metropoli più iconiche del mondo. Scrive Andrea Cuomo, Venerdì 26/04/2019, su Il Giornale.  D'accordo, noi siamo di quelli che pensano che andare a cercare cucina italiana all'estero sia una bizzarra forma di autolesionismo. Non ce n'è bisogno, in ogni Paese si mangia una buona cucina locale se si sa cercare. Quindi questa non è una guida galattica allo spaghetto alla bolognese. Epperò è bello sapere che nel resto del mondo esistano locali in cui viene proposta dell'autentica buona cucina italiana, lontana dagli strafalcioni, dal vernacolo, dalle Fettuccine all'Alfredo, dalla Carbonara con la panna, dalle polpette negli spaghetti e dall'ananas sulla pizza. Abbiamo così cercato i migliori ristoranti italiani nelle principali città del mondo, uno per metropoli. E ve li raccontiamo.

Londra. Heinz Beck ha ormai quasi dimenticato le sue origini tedesche (solo la sua pronuncia ce lo ricorda) diventando uno dei massimi interpreti della cucina italiana, con quel classico secchionismo teutonico. Nel suo ristorante londinese (Beck at Brown's), ospitato da un antico hotel di Mayfair, ha messo in cucina il suo allievo Heros De Agostinis, che si è fatto le ossa in molte cucine prestigiose e anche per diversi anni alla Pergola. La cucina è convincentemente italiana, molto alta per ambizioni e ricerca, al punto da scioccare qualche critico inglese, abituato al cliché della tovaglia a scacchi. La radice è familiare, lo svolgimento stagionale e casual, con l'obiettivo di fidelizzare il cliente. Piatto bandiera: Spaghetti al limone con scampi e fave.

Parigi. Da anni il romano Gianni Passerini seduce la capitale francese con la sua cucina bistronomica, fatta di pochi fronzoli e tanta concretezza. Quando aprì Rino, nel 2007, in poco tempo conquistò pubblica e critica. E lo stesso è accaduto quando ci ha messo il nome nel Restaurant Passerini nel XII arrondissement. Al punto che un paio di anni fa una rivista francese, «Le Fooding», molto amata dai millennials, lo ha nominato migliore chef dell'anno. Particolare attenzione è data alla pasta fresca, che nel vicino Pastificio Passerini che manda in visibilio i francesi. Piatto bandiera: Tonnarelli cacio e pepe.

Tokyo. Allievo di maestri straordinari quali Gualtiero Marchesi, Andoni Luis Aduriz, Heinz Beck e Carlo Cracco, il veneto Luca Fantin è da qualche anno l'ambasciatore della cucina italiana di qualità in Giappone, nel bellissimo Ristorante Fantin del Bulgari hotel di Ginza. Il suo miracolo è ricreare un'autentica cucina italiana nell'essenza pur attingendo a ingredienti spesso locali, in particolari il pesce e i crostacei. Fantin ha insomma inventato la cucina italonipponica e la critica locale stravede per lui. Il menù è scritto in italiano, giapponese e inglese. Piatto bandiera: Spaghetti Monograno Felicetti ai ricci di mare.

New York. È questo l'unico caso in cui la migliore interpretazione della cucina italiana è affidata a uno chef straniero: Michael White, che in Italia, al San Domenico, si è formato. Marea, il suo locale nei pressi di Central Park, al netto di qualche concessione all'italoamericanismo è ortodosso e di altissimo livello. Piatto bandiera: Polpo alla griglia, patate affumicate, cipolle rosse in salamoia, peperoncini, tonnato.

Hong Kong. Umberto Bombana ha un record: è l'unico ristoratore italiano all'estero ad avere tre stelle Michelin. Una cena nel suo Otto e Mezzo è un'esperienza da ricordare, a partire dai quadri di Andy Warhol e Pablo Picasso e dalle celle dedicate al prosciutto, ai formaggi, al tartufo. Pur non essendo la cucina del vulcanico Bombana semplicemente tricolore (un ristorante tristellato non può limitarsi a un solo vocabolario) ma attingendo anzi a numerose ispirazioni e mercati, è profondamente italiana nell'attitudine e nell'atteggiamento. Uno di quei locali dove magari non mangeremo mai ma la cui sola esistenza deve renderci orgogliosi. Piatto bandiera: Cavatelli con ragù di frutti di mare e ricci.

Singapore. In una città-crocevia, al centro di stimoli di ogni genere, l'unico ristorante italiano davvero convincente ha un nome allarmante (Garibaldi) ma si avvale della mano del bresciano Roberto Galetti, che grazie al suo rigore filologico poco incline all'oleografia ha guadagnato di recente una stella Michelin. Piatto bandiera: Risotto Acquerello ai frutti di mare.

·        L’acqua in bottiglia è uno dei maggiori imbrogli del secolo.

12 ragioni per cui l’acqua in bottiglia è uno dei maggiori imbrogli del secolo, scrivono Erin Brodwin e Aylin Woodward su it.businessinsider.com il  19/4/2019. Quasi 780 milioni di persone in tutto il mondo non hanno accesso a una fonte di acqua potabile (acqua che scorre da un rubinetto di casa, da un pozzo o da una sorgente protetta). Negli Usa, il 99,2% della nazione ha accesso all’acqua pulita del rubinetto, ma molti statunitensi scelgono di bere acqua in bottiglia perché preoccupati dal cattivo sapore e dalla contaminazione. L’acqua in bottiglia e quella potabile del rubinetto sono virtualmente identiche in quanto a purezza e sapore. In uno studio del 2011, solo un terzo di chi l’ha assaggiata senza conoscerne la provenienza ha identificato correttamente l’acqua del rubinetto rispetto a quella in bottiglia. Diversamente da quella del rubinetto, però, l’acqua in bottiglia ha un processo costoso in termini di produzione e di consumo di risorse che richiede petrolio grezzo e acqua supplementare. Non c’è niente di meglio di un bicchiere di pura acqua ghiacciata. Ma mentre alcuni statunitensi bevono l’acqua del rubinetto, gli altri pagano per quella imbottigliata — 100 miliardi di dollari all’anno. Il prezzo medio dell’equivalente di un litro d’acqua in bottiglie monoporzione negli Usa è di circa 2,5 dollari, secondo il FoodandWaterWatch. Quasi tre volte il prezzo medio del latte, e quasi quattro volte il prezzo medio della benzina normale, sempre negli Usa. L’acqua in bottiglia costa circa 1.000 volte più di quella del rubinetto, che costa meno di 0,25 centesimi al litro. Molte persone danno per scontato che il prezzo superiore sia giustificato dai benefici per la salute, ma in molti casi, ciò non è vero. La Giornata mondiale dell’acqua, celebrata quest’anno il 22 marzo, ha lo scopo di attirare l’attenzione nei confronti delle diseguaglianze di accesso in tutto il globo. In tutto il mondo; 780 milioni di persone non hanno accesso a una fonte di acqua potabile. Ma per la gran parte degli statunitensi l’acqua del rubinetto e quella in bottiglia sono simili in termini di salubrità e qualità. In alcuni casi, l’acqua pubblica del rubinetto potrebbe esser più sana, dato che generalmente viene controllata più spesso. Oltretutto, probabilmente l’acqua in bottiglia è contaminata a da particelle di microplastica più dell’acqua del rubinetto. “È sbagliato credere che negli Usa l’acqua in bottiglia sia per qualche motivo più pulita, sana o sicura dell’acqua del rubinetto”, ha detto a Business Insider Peter Gleick, scienziato ambientale e cofondatore del Pacific Institute. Ma ci sono eccezioni: l’acqua che proviene da pozzi privati non sottostà agli stessi controlli rigorosi dell’acqua proveniente da fonti pubbliche. E, come è avvenuto a Flint, nel Michigan, alcune fonti pubbliche non vengono controllate adeguatamente. Ciononostante, ci sono un sacco di motivi per cui la maggior parte delle persone dovrebbe smettere di spendere soldi per l’acqua in bottiglia. Ecco quel che c’è da sapere.

Il primo caso documentato di acqua venduta in bottiglia è stato a Boston, nel Massachusetts, negli anni Sessanta del 1700. Una società chiamata Jackson’s Spa imbottigliò e vendette acqua minerale per uso “terapeutico”. Anche società di Saratoga Springs e di Albany confezionavano e vendevano acqua. Gli statunitensi consumano complessivamente più acqua confezionata di tutte le persone in qualsiasi altra nazione al mondo, Cina esclusa. In tutto il mondo, ogni anno le persone bevono circa il 10% in più di acqua in bottiglia. Su base pro capite, gli USA sono al sesto posto nel consumo di acqua in bottiglia. Leggi anche: Questa mappa animata mostra come è cambiata la quantità d’acqua in 34 regioni del pianeta. Oggi, gli statunitensi bevono più acqua in bottiglia che non latte o birra. Ogni persona consuma approssimativamente 150 litri di acqua in bottiglia all’anno. Nel 2016 gli statunitensi hanno bevuto per la prima volta in assoluto più acqua in bottiglia che bibite gassate. Michael Bellas, presidente e AD di Beverage Marketing ha dichiarato l’anno seguente, “L’acqua in bottiglia ha di fatto rimodellato il mercato delle bevande”. Bere acqua in bottiglia costa 2.000 volte di più rispetto a bere quella del rubinetto. Ma questa cifra, secondo alcune analisi, potrebbe essere addirittura superiore perché la maggior parte delle vendite avviene per singole bottiglie. I produttori di bibite sono consapevoli di quanto sia lucrativa l’acqua in bottiglia — imprese come la Coca-Cola e la PepsiCo hanno già investito in proposito. Nel 2017, la Pepsi ha acquistato 30 secondi di pubblicità durante il Super Bowl per presentare il suo marchio premium di acqua in bottiglia LIFEWTR. “La cosa peggiore sono le dichiarazioni menzognere fatte da alcune acque in bottiglia ‘specializzate’ che pubblicizzano effetti magici grazie dell’aggiunta di ossigeno, della riorganizzazione dei cristalli o di altri riti esoterici”, ha detto Gleick. E ha aggiunto che “anche le società principali di tanto in tanto fanno pubblicità che calunniano direttamente o indirettamente l’acqua del rubinetto”. Le ricerche suggeriscono che per la maggior parte degli statunitensi, l’acqua di una bottiglia non è migliore di ciò che esce dal rubinetto. Una ricerca ha scoperto che, in effetti, quasi la metà delle acque in bottiglia sono ottenute da acqua del rubinetto, che tuttavia potrebbe poi essere ulteriormente processata e analizzata. Nel 2007, Pepsi (Aquafina) e Nestle (Pure Life) hanno dovuto cambiare le proprie etichette per evidenziarlo con più precisamente. “L’acqua in bottiglia non è regolata, analizzata o controllata meglio di quella del rubinetto, e spesso è controllata meno”, ha detto Gleick. “Dove ci sono problemi con l’acqua del rubinetto, la soluzione è di investire per modernizzare e sistemare il nostro sistema idrico, non di passare all’acqua in bottiglia”, ha aggiunto. In effetti, generalmente l’acqua del rubinetto è sottoposta a prove per la qualità e la contaminazione più frequentemente rispetto alle acque in bottiglia. Queste analisi sono svolte dalla Environmental Protection Agency. Però, la qualità dell’acqua del rubinetto può variare da luogo a luogo. Secondo una legge dell’EPA, gli statunitensi dovrebbero ricevere annualmente un rapporto sulla qualità dell’acqua potabile, o Consumer Confidence Report, che dettaglia la provenienza e la composizione dell’acqua, consultabile anche tramite il link sottostante. Tuttavia, chi appartiene a una delle 15 milioni di famiglie Usa (soprattutto rurali) che ottiene l’acqua da bere da un pozzo privato, non beneficia del controllo della qualità dell’acqua da parte dell’Epa. L’acqua potabile, quella dei pozzi compresa, può essere contaminata. L’agenzia dice sul proprio sito che “Il proprietario è responsabile della manutenzione e della sicurezza della propria acqua”. L’acqua di quei pozzi potrebbe non essere sicura. In un rapporto del 2011, il 13% di pozzi privati analizzati dai geologi contenevano almeno un elemento (come arsenico o uranio) con una concentrazione maggiore a quella prevista dalle linee guida nazionali. La recente diffusione dell’acqua in bottiglia potrebbe essere dovuta alle crescenti preoccupazioni per la purezza dell’acqua del rubinetto. Un sondaggio condotto nel 2017 da Gallup ha scoperto che il 63% degli statunitensi era “molto” preoccupato per l’inquinamento nell’acqua potabile. Genetha Campbell trasporta acqua distribuita gratuitamente al Lincoln Park United Methodist Church di Flint, nel Michigan il 3 febbraio 2015. Si trattava della maggiore percentuale di preoccupazione dal 2001. “La fiducia nei nostri sistemi idrici urbani sta diminuendo a causa di disastri evitabili come quello di Flint, nel Michigan”, ha detto Gleick. Anche se alcune persone si lamentano del sapore dell’acqua del rubinetto, probabilmente la maggior parte di noi non la distinguerebbe. In un test alla cieca eseguito su studenti della Boston University, solo un terzo degli assaggiatori ha identificato correttamente il campione di acqua del rubinetto. Inoltre, produrre l’acqua in bottiglia è un procedimento costoso che consuma risorse. Come altre materie plastiche, il materiale delle bottiglie d’acqua deriva dai sottoprodotti del petrolio grezzo. Uno studio pubblicato nel 2009 nel giornale Environmental Research Letters rivelava che la plastica delle bottiglie d’acqua consumate negli Usa nel 2007 derivava dai sottoprodotti di quantità di petrolio compresa tra i 32 e i 54 milioni di barili. Oltretutto, nella realizzazione di una bottiglia si consuma più acqua di quella contenuta: le società nord americane usano 1,39 litri d’acqua per produrre un litro di quella in bottiglia. Potresti pensare: “Almeno le bottiglie vengono riciclate, giusto?”. Sbagliato. Su sei bottiglie d’acqua usate dagli statunitensi, solo una finisce nella raccolta differenziata. Per cui, la prossima volta che pensi di comprare acqua in bottiglia, ricordati di questi fatti.

·        La sinistra senza Nutella.

CHE SINISTRA SAREBBE SENZA NUTELLA?  il 17 aprile 2019. Dopo il latte di pecora, le arance, i mandarini e le olive, sta per scoppiare ora anche la guerra delle nocciole? È curioso, perché questo frutto è molto richiesto, in Italia e all' estero, e ha fatto la fortuna dei coltivatori, soprattutto di tre regioni italiane (Lazio, Toscana, Umbria), ma anche di quelli della Campania, del Piemonte e della Sicilia. Pensate che, oltre alla vendita a buon prezzo del prodotto sgusciato alla Ferrero e ad altre aziende dolciarie, gli agricoltori, che prima regalavano i gusci, oggi li commercializzano a 12-15 euro a quintale perché vengono utilizzati nelle caldaie, come combustibile, per riscaldare esercizi pubblici e abitazioni. Insomma, del nocciolo non si butta nulla, come i maiali. E allora perché lamentarsi se la natura - meglio, la nostra agricoltura - riesce ad essere così generosa per chi ci lavora? Come spiegheremo, però non tutto è oro quel che luccica. Sono infatti molte le associazioni ambientaliste, ma anche quelle parapolitiche (quasi tutte di sinistra che strumentalizzano questo problema), uscite allo scoperto, coinvolgendo Comuni, Province, associazioni nella lotta alla monocultura, che provocherebbe gravi danni all' ambiente e alle altre colture. Infatti, l' abnorme crescita dei noccioleti (un' eccellenza mondiale del nostro Paese), che comporta anche una forte intensificazione di pesticidi per incrementare la produzione, comporta il diradamento e la morte di tutte le altre storiche colture. Nel nostro paese sono coltivati a nocciolo (dati Istat 2015) 72.000 ettari, con una produzione di 46.000 tonnellate annue (di cui 45.000 concentrate nella provincia di Viterbo). Segue la Campania, con 40.000 tonnellate (di cui più di 15.000 nella provincia di Avellino) e il Piemonte, con circa 20.000 tonnellate (concentrate nella nocciola tonda gentile delle Langhe). Tra le regioni in forte crescita ricordiamo la Sicilia, con 12.000 tonnellate (provincia di Messina). Il nocciolo (dal greco còrys, che significa «elmo») negli ultimi anni ha conosciuto un boom di produzione perché è fortemente richiesto dall' industria dolciaria e, in particolare, dalla multinazionale Ferrero per la Nutella e gli altri prodotti dolciari. Al punto che è costretta ad importarla dalla Turchia (che detiene il primato della produzione nel mondo, col 70 %). L' Italia è al secondo posto (con il 13%) e al primo in Europa, seguita da Stati Uniti (4%), Spagna, Azerbajian, Georgia (ciascuno con il 3%). La domanda mondiale è talmente in crescita che la nostra produzione è insufficiente, nonostante che dal 2000 sia stata incrementata di ben il 35 %. Ma la Ferrero è stata costretta a ricorrere alle importazioni di nocciole anche da Paesi con scarsi quantitativi produttivi, come il Cile, il Sudafrica, l' Australia. Il prodotto made in Italy è però riconosciuto come il migliore in assoluto ed è il più richiesto dalle aziende di trasformazione. I coltivatori investono largamente perché il prodotto (soprattutto nei terreni con molta acqua) rende bene. A Orvieto, dove si è svolto pochi giorni fa un convegno di coltivatori e ambientalisti, un tecnico agricolo ci ha detto che un ettaro di terreno che si comprava due-tre anni fa a 10-12.000 euro, oggi - se coltivato a noccioleto - vale non meno di 80.000 euro. Si spiega così la corsa alla produzione di «elmi» che, tra l' altro, a sentire i medici fanno bene alla salute (riducono il rischio di malattie cardiovascolari, aiutano le donne in gravidanza, contengono vitamina E che protegge le cellule dallo stress ossidativo, come integratore naturale porta giovamento alle ossa, contro lo stress e la stanchezza, e il cui olio viene utilizzato nella cosmetica). Ma vediamo l' altra faccia della medaglia: la «corilicoltura» (questo il nome tecnico della coltura del nocciolo) danneggia fortemente l' ambiente. Con l' uso incontrollato e irresponsabile dei pesticidi si sta avvelenando l' agricoltura, quella spontanea e quella coltivata. Insomma, l' impatto nei territori dove viene coltivato il nocciolo è stato «pesante», «deleterio», «infernale», «distruttivo», «dannoso» per le piante e la salute umana. Tutti questi aggettivi (ma ve ne erano altri ancora peggiori) li abbiamo annotati assistendo al convegno di Orvieto (Sala del Governatore, palazzo dei Sette), patrocinato dal sindaco, Giuseppe Germani, e promosso da quattordici associazioni con numerosi giovani, ma con la scarsissima presenza di coltivatori. E sapete chi guidava l' armata antinocciolo? Una giovane donna, che vive tra i set cinematografici e i festival: Alice Rohrwacher, regista e sceneggiatrice. È stata la star dell' affollatissima sala, interpretando la Giovanna d' Arco della guerra al «pericoloso» nocciolo. Che cosa c' entra Alice con l' elmo? Nulla, tranne il fatto che ha il babbo apicoltore, che vive vicino Orvieto. Ha capito però che quei pesticidi possono distruggere molte piante e uccidere (come hanno già fatto) anche le api E, infatti, per convincere i dubbiosi, la regista Giovanna d' Arco ha fatto trasmettere anche una testimonianza filmata del neurobiologo Stefano Mancuso (Università di Firenze). Lo scienziato ha ribadito che «le piante sono un esempio di convivenza, a differenza degli uomini», aggiungendo che il nocciolo è un intruso che va combattuto, ma forse ci penseranno le stesse piante, «che hanno una testa pensante, con la quale comunicano, prendono decisioni e ricordano persino». Queste le riflessioni serie di un uomo di scienza, ma i «pasdaran» di Orvieto non sono convinti che siano le stesse piante a «mettere ordine» nell' ambiente o che siano le istituzioni o gli stessi agricoltori a risanare. Forse ci vuole ben altro. E a quel punto, nella sala medievale, l' ascia di guerra è stata impugnata dal comandante Famiano Crucianelli, presidente del biodistretto della Via Amerina e delle Forre. Crucianelli è una vecchia conoscenza della sinistra storica (è stato parlamentare di Rifondazione comunista e poi del Pds, Ds, sottosegretario nel governo Prodi e quindi è approdato nel Pd). L' ex dirigente politico ha scaldato la sala con una dichiarazione di guerra alla Ferrero. Ha proclamato di essere assolutamente contrario al progetto della multinazionale che si propone di piantare in tutta Italia 20.000 nuovi ettari di nocciole nei prossimi cinque anni (fino a 1.500 solo nella Tuscia viterbese). «Noi siamo contro il progetto, che rischia di trasformare la ricchezza in una maledizione per tutto il territorio. Chiediamo l' intervento delle istituzioni, Regioni e Province, per una valutazione di impatto ambientale e poi bisogna fare i conti con la Ferrero». Che cosa chiede Crucianelli ai dirigenti della multinazionale? «Che si rispetti la biodiversità e che una parte del territorio della Tuscia previsto dal progetto produca nocciole con metodo biologico. La Ferrero deve occuparsi anche delle ricadute economiche per il nostro territorio senza rischiare di trasformarlo in una colonia. Chiediamo ancora alla Ferrero di investire in ricerca per migliorare la qualità dell' ambiente e della vita delle persone. In sintesi, coltivare senza inquinare». In altre parole, si pongono richieste a una multinazionale, che dovrebbero essere presentate (quasi tutte) alle istituzioni (ministero dell' Agricoltura, Regioni, Province e Comuni) e non certo a un' azienda privata, che si propone soprattutto di incrementare fatturato, occupazione e profitti. Ricordiamoci, infatti, che il gruppo Ferrero comprende 94 società in tutto il mondo, con 25 stabilimenti di produzione, fra cui quello cinese aperto nel 2015.Nel bilancio 2017-2018 si legge che il fatturato è stato di 10,7 miliardi di euro, con un incremento del 2, 1 per cento. Le vendite di prodotti sono aumentate del 3,5 % (6,8% a cambi costanti) trainate prevalentemente da Germania, Francia, Italia, Polonia, Regno Unito e Stati Uniti. L' occupazione è in costante crescita (circa 36.000 dipendenti nel 2018). Si tratta dunque della seconda più grande azienda produttiva di cioccolato e confetteria al mondo, creata nel 1946 da Pietro Ferrero, pasticciere di Alba (Piemonte), noto anche per essere stato l' inventore della Nutella. Contro questo colosso sono scesi in guerra ora associazioni ambientaliste e altre parapolitiche, oltre all' Università della Tuscia, come si è visto al convegno di Orvieto (fra cui il biodistretto di Crucianelli, i Medici per l' ambiente, la Schola campesina, il Lago di Bolsena e tante altre). Ci sembra però che, questa volta, Davide rischi di soccombere davanti al gigante Golia perché gli agricoltori, nella grande maggioranza, non rinunceranno mai a colture, come le nocciole, ad alto reddito. La difesa dell' ambiente va comunque sostenuta, sensibilizzando le istituzioni. E il fatto che le giovani generazioni siano in prima linea in questa battaglia ci sembra comunque positivo, al di là della demagogia, sempre diffusa, e le strumentalizzazioni politiche.

·        Le Bufale sulla carne.

LE BUFALE SULLA CARNE. Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2019. La carne fa male. Fra le tante bufale amplificate a dismisura dai social media, in testa Facebook, questa è una delle più clamorose. Alimentate da un sottobosco di pubblicazioni e blog che fanno dello scandalo fine a sé stesso la loro principale ragion d' essere, le balle sul consumo di carne godono pure di una sorta di extraterritorialità che deriva loro dall' essere falsamente «pro ambiente» e vagamente politically correct. Così, quando ho ricevuto un accurato studio condotto nell' ambito del progetto Carni Sostenibili, non ho resistito ad approfondirlo. Scoprendo che la maggior parte delle argomentazioni su cui poggia la campagna contro la carne sono bufale clamorose. Cinque su tutte, che impazzano da anni su web e social. Vediamole una per una.

Prima bufala: in Italia mangiamo 79,1 chilogrammi di carne all' anno. Troppa! Non è vero che il consumo di carne pro capite dei nostri connazionali ammonti a poco meno di 80 chili l' anno. Per un semplice motivo: questa stima prende in considerazione anche le parti non edibili dei capi macellati, vale a dire tendini, ossa, grasso e cartilagini. Se si escludono gli scarti le cifre cambiano e si scopre che in media il consumo reale è di circa 37,9 Kg di carne all' anno. Dunque meno della metà. Fra l' altro, considerando soltanto la carne bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità ben al di sotto delle raccomandazioni dell' Organizzazione mondiale della sanità, l' Oms, che fissano a 100 grammi il consumo giornaliero di carne rossa.

Seconda bufala: la carne fa venire il cancro, lo dice l' Oms! Anche questo è falso. Nel 2015, l' Oms attraverso la Iarc, l' Agenzia per la ricerca sul cancro, ha analizzato il rischio di sviluppare il tumore al colon in presenza però di un consumo giornaliero pari a 50 grammi di carne trasformata (ad esempio sotto forma di salumi) e 100 grammi di carne rossa. Ecco, con queste dosi il rischio cresce di circa il 18% per le carni trasformate e del 17% per le carni rosse. Ma se si riportano i calcoli ai nostri consumi medi effettivi, i rischi diventano trascurabili.

Terza bufala: la produzione di carne non è sostenibile. Servono 15.000 litri d' acqua per produrne un chilo di carne bovina. Nulla del genere! La stima, infatti, si basa sul concetto di «impronta idrica» elaborato dal Water Footprint Network sull'«acqua virtuale», messa in gioco in tutto il processo produttivo. In pratica pure quella usata nella coltivazione dei foraggi e nei cereali necessari all' alimentazione del bestiame, oltre all' acqua impiegata in fase di macellazione o per depurare gli scarichi di produzione. In pratica si calcola pure l' acqua piovana senza la quale il foraggio e il grano non crescerebbero. Negli allevamenti italiani più efficienti, invece, il consumo effettivo di acqua è di 790 litri per chilo di carne. In quelli meno efficienti, che però stanno scomparendo, arriva al massimo a 7mila litri.

Quarta bufala: gli allevamenti inquinano più dei trasporti! Falso pure questo. Se si considera il solo settore zootecnico, cioé gli allevamenti, in Italia il contributo totale ai gas serra è del 4,4%, come certifica un report dell' Ispra, l' Istituto superiore per lo studio e la ricerca ambientale, pubblicato nel 2017. Un viaggio aereo Roma-Bruxelles, ad esempio, genera più emissioni del consumo di carne di un italiano per un anno intero. Oltre all' anidride carbonica, un altro gas sotto accusa per i cambiamenti climatici è il metano, prodotto in natura dal metabolismo di alcuni batteri definiti «metanogeni», presenti nell' apparato digerente dei ruminanti e nelle acque stagnanti, ad esempio le risaie. Ma la quantità di metano prodotta così è trascurabile rispetto a quella ottenuta con lo sfruttamento dei pozzi petroliferi.

Quinta bufala: la carne contiene ormoni e antibiotici; mangiarla è pericolosa! Questa è forse la bufala di più lunga durata visto che ci affligge da tempo immemorabile. Il trattamento di animali con gli ormoni è vietato in Europa da quasi quarant' anni e da oltre un decennio è proibita pure la somministrazione di antibiotici a scopo preventivo. Non è un caso se l' Unione europea ha bloccato a partire dal 1988 l' import di carne bovina da Stati Uniti e Canada, due Paesi in cui gli ormoni sono ammessi. Negli allevamenti l' uso di antibiotici è permesso soltanto a scopo di cura, previa prescrizione del veterinario. Gli animali che li abbiano assunti possono essere macellati soltanto dopo che sia trascorso il tempo necessario a smaltire le sostanze contenute nei farmaci. Infine tre numeri per capire la portata delle bufale sull' alimentazione. Se è vero che 9 italiani su 10 parlano abitualmente di cibo, oltre 7 si informano prevalentemente su internet. Ma appena 6 su 100 lo fanno sui siti di giornali e istituzioni.

·        Cosa si mangia? I regimi alimentari assurdi.

Andrea Cuomo per “il Giornale” il 29 giugno 2019. Chi ancora pensa che sia esotico mangiare un sushi o un ceviche, è proprio fuori dal mondo. Ignora quali e quanti regimi alimentari assurdi, strampalati e a volte perfino provocatori esistano. Diete frutto di scelte salutistiche, etiche, religiose, politiche, perfino identitarie. Roba che fa sembrare vegetarianesimo e perfino veganesimo scelte conservatrici. Allacciate le cinture: si parte.

Cucina queer. Queer - parola che dà la lettera Q alla sigla Lgbtq, che identifica le comunità sessualmente differenti dall' eterosessualità - identifica non una pratica sessuale particolare ma l' eccentricità, la liquidità, l' ambiguità.

Translato a tavola indica non una categoria di cibi particolare bensì un modo di mangiare inclusivo e alla portata di tutti, «comfort» ma al contempo strano e spiazzante. Graditi i richiami all' estetica «arcobaleno» ma senza eccessi perché chi mangia queer per definizione non vuole essere etichettato in uno stereotipo. Capito tutto? Noi quasi.

Cucina gay. Esiste anche essa dal 1965, anno in cui lo scrittore omosessuale Lou Rand Hogan provò a codificare un ricettario e una prassi gastronomica omosex nel libro «The Gay Cookbook». Il volume non è tanto interessante per le ricette quanto per lo sforzo di immaginare per la prima volta gli omosessuali americani in una dimensione ironicamente domestica lontana dalle semplificazioni «nottambule» e peccaminose.

Paleodieta. Vegani tappatevi gli occhi e le orecchie. Qui si parla di un regime alimentare basato esclusivamente sui cibi reperibili prima dello sviluppo delle tecniche agricole. E quindi selvaggina, sangue frattaglie, pesce, crostacei, rettili, vermi, bachi, insetti, uccelli, uova, bacche, miele, vegetali spontanei, radici, bulbi, noci e semi. Chi propugna la paleodieta assicura che l' uomo delle caverne non soffrisse di molte malattie dovute allo sviluppo. Ma non ci vuol molto per comprendere che si tratti di un' alimentazione priva di ogni fondamento nutrizionale e scientifico.

Dieta alcalina. Altra consorteria alimentare quella di chi pensa che assumendo prevalentemente alimenti che spingono il nostro pH del corpo verso l' alcalinità (ovvero il contrario dell' acidità) si abbiano effetti benefici per il nostro corpo, soprattutto per quanto riguarda la minore possibilità di sviluppare un tumore. I medici ribattono che qualsiasi cosa noi mangiamo viene comunque attaccata dai succhi gastrici che la «acidificano». Quindi pensare di alcalinizzare il nostro corpo è un' utopia. Esempi di cibi alcalini? Tuberi, radici, crucifere, cetrioli, mele, sedano, uva e - sembra strano - anche il limone. Sai che godimento.

Cucina «liberal veg». I vegetariani liberali sono quelli che reintroducono la carne nella loro dieta a patto che sia di qualità, biologica e certificata, avvalorata da una dichiarazione dettagliata della provenienza e dei sistemi di allevamento animali.

Reducetariani. Assimilabile alla tribù precedente quella che annovera chi senza abolire la carne dalla propria dieta tende a ridurne la quantità e a controllarne la qualità.

Cucina viola. La «purple diet», resa popolare da Mariah Carey, si fonda sull' assunzione almeno tre giorni a settimana di soli cibi di questo colore (mirtilli, ribes, more, fichil, prugne, radicchio, melagnzane e pomodori neri) ricchi di antiossidanti. Pare renda più intelligenti, ma qui scatta il «comma 22» del cibo: «Il cibo viola rende più intelligenti, ma se mangi solo viola non puoi essere intelligente».

Cucina biblica. Tale Jordan S. Rubin assicura di essere guarita dal morbo di Cronin evitando cibi impuri secondo la parola di Dio e comunque pregando sempre prima e dopo ogni pasto.

Dieta delle lenti blu. Inventata dai giapponesi, prevede di mangiare indossando occhiali con lenti blu. Colore che rendendo il cibo meno attraente spingerebbe a mangiare di meno. Poi però tolti gli occhiali arriva una fame... blu.

«Baby food». Molto amata dalle star hollywoodiane prevede di mangiare un po' di tutto ma sempre in forma di omogeneizzati. Sedici vasetti al giorno e via. Poi se vi dimenticate come si usano i denti non lamentatevi con noi.

Savero Capobianco per Davide Maggio.it il 28 giugno 2019. Non parlate mai di veganismo con Gianfranco Vissani. Ieri lo chef umbro era ospite de La Vita in Diretta Estate per parlare naturalmente di cibo. Nel corso del dibattito, come accade spesso quando ci si occupa di cucina, il discorso ricade sulla guerra fredda tra onnivori e vegani. Gli ospiti in studio, chiamati a esprimere la propria preferenza tra tofu e amatriciana, non hanno dubbi nel prediligere quest’ultima, come lo stesso Vissani, che afferma: “Dai per piacere, il tofu non lo voglio neanche sentir nominare”. Tutto nella norma, finché Beppe Convertini non ha la geniale idea di domandare a Vissani (e a Roberto Poletti, ospite pure lui) se fosse più attratto dalle donne vegane o da quelle onnivore (ebbene sì, era difficile partorire un quesito simile, eppure c’è riuscito). A questo punto Lisa Marzoli, quasi profetica, invita tutti a stare attenti con le parole, visto che “ognuno può mangiare quello che vuole, lo dico subito prima che…”. Detto fatto. Se il pensiero di Poletti è piuttosto chiaro (“Mangiate quel che volete… a casa vostra!”), ancor più lo è quello di Vissani: “Ci sono state sei persone vegetariane che si sono riunite a Londra nel 1949 ed è uscito il veganesimo. Il veganesimo, signori miei, è come i fruttariani… sono dei cogli0nazzi“. I conduttori insorgono e bloccano subito il discorso dello chef, ammonendolo con un simbolico cartellino rosso (e specificando che quanto uscito affermato fosse rappresentativo solo del suo pensiero dello chef). D’altronde, non è la prima volta che Vissani si scaglia contro il mondo vegano, tanto da finire spesso al centro delle polemiche. Qualche anno fa, lo chef ci andò giù pesante quando, in onda, dichiarò che i vegani fossero una setta e che li avrebbe ammazzati tutti. Un’avversione dunque che persiste da anni e non accenna ad estirparsi.

La vita in diretta Estate, Gianfranco Vissani contro i vegani: "Sono dei cogl..." Ospite della versione estiva del rotocalco di Rai1, lo chef si è scagliato nuovamente contro i vegani: “Il tofu non lo voglio neanche sentir nominare”. Alessandro  Zoppo, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. Gianfranco Vissani non sopporta i vegani e lo dice proprio chiaramente. Ospite di La vita in diretta Estate, lo chef è stato invitato a parlare di alimentazione per sedurre, tra ingredienti afrodisiaci, corpi perfetto o delizie del palato e non ha perso occasione per scagliarsi contro chi non consuma carne, pesce e derivati. “Dai per piacere – ha esclamato in prima battuta – il tofu non lo voglio neanche sentir nominare”. Quando il conduttore Beppe Convertini gli ha chiesto se si sente più attratto dalle donne vegane o da quelle onnivore, la risposta è stata dura quanto scontata, tanto che Lisa Marzoli ha messo le mani avanti specificando che “ognuno può mangiare quello che vuole, lo dico subito”. “Ci sono state sei persone vegetariane – ha raccontato Vissani – che si sono riunite a Londra nel 1949 ed è uscito il veganesimo. Il veganesimo, signori miei, è come i fruttariani... sono dei coglionazzi”. Non è la prima volta che Vissani si scaglia contro il mondo vegano, tanto da finire spesso al centro delle polemiche. Durante il periodo di Pasqua, lo chef è stato denunciato da Daniela Martani, a capo di un gruppo di animalisti e attivista veg, perché, ospite del programma radiofonico Un giorno da pecora, ha raccontato di uccidere gli agnelli a “mani nude”, utilizzando un “coltello che possa arrivare al cuore per fare uscire più sangue possibile”. Tre anni fa invece, durante una puntata di In Onda su La7, Vissani era andato oltre spiegando il perché del suo odio. “Io – aveva detto – non riesco a concepire i vegani. Non mangiano niente. Io ce l’ho con loro, non con i vegetariani. Anche Pitagora era vegetariano e mangiava uova e formaggio. I vegani sono una setta. Sono uguali ai Testimoni di Geova. Cosa gli farei? Li ammazzerei tutti”.

“MAGARI TI ARRIVASSE UNA PALLOTTOLA VAGANTE”. Dagospia il 3 dicembre 2019. Da “la Zanzara - Radio24”. “Chi mangia la carne è il mandante di un assassinio. Perché secondo voi per chi uccidono gli animali, per chi la mangia o per chi non la mangia? Come considero i cacciatori che odio? Prima di tutto sono degli assassini, ma assassini legalizzati dallo Stato. Tra l’altro anche impotenti. Perché evidentemente non hanno una vita soddisfacente. Sono anche grassi e brutti”. Si presenta così Daniela Martani, showgirl ex-Gf ed ex hostess Alitalia, alla platea de La Zanzara su Radio 24 in gran parte formata da carnisti e maschi onnivori. Poi entra in scena un cacciatore, Marco Navarro. “Ecco qui il tuo nemico, prova a dargli la mano”, dice Cruciani. “ Devo dare la mano al cacciatore? No, mi rifiuto, mi rifiuto”, dice la Martani. “Non è che mi vergogno – aggiunge – è che mi rifiuto di dare la mano ad un assassino. Questo caccia tutto ciò che mangia? Chissà, magari una pallottola vagante, prima o poi…”. “Ma come, ti stai augurando la morte per un cacciatore”, dice Cruciani. “Molti cacciatori – dice ancora la Martani - muoiono a causa delle pallottole vaganti dei loro amici. Bisogna stare attenti”. “Io ho cacciato di tutto nella mia vita”, dice il cacciatore. Risponde la Martani: “Che schifo. Ma non poteva fare tiro al piattello piuttosto che ammazzare gli animali? Quelli che però qui applaudono alle parole del cacciatore, sono gli stessi che piangono quando gli muore il cane o il gatto. Ipocriti, siete ipocriti, fate schifo. Siete finti, siete dissociati. Avete problemi mentali, si chiama dissociazione mentale”. Sei stata querelata dai cacciatori: “Vediamo in tribunale che succede. Ho detto che non è sbagliato bucare le gomme delle macchine dei cacciatori. Andare contro la legge è un diritto per chi è sovversivo e per fermare le stragi, le vostre. Fate schifo”. Come consideri questo cacciatore?: “Un assassino. Uno che si diverte ad uccidere un animale innocente che sta per i cazzi suoi…E’ come se adesso voi passeggiate qua e ad un certo punto vi arriva un colpo in testa. Ma stiamo scherzando? Siete degli sfigati”. Poi Cruciani indossa una pelliccia. Martani: “Levati sta pelliccia, Cruciani. Ma vattene a vivere nelle caverne. Se incontro una donna con la pelliccia, cosa le faccio? Le dico che è una schifosa…meglio che sto zitta. Vorrei metterle fuorilegge, lo stanno già facendo molti paesi”. “Questa pelliccia è fatta di visone e di agnello, bellissima”, dice Cruciani. Martani: “Fai schifo”. Torniamo ai cacciatori, se ne incroci uno per strada e sei in macchina che fai? Lo metti sotto?: “Fosse per me…occhio per occhio, dente per dente. E’ una lotta impari quella che fate. Vergognatevi, vergognatevi”. “Sei ottusa”, dice il cacciatore. “Ma statti zitto. Se ti trovi da solo davanti al cinghiale senza fucile, vedi che fine che fai. Hai paura ad andare in giro senza fucile, vergognati”.

·        I Vegetariani sono sempre esistiti.

Ex vegetariani, perché qualcuno ci ripensa e torna a mangiare carne. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. «Le ragioni possono essere diverse» risponde Stefano Erzegovesi, medico nutrizionista e psichiatra e responsabile del Centro per i disturbi alimentari dell’Ospedale San Raffaele di Milano. «C’è chi ha esaurito la spinta ideale iniziale e chi dopo un po’ di tempo la trova troppo “faticosa”, nel senso di doversi sottoporre a troppe rinunce, e c’è anche chi lo decide per motivi di salute, correlati a carenze nutrizionali per una scelta vegetariana studiata male e quindi squilibrata. Farei comunque una premessa di tipo psicologico: qualunque sia il motivo per cui una persona abbia lasciato la scelta vegetariana, è importante che non si lasci andare a emozioni negative, come colpa e fallimento o, peggio, ad emozioni di rabbia verso i vegetariani “che ce la fanno”. Ricordiamo che i giudizi negativi, su di noi e sugli altri, sono tra le abitudini più ingrassanti e meno salutari della nostra vita».

I VEGETARIANI SONO SEMPRE ESISTITI. Da Focus il 22 marzo 2019. Nel 2000 in Italia gli adepti della dieta verde erano un milione e mezzo, oggi sono circa 4 milioni e nel 2050, secondo l'istituto di ricerca Eurispes, saranno 30 milioni: un aumento vertiginoso nell’arco di pochissimo tempo. Eppure non si tratta di un fenomeno nuovo. Anzi, a ben vedere, come racconta Giuliana Lomazzi nel n. 63 di Focus Storia, i nostri più antichi progenitori erano vegetariani, anche se più per forza che per scelta.

RACCOGLITORI. Durante la preistoria, quando l’uomo si cibava di quello che la natura offriva, la dieta era a base di frutta, erbe e radici. Poi qualcuno cominciò a cibarsi di carogne o di animali uccisi nelle prime battute di caccia. I ritrovamenti fortunati, però, non erano all’ordine del giorno, e la caccia era pur sempre un rischio. Così il consumo di carne tra i cacciatori-raccoglitori rimase a lungo marginale: alleati decisivi furono prima l’uso di strumenti per squartare le carogne e poi il fuoco, che contribuì alla digeribilità della carne. Con l’inizio dell’allevamento, circa diecimila anni fa, arrivò infine la svolta. Fin dallo sviluppo delle prime civiltà l’uomo fu onnivoro, cosa che facilitò la sopravvivenza, ma solamente dopo avere imparato a coltivare la terra e ad allevare animali vennero le prime città organizzate, una società più complessa e il pensiero religioso.

ANIMALISTI. L’uomo cominciò a riflettere sulle sue scelte alimentari e fu allora che si sentirono i primi vagiti del vegetarianismo. La ragione principale che spingeva a diventare vegetariani era di tipo etico-filosofico: la convinzione che sia sbagliato far soffrire e uccidere gli animali. Queste convinzioni attecchirono soprattutto nel subcontinente indiano, dove l’ahimsa (la non-violenza, cavallo di battaglia di Gandhi) è un principio fondante delle sue principali religioni: induismo, buddismo e giainismo. Per costoro, l’idea del rispetto per la vita animale, la compassione per tutte le creature e l’astensione dal consumo di carne sono considerate premesse indispensabili per raggiungere la saggezza. Inoltre, secondo la teoria della reincarnazione (o “metempsicosi”) dopo la morte ogni anima trasmigra in un altro corpo, animali compresi.

ETÀ DELL’ORO. Basta però fare pochi passi indietro nel tempo per scoprire che anche in Occidente, nella Grecia del VI secolo a.C., ci fu un’ondata di misticismo che sfociò nel rifiuto di mangiare carne (anche se non lasciò influssi duraturi come accadde più avanti in India). Accadde quando si diffusero le idee dell’orfismo, un movimento mistico che attraverso la purificazione del corpo voleva allontanarsi dalla condizione umana e avvicinarsi a quella divina. Gli adepti dei culti orfici, che credevano nella trasmigrazione delle anime, conducevano una vita sobria ed evitavano qualsiasi cibo di origine animale, rifiutando carne, uova e persino la lana per gli indumenti.

BENESSERE. Il più convinto nell’opporsi all’abitudine di cibarsi di animali fu il filosofo greco Pitagora (575-495 a.C.). Non a caso, i seguaci del vegetarianismo furono detti “pitagorici” fino all’800. Solo allora, in Inghilterra, si cominciò a parlare di vegetariani, derivato dall’inglese vegetable (“verdura”). Cinque secoli dopo Pitagora, anche il poeta latino Ovidio riteneva che la natura offrisse frutti a sufficienza per tutti. E più tardi altri filosofi, come Plutarco (I secolo), si opposero all’uccisione di animali, mentre il filosofo Porfirio (233-305) nel suo trattato Sull’astinenza dalle carni degli animali condannò i sacrifici rituali e paragonò i carnivori a cannibali: riteneva gli animali dotati di intelligenza e per questo nostri pari. Ma rimasero voci isolate. Per la Chiesa infatti il vegetarianesimo era un segnale di eresia: gli adepti dell’eresia càtara, per esempio, si astenevano da ogni tipo di alimento associato al grasso animale, uova comprese. Ciò che spingeva i càtari verso le verdure non era però l’amore verso le altre creature di Dio, ma la convinzione che gli animali fossero creature di Satana e il desiderio di purificarsi privandosi di quel cibo immondo. Ancora nel ’500 poche voci si levavano fuori del coro. Una era quella del genio rinascimentale Leonardo da Vinci, che affermava "verrà il tempo in cui giudicheremo il mangiare gli animali nello stesso modo in cui oggi giudichiamo il mangiare i nostri simili: il cannibalismo".

IL SALUTISMO. Negli stessi anni mossero i primi passi le argomentazioni salutistiche, e non solo etiche, del vegetarianismo: è su quell’onda che in Europa sempre più medici promossero la dieta vegetariana. Quando però a fine ’700 in Inghilterra, e nel secolo successivo in Europa, ebbe inizio l’era industriale, la dieta cambiò radicalmente. Il lavoro nelle fabbriche indusse molti a vivere lontano dalle campagne e aumentò il cibo di produzione industriale, facilmente trasportabile: il consumo di carne crebbe, sponsorizzato anche da nuove generazioni di medici.

GRAN RITORNO. Questi cambiamenti provocarono una controrivoluzione, da cui maturò la Lebensreform, la “riforma della vita”, nata in Germania a fine ’800 e che, all’inizio del secolo successivo, fece nascere in Svizzera, sul Lago Maggiore, la comunità di Monte Verità. Alla comunità aderirono adepti della teosofia (una corrente filosofica spiritualista), naturisti, seguaci delle medicine naturali e artisti. Lo stile anticonformista di Monte Verità (erano anche favorevoli al nudismo) attirò da ogni dove molti vip, come la ballerina statunitense Isadora Duncan.

VEGANI O VEGETARIANI? Oggi le motivazioni etiche si intrecciano con quelle mediche e ambientali: gli allevamenti intensivi sono responsabili di un'importante fetta delle emissioni di gas serra e le monocolture di cereali per i mangimi hanno costi energetici enormi. Molte ricerche confermano inoltre che l’eccesso di carne rossa è nocivo e che la dieta vegetariana è più sana. A ciò si aggiunga un’aumentata sensibilità animalista a tutti i livelli. Non sarà allora che, come aveva previsto Leonardo, è forse giunto il momento di diventare tutti vegetariani?

·        Chi vuol essere vegano!

E i ragazzi russi lanciano la «rivoluzione vegana». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it. «Basato su falsa coscienza e false ipotesi, il vegetarianismo non ha seguaci nell’Urss». Così la Grande Enciclopedia Sovietica, 65 volumi pubblicati fra il 1926 e il 1978. Essere vegetariani, o peggio vegani (in russo si dice «vegetariani estremi»), non è mai stato popolare in Russia; considerata una mollezza borghese se non vicina all’anarchia negli anni dell’Urss — era stato vegetariano Lev Tolstoj, considerato da molti fra i padri nobili anche del pensiero anarchico — la scelta di non mangiare animali gode anche oggi, nel ventennio del presidente cacciatore e pescatore Vladimir Putin, di scarsissimo credito nel sentire comune.

Appena l’1% dei russi è vegetariano, percentuale identica alla media dei vegani nei Paesi Ue; e nelle metropoli, soprattutto a San Pietroburgo, la connotazione politica di questa scelta è esplicita. Minoranza assoluta, ma bellicosa, i vegani sono un movimento vero e proprio; le cui cellule sono ristoranti, caffè, e negozi di alimentari gestiti con spirito più da attivisti che da esercenti. La Bbc ha ribattezzato «i cuochi della rivoluzione», ad esempio, i gestori di Horizontal, ristorantino e take away della centrale Prospettiva Ligovsky a San Pietroburgo: dietro la vetrina coperta di adesivi c’è una brigata di cucina e di sala di nove persone sotto i 28 anni, che si dividono il lavoro in modo «non gerarchico: non c’è proprietà, non c’è anzianità», spiega la più anziana dei nove, Varya. «In un Paese dove chi non è etero non si sente al sicuro, questo è uno spazio sicuro». Oltre che antifascista, antispecista e «privo di gerarchie». «Certo che il mio lavoro è politico», osserva Mikhail Vegan, nome da Youtuber del quarantenne Mikhail Panteleev. «Essendo contro la discriminazione fra i viventi, per logica sono femminista e antirazzista». Mikhail Vegan ha cucinato anche per il canale di divulgazione Feministki Poyasnyanyut (potremmo tradurlo con «Le femministe vi spiegano»). La cui fondatrice Sonia, 26 anni, ha fondato Run Rabbit Run, pasticceria vegana a San Pietroburgo. Il network è fitto: con loro ci sono negozi come Bunker Vegano e B-12 (la vitamina da integrare nella dieta senza animali) ma anche un festival che si tiene a dicembre, Znak Raventsva, «Segni di Uguaglianza», che raduna vegani e associazioni Lgbt. Va avanti da 5 anni: i fondatori ammettono che «quando abbiamo incluso le associazioni gay, molti ristoranti si sono ritirati». Nel 2017 i fondatori di Horizontal avevano un altro locale, Animal: i fash, cioè i fascisti, lo hanno assaltato un pomeriggio tirando petardi nella vetrina. «Nessuno è stato arrestato», racconta Varya. A marzo scorso, del resto, il caffè femminista Simona (da De Beauvoir) era stato «visitato» da attivisti di destra che portavano polemicamente fiori alle avventrici. E lo chef vegano Arman Sagynbaev, due anni fa, era stato arrestato per «terrorismo anarchico», quasi senza prove. È ancora in custodia. «Serve più democrazia in Russia», conclude Mikhail. E passa anche dalla cucina.

Dritto e Rovescio, caos da Paolo Del Debbio: irruzione della polizia in studio, caos per il prosciutto. Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Violento scontro, quasi fisico, a Dritto e Rovescio. In studio gli animi si scaldano quando si parla di vegani contro vegetariani. Uno dei partecipanti, a un certo punto, tira fuori un grosso prosciutto (crudo, pare) e lo punta minacciosamente contro un vegano. L'autore della provocazione è un signore in giacca e cravatta. Il gesto surriscalda l'atmosfera nemmeno si stesse parlando di guerra di religioni. Le due fazioni se le dicono di tutti i colori e quasi arrivano alle mani: “Bravo, bravo – è la risposta dell'uomo con il salume a chi gli ha dato del culattone – la mia famiglia vive di questo”. Entra anche una donna poliziotto in studio, è caos. Provvidenziale l’intervento di Paolo del Debbio, che indossa gli inediti panni del paciere: “Si sieda”, dice a un vegano. E poi: “Se state tutti buoni bene, altrimenti ve ne andate fuori e parliamo d’altro”. Grande applauso, e poi scoppia la pace.

I genitori vegani ed il figlio denutrito: che fare? La vicenda dal punto di vista legale è complessa, ma non nuova. Va quindi affrontata mettendo al primo punto il bambino. Daniela Missaglia il 23 settembre 2019 su Panorama. La notizia del bambino di due anni di Nuoro, ricoverato in gravi condizioni al nosocomio cittadino a causa di un avanzato stato di denutrizione, quasi sicuramente connesso al regime alimentare estremo di stampo vegano, rinnova il dibattito su molteplici tematiche. Quella di cui non intendo parlare, perché estranea alle mie sfere di competenza, riguarda la correttezza - o meno - del tipo di dieta imposta al minore: lascio a medici ed esperti accapigliarsi sul giusto grado di vitamine B12, ferro e omega 3 assimilabili con o senza alimenti di origine animale. Da madre un'idea ce l’ho. Da avvocato ragiono solo in termini di tutela di chi non può difendersi da solo (il bambino) e di strumenti utilizzabili in siffatte situazioni-limite, quando l’amore di un genitore non è sufficiente a garantirne l’adeguatezza o la capacità. L’intervento del Tribunale sarà automatico e così il ventaglio di opzioni che i magistrati specializzati minorili avranno a disposizione: dalle più blande, concernenti la sospensione della responsabilità genitoriale di madre e padre limitatamente a determinate decisioni, passando attraverso il trasferimento dell’affido al Comune di residenza con collocamento del bambino fuori dalla famiglia (nonni, ad esempio, in genere più avveduti), fino alla revoca di quella che un tempo (ora non più, ma è solo un gioco dialettico) si chiamava potestà, con tanto di messa in stato di adozione del bambino. I precedenti d’altronde ci sono: a Milano come a Genova dove - in quest’ultimo caso - addirittura i genitori erano stati iscritti nel registro degli indagati per maltrattamenti in famiglia, proprio a causa del grave stato di prostrazione della piccola figlia, vittima anch’essa di scelta discutibili in fase di svezzamento. Il veganesimo "spinto", somministrato anche a minori in crescita, è fenomeno sempre più diffuso e divisivo che sta entrando prepotentemente nei reparti degli ospedali, costretti ad interventi d’urgenza salva-vita e, di riflesso, nei Tribunali. Anche questi ultimi non sono chiamati ad esprimersi sulla correttezza del regime alimentare ma solo sugli effetti che un determinato tipo di accudimento ha prodotto in capo al minore: quando un bambino di tre anni pesa come un neonato, è svogliato, apatico, emaciato e mostra gravi segni di denutrizione, il problema è grande e va affrontato nell’immediato ed alla radice. Genitori che hanno permesso un epilogo del genere possono considerarsi adeguati a crescerlo in futuro? Nel 2016, a Milano, il Tribunale per i Minorenni aveva optato per collocare il bambino presso i nonni, senza però rescindere i legami con madre e padre, evidentemente pentitisi di quanto fatto e pronti ad un percorso orientato verso un cambiamento. Ma non sempre è così e l’oltranzismo di alcune famiglie, che i magistrati debbono scandagliare con attenzione, merita seriamente di essere valutato come spia per arrivare anche all’extrema ratio della revoca della responsabilità genitoriale, fondamentalmente per salvare una vita che, altrimenti, sarebbe segnata. Uno Stato civile deve proteggere i minori e non può ammettere che essi siano abbandonati nel "miglio verde" della condanna a morte o di gravissimi problemi di salute a causa dell’irriducibile scelta dei loro genitori, quand’anche possidenti, apparentemente inseriti socialmente e acculturati. Sul punto non ci può essere dibattito o spazio per tentennamenti di sorta: l’amore non basta. Non è sufficiente professarlo, bisogna dimostrarlo. Il valore di un sentimento è la somma dei sacrifici che si è disposti a fare per esso, è stato scritto: mi auguro che i genitori di Nuoro sapranno dare risposte valide e dimostrazioni di serio ravvedimento perché, diversamente, la tutela del bene-vita di loro figlio prevarrà su qualsiasi legame di sangue. E sarà giusto così.

Ictus, ecco perché mangiare vegano favorisce la malattia: la ricerca. Tiziana Lapelosa su Libero Quotidiano il 8 Settembre 2019. Meglio tenere sotto controllo il cuore o la testa? Non passa giorno senza leggere qualche suggerimento sulla dieta corretta da seguire, sui cibi da non mangiare o su cibi miracolosi per la salute e per la linea. Non passa giorno in cui non arrivi una notizia che, come una pallina da biliardo, contribuisca ad alimentare ancora di più la confusione che alberga più o meno in tutti in fatto di cibo, croce e delizia dell' epoca che viviamo. L'ultima riguarda i vegetariani e i vegani, quelli, questi ultimi, che dai loro piatti non soltanto hanno escluso la carne (e pazienza), ma anche tutti i derivati animali. Che vuol dire latte, formaggi, uova, miele (e ci vuole davvero tanto coraggio)...Secondo uno studio inglese, questo tipo di alimentazione a base di "foglie", seitan (un impasto ricavato dal glutine del grano tenero o farro o khorasan che assomiglia un po' alla carne), tofu (un derivato della soia), latte di riso, legumi e cloni di hamburger e spezzatino, aumenterebbe il rischio di ictus, la chiusura o la rottura di un vaso cerebrale con conseguente danno alle cellule cerebrali per mancanza di ossigeno. Ma, attenzione, ridurrebbe il rischio di infarto. È quanto emerge da uno studio condotto dalla Oxford University e pubblicato sulla rivista scientifica British Medical Journal. Funzionerebbe così, in base a quanto emerso dalla ricerca durata circa dieci anni e che ha messo sotto osservazione 50mila britannici di età superiore a 18 anni.  Non mangiare carne abbasserebbe il livello di colesterolo oltre a ridurre l' apporto di alcune vitamine, in particolare la B12 e la D, proprio quelle che proteggono il corpo umano dall' ictus. Ne è emerso che il 20% della popolazione vegana sarebbe più predisposta a questo tipo di malattia rispetto a chi invece la carne la mangia. E questa è la nota negativa. Perché c' è anche un "lato b" meno preoccupante: preferire legumi, tofu, seitan e compagnia, infatti, ridurrebbe del 22% il rischio di avere un infarto o una qualsiasi malattia cardiaca. Forse, dicono gli esperti ricercatori inglesi, per via di una più bassa pressione del sangue e anche di una minore incidenza del diabete. Ma sarà vero? Fatto lo studio, trovato il difetto nel variegato mondo dell' alimentazione. Tom Sanders, professore del King' s College di Londra, la quarta più antica università britannica, fa notare, per esempio, che lo studio pecca di attendibilità. «È probabile che le persone che seguono diete alternative abbiano meno probabilità di assumere farmaci per l' ipertensione e di conseguenza soffrono di ictus», ha suggerito al Guardian. Un "limite" che si associa al fatto che la ricerca si sia basata sull' autodichiarazione e al fatto che abbia coinvolto per lo più persone bianche che vivono nel Regno Unito e quindi difficilmente applicabile ad altre popolazioni. Gli stessi ricercatori, del resto, hanno sottolineato che lo studio merita un maggiore approfondimento e che nessuno dovrebbe allarmarsi dal momento che lo studio non dimostra un rapporto di causa ed effetto. Per stare tranquilli, insomma, meglio scegliere la via di mezzo, quella della moderazione, senza rinunciare ai piccoli piaceri della tavola. Certo, con una attenzione in più verso le verdure come del resto suggeriscono tutti i nutrizionisti. Tiziana Lapelosa

Quella ragazzina che ha chiesto al Papa di diventare vegano. Papa Francesco dovrebbe convertirsi al veganesimo. Questa è la convinzione di un'attivista dodicenne, che ha incontrato Bergoglio in Vaticano, scrive Giuseppe Aloisi, Domenica 24/02/2019, su Il Giornale. Papa Francesco potrebbe divenire vegano. Una richiesta per nulla formale, almeno, gli è arrivata. Genesis Butler ha dodici anni, ma non le manca certo il coraggio, che magari è tipico dell'età adulta, nel chiedere un serio impegno al romano pontefice. Il fine, manco a dirlo, è quello di "salvare il mondo". Dell'incontro tra la Butler e il Santo Padre ha parlato, tra gli altri, il Corriere della Sera. La giovane, che si batte per la salvaguardia delle specie animali e per la tutela dell'ambiente nella sua interezza, , fa parte di quell'insieme di persone - molte delle quali sono note al grande pubblico - che ha individuato in Bergoglio un possibile testimone straordinario della causa che sta portando avanti. Il Vaticano, per ora, non ha fatto sapere cosa ne pensa. E neppure l'ex arcivescovo di Buenos Aires si è pronunciato pubblicamente sulla domanda ricevuta. Il papa, pure per via delle usanze cattoliche in materia di cibo, non dovrebbe rendersi disponibile a un cambiamento di dieta drastico. Ma "ha sorriso" dopo aver ricevuto la proposta della ragazzina. Certo, se il vescovo di Roma si affacciasse su San Pietro, dichiarando di essere diventato vegano, farebbe il suo effetto. Esiste un desiderio per nulla nascosto: fare del Santo Padre il principale militante della causa in oggetto. Sullo sfondo, del resto, c'è Laudato Sì, l'enciclica del pontefice accostata al francescanesimo di ritorno. I critici, vale la pena sottolinearlo, l'hanno bollata come testo "ambientalista". Ma la Butler ha la tenacia tipica dell'idealista: "Quando gli ho chiesto se poteva diventare vegano - ha dichiarato, come si legge sul quotidiano citato - durante la quaresima non mi ha risposto, ma ha sorriso". E ancora: "Sarei davvero felice se il papa rispondesse al nostro appello per salvare gli animali e il pianeta. So quanto queste battaglie ambientaliste gli siano care. Lui è l'uomo giusto per salvare il futuro del mondo". I tradizionalisti ritengono che quella ambientalista sia una distorsione modernista. In Italia, grazie all'impegno dei monsignor Pompili, che è il vescovo di Rieti, invece, sono nate le "Comunità Laudato Sì". Bergoglio, si può pronosticare, non si convertirà al veganesimo, ma terrà in conto la battaglia della Butler.

·        La Guerra al Made in Italy.

Maxi sequestro di pellet tunisino: era spacciato per made in Italy. La merce scoperta all'interno di due container arrivati al porto di Palermo era priva di tracciabilità e falsamente indicata come produzione italiana. Vincenzo Ganci, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale.  A scoprire il carico di pellet privo di indicazioni di provenienza e destinato ad una nota società di distribuzione romana, sono stati i funzionari dell’Agenzia delle Dogane di Palermo insieme ai finanzieri del Nucleo operativo metropolitano di Palermo, che hanno individuato due semirimorchi provenienti dalla Tunisia, carichi di sacchetti di pellet, sprovvisti di qualsivoglia indicazione circa la provenienza estera del prodotto. L’attenzione dei funzionari della dogana e dei militari della guardia di finanza in servizio al porto di Palermo, si è focalizzata sulla verifica delle indicazioni impresse nelle confezioni del pellet e proprio da quest’ultimo approfondimento è emerso che, ad eccezione del marchio e della società distributrice del prodotto, i sacchetti destinati alla commercializzazione non riportavano il benché minimo riferimento a indicazioni precise ed evidenti circa l’origine e la provenienza estera della merce, ovvero di ogni altra indicazione idonea ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto. Inoltre, i militari hanno constatato che la dichiarazione doganale di importazione era priva di attestazione, resa da parte del titolare o licenziatario del marchio, che riportasse l’impegno a fornire le informazioni, a sua cura, in fase di commercializzazione del prodotto sulla effettiva origine estera dello stesso. Il controllo ha portato al sequestro amministrativo di 3.920 confezioni di pellet da 15 chili ognuno, pari 58.800 chili complessivi, e la contestazione della violazione amministrativa, per "fallace indicazione di origine", punita con sanzione da 10.000 a 250.000 euro, a carico della società importatrice. "Ancora una volta - spiegano dal Comando - la sinergia tra le due amministrazioni ha elevato la qualità dei controlli e, conseguentemente, garantito una maggior tutela del mercato di riferimento, a presidio della trasparente e lecita circolazione dei beni e delle merci nel territorio italiano, oltre che a salvaguardia dei diritti del consumatore finale, con riferimento alla tracciabilità dei prodotti acquistati e del Made in Italy". I container in arrivo nei porti siciliani sono tra quelli maggiormente sottoposti a controllo da parte dell'Agenzia delle Dogane a dai finanzieri. A Catania, poche settimane fa, un altro maxi sequestro di prodotti falsi. Nel mirino dei militari, un milione di prodotti provenienti dalla Cina, destinati ad un importatore cinese con base a Catania. L'uomo già denunciato in passato, ora è accusato di contrabbando, ricettazione, contraffazione, frodi contro le industrie nazionali, vendita di merce con segni mendaci. L'uomo è stato segnalato anche alla Camera di Commercio, per vendita di prodotti non in linea con le prescrizioni previste dalle norme relative alla sicurezza dei prodotti.

La guerra al cibo Made in Italy, non più carne né pesce. Siamo orgogliosi dei nostri prodotti alimentari ma consumiamo quelli stranieri. Imposti dalla grande industria che punta al cibo standard, scrive Mario Giordano il 28 febbraio 2019 su Panorama. Nel 2018 la produzione di olio in Italia è diminuita del 57 per cento. Nello stesso tempo l’importazione di olio dalla Tunisia è aumentata del 150 per cento. In 15 anni abbiamo perso una pianta di arance su tre. Le importazioni di pesce sono aumentate dell’84 per cento negli ultimi 25 anni. L’80 per cento ormai arriva dall’estero: non solo Spagna, Grecia e Tunisia, ma anche Ecuador, Vietnam e Thailandia. Abbiamo perso 6 mila pescherecci e 18 mila posti di lavoro. E siamo rimasti muti come sogliole. Così lo scempio quotidiano è continuato. I pomodori? Vengono dal Marocco. I limoni? Dal Cile. I carciofi? Dall’Egitto. Il riso? Dalla Cambogia. E il latte, ovviamente, dalla Romania. L’unica cosa che rimane made in Italy sono le pive. Ovviamente nel sacco. Ha fatto impressione a tutti, nei giorni scorsi, vedere il latte versato in strada dai pastori sardi. Così come faceva impressione, qualche mese fa, vedere le montagne di riso invenduto nel vercellese o i pomodori di Pachino che non venivano raccolti nei campi della Sicilia. Ma da noi l’impressione dura un attimo, giusto il tempo di un servizio sul Tg. Poi c’è subito altro cui pensare. Il nostro made in Italy non importa a nessuno. Abbiamo le migliori olive del mondo, ma preferiamo farle arrivare dall’estero. Abbiamo i migliori pomodori del mondo, ma preferiamo farli arrivare dall’estero. Abbiamo il miglior pesce del mondo, ma preferiamo mangiare quello dell’Ecuador. Siamo così orgogliosi dei nostri prodotti che li stiamo distruggendo. Facciamo chiudere le nostre imprese, uccidiamo i nostri coltivatori, decimiamo allevatori e pescatori. E per che cosa? Per portare sulle nostre tavole prodotti che, per la maggior parte, sono meno buoni. E pure meno garantiti. È stato calcolato, infatti, che i cibi che arrivano da Paesi extraeuropei sono dodici volte più pericolosi di quelli made in Italy. Dodici volte. Il perché è facilmente spiegabile: all’estero non si adottano gli stessi controlli severi che sono obbligatori da noi e spesso si usano veleni che da noi sono banditi. La Coldiretti nei giorni scorsi ha diffuso un menu tipico di prodotti alimentari importati. Mozzarella al perossido di benzoile, olio colorato con la clorofilla, pane cotto con legna tossica, vino adulterato, carne da macelli clandestini e miele tagliato con sciroppi pericolosi. Non vi basta? Ci sono anche le violazioni dei diritti umani: riso birmano frutto di genocidio e banane dell’Ecuador raccolte con lo sfruttamento dei bambini. Il pranzo è servito. Ma solo per chi ha lo stomaco forte. È chiaro che quando acquistiamo i prodotti dall’estero non mettiamo a rischio soltanto i nostri produttori e la nostra ricchezza: mettiamo a rischio anche la nostra salute. Eppure non se ne parla. Se al contrario se ne parla, si ironizza. Quando nei giorni scorsi ho provato a dire che è stata una sciocchezza aver aumentato le importazioni di latte rumeno dell’85 per cento, facendo crollare il prezzo e riducendo alla fame gli allevatori sardi, qualche benpensante chic ha ironizzato: che vogliamo fare? Dichiarare guerra alla Romania? Come se difendere i prodotti tipici italiani fosse un peccato mortale di imperdonabile superbia sovranista. Mentre invece, forse, sarebbe soltanto buon senso...Si capisce: le proteste degli agricoltori non sono mai troppo popolari. Non fanno share. Dopo un po’ la gente cambia canale. Chi se ne importa se chiude un allevatore sardo? Chi se ne importa se spariscono le olive della Puglia? E non capiamo che difendendo loro, in realtà, difendiamo anche noi stessi, il cibo che ci arriva in tavola, la nostra salute alimentare. In gioco non ci sono soltanto i residui chimici che infestano oggi i pomodori marocchini o le olive tunisine. In gioco ci sono anche i programmi chimici delle multinazionali, che non vedono l’ora di spazzare via la resistenza dei produttori locali per imporci il loro Pranzo Unico Globale, perfetto per la grande industria, con produzioni su larga scala, assai più economiche e redditizie. La direzione è segnata: cibo standard, mode etniche uniformi, piatti riproducibili in vitro, aromi sintetici e gusti serializzati. E per finire anche grilli al curry e locuste al vapore, anch’esse facilmente allevabili in laboratorio. Non è perfetto? Il pranzo è servito. E noi, di questo passo, arriviamo in un attimo ai bolliti.

Sardegna, la protesta del latte e quel sistema disumano per i pastori. Dietro la protesta c’è una questione antica. Ma anche un’ingiustizia tipica dei nostri giorni da sanare subito. Ma la politica sarà in grado di dare risposte? Scrive Aboubakar soumahoro il 20 febbraio 2019 su L'Espresso. Nel 1952 fu istituita la “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla” per indagare sulle condizioni di vita della popolazione in Italia. La Commissione esaminò «nove aree nelle quali il fenomeno della miseria appariva in forme più penose o caratteristiche», tra cui la Sardegna. I deputati Luigi Polano e Salvatore Mannironi, membri della Commissione, scrissero la relazione sulla Sardegna che metteva in evidenza la condizione di lavoratori sfruttati, ridotti alla fame, ricattati e senza tutele sindacali. Soprattutto le donne, che non partecipavano al sindacato per paura di essere licenziate. A distanza di 67 anni, l’isola della Sardegna vede i pastori impegnati in una lotta per un prezzo dignitoso del latte ovino. Questi pastori hanno iniziato una vertenza spontanea ma non inattesa per un osservatore attento. In questa filiera, il prezzo del latte viene stabilito dopo la trasformazione e la vendita delle materie derivanti. Vale a dire che il trasformatore, ovvero l’industriale, stabilisce il prezzo del latte pagato al pastore solo una volta determinato il suo profitto, generato dalla vendita. In aggiunta la Grande distribuzione organizzata (Gdo) si garantisce a sua volta il profitto a partire dalla materia trasformata dall’industriale. È insomma una catena di sfruttamento a cascata dall’alto verso il basso. Tradotto, è il pastore che garantisce il profitto degli industriali e della Gdo. Eppure sono anni che i pastori subiscono questa imposizione. Una vera e propria gabbia dalla quale questi ultimi sono determinati a liberarsi, chiedendo un riconoscimento dignitoso della loro fatica. Dinanzi a questa determinazione, il governo è stato costretto ad affrontare la questione. In altri tempi, come negli anni ’50, all’epoca della Commissione Parlamentare d’inchiesta, si sarebbe cercato di andare alle radici di questa lotta per indagare le ragioni del malessere dei pastori e delle loro famiglie. Invece nel corso degli ultimi anni (e non mi riferisco solo a questo governo) conta la politica degli spot e la spettacolarizzazione degli eventi. In questo contesto, l’onnipresente ministro degli Interni ha radunato delegazioni di pastori, associazioni di categoria e industriali al suo dicastero anziché quelli di competenza, ossia delle politiche agricole o del lavoro. Le discussioni tra industriali e pastori erano incentrate sul prezzo del latte. Gli industriali proponevano 60 centesimi al litro diventato poi 72 centesimi, mentre i pastori dal chiedono di portare il prezzo a un euro passando a 80 centesimi al litro da subito. Tuttavia, se si vuole sviluppare e dare sostanza politica alle rivendicazioni dei pastori, senza ridurle a propaganda elettorale, bisogna dire che va ripensata l’intera filiera a partire dal ruolo della Grande distribuzione organizzata. Quest’ultima, stabilendo i prezzi dall’alto, schiaccia ugualmente i pastori, i contadini e i lavoratori della filiera agricola, tutti costretti a salari da fame. I prodotti agricoli, che finiscono sui mercati, non risentono del giusto riconoscimento della fatica di uomini e donne che si spaccano la schiena di giorno per poi dormire in baraccopoli o tendopoli di notte. Paola Clemente, Soumaila Sacko, Becky Moses, Sekine Traore, Ali Dembele, Suruwa Jaiteh, Moussa Bah (la lista sarebbe lunga) sono caduti, pure se in circostanze diverse, in contesto di sottrazione della dignità della persona. La stessa dignità che li lega alla causa dei pastori sardi. Purtroppo, la politica delle ruspe, della stigmatizzazione dei migranti e della marginalizzazione degli ultimi (anche se italiani) è uno stratagemma finalizzato alla distrazione di massa. Le vere domande alle quali bisogna dare risposte sono: come ci si sta muovendo per garantire l’equità nella filiera agricola? Quali sono le politiche messo in atto per garantire a contadini e produttori la possibilità di vendere a prezzi equi in grado di compensare il proprio lavoro? Come impedire il potere monopolistico dei grandi gruppi sia industriali sia del commercio? Come vigilare sulle condizioni dei lavoratori del settore? Si pone quindi una questione gigantesca di etica su tutta la catena del valore. Una vera politica è quella capace di fornire risposte in una ottica strutturale. Per questo urge la necessità di un intervento su tutta la linea della filiera a oggi comandata dalla Gdo. La politica dovrebbe garantire ai consumatori prodotti agricoli sani che tengano conto delle condizioni dei lavoratori, dei contadini e dei produttori.

·        I cibi contaminati.

Cibo insano. Fausta Chiesa per corriere.it il 13 ottobre 2019. Tonno spagnolo? Sgombro francese? E i pistacchi sono turchi o americani? La provenienza del cibo potrebbe fare la differenza, almeno in base a un’analisi fatta da Coldiretti sugli allarmi alimentari che si sono verificati in Italia quest’anno: più di uno al giorno, che in oltre quattro prodotti su cinque hanno riguardato prodotti pericolosi per la sicurezza alimentare provenienti dall’estero: su un totale di 281 allarmi notificati a Bruxelles, 124 provenivano da altri Paesi dell’Unione Europea (44 per cento) e 108 da Paesi extra Ue (39 per cento). L’analisi è stata presentata al Forum Internazionale dell’agroalimentare a Cernobbio (Como) dove è stata apparecchiata la tavola dei cibi più pericolosi venduti in Italia nel 2019 sulla base delle elaborazioni del sistema di allerta Rapido (Rassf, Rapid Alert System for Food and Feed) relative ai primi nove mesi. I maggiori pericoli? «Il pesce spagnolo, come tonno e pescespada, con alto contenuto di mercurio – precisa la Coldiretti – e quello francese, sgombro in primis, per l’infestazione del parassita Anisakis, ma sul podio del rischio ci sono anche i materiali a contatto con gli alimenti (i cosiddetti «Moca»), per i quali si riscontra la cessione di sostanze molto pericolose per la salute del consumatore (cromo, nichel, manganese, formaldeide), in particolare per quelli importati dalla Cina». Come per esempio i pelati. Nella black list alimentare ci sono poi i pistacchi dalla Turchia e le arachidi dall’Egitto per l’elevato contenuto di aflatossine cancerogene, presenti anche nei pistacchi dagli Stati Uniti e la salmonella enterica nelle carni avicole polacche. Sul podio dei Paesi da cui arrivano in Italia il maggior numero di prodotti rischiosi al primo posto emerge la Spagna con 54 notifiche, riguardanti principalmente la presenza di mercurio nel pesce, seguita dalla Cina con 28 segnalazioni, soprattutto per migrazione di metalli nei materiali a contatto con alimenti e dalla Turchia con 22 avvisi, maggiormente per aflatossine nella frutta in guscio. «E questo accade – sottolinea la Coldiretti – nonostante il fatto che la Cina e la Turchia rappresentino rispettivamente appena il 2% e l’1% del valore delle importazioni agroalimentari in Italia mentre la Spagna arriva circa al 10 per cento. Dai risultati sono evidenti le maggiori garanzie di sicurezza dei prodotti nazionali mentre i pericoli vengono soprattutto dalle importazioni». In generale, «sugli alimenti importati - sottolinea Coldiretti - è stata individuata una presenza irregolare di residui chimici più che doppia rispetto a quelli made in Italy, con i pericoli che si moltiplicano per gli ortaggi stranieri venduti in Italia che sono quasi cinque volte più pericolosi di quelli nazionali, secondo l’ultimo report del ministero della Salute sul “Controllo ufficiale sui residui di prodotti fitosanitari negli alimenti” pubblicato in agosto 2019. Su circa 11.500 i campioni di alimenti (ortofrutta, cereali, olio, vino, baby food e altri prodotti) analizzati per verificare la presenza di residui di prodotti fitosanitari appena lo 0,9% dei campioni di origine nazionale – è risultato irregolare ma la percentuale sale al 2% se si considerano solo gli alimenti di importazioni e tra questi il record negativo è fatto segnare dagli ortaggi dall’estero con il 5,9%». Ed è per questo che l’associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana presieduta da Ettore Prandini spinge sull’obbligo di indicare in «etichetta l’origine nazionale dei prodotti da estendere a tutti gli alimenti». Coldiretti ha annunciato di aver raggiunto l’obiettivo della raccolta di 1,1 milioni di firme di cittadini europei per chiedere alla Commissione Ue di estendere l’obbligo di indicare l’origine in etichetta a tutti gli alimenti con la petizione europea «Eat original! Unmask your food» (Mangia originale, smaschera il tuo cibo) promossa assieme ad altre organizzazioni europee. La petizione si è conclusa il 2 ottobre. L’associazione ha consegnato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte un «maxi assegno» di 1.100.000 firme raccolte.

Lo studio sull’insalata in busta. Da "it.style.yahoo.com" del 25 febbraio 2019. Siamo abituati a comprare l’insalata in busta già lavata e pronta per essere condita e gustata. I vantaggi di questo servizio sono indiscussi, a partire dalla possibilità – quando si rientra tardi la sera – di aprire la busta e considerare parte della cena già preparata. Ma siamo sicuri che i prodotti confezionati siano davvero lavati ed igienizzati come dovrebbero essere? L’Università di Torino ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio condotto su un campione di 100 insalate in busta: il dati riportati sono particolarmente preoccupati soprattutto a causa dell’elevata quantità di microrganismi e batteri presenti nei prodotti analizzati. Inoltre è stato sottolineato come l’insalata confezionata tenda a deteriorarsi molto più facilmente, arrivando ad una data di scadenza decisamente precoce: infatti, anche se non ci sono conservanti e la freschezza dovrebbe essere garantita dalla busta stessa e dalla temperatura, tuttavia dal confezionamento al consumo possono passare anche diversi giorni. Inoltre, non bisogna sottovalutare l’eventualità in cui l’insalata possa essere conservata in celle frigorifere per lunghi periodi, in un clima notoriamente sfavorevole per gli ortaggi. Lo studio insiste molto sulle modalità di lavaggio delle insalate prima del confezionamento: dopo aver subito due round di “centrifuga” all’interno di specifiche vasche dove l’acqua viene cambiata ciclicamente, la verdura viene portata in apposite sezioni produttive in cui viene tagliata e predisposta all’imbustamento. Purtroppo la sola acqua non è sufficiente a garantire l’igiene e l’eliminazione di agenti patogeni che potrebbero portare delle malattie anche molto gravi. È opportuno precisare – in via preliminare – che non tutti i batteri presenti nelle foglie di insalata sono potenzialmente dannosi per il corpo umano. Tuttavia, uno degli elementi più pericolosi che si trovano all’interno dell’insalata in busta è la Toxoplasmosi. Si tratta di un agente patogeno particolarmente pericoloso per le donne in gravidanza che, come è noto, devono porre particolare attenzione nel consumo di prodotti crudi dal momento che i batteri in essi contenuti potrebbero passare direttamente al feto. I sintomi con cui si presenta il batterio sono quelli simili ad una lieve forma influenzale, con dolori articolari, spossatezza e possibile cefalea; non è da sottovalutare la possibilità di una forma totalmente asintomatica. Per congiurare qualsiasi rischio è quindi fortemente consigliato lavare accuratamente l’insalata nell’apposita centrifuga casalinga, aggiungendo un misurino di Amuchina che igienizzi in profondità la verdura che si desidera consumare.

I cibi contaminati che finiscono sulla nostra tavola. Coldiretti nel suo rapporto "Agromafie" stila la lista dei prodotti alimentari più facilmente contraffatti e pericolosi, scrive Panorama il 14 febbraio 2019. Pasta, riso, carne, pesce, funghi, nocciole, uova. Ci si potrebbe fare un menù completo con la lista degli alimenti contraffatti che finiscono sulle nostre tavole ogni giorno stando ad "Agomafie" il rapporto anuale redatto da Coldiretti e che ci racconta quali sono i rischi che gli italiani corrono ogni giorno a tavola e quando fanno la spesa.

Antipasti. In questo ipotetico menu illegale si puà cominciare con gli antipasti:

Mozzarella, sbiancata con carbonato di soda o perossido di benzoile, in maniera da far sembrare appetibile e commestibile un prodotto scaduto.

Frittelle di bianchetti, conosciuti a Napoli come cicinielli, vietati dal regolamento UE 1967/2006 che ne mette fuori legge la cattura, lo stoccaggio, l’immagazzinamento e la vendita.

Primi piatti (pasta e riso). Sotto accusa il riso, spesso proveniente dalla Birmania che ha un costo inferiore a quello italiano a causa dello sfruttamento dei lavoratori (spesso di popolazione Rohyngia, perseguitata da anni nel paese asiatico). Oppure la pasta prodotta all'estero con farine dalla provenienza sconosciuta. Il tutto magari condito con delle scaglie di tartufo raccolto in Romania, molto meno pregiato, ma venduto come italiano.

Secondi, carne e pesce. Tonnellate di pesce, spacciato come fresco, è diventato tale solo grazie ad un "lavaggio" con il "cafados" (una miscela di acidi ed acqua ossigenata) che garantisce un aspetto di freschezza. Per la carne non mancano bistecche e tagli di ogni tipo e di ogni animale provenienti da macelli sconosciuti, da animali senza alcuna tracciabilità, quindi senza alcuna sicurezza per i cliente.

Verdure e condimenti. L'olio, da sempre, è uno dei prodotti più contraffatti. Spesso oli provenienti dall'estero e spacciati come degli "extra vergine" sono in realtà prodotti di qualità molto più scadente.

Tra i vegetali più a rischio i funghi, di varia tipologia, che arrivano dall'estero senza alcun controllo ma spacciati e venduti per italiani. Immancabile in questo menù della contraffazione il Parmigiano, prodotto d'eccellenza del nostro paese, ma sempre più frequentemente e facilmente contraffatto con altri formaggi di infima qualità.

Dolci e frutta. Il miele è il principale prodotto finito nell'occhio della Coldiretti che ha scoperto tonnellate di prodotto tagliato con saccarosio o altri dolcificanti liquidi.

Bevande. Qui la fa da padrone il vino, tagliato con acqua e zucchero ed altre sostanze tossiche.

Coldiretti stima in oltre 20 miliardi l'anno il giro d'affari del mondo della contraffazione alimentare in Italia, sempre più nelle mani della criminalità organizzata.

Agromafie, aumentano le truffe a tavola. Nel mirino carne, vino e zucchero. Il rapporto Coldiretti 2018: chi se lo può permettere privilegia il Made in Italy, ma un terzo dei consumatori è costretto a scegliere il low cost, scrive Alessandra Ziniti il 14 febbraio 2019 su La Repubblica. Occhio alla carne e al vino. E' lì che si annidano le maggiori insidie di manipolazione con la quale le agromafie alimentano il loro giro d'affari. Un business che sembra lievitare come confermano i dati del rapporto 2018 elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità. Con i reati nel settore agroalimentare che aumentano del 59 per cento. I settori più colpiti da truffe sono il vino con +75% nelle notizie di reato, la carne dove sono addirittura raddoppiate le frodi (+101%), le conserve con +78% e lo zucchero dove nell'arco di dodici mesi si è passati da zero e 36 episodi di frode. Più di un italiano su cinque è stato vittima di frodi alimentari con l'acquisto di cibi fasulli, avariati e alterati. Sotto accusa sono soprattutto i cibi low cost, dietro ai quali spesso si nasconde l'uso di ingredienti di minore qualità o metodi di produzione alternativi, denuncia Coldiretti, ma possono a volte mascherare anche vere e proprie illegalità. "Occorre verificare la filiera, la tracciabilità, tutelare le azienda sane che sono il 99 per cento e andare a beccare i delinquenti. A monte di tutto, poi, c'è la difesa del made in Italy in sede Ue perché la contraffazione è un incentivo alla criminalità organizzata", il commento del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Nell'ultimo anno sono stati sequestrati 17,6 milioni di chili di alimenti di vario tipo per un valore di 34 milioni di euro con lo smantellamento di un'organizzazione fra Campania, Puglia, Emilia Romagna, Sicilia e Veneto che importava zucchero da Croazia, Isole Mauritius, Serbia e Slovenia e poi lo immetteva nei canali del mercato nero attraverso fatture false per rivenderlo a prezzi stracciati a imprenditori che lo usavano per adulterare il vino. Chi se lo può permettere, continua a prediligere i prodotti Made in Italy (ben l'82,7 per cento), il 67,7% controlla l'etichettatura e la provenienza dei prodotti. Gli italiani si orientano nella gran parte dei casi verso i prodotti di stagione, privilegiati dal 73,7 per cento, verso i prodotti con marchio Dop, Igp, Doc (il 56 per cento li compra spesso) e senza olio di palma (55,8 per cento); quasi la metà (49,3 per cento) privilegia i prodotti a Km 0. I prodotti biologici vengono acquistati spesso dal 41,3 per cento del campione. Eppure superano un terzo (37 per cento) i consumatori che, indipendentemente dalla provenienza, scelgono i prodotti più economici. L'agricoltura e l'alimentare restano aree prioritarie di investimento dalla malavita che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché del cibo, anche in tempi di difficoltà, nessuno potrà fare a meno, ma soprattutto perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la vita quotidiana della persone in termini economici e salutistici. Di fronte al moltiplicarsi dei casi di frode e contraffazione alimentare più della metà italiani chiede - continua la Coldiretti - che venga sancita la sospensione dell'attività. "E' necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l'ambiente, il lavoro e la salute - afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini che aggiunge - oltre ad applicare l'indicazione d'origine su tutti i prodotti va anche tolto in Italia il segreto sui flussi commerciali con l'indicazione delle aziende che importano materie prime dall'estero per consentire interventi mirati in situazioni di emergenza anche sanitaria che si ripetono sempre più frequentemente".

Come difendersi dal cibo taroccato, scrive Andrea Cuomo, Venerdì 15/02/2019, su Il Giornale. S e il mondo è pieno di ristoranti «Cosa Nostra» e di vini «Il Padrino» in fondo non è strano. È logico, anzi. Perché una parte non trascurabile di quello che mangiamo è frutto di affari loschi, gestiti da organizzazioni criminose talora transnazionali che delinquono in tutte le fasi della filiera del cibo, dalla produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita. Con danni per il nostro portafogli, per il nostro palato, per l'ambiente, talora per la nostra salute. È di 24,5 miliardi di euro il giro di affari annuo dell'«agromafia» secondo il sesto rapporto elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell'agroalimentare presentato ieri a Roma. Un business enorme e in continua crescita: +12,4 per cento nel 2018 rispetto al 2017. Dentro c'è di tutto. Cibi coltivati o lavorati da manodopera irregolare, maltrattata o minorile. Merci che vengono spacciate per italiane ma non lo sono. Aziende e ristoranti aperti con soldi riciclati. Ma, naturalmente, quelli che ci inquietano di più sono i prodotti contraffatti, avariati o alterati, a volte del tutto «falsi». Ecco alcuni di loro.

Mozzarella sbiancata con la soda. Fa inorridire il pensiero, eppure un modo economico per produrre una mozzarella che ovviamente tale non è ma può sembrarlo è produrre un formaggio di pasta filante e sbiancarlo con il carbonato di soda e il perossido di benzoile (ma c'è chi lo fa addirittura con la calce).

Pesce «rinfrescato». Si chiama «cafados» (ma anche «cafodos») ed è un additivo di provenienza spagnola che in Italia non è commerciabile. Viene utilizzato da solo o con aggiunta di acqua ossigenata e fa il miracolo di far sembrare freschissimo anche il pesce che è stato tolto dalla rete in epoche remote. Il «cafados» non è di per sé tossico, ma, ovviamente, lo è indirettamente, dal momento che potrebbe spingerci ad acquistare, e quindi a mangiare, pesce avariato. Il problema è inoltre che questa sostanza non è facile da reperire, visto che a contatto con acqua e ghiaccio si dissolve. I pesci più facilmente sottoponibili a questo make up sono sardina acciuga, tonno, sgombro e palamita. Come rimediare? Guardare il pesce negli occhi, che non mentono. E, se possibile, tastarlo per capire se la carne è soda e elastica.

Carne di macelli clandestini. Li immaginiamo come ambientazione di un noir suburbano, ma sono una triste realtà anche nelle nostre città, in particolare del Sud. Sono luoghi privi di autorizzazione e, quindi, del rispetto delle più elementari norme igieniche e utilizzano manodopera in nero, in essi vengono macellati cavalli, ma anche altri animali spesso frutto di abigeato (furto di bestiame). La carne rientra, nelle ultime fasi, nei canali «ufficiali», ma altre volte viene smerciata in canali paralleli che attirano anche comuni cittadini sedotti dai prezzi «low cost».

Pane cotto in forni tossici. Anche in questo caso è un problema soprattutto meridionale, legato ai tanti forni clandestini che operano per lo più attorno a Napoli e sono gestiti dalla Camorra. Chiamato in gergo «pane cafone», è spesso cotto in forni con legno proveniente da mobili distrutti e, quindi, verniciato, a volte senza nemmeno togliere i chiodi. In un caso, nel 2013, fu trovato addirittura legno di bare.

Miele «tagliato». Di miele si parla poco, ma è un prodotto adorato dalle agromafie a causa del fatto che in Italia, e in Europa, la domanda è molto superiore alla produzione. Quello italiano, molto pregiato, viene così «sostituito» da un prodotto proveniente dall'Est Europa o dalla Cina. Ma il miele viene anche adulterato grazie a «tagli» con sciroppi di riso, mais, zucchero che ne gonfiano il volume a basso prezzo.

Tartufo cinese. Il pregiatissimo tubero è una manna per i contraffattori a causa dell'elevatissimo costo che «premia» coloro che riescono a mascherarlo. Ad esempio, capita sovente che l'esotico, ma non pregiato, Tuber indicum proveniente dalla Cina, venga spacciato per l'ottimo tartufo nero nostrano, a cui assomiglia molto.

Vino allo zucchero. Le contraffazioni del nettare di Bacco sono cresciute del 75 per cento nell'ultimo anno. Si tratta, per lo più, di «tagli» di un vino certificato da un disciplinare con un vino meno pregiato che non rientra nell'area di legge. Ma, soprattutto, dell'aggiunta dello zucchero per aumentare il titolo alcolometrico, pratica vietatissima in Italia.

Olio colorato. È quello di semi, scadente e sbiadito, ma che, colorato con la clorofilla, può, almeno cromaticamente, essere spacciato per un ottimo extravergine d'oliva.

·        “La porcata” di Parma.

Prosciutto, lo scandalo sulle cosce col marchio falso: ecco come riconoscere quello che ti porti in tavola. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Lo scorso anno c' è stato uno scandalo che ha scosso il made in Italy a tavola, Prosciuttopoli. Se n' è parlato meno di quanto la sua portata avrebbe meritato. Quasi due milioni di cosce di prosciutti di Parma e San Daniele Dop smarchiati, organismi di controllo sospesi e commissariati, le procure di molte città ad indagare su una truffa di dimensioni colossali. Le cosce ritirate dal circuito delle due Dop provenivano da maiali nati e allevati in Italia. Nulla a che vedere con i salumi tarocchi fatti a partire da materia prima tedesca, olandese o danese. La truffa era più sottile: le scrofe italiane venivano fecondate con seme di verri di razza Duroc danese, vietata dal disciplinare di produzione, che contempla invece il Duroc italiano. La differenza è notevole: i suini con il papà danese crescevano più in fretta dei nostri e così richiedevano una spesa minore per allevamento e alimentazione. Fra l' altro erano più magri e la loro carne diversa dalle cosce si vendeva più facilmente. Gli allevatori coinvolti sono stati centinaia, tra Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, quasi tutti rei confessi. «Per ripartire con la produzione le aziende hanno ammesso di aver partecipato alla frode», spiegò all' epoca dei fatti uno degli avvocati degli allevatori, Tom Servetto, a giudizio del quale però «era il mercato che imponeva agli imprenditori di allevare il Duroc danese. Il prodotto era più apprezzato: carne più magra e meno scarto. Veniva pagato meglio. Tutti sapevano tutto, ma ora a pagare sono soltanto loro».

TEST AGLI ANIMALI. Le indagini vanno avanti. Immagino che presto arrivino anche le prime condanne. Ma la novità più interessante è di questi giorni. Il ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova ha annunciato giovedì la pubblicazione di un decreto che introduce test del Dna sui capi che entrino nelle filiere delle indicazioni geografiche. «D' ora in poi il sistema ufficiale dei controlli di tutte le produzioni Dop e Igp che utilizzino carne di suino pesante come materia prima viene potenziato, con procedure trasparenti e metodologie di analisi incontrovertibili» fa sapere la Bellanova, «che prendono a riferimento una banca dati ufficiali basata sull' analisi del Dna dei riproduttori utilizzati». In pratica il Dna di verri e le scrofe la cui carne entri ad esempio nella filiera dei Prosciutti di Parma o San Daniele verrà inserito in una banca dati ufficiale in modo che sia possibile risalire con certezza ai genitori di ogni singolo capo macellato. In pratica sarà possibile ricostruire la mappa genetica di tutto il patrimonio suinicolo delle nostre indicazioni geografiche. Le razze non previste dai disciplinari verrebbero individuate immediatamente con certezza assoluta. E finalmente si stanno muovendo anche i consorzi di tutela. Quello del Parma, ad esempio, ha deciso di creare una lista di tipi genetici ammessi e una banca dati che li contenga tutti: per ogni verro sarà registrata la sequenza di Dna che si potrà confrontare con quello di ogni singolo prosciutto. Naturalmente ogni verro che si voglia inserire nella banca dati del Dna, dovrà superare prima una specie di esame di idoneità genetica.

IDONEITA' GENETICA. D' altronde i test genetici sono entrati da tempo nei tribunali di mezza Italia per accertare l' origine delle materie prime utilizzate nelle produzioni agroalimentari. Il caso più clamoroso riguarda le 7mila tonnellate di finto olio extravergine italiano individuate nel 2015 presso tre grandi oleifici pugliesi dall' allora Corpo forestale dello Stato. Grazie all' esame del Dna fu possibile risalire all' origine della materia prima che arrivava in quel caso da Siria, Turchia, Marocco e Tunisia. Dopo un lungo braccio di ferro fra periti, la Procura di Bari sventò il tentativo dei truffatori di dichiarare inammissibile il test del Dna nei tribunali. Ora non servirà aspettare che intervenga la magistratura perché grazie ai controlli preventivi le eventuali truffe nel comparto suinicolo verrebbero scoperte subito. Attilio Barbieri

Dal “Fatto quotidiano” il 20 maggio 2019. "Terminata la stagionatura, se andrete ad acquistare un prodotto marchiato Parma, rischierete una volta su tre di essere frodati", cioè di comprare un prosciutto fatto con la carne di maiali allevati sì in Italia ma figli di scrofe inseminate con maiale danese "durok", più magro, molto richiesto, ma escluso dal disciplinare di produzione che consente di fregiarsi del marchio Dop, denominazione d' origine protetta. E conclusioni simili si possono trarre per il San Daniele. Sono prosciutti comuni, buoni per carità, ma senza i marchi Dop il prezzo al dettaglio non potrebbe mai salire fino a 54 euro al chilo. È l' inchiesta di Emanuele Bellano con Alessia Cerantola e Greta Orsi, intitolata "La porcata", che Sigfrido Ranucci presenta nella puntata di stasera di Report (Raitre, 21,30). Le indagini degli ispettori del ministero dell' Agricoltura e dai carabinieri del Nas, coordinate dalle Procure di Torino e Udine, sono note. Un milione di cosce di prosciutto sequestrate per un valore di quasi 100 milioni di euro, i prosciutti a cui è stato revocato il marchio Dop sono circa il 20 per cento della produzione annua di Parma e San Daniela. Report ricorda i 200 indagati e i recenti patteggiamenti di una decina di allevatori: pene fino a 14 mesi di reclusione. Bellano ha intervistato il tecnico che gira per gli allevamenti con i semi del maiale danese. Ma soprattutto presenta documenti, una relazione dell' associazione degli allevatori e alcune recentissime email, in base ai quali afferma che "la frode è ancora in essere". Uno dei controllori scrive: "Mi è stato risposto che se cominciano a far rispettare la legge, sono 2000 euro di multa per ogni suino macellato, oltre il ritiro dal commercio, quindi roba improponibile". Report spiega che la conformità delle carni al disciplinare è affidata, per il Parma, all' Istituto Parma Qualità (Ipq), le cui quote sono in mano ai controllati e cioè il Consorzio di Parma e le associazioni degli industriali della carne e degli allevatori; la filiera Dop del San Daniele è vigilata dall' Ifcq di San Daniele del Friuli, di proprietà di un trust i cui beneficiari sono Assica, l'associazione industriali della carne e il consorzio del San Daniele stesso. E ancora, Report documenta le condizioni in cui vivono i maiali, perfino in allevamenti "sostenibili". Gli animali, tutti col tatuaggio delle filiere Dop, sono "ammassati, a stretto contatto sviluppano fenomeni di cannibalismo e si mordono le orecchie a vicenda"; qua e là spuntano topi. In un allevamento collegato al Parma, una scrofa malata viene invitata a spostarsi con un pistola elettrica, un' altra è abbattuta a martellate.

·        Le problematiche degli allevamenti intensivi.

Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano” il 2 ottobre 2019. Chi pagherà il conto della nuova folle crociata mondiale contro il riscaldamento globale? Perché statene certi, se il terrore è stato seminato con tale religioso fanatismo è perché i governi o chi per loro dovranno primo o poi presentare il conto della conversione di interi settori dell'economia, di tagli feroci da una parte e di investimenti sontuosi dall' altra. E state altrettanto certi che alla fine a pagare saranno le categorie più deboli, quelle, solo per fare un esempio, che faranno più fatica a cambiare per l' ennesima volta l' automobile a benzina in una elettrica. Ma il futuro è già presente, perché c' è Greta, c' è il ghiacciaio del Bianco che scivola giù, quelli dell' Artico che si sciolgono, il tempo stringe e i politici devono pur fare qualcosa, è una questione anche di consenso. In Olanda per non perdere tempo hanno iniziato a prendersela non tanto con la CO2, ma con l' azoto che in alcune sue forme è considerato un gas serra ed è un problema annoso da quelle parti in quanto utilizzato a mani basse come fertilizzante. Stabilito che nell' aria c' è troppo protossido di azoto, famoso tra l' altro per essere il gas esilarante, e che l'Olanda avrebbe dunque in questo senso violato le norme Ue sulla protezione della natura, a maggio scorso il Consiglio di Stato dell' Aia ha puntato il dito contro la disinvolta concessione di permessi per l'edilizia e l' agricoltura e ha bloccato migliaia di progetti già approvati. La scorsa settimana poi un comitato consultivo ha dichiarato che sono assolutamente necessarie misure drastiche, sia in agricoltura che sulle strade olandesi, e tanto per rincarare la dose il deputato liberale Tjeerd de Groot ha chiesto di dimezzare la produzione di bestiame, cioè in pratica di abbattere dall' oggi con il domani sei milioni di suini e 50 milioni di polli. Gli allevatori e gli agricoltori, già sul piede di guerra in quanto indicati tra i principali untori di CO2 del Paese, hanno deciso di passare dalle parole ai fatti e di scendere in strada coi trattori bloccando, come hanno fatto ieri, le principali arterie del Paese. Complice la pioggia a dirotto pare che l'Olanda abbia conosciuto il suo peggior giorno in termini di viabilità. Vi ricorda qualcosa? Più o meno è quello che è successo lo scorso anno in Francia con i gilet gialli che hanno iniziato la loro ondata di proteste proprio contro l' aumento del carburante giustificato da Macron con motivazioni ambientaliste e addirittura geopolitiche («non vogliamo che il portafoglio dei francesi finisca nelle mani dei Paesi produttori di petrolio» disse il portavoce dell' Eliseo). In entrambi i casi la rivolta arriva dalla gente comune, da quelli che vivono lontano dalle capitali e che non godono dei privilegi in termini di servizi delle grandi città. Arriva dalle cittadine di provincia, già penalizzate dalla crisi e da una successiva crescita economica non all' altezza del loro passato. Dalle campagne, da gente che vive ancora di lavori tradizionali, come appunto l'agricoltore e l'allevatore, e che adesso viene perfino accusata di essere tra i principali responsabili del futuro incerto dell' umanità intera. «Ci sentiamo come se fossimo messi all' angolo da personaggi che vivono in città e che vengono qui e ci dicono come dovrebbero essere le cose in campagna, come dobbiamo vivere», ha detto uno degli organizzatori della protesta, Mark van den Oever. Ma la rabbia degli allevatori in questo caso non è rivolta solo contro i politici che vogliono dimezzare gli allevamenti, ma anche contro quella società benestante e all' avanguardia, che dipinge li dipinge come "dierenmishandelaars", letteralmente "trafficanti di animali", mostri, che oltre ad allevare bestie che "inquinano", maltrattano le stesse, le uccidono e le macellano. Non a caso ieri in piazza all' Aia sono scesi in strada per una contromanifestazione anche gli animalisti esaltati di Direct Action Everywhere, che sostengono come il liberale Tjeerd de Groot che gli allevamenti del Paese vanno ridimensionati, se non eliminati, a prescindere.

LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PAC. La denuncia di Greenpeace: «I fondi europei? Se li mangiano i maiali». «In Europa il 71% delle aree agricole serve per produrre cibo per animali, non per gli uomini». La scomparsa delle aziende agricole più piccole. I rischi per l’ambiente e per la salute delle persone. E la petizione per cambiare le regole Ue: «Niente soldi agli allevamenti intensivi», scrive Alessandro Sala il 12 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. Il 71% di tutta la superficie agricola dell’Unione europea è destinato all’alimentazione del bestiame e di conseguenza solo il restante 19% a prodotti coltivati per il consumo diretto delle persone. Agli allevamenti intensivi e alle aziende che producono alimenti per il bestiame la Ue versa, attraverso la Politica agricola comune (Pac) una somma compresa tra i 28,5 e i 32,6 miliardi di euro, secondo meccanismi che favoriscono le aziende di maggiori dimensioni, con la conseguenza della progressiva scomparsa di quelle più piccole, mentre quelle più grosse incrementano il numero dei capi allevati. Non solo: quattro Paesi dell’attuale Ue a 28 Stati — Germania, Francia, Spagna e Regno Unito — sommano più della metà dei capi di bestiame allevati nel territorio comunitario (nello specifico: il 54% dei bovini, il 50% dei suini e il 54% di ovini e caprini).

Verso la nuova Pac. I numeri emergono da un rapporto che Greenpeace ha commissionato al giornalista investigativo Nils Mulvad, data specialist e fondatore del sito FarmSubsidy.org, e che viene pubblicato oggi in tutta Europa. Il rapporto — titolo originale Feeding the problem, che in italiano diventa un eloquente «Soldi pubblici in pasto agli allevamenti intensivi» — è accompagnato da una petizione internazionale che chiede a Bruxelles di rivedere i criteri con cui vengono erogati i fondi comunitari, con una netta virata verso l’agricoltura sostenibile. La discussione sulla Pac (che drena da sola il 40% del bilancio Ue) per il periodo 2021-2027 è già avviata: in questi giorni se ne parla in commissione Ambiente, a marzo approderà in commissione Agricoltura. E ad aprile potrebbe approdare nell’aula dell’Europarlamento. Ma difficilmente la pratica si chiuderà in questa legislatura ormai agli sgoccioli e toccherà dunque ai prossimi governanti europei definire le nuove linee guida del sistema agricolo comunitario. «A parole dicono tutti di volere spostare l’attenzione su un’agricoltura sostenibile — commenta Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia —, ma di fatto non si cambiano le regole di erogazione dei contributi, che spazzano via le aziende più piccole facendo cambiare volto all’allevamento nel nostro continente».

La scomparsa dei piccoli. Lo studio evidenzia che tra il 2005 e il 2013 hanno cessato la loro attività circa 3,7 milioni di aziende agricole (passate da 14,2 a 10,7 milioni), con un calo del 26%. Nel solo settore zootecnico la riduzione è stata del 32% in termini proporzionali e di quasi 3 milioni in numeri assoluti. Parallelamente al calo del numero di aziende, aumentano le dimensioni di quelle che restano operative. I dati raccolti da Eurostat certificano che nel periodo preso in considerazione le aziende di grandi dimensioni hanno aumentato di 10 milioni le «unità di bestiame», arrivando ad un totale di 94 milioni. Con il risultato che quasi tre quarti dei capi (il 72,2%) nel 2013 risultavano allevati da aziende di grandi dimensioni. Nello stesso periodo il numero di quelli allevati nelle aziende più piccole si è più che dimezzato e ora supera di poco il milione. Greenpeace sottolinea dunque l’impatto che a livello socio-economico questo trend sta generando. Il denaro dei contribuenti non viene utilizzato per sostenere l’agricoltura tradizionale e la coltivazione di prodotti destinati direttamente alle persone, bensì per alimentare una filiera che ruota alla produzione di carne e che avvantaggia soprattutto i grandi gruppi. «Come dire che i fondi europei se li mangiano i maiali» dicono gli ambientalisti.

La produzione di carne. Tra il 2000 e il 2017 la produzione lorda di carne nell’Ue è aumentata del 12,7%, passando da quasi 42 milioni di tonnellate a quasi 48. Le previsioni sul consuntivo del 2018, ancora non disponibile, parlano di un ulteriore aumento di 871 mila tonnellate. Gli effetti di questo trend sono negativi anche da un punto di vista ambientale perché gli allevamenti sono responsabili del 12-17% dei gas serra prodotti nel territorio Ue. Al settore agricolo sarebbe ascrivibile anche l’80% delle emissioni europee di ammoniaca in aria e di azoto nelle acque, di cui l’80% ascrivibile agli allevamenti. Il Rapporto europeo sull’azoto certifica che questo tipo di inquinamento costa all’Ue fino a 320 miliardi di euro all’anno ed espone circa 18 milioni di persone al rischio di bere acqua con concentrazioni di nitrati superiori ai livelli raccomandati per la salute umana.

L’antibioticoresistenza. E sempre in campo sanitario, gli allevamenti intensivi sono considerati tra i principali responsabili dell’antibioticoresistenza, ovvero la capacità di batteri di sviluppare assuefazione agli antimicrobici utilizzati in grandi quantità negli allevamenti. Questo significa rendere progressivamente inefficaci gli antibiotici per uso umano perché i batteri che colpiscono animali e uomo anche se differenti appartengono alle stesse famiglie. Non a caso l’Oms ha definito l’antibioticoresistenza «emergenza sanitaria globale». Ecd, Efsa e Ema nel 2017 hanno pubblicato una relazione congiunta che ha evidenziato come l’uso di antibiotici per animali sia stato nella Ue più del doppio rispetto a quello di antibiotici in medicina umana.

Una dieta più «veg». La soluzione? Spingere sempre di più verso un’alimentazione a prevalenza vegetariana. Il rapporto Lancet pubblicato a gennaio segnala la necessità di una riduzione di almeno il 50% dei consumi di carne rossa e di un raddoppio del consumo di legumi, noci, frutta e verdura. Per una questione di salute, perché i consumi di carne e latticini nella Ue sono stimati in circa il doppio rispetto a quelli raccomandati, ma anche di tutela dell’ambiente. Greenpeace cita studi secondo cui il dimezzamento di prodotti di origine animale permetterebbe di ridurre le emissioni di gas serra europee del 25-40%.

Cambiare le regole. Nell’anno del rinnovo del Parlamento europeo c’è dunque l’invito a cambiare le regole con cui la Ue finanzia il settore agricolo e zootecnico. «Anche perché — dice ancora Federica Ferrario — quella sulla quantità sarà una battaglia persa nei confronti di Paesi come gli Usa o il Canada che possono contare su territori vasti e non hanno una tradizione di qualità da difendere. Non hanno, come noi, un made-in-Italy da giocarsi, un valore aggiunto di eccellenza da far valere. Se il nostro prodotto si snatura non può più essere difeso. Sono temi scottanti, hanno a che fare con i guadagni immediati. Ma ci si ragiona e si corre ai ripari ora che si riesce ancora a cambiare rotta, oppure si finisce col soccombere». Greenpeace chiede alla Ue di avviare politiche che inducano gli allevatori a produrre meno e meglio e il settore agricolo a produrre più frutta e verdura. Inoltre, per il gruppo ambientalista, vanno stabiliti criteri rigidi sul numero di capi posseduti e di conseguenza sull’inquinamento prodotto e a questi far sottostare l’erogazione di finanziamenti pubblici. Secondo un principio: niente soldi a chi mette a rischio l’ambiente.

Ferrario (Greenpeace): «La Ue cambi rotta, oggi dà più soldi a chi inquina di più». Federica Ferrario, responsabile agricoltura di Greenpeace Italia: «Agire ora prima che sia troppo tardi. La battaglia deve essere sulla qualità della produzione, non sulla quantità», scrive Alessandro Sala il 12 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. Fotografare la realtà dell’agricoltura in Europa non è semplice. Gli Stati membri non forniscono statistiche omogenee e i dati vanno raccolti in diverse banche dati. E’ quello che ha fatto Greenpeace affidandosi, per il suo rapporto sullo stato della politica agricola comunitaria, a enti, osservatori e istituti di statistica istituzionali. «Tutti i dati da cui siamo partiti – conferma Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia – provengono da fonti istituzionali».

«Agire subito». Numeri che risultano impietosi, che evidenziano una politica agricola fortemente sbilanciata verso l’allevamento con conseguenze immediate e probabilmente future sulla preservazione dell’ambiente e sulla salute delle persone. Che avranno costi sociali ed economici che si ripercuoteranno direttamente sui cittadini, chiamati a pagare per le politiche di risanamento ambientale ma anche i costi sanitari, compresi quelli per le malattie legate al consumo eccessivo di carni rosse e prodotti di origine animale, che anche in Europa sono in crescita nonostante le raccomandazioni dell’Oms di limitarli. «Per questo abbiamo deciso di agire subito, ora che la Politica agricola comune è in fase di revisione – dice ancora Ferrario -. C’è ancora la possibilità di invertire la tendenza, prima che sia troppo tardi».

Le responsabilità degli allevamenti. Troppo tardi per l’assetto socio-economico delle aree rurali, dove sono sempre di meno le aziende di medie e piccole dimensioni in grado di competere con le grandi anche nell’assegnazione dei fondi comunitari, oggi sono distribuiti tenendo conto prevalentemente degli ettari di superficie di ciascun operatore. Ma anche per la salvaguardia del territorio e della salute pubblica. «Gli allevamenti industriali hanno grandi responsabilità nell’inquinamento atmosferico e dei suoli – conferma l’esperta di Greenpeace -. Quello che chiediamo è un cambio di paradigma e di vincolare l’assegnazione dei fondi comunitari, ovvero del denaro pubblico, alle pratiche di agricoltura sostenibile. Oggi, paradossalmente, quel denaro arriva soprattutto a chi inquina di più».

La campagna di Greenpeace. La campagna di Greenpeace è iniziata lo scorso anno con l’avvio di una petizione pubblica che chiede alla Ue di indirizzare i propri finanziamenti all’agricoltura di qualità e sostenibile. «Che spesso — fa notare Ferrario — va a braccetto con aziende di dimensioni più piccole. Inoltre, se vogliamo evitare conseguenze più devastanti legate ai cambiamenti climatici è necessario dimezzare a livello globale il consumo di prodotti di origine animale, altrimenti non riusciremo a frenare la compromissione dell’ambiente né comunque a tenere in piedi questo modello economico». Puntare sulla quantità rischia di essere una battaglia persa in partenza per l’Europa nel confronto con nazioni come gli Stati Uniti o il Canada, dotati di ampi territori e di conseguenza avvantaggiati sul piano dei grandi numeri, che con i trattati internazionali tipo il Ceta potrebbero riuscire a sfondare nel mercato europeo.

La sfida della qualità. Ecco perché la sfida dovrebbe essere puntata sul piano della qualità. Un obiettivo che andrebbe perseguito in particolare dalle aziende italiane, considerato che il Made in Italy e i marchi dop sono un valore aggiunto di cui altri non dispongono. «Eppure – sottolinea Ferrario – anche da noi si assiste ad una tendenza all’estensione degli allevamenti che non è garanzia di qualità e di controllo. Se siamo noi i primi a snaturare il nostro prodotto, poi non possiamo più difenderlo. Questi sono temi scomodi, ma o ci si ragiona ora che è ancora possibile cambiare rotta, oppure si finirà col soccombere».

Se gli allevamenti intensivi sono una bomba ecologica anche in Italia, scrive il 19 aprile 2018 Beatrice Montini su Il Corriere della Sera. Il primo allevamento intensivo della storia è nato per caso. Anzi di più: per sbaglio. Quando nel 1923 Cecilia Steel, di Oceanview (nel Delaware), ricevette 500 pulcini invece dei 50 che aveva ordinato. Così li chiuse tutti in un capannone e li nutrì con mais e integratori. L’operazione riuscì e Steel la replicò. Fino a quando divenne milionaria. Dai polli poi si passò ai maiali, poi alle mucche e ai conigli. Oggi si stima che circa 70 miliardi di animali siano allevati ogni anno in maniera intensiva. Diventeranno 120 miliardi entro il 2050. I numeri del fenomeno parlano quasi da soli e – nonostante la resistenza di molti – dopo il rapporto del 2006 della Fao “La lunga ombra degli allevamenti intensivi” i costi ambientali della nostra “fame di carne” non sono più stati messi in dubbio. Negli ultimi anni – con l’ulteriore crescita del consumo nel mondo di proteine animali – il tema si è imposto anche nell’agenda della maggiori associazioni ambientaliste. Non a caso recentemente Greenpeace ha lanciato una campagna proprio per dimezzare il consumo di carne e latticini. E in Italia la situazione come’è? “Con 12 milioni di animali cresciuti e macellati ogni anno in poche decine di chilometri quadrati, l’allevamento industriale di suini in Italia è una vera e propria bomba ecologica”, si legge nel rapporto “Prosciutto nudo” dell’associazione ambientalista Terra Onlus che cerca di tirare le somme sull’impatto dell’allevamento dei maiali ne nostro Paese. “Come in molti paesi occidentali, anche in Italia assistiamo a una progressiva riduzione dei piccoli allevamenti – spiega Fabio Ciconte, direttore di Terra e coautore del dossier – A questo corrisponde una crescita del numero di capi per azienda e la definitiva affermazione di un modello di allevamento intensivo con alti costi ambientali, che investono anche le comunità locali e rappresentano un rischio per la salute pubblica, con lo sviluppo di batteri divenuti resistenti alle massicce dosi di antibiotici somministrate agli animali”. Il 90% dei suini italiani è rinchiuso nel 10% di allevamenti con più di 500 capi. Quasi la metà dei maiali allevati si trova in Lombardia, con ben 3.937.201 capi. In cima alla classifica c’è la provincia di Brescia, con i suoi 2.180 allevamenti per un totale di 1.289.614 capi, più dei suoi residenti umani (1.262.678). I suini “autoctoni” coprono circa il 60 per cento del fabbisogno del nostro paese, in cui ogni anno vengono macellati circa 12 milioni di capi. Il resto è di “origine straniera”, prevalentemente nordeuropea (Olanda e Danimarca). Uno degli aspetti più impattanti degli allevamenti è quello delle deiezioni: l,’alta concentrazione di animali in così poco spazio rende infatti questi resti altamente inquinanti perché ricchi di azoto, fosforo e potassio. A tali sostanze vanno aggiunti i farmaci somministrati agli animali, che finiscono con i resti nelle falde acquifere e nell’ambiente. Basti pensare che nel corso di un anno un suino può produrre feci pari a 15 volte il suo peso. “In termini di impatto, poiché i suini producono in media tre volte la quantità di feci degli esseri umani, è come se in Italia ci fosse una popolazione aggiuntiva di oltre 25 milioni di persone”.  Ma non solo. “Ogni chilo di prosciutto prodotto comporta 11 chili di deiezioni, 4 chili di cereali consumati dall’animale, 6 mila litri d’acqua e 12 chili di CO2”, si legge ancora nel dossier. Secondo Ciconte, “il modello di allevamento industriale ha trasformato miliardi di animali in macchine fornitrici di materia prima, con impatti giganteschi sul pianeta. Contribuisce al disboscamento di aree ecologicamente importanti come la foresta amazzonica, inquina le falde acquifere e l’atmosfera, aggrava il cambiamento climatico, produce antibiotico-resistenza ed ha un consumo d’acqua spropositato. È necessaria quindi una inversione di rotta, sia attraverso una drastica riduzione del consumo di carne, sia attraverso una maggiore consapevolezza sugli effetti che gli allevamenti intensivi hanno sul pianeta”. “È urgente costruire un modello di trasparenza in cui al consumatore siano indicati in etichetta i costi ambientali della produzione di carne – raccomanda il direttore dell’associazione   – Bisogna rendere obbligatoria la dicitura “da allevamento intensivo” per tutti i prodotti a base di carne, così da esplicitare il modo di allevamento e gli impatti associati, contribuendo a rompere quella distanza cognitiva che si è venuta a creare tra la carne che consumiamo e l’animale da cui proviene”.

La vita in gabbia dei conigli nello spazio di un foglio A4. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Beatrice Montini su Corriere.it. Nelle gabbie tradizionali, così come in quelle «arricchite», lo spazio è quello di un foglio A4. Qui i conigli «da carne» vivono la loro vita. Per quegli ottanta giorni (12 settimane) prima di andare al macello, i conigli sono costretti a poggiare le zampe per lo più su pavimenti di filo metallico, non possono stare eretti sulle zampe posteriori, non possono correre, saltare. Tutte condizioni che sono state documentate nella nuova indagine realizzata da Ciwf in tre allevamenti italiani (di cui il Corriere della Sera fornisce un video in anteprima). Altre immagini – che saranno diffuse nei prossimi giorni – provengono da altri allevamenti in diversi Stati membri e sono girate negli anni scorsi da Animal Equality e Ciwf. Nell’Ue ogni anno si allevano circa 120 milioni di conigli, il 94% in gabbia. In Italia si parla di circa 21 milioni di animali. «Queste immagini – sottolineano dall’associazione - confermano come i sistemi di allevamento in gabbia siano diffusi nella maggior parte dei Paesi Ue. Ma la vita in gabbia non è crudele solo per i conigli». Con la diffusione di questa investigazione e con l’iniziativa dei cittadini europei «End the Cage Age», 145 organizzazioni chiedono la fine dell’uso di tutte le gabbie negli allevamenti. In Italia sono 20 le associazioni che aderiscono all’iniziativa: da Animal Law a Lega Nazionale Difesa del Cane, da Legambiente a Lav. E sono già 750 mila le persone che hanno firmato la petizione che sarà inviata alla Commissione Ue. «Sono già passati due anni dalla risoluzione del parlamento europeo a favore di migliori condizioni di allevamento per i conigli – dice Annamaria Pisapia, direttrice Ciwf Italia Onlus - purtroppo non è stato compiuto nessun passo significativo a favore di questi animali, che continuano a soffrire a decine di milioni nelle gabbie della UE. Ora finalmente abbiamo una straordinaria opportunità di mostrare che i cittadini vogliono per questi animali una esistenza migliore fuori dalle gabbie, e di ottenerla».

Che vuol dire «benessere animale» negli allevamenti intensivi? Le risposte per allevatori e Ministero (e le idee diverse dei consumatori). Il 94% degli italiani ritiene importante il benessere degli animali negli allevamenti e il Ministero della Salute sta definendo le nuove linee guida. Ma c’è una sfida sul significato della parola. E si gioca tra produttori, scienziati, supermercati e consumatori, scrive Francesco De Augustinis il 20 marzo 2018 su Il Corriere della Sera.

Cosa significa «benessere animale»? Questa definizione può essere applicata alla produzione di carne e derivati animali senza perdere di significato? Anche se parliamo di produzione di massa in allevamenti intensivi? Queste sono domande etiche, ma anche questioni su cui in questi giorni allevatori, scienziati e... supermercati in Italia stanno proponendo delle risposte da dare ai consumatori, in particolare per quanto riguarda la produzione di suini.

Benessere e allevamenti intensivi. «Noi studiamo il benessere animale per gli allevamenti intensivi. Questa è la conditio sine qua non per garantire proteine animali a tutta la popolazione». Sgombera subito il campo da equivoci sulla sua interpretazione del significato di «benessere» Luigi Bertocchi, dirigente veterinario dell’Istituto zooprofilattico della Lombardia ed Emilia Romagna. Con sede a Brescia, l’istituto è uno dei principali in Italia. Qui Bertocchi è il responsabile del Centro di referenza nazionale per il benessere animale (Crenba), che per conto del Ministero della Salute sta definendo delle nuove linee guida per il benessere dei suini negli allevamenti italiani.

L’etica dei consumatori. Il benessere degli animali da produzione è diventato un argomento con cui gli allevatori in Italia hanno iniziato a confrontarsi per far fronte alle richieste del mercato. Nel 2016 un sondaggio Eurobarometro sosteneva che il 94 per cento dei cittadini (sia in Europa che in Italia) riteneva «importante» il benessere degli animali negli allevamenti. Un dato che si è tradotto nell’esigenza di alcune catene della Gdo di poter scrivere «allevato nel rispetto del benessere animale» sui propri prodotti. Richiesta inoltrata agli allevamenti, che adesso -insieme alle istituzioni- ipotizzano risposte che giustifichino un’etichetta del genere. Un progetto sul «benessere per i suini» era stato annunciato già lo scorso ottobre da Silvio Borrello, capo dei servizi veterinari italiani per il Ministero della Salute. Un “cantiere aperto” affidato proprio ai veterinari del Crenba di Brescia. 

La domanda di carne. Fino ad allora il Crenba aveva pubblicato delle linee guida solo per il benessere dei bovini, prese come punto di riferimento dagli allevatori e dai gruppi della Gdo (grande distribuzione organizzata) per certificare carni e formaggi. Anche in quel caso parliamo di produzione intensiva, dove il «benessere» ammette l’allevamento «a pascolo zero», con le vacche da latte confinate in stalla per tutta la vita: «Non stiamo parlando di mucche al pascolo: finché la gente mangerà carne dovremo produrla così», chiarisce ancora Bertocchi. «Consideri che la domanda di carne è destinata a raddoppiare nei prossimi 30 anni», afferma il dirigente, che parla della necessità di «educare il consumatore» ad una corretta interpretazione del termine «benessere». Un’interpretazione che adesso è molto diversa a seconda di chi sia a darla: la grande distribuzione, gli allevatori o le persone per strada. 

Le norme Ue e l’Italia. Le norme UE – Il lavoro del Ministero sulla certificazione del benessere dei suini ha avuto una brusca accelerazione a metà novembre, quando una visita di ispettori per conto della Commissione europea ha bacchettato severamente l’Italia per il mancato rispetto delle attuali norme europee sul benessere. «Le autorità italiane non hanno intrapreso azioni efficaci per applicare gli obblighi della Direttiva contro la morsicatura delle code e per evitarne il taglio routinario», si legge nell’introduzione al rapporto stilato dagli esperti UE. «I produttori di suini (italiani, ndr) sono convinti che i loro allevamenti siano in regola con la normativa, e che non sia possibile allevare suini con la coda nel sistema di allevamento italiano. Convinzioni che rappresentano un serio handicap per le autorità per cambiare lo status quo». 

Il taglio della coda. La questione del taglio della coda è considerata centrale da chi si occupa di «benessere» negli allevamenti intensivi, in quanto la coda è un «indicatore» del livello di stress degli animali: dove le condizioni di vita sono peggiori, maggiori sono gli episodi di «morsicatura della coda» tra i capi. Il taglio preventivo della coda avviene proprio per evitare queste forme di «cannibalismo da stress», che potrebbero comportare effetti collaterali e infezioni. Sebbene sia una pratica vietata in Europa dal 2008 (se non in casi eccezionali), in Italia in sostanza la totalità degli allevamenti pratica il taglio della coda preventivo su tutti i capi. 

La battaglia di Ciwf Italia. Smettere il taglio sistematico della coda ad oggi è anche la principale richiesta di Compassion in world farming (Ciwf), l’ong che si occupa in Italia di benessere degli animali di allevamento. «La normativa è ampiamente disattesa», afferma Elisa Bianco di Ciwf. «Riuscire ad allevare animali con la coda lunga è il principale indicatore che permette di dire che quell’ambiente è più o meno adatto alle esigenze del suino». Tra le richieste di Ciwf negli allevamenti intensivi, l’abbandono delle gabbie di gestazione per le scrofe e l’adozione di ulteriori «arricchimenti» ambientali per tutti i capi, in particolare con l’utilizzo di un suolo di paglia. 

L’impegno europeo. In Europa nei giorni scorsi è stata annunciata la costituzione di un Centro europeo per il benessere animale. Si tratta di un centro di riferimento per il «benessere» negli allevamenti intensivi, che avrà sede in Olanda raccogliendo i ricercatori dei centri di referenza di Olanda, Germania e Danimarca, tutti e tre Paesi tra i principali produttori suinicoli del continente.

Animali ammassati, cannibalismo: l’inferno negli allevamenti intensivi di maiali in Lombardia. Il consorzio di Parma: «Campagna denigratoria». Ancora immagini di denuncia dalla Lav che è entrata dentro sei allevamenti intensivi nelle province di Brescia, Mantova e Cremona. L’inchiesta sui media britannici, scrive Beatrice Montini su Il Corriere della Sera il 26 marzo 2018. Nelle gabbie di gestazione le scrofe non hanno lo spazio per muoversi. I maialini le circondano, cercano il contatto. Così accade che rimangano schiacciati. Fuori da uno dei capannoni, si vedono decine di carcasse di maiali morti. E ancora: ratti e topi che corrono. I maiali, vivendo ammassati, urinano gli uni sugli altri. Feci e urine sono presenti nelle mangiatoie e ricoprono il corpo degli animali. Le immagini arrivano da sei allevamenti intensivi che si trovano in Lombardia. Tra le province di Brescia, Mantova e Cremona. Sono state girate nei mesi scorsi attraverso un’investigazione portata avanti dalla Lav, membro di Eurogroup for Animals, e diffusa dai media britannici che denunciano le «condizioni illegali» in cui vengono tenuti gli animali. Quattro di questi allevamenti - denuncia ancora Lav - forniscono la carne per il Consorzio del Prosciutto di Parma.

«Illegalità diffusa». Sono numerose le pratiche non conformi alle leggi attuali che - denuncia Lav - vengono testimoniate da questi filmati. Dal taglio della coda sistematico - illegale nell’Ue da oltre 20 anni - alla presenza di animali malati che necessitano cure veterinarie. «In un caso, una scrofa gravemente emaciata e zoppa situata in un box di gestazione striscia con difficoltà verso la mangiatoia - raccontano dall’organizzazione animalista - La stessa scrofa viene poi ripresa mentre si stende svogliatamente sul pavimento tremante, chiaramente bisognosa di cure veterinarie urgenti». In alcuni degli allevamenti, i maiali sono tenuti in recinti talmente sovraffollati che gli animali non riescono neanche ad abbeverarsi. Non c’è mai luce naturale. Che in alcuni casi rimane accesa 24 ore al giorno. «Non c’è aria fresca in nessuno dei capannoni e i sistemi di ventilazione sono inefficaci - denuncia ancora Lav - Nessuno degli allevamenti indagati è fornito di zone esterne per i maiali». L'investigazione fa parte della campagna End Pig Pain, di Eurogroup for Animals, per chiedere ai Ministri dell'Agricoltura UE di migliorare il «benessere» dei suini negli allevamenti intensivi.

«Campagna denigratoria». Non è la prima volta che Lav e altre associazioni animaliste denunciano situazioni di questo tipo negli allevamenti di suini in Italia. Anche in altri casi il Consorzio del Prosciutto di Parma era finito nel mirino. In ogni caso si è sempre «dissociato» dalle situazioni mostrate chiedendo alle autorità competenti di «provvedere ai necessari accertamenti», sottolineando che comunque si tratta di una minoranza di casi. Stavolta la presa di distanza è categorica: «Da alcuni anni è in atto una campagna denigratoria e diffamatoria contro il Prosciutto di Parma posta in essere da alcune associazioni animaliste che sistematicamente e a intervalli regolari diffondono immagini scioccanti invitando il consumatore a non acquistare più il nostro prodotto. Lo scopo reale di tale campagna non sembra essere quello di tutelare gli animali, bensì attaccare il buon nome del Prosciutto di Parma. Il Consorzio ribadisce che nessuno dei suoi 145 produttori associati è mai stato denunciato o condannato per maltrattamento di animali e invitiamo caldamente gli autori delle riprese a rendere noti i nomi e a denunciare immediatamente gli allevamenti coinvolti nella loro indagine in modo da permettere alle Autorità competenti di procedere con i dovuti accertamenti».

Un po’ di dati. Gli allevamenti coinvolti che farebbero riferimento al marchio dop, sono quattro. Tutti gli allevamenti sono intensivi e su scala industriale, ciascuno comprende da 3 a 10 capannoni ed ha una capacità totale di 3.000-10.000 suini. L’intero settore impiega 50mila persone, conta 4mila allevamenti di suini, 118 macelli e 150 aziende di lavorazione che trasformano la carne cruda in prodotto finito. Nel 2016 sono stati macellati circa 11 milioni e 848mila maiali, venduti sotto forma di 8,7 milioni di prosciutti di Parma interi e 79 milioni di confezioni di prodotto già affettato. Oltre due terzi del Prosciutto di Parma prodotto sono consumati in Italia (68%), il resto viene esportato in oltre 50 paesi in tutto il mondo. La maggior parte delle esportazioni (61%) è destinata ad altri paesi europei, con Francia, Germania, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi e Belgio tra i principali importatori. Gli Stati Uniti sono il principale mercato internazionale (nel 2016 hanno importato 4,5 milioni di chili di prosciutto) e il Consorzio punta ad aumentare le vendite in Nord America, Asia, Australia e Nuova Zelanda. Secondo i dati Eurostat, l’europeo medio consuma almeno 3 kg di prosciutto e spalla stagionata l’anno. Il consumo maggiore registrato in Germania, Italia e Irlanda, e la domanda in crescente aumento. Nel 2016, i maggiori produttori europei sono stati la Germania (33%), l’Italia (28%) e la Spagna (13%). In termini di valore, l’Italia era al primo posto (34%), seguita dalla Germania (22%) e dalla Spagna (19%). Dal 2013-2016 l’Unione Europea ha esportato maiali e prodotti a base di carne di maiale in 188 paesi e territori per un valore totale di 19 miliardi di euro.

Inquinamento: il 50% è prodotto dai riscaldamenti e allevamenti intensivi, scrive mercoledì, 27 febbraio 2019, Il Corriere.it. Il particolato, PM dall’inglese Particulate Matter, è l’insieme delle sostanze sospese nell’aria che hanno una dimensione fino a 500 nanometri (mezzo millimetro), considerate gli inquinanti di maggior impatto nelle aree urbane. Si tratta di fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi e solidi che finiscono in atmosfera per cause naturali o per le attività dell’uomo. Le fonti naturali (terra, sale marino, pollini, eruzioni vulcaniche) ci sono sempre state, quelle dovute all’uomo (traffico, riscaldamento, processi industriali, inceneritori) sono aumentate negli ultimi decenni con la sovrappopolazione e i processi di industrializzazione, sommandosi alle prime. Le polveri più pericolose sono quelle con diametro inferiore a 10 nanometri (un centesimo di millimetro), il cosiddetto PM10, il cui 60% è composto da particelle con dimensioni inferiori a 2,5 nanometri. Il PM 2,5 è la frazione più leggera, quella che rimane più a lungo nell’atmosfera prima di cadere al suolo e che noi respiriamo maggiormente. Sono proprio queste particelle a entrare più in profondità nei nostri polmoni, aumentando il rischio di patologie gravi: asma, bronchiti, enfisema, allergie, tumori, problemi cardio-circolatori. Il calcolo eseguito dall’Ispra tiene conto del particolato primario e secondario insieme. Una novità che cambia la lettura dei dati e l’origine delle cause. Il primario è quello direttamente emesso dalle sorgenti inquinanti (ad esempio dai tubi di scappamento delle auto): il 59% è dovuto al riscaldamento, il 18% alle auto, il 15% all’industria, mentre il contributo degli allevamenti intensivi è irrisorio (l’1,7% di PM 2,5). Ma questa è una fotografia parziale della realtà. Le polveri, infatti, si formano anche in atmosfera a causa dei processi chimico-fisici che coinvolgono le particelle già presenti. In questi casi si parla di particolato secondario e le percentuali cambiano. L’Ispra punta il dito soprattutto verso gli allevamenti intensivi, i principali responsabili di emissione di ammoniaca nell’aria (il 76,7% a livello nazionale nel 2015), principale fonte di particolato secondario. Non solo: «Il problema è che il settore allevamenti non può essere oggetto di misure di emergenza». In altre parole: mentre per intervenire sul traffico si può bloccare la circolazione dei veicoli, o per ridurre l’effetto del riscaldamento si può limitare la temperatura interna, per intervenire sulla seconda causa di particolato in Italia, secondo Ispra, si deve ricorrere ad «azioni più strutturali, come la riduzione dei capi o le opzioni tecnologiche». Se si guardano i dati degli ultimi sedici anni, si vede come il settore allevamenti non ha subito alcun tipo di miglioramento in termini di inquinamento da PM. Anzi, se nel 2000 gli allevamenti erano responsabili del 10,2% di particolato, nel 2016 la percentuale di PM 2,5 causato dagli allevamenti ha subito un incremento del 32%. Il trend degli ultimi anni è chiaro: diminuisce l’inquinamento dovuto a auto, moto e del trasporto su strada, diminuisce quello legato ad agricoltura, industria e produzione energetica. Ma aumenta la quota legata al riscaldamento (che passa dal 15% del 2000 al 38% del 2016) e al settore allevamenti (dal 10,2% al 15,1% in sedici anni). Le frontiere su cui dovremo lavorare nei prossimi anni. Una direttiva del 2016 ha ridotto del 40% il tetto delle emissioni consentite di PM primario, oltre ad aver introdotto limiti per le emissioni di ammoniaca entro il 2030. E, secondo l’Ispra, se gli allevamenti intensivi non diminuiranno le emissioni, avremo problematiche con i superamenti delle concentrazioni di PM 2,5. Cosa stanno facendo le Regioni per arginare la situazione? Le prime linee guida risalgono al 2016 e prevedono il divieto di spandimento dei reflui zootecnici da novembre a febbraio e la copertura delle vasche di raccolta dei reflui. «Le Regioni stabiliscono questi divieti ma il problema sono i controlli – dice Daniela Cancelli di Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile –. Gli allevamenti sono tanti e i controlli chi li fa? Inoltre il ministero dell’Ambiente dovrebbe fare delle linee guida a livello nazionale, perché lasciare le Regioni e i Comuni a gestire l’emergenza non è efficace». Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, nel 2016 circa 4,2 milioni di persone al mondo sono morte prematuramente a causa dell’inquinamento atmosferico. Inoltre, il 91% della popolazione mondiale vive in luoghi dove i livelli di qualità dell’aria non soddisfano i limiti fissati dall’OMS17.

Carni e allevamenti intensivi. Tratto da “Quattro sberle in padella”, Stefano Carnazzi e Stefano Apuzzo. Pubblicato su Disinformazione.

ALLEVAMENTI INTENSIVI. Sembrerà un consiglio rivoluzionario, ma certo va alla radice del problema: evitare ogni prodotto proveniente da allevamenti intensivi. “Allevamenti intensivi” sono i capannoni industriali, nati negli anni Sessanta, in cui sono rinchiusi decine, centinaia, migliaia di animali (in America ci sono feedlots con dentro 100.000 e più capi di bestiame) in condizioni infernali, privati di libertà di movimento, dell'aria e della luce del sole, rinchiusi in gabbie, costretti alimentazione forzata, immunodepressi. Le condizioni di vita degli animali, tali da suscitare pietà, sono oggetto di continue battaglie delle associazioni animaliste. Ma non è solo questione di pietà: la concentrazione degli animali e il regime alimentare forzato aumentano lo stress, le malattie e la pericolosità microbica e sono la causa prima e principale della diffusione a raggiera dei veleni e dell'esplosione degli scandali alimentari (“mucca pazza”, "pollo alla diossina” e vedremo quali altri). La "modernizzazione" zootecnica ha riempito i cibi di residui di stimolatori dell'appetito, antibiotici (metà della produzione mondiale di antibiotici è destinata alla zootecnia), erbicidi, stimolatori della crescita, larvicidi e ormoni artificiali. Proprio l'abuso di antibiotici in zootecnia è all'origine del fenomeno della resistenza che da 20 anni tanto preoccupa gli scienziati e le cui percentuali in Italia sono quintuplicate dal ' 92 a oggi: lo sviluppo di pericolosissimi superbatteri resistenti a tutti i trattamenti farmacologici (l'ultimo, lo streptococco VISA, che ha già ucciso 4 persone negli USA e due anziani in Scozia - e si è già avuto il primo caso in Italia; in USA in un sacco di mangime per polli sono stati trovati batteri resistenti a tutti gli antibiotici!). Molte altre malattie, l'afta epizootica, l'Aids bovino (Biv), la salmonellosi, l'encefalopatia spongiforme bovina sono consustanziali all'allevamento intensivo. Ecco i metodi di allevamento di alcune specie.

MUCCHE E BOVINI: i trattamenti con ormoni d'origine animale, di sintesi, sperimentali, sicuramente non sono stati interrotti. In America i trattamenti con ormoni sono non solamente ammessi, ma incoraggiati, e continuano ad essere sperimentati: zeranolo, estradiolo, testosterone, progesterone, treribolone acetato sono in continua sperimentazione e inoculati in vitelli, mucche e tori. Riescono a farli crescere più velocemente del 50%. Per fortuna l'UE continua a tenere le proprie frontiere chiuse all'importazione di carne trattata con ormoni: l'ultimo rifiuto ufficiale data luglio 1999. Allora la ormai celebre (o famigerata?) W.T.O. (World Trade Organization) avrebbe ordinato di “lasciare che il bando venga disatteso", e gli USA hanno chiesto miliardi in risarcimenti. Ma in Europa l'importazione di carne americana è ancora vietata. In Italia le condanne penali della Cassazione si susseguono, poche ma senza soluzione di continuità, mentre l'Istituto Superiore di Sanità trova diversi corticosteroidi illegali nel latte, e 17-betaestradiolo nel siero bovino (usato per i vaccini). D'altronde, il D.lgs. 27/1/1992 n.118 vieta, è ovvio, la somministrazione di ormoni, ma li autorizza a scopo terapeutico e nel periodo successivo al parto, cioè: volendo, sempre. Dell'ormone D.E.S. (Dietilstilbestrolo), che provoca cancro al seno, è difficilissimo accertare la presenza, essendo attivo anche in dosi infime (parliamo di milionesimi di grammi). Secondo il Comitato Scientifico dell'Unione Europea, che doveva pronunciarsi a proposito del doping, anche dosi infinitesimali di queste sostanze danneggiano la salute umana, innescando tumori e alterando le risposte del sistema immunitario. Inoltre, i valori residuali di ormoni ritenuti innocui fino a dieci anni fa, sono oggi, grazie a dati scientifici più raffinati, considerati rischiosi per i consumatori, specialmente per i bambini in età pre-puberale. Le ricorrenti malattie dei bovini provocate dalle condizioni-limite in cui vivono costringono a terapie antibiotiche senza sosta. All'esame anatomo-patologico si rileva un'incidenza elevata di lesioni muscolari dovute all'uso di sostanze xenobiotiche.

La dipendenza della zootecnia dall'industria farmaceutica presenta questi riflessi negativi:

sofferenza e patologie iatrogene negli animali;

residui pericolosi negli alimenti d'origine animale;

gravi rischi epidemiologici per selezione microbica;

alterazioni del processo di depurazione con peggioramento dell’inquinante;

rischi mutageni per i principi emessi nell'ambiente.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ripetutamente messo sotto inchiesta i residui di certi farmaci veterinari nel cibo (solo tra il '97 e il '98): abamectina, clorotetracicline e tetracicline, il famigerato clembuterolo, cipermetrina, a-cipermetrina, neomicina, ossitetraciclina, spiramicina, thiamphenical, tilmicosina, xilazina, e ancora ceftiofur, cyfluthrin, danofloxacina, di-idrostreptomicina e streptomicina, fluazuron, flumequine, moxidectina, spiramicina. In Italia, è matematicamente certo (lo dimostra la sproporzione tra le ricette "ufficiali" e il numero di animali: solo 5 ogni 100) che i farmaci vengono acquistati sul mercato nero per non doverne segnalare l'uso. Poi, poco prima della macellazione, viene somministrato agli animali un fortissimo diuretico che cancella le tracce delle sostanze illegali.

Hanno luogo anche trattamenti con farmaci sperimentali. Nei mangimi può esserci ogni genere di rifiuti ripugnanti: carogne di animali, scarti dell'industria di trasformazione, lettiere o escrementi animali, residui della lavorazione dello zucchero, dell'olio, paglia trattata con ammoniaca, olii esausti di motori, addirittura i reflui inquinanti delle distillerie di whisky e di gin; in Francia finivano nei mangimi le acque nere, bollite, delle puliture dei macelli e delle stalle, "condite" con gli scarti della spremitura a caldo dei resti dei macelli. Il mais, che nella dieta dei poveri bovini ha sostituito il più costoso fieno, fermenta nel loro colon e favorisce la proliferazione di batteri, causa di pericolose infezioni che, in Italia, costringono ogni anno decine di bambini alla dialisi per danni ai reni. Nelle città non dotate d'inceneritore, diventano "farine per animali” le carcasse di animali raccolti dal la Nettezza Urbana (cani e gatti randagi, topi, ratti e pantegane). Anche gli animali portati dal proprio veterinario per la "morte dolce" fanno la stessa fine: attenzione, potremmo ritrovarci Fido o Micio nella catena alimentare! Addirittura, potrebbero essere reimmesse (con o senza il consenso dell'ASL) nel mercato dei sottoprodotti (art.5 c.1 del D.lgs suddetto) le carni e i derivati sottoposti a trattamenti vietati! Così, nei grassi degli animali si accumulano le diossine, pesticidi come il 4-4' D.D.T., D.D.E., D.D.D., E.D.T.A. e metalli pesanti come il cadmio (per colpa del quale nel '95 si è scoperto che una fettina di cavallo su due è fuorilegge), piombo, arsenico e cromo. Però, la sanzione (depenalizzata) per chi commercializza mangimi scadenti va da lire 600.000 a lire 3.000.000; se sono nocivi "per il bestiame... ammenda da lire 250.000 a lire 2.000.000” (art.22 l.15/2/1963, depenalizzata e aggiornata nel 1981). La Confcommercio, su impulso del DM 13/4/99, ha avviato a fine '99 una ricerca per censire gli intermediari che immettono in commercio additivi, miscele, prodotti proteici, amminoacidi e simili, tentando di ricostruire l'intero iter della fabbricazione. Ne vedremo delle belle. Perfino nelle mangiatoie dei disgraziatissimi animali si annidano veleni: uno studio condotto in Europa nella primavera ' 98 ha rivelato che una mangiatoia su tre era contaminata da antimicrobici non dichiarati, una su quattro a concentrazioni elevatissime: clorotetraciclina (C.T.C.) nel 15% dei casi, sulfonamidici nel 7%, penicillina nel 4%, trattamenti ionoforetici nel 3%, e tutte le concentrazioni di sulfonamidici erano sufficienti per lasciare residui tali da causare danni al tessuti, alle mucose, da contatto. Importazione illegale di carne. Ne ha parlato con coraggioso tempismo Antonio Delitalia, dalle colonne de “Il Giornale" (16 giugno '97): "Ci sono due tendenze tutte italiane di fronte a un argomento scomodo e ingombrante: chiudere un occhio e fare finta di non avere visto, o spalancarli tutti e due e denunciare situazioni che travalicano la realtà. Il problema della carne contaminata da clembuterolo e affini rischia di essere uno di questi. Scomodo perché si parla di frode alimentare, ingombrante perché la carne arriva nel piatto di oltre quarantacinque milioni di italiani". Il problema assai grave è quello dell'importazione di carni clandestine, che, per evitare l'Iva, sfuggono qualunque accertamento sanitario. E dal Triveneto gli allevatori fanno sapere che il 10% della carne importata è al clembuterolo. Dal momento che importiamo circa il 50% della carne bovina che consumiamo, il problema ha dimensioni preoccupanti. Non allarmistiche, ma preoccupanti. Dice Vincenzo Dona, segretario generale dell’Associazione consumatori che ha elevato frequenti proteste, senza però ottenuto risultati apprezzabili: “I controlli sono inadeguati, e fanno acqua più di una bistecca al cortisone". L’Europa ha imposto il marchio di qualità, però il governo è inadempiente. Per evadere l'Iva si è creato un mercato clandestino lucrosissimo. Ma anche nell'importazione legale il controllo è possibile solo sulle mezzene, non sulla carne pezzata e confezionata che finisce sul banco di macelleria. Un documento ministeriale certifica l'avvenuta intossicazione collettiva di Assisi per carne al clembuterolo, la cui responsabilità, ridotta a pochi allevatori, ricade su tutti. “Il problema esiste" diceva nel '97 il prof. Agostino Macrì, responsabile del servizio veterinario dell'Istituto superiore di sanità. E va risolto perché riguarda la salute.

Ma nulla è stato fatto. E non ci sono solo veleni "artificiali". Come se non bastasse, anche i “contaminanti naturali" sono un'insidia per chi mangia carne: le aflatossine (un tipo di micotossine, sostanze tossiche prodotte dalle muffe) possono contaminare i cereali destinati a diventare mangime per animali prima e durante il raccolto o per immagazzinamento e conservazione sbagliati. Quando gli animali mangiano cibo contaminato, perdono peso e diminuisce la produzione di latte; i metaboliti di queste tossine infettano i tessuti animali commestibili, e si riversano nel latte. Sono pericolose per la salute umana concentrazioni di aflatossine superiori a 20 miliardesimi di grammo nei mangimi e a 0.5 miliardesimi di grammo nel latte! Infine, lo stress innaturale e perpetuo causa un accumulo di adrenalina che realmente avvelena la carne, la cui assunzione può essere nociva per l'uomo. Motivi dello stress: condizioni di vita, alimentazione forzata, interminabili trasporti di ore e giorni con carri bestiame fermi alle frontiere o nei porti senza alcun supporto vitale, niente acqua, niente riposo, niente riparo dal sole torrido o dalla pioggia. Unica speranza, la morte.

VITELLI: il sistema per mantenere la carne pallida, rosea e delicata consiste nel tenerli in condizioni enormemente innaturali. Al terzo-quarto giorno di vita, strappati alle madri inseminate artificialmente, vengono collocati ognuno in un box largo 40 cm. e lungo un metro e mezzo. I vitelli sono legati con una catena al collo per impedire ogni movimento (la catena potrà esser tolta quando saranno cresciuti tanto da occupare tutto il ristretto spazio del box). Essi non vedranno mai né paglia né fieno, poiché mangiarne potrebbe rovinare il tenue colorito delle carni. Gli studiosi, per questi poveri vitellini, parlano di stress acuto e cronico, le cui conseguenze sono immunodeficienza (i vitellini si ammalano), infezioni, necessità di antibiotici. Nutriti con budini semiliquidi iperproteici che causano un’inestinguibile arsura (l'acqua è loro assolutamente negata, per indurli a ipernutrirsi, mangiando più budino e più velocemente) e un’inarrestabile dissenteria per spingerli all'anemia al fine di sbiancare le carni, disordini digestivi e ulcere sono frequenti; sottoposti a cicli costanti di trattamenti antibiotici, dopo tredici-quindici settimane si portano al macello. Avete mai visto gli occhioni spaventati di un vitello portato al macello? L’allevamento intensivo di bovini e vitelli è anche un rischio ecologico e biologico, oltre che sanitario. I vitelli sono la “residenza” preferita di germi e infezioni, di Escherichia Coli 0157:H7, VTEC e STEC, parassitemie theileriali da Theileria buffeli, Neospora caninum (diffusa dal Canada all'Argentina, e in Spagna) e altre malattie epidemiche. Per esempio, nel novembre '99 un modello di simulazione dinamica realizzato dal Dipartimento di farmacologia, microbiologia e igiene alimentare della Scuola norvegese di scienze veterinarie di Oslo ha stabilito che, anche qualora l'importazione di carne di vitello in Norvegia cessasse nel volgere di due anni, per oltre dieci anni continuerebbero a crescere le infezioni da Taenia saginata nei vitelli domestici, e di conseguenza gli episodi epidemici di infezioni negli uomini. Nell'agosto del 1999 è stato isolato in Malesia un Enterococcus Faecium quasi invincibile, resistente alla vancomicina e a un'ampia gamma di antibiotici. E dov'era? Era in 10 campioni di tessuto molle di carne bovina. Nota di demerito speciale per il fegato di vitello e di bovino adulto, che molti ritengono "prelibato". Il fegato si impregna di tutte le sostanze nocive assimilate da un organi. Carne trita. La carne trita è soggetta ad annerimento più di altri "tagli di carne”. Non possiamo escludere la possibilità che "additivi non consentiti” (come scrive la Pretura di Torino in una sentenza di condanna di un macellaio) vengano aggiunti per ritardare questo processo. Abbiamo iniziato a sospettare qualcosa di simile quando ci siamo accorti che i gatti di nostri amici, ghiottissimi di carne, invece annusavano con diffidenza e non assaggiavano neppure la carne trita quando gli veniva offerta. Comunque, nei supermarket, ove ormai spesso è confezionata "in atmosfera protettiva' (C02), è più difficile che quest'eventualità si verifichi.

Ragù. Sfuggono all'etichettatura i conservanti e gli additivi di cui è impregnata la "carne secca per minestre" e la "carne secca per preparati di minestre o salse". I più pericolosi sono i gallati di propile (E310), di ottile (E311), dodecile (E312), di eritorbati...

Storia degli allevamenti intensivi: dagli anni ’20 a Wendell Murphy. Un breve excursus per scoprire quando e come è nato l’allevamento intensivo, tecnica di produzione industriale che non tiene conto della sofferenza animale, scrive Laura Di Cintio il 31 Gennaio 2017 su vegolosi.it. Nonostante oggi siano una realtà consolidata in ogni parte del mondo sviluppato, gli allevamenti intensivi (detti anche industriali) non sono sempre esistiti. Anzi, la loro nascita è piuttosto recente e si fa risalire ai primi anni del Novecento. Grazie a quanto riporta il sito Factoryfarming.com possiamo fare insieme un breve excursus attraverso la storia di questa attività del tutto particolare che, sebbene coinvolga esseri senzienti, è comunque sottomessa in tutto e per tutto alle logiche della produzione industriale.

Anni ’20: nasce “per sbaglio” il primo allevamento industriale. Costa orientale degli Stati Uniti, 1926. Un piccolo allevatore di bestiame della penisola di Delmarva riceve per errore un carico di 450 pulcini; invece di restituirne una parte, decide di tenerli tutti nella sua piccola fattoria, allestendo uno spazio di fortuna per il loro sostentamento. Sorprendentemente, quasi tutti i pulcini sopravvivono e si riproducono velocemente, tanto che in meno di 10 anni il loro numero arriva a toccare i 250 mila esemplari. Questi numeri, naturalmente, sono del tutto irrisori se confrontati con quelli degli allevamenti intensivi odierni, ma bisogna tenere conto che stiamo pur sempre parlando degli inizi del secolo scorso, quando le tecniche di allevamento erano ancora artigianali e gli spazi da dedicare a questa attività erano ben più ridotti rispetto a oggi. Ma certamente il seme degli allevamenti intensivi era stato piantato.

Anni ’60: gli allevamenti intensivi si moltiplicano grazie all’uso di antibiotici. Anche se il primo allevamento intensivo risale agli anni ’20, bisognerà comunque aspettare gli anni ’60 perché questo tipo di attività si diffonda e prenda piede in diverse parti del mondo. Il fatto che ciò avvenga in questo preciso periodo storico non è un caso, ma il frutto dell’aumento della produzione di antibiotici e della loro diffusione su larga scala: è grazie all’utilizzo massiccio di questi farmaci, infatti, che diventa possibile stipare un gran numero di animali in spazi ristretti preservandoli dalle malattie. Da questo momento i numeri degli allevamenti industriali cominciano ad assomigliare sempre di più a quelli odierni anche se il dilagare delle patologie, nonostante l’impiego di antibiotici, resta comunque per anni una problematica importante in questi ambienti.

Non più solo polli. L’allevamento industriale non tarda a estendersi ad altre specie animali: siamo negli anni ’80 quando Wendell Murphy, prima di diventare senatore di uno stato del Nord della Carolina, allarga l’allevamento intensivo ai maiali su imitazione di quanto avvenuto fino ad allora negli allevamenti avicoli. Non trascorre molto tempo prima che questa attività prenda piede e si diffonda, tanto da far meritare a Murphy il titolo di “re della carne di maiale”. I risultati di questo tipo di produzione non si fanno attendere, e l’allevamento intensivo negli Stati Uniti inizia a coinvolgere anche i bovini, allevati sia per la produzione di carne che per quella del latte. Da questo momento in poi gli allevamenti intensivi si ingrandiscono e si diffondono a macchia d’olio in diversi paesi del mondo, fino a raggiungere l’estensione odierna.

I numeri dell’allevamento intensivo ieri e oggi. Nel 1950 una mucca produceva in media 665 litri di latte all’anno, oggi ne produce più di 2.320. Oggi un maialino appena nato pesa circa 1 chilo, ma in sei mesi riesce a toccare i 120 chilogrammi di peso; 50 anni fa, questo stesso incremento di massa veniva raggiunto nel doppio del tempo. Fino a pochi decenni fa, i polli impiegavano 70 giorni per raggiungere il peso ideale per la macellazione, oggi vengono macellati a 47 giorni di vita con un peso superiore del 67% rispetto a quello del 1950. Ma anche i numeri dell’allevamento intensivo odierno sono sorprendenti (fonte CIWF Italia): ogni anno vengono allevati 70 miliardi di animali; di questi, la metà all’interno di un allevamento intensivo. A livello globale il 70% della carne di pollame, il 50% di quella di maiale, il 40% di quella bovina e il 60% delle uova vengono prodotti in allevamenti intensivi. E in Italia la situazione non è migliore: l’85% dei polli e il 95% dei suini sono allevati in allevamenti industriali e quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo. Sempre CIWF Italia riporta, a questo proposito, che la produzione di cibo negli allevamenti intensivi è tra le principali cause del surriscaldamento globale: ogni anno viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà dell’estensione della Gran Bretagna per coltivare mangime per animali e allevare bestiame, che produce metano che si diffonde nell’atmosfera. In più, l’allevamento intensivo è correlato anche alla mancanza di cibo nei paesi poveri: un terzo della raccolta mondiale di cereali viene utilizzato per alimentare il bestiame negli allevamenti; se fosse utilizzato per il consumo umano, invece, sfamerebbe circa 3 miliardi di persone.

Allevamenti sempre più intensivi foraggiati dai fondi europei. Greenpeace denuncia: almeno il 70 per cento della superficie agricola dell’Unione Europea è destinata all’alimentazione del bestiame. E annualmente tra i 28 e i 32 mld di euro di pagamenti diretti vanno al settore dell’allevamento, favorendo solo le grandi imprese, scrive il 23/02/2019 Francesco Paolini su La Stampa. Almeno il 70 per cento della superficie agricola dell'Unione Europea è destinata all'alimentazione del bestiame. Se si escludono dal calcolo i pascoli, oltre il 63 per cento delle terre coltivabili è utilizzato per produrre mangime per gli animali piuttosto che cibo per le persone. Sono i risultati del nuovo rapporto di Greenpeace “Soldi pubblici in pasto agli allevamenti intensivi”, pubblicato nei giorni scorsi. In Europa 125 milioni di ettari di terra sono utilizzati per produrre mangimi o per il pascolo. Tenendo conto dei pagamenti della Politica Agricola Comune (PAC), Greenpeace stima che annualmente tra i 28 e i 32 miliardi di euro di pagamenti diretti vanno al settore dell’allevamento, rappresentando circa il 18-20 per cento del bilancio totale dell'Unione. «Gli scienziati avvertono che dobbiamo diminuire drasticamente la produzione di carne per evitare disastrose conseguenze per l’ambiente, la salute e il clima, ma i sussidi della PAC, invece di incentivare gli agricoltori verso un’agricoltura più ecologica, stanno spingendo in una direzione pericolosa. A questo si aggiunge la mancanza di informazioni ufficiali sull’ammontare complessivo dei sussidi PAC destinati alla zootecnia, che è sintomatico di una preoccupante opacità del sistema», dichiara Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura e Progetti speciali di Greenpeace Italia. Secondo i dati Eurostat, circa il 72 per cento degli animali allevati in Europa proviene da aziende intensive di grandi dimensioni. Il numero totale di allevamenti è diminuito di 2,9 milioni, ovvero di quasi un terzo, tra il 2005 e il 2013 ma ciò è avvenuto a scapito delle piccole aziende. L’Italia, per esempio, tra il 2004 e il 2016 ha perso oltre 320 mila aziende (un calo del 38 per cento), ma il numero delle aziende agricole molto grandi è aumentato del 21 per cento e di quelle grandi del 23 per cento. «Le aziende agricole di piccole dimensioni stanno scomparendo a ritmi allarmanti e il denaro pubblico aiuta quelle di dimensioni maggiori a crescere sempre più. Un ciclo perverso che deve finire», aggiunge Ferrario.  «Questo è il momento per invertire la rotta, ce lo chiede il Pianeta e i governi nazionali e il Parlamento europeo non possono non tenerne conto nella negoziazione della prossima Politica Agricola Comune, che riguarderà il periodo 2021-2027», conclude Ferrario.

Allevamenti intensivi: cosa è bene sapere? Il punto dopo le inchieste, scrive il 19/06/2017 Matteo Garuti su ilgiornaledelcibo.it. Gli allevamenti intensivi da tempo sono oggetto di forti critiche. Le inchieste più recenti hanno acceso i riflettori sulle scarse condizioni di vita degli animali, sui possibili rischi per la salute umana dovuti all’uso di farmaci e sull’impatto ambientale spesso sottovalutato di queste attività. Ci siamo già occupati di polli d’allevamento a basso prezzo, questa volta cercheremo di approfondire le caratteristiche e la regolamentazione degli allevamenti intensivi, anche alla luce di alcuni casi incresciosi emersi negli ultimi mesi, grazie alle indagini giornalistiche e dei Nuclei antisofisticazioni e sanità (NAS) dei Carabinieri.

Allevamenti intensivi: origini e impostazione. Gli allevamenti intensivi, come abbiamo accennato anche parlando del libro Farmageddon, si caratterizzano innanzitutto per un’impostazione industriale, che ha l’obiettivo di massimizzare le quantità prodotte, riducendo al minimo i costi e gli spazi necessari. Questi concetti, che hanno costituito un modello standardizzato, sono entrati nella pratica zootecnica durante il secolo scorso. Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, lo schema industriale si è diffuso, allo scopo di fornire prodotti di origine animale a prezzi sempre più accessibili, anche per le fasce meno abbienti della popolazione. In questo modo le proteine animali, un tempo appannaggio delle sole classi benestanti, sono entrate nelle cucine di tutte le fasce sociali.

Alla base dei consumi di massa. L’uso di nuovi strumenti e ritrovati – meccanici, farmacologici e veterinari – ha permesso di efficientare l’allevamento, inquadrandolo come uno degli ingranaggi alla base della grande distribuzione organizzata, che vede nei supermercati il terminale di un sistema di produzione e consumo rivoluzionato. Questo tipo di allevamento ha determinato anche la selezione delle razze e dei mangimi più produttivi. Oggi gli allevamenti intensivi sono diffusi in tutto il mondo industrializzato, e per quantità prodotte costituiscono di gran lunga la prima fonte di approvvigionamento di cibi di origine animale. Negli ultimi anni, però, questo metodo produttivo è stato sempre più additato per le sue criticità, che l’aumentata sensibilità etica e salutistica dei consumatori sembra tollerare sempre meno.

Perché sono criticati? L’avversione e la diffidenza verso gli allevamenti intensivi è motivata da alcune questioni principali, eccole descritte singolarmente. La qualità degli alimenti prodotti con questa metodologia non è e non può essere elevata, dato che la linea guida è la riduzione dei costi, per chi produce e per chi acquista. Se è vero che le tendenze dei consumi sono sempre più orientate su cibi genuini, sani e gustosi, sul piano organolettico e salutistico gli alimenti più economici difficilmente potranno risultare soddisfacenti. Anche il tema dell’igiene, legato all’aspetto qualitativo appena descritto, solleva dubbi sugli allevamenti intensivi. In queste strutture la concentrazione dei capi allevati è molto alta, aspetto che richiede dosi più alte di farmaci e antibiotici, per garantire la sicurezza sanitaria e prevenire la possibile diffusione di infezioni o epidemie. Il benessere degli animali è sempre più sentito dai consumatori, e spesso risulta essere l’argomento più forte sul piano etico ed emotivo, prevalendo anche sulle altre problematiche qui descritte. Innegabilmente, le immagini delle condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi contribuiscono a indurre molte persone verso un’alimentazione vegetariana o vegana, abitudini che anche in Italia sono sempre più diffuse, come abbiamo evidenziato in un nostro precedente articolo. L’uso eccessivo e improprio dei farmaci, argomento connesso ai due precedenti, può favorire la resistenza agli antibiotici, condizione pericolosa descritta in un nostro precedente approfondimento. Negli allevamenti intensivi, purtroppo, non è infrequente che i medicinali siano usati per stimolare la crescita degli animali. L’impiego di ormoni, vietato in Europa, è una pratica diffusa negli Stati Uniti. Si tende a sottovalutare l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, che invece determina un inquinamento non trascurabile, sia per le emissioni di gas serra, sia per la produzione di liquami che possono contaminare le acque. Non meno rilevante è il consumo di risorse, quali acqua, foraggi e mangimi, determinato da un’eccessiva diffusione dell’allevamento, che in alcune aree del mondo comporta il disboscamento, a sua volta causa di desertificazione e danno alla biodiversità. Nel corso degli anni, gli allevamenti intensivi sono stati sottoposti a revisioni per migliorare questi “punti deboli”, anche per eliminare il rischio di dover nuovamente affrontare emergenze causate da gravi patologie molto pericolose per l’essere umano, come la cosiddetta mucca pazza e l’influenza aviaria. Queste malattie, infatti, si sono sviluppate a causa di un’applicazione esasperata dei concetti industriali sopra descritti. L’Unione europea, negli ultimi vent’anni, ha emanato disposizioni precise e all’avanguardia per far fronte a questi problemi. Nel mondo, tuttavia, non ci sono normative riconosciute universalmente, anche per questo è sempre bene preferire cibi di origine animale di provenienza nazionale, o quantomeno comunitaria.

La regolamentazione europea. La Decisione 78/923/CEE del 1978, modificata nel 1992 con la 92/583/CEE, è stata la prima a normare la protezione degli animali negli allevamenti a livello comunitario. Nel 1998 la Direttiva 98/58/CE ha introdotto principi significativi per il benessere dei capi d’allevamento, indipendentemente dalla specie e dal tipo di produzione ai quali sono destinati. Negli anni successivi, sono state approvate ulteriori direttive specifiche per le galline ovaiole (1999/74/CE), per i polli da carne (2007/43/CE), per i vitelli (2008/119/CE) e per i suini (2008/120/CE).

Alcune disposizioni per i suini. Per dare un’idea delle norme alle quali sono tenuti ad attenersi gli allevamenti intensivi, a titolo esemplificativo possiamo citare alcune disposizioni relative ai suini. Ecco cosa si stabilisce sugli spazi di vita. Locali di stabulazione. Le norme sulla superficie sono stabilite secondo il peso dell’animale: 0,15 metri quadri per un suino al di sotto dei 10 kg; 1 metro quadro per animali superiori a 110 kg; 1,64 metri quadri per le scrofetta; 2,25 metri quadri per la scrofa; 6 metri quadri per un verro (10 se il verro viene impiegato per l’accoppiamento). Requisiti dell’ambiente. I pavimenti devono essere non sdrucciolevoli e senza asperità per evitare lesioni. La zona in cui coricarsi deve essere confortevole, pulita e asciutta. I rumori continui di intensità pari a 85 decibel devono essere evitati. I suini devono essere tenuti alla luce di un’intensità di almeno 40 lux, per un periodo minimo di 8 ore al giorno.

Cos’è emerso dalle inchieste? Quest’anno la serie di inchieste del programma Rai Animali come noi ha riacceso i riflettori sugli allevamenti intensivi, con episodi e immagini che hanno suscitato pena e rabbia. Le sei puntate andate in onda fra marzo e aprile hanno mostrato molte delle criticità del ciclo produttivo industrializzato dei prodotti di origine animale, evidenziando anche diverse violazioni della legge.

Sovraffollamento e mancanza di igiene. La telecamera di Animali come noi, con l’aiuto di attivisti per i diritti degli animali, è entrata di nascosto durante la notte in alcuni allevamenti suini della provincia di Cremona. Queste irruzioni notturne hanno denunciato situazioni di malessere degli animali, con patologie non adeguatamente curate e gravi mancanze di igiene. Inoltre, i maiali spesso accusavano ferite da morsi alla coda, abbastanza frequenti quando l’aggressività dovuta al sovraffollamento dei capi, cresciuti in spazi molto ristretti, spinge gli stessi ad azzannarsi fra loro. Nel distretto della lavorazione delle carne suine, si sono verificati anche casi di sfruttamento della manodopera, con numerosi lavoratori che hanno palesato problemi fisici dovuti a turni troppo lunghi e pesanti.

Maltrattamenti e conseguenze dei ritmi eccessivi. Meno conosciuti ma altrettanto gravi sono parsi i casi di alcuni allevamenti di bufale nella provincia di Frosinone, dove i bufalini maschi – inutili per la produzione del latte col quale si produce la mozzarella – non raramente venivano lasciati morire di stenti. Le inchieste hanno anche approfondito il caso di un macello nel Bresciano, chiuso in seguito alle indagini dei NAS a causa dei maltrattamenti che venivano inflitti alle mucche da latte non più idonee alla produzione, con palesi violazioni della legge. In questa struttura, le cosiddette vacche a terra – sfinite dai ritmi esasperati degli allevamenti intensivi dopo pochi anni di vita e non più in grado di reggersi in piedi – venivano trascinate con muletti e catene alla linea di macellazione, talvolta con perdite di sangue rischiose anche sul piano sanitario. I capi, inoltre, venivano colpiti con pungoli e altri strumenti per obbligarli a raggiungere i punti di abbattimento. I responsabili di questo macello e i veterinari compiacenti coinvolti sono stati tutti condannati. I NAS hanno anche riscontrato casi di somministrazione impropria di ipofamina, un farmaco che stimola le vacche alla produzione di latte. Questi sono alcuni dei casi scioccanti mostrati dalle inchieste, che, seppur non totalmente generalizzabili, non possono lasciare indifferenti.

Il punto di vista degli allevatori. La presidente degli allevatori di suini di Confagricoltura Giovanna Parmigiani, durante una puntata di Animali come noi, è stata intervistata sui casi deplorevoli mostrati nell’inchiesta. Anche la rivista di settore Suinicultura si è espressa criticamente sulle immagini mandate in onda dal programma Rai. La presidente Parmigiani, in sostanza, ha sottolineato che le situazioni in oggetto sono da ritenersi casi isolati da perseguire, difendendo la serietà e la sicurezza degli allevamenti italiani, relativamente al benessere degli animali e alla salubrità dei prodotti. I controlli nel nostro Paese sarebbero frequenti e rigorosi, garantendo condizioni di allevamento affidabili e un impiego di farmaci e antibiotici monitorato e limitato al necessario. Le buone condizioni dei capi allevati, peraltro, anche sul piano economico sarebbero a tutto vantaggio degli allevatori stessi.

Allevamenti intensivi: possiamo farne a meno? Al netto di tutte le informazioni che possiamo acquisire sugli allevamenti intensivi, questa è la domanda più importante da porsi. Per mantenere i regimi di consumo attuali, o tantomeno per incrementarli, la risposta è semplice e immediata: no. Si potrebbe aggiungere un “purtroppo” un po’ ipocrita, ma inevitabilmente gli allevamenti intensivi sono imprescindibili per assicurare alte quantità prodotte a prezzi bassi. Come evidenzia un rapporto FAO del 2011, su scala globale le richieste di alimenti di origine animale sono in aumento. Anche se nei Paesi sviluppati, per motivi etico-salutistici o relativi alla crisi economica, si sta verificando un lieve calo dei consumi, dato che interessa anche l’Italia, nelle aree del mondo in via di sviluppo – che rappresentano la maggior parte della popolazione – la tendenza è opposta. Il costante aumento della popolazione mondiale, che avviene soprattutto in questi Paesi, influisce in modo determinante sulla crescente domanda di prodotti animali. Nei Paesi industrializzati, invece, seppur in leggero decremento, i consumi sono comunque nettamente più alti nel dato pro capite.

Cambiare le abitudini. Pertanto, è evidente che alle condizioni attuali sarebbe impossibile rinunciare al modello industriale di allevamento. L’unica strada per spingere un vero ripensamento dei metodi d’allevamento su larga scala non può che essere la riconversione delle abitudini dei consumatori, per un uso più contenuto e possibilmente più qualitativo dei cibi di origine animale. Nel frattempo, resta doveroso l’impegno per garantire condizioni di vita il più possibile accettabili agli animali che vivono negli allevamenti intensivi. 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Unesco, la transumanza è patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Unesco, la transumanza è patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. Il comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco, riunitosi mercoledì a Bogotà, in Colombia, ha proclamato la transumanza patrimonio culturale immateriale dell’umanità. La decisione è stata approvata all’unanimità dai 24 stati membri del Comitato intergovernativo. È la terza volta, si legge in una nota del Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf), dopo la pratica tradizionale della coltivazione della vite ad alberello della comunità di Pantelleria e l’arte dei muretti a secco, che viene attribuito questo prestigioso riconoscimento a una pratica rurale tradizionale. L’Italia acquisisce così il primato di iscrizioni in ambito rurale e agroalimentare superando Turchia e Belgio. La candidatura del «movimento stagionale del bestiame lungo gli antichi tratturi nel Mediterraneo e nelle Alpi» era stata avanzata nel marzo 2018 dall’Italia come capofila insieme alla Grecia e all’Austria, e coordinata — a livello internazionale — dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali con il coinvolgimento diretto delle comunità italiane delle Regioni di Puglia, Basilicata, Campania, Molise, Lazio, Abruzzo, Lombardia e alle province di Trento e Bolzano. «Sono particolarmente contento di questo risultato che riconosce e premia il nostro lavoro», ha detto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Come ha evidenziato l’Unesco nella sua motivazione «la pratica della transumanza, rispettosa del benessere animale e dei ritmi delle stagioni, è un esempio straordinario di approccio sostenibile». «Siamo fieri di questo riconoscimento per la tradizione rurale italiana con la transumanza che diventa patrimonio immateriale dell’Unesco», ha aggiunto la ministra delle Politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova. Un riconoscimento importante – sottolinea la Coldiretti – che conferma il valore sociale, economico, storico e ambientale della pastorizia che coinvolge in Italia ancora 60mila allevamenti nonostante il fatto che nell’ultimo decennio il «gregge Italia» sia passato da 7,2 milioni di pecore a 6,2 milioni perdendo un milione di animali. L’ Italia può contare su molti altri «tesori», già iscritti nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. L’elenco comprende l’Opera dei pupi (iscritta nel 2008), il Canto a tenore (2008), la Dieta mediterranea (2010) l’Arte del violino a Cremona (2012), le macchine a spalla per la processione (2013) e la vite ad alberello di Pantelleria (2014), l’arte dei pizzaiuoli napoletani (2017), la Falconeria (2016) e dal novembre 2018 l’arte dei muretti a secco.

Transumanza, ora è patrimonio culturale dell'Unesco. Passa la candidatura presentata dall'Italia insieme a Grecia e Austria. "E' il decimo riconoscimento per il nostro Paese in questa lista" sottolinea il curatore del dossier. La Repubblica l'11 dicembre 2019. La transumanza patrimonio culturale dell'Unesco, anche se immateriale. La tradizionale pratica di migrazione stagionale del bestiame, è stata iscritta, all'unanimità, nella Lista Rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale dell'Unesco. Da oggi, inoltre, l'Italia acquisisce il primato di iscrizioni in ambito rurale e agroalimentare, superando Turchia e Belgio. Dal Trentino ad Amatrice, dall'Irpinia a Puglia i luoghi-simbolici. Soddisfazione espressa dai ministri delle Politiche agricole Teresa Bellanova e dell'Ambiente, Sergio Costa per il parere favorevole espresso dai 24 Paesi durante il Comitato intergovernativo in corso a Bogotà, in Colombia. Il riconoscimento riguarda tutta l'Italia, dalle Alpi al Tavoliere: le comunità emblematiche indicate nel dossier come luoghi simbolici della transumanza sono diverse, tra cui i comuni di Amatrice (Rieti) da cui è partita la candidatura subito dopo il devastante terremoto, Frosolone (Isernia), Pescocostanzo e Anversa degli Abruzzi in provincia dell'Aquila, Lacedonia in Alta Irpinia in Campania, San Marco in Lamis e Volturara Appula (il paese del Premier Conte) in provincia di Foggia, insieme a territori della Lombardia, la Val Senales in Trentino Alto-Adige, e la Basilicata. I pastori transumanti, come sottolinea il dossier di candidatura presentato dall'Italia insieme a Grecia e Austria all'Unesco, hanno una conoscenza approfondita dell'ambiente, dell'equilibrio ecologico tra uomo e natura e dei cambiamenti climatici: si tratta infatti di uno dei metodi di allevamento più sostenibili ed efficienti. Oggi la transumanza è praticata soprattutto tra Molise, Abruzzo e Puglia, Lazio, Campania, e al Nord tra Italia e Austria nell'Alto Adige, in Lombardia, Valle d'Aosta, Sardegna e Veneto. "E' il decimo riconoscimento per l'Italia in questa lista - sottolinea da Bogotà il curatore del dossier di candidatura, Pier Luigi Petrillo - e ci porta il primato mondiale dei riconoscimenti in ambito agro-alimentare, dopo l'iscrizione nel Patrimonio Culturale Immateriale della Dieta Mediterranea, la Pratica della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria, l'Arte del Pizzaiuolo napoletano, della tecnica dei muretti a secco e dei paesaggi vitivinicoli delle Langhe e del Prosecco".

·        Dove non osano le aquile.

DOVE NON OSANO LE AQUILE. Da La Stampa il 15 settembre 2019. Questi giovani paperi sono esemplari di oche a testa barrata. Sono ritenute gli uccelli che volano più in alto al mondo. Allo stato brado, queste oche sono famose per le loro lunghe migrazioni sopra la catena dell'Himalaya a più di 8mila metri, dove la presenza di ossigeno è molto ridotta. All'Università della Columbia Britannica hanno cercato di capire la fisiologia che permette loro di ottimizzare la strategia di volo. I ricercatori hanno allevato dei pulcini, sfruttando il concetto di “imprinting”: hanno insegnato agli uccelli fin da piccoli a volare indossando una maschera e degli strumenti di misurazione. Così hanno potuto raccogliere le prime misurazioni cardiorespiratorie in assoluto delle oche in volo in una galleria del vento a diverse altitudini simulate E hanno scoperto che questi animali sono in grado di rallentare il metabolismo e la frequenza cardiaca di pari passo con la diminuzione dell'ossigeno nell’aria. In questo modo il sangue trasporta più ossigeno ai muscoli, ma il corpo brucia meno calorie. I risultati completi sono stati pubblicati sulla rivista eLife.

·        La Parabola dell’Orso.

LA PARABOLA DELL’ORSO, DA CREATURA VENERATA A PELUCHE. Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 21 agosto 2019. C' era una volta un Re. Era forte, coraggioso, un guerriero invincibile, un'antica divinità, una creatura venerata. Da lui discendevano schiatte di sovrani, Re Artù e i signori dell' antica Danimarca. Per i Celti, i Germani e gli Slavi era il re dei boschi. Per millenni gli sciamani lo evocavano nei loro riti e gli chiedevano perdono prima d' ucciderlo. Poi all'alba del XII secolo fu detronizzato, schernito, ridotto in cattività, legato alla catena ed esibito in spettacoli ambulanti. La Chiesa cristiana gli fece perdere forza e superbia, lo relegò tra gli animali sconfitti. Al suo posto, sul trono, pose il leone, cui attribuì lo scettro di re degli animali, esempio di forza e virtù. I re cristiani lo sterminarono, Carlo Magno tra i primi. Abbatterono le foreste e resero il suo antico regno un luogo sempre più piccolo. Tuttavia l'orso, questo il nome del Re, non scomparve del tutto. Sopravvisse. Dalle caverne del Paleolitico e dalle foreste dell' età antica il Re si trasferì nelle camerette dei bambini divenendo, lui animale terribile, il simbolo della tenerezza: Teddy Bear. Gli esseri umani e gli orsi sono uniti in un rapporto simbolico da 80.000 anni, argomenta Michel Pastoureau nel suo studio su questo animale appartenente alla famiglia Ursidae e all'ordine dei Carnivori: un mammifero. Originario probabilmente dell' Asia, l'orso discende da antenati comuni ai canidi ed è un plantigrado. Il suo antenato diretto è una specie, Ursus minimus, rinvenuta in Piemonte e Toscana in sedimenti pliocenici di circa 3 milioni di anni fa; ma c'è anche l'Ursus deningeri di grandi dimensioni, tipico del Pleistocene, comparso 800 mila anni fa e sostituito dall' orso delle caverne Ursus spelaeus, adattatosi a un'alimentazione più vegetariana dei predecessori. La nostra parentela con l'orso, scrive Pastoureau, è attestata dalla grotta di Regourdou nel Périgord francese, dove una sepoltura umana neanderthaliana è posta accanto a un orso bruno sotto un'unica lastra tra due blocchi di pietra. Antico dio e antenato dell' uomo, l' orso diventa tra il XII e il XIII secolo il nemico cui si applica la forza costrittiva della Chiesa. Lo si vede come un concorrente della figura di Cristo. Il culto dell' orso, legato all' albero e ai boschi, retaggio di antiche età dell' uomo, è messo al bando. Nascono innumerevoli leggende circa il suo addomesticamento da parte di santi; San Martino lo conduce con sé, catena al collo, e l'aggioga con il bue a tirare carri e aratri. Nella lotta simbolica contro l' orso, la Chiesa l' accosta al diavolo. Cominciano a circolare in quei secoli leggende che i giornali francesi nell'Ottocento definiranno Les faits divers : orsi innamorati di donne le rapiscono e le portano in caverne; si uniscono sessualmente a loro. Nel Seicento, nel ducato di Savoia, valle della Tarantasia, un orso innamorato della giovane Antoinette Culet la violenta e la relega in una grotta, dove resta sequestrata per tre anni. Liberata, la ragazza viene riportata a casa; ma l'orso torna a rivendicare la sua sposa ed è ucciso; Antoinette sconvolta è rinchiusa in un monastero. Prosper Mérimée s'ispirerà a questo evento raccontato in opuscoli e memoriali per la sua novella Lokis. Per quanto temuto e cacciato, l'orso entra però nei nomi e negli emblemi delle città: a Berna tiene il posto dell' animale totemico; Berlino, lo iscrive nel suo simbolo; a Madrid nell' emblema araldico c'è il plantigrado. Nella versione polare dell' orso bianco, l'Ursus maritimus , è invece legato alla primavera e al ciclo vegetale. Gli Algonchini del Canada lo chiamano Nonno, anche se poi lo cacciano. Nel Novecento torna, seppure sotto altra forma: orso di peluche. Nato da un episodio di caccia di Theodore Roosevelt nel 1902 diviene un pupazzo di pezza realizzato da un fabbricante di bambole di New York, Morris Michtom, cui viene dato il nome del Presidente: Teddy Bear. In Europa però da trent'anni circolava già un altro orsetto creato in Germania da Margarethe Steiff: due inventori per lo stesso simbolo. Nel XX secolo arriveranno gli orsi di carta stampata e quelli dei cartoni animati, da Baloo del Libro della giungla a Winni the Pooh, l'orsetto saggio zen, creato da A.A. Milne nel 1926, da Yoghi e Bubu a Masha e Orso dei nostri giorni. L'orso bruno, Ursus arctos , il più diffuso in Europa e in Italia da migliaia d'anni, è oggi un sopravvissuto. Nel nostro paese ci sono circa 100 esemplari sulle Alpi e 30-50 nel parco degli Abruzzi, in Lazio e in Molise. Temuto e insieme desiderato, è monitorato e salvaguardato. La sua caccia è cessata per decreto nel 1939. Una volta sterminati o quasi, gli animali più importanti per l'uomo diventano simboli, e quindi oggetti dedicati ai bambini, a quell'età in cui il mondo naturale appare un Eden incontaminato, com'era probabilmente all' origine, prima che l' Homo sapiens diventasse il padrone incontrastato della Terra. Il cerchio s'è chiuso.

Da La Repubblica il 21 agosto 2019. L'orso M49 ora rischia di essere ucciso in Alto Adige. Come già aveva fatto la provincia di Trento, dove si era tentato di catturare l'orso di 3 anni, ritenuto responsabile di numerosi danneggiamenti al patrimonio zootecnico e di tre tentativi di intrusione in locali produttivi o privati, la provincia autonoma di Bolzano ha deciso che l'animale è pericoloso. Dopo la fuga e lo sconfinamento di M49 in Alto Adige nella zona di Passo Oclini-Passo Lavazè, il presidente Arno Kompatscher ha firmato infatti  l'ordinanza di cattura per il plantigrado secondo quanto previsto dal Piano d'azione interregionale per la conservazione dell'orso bruno sulle Alpi centro-orientali (PACOBACE) e seguendo quanto già previsto dalle due ordinanze emesse dalla Provincia di Trento. La firma è arrivata dopo una riunione tecnica tra l'assessore Arnold Schuler e il direttore dell'Ufficio caccia e pesca, Luigi Spagnolli e dopo che lo stesso assessore ha informato il presidente Arno Kompatscher sugli ultimi sviluppi. "Come già fatto dalla Provincia di Trento - spiega Schuler - l'ordinanza prevede la cattura dell'orso ad opera degli uomini dell'Ufficio caccia e pesca della Provincia. Solo se l'animale diventa pericoloso per l'uomo è previsto, peraltro anche dal Pacobace, l'abbattimento". Schuler fa sapere che il personale forestale è alla ricerca di tracce del plantigrado nella zona dove sono avvenuti gli avvistamenti, ma l'animale potrebbe nel frattempo essere tornato in Trentino. Contro l'uccisione dell'orso si è sempre schierato il ministro dell'Ambiente Costa, che questa mattina aveva fatto un appello alla provincia altoatesina: "Invito la Provincia di Bolzano a non creare allarmismi controproducenti. Mi aspetto, in un sano rapporto cordiale e istituzionale, di ricevere presto notizie dal presidente Arno Kompatscher per attivare Ispra che è e sarà sempre pronta ad affiancare il territorio con tutta la sua competenza e disponibilità - ha scritto il ministro - Invito pertanto a non emettere ordinanze che mettano in pericolo la vita di Papillon. Lasciamo parlare i tecnici e non le suggestioni. Io rinnovo il mio appello: non ammazzatelo". L'appello del ministro però non è stato ascoltato. Costa aveva anche messo in dubbio che in Alto Adige sia stato avvistato proprio M49, che è privo di radiocollare dopo la fuga rocambolesca dal recinto di Casteller, a Trento: "Innanzitutto poi dobbiamo avere la certezza che l'orso di cui parlano sia proprio lui", ha detto il ministro.

·        L’animale più pericoloso? La Zanzara.

ALTRO CHE SQUALI E SERPENTI: L’ANIMALE PIÙ PERICOLOSO PER L’UOMO È LA ZANZARA. Maria Rosa Pavia per Il Corriere.it il 20 Agosto 2019. 

Portatrici di malattie. È tra gli animali più piccoli, ma è di gran lunga il più pericoloso per l’uomo, con diverse centinaia di migliaia di vittime ogni anno. Il 20 agosto è il World Mosquito Day, giornata istituita su iniziativa soprattutto di istituzioni e Ong contro la malaria. La data scelta per la ricorrenza commemora Sir Ronald Ross, che proprio in questo giorno del 1897 scoprì che è la zanzara femmina a trasmettere la malaria. Proprio questa malattia è la principale causata dall’insetto, e secondo l’Oms ha causato nel 2017 435mila morti e 215milioni di casi nel mondo, concentrati in 11 paesi, dieci in Africa più l’India. «Quale direste che sia l’animale più pericoloso sulla Terra? I serpenti? Gli squali? - sottolinea Bill Gates in un blog sul sito della sua Fondazione - La risposta è “nessuno di questi. Sono le zanzare”. Secondo una stima dei ricercatori della Fondazione infatti le zanzare uccidono ogni anno 725mila persone, molte di più rispetto a serpenti (50mila) e cani (25mila), che seguono in classifica. Tra le varie armi contro questi insetti, che oltre alla malaria veicolano decine di altre malattie, dalla dengue al Virus del Nilo che è ormai endemico anche in Italia, recentemente si sono aggiunte le zanzare stesse: in tutto il mondo sono in corso esperimenti che prevedono l’introduzione in natura di esemplari resi sterili con modifiche al Dna o attraverso radiazioni o l’esposizione a batteri per controllare le popolazioni (Ansa).

Città infestate. Mentre sono in corso degli studi per ridurne le potenzialità riproduttive, le zanzare tigre continuano a proliferare e, complici le alte temperature, sono in aumento in tutta Italia. Un fenomeno diffuso che vede ben 87 province con un indice di infestazione di livello 3 e 4 in una scala di intensità di quattro punti. Tra queste, le più invase sono Milano, Roma, Cagliari e Palermo. Questi i dati elaborati dalla Anticimex, azienda specializzata nel pest management e nei servizi di igiene ambientale, su base dati Vape, nella settimana fino al 31 luglio.

La situazione al Nord. Attraversando l’Italia in lungo e in largo, l’allarme più alto si concentrerà in Liguria su tutte le province, così come in Friuli-Venezia Giulia e Piemonte interamente prese d’assalto. In Lombardia gli insetti famelici faranno la loro comparsa manifestandosi principalmente sui territori di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lodi, Milano, Monza-Brianza, Pavia e Varese, colpendo anche Lecco, che presenterà invece un indice medio-alto (3). Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta non avranno particolare motivo di preoccuparsi. In Veneto a soffrire saranno soprattutto Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Vicenza.

Al centro. Totalmente colpito l’Abruzzo, l’Umbria e le Marche. Nel Lazio al livello 4 spiccano Roma, Frosinone e Latina, mentre in Toscana tutte le province, con solo Massa Carrara a indice medio-alto 3.

Al Sud. Interamente colpite Basilicata e Puglia. In Molise, Campobasso è al livello 3. Massima allerta in quasi tutta la Calabria (con eccezione di Cosenza) e la Campania (solo Avellino ha l’indice 3).

Nelle isole. Per quanto riguarda infine le isole, in Sicilia a salvarsi è la sola Ragusa (indice 1), mentre la Sardegna entra nel mirino del livello 4 con Cagliari, Carbonia Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra, Olbia – Tempio, Oristano e Sassari, e a seguire la sola provincia di Nuoro, al livello medio-basso (2).

Le province senza rischi. Viene considerata irrilevante la presenza delle zanzare tigre in quattro province italiane. Se si vuole sfuggire ai fastidiosi insetti ci si può rifugiare ad Aosta, Cuneo, Isernia e Sondrio.

Come difendersi. Valeria Paradiso, responsabile tecnico di Anticimex Italia, afferma: « Nelle abitazioni con giardini o aree verdi, le nuove tecnologie possono aiutare sensibilmente i cittadini a difendersi dalle zanzare. Attraverso sistemi di disinfestazione automatica si possono programmare giorni e orari di intervento, nebulizzando prodotti specifici o repellenti al 100% naturali nei momenti più idonei e in autonomia». Ciò non esclude l’importanza della prevenzione alla quale devono collaborare «amministrazioni comunali e condominiali, che devono pianificare interventi mirati e continuativi almeno da marzo a ottobre».

·        Brigitte Bardot: la prima vera animalista.

Brigitte Bardot: «Io una pioniera, fui la prima vera animalista». Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Stefano Montefiori su Corriere.it. Brigitte Bardot gioca, in costume e pareo, con uno dei suoi cani nel giardino della casa di Saint-Tropez. È il 28 settembre 1974, il giorno del suo quarantesimo compleanno (foto Jack Garofalo/Parismatch/Scoop/agenzia Luigi Volpe)La prima volta che Brigitte Bardot si scoprì una sensibilità e soprattutto una determinazione animalista fu durante le riprese di quello che sarebbe rimasto il suo ultimo film, Colinot l’alzasottane. «Sul set c’era una capretta e la proprietaria mi ha detto “si sbrighi a finire la sua scena, perché domenica è la comunione di mio nipote e dobbiamo farla allo spiedo”. Ho subito comprato quella creatura e l’ho portata con me, attaccata a una corda, nell’hotel a cinque stelle». Nel 1953 Brigitte aveva mostrato l’ombelico sulla spiaggia di Cannes, durante il Festival, indossando il bikini appena inventato dall’ingegnere automobilistico Louis Réard. Fu il suo primo scandalo. Vent’anni dopo, la Bardot fece scalpore facendo entrare una capra nella sua camera d’albergo. «Quel giorno ho preso la decisione di smetterla con il cinema e di aiutare gli animali. Era il giugno 1973, avevo 38 anni». Brigitte Bardot in quell’occasione ha cambiato vita, e all’esistenza successiva è rimasta fedele. L’impegno animalista cominciato allora è rimasto assoluto, una missione che ha preso tutto il tempo e il denaro della diva del cinema francese. Anche la Madrague, la villa a Saint-Tropez sulla quale Gunter Sachs nel 1966 aveva lanciato in elicottero centinaia di rose, è stata donata alla Fondazione Brigitte Bardot per la tutela degli animali. Nel 1977 BB ha compiuto il primo viaggio per sensibilizzare il mondo alla causa animalista: sulla banchisa del Canada, nel golfo del Saint-Laurent, si è fatta fotografare accanto ai bébé foca destinati a essere massacrati con tre colpi di arpione. Dopo una lunga battaglia, la caccia agli esemplari nati da pochi giorni è stata finalmente proibita, una delle poche vittorie di BB. Oggi, a 84 anni, Brigitte Bardot continua la sua lotta. L’ultima presa di posizione in questi giorni, contro la «Festa del cane» di Barjols, poco lontano dalla Mandrague: in programma esibizioni di caccia al cervo con i cani. «Abito nel Var, e il nostro dipartimento già non ha più uccelli, fagiani, lepri, tutti uccisi dai cacciatori. Ci mancava questa pagliacciata. Barjols ha altre cose da proporre che non le pratiche vergognose che ormai interessano solo a qualche scemo». BB non è cambiata, i toni sprezzanti sono sempre gli stessi. Quel che è mutato è l’atteggiamento della società nei suoi confronti. Negli anni Settanta e Ottanta le immagini dei piccoli di foca suscitavano emozione, è vero, che però durava lo spazio del servizio al telegiornale: per il resto il benessere degli animali era una causa tutto sommato marginale. Oggi l’atmosfera è diversa. BB racconta a 7 come si sente adesso che la lotta animalista è diventata popolare, filosofi come Alain Finkielkraut o Élisabeth de Fontenay si dedicano con passione a questo tema, i vegani organizzano manifestazioni, e la tutela degli animali è al centro di una preoccupazione molto diffusa. 

Pensa di avere vinto la battaglia delle idee? Si sente una pioniera? È fiera di quel che ha fatto finora? 

«Quarantasei anni fa ho donato la mia vita agli animali. All’inizio mi ridicolizzavano. Mi sono tante volte lamentata delle ingiustizie tra gli uomini, ma per me comunque non erano niente rispetto alle ingiustizie che gli uomini fanno subire agli animali. Non mi sono arresa. Nonostante tutti gli ostacoli, ho avuto il coraggio di continuare quel che avevo cominciato. Sì, mi sento una pioniera perché sono la prima ad avere denunciato i maltrattamenti sugli animali. Ho vinto davvero solo una battaglia: quella delle foche, dopo trent’anni di attesa. Ma ho influenzato l’opinione pubblica, e questo è molto importante. Quindi sono fiera di ciò che ho ottenuto, anche se c’è ancora moltissimo da fare».

Le giovani generazioni sono molto sensibili a questo tema. La ragazzina svedese Greta Thunberg, che oltre a militare per l’ambiente è vegana e invoca la fine degli allevamenti industriali, suscita a sua volta molte critiche. Che cosa pensa BB di Greta? 

«Il mio sostegno e ringraziamento va a tutti gli attivisti, giovani o anziani. Greta Thunberg è una figura di punta, e offre un superbo esempio del rispetto che dobbiamo agli animali in tutti gli ambiti. Il disinteresse verso gli animali è la vergogna della nostra società, la prova della sua disumanità».

Secondo la visione di Cartesio, che ha plasmato a lungo l’atteggiamento della civiltà occidentale verso gli animali, essi non hanno coscienza, sono solo una sorta di «macchina animata». Ma quell’idea è messa in discussione dalle scoperte scientifiche e dagli studi etologici. Alcune associazioni come L214 non esitano a filmare quel che succede nei mattatoi per mostrare a tutti la sofferenza degli animali, e quei video stanno spostando l’opinione pubblica sulla questione posta da Jeremy Bentham: «Il punto non è: possono ragionare, possono parlare? Ma, possono soffrire?».

Che cosa pensa quindi dei discussi metodi di L214? 

«I militanti di L214 sono formidabili, coraggiosi, unici. Grazie a loro le immagini insostenibili dei mattatoi hanno disgustato l’opinione pubblica, che ignorava l’inferno patito dagli animali in queste fabbriche di agonia abietta che sono i mattatoi». 

Gli anti-specisti rifiutano l’esistenza di una gerarchia tra le specie. Lei si definisce come tale? 

«Penso che all’inizio l’uomo, l’animale, le piante, gli alberi, si trovassero in una condizione di uguaglianza. Certe specie tra le quali quella umana e certi animali si sono evoluti più rapidamente degli altri ma restano legati a una catena ecologica che dà equilibrio alla nostra presenza sulla Terra. Dunque non c’è una gerarchia, per me. Ma esiste un predominio dell’umano che, in virtù della sua supremazia, si è attribuito il diritto di vita e soprattutto di morte su tutti gli esseri più deboli. Non c’è alcun predatore che possa avere ragione della demografia vertiginosa degli umani, che toglie equilibrio al sistema ecologico destinato così al crollo. Siamo troppo numerosi su questo pianeta che soffoca ed è moribondo. Gli animali hanno la saggezza di smettere di riprodursi quando sentono che la loro esistenza è minacciata».

Nel mondo dei militanti in difesa degli animali, alcuni sono «abolizionisti», ovvero auspicano la fine dell’allevamento e del consumo di carne, mentre altri sono «welfaristi», quindi accettano la natura carnivora dell’uomo ma hanno comunque a cuore il benessere degli animali prima e durante l’abbattimento. Lei come si pone?

«In futuro, se un futuro ci sarà, penso che gli uomini giudicheranno i carnivori attuali come noi giudichiamo i cannibali di un tempo. Uccidere, sgozzare in catena di montaggio milioni di animali per nutrirsi della loro carne, dello loro sofferenze, del loro sangue, del loro terrore e della loro disperazione, è una crudeltà inimmaginabile. Sono vegetariana da 40 anni e adesso ne ho 84. Sto benissimo. Spero in una chiusura definitiva dei mattatoi, un giorno. Sono stabilimenti di sterminio, di sofferenza di esseri innocenti». 

Lei è vegana?

«No, mangio uova, formaggio, miele e burro. Non sono vegana, sono vegetariana». Nel luglio 2018 il presidente Emmanuel Macron e la première dame Brigitte, assieme al cane Nemo, hanno ricevuto Brigitte Bardot all’Eliseo. «So che mi sgriderà», esordì Macron. «No, perché non mi ha ancora promesso niente», rispose BB. 

Un anno dopo, come vanno i rapporti con il presidente? Le sue richieste sono state ascoltate?

«La prego, non mi parli mai più di Macron né di altri presidenti. Sono nauseata».

Poca fiducia negli uomini di governo, ma BB non rinuncia a sperare. 

«Sono fatalista. La nostra sopravvivenza è nelle mani di coloro che dirigono il mondo e ci portano verso il peggio. Ma credo anche nei miracoli, che mi faranno vincere finalmente una battaglia decisiva. Chi vivrà vedrà. Baci, baci a tutti».

BB negli Anni Ottanta, mentre accarezza un cavallo: l’attrice ha fondato a La Mare Auzou negli Anni ‘90 un rifugio per animali, che salva equini maltrattati.

Vita — È nata il 28 settembre 1934 a Parigi. Il padre Louis “Pilou” Bardot era un noto industriale. Ha iniziato a studiare danza classica da bambina e a 15 anni si è iscritta al Conservatorio. Nel 1952 ha sposato il regista Roger Vadim . I due hanno divorziato nel 1957. Nel 1959 ha sposato l’attore Jacques Charrier da cui ha avuto il suo unico figlio, Nicolas-Jacques. Si è risposata altre due volte: nel 1966 con il playboy tedesco Gunter Sachs e nel 1992 con il politico Bernard d’Ormale.

Carriera — Ha debuttato al cinema nel 1952 con Le Trou Normand . In breve tempo diventa una delle attrici europee più note anche negli Stati Uniti. Negli Anni 60 ha iniziato la carriera di cantante. Ha annunciato il suo ritiro dalle scene nel 1974, poco prima del suo quarantesimo compleanno.

·        Animali da Circo: Incolpevoli delle disgrazie.

La moglie del domatore ucciso da una tigre: «Non ammazzatela». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. «È mio marito che ha sbagliato un movimento. Il felino è un predatore, con una zampata Ettore è crollato in un secondo perdendo la vita con la giugulare recisa. Non è stato sbranato». Così Loredana Vulcanelli racconta a Il Quotidiano Nazionale come il marito, domatore di un circo Orfei, sia morto durante un addestramento a Triggiano, nel Barese. La donna ha poi lanciato un appello, chiedendo che l'animale che ha ucciso Ettore Weber, 61 anni, non venga abbattuto: «Se io mi avvicino a uno strapiombo per farmi un selfie, non è colpa del burrone se muoio. Le tigri le abbiamo cresciute col biberon nella roulotte». E ricorda: «Ogni sera allineiamo le tigri e facciamo un'esibizione privata tra di noi, per avere un contatto costante con gli animali», aggiunge la donna, ricordando il protocollo seguito. «Mio marito prepara la carne dalla cintura e la dà da mangiare alle tigri quando fanno l'evoluzione... Mio marito entra nella gabbia: io e lui abbiamo un'intesa di 40 anni, con gli occhi ci capiamo. Qualsiasi allarme ce lo comunichiamo in un istante». La sera dell'incidente qualcosa non è andato come previsto. «La prima tigre è salita sullo sgabello, mio marito è indietreggiato mentre io facevo venire la seconda tigre. Lui ha fatto tre passi in più rispetto al solito e, girandosi, è finito sotto alla tigre. Gli altri felini non lo hanno aggredito. Sono tornate impaurite dentro il tunnel. La tigre che l'ha colpito, Sultan, è rimasta sopra mio marito, come a vegliarlo, come se si fosse resa conta dell'errore», ha aggiunto Vulcanelli, sottolineando come quella sera il marito non fosse nemmeno convinto di fare l'esibizione. «È come se avessimo avuto un segnale». Dopo la morte del domatore, la magistratura ha disposto il sequestro delle 8 tigri del circo Orfei dove è avvenuto l'incidente: gli otto felini sono stati collocati allo Zoo Safari di Fasano, in provincia di Brindisi. Rispetto a quanto emerso inizialmente, Weber — ucciso lo scorso 4 luglio dalle tigri con cui si allenava da 15 anni — non è morto sbranato. Come chiarito da Marina Monti, titolare del circo, l'uomo «è stato colpito alla giugulare con una zampata da una sola tigre. È morto nel giro di 2-3 secondi. Non c'è stata alcuna aggressione da parte delle tigri. Qualcuno ha scritto che è stato trascinato, che è stato in balia degli animali per più di mezz'ora, ma se fosse andata così non avremmo ritrovato niente del suo corpo, che invece era integro», evidenzia. Avendo assistito alla scena, la donna ha raccontato che il signor Weber era entrato in gabbia da pochi minuti. «Di solito, durante lo spettacolo, quella tigre al passaggio del domatore allungava la zampa. Trovandosi sul suo sgabello e vedendo passare Weber, ha eseguito il gesto. Lui era di spalle e troppo vicino all'animale. In questo modo è stato colpito alla giugulare. Se fosse stato — ha concluso la proprietaria del circo — 20 centimetri più alto sarebbe stato colpito alla spalla e avrebbe riportato solo un graffio. Si è trattata di una fatalità». Monti ha, infine, precisato che tutto quello da lei raccontato è stato confermato dai medici legali.

Alessandro Belardetti per “QN – il Giorno” il 17 luglio 2019. Signora Loredana Vulcanelli, come ha conosciuto suo marito Ettore Weber?

«Negli anni '70 mio padre gestiva il Circo di Berlino e lavoravo con loro, come i miei 5 fratelli. In una tournée venne a lavorare la famiglia Weber: fu amore a prima vista, folle amore. Mi colpirono il suo carattere enigmatico, la sua durezza, la sua riservatezza, la sua discrezione. Gli feci la corte subito, ma lui non mi dava confidenza. Era un bel ragazzo, appassionato di animali. Addestrava pony e cavalli. Addomesticava qualunque animale: si avvicinava e li capiva. È un dono di natura essere domatore, pochi al mondo ce l' hanno. A 15 anni ammaestrava le bestie in cortile».

Quando è scoppiato l' amore per il circo?

«Provengo da generazioni di circensi, i miei trisnonni facevano circo. È una tradizione di famiglia. Ho studiato da autodidatta materie umanistiche, ma il mio lavoro lo amo più di ogni altra cosa».

I figli hanno seguito le vostre orme?

«Orlando, 36 anni, e Alex, 31, sono cresciuti nel circo, poi due anni fa hanno spiccato il volo. Alex è andato a fare l' equilibrista altrove, Orlando è un ginnasta generico che ha deciso di staccare la spina da questo mondo».

Cos' è successo la sera a Triggiano, nel Barese, in cui Weber è morto?

«Ogni sera dalle 20 alle 21 allineiamo le tigri e facciamo un' esibizione privata tra di noi, per avere un contatto costante con gli animali. C' è un protocollo: mio marito prepara la carne dalla cintura e la dà quando le tigri fanno l' evoluzione. I felini escono dal carro e li posizioniamo nel tunnel vicino alla gabbia. Mio marito entra nella gabbia: io e lui abbiamo un' intesa di 40 anni, con gli occhi ci capiamo. Qualsiasi allarme ce lo comunichiamo in un istante. La prima tigre è salita sullo sgabello, mio marito è indietreggiato mentre io facevo venire la seconda tigre. Lui ha fatto 3 passi in più rispetto al solito e girandosi era convinto di essere nel mezzo. Invece era sotto alla tigre. Ha sbagliato il movimento».

E a quel punto?

«Il felino è un predatore e si è destabilizzato per quel gesto. È stato un fulmine, con una zampata Ettore è crollato in un secondo perdendo la vita con la giugulare recisa. Non è stato sbranato. Nella sua tomba ho messo un corpo, con le sue fruste, che per lui erano preziose come diamanti».

Le altre tigri lo hanno aggredito?

«No, sono tornate impaurite dentro il tunnel. La tigre che l' ha colpito, Sultan, è rimasta sopra mio marito, come a vegliarlo. È come se si fosse resa conta dell' errore e voleva dirci: 'State lontani, ci penso io'».

Suo marito è stato tradito da un eccesso di sicurezza?

«No, da una distrazione, un errore di calcolo. Non era una persona superba. Pochi minuti prima mi ha anche detto: 'Loredana, proviamo o no?'. Io gli ho chiesto: 'Hai preparato tutto? Non so, il tempo mi sembra strano'. È come se avessimo avuto un segnale, quella sera era un caldo allucinante».

Aveva mai rischiato la vita?

«Qualche piccolo graffio quando dava mangiare, ma niente di che. Ha avuto uno dei più grandi maestri di tigri, Eugenio Weidmann, e non ha mai rischiato nulla. L' allenatore è decisivo».

«Lo show deve andare avanti», dite nel tendone. I vostri spettacoli proseguiranno con un altro domatore?

«Aspetto di prendere i miei felini, portarmeli a casa, per trovare un parco dove sistemarli e farli stare bene. A questo punto starò vicina ai miei figli e ai miei nipotini».

Se una tigre attacca l' uomo, cosa si può fare?

«Io ho l' estintore al mio fianco, loro si spaventano e ritornano in ordine. Quella sera ho cercato anche di entrare nella gabbia, ma la tigre si è voltata e mi sono rimessa a posto».

Quella tigre deve essere soppressa?

«Assolutamente no. Se io mi avvicino a uno strapiombo per farmi un selfie, non è colpa del burrone se muoio. Le tigri le abbiamo cresciute col biberon nella roulotte».

Il felino Sultan è stato addestrato da Weber: era il suo 'migliore amico'. Lei l' ha perdonato?

«Certo, la tigre è una predatrice. Mio marito pesava 60 chili, la tigre 150. È l' uomo che sbaglia, non l' animale, che ha solo l' istinto».

Suo marito pensava di ritirarsi dal lavoro?

«Avevamo calcolato che tra due anni avremmo smesso».

Gli animalisti vi accusano di usare metodi violenti per addestrare gli animali.

«Vengano a vedere i nostri allenamenti. Li abbiamo invitati tante volte, a spese nostre: non è venuto nessuno».

Qual è il segreto per entrare in contatto con tigri, pantere, leoni?

«Servono genio e sregolatezza, con un po' di follia. Ettore parlava alle tigri come facciamo noi ora, e loro gli facevano le fusa».

I vostri haters dicono: «Fanno circo per i soldi». I circensi ribattono: «Lo facciamo per l' amore degli animali». Lei perché lo fa?

«Perché mi fa sentire viva».

La domatrice di tigri senza frusta: "Gli animalisti non sanno nulla". «Vivo nella paura che mi separino dai miei cuccioli. Nei circhi non usiamo violenza: anche i leoni ricambiano l'amore». Nino Materi, Martedì 13/08/2019, su Il Giornale. Se il Genio della Metempsicosi, uscendo dalla lampada, le chiedesse in chi o in cosa vorrebbe reincarnarsi, Valeria non esiterebbe un istante: «In una tigre o in una leonessa». Valeria Valeriu, 35 anni, nata in Grecia ma cittadina italiana, figlia di due trapezisti che fin dalla culla le hanno trasmesso la passione per il circo e, soprattutto, l'amore per gli animali, con le tigri e i leoni ha un rapporto particolare. Li coccola, li bacia come se fossero bambini, o cuccioli di cani o gatti; con la differenza che i suoi «cuccioloni» con una zampata - se volessero - potrebbero spedirti direttamente all'altro mondo. Com'è accaduto qualche settimana fa allo sfortunato Ettore Weber, il domatore vittima di un incidente mortale mentre stava provando il numero con i suoi felini. Valeria era una collega di Weber, anzi era suo amico: «Un grande professionista e un grande uomo - racconta Valeria al Giornale -. Dopo la tragedia che lo ha colpito, ho parlato con la moglie ed il figlio: entrambi mi hanno detto con le lacrime agli occhi che Ettore è morto come avrebbe sempre sognato, esibendosi con le sue tigri. Le quali non lo hanno tradito, assalendolo - come erroneamente hanno riportato le cronache -. Al contrario potrebbe essersi trattato di un errore tecnico, causato forse dallo stress con cui Ettore era sceso in pista. La tigre doveva muovere la zampa, faceva parte dello show: ma Weber era troppo vicino, così è stato colpito accidentalmente e per lui non c'è stato nulla da fare». Valeria, quando si parla di circhi e animali, ha le idee chiare: idee che confliggono diametralmente con quelle di chi sostiene che sotto i tendoni «le bestie vengono maltrattate». Se sul tema ti azzardi a provocarla, la signora Valeriu ti mostra tutta una sfilza di studi e pareri scientifici che - a suo dire - «smentiscono tutti i pregiudizi ignoranti dei tanti animalisti che parlano senza conoscere nulla della vita del circo». Valeria non fa sconti a nessuno e picchia duro sul mondo della politica: «Attorno all'associazionismo che si occupa della cosiddetta tutela degli animali circolano interessi milionari e i conflitti di interesse sono clamorosi». Valeria Valeriu è una domatrice sui generis: «Non mi piace la parola domatrice, perché rimanda a un concetto di forza che pone l'uomo al di sopra degli animali. Nella mia relazione con loro, invece, il rapporto è paritario. Io amo e rispetto le mie tigri e i miei leoni e loro amano e rispettano me». Anche per questo nella sua decennale e prestigiosa carriera di «addestratrice» Valeria non ha mai avuto incidenti con i suoi «gattoni». Che lei, anche se pesano 300 chili, chiama «amorini». Quando si parla del suo leone bianco, Zeus, Valeriu si illumina di felicità come una bambina che ha appena ricevuto il regalo più desiderato. Un entusiasmo contagioso, che diventa quasi commozione non appena Valeria ti rende partecipe dei suoi sentimenti più intimi, inviandoti via whatsapp video che lasciano senza fiato: la nipotina di pochi mesi che gioca teneramente con tre cuccioli di leone (non di peluche ma vivi e vegeti); lei con la sorella Desirè che bacia sul naso il mitico Zeus. Domanda d'obbligo: scusi Valeria, ma la sua nipotina gioca abitualmente con i leoncini?

Risposta: «Mia nipote è stata vaccinata nello stesso giorno in cui sono stati vaccinati i cuccioli di leone che sono nati da noi e per 12 ore li abbiamo tenuti con noi per controllare che non avessero reazioni al vaccino». Domanda bis: scusi Valeria, ma quei bacini sul naso di Zeus non le sembrano un'esagerazione?

«Ho da tempo rinunciato a far fare ai miei felini quegli esercizi classici (e decisamente umilianti per animali solenni come tigri e leoni ndr) che di solito si vedono nei circhi - ci spiega Valeria -. Tipo: salti nel cerchio di fuoco o capriole. Io invece preferisco una sorta di love show a base di coccole. Inoltre sto privilegiando un approccio didattico, coinvolgendo bambini e scuole che vengono a trovarci».

Anche se ha soli 35 anni l'album dei ricordi di Valeria è zeppo storie e aneddoti: «Ho sempre fatto la vita della girovaga. Ho lavorato in giro per il mondo nei circhi più famosi. I miei genitori anche se erano due trapezisti venivano sempre chiamati ogni volta che un animale del circo aveva qualche problema. Il loro amore per gli animali era tanto grande da essere sufficiente a guarirli. Gli animali sentono il nostro amore, esattamente come sentono il nostro stress e nostri disagi psicologici. Li avvertono in maniera talmente netta da diventare felici, tristi o stressati esattamente in correlazione alla felicità, alla tristezza e allo stress degli umani che stanno loro accanto».

Se oggi chiedi a Valeria: «Ma qual è il tuo stato d'animo attuale?», lei ti risponde un po' cupa: «A volte devo combattere per non abbattermi, vivo infatti nell'angoscia che possano portarmi via i miei animali. Le attuali leggi sono assurde e sono state scritte da chi non ha alcuna competenza in materia. Io frequento master e mi tengo continuamente aggiornata. E posso dimostrare a tutti che i cosiddetti animali selvaggi non sono per nulla selvaggi, ma possono essere addomesticati attraverso il metodo del rinforzo positivo, l'esatto opposto cioè delle fruste e dei sistemi coercitivi. Roba che appartiene al passato e che oggi nessun domatore si sognerebbe di adottare».

Valeria è l'unica addestratrice che ha deciso di rimanere in Italia: «Le altre mie pochissime colleghe lavorano all'estero, in Paesi più civili del nostro. Dove anche le istituzioni hanno capito che circo e animali non sono incompatibili. A condizione che gli uomini amino gli animali come questi ultimi amano noi».

Una visione troppo romantica del rapporto tra persone e bestie? «Cavalli, scimmie, e tanti altri animali che, in forza di leggi assurde, sono stati separati forzatamente dai propri habitat circensi (parliamo di animali nati infatti nei circhi ndr) si sono lasciati morire rifiutandosi di bere e mangiare - risponde Valeria -. Se mi portassero via i miei sei leoni e le mie due tigri non potrei più vivere. Continuerò sempre a combattere. Per me e per loro. Disposta a privarmi della mia libertà per l'amore verso i miei animali».

·        Muto come un pesce.

Ritorna lo storione nel Mare Adriatico. «Non si pescava da più di 30 anni». Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 da Corriere.it. Quando lo hanno tirato su i pescatori non ci hanno messo molto a capire che non era un pesce qualunque. «E questo cosa ci fa nella rete?». Uno storione, giovanissimo, lungo una sessantina di centimetri , pescato nei giorni scorsi al largo di Marina di Ravenna. La notizia ha fatto subito il giro dei media. Perché era da più di 30 anni che non se ne vedeva uno in Adriatico. Un animale considerato estinto. Appena i pescatori hanno capito di cosa si trattava e della rarità dell’esemplare finito nelle loro mani lo hanno affidato ad altre mani, quelle del Cestha, un centro per la riabilitazione per la fauna ittica. Che lo hanno accolto con una certa eccitazione. «Si tratta del primo recupero in assoluto di un esemplare vivo» — dice Simone D’Acunto direttore del Cestha. Un dato importantissimo per i ricercatori». La salute del pesce storione migliora. E tra non molto ritornerà in mare. Per i ricercatori di cui parla D’Acunto si tratta di un fatto molto importante. È la prova che il giovane storione ha percorso con successo gli oltre 300 chilometri che li separavano dal mare. Da un habitat all’altro senza trovare ostacoli. Lo storione «beluga», nome scientifico «Huso huso» appartiene al gruppo di pesci rilasciati a inizio estate nell’area del Parco del Ticino allo scopo di ripopolare i fiumi (fa capo al progetto europeo LIFE Ticino Biosource). Sono allevati in vasche naturali di roccia nel fiume. Dopo un mese di vita il beluga è pronto per il viaggio verso il mare con un chip applicato sotto la pelle. Al progetto collabora un biologo marino, Oliver Mordenti che insegna Acquacoltura a Cesenatico (Università di Bologna). Lui e i suoi collaboratori hanno la responsabilità del ripopolamento dell’area sud del Delta del Po. Spiega: «Il nostro compito è trovare un alimento per lo storione che non sia il classico mangime. Una dieta per favorire la sua sopravvivenza. Abbiamo testato pesce azzurro, crostacei e vermetti. Abbiamo notato che vanno matti per i crostacei». Fino agli anni settanta, nell’era pre estinzione, lo storione beluga sguazzava nelle acque dell’Adriatico in abbondanza. Si pescava e finiva nei piatti delle persone. Poi è cominciata un’altra storia. In breve tempo è sparito. Non c’è una sola causa. La sua scomparsa è dipesa da molti fattori. L’inquinamento delle acque. La pesca selvaggia senza limiti e controlli. L’azione del pesce siluro, diffuso nei bacini del Po. E, soprattutto, le barriere. Lo storione è un pesce resistente, può percorrere centinaia di chilometri ma deve avere campo libero per arrivare alle acque salate del mare. Spiega D’Acunto: «Gli sbarramenti costruiti nel corso degli anni per il controllo idraulico o la produzione dell’energia elettrica ne hanno impedito il passaggio. Fortunatamente le Regioni del nord Italia hanno iniziato a rimuoverli». Cita l’ esempio dell’Isola Serafini dalle parti di Piacenza. Un’isola fluviale, la maggiore del fiume Po, che ospita una centrale idroelettrica. Da quando è entrata in attività è diventata il grande tappo sul fiume. Almeno per lo storione. «Aprendo questa enorme diga hanno eliminato l’ostacolo principale sul Po — aggiunge Olivier Mordenti—. Sta funzionando. Stanno risalendo anche altre specie ittiche, come l’anguilla e la cheppia». Lo storione sceglie il mare. Questo è sicuro. Così come le acque dolci per riprodursi. Possibilmente pulite. Ma ci vorrà ancora tempo perché si ricostituisca in Adriatico una popolazione di pesci stabile e numerosa come quella che c’era decenni fa. La storia è solo all’inizio. Un «beluga» raggiunge la maturità sessuale a 20 anni. Quello pescato a Marina di Ravenna ha appena sette mesi di vita. «Incoraggia però il fatto che di recente altri due storioni sono stati segnalati nelle acque di Roseto degli Abruzzi e di Rimini — dice Mordenti—. E che i pescatori ci danno una mano. Noi abbiamo sottoscritto un accordo con l’associazione dei capannisti che hanno le reti nel Delta del Po, luogo cruciale e obbligato per il passaggio dei pesci».

Nicola Pinna per “la Stampa” il 16 dicembre 2019. I pescivendoli del grande mercato di San Benedetto stroncano subito ogni speranza: «Ricci? Quest' anno sarà impossibile trovarli. Qualche pescatore in realtà ce li propone, persino in nero, ma non vogliamo rischiare le multe. E poi i prezzi sono diventati troppo alti e noi preferiamo rinunciare». In pescheria ne fanno soprattutto una questione economica ma il business incontrollato dei ricci di mare ha creato in questi anni un enorme problema ambientale. Lo dicono gli studi: la specie rischia l'estinzione in poco tempo. Eppure, il richiamo dello spaghetto o dei crostini sembra davvero molto più forte. Le richieste non mancano, i prezzi hanno superato quello di ostriche e aragoste e il mercato è diventato clandestino. Pesca di frodo, vendita abusiva e nessuna registrazione degli esemplari finiti in rete. A Sant' Elia, storico borgo di pescatori, la polpa rossa si vende ogni giorno sotto banco, quasi come se fosse una scorta di droga. Bisogna trovare lo spacciatore giusto, ma è necessario attendere la giornata ideale, senza vento, perché il maestrale è il primo nemico di chi si deve tuffare e arrivare a parecchi metri di profondità. La vendita avviene in un vecchio garage, saltando il passaggio dei centri di trasformazione. Sul prezzo non c' è margine di trattativa: «Una bottiglietta da mezzo litro di polpa - dice uno dei cinque ragazzi appena rientrati dalla battuta di pesca mattutina - la vendiamo a 80 euro. Lo scorso anno erano 70: il rincaro è stato minimo, se si considera che questo lavoro è diventato impossibile». Le regole per la pesca sono più rigide, ma il problema più grave si nota solo andando in profondità. Il fondale, dicono gli studiosi, è diventato una tabula rasa. Nelle coste della Sardegna il problema sembra diventato molto grave, ma il rischio di estinzione degli echinodermi interessa Puglia, Campania e la parte del Lazio in cui si pratica la raccolta professionale. Nonostante la situazione, le norme ministeriali sono ancora abbastanza permissive e prevedono lo stop alla pesca solo tra maggio e giugno, nei due mesi che coincidono con la riproduzione. Le Regioni hanno poi la possibilità di estendere il periodo di blocco ma non tutte hanno preso decisioni eco-compatibili. In Sardegna negli ultimi 10 anni sono stati raccolti più di 25 milioni di esemplari e gli effetti del grande assalto sembrano più gravi che altrove. Per questo la Regione ha stabilito regole più severe, ma per ambientalisti e studiosi c' è bisogno di una moratoria di almeno 3 anni. Per ora è stata bandita la raccolta per i pescatori sportivi ma nel frattempo nell' isola si ripete la guerra tra i pescatori che possono andare in profondità solo in apnea e quelli che hanno il permesso di usare le bombole e di recuperare più velocemente un numero maggiore di esemplari. Accusata di aver addirittura anticipato la data d' inizio della stagione, l' assessora regionale all' Agricoltura, Gabriella Murgia, punta a un piano di riequilibrio dei fondali: «Il nostro obiettivo è un piano di ripopolamento, c' è bisogno di una programmazione. Bloccare la pesca per pochi mesi non consentirebbe di risolvere il problema ambientale». Nella costa tirrenica della Campania, non lontano da Benevento, l' ultimo sequestro è di pochi giorni fa: più di un quintale di ricci raccolti senza licenza e tre abusivi arrivati dalla Puglia sono stati denunciati dai carabinieri. Per un piatto di ricci c' è chi è disposto a spendere decine di euro e vista la carenza di materia prima si è sviluppato il mercato dell' importazione. Soprattutto da Spagna e Portogallo, dove non esiste limite alla raccolta. I controlli della Guardia costiera sono quotidiani e anche in Sicilia, nella zona di Augusta e a Favignana, i pescatori di frodo sono finiti nella rete della capitaneria. La tentazione della tavola, comunque, sembra più forte dell' allarme lanciato dagli studiosi. Sanzioni e denunce non bastano e allora da qualche settimana è iniziata una campagna social. Appello rivolto ai ristoratori e ai loro clienti: un invito al consumo consapevole che ha convinto molti chef a far sparire l' oro spinoso del Mediterraneo dal loro menù.

Muto come un pesce. Report Rai. PUNTATA DEL 16/12/2019. Di Emanuele Bellano, collaborazione di Greta Orsi. Mari e oceani sempre più sfruttati da pescherecci commerciali e industriali stanno subendo un continuo impoverimento delle riserve ittiche. La pesca illegale intacca sia le aree marine protette destinate al ripopolamento dei mari sia i giovani esemplari di pesci che in questo modo non riescono a riprodursi e a rinfoltire le proprie specie. La conseguenza è che il pesce pescato oggi è in grado di coprire solo una parte della richiesta del mercato. Circa il 50% del pesce che arriva sulle nostre tavole è allevato. La produzione intensiva di pesce in acquacoltura pone però interrogativi e problemi. Gli antibiotici usati su vasta scala, i mangimi costruiti artificialmente con l'aggiunta di additivi sintetici e ad alto contenuto di grasso: tutto alla fine finisce nelle carni del pesce allevato e quindi nei nostri piatti. Per compensare l'enorme richiesta di pesce del mercato europeo, intanto, ogni anno migliaia di tonnellate vengono importate dall'estero. A che costo?

MUTO COME UN PESCE Di Emanuele Bellano Collaborazione Greta Orsi Immagini Davide Fonda – Tommaso Javidi – Paolo Palermo Montaggio Igor Ceselli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si avvicina il Natale, consigli per gli acquisti. Hanno fatto da oltre un decennio il loro ingresso sul mercato gli smartbox, cofanetti che promettono “notti di charme e di relax”, li compri ma finisci poi con finanziare inconsapevolmente il progetto politico di un imprenditore che strizza l’occhiolino a movimenti dell’estrema destra. Questo per dire: occhio alla tracciabilità se non vuoi riservare brutte sorprese. Questo vale per i cofanetti, ma vale anche per il pesce. In tema di trasparenza sono stati fatti importanti passi avanti negli ultimi anni, con l’etichettatura: viene scritto su il nome, il mare di provenienza, se è stato allevato, se è stato pescato in mare aperto, come è stato trattato o conservato. Ma l’etichettatura è sempre sinonimo di sicurezza? A volte è meglio, è più onesto, essere nudi che vestirsi di trasparenze. Questo perché secondo gli ultimi studi della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura, in tema di trasparenza noi italiani siamo i più grandi truffatori al mondo. Ne ha fatto i conti il nostro Emanuele Bellano: è andato a scegliere il pesce per il suo cenone di fine anno e ha dovuto fare lo slalom tra etichette ingannevoli, quelle scolorate quando invece i colori è importante capirli e capire perché quello che doveva essere bianco è diventato grigio, quello che doveva essere rosa è diventato marrone. E non è, ve lo assicuriamo, solo una quesitone cromatica.

PESCATORE 5 euro pure questo.

PESCATORE 1 Tiè la roba seria, tiè… aspè, faje la foto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è pesce fresco, appena sbarcato dai pescherecci in porto. Ma se non puoi andare a comprarlo in banchina, devi fidarti di chi te lo vende. In pescheria o al ristorante. Così a volte succede che ordini la cernia e ti servono persico africano. Oppure compri il merluzzo e in frigorifero ti ritrovi pollock o nasello. Per difendere i consumatori dagli inganni, la legge obbliga le pescherie a esporre etichette dettagliate.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO L’etichetta corretta che dice? Innanzitutto il nome della specie: orate pescate, fao 37, punto 1 punto 3, mar di Sardegna. Quindi noi arriviamo addirittura al mare. Nei crostacei c’è un’aggiunta, per legge, che è la presenza o assenza di solfiti. Perché a bordo dei pescherecci, per evitare che diventi nero il carapace, perché appena viene pescato il gambero, dopo un po’ c’è un meccanismo di macerazione del carapace, del guscio, e si annerisce, e quindi il consumatore lo vede nero. Loro mettono un’aggiunta di solfiti che sono previsti dalla norma, sono consentiti.

EMANUELE BELLANO Devono essere indicati.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Però nell’etichetta lo devi mettere. Perché io posso essere allergico.

EMANUELE BELLANO Quindi infatti qui c’è scritto contiene solfiti.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Contiene solfiti.

EMANUELE BELLANO Anche questi altri.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Anche nei gamberi rosa… contiene solfiti. C’è la zona di pesca, zona fao 37 punto 1 punto 3, Mediterraneo, Mar di Sardegna, reti da traino. Così il consumatore ha l’informazione completa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qualcosa però non torna. Questa è una mappa interattiva che raccoglie le segnalazioni pubblicate in studi accademici sulle frodi del pesce. Più intenso è il colore rosso dei simboli, più importante è la frode. A livello globale l’Italia risulta insieme agli Stati Uniti, il paese dove si verificano più truffe nella vendita di pesce.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Tutti i pesci freschi pescati hanno come caratteristica principale il colore, la brillantezza. Per esempio, guardiamo le ricciole e guardate i colori. È straordinario. Cioè, mantiene la striscia gialla della doratura della ricciola ed è un sinonimo di freschezza. Se noi toccassimo quel pesce non ci sarebbe… la pelle sarebbe tonica, perché ancora in acqua…

EMANUELE BELLANO Cioè, non rimane il segno del dito.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Non rimane il segno del dito.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma com’è il pesce che spesso si trova nelle pescherie e nei mercati rionali?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Vedi? Quelle gallinelle là, nella norma, hanno un rosso brillante; invece vedi che sono grigie, addirittura nere.

EMANUELE BELLANO Ma quelle gallinelle lì sono fresche o scongelate?

PESCIVENDOLO Fresche.

EMANUELE BELLANO Fresche?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Quello sgombro là non è commestibile.

EMANUELE BELLANO E perché non è commestibile?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Perché si vede dai colori. Ora quello addirittura, guarda la testa, quello è proprio pesce vecchio.

EMANUELE BELLANO Perché il colore non è più vivido. Com’è questo pesce spada?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questo pesce spada è proprio vecchio.

EMANUELE BELLANO E da che si vede?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Dal colore della carne. È troppo sul marrone.

EMANUELE BELLANO È marrone.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Dovrebbe essere rosa, rosa pallido. Quello proprio è un pesce che ha almeno dai 10 ai 15 giorni.

EMANUELE BELLANO Qui che abbiamo poi? Vediamo un po’.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO I calamari decongelati che sono ovviamente molto brutti.

EMANUELE BELLANO Questi qua. Cosa hanno di brutto questi calamari?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questi sono robaccia che non sai neanche quando è stata decongelata.

EMANUELE BELLANO Perché?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Perché è proprio l’aspetto, sono proprio i colori. Tipo le ali del mantello: qui le ali del mantello sono già grigie.

EMANUELE BELLANO E dovrebbero essere invece bianche. Quando è stato scongelato questo?

PESCIVENDOLO Lavato adesso. Stamattina.

EMANUELE BELLANO Lavato adesso, ma scongelato quando?

PESCIVENDOLO C’è la fattura c’è.

EMANUELE BELLANO Non me lo dici quando? Un po’ di tempo fa, eh? Dal colore. Perché lui se ne intende, mi ha detto che dovrebbero essere più bianchi. O no?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Anche molte etichette non rispettano la norma e sono incomplete e ingannevoli.

EMANUELE BELLANO Allora, vediamo che c’è scritto. C’è scritto pescato.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Ma non c’è scritto decongelato. La norma dice che tu devi scrivere decongelato o scongelato.

EMANUELE BELLANO Questo qui è pesce fresco oppure scongelato?

PESCIVENDOLO Fresco, fresco fresco.

EMANUELE BELLANO Tutto fresco qui?

PESCIVENDOLO Tutto fresco, sì.

EMANUELE BELLANO Quei gamberi lì? Quei gamberoni lì?

PESCIVENDOLO Congelato.

EMANUELE BELLANO Scongelato quello. Però non c’è scritto sopra.

PESCIVENDOLO Decongelato. Ogni tanto quando pulire va via.

EMANUELE BELLANO Ah, se ne va via. Okay.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Non solo: per questi crostacei non è indicata la presenza di solfiti. Per orate e spigole, invece, manca la provenienza.

EMANUELE BELLANO Questa è fresca ed è allevata.

PESCIVENDOLO Sì, allevata.

EMANUELE BELLANO Da dove viene?

PESCIVENDOLO Questa da Gaeta.

EMANUELE BELLANO Gaeta.

PESCIVENDOLO Questi dalla Grecia.

EMANUELE BELLANO Però non c’è scritto qua.

PESCIVENDOLO Scrivo scrivo. Però vedi, 10 minuti dopo, 15 minuti dopo pulire. Capita!

EMANUELE BELLANO Va via. Vabbé, vabbè.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Altro banco, stessa situazione.

EMANUELE BELLANO Questa qui da dove viene?

PESCIVENDOLO Dall’Africa.

EMANUELE BELLANO Ma è fresco o scongelato?

PESCIVENDOLO Non è fresco.

EMANUELE BELLANO Però qua ce lo dovrebbe scrivere eh! Perché se no io lo compro e poi… penso che è fresco. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Anche lui scrive l'indicazione del congelato solo dopo la nostra segnalazione. Se avessimo comprato quei filetti credendoli freschi, avremmo corso un pericolo.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Magari li metto nel freezer e me li congelo. Quel gesto là è un gesto pericolosissimo. Perché io sto mettendo una cosa dove la catena del freddo è stata interrotta.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui poi manca del tutto l’etichetta.

EMANUELE BELLANO Questo cos’è?

PESCIVENDOLO Baccalà spellato. Queste sono delle alici.

EMANUELE BELLANO Queste alici qui non potrebbero essere tenute così.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Qua ovviamente non c’è niente. Non c’è nome di specie, non c’è niente.

EMANUELE BELLANO Sia su queste alicette che su quei gamberetti qui.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A tutelare i consumatori dovrebbero essere i controlli dei vigili urbani. Li vediamo girare nel supermercato, ma appaiono distratti. Anche di fronte a evidenti violazioni delle più basilari norme igieniche.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Per esempio, guarda, non puoi tenere la roba così.

EMANUELE BELLANO Ah, vedi! Questi che pesci sono?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Sono dei cefali. Una cassetta di roba destinata al consumo umano non può stare a terra.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli italiani, nel 2017 hanno divorato 30 chili di pesce a testa e sono tra i cittadini che mangiano più pesce in Europa. Nell'ultimo decennio il consumo è talmente aumentato che il pescato non è in grado di soddisfare nemmeno una parte della richiesta. Un pesce su due che oggi arriva sulle nostre tavole è allevato. Più della metà di quello prodotto in allevamenti italiani è un pesce di fiume, la trota.

ALLEVATORE Dove le facciamo nascere è un allevamento a parte. Poi quando arrivano a essere di una certa grandezza, 20 grammi, 30 grammi le caricano col camion e si scaricano in testa qua. In cima lì.

EMANUELE BELLANO Quindi man mano che ci avviciniamo qua sono più grandi di taglia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le trote più richieste pesano tra i 400 e i 600 grammi. In Italia se ne vendono circa 20 mila tonnellate all’anno. Per cucinare questo pesce gli italiani nel 2018 hanno speso circa 100 milioni di euro. La pesca nei piccoli laghi o nei torrenti di montagna è ridotta quasi a zero. É stata sostituita dagli allevamenti ad altissima intensità. Le trote sono allevate in vasche di cemento.

EMANUELE BELLANO È incredibile perché il fondo è chiaro però sembra quasi che è scuro perché vedi lo scuro della pelle della trota.

ALLEVATORE Se tu vai a vedere magari quella che sta in una vasca di cemento stretta, comincia a mancare la pinna bianca, la coda; perché sta stretta, un po’ si mangiano tra loro un po’ si sfrega sul cemento.

EMANUELE BELLANO Quando stanno troppo strette.

ALLEVATORE Sì, succede a tutti. A seconda appunto di quante ne tieni nella vasca.

EMANUELE BELLANO Qui ce ne stanno tante. Quante ce ne stanno in una vasca come questa?

ALLEVATORE Ce ne puoi mettere 50 quintali come 130.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ammassate una all’altra si tratta di circa ventimila trote per ogni vasca. La promiscuità rende molto più facile la diffusione di malattie.

ALLEVATORE Gli può prendere, che ne so, la branchiale, oppure la bocca rossa. Certo, una parte te la perdi. Però poi ci stanno dei mangimi medicati. Gli dai, che ne so, una settimana, quindici giorni a seconda di quello che dice il veterinario.

EMANUELE BELLANO Ah, questo è medicato

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il mangime medicato ha questa etichetta. La sulfadiazina è un antibiotico della categoria dei sulfamidici. Nei pesci serve per curare varie malattie batteriche. Viene usato però anche nell’uomo ed è efficace per curare la meningite, la febbre reumatica e la toxoplasmosi. Il Trimetoprim, un altro antibiotico, è un farmaco spesso somministrato nell’uomo per curare le infezioni delle vie urinarie, delle vie respiratorie, l’otite e le gonorree. ALLEVATORE Lo butto qui e se lo mangiano loro.

EMANUELE BELLANO Loro. Quindi siccome è nel mangime tutta la vasca prenderà l’antibiotico o la medicina che gli viene data.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In altre parole quando le prime decine di trote iniziano ad ammalarsi e a morire l’allevatore sostituisce il mangime normale con il medicato a base di antibiotici che viene assorbito non solo dalle decine di pesci malati, ma da tutti i 20 mila pesci presenti.

ANDREA FABRIS - DIRETTORE ASSOCIAZIONE PISCICOLTORI ITALIANI L’utilizzo del farmaco è molto controllato.

EMANUELE BELLANO Però di fatto la somministrazione avviene a tutti gli esemplari presenti nella vasca, anche quelli che non hanno contratto la malattia. Contribuisce al rischio di antibioticoresistenza?

ANDREA FABRIS - DIRETTORE ASSOCIAZIONE PISCICOLTORI ITALIANI Sì ed è proprio per quello che stiamo lavorando sui vaccini e sulla biosicurezza; nello stesso tempo cerco di fare il minimo utilizzo di antibiotico.

EMANUELE BELLANO Ogni quanto tempo vi capita di dover fare questi trattamenti?

ALLEVATORE Un anno non lo fai mai e un anno lo fai sei volte, dipende.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In realtà controllando i registri si vede che la somministrazione è molto più frequente. ALLEVATORE Vedi? Malattia batterica.

EMANUELE BELLANO Cioè, dal 6 di settembre al 12 di settembre. Poi quest’altro dal 15 settembre al 20 settembre. ALLEVATORE Questa può essere la stessa vasca perché non gli è bastata oppure un’altra vasca perché gli ha preso la settimana dopo.

EMANUELE BELLANO Questo è il 15 maggio. L’1 luglio, il 6 luglio. Il 21 luglio, il 3 agosto, il 21 settembre, il 21 ottobre, il 14 gennaio, poi passiamo al 2018. Nel 2015 tutto ottobre, insomma. Una somministrazione il 16, una il 25, una il 16 novembre, il 25 novembre, il 14 dicembre e così via, sempre per malattia batterica. Quindi questi saranno antibiotici.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma qual è il rischio connesso all’uso di massa degli antibiotici? Più organismi entrano in contatto con i farmaci antibiotici e più si sviluppa la farmacoresistenza. I principi attivi somministrati ai pesci sono gli stessi che vengono usati per curare le malattie dell’uomo. Ogni volta che un batterio, responsabile di una malattia, entra in contatto con un antibiotico tende a mutare e a diventare immune a quel farmaco. Quando somministriamo antibiotici ai pesci creiamo i presupposti per cui i batteri che li hanno attaccati, possono mutare e diventare resistenti a quella medicina. La resistenza acquisita si trasmette geneticamente ai batteri discendenti e trasversalmente ai batteri che entrano in contatto con i resistenti. Quando un batterio resistente attacca l’uomo, l’antibiotico, che prima era efficace, a quel punto è privo di effetti. Più volte usiamo antibiotici in gran quantità e più probabilità ci sono che i farmaci diventino inutili per curare le malattie.

EMANUELE BELLANO E oggi che farete?

ALLEVATORE PIOMBINO Oggi peschiamo. È una pesca grossa, sono 28 tini.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è un allevamento di pesci in mare.

ALLEVATORE PIOMBINO Buongiorno.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La giornata inizia prima dell’alba. Le gabbie con i pesci sono a tre miglia dalla costa. ALLEVATORE PIOMBINO Questo è il promontorio di piombino, quella è l’isola d’Elba. Quattro chilometri per quattro dove c’è tutti gli allevamenti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con 4 milioni di pesci ogni anno il golfo di Follonica, in Toscana, è l’area dove si concentra la più grande produzione di pesci allevati in mare d’Italia. Qui si allevano orate e spigole.

EMANUELE BELLANO Queste sono orate?

ALLEVATORE PIOMBINO Sì, sono orate.

EMANUELE BELLANO Qual è il limite?

ALLEVATORE PIOMBINO Per una gabbia così se tu le peschi abbastanza presto a 200/220 mila ci puoi arrivare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Fino a duecentoventimila esemplari nella stessa gabbia. Per orate e spigole l’impatto delle malattie e il rischio di epidemia è maggiore addirittura che per le trote.

ALLEVATORE PIOMBINO Noi abbiamo avuto una gabbia dove abbiamo perso su 170 mila 80 mila pesci. Dipende da che tipo di malattia abbiamo. Se è impattante nel momento dove c’è l’acqua calda, parte, parte 1500/2000 pesci al giorno che muoiono.

EMANUELE BELLANO E quindi in quel caso che fai? Devi intervenire con gli antibiotici?

ALLEVATORE PIOMBINO Eh, quando c’hai.. sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E quando allevamenti come questo comprano gli antibiotici le quantità sono impressionanti.

ALLEVATORE PIOMBINO 2 Documento di trasporto del mangime medicato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Soltanto questo lotto 3.000 chili.

ALLEVATORE PIOMBINO 2 L’antibiotico è frutto del progresso, non ce lo dimentichiamo. Che si vuole negare l’utilizzo di qualcosa che è frutto del progresso mi sembra una cosa ridicola.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Loro sono tra gli allevamenti più importanti in Italia e vendono orate e spigole alla grande distribuzione. Ogni settimana forniscono decine di quintali al circuito Coop dove campeggia il marchio antibiotic-free. DIPENDENTE PESCHIERA COOP Questa è l’orata coop signore e queste sono le spigole coop. Non usiamo antibiotici negli ultimi sei mesi di pescata.

EMANUELE BELLANO Tutte senza uso di antibiotici?

DIPENDENTE PESCHIERA COOP Bravissimo. Mare aperto, allevati nel tratto di mare circoscritti.

EMANUELE BELLANO Cioè pesci a cui non sono stati somministrati antibiotici negli ultimi sei mesi di vita.

ALLEVATORE PIOMBINO È una cosa di marketing, si riempiono la bocca di tanti bei propositi. L’antibiotic-free. Però poi alla fine vince il fatturato, nel senso che è un’industria come un’altra.

EMANUELE BELLANO Perché dici?

ALLEVATORE PIOMBINO Perché c’è un discorso di prezzo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le orate e le spigole con il marchio antibiotic-free nei supermercati Coop si contano sulle dita della mano. Tutto il resto sono pesci di importazione.

EMANUELE BELLANO Grecia, anche questo viene dalla Grecia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Negli ultimi cinquant’anni abbiamo raddoppiato il consumo di pesce. I mari non sono in grado di soddisfare la nostra richiesta e la ricaduta è questa: allevamenti intensivi, e per non rimetterci, usano migliaia di chili di antibiotici. Nel 2018 i ricercatori dell’Università Coimbra, in Portogallo, hanno documentato il passaggio dei batteri resistenti agli antibiotici dai pesci allevati agli animali di terra, all’uomo e viceversa. In questo scambio avrebbero avuto un ruolo fondamentale l’alimentazione e l’acqua. Poi nel 2016 già i ricercatori dei Ministeri della Salute del Vietnam e del Giappone che hanno collaborato in una ricerca e hanno analizzato un campione di gamberetti che arrivano anche sulle nostre tavole e sul 30% hanno trovato la presenza di batteri resistenti agli antibiotici per cui le cure sono limitate o addirittura del tutto assenti. E siamo di fronte a una emergenza planetaria. Secondo gli ultimi dati dell’Oms, ci sono ogni anno circa 700mila vittime dovute appunto ai batteri resistenti agli antibiotici. In Europa 33mila vittime, oltre 10mila solo in Italia. Siamo leader in Europa di questo triste primato. Tanto che il nostro Governo aveva anche meno in piedi un piano per contrastare il fenomeno, ma non è ancora entrato in regime. Doveva occuparsi dell’uso degli antibiotici sugli uomini che sugli animali. Anche la Commissione Europea ha chiesto di monitorare i batteri resistenti agli antibiotici, ma solo sugli allevamenti degli animali a terra: sui bovini, sui suini e sui polli. Non sui pesci, sugli allevamenti dei pesci. È un paradosso perché quello dell’allevamento sarà la nostra fonte di approvvigionamento ittico del futuro. Noi quale precauzione abbiamo preso? L’unica è stata quella di trasferire gli errori che abbiamo commesso in passato su di noi, sul cibo che mangiamo. Fantastico. Non solo li abbiamo riempiti di antibiotici, ma anche di grassi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A meno di 200 chilometri dalle coste italiane, la spiaggia greca di Igumenitsa è uno dei luoghi con la più alta densità di pesci allevati. La acquaculture presenti qui fanno sì che la Grecia sia il primo produttore al mondo di spigole e orate.

ALLEVATORE 20 allevamenti tutti in quest'area.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Oltre la metà del pesce allevato qui, è destinato ai mercati esteri.

ALLEVATORE In mezzora il pesce dalle gabbie arriva qui. Lo puliamo, lo impacchettiamo in scatole come queste e lo spediamo. Questo è per l’Italia.

EMANUELE BELLANO A quanto vendete spigole e orate al mercato italiano?

ALLEVATORE Circa 4 euro al chilo. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Così il pesce greco può essere venduto nei supermercati italiani tra i 6 i 9 euro al chilo. Quasi la metà di quello allevato in Italia che oscilla tra i 10 e 15 euro. Ma come fanno gli allevatori greci ad avere prezzi così competitivi?

ALLEVATORE GRECO Qui le gabbie sono a ridosso della spiaggia, se fossero al largo avresti più corrente e una maggiore ossigenazione dei pesci. Ma sarebbe più difficile e costoso. Le gabbie sarebbe più esposte alle condizioni del meteo e del mare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per spostarsi da una gabbia all’altra è sufficiente una piccola chiatta. Non servono grandi barche a motore e i consumi di benzina sono ridotti al minimo. Il personale non deve essere particolarmente specializzato e può essere pagato meno. Costruire un impianto di questo tipo è anche molto più economico rispetto a uno in mare aperto.

EMANUELE BELLANO Quanto costa una gabbia come questa?

ALLEVATORE Sui venti mila euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma c’è una cosa su tutte che influisce sul prezzo del pesce: il tempo che impiega a diventare grande abbastanza da poter essere venduto.

ALLEVATORE Il pesce aumenta di peso in base alla quantità di mangime che gli diamo, ma anche alle caratteristiche del mangime. Se vuoi far crescere più rapidamente il pesce, allora devi mettere molti FCA nel mangime.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO FCA sta per Functional Compounds Additives, cioè l’insieme di additivi chimici e nutrizionali che si aggiungono al mangime per far ingrassare prima il pesce. In natura l'orata per raggiungere la taglia dei 400 grammi impiega circa due anni e mezzo. Le acquacolture più intensive che usano mangimi più spinti con maggiori additivi riescono praticamente a dimezzare questo tempo di accrescimento facendo sì che il pesce raggiunga quella taglia in 14 mesi. Il risultato è un pesce meno costoso, ma che al suo interno si presenta così.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questa è un’orata greca.

EMANUELE BELLANO Questo è tutto grasso

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Tutto grasso.

EMANUELE BELLANO Cioè, tutto questo coso morbido qui è grasso.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Sì, è grasso. Questa qua è quella italiana pescata. La prima cosa che osserviamo, la totale assenza di qualsiasi formazione o struttura di grasso. La totale assenza. Questa è un’orata allevata in Italia.

EMANUELE BELLANO Qui qual è il grasso? Vediamolo un po’, tiriamolo fuori.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questo qua è un po’ grasso.

EMANUELE BELLANO Questo è grasso…. Però meno, insomma, rispetto a quell’altra.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Assolutamente.

EMANUELE BELLANO Quello che però si vede in maniera evidente è la differenza tra il pescato, il pesce selvatico e quello allevato. Perché l’orata allevata ha tutto questo grasso?

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Essenzialmente il problema è legato alla qualità del mangime.

EMANUELE BELLANO Il mangime che viene utilizzato nell’acquacoltura ha... è grasso?

CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI Certo. Sicuramente è maggiore la quantità di grasso che l’animale assume nell’allevato rispetto al pescato perché lo alimentiamo due volte al giorno. Poi una quantità di questa energia non è consumata quindi la accumula.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è un mangime d’acquacoltura largamente utilizzato sia in Grecia che in Italia. La quota di grassi è pari al 16 per cento. In quest’altro mangime, destinato alle trote, i grassi salgono addirittura al 30 per cento cioè un terzo del suo intero apporto nutrizionale.

EMANUELE BELLANO Una spigola o un’orata che vive in natura, che cosa mangia?

CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI Mangia pesce, sono pesci carnivori.

EMANUELE BELLANO Quanta farina di pesce è necessaria affinché un’orata, una spigola o una trota ingrassino di un chilo?

CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II – NAPOLI Mi servono attualmente due chili, due chili e mezzo di pescato per arrivare a un chilo.

EMANUELE BELLANO Quindi questa cosa evidentemente.

CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI È insostenibile.

EMANUELE BELLANO È insostenibile.

CARMELA BARONE - PROFESSORESSA ACQUACOLTURA UNIVERSITÀ FEDERICO II - NAPOLI Certo. Un pesce allevato verrebbe a costare troppo. E anche la produzione poi del mangime, comincerebbe a diventare problematica perché il pescato comincia a diminuire man mano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Talmente insostenibile che la farina di pesce in buona parte è sostituita da ingredienti più economici: farina di soia, di girasole, frumento e scarti degli allevamenti intensivi: come piume di pollo tritate, sangue di maiale, proteine animali trasformate. Per conservare tutto al mangime vengono aggiunti antiossidanti.

ANTONIO DI FRANCIA – PROFESSORE DI ALIMENTAZIONE ANIMALE UNIV. FEDERICO II - NAPOLI Bha e Bht che sono i due tipi di antiossidanti che molto spesso vengono utilizzati sia nei mangimi e in realtà fino a qualche anno fa venivano utilizzati anche in alimentazione umana.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Si trovavano nelle patatine fritte, nei biscotti, nelle merendine cioè in tutti quei cibi molto grassi e a lunga conservazione.

ANTONIO DI FRANCIA – PROFESSORE DI ALIMENTAZIONE ANIMALE UNIV. FEDERICO II - NAPOLI Nell’infanzia sono assolutamente vietati.

EMANUELE BELLANO Come mai questo?

ANTONIO DI FRANCIA – PROFESSORE DI ALIMENTAZIONE ANIMALE UNIV. FEDERICO II - NAPOLI Questo perché si è visto che si possono creare problemi al corredo genetico.

EMANUELE BELLANO Come mai invece le aziende che producono mangime non hanno eliminato questi antiossidanti BHA, BHT dai mangimi dei pesci?

ANDREA FABRIS - DIRETTORE ASSOCIAZIONE PISCICOLTORI ITALIANI Si sta ricercando la cosa e ovviamente la ricerca è importante. Ci sono dei limiti legati alla tipologia di prodotto e di materia prima, ma non è che dall’oggi al domani si riesce a sostituire completamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Li abbiamo buttati fuori dalla porta sono rientrati dalla finestra. Si tratta degli antiossidanti, BHT e BHA, si sono rivelati tossici sul dna dei ratti, lì sono stati studiati. Le autorità hanno limitato l’uso negli alimenti, ma ne hanno anche vietato l’uso per gli alimenti dell’infanzia. Tanto è vero che la Nestlè, l’Unilever, la Ferrero li hanno sostituti con degli antiossidanti naturali, il rosmarino nelle patatine hanno messo. Il paradosso qual è? Che noi abbiamo evitato che queste sostanze chimiche venissero mangiate dai nostri figli attraverso patatine e merendine e poi gli le abbiamo fatte mangiare attraverso i pesci d’allevamento. E poi è stato dimostrato scientificamente che queste sostanze trasmigrano dal mangime alla carne del pesce. L’ha dimostrato uno studio norvegese, si chiama trasmigrazione feed to filet. È una follia perché consentiamo che spigole, orate e trote vengano alimentate con mangimi vegetali e anche qui lo studio norvegese ha dimostrato la trasmigrazione di pesticidi nella carne e poi per far crescere più in fretta il pesce che cosa facciamo, lo riempiamo di additivi e anche di grasso, dal 16 al 30%. Tutto questo per farlo crescere più in fretta. Perché se si volesse farlo crescere come madre natura richiede, cioè i pesci sono carnivori, per farli crescere di un solo kg, bisognerebbe tirare su 2,6 kg di pesce pescato. È insostenibile dal punto di vista economico, per questo si vira sul prezzo più conveniente. Solo che poi a compensare, ne paghi un altro di prezzo, in un’altra parte del mondo.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Questo qua vedi, per esempio, questo qua è il è il Vannamai, no? Il famoso gambero che viene allevato nel Sudest asiatico.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Vietnam e Indonesia soprattutto. Cresce in enormi vasche a terra poco profonde. Migliaia di esemplari vengono raccolti ogni giorno e spediti in Europa dove il consumo di gamberi aumenta ogni anno del 4 per cento. Dalla Norvegia arriva prevalentemente il salmone e dall’Atlantico il merluzzo. Sempre di più ormai già puliti e spellati in forma di comodi filetti.

SILVIO GRECO – BIOLOGO MARINO Il tema però qual è del filetto? Chi ce lo dice che questo qua è veramente questo? Non c’è nessun sistema. Quando tu hai un pesce spellato questo può essere tutto, solo il dna potrebbe dirci qual è la specie. Io posso prendere una lenguata senegalese, spellarla, come forma è la sogliola e dico filetto di sogliola, a 28 euro, mentre la lenguata senegalese va a 2 euro e 40, 3 euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le sostituzioni di specie gli esperti della stazione zoologica Anton Dohrn le hanno trovate anche nelle mense scolastiche.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN NAPOLI Basta andare a volte nelle mensa dei bambini alle elementari e scoprire che, nella mensa è previsto, cioè c’è orata e branzino, e poi nel piatto si può trovare pangasio o pesce persico africano che da un lato hanno un valore nutrizionale e una qualità inferiore ovviamente all’orata e dall’altro in alcuni casi possono essere contaminati.

EMANUELE BELLANO Lei ha del filetto di pesce persico?

ADDETTA PESCHERIA COOP Sì, qui a inizio banco.

EMANUELE BELLANO Da dove viene questo?

ADDETTA PESCHERIA COOP Lago Vittoria…

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tutto il pesce persico in vendita nelle nostre pescherie e nei supermercati arriva dal Lago Vittoria, nella regione Africana dei grandi laghi, tra Kenya, Uganda e Tanzania. È pescato con piccole imbarcazioni di legno spinte a motori o a remi.

GUIDA Vedi? Hanno pescato del pesce persico.

EMANUELE BELLANO Come è andata la pesca oggi?

PESCATORE Abbondante.

EMANUELE BELLANO Dove li andrete a vendere?

PESCATORE Al mercato di Igombe, qui vicino.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sono le sette di mattina e le imbarcazioni di pescatori sul versante tanzaniano del lago Vittoria ritirano a bordo le reti che hanno depositato in acqua la sera prima. Durante il giorno c’è chi continua a pescare.

PESCATORE Catturare il pesce persico non è facile. Bisogna lasciare le reti in acqua per almeno 5 ore.

EMANUELE BELLANO A quanto vendete un chilo di pesce persico?

PESCATORE A 3.400 scellini.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Cioè un euro e 18 centesimi. Come loro ogni giorno si muovono nel bacino del lago Vittoria 37 mila imbarcazioni con circa centomila pescatori. Ogni anno pescano 250 mila tonnellate di persico; nei nostri supermercati è uno dei pesci più economici, circa 10 euro al kg nonostante sia un pesce pescato e non allevato e che percorra 5 mila chilometri per arrivare in Europa. Il fattore chiave di un prezzo così basso è il costo della manodopera.

JOHN DEMAI - SEGRETARIO FUO - FISHERY UNION ORGANIZATION MWANZA TANZANIA Le barche arrivano qui, loro scaricano il pesce, lo trasferiscono su questi camion e poi lo trasportato negli stabilimenti delle industrie di lavorazione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'unico modo per vendere il pesce è portarlo nelle Beach Management Unit. Sono dei punti di raccolta lungo la spiaggia come questo e sono gestiti dalle principali industrie di lavorazione del persico. Proviamo a chiedere come viene conservato il pesce prima di arrivare nelle fabbriche.

REFERENTE BEACH MANAGEMENT UNIT C'è un problema, per rispondervi mi serve l'autorizzazione dell'ufficio centrale. EMANUELE BELLANO Ci può spiegare almeno come funziona questo impianto?

REFERENTE BEACH MANAGEMENT UNIT Portatemi l'autorizzazione e ne parliamo. Per ora arrivederci.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel centro di raccolta di Igombe ci sono i cartelli della VicFish Limited. È la più grande industria di lavorazione e di esportazione di pesce persico attiva in Tanzania. La sede si trova sul lago Victoria. Per raggiungerla bisogna percorrere un dedalo di strade sterrate alla periferia di Mwanza. L'ingresso è protetto da un muro con filo spinato e un cancello di ferro. GUIDA Buongiorno, vorremmo chiedere se è possibile entrare e visitare l'impianto per vedere come avviene la lavorazione del pesce? GUARDIA GIURATA Aspettate qui.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In fondo si vede parte della struttura dove i persici vengono puliti, sfilettati e preparati per essere spediti in Europa. All'interno dovrebbero essere garantiti gli standard d'igiene europei e un corretto trattamento del pesce con temperature adeguate.

RISORSE UMANE – VICFISH L’unica persona che può autorizzarvi e che può rispondere alle vostre domande ora è in India.

EMANUELE BELLANO Quando prevede che tornerà?

RISORSE UMANE – VICFISH Davvero non saprei, forse a dicembre; perché è partito da poco per una vacanza e può stare via per uno o due mesi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I camion pieni di filetti escono dallo stabilimento diretti in Europa. Non resta che fidarsi della grande distribuzione, come Coop che sul suo sito garantisce di "presidiare non solo la fase di pesca, ma anche quella di trasformazione del prodotto e di monitorare i rapporti tra i pescatori e le aziende di lavorazione", garantendo la sostenibilità dell'intera filiera.

EMANUELE BELLANO Crede che sia etica la catena produttiva del pesce persico?

DONALD KASONGI - DIRETTORE ESECUTIVO “GOVERNANCE LINKS” No, non è affatto etica. Credo che l’industria del pesce abbia cercato un luogo dove produrre una grande quantità di pesce a basso costo e la loro scelta è caduta sul lago Vittoria.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'area del Lago Vittoria è costellata di miniere d'oro. Enormi buchi nella terra, profondi centinaia di metri che rendono miliardi di dollari ogni anno, sfruttati da compagnie minerarie nordamericane ed europee. Questa è la strada che porta alla miniera d'oro di North Mara al confine tra Kenya e Tanzania. EMANUELE BELLANO Di chi è la miniera?

GUIDA Dei canadesi di Acacia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Acacia Mining è la società del gruppo canadese Barrick Gold, proprietaria della miniera d'oro di North Mara che ogni anno produce tra i 500 e i 700 milioni di dollari in oro.

GUIDA Eppure le persone che vivono qui sono estremamente povere. La miniera è lì, guarda.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il perimetro è circondato da un muro di cemento sorvegliato da guardie armate.

GUIDA Da qui in poi è meglio mettere da parte la telecamera e fare riprese solo con il telefono.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La polizia tanzaniana e le guardie private che sorvegliano la miniera non gradiscono interferenze da parte di associazioni non governative e giornalisti. L’unico modo per riprendere è usare una telecamera nascosta. Nyamongo è il villaggio adiacente agli impianti minerari. Qui incontriamo alcuni ex minatori e il capo della comunità.

EX MINATORE Molte terre sono state occupate dalla grande miniera della Barrick.

EMANUELE BELLANO Hanno pagato le terre che hanno preso?

EX MINATORE Poco, molto poco. Quando gli abitanti del villaggio entrano nei confini della miniera i soldati sparano. Negli ultimi anni più di 300 persone sono morte colpite dalla polizia e dalle guardie minerarie.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo video mostra l’invasione della miniera da parte degli abitanti dei villaggi vicini. In sottofondo si sentono gli spari della polizia e delle guardie e un soldato che grida di smettere di sparare contro la folla. Durante una di queste proteste alcuni abitanti sono stati uccisi dalle guardie armate. Nel 2015 la Barrick Gold ha firmato con i parenti delle vittime un accordo di risarcimento per le morti avvenute.

EMANUELE BELLANO Qual è la situazione invece riguardo all’inquinamento?

EX MINATORE È molto pesante. Quando la gente usa l’acqua per lavarsi ha irritazioni alla pelle. Le mucche e le capre bevono quest’acqua e muoiono. Ecco questo è il bacino di scarico della miniera.

EMANUELE BELLANO É enorme.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il bacino è talmente grande da sembrare un lago artificiale.

EMANUELE BELLANO Di che tipo di acque si tratta?

GUIDA Rifiuti, sostanze chimiche. Questo è il punto più critico. L’acqua che fuoriesce dal bacino passa qui e finisce nel fiume Mara. Il nostro governo è intervenuto e per un periodo ha fermato le attività qui.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Barrick Gold si è impegnata a gestire le infiltrazioni di acqua contaminata attraverso l’uso di pompe e la costruzione di altre strutture di contenimento.

EMANUELE BELLANO Che tipo di sostanze contaminanti ci sono nelle acque?

EX MINATORE Le più pericolose sono cianuro e boro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli studi condotti sulle acque e sul suolo hanno mostrato una situazione devastante. Nel 2009 una ricerca dell’Università Norvegese di Scienze ha riscontrato la presenza nel fiume Mara di sostanze tossiche come Cianuro, Mercurio e altri metalli pesanti, con valori anche 140 volte superiori ai limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della Sanità per l’acqua potabile. Poche decine di chilometri più giù le acque del fiume Mara sfociano nel lago Vittoria insieme alle sostanze contaminanti ricevute dalla miniera di North Mara. Intorno al lago, sorgono altre 12 miniere d’oro le cui sostanze tossiche contribuiscono a inquinare l’habitat del pesce persico africano.

DONALD KASONGI - DIRETTORE ESECUTIVO “GOVERNANCE LINKS” La concentrazione di sostanze tossiche è altissima. Oltre alle attività industriali, anche le attività dell’uomo contribuiscono a inquinare le acque del lago Vittoria.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Solo la città di Mwanza conta 3 milioni di abitanti. Che vivono senza una vera rete fognaria, disperdendo nel lago le acque reflue. In porto ci sono decine di attività industriali e un deposito di carburante con cisterne affacciate sull’acqua. Ma una delle attività che contribuisce di più a inquinare il lago è l’agricoltura. Per chilometri e chilometri le sponde sono circondate da campi coltivati. In questo caso si tratta di angurie.

EMANUELE BELLANO In totale quanti cicli di pesticidi e fertilizzanti fate?

AGRICOLTORE Dal seme alla raccolta ci vogliono 75 giorni. In questo periodo usiamo moltissimo i pesticidi, arriviamo anche a dieci trattamenti.

EMANUELE BELLANO Questo è un metodo comune qui di coltivare la terra?

AGRICOLTORE Sì, tutti qui fanno così.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le sostanze chimiche mese dopo mese defluiscono in acqua e si disperdono nel lago. A poca distanza da dove per esempio questo allevatore ha costruito le gabbie per i suoi pesci. Ma c’è ancora una pratica inquietante che contribuisce a inquinare l’acqua.

ELPIDIUS MPANJU - ALLEVATORE É un metodo di pesca illegale: è la pesca col veleno. I pescatori spruzzano il veleno nel lago, i pesci muoiono e poi loro passano a raccoglierli. A volte se vieni qui la mattina presto vedi tantissimi pesci che galleggiano in acqua, tutti morti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Poiché è questo il contesto ambientale in cui nuota, si nutre e si riproduce il pesce persico africano prima di finire nelle nostre cucine, è importante conoscere qual è la qualità delle acque del Victoria. Le uniche informazioni le ha il Nemc, un ente di Governo.

RESPONSABILE NEMC UFFICIO DI MWANZA Prima di dare qualsiasi informazione dobbiamo sapere per quale scopo vengono chieste. Il Governo vuole essere certo che vadano nelle mani delle persone giuste.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sollevando il drone e guardando il lago dall’alto lo scenario però è inquietante: a perdita d’occhio su tutta la grandezza del lago si estendono a pochi metri l’una dall’altra delle striature biancastre. Quando ci si avvicina con la telecamera si vede che sono macchie di schiuma che galleggiano sulla superficie dell’acqua e attraversano il lago per chilometri.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È questa la risposta del sistema capitalistico: i mari non sono più in grado di soddisfare la nostra richiesta di pesce e allora scelgono un altro luogo. Poco importa se è un lago inquinato, tra i più inquinati al mondo, purché si peschi a basso costo. E si risparmia su cosa? Sulla tutela della salute, sulla tutela dell’ambiente, sullo sfruttamento dei lavoratori. E poi il governo tanzaniano evidentemente non ha giudicato le nostre le mani giuste a cui affidare le analisi della qualità del lago Vittoria. Così abbiamo pensato bene di chiedere alla grande distribuzione, visto che poi il pesce persico da là viene e finisce sulle nostre tavole. Cosa abbiamo chiesto? Se la filiera rispetta tutte le normative europee in termini di vista sanitario, che è quello della catena del freddo. Se la filiera è etica e sostenibile, parliamo soprattutto di condizioni di vita, ambientale, quella del lavoro dei pescatori. Questo è quello che ci hanno risposto.

COOP “Non riusciamo a rispondere alla vs richiesta. Grazie comunque per la vs attenzione”.

ESSELUNGA “Vi ringraziamo, ma per policy aziendale, non possiamo procedere con la richiesta da voi formulata.” Gruppo PAM “Vi ringraziamo per la proposta di coinvolgimento, a cui non riusciamo, purtroppo, a dar seguito nei prossimi giorni.” Si vede che hanno un po’ da fare.

AUCHAN “La nostra società è impegnata nel processo di integrazione della nostra rete nella nuova realtà di cui siamo entrati a far parte da qualche mese. Non abbiamo, la possibilità di accogliere la vostra richiesta.” Gli unici che non hanno risposto, nonostante abbiamo più volte sollecitato, sono quelli di

CONAD. Insomma non hanno tempo da dedicare al mistero del pesce persico, quando invece sarebbe importante chiarire, visto il contesto in cui viene pescato. Anche perché è uno dei pesci che più si presta alla sostituzione di specie. Basta sfilargli la pelle, lo puoi presentare, servire a tavola come fosse un’orata o una spigola. Anche sulle tavole delle mense scolastiche. Ecco, sarebbe importante saperlo dicevamo perché in base agli studi della Fao e quelli del “Journal of Toxicology and Environmental Health" emergerebbe che il pesce persico proveniente dal lago Vittoria è uno dei pesci più contaminati, più facilmente contaminatili da sostanze come il mercurio e il DDT, ben oltre la soglia fissata dall’Oms. Ecco questo è il risultato perché i mari, come abbiamo detto, non sono più in grado di soddisfare la nostra richiesta. Il Mar Mediterraneo è uno di quelli più sfruttati e per questo i pescatori vanno a pescare laddove non dovrebbero. Però fate attenzione perché adesso c’è un occhio che vigila costantemente su di voi.

STEFANO SALLUSTIO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA Vede quella, quella macchina? Controlliamo che tipo di attività sta facendo, perché sta lì in una zona dove non deve stare. Subito con le foto. Hai ripreso la targa? Okay, posizione presa, magari hanno visto le nostre imbarcazioni e per liberarsi del pescato lo lasciano a terra e poi loro si rimettono a fare la pesca regolare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Limitazioni sulle quote di pesce che ogni imbarcazione può pescare, sul tipo di reti da impiegare, divieto di pescare pesci sotto una certa taglia e perfino aree di ripopolamento dove la pesca è vietata del tutto.

NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Il Mediterraneo è il mare più sfruttato al mondo. Cioè, l’80 per cento delle specie di pesci sono pescate più del dovuto e sul lungo termine rischiano l’estinzione. Ci sono troppe barche da pesca. Gli strumenti che usano sono troppo dannosi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui siamo al largo delle coste del Lazio e le imbarcazioni della Guardia di Finanza stanno svolgendo dei controlli per assicurarsi che i pescherecci non entrino in aree protette e che usino reti dalle maglie sufficientemente ampie.

STEFANO SOGLIUZZO - CAPITANO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA Loro stanno facendo a strascico. Se vedete, sulla poppa dell’imbarcazione ci sono due cavi perché stanno praticamente tirando la rete.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La pesca a strascico è autorizzata solo oltre le tre miglia dalla costa e usando reti le cui maglie siano almeno di 40 millimetri.

EMANUELE BELLANO Qual è il problema di usare delle maglie più piccole?

STEFANO SOGLIUZZO - CAPITANO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA Dà la possibilità di pescare pesci di piccola taglia e quindi questo danneggia la fauna ittica.

GUARDIA DI FINANZA Buongiorno, stiamo sottoponendo a controllo un motopesca. Ricevuto

STEFANO SOGLIUZZO - CAPITANO – REPARTO OPERATIVO AERONAVALE GDF CIVITAVECCHIA È stata riscontrata la presenza a bordo di un attrezzo da pesca vietato. Le dimensioni della maglia di questo sacco erano inferiori a quanto previsto dalla normativa.

PESCATORE È una rete che ho preso…

GUARDIA DI FINANZA L’altro sacco. Perché a me uno me ne interessa.

PESCATORE Sì sì. Perché loro dicono sequestro tutto, io uno

GUARDIA DI FINANZA No, sequestriamo quello là dietro. Non lo potete tenere a bordo. É un attrezzo vietato.

LUIGI GIANNINI – FEDERPESCA Le flotte europee sono sempre state e sono tuttora sottoposte a un sistema di controllo rigorosissimo, probabilmente il più rigoroso e il più avanzato al mondo. Un controllo in mare del quale i nostri pescatori si lamentano fortemente per le sanzioni che vengono applicate. Ecco, l’ultima cosa che mi sentirei di dire è che l’Italia, concorra alla pesca illegale in modo significativo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quante sono le violazioni commesse ogni giorno nel Mediterraneo? I tecnici di Oceana, una organizzazione il cui scopo è tutelare mari e oceani, hanno elaborato un sistema per stimarle.

NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Si chiama Global Fishing Watch che riporta su una mappa i segnali satellitari che emettono tutti i pescherecci. Attraverso la traiettoria possiamo calcolare dove un peschereccio sta pescando e per quanto tempo. Poi incrociamo questi dati con le aree geografiche chiuse alla pesca, quello che abbiamo trovato è pazzesco, un numero incredibile di ore di pesca illegale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questa area di fronte Trapani, in Sicilia, grande poche centinaia di chilometri quadrati e totalmente chiusa alla pesca, ogni giorno, per tutto l’anno sessanta pescherecci entrano per pescare illegalmente.

NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Parliamo di 28 mila ore di pesca illegale in un anno. Se zoommiamo possiamo vedere le barche. Questo peschereccio per esempio a febbraio stava pescando lì dentro.

EMANUELE BELLANO Quindi in queste due settimane questa barca ha pescato ogni giorno nella zona protetta?

NICOLAS FOURNIER – POLICY AND ADVOCACY MANAGER ONG “OCEANA” Sì, ogni giorno. In Italia avete le zone di tutela biologica, le aree marine protette, ma il rispetto di questi divieti è davvero basso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La pesca illegale finisce con il diventare complice del grande inganno. E su questo siamo i più bravi al mondo, almeno secondo uno studio recente della Fao. La contraffazione delle etichette per chi va a comprare pesce nei ristoranti e nei negozi può arrivare a toccare delle punte del 22,5% cioè significa che circa un’etichetta su quattro inganna. Compri o pensi di mangiare una cosa e ne mangi invece un’altra.

·        La pesca che, con la plastica, uccide il Mediterraneo.

La pesca che, con la plastica, uccide il Mediterraneo. Le Iene il 16 novembre 2019. Luigi Pelazza ci racconta un metodo illegale di pesca, molto diffuso nel Mediterraneo, dove il 62% dell’habitat rischia di non riprodursi più, come spiega l’allarme dell’Onu. Il dato dell’Onu è allarmante: il Mediterraneo è “il mare più sovrasfruttato al mondo”. Se nel resto del pianeta il 33% della vita marina rischia di non potersi più riprodurre, nel Mediterraneo questo numero arriva addirittura al 62%. Luigi Pelazza ci mostra un metodo molto popolare di pesca, ma estremamente pericoloso, basato su accrocchi creati per attrarre molti pesci in una zona limitata di mare: i cosiddetti f.a.d. illegali. Il sistema è ingegnoso: un filo di plastica ancorato in fondo al mare tiene in superficie delle foglie di palma, per creare l’ombra sotto la quale si radunerà, attirata anche da microorganismi posizionati allo scopo, una gran quantità di pesci. Nel momento della massima concentrazione dei pesci arrivano i pescatori che con le loro reti a circuizione tirano su tutto ciò che c'è dentro. Quello che resta degli oltre 1,5 milioni di f.a.d. presenti nel Mediterraneo è una quantità impressionante di plastica, che da trappola per i pesci diventa trappola per tutto l’ecosistema marino, per decine di anni. Luigi Pelazza, che con i volontari dell’organizzazione ambientalista Sea Shepherd ci porta alla scoperta di questo dannosissimo metodo di pesca. 

F.a.d., la pesca illegale che uccide il Mediterraneo. Le Iene il 18 novembre 2019. Luigi Pelazza, con l’equipaggio della sezione italiana di Sea Shepherd, ci mostra un metodo di pesca molto diffuso nel Mediterraneo che ogni giorno riversa in mare tonnellate di plastica e uccide pesci ed ecosistema marino. Luigi Pelazza ci racconta un metodo di pesca illegale e pericoloso, molto diffuso nel Mar Mediterraneo. Parliamo dei cosiddetti f.a.d. illegali, ovvero accrocchi creati per attrarre molti pesci in una zona limitata di mare, che inquinano l’habitat marino con tonnellate di plastica. Tutto questo accade nel Mediterraneo che, dice l’Onu, è “il mare più sovrasfruttato al mondo”.  Se nel resto del pianeta infatti il 33% della vita marina rischia di non potersi più riprodurre, nel Mediterraneo questo numero arriva addirittura al 62%. Con l’equipaggio di Sea Shepherd Italia, una ong che si occupa di tutela ambientale, navighiamo nelle Eolie alla scoperta di questo metodo di pesca così dannoso per il mare. Basti pensare che in tutto il Mediterraneo ci sono oltre 1,5 milioni di f.a.d. abbandonati dai pescatori, una vera trappola mortale. Il sistema di pesca è ingegnoso: un filo di plastica ancorato in fondo al mare tiene in superficie delle foglie di palma, per creare l’ombra sotto la quale si radunerà, attirata anche da microorganismi posizionati allo scopo, una gran quantità di pesci. Nel momento della massima concentrazione dei pesci arrivano i pescatori che con le loro reti a circuizione tirano su tutto ciò che c'è dentro. “Nel solo tratto di mare intorno alle isole Eolie, di questi accrocchi illegali ce n'è un bel po', 10mila fad con 6,7,8 taniche e bottiglie cadauno sopra”, racconta Andrea Morello, presidente di Sea Shepherd Italia, “quindi parliamo di centinaia di migliaia di bottiglie riversate nel mare ogni anno”. Un volontario della ong ci racconta una scena a cui ha assistito: “Abbiamo trovato delle tartarughe che erano strozzate al collo o impigliate con le pinne in questo filo di polipropilene e molto frequentemente, pur di scappare perdono l'arto e finiscono quasi sempre per morire”. Un vero allarme, insomma. E pensare che una soluzione ci sarebbe ed è anche obbligatoria per legge. Basterebbe infatti utilizzare del materiale organico biodegradabile, sia per il filo che tiene il f.a.d. ancorato al fondo, sia per quei bidoni che servono per tenerlo a  galla.  Ma il problema ci spiegano, ancora una volta, è legato ai soldi: “Il polipropilene è molto economico rispetto a un materiale biodegradabile come può essere la canapa, che costa di più”.

·        La Sardine.

Giulia Masoero Regis per “Salute - la Repubblica” il 3 dicembre 2019. Se pensate che siano soltanto un movimento di protesta sbagliate. Perché le sardine, seppure tanto bistrattate, sono buone, economiche, versatili. Considerate pesce povero, sono sempre disponibili a buon prezzo in pescheria o sui banchi del mercato. Le sarde o sardine sono un ingrediente tipico della cucina mediterranea, perché è proprio nel Mediterraneo che si concentrano di più e vengono pescate a tonnellate ogni anno: talvolta anche troppo, soprattutto nell'Adriatico, dove sono state spesso oggetto di sovrapesca. Rientrano tra le specie più catturate al mondo (non esistono allevamenti) e nel 2016 in Europa, secondo i dati dell' Osservatorio europeo del mercato ittico (Eumofa), gli sbarchi sono aumentati del 17% raggiungendo il picco più alto dei precedenti cinque anni. «Noi italiani non siamo tra i maggiori consumatori, ma l' acquisto di sardine in Europa è buono: dagli ultimi dati Eumofa sul 2016 emerge che se ne mangiano in media 0,69 chili pro- capite, sia fresche che congelate e trasformate. Sono al decimo posto dei pesci più portati in tavola, capitanati dal tonno a pinne gialle», spiega Valentina Tepedino, responsabile della Società Scientifica di medicina Veterinaria preventiva per i prodotti ittici. «Quelle che troviamo in commercio sono pescate soprattutto nel nostro Mar Adriatico, ma possono arrivare anche dalla Croazia, poi ci sono quelle dell'Atlantico settentrionale, che arrivano da Spagna e Paesi Bassi». Anche se nel 2018 in Italia si è registrato un calo degli acquisti di prodotti ittici, davanti al banco del pesce il consumatore è sempre più attento all'origine, spesso alla ricerca di quello "locale". « Sull'etichetta è obbligatorio riportarla attraverso le zone Fao e apposite mappe - continua Tepedino - o, modalità per me più chiara e trasparente, indicarla per iscritto, ad esempio " Mar Mediterraneo Centrale- Mar Adriatico". In più, se chi vende ha la certezza dell' origine italiana, la può precisare. A prescindere dall' origine, è importante che la sardina sia a filiera corta, più fresca possibile e venduta nel ghiaccio » . Insieme ad alici, sgombro, aringa e altre specie, la sardina è un pesce azzurro, varietà piccole e a ciclo vitale breve il cui consumo è suggerito dagli esperti sia per un discorso di sostenibilità ambientale, sia di salute. «Con una vita media di 5 anni e un'alimentazione a base di fito e zoo plancton, il rischio di contaminanti nella carne di sardine è praticamente inesistente. Inoltre non hanno una stagionalità precisa perché si riproducono tutto l'anno, con un picco in inverno, quindi la rinnovabilità della specie è garantita», dice Silvestro Greco, biologo marino e presidente del comitato scientifico di Slow Fish. Come tutto il pesce azzurro, le sardine sono importanti da un punto di vista nutrizionale, perché ricche di vitamine e sali minerali. «Sono un' ottima fonte di proteine e di acidi di grassi insaturi omega 3, i cosiddetti amici del cuore», dice Gabriele Riccardi, già direttore di Diabetologia dell' ospedale Federico II di Napoli. «Portare a tavola pesce azzurro almeno tre volte a settimana aiuta a ridurre il rischio di eventi cardiovascolari e a prevenire altre patologie, come l' osteoporosi».

·        Il polpo "umano".

Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 13 agosto 2019. Il polpo è dappertutto. Lo si trova nel vasellame di Cnosso, Micene, Rodi, Cipro, mentre i suoi tentacoli sono rappresentati nei mosaici romani e sulle monete a Taranto, Crotone, Siracusa e Paestum; è sugli scudi, ad esempio su quello d' Achille. Plinio ne fa un ritratto e descrive i suoi cambiamenti di colore, e soprattutto l' intelligenza: apre con i sassi le valve, sposta pietre per difendere le tane, esce dall' acqua per rubare le riserve alimentari nei depositi. Il mondo antico è stupefatto - ne scrive Elieno - per le performance di questo strano animale. Il suo mimetismo suscita ammirazione. Poi qualcosa cambia, proprio in virtù della sua capacità di mascherarsi. Per Sant' Agostino è un esempio di tradimento, mistificazione, bugia, simboleggia i tentatori. San Basilio rincara la dose: è l' immagine dell' adulatore. Tuttavia Ulisse Aldrovandi (1522-1605) nella sua sterminata Storia Naturale assegna al polpo un ruolo importante: unisce la natura terrestre a quella acquatica. Nel contempo appare una nuova figura, il Kraken, il polpo colossale, ispirato ai mostri biblici, Behemoth e Leviatano, che assale navi e cattura coi suoi tentacoli i marinai: è la piovra gigantesca. Il Romanticismo trasforma la piovra gigante nel mostro dei mari. Ne scrivono Jules Michelet nel suo Il mare (1861) e Victor Hugo nel romanzo I lavoratori del mare (1866) e poi Jules Verne nell' affascinante Ventimila leghe sotto i mari (1869). La parola "piovra" è introdotta da Hugo, che ne fissa l' immagine mitica. Roger Caillois in un suo libro, La piovra (1973), racconta la storia dell' immagine del polpo, animale affascinante e sorprendente. Lo scrittore francese riassume le tappe di questa creazione fantastica: animale ornamentale e commestibile per gli antichi; lubrico per i giapponesi; ripugnante e mostruoso per i romantici; semifiabesco, per la psicoanalisi, che vede nei suoi tentacoli palesi simboli fallici. Peter Godfrey-Smith, filosofo della scienza australiano con la passione per le immersioni, fa oggi di questo animale il riferimento principale per capire tipi di menti diverse da quelle umane. Che cosa abbiamo in comune noi con i polpi? Un antenato: una creatura simile a un verme, vissuta nell'Ecardiano, 600 milioni di anni fa, piatto, senza cervello e senza occhi. Quello è il nostro punto di unione e quindi di separazione nell' albero che Godfrey-Smith disegna nel suo studio. Su un ramo ci sono i vertebrati come noi, cui succedono i mammiferi, sull' altro gli invertebrati, compresi granchi e api, loro parenti e anche i vermi e molluschi. Come sono diventati così intelligenti i polpi? La storia è lunga, ma affascinante. Il risultato incredibile: un polpo comune, l'Octopus vulgaris, possiede 500 milioni di neuroni. Noi ne abbiamo circa 100 miliardi; i 500 milioni sono l'equivalente di quelli posseduti dai mammiferi più piccoli e dal cane. I cefalopodi, cui il polpo appartiene, hanno un sistema nervoso più sviluppato di tutti gli altri invertebrati. Una notevole porzione del sistema nervoso di un cefalopode non si trova concentrata nel cervello, bensì distribuita su tutto il corpo. I suoi tentacoli pensano poiché la maggior parte dei neuroni si trovano lì: il doppio di quelli che stanno nel cervello. Possiede tre cuori, che pompano un sangue verde-azzurro, dato che è il rame a trasportare l'ossigeno, e non il ferro, che lo colora di rosso, come accade a noi. Le braccia non dispongono solo del tatto; hanno infatti capacità olfattive e gustative e ogni ventosa è dotata di 10.000 neuroni. Nel suo saggio Altre menti il filosofo della scienza divenuto naturalista spiega molte altre cose sui polpi che lasciano stupefatti; così anche Sy Montgomery, naturalista e scrittrice, in un libro, L'anima di un polpo , che è l'ampia cronaca dei suoi incontri con questo animale marino. Se leggerete questi libri, forse non riuscirete più a ordinare un piatto di polpo al ristorante. I suoi occhi sono simili ai nostri: possiedono lenti per la messa a fuoco, cornee trasparenti, iridi per regolare la quantità di luce sul fondo oculare, per convertire la luce in segnali neurali. La sua pelle è uno schermo composto di più strati controllato dal cervello, che dirige milioni di sacche di pigmento simili a pixel. A leggere gli studi sui polpi si trovano esempi sulla loro capacità di riconoscere le persone, di uscire dagli acquari aprendo le chiusure ermetiche, d' impadronirsi delle cose. Sono curiosi, intuitivi e intelligentissimi, capaci di cambiare forma e dimensione. Senza guscio i polpi hanno dovuto sviluppare nel corso di milioni di anni la capacità di sfuggire ai predatori. Tuttavia vivono poco, un anno o due. Godfrey-Smith ci ha avvisati: intercettare un polpo in un' immersione appare come l' esperienza più vicina all' incontro con un alieno che ci possa capitare. Siamo entrambi figli della Terra e dei suoi oceani.

·        Gli squali tra fobia e attacchi mortali: sono davvero pericolosi?

Gli squali tra fobia e attacchi mortali: sono davvero pericolosi? Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. «Gli squali non sono pericolosi per l’uomo, sono gli uomini a essere pericolosi per loro». È questo il mantra di ogni biologo marino eppure, a ogni «attacco», ecco che si va a caccia del «mostro». L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto il 7 novembre a sull’Isola di La Réunion dove uno squalo tigre ha ucciso un turista britannico di 44 anni. Non mancano particolari scabrosi: una delle mani, con ancora la fede, è stata trovata nello stomaco del pesce, a sua volta trovato senza vita sulla spiaggia. «È molto più probabile morire per una puntura di vespa o di ape che per l’attacco di uno squalo - spiega Paolo Galli, professore di Ecologia e direttore del MaRHE Center dell’Università di Milano Bicocca - Gli squali attaccano, non c’è dubbio, ma in realtà, la maggior parte delle volte, non è un vero e proprio attacco, è più curiosità. Si avvicinano per studiare cos’è che hanno davanti e morsicchiano per capire meglio». Ogni anno nel mondo si calcolano una settantina di attacchi di cui in realtà solo una decina hanno esito mortale. «Gli squali possono confondere una persona sul surf per una delle loro prede, non capiscono che è un uomo. Non vogliono attaccarci direttamente, pensano che siamo un animale marino. Ad ogni modo in Italia non ci sono questi problemi e nove volte su dieci quando si dice che c’è stato un attacco di uno squalo bianco in realtà non è vero». Talvolta la causa degli attacchi è l’uomo stesso. Galli ricorda come molti cacciatori di emozioni si fanno chiudere in gabbie sottomarine per incontrare il «mostro» da vicino. Fin qui nulla di malese non fosse che spesso, per attirare i pesci, tour operator senza scrupoli diffondo in acqua litri e litri di sangue bovino. Sul breve termine i turisti sono felici, hanno visto lo squalo ma tutto quel plasma attizza i sensi anche di squali molto lontani da lì e li ingolosisce spingendoli ad attaccare a chilometri di distanza. Anche il termine squalo confonde. Quella parola racchiude circa 500 specie diverse che vanno dal minuscolo squalo lanterna nano, che misura una ventina di centimetri allo squalo balena, il più grande pesce in assoluto, che arriva a 20 metri ma non ha denti. È mansueto. «Alcune poi le mangiamo - nota Galli - Il pesce non c’è più e così ecco che sulla nostra tavola finiscono squali come lo spinarolo, la verdesca, il palombo, ogni anno ne uccidiamo cento milioni». Secondo dati Fao, l’Italia è la terza importatrice di carne di squalo al mondo dopo Corea e Spagna. Insomma, alla fine la lista degli «squali pericolosi» si riduce a poche, pochissime, specie come bianco, tigre, toro, tissitore, pinna nera e pinna bianca. Che sono pochissimi. Negli ultimi 40 anni la popolazione degli squali medio-grandi è scesa del 90 per cento. Così, conti alla mano, si scopre che i dieci morti l’anno degli squali sono nulla rispetto a quelli causati da zanzare (oltre 600mila per la malaria), cani (25mila per la rabbia) e perfino lumache di acqua dolce (10mila per batteri). Per non parlare poi dell’uomo stesso (475mila). Gli squali incutono da sempre timore nell’uomo, basta pensare a Ventimila leghe sotto i mari o a Pinocchio (La balena è un’invenzione della Disney), ma il terrore insensato dei nostri anni ha una data d’inizio ben precisa: il 20 giugno 1975. In quel giorno esce nelle sale Usa il film «Lo squalo» di Steven Spielberg. È subito un successo commerciale e con 260 milioni di dollari di incassi batte i campioni del tempo come «L’esorcista», «La stangata», «Il padrino». Quel poster con lo squalo bianco che attacca dal basso la bagnante (donna, ovviamente) che nuota a pelo d’acqua diventa emblematica. Non c’è più quella miscela di paura e rispetto che nutriamo verso il leone o la tigre. Diventa terrore. Come scrive Dean Crawford nel suo libro «Lo squalo» (Orme ed.), col film si innesca una caccia al mostro, centinaia di segnalazioni alla guardia costiera, denunce di inesistenti attacchi e battute di pesca che razziano i mari. «Spielberg ha fatto tanto del bene con Schindler’s List quando del male con Lo squalo», nota Galli riportando un’altra delle opinioni che circolano da decenni nel mondo accademico.

·        Gli animali 007.

Gatti, volpi, aquile, pipistrelli. Le spie sono delle bestie. Lo storico del servizi speciali rivela tutti i trucchi. Dai felini usati come cimici ai mammiferi volanti bombardieri. Massimiliano Parente, Domenica 23/06/2019, su Il Giornale. Chi non ricorda Il dottor Stranamore, il fantastico film di Stanley Kubrick con Peter Sellers? Che raccontava un folle equivoco che condurrà il mondo alla guerra nucleare. Per fortuna solo un film, ma la realtà, si sa, supera spesso la fantasia, di sicuro quella cinematografica. Dall'inizio della Guerra Fredda in poi, infatti, se ne sono viste delle belle. Anzi, non si sono viste, ma ci siamo andati vicini. È una lunga e pazzesca storia raccontata da Vince Houghton, storico e curatore dell'International Spy Museum di Washington, nel suo saggio Il pipistrello bomba (Bollati Boringhieri) dedicato a tutti i progetti militari ideati, sperimentati e mai realizzati. Con largo uso di animali di ogni genere. A cominciare dai gatti. Fu un'idea della Cia, si chiamava Acoustic Kitty, ovvero utilizzava gatti come cimici, dopo averli opportunamente operati, per spiare i sovietici. Solo che i gatti tendono a fare quello che vogliono, e l'unico che sembrava eseguire gli ordini finì stirato sotto una macchina. I gatti furono usati anche per alcuni test durante la Seconda Guerra Mondiale, da un'idea del chimico Stanley Lovell: lanciarli con una bomba attaccata alla pancia e un congegno direzionale contro le navi dell'Asse, sperando nell'istinto del gatto di non cadere mai in acqua. Ma i gatti persero i sensi durante i primi quindici metri di caduta e non se ne fece niente. Ma Lovell ebbe anche un'altra pensata: usare della cacca di capra artificiale contaminata da un cocktail di germi da sganciare in Nord Africa per battere i tedeschi senza che si rendessero conto da cosa fossero stati colpiti. A diffondere i germi ci avrebbero pensato le mosche. L'operazione stava per partire quando i tedeschi spostarono le truppe sul fronte orientale, e quindi niente cacca. Tuttavia Lovell inventò anche un vaso da fiori con un derivato chimico da piazzare tra Hitler e Mussolini durante un loro incontro sul Brennero. Il composto li avrebbe resi ciechi. La ciliegina sulla torta sarebbe stata la collaborazione del Papa, che avrebbe dichiarato trattarsi di una punizione divina per la loro malvagità. Anche qui ci fu un inconveniente: il luogo dell'incontro fu spostato su un treno, nel vagone privato di Hitler, e si cambiò piano. Ipotizzando per esempio di somministrare a Hitler degli ormoni femminili per fargli cambiare carattere e fargli cadere i baffetti. Dietro c'era sempre la fervida mente di Lovell. Fu data a un giardiniere una valigetta piena di soldi come pagamento e gli appositi farmaci, ma probabilmente il giardiniere non se la sentì di affrontare Hitler e scappò con i soldi. Tornando agli animali, non crediate che siano strambe idee passate, ne sono piene le cronache degli ultimi decenni. Ecco alcuni titoli di giornale di varie parti del mondo citati da Houghton: «Squalo mandato in Egitto dal Mossad». «Hezbollah: abbiamo catturato in Libano aquila spia di Israele». «Abbas accusa Israele di usare cinghiali contro i palestinesi». Animali talvolta processati come persone. Tipo: «Turchia proscioglie uccello da accusa di spionaggio per Israele». Oppure, altro titolo: «In India polizia cattura piccione, accusato di lealtà volatile». Come nel Progetto X-Ray, concepito da Lytle Adams, un dentista della Pennsylvania: prevedeva l'uso di pipistrelli bomba da utilizzare contro il Giappone in seguito all'attacco di Pearl Harbor. Adams riuscì a suscitare l'interesse del Presidente Roosevelt che dette l'ok alle sperimentazioni, nel 1943. Che non andarono benissimo. Centinaia di pipistrelli, con le loro bombe e in letargo, furono portati alla base militare di Carlsbad, caricati su un aereo, e pronti a essere sganciati su una piccola cittadina giapponese ricostruita. Ma una parte dei pipistrelli si svegliò prima dal letargo e si diresse verso la stessa base americana, distruggendola. Contro i giapponesi si pensò allora di utilizzare le volpi, perché nello shintoismo (religione di Stato in Giappone dal 1868 al 1945) sono animali magici, portatori di buoni o cattivi presagi. E dunque prese piede il Progetto Fantasia, una trovata di un tale di nome Edgar Salinger: spruzzare delle volpi con vernici fosforescenti e mandarle a terrorizzare i nipponici. Solo che le volpi fosforescenti andavano sganciate in acqua e quando arrivavano a riva la vernice era completamente scomparsa. Si riuscì a ovviare all'inconveniente, ma nel frattempo si era trovata una soluzione più efficace e definitiva per mettere fine alla guerra, e questa volta funzionò, eccome se funzionò. Ne sanno qualcosa a Hiroshima e a Nagasaki.

·        Il “gatto-volpe”.

SEMBRA UN GATTO, MA NON È. Fulvio Cerutti per La Stampa il 20 giugno 2019. Guardandolo in fretta potrebbe sembrare un gattone di casa, ma in realtà quello che è stato individuato e catturato in questi giorni sulle montagne della Corsica è una nuova specie di felino, molto più simile al gatto selvatico africano (felis silvestris lybica) che a quello europeo (felis silvestris silvestris). «In un territorio di 25 mila ettari ne abbiamo individuati 16 esemplari. Ciò di cui siamo sicuri è che non è un gatto domestico o un gatto selvatico europeo. Questo è quello di cui siamo sicuri - spiega Pierre Benedetti dell’Ufficio nazionale francese per la caccia e la pesca -. Le sue caratteristiche, il suo Dna sono differenti». Dei 16 esemplari individuati, tra cui una femmina, 12 sono stati catturati e taggati e da una prima analisi è emerso che sono lunghi circa 90 centimetri dalla testa all’inizio della coda, hanno dei denti canini particolarmente sviluppati, un pelo grigiobruno molto fitto che impedisce ai parassiti di attecchire, grandi orecchie e una coda folta con colorazione ad anelli. Una specie non classificata per i ricercatori, ma conosciuta ai pastori corsi che da sempre lo chiamano in dialetto locale “ghjattu-volpe”, ossia il “gatto-volpe”. «Questo animale appartiene alla mitologia dei nostri pastori che ci hanno detto che si attaccherebbe alle mammelle delle capre e pecore lasciando loro graffi evidenti. Da queste storie, tramandate di generazione in generazione, abbiamo iniziato la nostra ricerca» spiega Carlu-Antone Cecchini, responsabile delle foreste Missione all’Ufficio nazionale. Nel 2008 è stato lanciato un programma di ricerca e nel 2012 gli studiosi sono riusciti capire che il dna di questo felino era diverso dal gatto selvatico europeo, mentre era più simile a quello africano. Grazie a trappole fotografiche nel 2016 sono state mostrate le prime immagini nella foresta di Asco (in Alta Corsica). Se ci sono ancora molte cose da sapere su questa specie, particolare sulla sua riproduzione e sulla sua dieta, questo gatto potrebbe «essere arrivato ai tempi della seconda colonizzazione umana risalente a circa 6.500 aC. Se questa ipotesi è confermata, la sua origine è mediorientale» spiega Pierre Benedetti. Ora il vero obiettivo è un altro: che nei prossimi due o quattro anni questo gatto venga riconosciuto come nuova specie e protetto.

·        Il Ligre.

Repubblica Tv il 14 giugno 2019. Mezzo leone e mezzo tigre: ecco il ligre, il felino più grande del mondo. Questo animale è considerato il felino più grande del mondo. Si tratta del "ligre", un incrocio tra un leone e una tigre. Nel mondo ve ne sono circa un migliaio e possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e pesare fino a 500 chili. La loro imponente stazza li rende molto popolari nelle riserve e zoo del mondo. Nella clip un esemplare chiamato Apollo che è ospitato nel Myrtle Beach Safari in South Carolina, Stati Uniti: ha 5 anni e pesa 340 kg.

Da La Stampa il 14 giugno 2019. Questo animale è considerato il felino più grande del mondo. Si tratta del “ligre”, un incrocio tra un leone maschio e una tigre femmina. Nel mondo esistono circa un migliaio di esemplari e possono raggiungere il metro e mezzo di altezza e pesare fino a mezza tonnellata. La loro imponente stazza li rende molto popolari nelle riserve e zoo del mondo. Nella clip un esemplare chiamato Apollo che è ospitato nel Myrtle Beach Safari in South Carolina, Stati Uniti: ha 5 anni e pesa 340 kg.

·        Non chiamatelo ciuco.

Non chiamatelo ciuco. Umile, forte e tenace: breve elogio dell'asino. Bistrattato da tutti, ha ispirato invece artisti, filosofi e pittori come Giotto e Montaigne. Oscar Grazioli, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. Li aveva messi in catene, con una modalità atroce chissà da quanto tempo. I due asinelli vivevano, come incaprettati e la scena che hanno visto gli uomini della Forestale e dell'USL di Martina Franca (Taranto), in azione congiunta, era orribile. I due poveri asini presentavano le zampe anteriori e posteriori impastoiate con catene collegate alla testa, che gli impedivano la deambulazione e il riposo a terra. I ferri erano penetrati nella carne viva lacerandola e provocando ferite infette infestate da un nugolo di parassiti. I due sfortunati equidi mostravano gravi sofferenze, sbattendo il collo ed emettendo versi acuti, ogni volta che dovevano muoversi di pochi centimetri. Ci sono volute numerose ore e diverse persone per liberare gli animali da quegli orribili ceppi e i due asini sono stati subito sequestrati al proprietario che è stato deferito all'Autorità Giudiziaria, ai sensi dell'articolo 544 ter del Codice Penale (Maltrattamento di animali), in quanto senza alcuna necessità cagionava lesioni agli animali, sottoponendoli a sevizie e comportamenti inammissibili per le loro caratteristiche etologiche. Oltre tutto la struttura in cui erano «ospitati» era priva di autorizzazione alla detenzione degli animali che risultavano pure privi di microchip. L'uomo, per il momento, si è visto comminare una sanzione di 10.000 euro ma l'iter processuale è ancora lungo e dovranno essere valutate dalla magistratura le pene per la crudeltà inflitta ai due asinelli, peraltro priva apparentemente di alcuna motivazione, qualora ne possa esistere un barlume. Ora i due asinelli sono curati e coccolati presso un allevamento che li ha presi in carico e li ospita per quello che sono, ovvero esseri senzienti, in grado di percepire emozioni e dolore tanto quanto gli altri animali, pur essendo umili asini. L'asino, storicamente non è stato ben trattato dall'uomo. Se uno è una via d'incrocio tra uno ignorante e uno stupidotto è «un somaro», ovvero un asino. Solo pochi decenni fa, se un bambino a scuola non aveva studiato la lezione o aveva fatto qualche stupidaggine, finiva dietro la lavagna con il cappello dalle orecchie d'asino. Insomma, era anche lui un somaro. Nel paradosso di Buridano, posto nella condizione di scegliere fra due mucchi di fieno identici e simmetrici, l'asino non osa scegliere e muore. Se qualcuno la racconta grossa, vede gli asini volare. E così via. Ma se ci si sofferma un attimo, come fa lui con i suoi gesti lenti che sembrano irridere il tempo, è stato d'imprescindibile utilità per l'uomo e, a differenza del suo parente nobile, il cavallo, nelle condizioni e nei territori più difficili, più solitari, più impervi, più ostili. Ha portato sulla sua groppa di tutto e di più, quasi sempre caricato con pesi che oltrepassavano i limiti del mero buon senso. E lui andava, macinava metri su metri, chilometri su chilometri, con fardelli enormi, senza protestare e accontentandosi di una manciata di biada e di rami spinosi. È proprio lui che nel presepe, assieme al bue, riscalda Gesù Bambino e lo guarda stabilendo una condivisione con la natività. L'asino non ha l'aspetto regale ed elegante del cavallo ma ha affascinato le sollecitazioni di pensiero dei filosofi, degli studiosi e dei letterati. Montaigne attribuisce all'asino il titolo di animale contemplativo, ne sottolinea la natura riflessiva e meditabonda, elevandolo al rango di filosofo. Giotto ne fa la figura centrale della sua Fuga in Egitto (Cappella degli Scrovegni) e Duccio, per il Duomo di Siena, lo mette in primo piano mentre trasporta Gesù che entra in Gerusalemme. Ma per noi, l'asino più famoso è quello di Davanti San Guido, quando il Carducci lo immortala in quelle eterne parole d'amore e di contemplazione: «Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo, Rosso e turchino, non si scomodò: Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo, E a brucar serio e lento seguitò».

·        Varenne va in pensione.

Varenne va in pensione. Massimo Massenzio per il ''Corriere della Sera'' il 23 giugno 2019. Annamaria Crespo e Varenne vivono in simbiosi da 17 anni. Lei nei ha 55 lui quasi 30 in meno, si intendono con uno sguardo, si capiscono al volo. L' arrivo del «Capitano» a Vigone, piccolo centro in provincia di Torino, ha cambiato radicalmente la vita di Annamaria (Anna per tutti) che nel 2002 aveva deciso di smettere di occuparsi di cavalli per dedicarsi esclusivamente alla famiglia. Poi una telefonata dal centro di allevamento «Il Grifone» le ha fatto cambiare idea e da quel momento è diventata la sua inseparabile «groom», la tata che lo accudisce - quasi - tutti i giorni dell' anno. Adesso lo stallone più famoso al mondo sta per trasferirsi a Inverno e Monteleone, in provincia di Pavia. L' accordo fra la società napoletana Varenne Futurity, proprietaria del cavallo, e la Varenne Forever, che si è assicurata la gestione e le percentuali sulla monta del campionissimo, scade infatti alla fine di luglio. I tifosi e gli abitanti Vigone hanno iniziato una petizione - che si è estesa a livello nazionale - per impedire che Varenne lasci Anna. E due settimane fa lei è andata fino a Napoli per convincere la proprietà a lasciarlo in Piemonte: «È stato tutto inutile - racconta sconsolata, mentre con gli occhi lucidi lo pulisce al rientro dalla passeggiata quotidiana -. Spostare un cavallo di 24 anni non è una decisione di buonsenso. Un veterinario non dovrebbe permetterlo e dovrebbe tutelare la salute dell' animale. Lui sta bene qui, dove è trattato come un re. Chiunque se ne accorgerebbe anche solo visitando il suo box». Oggi invece davanti alla scuderia personale del Capitano c' è un vigilante che controlla chiunque si avvicini e impedisce di scattare fotografie. È l' ultima scoria della battaglia legale fra proprietà e centro di allevamento, che ha portato alla rottura definitiva dei rapporti: «Ma queste cose non dovrebbero avere rilevanza - continua Anna - Vari, io lo chiamo così, ormai è anziano, anche se sta benissimo. Ma se è così in forma ed è ancora fertile e perché qui conosciamo tutti suoi bisogni e curiamo ogni minimo dettaglio. Ad esempio lui patisce moltissimo gli insetti, soprattutto le zanzare e nel suo box abbiamo montato una zanzariera e un ventilatore. Quando passeggia nel suo recinto e ci sono troppe mosche, mi guarda e mi fa capire che vuole tornare dentro. Questo legame si costruisce solo con anni di passione». Per stare vicino a Varenne Annamaria si è separata anche dal marito: «Lui non avrebbe voluto che io accettassi questo lavoro. Sapeva che sarebbe stato "totalizzante" e aveva ragione. Ma quando si è trattato di scegliere, ho preferito Varenne. Per me è come un terzo figlio, oltre ai miei due ragazzi, ma forse ho passato più tempo con lui che con loro. Mi hanno chiesto di seguirlo a Pavia, ma i miei genitori sono anziani e adesso devo occuparmi di loro. Questa volta non posso scegliere». Anna ha gli occhi lucidi e accudisce il Capitano con gesti automatici: «Arrivo alle 8 e vado via nel pomeriggio. Lui mangia tre volte al giorno, fa 40 minuti di "jogging" e poi lo porto sempre a fare una passeggiata. Non lo lascio mai solo più di una settimana, neppure per le ferie. Ha bisogno di me, perché io lo capisco. Al mattino, ad esempio, aspetta che io lo porti fuori per darmi un morso leggero sul fondoschiena. Quello è il segnale che è di buon umore. Quando inarca il muso, invece, mi vuole dire che ha un prurito o che c' è qualcosa che gli stando fastidio». È stata Anna ad accompagnare Varenne al secondo piano del palazzo Rai di Milano: «Nessun altro stallone da corsa avrebbe mai potuto farlo, ma lui è unico. Nessuno è buono come lui» Le speranze che resti a Vigone, però, sono pochissime: «Credo sia già tutto deciso. Qualcuno dice anche che il trasferimento sarà addirittura anticipato. Io cerco di non pensarci e continuo a fare quello che faccio da 17 anni. Mi auguro che alla fine la ragione prevalga sulla follia».

Alessia, l’angelo custode di Varenne: «Che onore vegliarlo». Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 da Chiara Severgnini su Corriere.it. «Pecos è il cavallo del mio cuore, ma Varenne... È una leggenda»: non si può chiedere ad Alessia Girani di fare una classifica tra il cavallo con cui è cresciuta («Ha solo otto mesi meno di me») e quello di cui, fin da bambina, ha sentito elencare vittorie e primati. Varenne è una leggenda vivente: ha polverizzato record, guadagnato cifre inedite (oltre 6 milioni di euro), persino ispirato canzoni («Se lo vedi passare è come se fosse una festa», intonava Jannacci). Alessia aveva solo sei anni quando il «Capitano» esordiva, nel 1998; dieci quando è andato in pensione, nel 2002. Oggi ne ha 27 ed è diventata il suo nuovo angelo custode, o, come si dice in gergo, la sua groom. E sabato, quando Varenne è arrivato all’Equicenter di Inverno e Monteleone, in provincia di Pavia — la sua nuova casa, dopo 17 anni passati a Vigone (Torino), e un trasferimento che ha causato parecchie polemiche — lei era qui, ad aspettarlo. Durante la prima notte lombarda del cavallo dei record, l’ha vegliato da un materasso poggiato davanti al suo box.

Pareti imbottite e aria condizionata. Dietro a questa scelta si cela, in realtà, una prassi comune, come spiega Daniela Zilli, la trainer cui Varenne è stato affidato e che, forte dei suoi ventitré anni di esperienza nel settore, sarà responsabile della forma fisica e dell’allenamento del cavallo-mito. Alessia lavorerà al suo fianco, per imparare da lei, sul campo, tutto ciò che non ha già appreso negli anni dell’università (è laureata in Scienze biotecnologiche veterinarie e specializzata in riproduzione animale). «Non è stata la mia prima notte con un cavallo», racconta, «mi è già capitato altre volte, ad esempio quando una fattrice deve partorire». E Varenne, si è già ambientato? «La notte è stata serena», assicura lei, «si è messo a mangiare quasi subito, cosa che indica tranquillità, e poi si è coricato per dormire. Del resto, parliamo di un cavallo che ha girato il mondo: è abituato a muoversi». Lo conferma anche Zilli: «La resilienza è sempre stata una delle caratteristiche più straordinarie di Varenne: ha vinto tanto anche per questo». All’Equicenter, poi, hanno fatto di tutto per accoglierlo nel modo migliore: per lui hanno preparato un box imbottito, all’occorrenza condizionato con un impianto ad hoc, e protetto da una porta blindata. Dietro a questa scelta si cela, in realtà, una prassi comune, come spiega Daniela Zilli, la trainer cui Varenne è stato affidato e che, forte dei suoi ventitré anni di esperienza nel settore, sarà responsabile della forma fisica e dell’allenamento del cavallo-mito. Alessia lavorerà al suo fianco, per imparare da lei, sul campo, tutto ciò che non ha già appreso negli anni dell’università (è laureata in Scienze biotecnologiche veterinarie e specializzata in riproduzione animale). «Non è stata la mia prima notte con un cavallo», racconta, «mi è già capitato altre volte, ad esempio quando una fattrice deve partorire». E Varenne, si è già ambientato? «La notte è stata serena», assicura lei, «si è messo a mangiare quasi subito, cosa che indica tranquillità, e poi si è coricato per dormire. Del resto, parliamo di un cavallo che ha girato il mondo: è abituato a muoversi». Lo conferma anche Zilli: «La resilienza è sempre stata una delle caratteristiche più straordinarie di Varenne: ha vinto tanto anche per questo». All’Equicenter, poi, hanno fatto di tutto per accoglierlo nel modo migliore: per lui hanno preparato un box imbottito, all’occorrenza condizionato con un impianto ad hoc, e protetto da una porta blindata. 

Il suo secchio verde. Al suo interno, c’è anche un secchio verde. Non uno qualunque, ma quello che Varenne usa da anni: Annamaria Crespo, che per 17 anni si è presa cura di lui a Vigone, si è voluta assicurare che lo seguisse nella sua nuova casa, così che il cavallo potesse continuare a inzupparci il fieno prima di mangiarlo, come d’abitudine. Con lei, che conosce Varenne come pochi altri al mondo, c’è un contatto costante, spiega Zilli. Senza contare che per lui sono a disposizione costante i veterinari del centro (a cominciare da Cesare Rognoni, fondatore di Equicenter, che lo segue da tempo) e un maniscalco dedicato. Per la posizione di groom erano arrivate montagne di candidature. «Abbiamo scelto Alessia», spiega Zilli, «perché pur essendo giovane è molto professionale, perché è umile e ha voglia di imparare, ma soprattutto perché ha passione, che in questo lavoro è importantissima». Alessia è di poche parole: «Avere la possibilità di prendermi cura di Varenne è un’emozione e un onore». Sullo sfondo, intanto, si sentono dei nitriti: è il «Capitano», chissà se ha capito che parliamo di lui. Al suo interno, c’è anche un secchio verde. Non uno qualunque, ma quello che Varenne usa da anni: Annamaria Crespo, che per 17 anni si è presa cura di lui a Vigone, si è voluta assicurare che lo seguisse nella sua nuova casa, così che il cavallo potesse continuare a inzupparci il fieno prima di mangiarlo, come d’abitudine. Con lei, che conosce Varenne come pochi altri al mondo, c’è un contatto costante, spiega Zilli. Senza contare che per lui sono a disposizione costante i veterinari del centro (a cominciare da Cesare Rognoni, fondatore di Equicenter, che lo segue da tempo) e un maniscalco dedicato. Per la posizione di groom erano arrivate montagne di candidature. «Abbiamo scelto Alessia», spiega Zilli, «perché pur essendo giovane è molto professionale, perché è umile e ha voglia di imparare, ma soprattutto perché ha passione, che in questo lavoro è importantissima». Alessia è di poche parole: «Avere la possibilità di prendermi cura di Varenne è un’emozione e un onore». Sullo sfondo, intanto, si sentono dei nitriti: è il «Capitano», chissà se ha capito che parliamo di lui.

Vittorio Feltri, Varenne e Luciano Moggi: "La più grande scemenza della mia vita". Libero Quotidiano il 23 Giugno 2019. Varenne è il nome di un cavallo unico al mondo. Il migliore Trottatore in pista. Non ha vinto tante gare, le ha stravinte con una facilità stupefacente per noi amanti dell' ippica. È diventato nei lustri un divo noto e ammirato anche da chi non capisce nulla di equini. La sua carriera è stata formidabile, costellata da una serie di trionfi in Italia e all'estero. Una volta in Francia, all'Arc de triomphe, gli hanno fatto ripetere tre volte la partenza per presunte irregolarità e lui, il Capitano, come veniva chiamato, è sempre partito in testa come un siluro e alla fine della prova valida è arrivato primo. Un miracolo. Lo sforzo che gli è stato richiesto nella circostanza è stato enorme, e il campione lo ha sostenuto con una ammirevole disinvoltura. Un animale così non si era mai veduto. Non ha mai avuto necessità di essere guidato dall'individuo seduto sul sulky, ha sempre deciso lui le strategie della corsa. Osservava i concorrenti, ne misurava la potenza e la resistenza e si regolava di conseguenza per batterli, e li batteva, sistematicamente. L'intelligenza di Varenne è sorprendente. L'ultima sua competizione, prima dell' abbandono agonistico, si svolse in tal modo. Il suo driver era indisposto e gli subentrò l'allenatore, l'uomo della routine. Il cavallo e il suo guidatore improvvisato non fecero una piega, provvide il grande atleta quadrupede, il quale al momento opportuno piazzò lo scatto per distaccarsi dagli avversari e avviarsi in solitudine al traguardo. Che spettacolo! Un cavallo talmente arguto e solido da potersene fottere della persona incaricata di tenere le sue redini. Io da gentleman driver ho disputato varie gare al trotto, benché preferissi montare, e alcune le ho vinte ma non ho mai usato la frusta. È assurdo picchiare queste meravigliose bestie: esse sono collaborative e generose, danno tutto ciò che hanno senza bisogno di essere punite o stimolate con la verga. E Varenne non è mai stato picchiato. Si sarebbe offeso, forse disgustato. Ciò non gli ha mai impedito di trionfare in qualsiasi ippodromo nazionale e internazionale. Un fenomeno. All'inizio della carriera Luciano Moggi, il mago del calcio, mi propose di comprare il Capitano in società, ma ne sconsigliai l'acquisto adducendo questo motivo: ha un problema ai garretti anteriori. Fu la più grande scemenza della mia vita: Varenne guarì in fretta e inanellò una serie di successi impressionante. Mi batto il petto per il pentimento. Il destriero sarebbe diventato il mio quinto figlio. Non importa. L'ho amato lo stesso, come ho amato la sua assistente, Anna, che lo ha accudito da mamma. Lui non poteva fare a meno di lei, e lei non poteva fare a meno di lui. Sono vissuti in simbiosi per quasi venti anni. E ora che la signora è costretta ad abbandonarlo perché in procinto di essere pensionato pure nel ruolo di stallone, si dispera. La comprendo. Anche io, quanto questa donna eccezionale, amo i cavalli e Varenne è un idolo. Non mandatelo in un ospizio, merita di continuare ad essere un re. Alcuni giorni orsono un mio vecchio trottatore, Rif, 28 anni, smise di mangiare poiché aveva i denti guasti. Glieli ho fatti sistemare, 3 mila euro e rotti. Ha ricominciato a nutrirsi alla grande e sta bene. Ne sono felice. Gli voglio bene. Viva i cavalli, viva Varenne, amico mio. Vittorio Feltri

Esposto in procura a Torino: "Ci sono figli illegittimi di Varenne sparsi in tutto il mondo". I proprietari del leggendario cavallo da corsa: "Il suo seme venduto senza il nostro permesso". Sarah Martinenghi il 21 giugno 2019. Il leggendario Varenne. Ha più di duemila eredi. Ma quanti figli abbia fatto esattamente, è un mistero su cui ora forse indagherà persino la magistratura. Anche questo aspetto, ossia la verifica del numero di monte e di puledri nati dal suo seme, è finito al centro della battaglia giudiziaria che ha per protagonista Varenne, il leggendario purosangue che potrebbe presto lasciare il maneggio il Grifone di Vigone, nel Torinese, dove si trova accudito da anni. La società napoletana proprietaria del cavallo dei record Varenne Futurity ha infatti presentato un esposto alla procura di Torino contro la Varenne Forever di Valter Ferrero lamentando una serie di irregolarità nella gestione del prezioso stallone. Una prima denuncia, per appropriazione indebita, è arrivata al pm Roberto Sparagna che ha già chiesto l’archiviazione del procedimento. E ora la proprietà rilancia, puntando sul giallo dei puledri nati da Varenne. L’idea della proprietà è di trasferire Varenne all’Equicenter Monteleone, una clinica veterinaria in provincia di Pavia. L’ha spiegato l’avvocato Oreste Trudi che assiste il proprietario del cavallo, Enzo Giordano.  “È questa la destinazione più probabile, in quanto è uno dei migliori centri di assistenza veterinaria in Italia, dove lavora anche il  dottor Cesare Rognoni che è il veterinario che attualmente lo segue. Giordano vuole molto bene al suo cavallo e quindi sta facendo di tutto perché abbia tutta l'assistenza necessaria e il necessario benessere”.  Il legale sostiene che Varenne non sarebbe stato trovato in ottime condizioni: “L'ultima volta che siamo andati a trovarlo, in occasione della notifica del sequestro giudiziario, non lo abbiamo trovato così bene, perché nel suo paddock c'era una fattrice con un puledro e la fattrice ed i puledri nel paddock di un cavallo anziano possono trasmettere delle malattie molto gravi. Aveva una evidente zoppia che nessuno aveva comunicato alla proprietà. Il proprietario ci è rimasto molto male, si è molto arrabbiato ed ha fatto subito intervenire il veterinario Rognoni. Alla proprietà interessa il benessere del cavallo". L’avvocato Trudi spiega poi il problema delle monte di Varenne: “Il contratto vero e proprio con Varenne Forever, che tra l'altro prevedeva il divieto assoluto del diritto di ritenzione (non possono trattenere il cavallo perché non è loro) riteniamo non esista più quantomeno dall'anno scorso, dove modificando la modalità di pagamento delle monte, sono venute fuori una serie di omissioni ed inadempimenti fatte nel corso del tempo, tra cui delle vendite effettuate per loro nome e loro conto di cessione di seme”. Ma non solo: “Abbiamo trovato puledri figli di Varenne nati in Italia e all'estero, che alla proprietà risultano completamente sconosciuti. Loro sono proprietari di 6 diritti di monta, ma sulle fatture e sui contratti hanno ceduto il seme di Varenne e non il diritto di monta (che tra l'altro ha un'aliquota diversa), hanno fatto contratti di cessione del seme di Varenne che non è di loro proprietà", ha spiegato il legale che ha sottolineato come "Varenne continuerà la sua vita normale ma senza spreco di energie e di seme. Non sappiamo quanti prelievi facessero perché siamo a conoscenza solo di quanto veniva comunicato alla proprietà. Per questo da un mese e mezzo il cavallo è sottoposto a guardiania 24 ore su 24". "Tutto ciò è stato denunciato alla Procura della Repubblica di Torino e al Tribunale di Napoli. Ora la proprietà sta ricostruendo tutti i puledri nati in Italia e all'estero da Varenne che non le risultano. I proprietari dovranno dire da chi e con quali modalità e contratti hanno acquistato il seme di Varenne. Tra l'altro la proprietà ha inviato mail e pec anche a i titolari dei diritti di monta e alcuni di essi hanno disconosciuto la fattrice abbinata al proprio diritto di monta", ha proseguito Trudi. "Purtroppo in questa ricerca non ci è stata utile la nostra associazione Anact, associazione nazionale degli allevatori di trotto, dove il presidente dell'Anact è anche l'amministratore di Varenne Forever, Valter Ferrero, a cui ho fatto personalmente una richiesta di accesso agli atti per conoscere i nati di Varenne ma purtroppo non ho avuto alcuna risposta tant'è vero che mi son dovuto rivolgere al Ministero, il Mipaaft". ha aggiunto il legale. “Non risulta alcun tipo di mistero sulle monte – spiega l’avvocato Enrico Calabrese che assiste l’allevamento Il Grifone  - per quanto ci riguarda siamo assolutamente sereni. I miei assistiti hanno già reso un ampio interrogatorio in Procura e per quel procedimento, per l’accusa di appropriazione indebita, è stata chiesta l’archiviazione”. Secondo il legale, Varenne non sarebbe stato consegnato ai proprietari perché sarebbero venuti a prenderlo con un’auto, senza garanzie e controlli sanitari. "Il cavallo ora è ancora al Grifone – racconta invece l’avvocato Trudi -  perché al giudice della procedura cautelare il veterinario residente al Grifone sottolineava l'esistenza di norme sanitarie, senza indicarne quali fossero, per le quali il cavallo se spostato in qualunque altro centro di produzione seme sarebbe stato obbligato a sospendere la sua attività di stallone per il periodo di quarantena obbligatorio e sottoposto a nuovi esami del effettuare da parte dell'Asl locale, come se una Asl non riconoscesse gli esami di altre Asl, e avvertendo che in questo modo si sarebbe persa una consistente parte della stagione di monta in corso. Io spero che quanto prima il cavallo venga sbloccato e la legittima proprietà ritorni nel possesso materiale del proprio cavallo".

·        Il Marketing degli animali.

Una «balena-spia» russa fermata (e liberata) in acque norvegesi. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Corriere.it. Una balena bianca, trovata da pescatori norvegesi in acque artiche, fasciata con una stretta imbragatura di fabbricazione russa ha messo in allarme i militari di Oslo che temono che l’animale possa provenire da una base militare russa e far parte di un programma finalizzato a usare i mammiferi come «forza speciale» nelle acque polari. Il tipo di bardatura attorno al corpo dell’animale - una serie di cinghie fissate al corpo del cetaceo con una fibbia - è compatibile con i sostegni per una telecamera-spia, dicono i pescatori che gettano le reti nelle acque vicino al villaggio norvegese di Inga. Il beluga sembrava addomesticato e abituato agli esseri umani, hanno dichiarato i pescatori all’agenzia Nrk. Il cetaceo si è avvicinato docilmente alla barca e i pescatori hanno potuto liberarlo dalle cinghie. All’interno di esse hanno trovato la scritta «Equipaggiamento di proprietà di San Pietroburgo». Audun Rikardsen, professore presso il Dipartimento di biologia marina e artica presso l’Arctic University of Norway a Tromsoe, nel nord della Norvegia, ritiene «molto probabile che sia coinvolta la marina russa», che ha importanti strutture militari a Murmansk e dintorni nella penisola di Kola, nell’estremo nord-ovest della Russia. Non è però chiaro per che cosa fosse addestrato il mammifero. La Russia non ha una storia di utilizzo delle balene per scopi militari, però l’Unione Sovietica ha avuto un programma di addestramento per i delfini e le foche. L’Unione Sovietica utilizzò una base a Sebastopoli nella penisola di Crimea durante la Guerra Fredda per addestrare i mammiferi a scopi militari come la ricerca di mine o altri oggetti e la messa a dimora di esplosivi. La struttura in Crimea fu chiusa dopo il crollo dell’Unione Sovietica, anche se rapporti anonimi poco dopo l’annessione russa della Crimea indicavano che era stata riaperta.

GORILLA MARKETING. Giacomo Talignani per “la Repubblica il 29 aprile 2019. «È una foto di famiglia importante perché sta tenendo alta l' attenzione sui gorilla». A parlare a Repubblica è Mathieu Shamavu, il ranger congolese autore dell' ormai famosissimo selfie dei gorilla. In primo piano c'è proprio lui, che si definisce «uno dei due papà», appena dietro in una posa estremamente rilassata sfila Ndakanzi, gorilla femmina di dodici anni, che sembra infilare le mani nelle tasche che non ha. Poi c' e Ndeze, anche lei di 12 anni, ripresa mentre fissa curiosa l' obiettivo, e più in fondo si intravede il ranger Patrick, l' altro papà. Uno scatto a suo modo unico che racchiude tutta l' umanità di due gorilla che hanno vissuto nella loro infanzia qualcosa di disumano. Ma anche quella di ranger premurosi che si impegnano ogni giorno per aiutarli. «Copiano i nostri movimenti, ci imitiamo a vicenda. Ci seguono» dice Shamavu. «È una foto che ci sta dando una mano: adesso riceviamo l' attenzione di tutto il mondo sul problema del bracconaggio. Sono felice di averla scattata. Per me non è cambiato nulla, magari in futuro questo mi ricompenserà in qualche modo, non lo so, ma l' importante è che ora si parli dell' importanza della conservazione». Shamavu racconta del gran numero di complimenti che gli arrivano sui social: andrebbero girati a loro, alle due gorilla femmine, quasi due figlie per lui. Il ranger ha scattato quella foto il 18 aprile, in un giorno di vita normale, di famiglia. Vive con loro, quel posto è il suo "ufficio": gli prepara la colazione alle 7 di ogni mattina e a sera "rimbocca" per loro un letto di foglie (commestibili). Sostiene che sono come dei bambini da tenere d' occhio, da proteggere. Vorrebbe insegnargli a sopravvivere nel loro habitat naturale, ma è inevitabile che "finiscano per imitare i nostri comportamenti». Entrambi gli orfani si trovano nell' unica struttura al mondo per il recupero dei gorilla di montagna, il centro Senkewekwe di Rumangabo nel parco nazionale del Virunga, nella Repubblica democratica del Congo. Qui sono arrivate nel 2010 da Goma: le avevano trovate sole, una ancora abbracciata alla madre assassinata dai bracconieri, l' altra impaurita dopo aver perso la sua famiglia sterminata dai cacciatori. Quando sono entrate nel centro avevano poco più di due mesi: si sono riprese anno dopo anno grazie alle cure dei responsabili. Altri due gorilla salvati per essere curati da alcune malattie non ce l' hanno fatta. Non è il primo selfie che Mathieu si è fatto con i due gorilla, solo che questo è venuto particolarmente bene, roba da migliaia di like. Aveva in mano lo smartphone, si è accorto che i due primati lo guardavano e imitavano e ha scattato. Si sono messi in posa, proprio come lui. Dice: «La foto ha fatto il giro del mondo. Non so se abbia portato più donazioni, ma spero che lo farà, ne abbiamo proprio bisogno per il centro». Per continuare a garantire un futuro ai gorilla, animali a rischio estinzione. Nel Virunga, grazie alle buone pratiche di conservazione, i gorilla stanno tornando ad aumentare. Ma non è stato affatto facile. Sono anni che il parco vive in una situazione di conflitti: dalla guerra civile alle mille difficoltà per arginare tutti coloro che vogliono sfruttare una montagna ricca di risorse. Proprietari terrieri, bracconieri, minatori, contadini: i responsabili hanno dovuto battagliere con tutti per preservare il parco. Mesi fa è stato chiuso, dopo che un ranger è stato ucciso e tre turisti sono stati tenuti prigionieri, ma a febbraio ha finalmente riaperto. Ora, anche grazie al gorilla-selfie, Shamavu spera che il mondo continui ad aiutare la causa dei papà ranger «mantenendo alta l' attenzione sul Virunga e i gorilla». Come scrive sui social, «c' è bisogno anche dell' impegno di tutto il Congo» per frenare deforestazione, bracconaggio e malattie che minacciano questi fragili primati così "umani".

·        La ricetta elettronica.

CAOS ANIMALE. La ricetta elettronica. Margherita D' Amico per “la Repubblica” il 10 maggio 2019. Si chiama Rev, ricetta veterinaria elettronica, dal 16 aprile ha sostituito in via definitiva la vecchia ricetta cartacea in virtù della Legge 20 novembre 2017 n.167 (Legge europea 2017) Art.3, ed è già impopolare. Soprattutto fra i padroni di animali d' affezione, equiparati agli esemplari destinati alla macellazione da un provvedimento concepito per una maggiore tracciabilità dei farmaci somministrati. Cani, gatti, cavalli, uccelli, mucche e maiali non potranno più accedere alle medicine attraverso un' indicazione vergata a penna su carta intestata del medico veterinario. Bisogna che il dottore compili un modello informatico complesso indicando con precisione farmaco, dosi e tempi di sospensione, ragioni della terapia, dati di proprietario e animale, fino a generare un codice pin. L' operazione è lunghetta e ha un costo. Molti ambulatori hanno stabilito infatti che il tempo speso per compilare la Rev, quando la ricetta sia richiesta al di fuori di una visita, debba essere risarcito con cifre variabili fra i 5 e i 15 euro. E nell' obbligo dell' aderenza ai bugiardini non saranno più consentite prescrizioni per risparmiare, frazionando ad esempio fra più animali compresse di dosaggio superiore a quella prevista. È sconsolata Gloria, gattara romana: «Oltre alle medicine ci mancava di pagare la ricetta! Dimenticano, al Ministero, che a parità di molecola i farmaci veterinari costano anche venti volte di più di quelli a uso umano, e le visite sono tassate con l' iva al 22 per cento?». Benché la Direzione generale della sanità animale e dei farmaci animali del ministero della Salute abbia replicato all' ondata di proteste dichiarando che "il tempo medio necessario per una prescrizione tramite postazione fissa è stato pari a 3 minuti e tramite App è risultato essere di circa 2 minuti" e "il medico veterinario dovrebbe ugualmente non farsi pagare" a detta generale la compilazione di una Rev richiede fra i 7 e i 10 minuti, se non di più. Lungaggini fatali in emergenza: «Quando mi chiamano alle due del mattino per un cane in difficoltà, se prima in un lampo mandavo il proprietario in farmacia, ora devo collegarmi al sistema e stare attento a non derogare da indicazioni molto rigide», commenta Luca Lombardini, medico veterinario a Trento e vicepresidente nazionale di Lndc-Animal Protection. Per chi sbaglia, le sanzioni sono salate: «Tremila euro a confezione per il farmacista e qualcosa di simile per il veterinario», spiega Massimo Mana, farmacista rurale a Cuneo e presidente di Federfarma Piemonte. «Nella banca dati cui il veterinario attinge per compilare la ricetta elettronica, sono stati inseriti tutti i farmaci registrati, un numero superiore a quelli realmente in commercio. Di uno stesso prodotto esistono varianti, ma il codice richiesto è univoco e il medico non ha modo di distinguerlo. Con la ricetta cartacea potevamo dare il farmaco realmente disponibile, con l' elettronica di mezzo non ci è più consentito». «Quando ti trovi in una scuderia in campagna senza Internet e devi fare una ricetta, magari urgente, oggi devi cambiare zona», ironizza Valerio Serata, chirurgo ippiatra nel Lazio. «Ormai per prescrivere 20 vermifughi ti tocca trascrivere i codici dei microchip di altrettanti cavalli: animali a uso sportivo, non macellabili. Sarebbe stato più logico incrementare controlli e sanzioni sulla salubrità dei più sfortunati avviati alla produzione alimentare».

·        I Farmaci Veterinari.

Moreno Morello su Striscia la Notizia del 16 aprile 2019 ci parla del costo dei farmaci veterinari per i nostri animali da compagnia.

“Prezzi elevati per i farmaci veterinari? L’Italia spieghi all’Europa le peculiarità del nostro sistema”. Angelo Troi (segretario nazionale SIVeLP): «La distinzione fra farmaco veterinario e quello umano è qualcosa che, per gli animali da compagnia, ha senso solo in termini di mercato», scrive il 18/04/2017 Fulvio Cerutti su La Stampa. L’elevato prezzo dei farmaci veterinari è legato non solo alle dinamiche di mercato, ma anche all’attuale normativa che impedisce ai medici veterinari la libertà di prescrizione del medicinale più efficace nella cura del proprio paziente e meno oneroso per il suo proprietario. Il Sindacato dei Veterinari Liberi Professionisti (SIVeLP) da tempo chiede che l’Italia spieghi la peculiarità della vendita dei prodotti veterinari sul nostro territorio nazionale rispetto alla situazione del sistema degli altri Paesi europei.

Angelo Troi, segretario nazionale del SIVeLP, perché il “meccanismo a cascata” viene utilizzato in Europa?

«Perché negli altri Paesi europei la vendita del farmaco viene data in mano al veterinario. Se andiamo in una clinica francese per animali troveremo il veterinario che lo visita e lo cura, l’infermiera che lo segue e la vendita dei prodotti farmaceutici all’interno della struttura. Data questa situazione, è normale che nel resto d’Europa i veterinari debbano distinguere fra i farmaci umani e quelli veterinari. Se così non fosse, dovendo vendere i medicinali, il veterinario si troverebbe a dover tenere una gamma di prodotti troppo vasta.

In Italia invece la vendita di medicinali è riservata alle farmacie. Queste strutture vedono lo Stato in posizione debitoria nei loro confronti perché anticipano i farmaci a uso umano che passano al cliente dietro ricetta. Data questa situazione, diversa da quella di altri paesi europei, è normale che le farmacie sostengano che la vendita dei farmaci veterinari debba passare da loro. E come tale è anche normale che il medico veterinario e il medico di medicina umana che lavorano nel loro ambulatorio non siano tenuti a dare il farmaco al cliente».

Ma perché il veterinario dovrebbe poter prescrivere il “farmaco umano”?

«Vista la particolarità del sistema italiano, esistono almeno due motivi per permettere ai veterinari di prescrivere un farmaco umano: il primo è quello economico. Ci sono dei casi in cui il farmaco veterinario è molto simile, se non addirittura identico, a quello umano ma la scatola è diversa. In questo caso il farmaco veterinario, che ha un mercato minore, ha dei prezzi ben maggiori. Ma a nostro parere il cittadino non deve essere obbligato a spendere di più. Poi c’è un problema scientifico: molto spesso un veterinario partecipa a un convegno dove vengono presentati dei nuovi principi attivi utilizzabili per curare gli animali, ma questi non sono ancora disponibili nei farmaci veterinari. L’attuale normativa mette in crisi il veterinario perché per una determinata patologia lo obbliga a usare solo il medicinale attualmente disponibile»

Come potrebbe cambiare la situazione?

«L’attuale normativa può essere modificata da un regolamento europeo. Però lo Stato italiano dovrebbe far capire all’Unione che il nostro sistema funziona in modo diverso dagli altri Paesi. Per quanto l’Europa preveda un regolamento che vincola l’uso del farmaco a determinate figure e in determinate maniere, questo vincolo ha senso se parliamo di animali da reddito e se parliamo di molecole che possono aumentare i rischi di farmaco-resistenza, ma non ha alcun senso se applicata alle differenze animale-uomo. Dire che l’animale è diverso dall’uomo vuole dire porre una specie, quella dell’uomo, a confronto con milioni di specie, il numero delle quali non conosciamo neanche con esattezza. È evidente che persino una semplice soluzione fisiologica – registrata per uso veterinario – non può essere stata testata su tutte le specie per le quali ne è invece stato giuridicamente autorizzato l’utilizzo. Quindi la distinzione fra farmaco veterinario e farmaco umano, dal punto di vista del nostro sindacato, è qualcosa che, per gli animali da compagnia, ha senso solo in termini di mercato».

Quanti farmaci veterinari potrebbero essere “sostituiti” da quelli umani?

«È difficile rispondere a questa domanda perché dipende molto dai settori. Per quanto riguarda gli antiparassitari e i prodotti contro i vermi intestinali, il settore veterinario prevede una gamma di farmaci enormemente superiore a quella per il settore umano. Poco tempo fa i dottori si lamentavano che in medicina umana esiste un unico vermifugo, mentre in medicina veterinaria ne abbiamo a decine.

Viceversa in altri settori, come la cardiologia o per i problemi neurologici, siamo nella situazione opposta: ne esistono molti per uso umano, mentre per l’uso veterinario magari ne esiste uno solo ed è sul mercato da decine di anni. In umana c’è stato un grande miglioramento che può essere applicato in veterinaria. Ma sul mercato non esistono perché sono patologie occasionali per cui l’azienda che registra il prodotto e che per questo sopporta un costo significativo, poi non si trova nella condizione di poterli o doverli cambiare. Dal punto di vista aziendale è un ragionamento corretto, ma dal punto di vista della medicina no: l’interesse di un medico veterinario è quello di arrivare a una terapia efficace».

Un’ultima domanda: spesso si parla di farmaci “generici” anche per il settore dei medicinali veterinari. È una soluzione praticabile?

«Noi normalmente parliamo di “un’invenzione”. Quando in medicina umana una determinata molecola esce dal periodo del brevetto ci sono altre aziende che possono produrre lo stesso principio attivo e spesso i costi vanno a scendere rispetto alla situazione precedente. Pensare che si possa creare un generico veterinario probabilmente è un’enorme bufala: il mercato del farmaco veterinario è molto ridotto rispetto a quello a uso umano (in un rapporto di 1 a 10) ed è inimmaginabile che un’azienda, una volta terminato il brevetto, si metta a produrre dei farmaci veterinari e che questo possa andare a ridurne i costi sul mercato così come succede per il settore umano». 

Farmaci per cani: uguali ai nostri, costano il triplo, scrive il 18 marzo 2015 L'Inkiesta. Curare il nostro cane costa molto, più di quanto spendiamo per noi. Il prezzo dei farmaci veterinari in Italia è in media il triplo rispetto a quello delle pastiglie destinate all’uomo. Nonostante, in molti casi, il principio attivo sia identico. Prendiamo ad esempio il Fortekor, contro l’ipertensione di cani e gatti. Costo della confezione: 15 euro circa. Il principio attivo della medicina è il benazepril cloridrato. Che, se comprato per l’uso umano, ha un prezzo di 5 euro. A parità di dosaggio. Tradotto: la stessa molecola da usare per gli animali costa tre volte di più. Il mercato delle medicine per cani, gatti, pesci e uccelli nel nostro Paese vale quasi 500 milioni di euro. Ed è in continua crescita, visto che ormai quasi la metà degli italiani vive con un animale domestico in casa. Tra cure e farmaci, gli animali ci costano in media cento euro all’anno, ma un terzo dei proprietari italiani paga almeno due o tre volte tanto. Il mercato italiano è colonizzato dalle divisioni veterinarie delle multinazionali, che mantengono alti i prezzi e raramente propongono anche prodotti generici a un costo più basso. Da tempo la Commissione europea sta lavorando a una regolamentazione del mercato. E di recente il deputato del Partito democratico Michele Anzaldi ha chiesto all’autorità Antitrust di aprire un’indagine sul settore. L’Enpa, Ente nazionale protezione animali, ha anche lanciato una petizione per chiedere al ministro della Salute Beatrice Lorenzin di rendere obbligatoria la prescrizione medica del principio attivo, anziché la marca del medicinale, anche per i farmaci destinati all’uso animale. Il problema sta nella normativa che regola l’uso e la prescrizione dei farmaci veterinari. La legge prevede che i veterinari non possano prescrivere farmaci per uso umano nel caso in cui siano disponibili medicinali veterinari con le stesse indicazioni terapeutiche. Il veterinario, “sotto la sua diretta responsabilità”, può prescrivere l’“uso in deroga” dei farmaci umani solo nel caso in cui non esistano medicinali veterinari destinati a curare una determinata patologia «al fine di evitare all’animale evidenti stati di sofferenza». Per tutto il resto, ci sono medicine veterinarie che possono costare anche il 100% in più. Qualche veterinario, in realtà, davanti alla forbice dei prezzi sempre più ampia, consiglia ai pazienti i meno costosi principi attivi destinati all’uso umano. Ma sempre sotto banco, rischiando multe da 1.549 a oltre 9mila euro. Il sindacato italiano dei veterinari, Sivelp, ha creato un sito, farmacoveterinario.it, in cui è possibile confrontare i prezzi dei farmaci veterinari e quelli dei farmaci umani. Un esempio su tutti, riportato anche dal deputato Marco Anzaldi nella sua lettera all’Antitrust, è quello dei flaconi da 500ml della soluzione glucosata, anche detta “acqua zuccherata”. La soluzione veterinaria costa il 10% in più rispetto a quella per uso umano e la scadenza è inferiore di un anno. «Questo evidenzia ulteriormente, ove ve ne fosse bisogno», spiega Anzaldi, «l’anomalia che nel nostro paese riguarda il prezzo dei farmaci per animali partendo da una delle cose più semplici, quale la soluzione glucosata». Un altro esempio è il farmaco contro il vomito, problema molto comune tra gli animali. In medicina umana il principio attivo, la metoclopramide, è disponibile come Plasil a 1,89 euro per scatola. In veterineraia è disponibile come Vomend. Prezzo: 19 euro. I prezzi dei farmaci veterinari, spiega Marco Melosi, presidente dell’Associazione nazionale medici veterinari (Anmvi), «sono determinati dalle dinamiche del mercato, in relazione a costi di produzione, autorizzazione all’immissione in commercio e rapporto domanda-offerta, caratterizzato da un mercato di dimensioni sensibilmente inferiori rispetto a quello dei medicinali umani». Il settore è spartito tra pochi nomi, quasi tutti afferenti alle grandi multinazionali della farmaceutica: i più noti sono la divisione veterinaria della Bayer, la MSD Animal Health (Merck), Merial (Sanofi) e Zoetis (Pfizer). Ma si sta sviluppando anche una branca della farmaceutica specializzata solo nella produzione dei farmaci veterinari. Sul sito del ministero della Salute si trova l’elenco degli stabilimenti italiani autorizzati: al 31 dicembre 2014 sono in tutto 77. Trattandosi di un mercato con pochi competitor, i prezzi possono essere tenuti alti. Ma a differenza dei farmaci autorizzati all’impiego nell’uomo, per i prodotti veterinari non ci sono coperture da parte del Sistema sanitario nazionale. Il costo è tutto a carico del proprietario dell’animale. E i generici veterinari sono una rarità. L’unica opportunità di risparmio, in realtà poco conosciuta, resta la possibilità di detrazione fiscale delle spese veterinarie a fronte della presentazione dello scontrino con codice fiscale (come avviene per i farmaci umani). Dal ministero della Salute, lamentano gli addetti ai lavori, sul fronte veterinario c’è poca attenzione. E la situazione rischia di sfuggire di mano: davanti ai costi insostenibili, aumentano le cure fai da te con i farmaci per uso umano, con tutti i rischi che questo comporta. A partire dai dosaggi. Perché la soluzione non è somministrare i farmaci per uso umano ai nostri animali. «La formulazione veterinaria è comunque preferibile», spiega Melosi. «Alcuni principi attivi somministrati in organismi che hanno apparato digerente diverso possono richiedere un diverso veicolo che renda efficace il loro assorbimento da parte dell’organismo animale. Inoltre il farmaco veterinario ha delle specificità riguardo la palatabilità del medicinale e le modalità di somministrazione». Del tutto diversi sono anche i foglietti illustrativi con avvertenze, controindicazioni e interazione con gli altri medicinali. «È da escludersi ogni ricorso fai da te della scelta terapeutica», raccomandano. La Commissione europea da qualche mese sta lavorando a un nuovo regolamento sui medicinali veterinari, atteso per il 2016, che punta all’allargamento dei farmaci e a una maggiore produzione di generici da parte delle aziende. «L’orientamento», spiega Melosi, «è di utilizzare le leve del mercato del farmaco veterinario, allargandolo e ragionando non più solo in termini di mercato nazionale ma di mercato europeo, fino a considerare la possibilità di approvvigionamento online dei farmaci veterinari. L’obiettivo è di aumentare la disponibilità e le specialità medicinali a uso veterinario, e nello stesso tempo favorire un impiego sempre più razionale e consapevole. Rendere meno ingessato il mercato del farmaco veterinario, favorendone lo sviluppo, contribuirà indirettamente anche al contenimento dei prezzi».

Stesso principio attivo, prezzo 80 volte più alto: perché i farmaci veterinari costano tanto? Scrive Maria Gabriella Lanzali su kataweb.it il 3 dicembre 2015. Le medicine per gli animali hanno un costo altissimo, eppure spesso contengono le stesse sostanze dei farmaci a uso umano. In una lettera al ministero della Salute i veterinari chiedono di poter prescrivere “secondo coscienza”. Hanno stesso aspetto e principio attivo dei nostri farmaci, ma le medicine per cani e gatti costano anche 80 volte di più rispetto a quelle per l’uomo. Lo denunciano da tempo i veterinari e il mondo delle associazioni: solo un mese fa 200 medici hanno scritto al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e all’Aisa, Consorzio di aziende italiane e multinazionali produttrici di farmaci per la salute animale, per chiedere di fermare “l’incredibile lievitazione dei prezzi”. Un appello caduto nel vuoto. Una differenza abissale. Secondo gli ultimi dati Eurispes quattro italiani su dieci possiedono un animale. Quando però il nostro amico a quattro zampe si ammala, far fronte alle spese mediche può diventare un vero salasso. Ad esempio una confezione di Metacam, farmaco che allevia i dolori muscolo-scheletrici, da 1,5 mg/ml ha un prezzo di 52,33 euro, il suo corrispettivo umano 4,90 euro. Il Ketoprofene, un comune antiinfiammatorio, in farmacia costa poco più di tre euro, quello per gli animali 17 euro. E ancora: per la morfina, indispensabile per sopportare il dolore post chirurgico, si spende cinque volte di più. Tra gli antibiotici più usati c’è l’amoxicillina al costo di 4 euro, una cifra che si quadruplicano per i nostri animali (16,80 euro). Per sei fiale di Vitamin K1 Laboratoire TVM, prescritto quando il nostro gatto ingerisce veleno per topi, costa 82 euro, quattro volte in più del Konakion per uso umano. E l’elenco potrebbe continuare. A questo si aggiunge il fatto che i medicinali generici in veterinaria non esistono: il medico è obbligato, infatti, a indicare nella ricetta il nome commerciale del prodotto e non il principio attivo come avviene per i nostri farmaci. Perché costano di più. “Le ragioni per cui le medicine per cani e gatti hanno un prezzo maggiore sono semplici: prima di tutto ci sono dei costi molti alti per ottenere il via libera alla commercializzazione”, spiega Marco Melosi presidente Anmvi, associazione nazionale medici veterinari italiani. “L’azienda farmaceutica deve presentare un dossier al Ministero in cui si certifica l’efficacia del farmaco. Sono documenti che costano anche decine di migliaia di euro perché frutto di una sperimentazione. Le case di produzione per recuperare le spese di ricerca alzano il prezzo. Inoltre, il mercato dei farmaci veterinari è più ristretto: rappresenta il tre per cento di quello umano”. Nel 2013 la spesa per la cura degli animali è stata di 600 milioni di euro, a fronte di 26,1 miliardi per la salute umana. Alcuni farmaci devono avere un sapore particolare per invogliare il cane o il gatto ad ingerirli. “A volte il principio attivo è inserito all’interno di tavolette che hanno un buon gusto e facilitano la somministrazione ma questo fa aumentare i costi di produzione. Quello che non capiamo è perché alcune aziende riescono a contenere i prezzi mentre altre no e arrivano a far pagare una confezione anche 20 volte di più”, afferma Melosi. Manca, infatti, il corrispettivo dell’Aifa, Azienda italiana del Farmaco, che vigili e regoli il mercato: “Questo ente ha il compito di stabilire il prezzo delle medicine che compriamo in farmacia e impone un limite massimo oltre il quale non si può andare. In veterinaria tutto questo non esiste”. 

Cosa chiedono i veterinari. Il Decreto Legislativo n.193 del 2006 che regola l’uso e la prescrizione dei farmaci veterinari parla chiaro: i medici non possono prescrivere le medicine per gli uomini agli animali, anche se hanno lo stesso principio attivo. La sanzione per chi trasgredisce va dai 1.549 euro ai 9.296 euro. “Non siamo contro il farmaco animale, ma quando un prezzo non trova giustificazione è difficile da parte nostra sostenere queste politiche”, continua Melosi. Il sindacato italiano veterinari liberi professionisti, Sivelp, chiede da tempo di poter scegliere secondo coscienza quale prodotto prescrivere e di liberalizzare il farmaco veterinario a parità di molecola.

·        Che orrore la corrida delle lacrime.

Che orrore la corrida delle lacrime. Matador asciuga il pianto del toro e lo uccide. E la Spagna s'indigna. Oscar Grazioli, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. Ci sono pochi spettacoli più crudeli della corrida. Uno di questi è la corrida, quando il torero è inesperto o vuole umiliare il toro. Le immagini del video stanno facendo il giro del mondo che risponde dapprima incredulo (sarà una fake news?) e poi, constatato che si tratta della pura realtà, con indignazione e rabbia nei confronti del carnefice, mentre una commossa compassione sorge spontanea nei confronti della vittima. Siamo all'arena della Real Maestranza di Siviglia si svolge una delle tante corride che insanguinano ancora grande parte della Spagna e pochi altri paesi nel mondo. Il protagonista, il matador si chiama Josè Antonio Morante Camacho, noto oggi come Morante de la Puebla e speriamo dimenticato dalla storia. Siamo alla fine dello «spettacolo» e le immagini ci mostrano un toro ormai quasi fermo che dondola leggermente la coda e fa qualche piccolo passo malfermo perché implacabilmente sfinito dai picadores che gli hanno piantato quattro banderillas sui fianchi. Il groppone è un grumo di sangue coagulato, gli occhi sono stanchi, la testa è piegata e le corna toccano quasi l'arena, mentre il collo fa un movimento lentissimo laterale, quasi a volersi sottrarre da ulteriori crudeltà. É l'immagine di chi è vinto e vorrebbe chiedere la grazia di essere lasciato stare o forse di morire prima possibile. Di fronte, con atteggiamento pomposo c'è lui, il matador, lo sguardo che non tradisce commozione, di incertezza, dritto spietato in quegli occhi sofferenti. Quasi immobile, attende che il pubblico assapori il momento finale, accompagnando i gesti impercettibili come fosse un essere divino con potere di vita o di morte, come una di quelle statue viventi che vediamo nelle piazze muoversi nell'armonia della lentezza, quasi il tempo si stesse fermando. Mentre la mano sinistra tiene bassa la muleta, il drappo rosso con cui ha provocato e fiaccato l'animale, improvvisamente la mano destra corre a una tasca da dove Josè Antonio Morante, estrae un raffinato fazzoletto bianco con il quale asciuga gli occhi del toro e deterge dal sangue le froge che emettono una schiuma scarlatta. Qui, per fortuna, si ferma il video che ci risparmia ulteriori scene di scherno e crudeltà, lasciandoci solo immaginare che, per quella povera bestia, la fine sia arrivata entro brevissimo tempo. Se Josè Camacho voleva lasciare, nella storia della corrida, segno di sé, c'è ampiamente riuscito e se invece, con quel gesto plateale, voleva donare un tocco di grazia alla corrida, ha fallito completamente il suo scopo perché i milioni di persone che lo stanno vedendo, sono ancora più convinti che questo è uno spettacolo talmente crudele che si fa fatica a credere venga ancora rappresentato nelle arene di paesi da tutti considerati civili. Un'altra cosa Josè Camacho ci ha dimostrato, senza volerlo. Che anche i tori umiliati sanno piangere.

·        Gli animali che maltrattiamo.

I campioni della fedeltà sono i cani eroi del ponte Morandi. Premiati i 22 «angeli del soccorso» di Genova E chi salvò il padrone con una premonizione. Nadia Muratore, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Per la prima volta in 62 anni, il «Premio Internazionale Fedeltà del Cane» - la manifestazione che si svolge a San Rocco di Camogli, in provincia di Genova - si è concluso con un ex aequo. Willi - pinscher di due anni e mezzo - si è aggiudicato la coccarda del «Primus inter pares», ossia primo tra i primi, fra tutti i quattrozampe che si sono distinti con le loro azioni di coraggio e lealtà, nei confronti degli umani. Con lui, sono stati considerati i migliori tra i migliori, anche gli «Angeli del soccorso», cioè tutti i cani che hanno operato sulle macerie del Morandi, il ponte crollato poco più di un anno fa a Genova. Furono 43 le vittime, ma molte delle persone scampate alla tragedia, devono la loro vita proprio ai tanti cani del soccorso che, insieme ai loro conduttori, le hanno estratte da sotto i resti del ponte. Una cerimonia commovente che ha saputo mescolare nella giusta maniera, il ricordo di chi non ce l'ha fatta, il coraggio dei soccorritori a quattrozampe e la gioia di chi invece è scampato al crollo del Morandi. Grande protagonista, il simpatico Willi, che ha conquistato il pubblico con il suo scodinzolare felice accanto a Enrico Cardia, il suo papà umano che ha salvato dal crollo di un edificio a Cagliari. «Se sono ancora vivo, lo devo al mio Willi - ha spiegato commosso Cardia -. È solo grazie al suo istinto, se sono riuscito a fuggire dalla mia falegnameria qualche secondo prima che crollasse. Abbaiando e sbarrandomi la strada, mi ha avvertito del pericolo salvandomi la vita». Con Willi hanno ricevuto la coccarda degli eroi anche Aki di Simonetta Ambrosini di Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara e Yaska del torinese Alessandro Acotto che con il loro abbaiare hanno messo in fuga i ladri; Lea e Billy di Cosimo Buccoliero della provincia di Taranto che hanno trovato un anziano caduto in un bosco. E poi Biagio che, dopo aver vegliato per ore il suo compagno di giochi travolto da una vettura, ha atteso per una ventina di giorni il ritorno della sua amata padrona Nicoletta Lodde di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso. Scott, il golene retriever che con il conduttore di Savona Giovanni Bozzano ha salvato una coppia ed il loro cane da sotto le macerie del terremoto di Amatrice nel 2016 e poi il bellissimo pastore tedesco femmina Annie in forza alla Guardia di finanza di Genova che, in una inedita accoppiata tutta al femminile con il suo conduttore Arly Tarantino e il suo istruttore Corrado Di Pietro ha fatto arrestare cinque persone per detenzione e spaccio di stupefacenti. E infine la mascotte del IV Reggimento Carabinieri a Cavallo di Roma, con il suo istruttore Fabio Tassinari, simpatica protagonista di un siparietto inedito quando, nel 2015 diede il suo personale saluto al presidente Mattarella durante il suo insediamento. Rompendo tutti gli schemi, corse davanti a lui per esibirsi in una capriola, strappandogli un sorriso tra l'imbarazzo ed il divertito. Sono stati ventidue gli «Angeli del soccorso» intervenuti sulle macerie del ponte Morandi, premiati durante la manifestazione di Camogli, appartenenti ai corpi del Nucleo Cinofilo Regionale Liguria Vigili del Fuoco, Nucleo Cinofilo Regionale Toscana Vigili del Fuoco, Polizia di Stato, Squadra Cinofili di Genova, Unità cinofile SAGF (Soccorso Alpino della Guardia di Finanza) - Regione Piemonte. Tra loro, Zoe - golden retriever di appena due anni - al suo primo intervento con il responsabile tecnico del Nucleo cinofilo regionale Liguria vigili del fuoco e il cane da ricerca Night Spirit, un pastore australiano in forza alla Polizia di Stato, che ha ricevuto il premio di Camogli per la seconda volta e che, con la sua conduttrice Laura Bisio è stato il primo soccorritore a quattrozampe ad operare tra i detriti e la disperazione del Morandi.

Milano, il pappagallo  di «Portobello» va  a intasare la Procura. Pubblicato mercoledì, 19 giugno 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Giusto non minimizzare il fenomeno di chi maltratta gli animali: ma a volte il confine, tra una denuncia un po’ precipitosa e la fuffa integrale che intasa le Procure, si fa troppo labile. A fine ottobre 2018, mentre uno spot in Rai lancia la nuova edizione di «Portobello» con Antonella Clerici, un’associazione animalista sporge denuncia contro ignoti per il supposto maltrattamento dell’eponimo pappagallo. E così si son dovuti mettere al lavoro un Nucleo Cites di polizia giudiziaria, un pm del pool (Sara Arduini) e un medico veterinario comportamentista (Susanna Pastori) per accertare ora - con filmati, sopralluogo e visite - che il pennuto, oltre che in ottimo stato di pulizia e nutrizione, era anche «dal punto di vista psichico altamente equilibrato, ottimamente socializzato e indifferente ai rumori». E il nastro scotch che, a detta dei denuncianti, gli chiudeva crudelmente il becco? Un equivoco totale: frutto dell’aver scambiato per scotch quella che invece era solo una macchia di colore particolare ma naturale. 

Il cagnolino affogato in Inghilterra  e gli altri animali  che maltrattiamo. Pubblicato mercoledì, 27 marzo 2019 da Costanza Rizzacasa d'Orsogna su Corriere.it. Aveva ferite aperte sulle zampe anteriori e posteriori, e una busta piena di mattoni legata intorno al collo per impedirgli di risalire in superficie. È morto così, nel più crudele dei modi, un cagnolino a Spalding, Inghilterra. Trovato in fondo a un fiume un paio di giorni fa da un appassionato di pesca col magnete. Cercava un tesoro, ha tirato su il corpo ricoperto di fango e in decomposizione di un cuccioletto caduto preda dell’orco di turno. Non era un randagio, aveva un collarino rosso. Forse si era perso, forse non lo voleva più nessuno. «Qualcuno ha perso un cane con un collarino rosso?», ha scritto su Facebook il cercatore di tesori, non sapendo forse che altro dire, perché tale è l’enormità dell’orrore. Quanta paura deve avere avuto, quel povero cagnolino, quanto terrore. Non subito, certo. Perché i cani si fidano fino all’ultimo, è la loro natura e la loro disgrazia, e forse quel cagnolino, un terrier, aveva anche gioito credendo di aver trovato un nuovo amico, o forse l’orco ce l’aveva in casa. Avrà pensato a un nuovo, strano gioco mentre l’orco riempiva di mattoni quella busta? Ma poi ecco il terrore, mentre l’orco gli avvolgeva la busta attorno al collo e la stringeva, e il cagnolino si sentiva soffocare, e poi l’orco che lo lanciava in acqua, e i mattoni che inesorabilmente lo tiravano giù, e il cane che guaiva, mentre i polmoni gli si riempivano d’acqua, e agitava le zampine senza poter far nulla, per poi sprofondare nell’acqua e nel fango. No, non era un gioco, è la morte. Un mio amico dice che non riuscirebbe mai a prendere un cane perché la generosità dei cani, quella capacità di donarsi interamente, di mettere la vita del proprio umano davanti alla propria, lo spaventa. Forse esagera, ma non è un luogo comune dire che i cani non ce li meritiamo. Tu gli dai un giaciglio, qualche boccone buono, e loro in cambio ti danno la vita. Quando stai male o sei depresso lo sanno prima di te e non lasciano il tuo fianco; riescono perfino ad individuare malattie come il diabete, il Parkinson e certi tipi di cancro, prevengono le crisi epilettiche, sono un conforto per i bambini autistici e per chi soffre di stress post-traumatico. Mentre noi i cani li lanciamo dai balconi, li affoghiamo come il terrier di Spalding, li massacriamo a martellate, li facciamo combattere e uccidersi tra loro per guadagnarci sopra, in certi Paesi li scuoiamo vivi e li mangiamo, li torturiamo per vincere stupide corse con le slitte. Basterebbe, a questo proposito, leggere Il richiamo della foresta di Jack London (1903), attivista per gli animali più di un secolo fa, per conoscere le orrende violenze perpetrate sui cani da slitta. E però, più di un secolo dopo, corse come quelle dell’Iditarod - quasi mille miglia tra Anchorage e Nome, in Alaska - continuano, e più di 150 cani sono morti durante la corsa da quando questa è stata istituita, nel 1973. L’ultima, la cagnolona Oshi, cinque anni, morta di polmonite l’altro giorno, dopo che aveva portato l’umano di turno alla vittoria. Per non parlare delle centinaia di cani da slitta uccisi ogni anno nei campi di addestramento, come ha svelato una recente inchiesta. Ma noi fingiamo di non sapere. E ci beviamo, perché ci fa comodo, le bugie sul trattamento etico, come quelle che ci rifilano le aziende di carni, le case di moda, i circhi e chi conduce esperimenti su animali. Ma non sono solo i cani a sentire il nostro dolore. Gatti, scimpanzé, cavalli. Tutti gli animali, come spiega anche il biologo ecologista Carl Safina nel saggio Al di là delle parole (Adelphi), sono in grado di avvertire il dolore altrui, e interagiscono con l’uomo in modi inaspettati e commoventi. Così, nel romanzo Il dolore è una cosa con le piume (Guanda), Max Porter conferisce a un corvo - animale amato da Charles Dickens e Capote - il ruolo di terapeuta, che aiuta due bambini e il loro padre a fare i conti con un lutto, e a ricominciare. Ed è del tutto credibile, ed estremamente toccante. Il corvo insegna al padre che il dolore continua, perché è parte del nostro essere vivi, ma che la disperazione a un certo punto finisce, e si può andare avanti. Sperare, come diceva Emily Dickinson nel verso che ha ispirato il titolo: «“Speranza” è quella cosa con le piume». Dal canto suo, Safina studia l’elaborazione del lutto fra gli elefanti e la loro empatia, il lamento delle orche, la capacità degli animali di riconoscere in noi una coscienza affine che noi non riconosciamo in loro. I delfini, che offrono il loro aiuto a umani in difficoltà, che a loro volta cercano l’aiuto dell’uomo (spesso per danni causati dall’uomo stesso, come reti, ami, plastica) e poi ringraziano. Allora, si chiede Safina, quale mente è davvero superiore? Il corvo, ferito dagli aculei di un porcospino, che aspetta che l’uomo gli tolga gli aculei uno ad uno. Questa capacità di “riconoscerci” che hanno gli animali è segno di un’intelligenza superiore, anche se l’uomo spesso tradisce gli animali che gli chiedono aiuto. E che dire degli elefanti, che quando un membro della loro comunità muore mettono in scena veri e propri funerali, come noi, ricoprendo il cadavere di foglie e nascondendone eventuali ferite, proprio come farebbe un’impresa funebre? Così, mentre al cinema sbarca il timido Dumbo dalle orecchie lunghissime, remake live action firmato da Tim Burton dell’omonimo cartone del 1941 che salvò Disney dal tracollo finanziario, è importante ricordare la storia del vero Dumbo, torturato per tutta la sua vita. Che si chiamava Jumbo, era nato nel 1860 e venne rapito cuccioletto in Abissinia, dopo aver visto i cacciatori trucidare la sua mamma per le zanne. Spedito in Francia via nave, fu l’unico elefante a sopravvivere alla traversata, e in seguito venne venduto al giardino zoologico di Londra, di cui divenne presto l’attrazione principale, trasportando sul dorso migliaia di bambini, inclusi Winston Churchill e i figli della Regina Vittoria. Solo, confuso e confinato in una gabbia angusta, il povero Jumbo iniziò a soffrire di depressione e di claustrofobia, e divenne autolesionista, schiantandosi contro le sbarre della sua prigione fino a rompere più volte le proprie zanne. Frustato e torturato per renderlo più docile, Jumbo venne costretto a ingurgitare grandi quantità di alcol come sedativi, e presto diventò alcolizzato. Poi, nel 1882, lo zoo decise di venderlo al circo americano PT Barnum. Terrorizzato, incatenato, con la salute compromessa, Jumbo affrontò le due settimane di traversata in una cassa piccolissima, sedato con casse di whisky e di porto. Jumbo fu fonte di immensi guadagni per il circo Barnum, ma già nel 1883 le condizioni dell’elefante erano disperate. Anche perché era seriamente malnutrito. Invece delle foglie, dell’erba e dei rametti che gli elefanti avevano a disposizione in quantità in Africa, Jumbo mangiava tutto quello che i visitatori gli lanciavano attraverso le sbarre, dai dolcetti alle monete, a centinaia ritrovate nel suo stomaco dopo la morte, e poi fischietti, chiavi, chiodi. I suoi denti, molli e storti per la dieta inadeguata e la conseguente cattiva masticazione, gli causavano dolori tremendi. Due anni fa, il documentarista David Attenborough ha esaminato con un team di esperti i resti dell’elefante, portando alla luce sofferenze molto più atroci di quelle che si pensava l’animale avesse patito. Come i moltissimi infortuni da sforzo e da stress dovuti al carico di persone che era costretto a trasportare, causa di dolori indicibili oltre che di problemi articolari solitamente riscontrati in elefanti molto più anziani. Quando nel settembre del 1885 il circo Barnum andò in Canada, Jumbo soffriva di deperimento cronico, e le sue condizioni avevano già attirato molte critiche dagli animalisti. Un giorno, mentre veniva caricato su un vagone dopo uno spettacolo, fu investito da un treno, e morì per emorragia interna. Aveva solo 24 anni, stava ancora crescendo. Ma le sue ossa sembravano quelle di un elefante di cinquant’anni. 

Gli animali sentono il nostro dolore e soffrono con noi. Quando inizieremo ad accorgerci delle loro sofferenze? 

Viaggio tra gli allevamenti lager  per animali da pelliccia. Pubblicato domenica, 24 marzo 2019 da Corriere.it. Volpi che pesano il triplo di quello che sarebbe naturale, visoni che vivono in gabbie talmente piccole da alimentare episodi di cannibalismo. Il viaggio di Sigfrido Ranucci e Report nel mondo della moda e delle pellicce è un pugno nello stomaco anche per chi ha una soglia minima di sensibilità. Nell’inchiesta firmata da Emanuele Bellano (in onda lunedì su Rai3 dalle 21.15), l’inviato del programma è andato in Finlandia, principale produttore di pellicce allevate, in prevalenza volpi e visoni. Vengono chiamati allevamenti etici perché dovrebbero rispettare il benessere e la salute degli animali. E a supporto c’è anche una certificazione — basata sul protocollo WelFur — che garantisce agli animali allevati condizioni «umane» ed è stato elaborato da una università finlandese in collaborazione con altri atenei europei. Un fornitore spiega che «quelli certificati sono allevamenti a prova di animalista, nel senso che l’animale viene curato come se fosse un bambino. I grandi marchi comprano praticamente solo pellicce certificate». Secondo i dati dell’ente certificatore finlandese, sono «a prova di animalista» il 99% degli allevamenti di volpi e il 93% degli allevamenti di visoni. Peccato che la realtà descritta da Report sia tutt’altra. Gli allevatori infatti non hanno consentito alle telecamere di filmare quello che accade all’interno delle gabbie ed è stato necessario entrare di notte, senza autorizzazioni. E altro che pellicce certificate come etiche: ci sono centinaia di piccole gabbie e nelle gabbie volpi così grasse che a stento riescono ad alzarsi e a muoversi perché arrivano a pesare oltre 15 chili, il triplo di quello che la natura ritiene etico (in genere pesano tra i 4 e i 5 chili). La loro dieta contiene moltissimi grassi e la spiegazione è unicamente economica: un animale più grande vuol dire più pelliccia e quindi più soldi. Lager per animali, dove lo stress a cui sono sottoposti procura loro spesso infezioni a occhi e pelle. Le volpi che sopravvivono poi finiscono uccise con una scossa elettrica inferta da due elettrodi, uno in bocca e uno nell’ano. Non va meglio ai visoni perché quando nascono i piccoli le gabbie sono così sovraffollate che gli animali impazziscono e si mordono l’un l’altro, come cannibali. Report rivela anche il conto economico di questa inumanità: un collo di pelliccia costa circa 28 euro, mentre in negozio arriva a 245. Commenta Ranucci: «L’abito che va più di moda nella collezione autunno inverno è quello dell’ipocrisia. Perché non diciamo basta ad allevamenti e pellicce come hanno fatto altri Paesi?».

Galline maltrattate e uova non  a norma: chiuse 9 aziende in Italia. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Nove aziende chiuse o sospese. Sequestrati oltre 32 mila uova, 4.600 galline ovaiole e 30 tonnellate di mangimi non regolamentari. Contestate 101 violazioni amministrative e penali. Sette operatori del settore denunciati per maltrattamento di animali e frode in commercio. È il bilancio dei controlli straordinari sulla filiera delle uova condotti nel mese di settembre dai carabinieri del Nas che, su 373 obiettivi, hanno accertato irregolarità in 66 casi, pari al 18% del totale. Tra le criticità riscontrate, «situazioni di sovraffollamento nella stabulazione degli animali, mangimi in cattivo stato di conservazione, uova vendute per qualità diverse da quelle possedute, prive di tracciabilità o con stampigliature fuorvianti, detenute in condizioni e ambienti non idonei, in alcuni casi in strutture abusive». È stato infatti constatato l’uso di depositi e strutture di imballaggio uova risultati non censiti, ambienti mancanti dei minimi requisiti sanitari, strutturali e di sicurezza per i lavoratori, che hanno comportato l’applicazione di provvedimenti di chiusura o sospensione dell’attività nei confronti di 9 aziende di allevamento, lavorazione e logistica, il cui valore economico ammonta ad oltre 2 milioni di euro. Complessivamente le violazioni contestate ammontano a 130 mila euro mentre uova, galline e 30 mangimi sequestrati hanno un valore commerciale di circa 185 mila euro. «Nel corso delle ispezioni - sottolineano i carabinieri - sono stati anche eseguiti 133 campioni di uova, prodotti derivati e matrici ambientali, al fine di accertare l’eventuale impiego di sostanze non consentite, non solo in riferimento a disinfestanti ed insetticidi, ma anche all’uso indiscriminato di antibiotici e medicinali, nonché alla corretta somministrazione di alimenti zootecnici e dell’acqua. Gli esiti delle analisi di laboratorio finora pervenuti, pari al 30% dei reperti eseguiti nell’ambito del monitoraggio, non hanno evidenziato irregolarità». Nove le aziende chiuse o sospese. In provincia di Arezzo, in un allevamento «a terra» di ovaiole, sono state trovate 19.750 galline ammassate all’interno di spazi sopraelevati, delimitati da reti metalliche, che ne impedivano la libertà di movimento. Per maltrattamento di animali è stato denunciato anche il responsabile di un allevamento avicolo di Viterbo: nel corso dell’ispezione sono state rilevate gravi carenze igienico sanitarie ed il decesso di numerosi capi, non rimossi e lasciati in regime di promiscuità con quelli vivi. Lo stesso Nas del capoluogo laziale ha riscontrato 6 allevamenti privi delle misure di biosicurezza previste dal Piano regionale di controllo e sorveglianza per prevenire l’influenza aviaria. Dieci allevamenti privi delle misure di biosicurezza, con carenze igienico strutturali e inadeguatezze nelle procedure di autocontrollo, sono stati scoperti nelle province di Latina e Frosinone. Il Nas di Potenza ha sanzionato il responsabile di un allevamento avicolo per aver utilizzato, nel ciclo produttivo e per l’abbeveraggio degli animali, acqua non potabile: attività chiusa e divieto di commercializzazione di 3 mila pulcini. A Torino i legali responsabili di tre allevamenti sono stati denunciati per aver messo in vendita uova fresche di categoria «A» risultate di minore qualità e con date diverse da quella della effettiva deposizione. Sequestrate 13.450 uova con stampigliatura contraffatta e 5.040 prive di tracciabilità, individuate all’interno di un centro di imballaggio senza autorizzazione. In un allevamento biologico di galline ovaiole, il Nas di Perugia ha sequestrato 19.140 uova in un deposito nel quale è stata riscontrata la presenza di roditori e l’insufficienza delle misure adottate per la lotta agli animali infestanti. A Cagliari in 5 allevamenti con annessi centri di imballaggio sono state accertate gravi carenze igienico strutturali, l’irregolare smaltimento di carcasse di animali, l’assenza di tracciabilità dei prodotti ed il mancato aggiornamento dei registri relativi ai trattamenti farmacologici. 13.140 le uova di gallina sequestrate. Carenze igieniche e irregolarità gestionali anche per 6 aziende di Genova, Firenze, Livorno, Pescara e Salerno mentre il Nas di Palermo ha individuato un deposito completamente abusivo ed operato il sequestro di 30 tonnellate di mangimi. Nelle province di Bari e Matera, i Carabinieri hanno sequestrato due strutture abusive, 1.600 pulcini e 4 mila uova. A Roma sono stati individuati due allevamenti, il primo privo dei registri dei trattamenti farmacologici e di movimentazione degli animali, il secondo specializzato nella vendita online delle uova senza fornire al consumatore informazioni sui prodotti. Nel corso di un’ispezione presso un’azienda agricola nella provincia di Bolzano, il Nas di Trento ha sequestrato 1.061 uova recanti un’errata stampigliatura del codice aziendale del produttore.

·        Combattimenti tra cani.

COMBATTIMENTI TRA CANI. Matteo Indice e Michele Sasso per “la Stampa” il 25 febbraio 2019. Kali e Marika sono stati imbottiti di nandrolone e carnitina, dopati e «asciugati» in attesa di rappresentare i Wild Boys Kennel contro i rivali del Top Line. Senza incrociarsi, hanno combattuto con destini opposti, il primo è morto e l'altra ha vinto. Zeus invece l'avevano testato con un paio di «roll», battaglie di prova in attesa di farlo scontrare con Dwaith: si sono massacrati e l'esito del match è stato decretato ai punti, mentre nelle varie gang in contatto per dar corpo al giro si materializzavano figure come «i belgi», «il francese» e «Marko il serbo». Le sequenze sono descritte nelle carte dell'ultima inchiesta in Italia sui combattimenti tra cani, pitbull soprattutto. Una storia truce di Fight Club per cani con pagine Facebook segrete, scommesse da migliaia di euro e una rete transnazionale che addestra e piazza i suoi campioni dei ring clandestini. Secondo la Lav (Lega italiana antivivisezione), dopo la grande stagione del controllo camorristico a fine Anni 90, quando la onlus quantificò in mille miliardi di lire il giro d' affari, il fenomeno cresce di nuovo e parecchio (+5-10% di denunce all' anno nell' ultimo biennio), ma sotto mentite spoglie. Le organizzazioni sono più parcellizzate, si guarda spesso all' estero, tanto che tre miliardi di euro è l'ultima e più attendibile quantificazione del «fatturato» in tutta Europa, con puntate minime da 250 nelle arene di bassa categoria e vette da 10 mila quando a sfidarsi sono esemplari dal pedigree sostanzioso, magari ben sbandierato sui siti Internet dove la promozione dei match è confusa dietro una più innocente, e solo apparente, «vetrina». C' è poi un altro aspetto da circoscrivere, con riflessi sanitari preoccupanti: l'arruolamento avviene sempre più tra i randagi che nella Penisola crescono a ritmo esponenziale, rasentando ormai il milione di animali. E sebbene la legge sia stata calibrata con un reato specifico su chi organizza le sfide più sanguinarie, alla fine le condanne non superano mai i due anni. Ciò perché risulta complesso il riconoscimento di autentiche associazioni per delinquere. E dietro una forma di brutalità così estrema e redditizia si nascondono spesso altre forme di criminalità, come il traffico di droga oppure i prestiti a strozzo. Per focalizzare la dimensione della violenza sprigionata da alcuni gruppi si può ripercorrere il dettaglio degli addebiti mossi alla banda attiva fra Imperia, Pavia, Teramo e la Serbia, che un'indagine per un po' rimasta in sonno ha infine permesso di attribuire a 25 indagati. «Organizzavano la compravendita o lo scambio di cani di grossa taglia, di tipo molossoide e prevalentemente sprovvisti di micro-chip, su tutto il territorio italiano oppure provvedevano alla loro importazione dall' estero e li allevavano in varie località per impiegarli in combattimenti». Proprio la freddezza delle carte giudiziarie certifica l'orrore della preparazione alle battaglie e le conseguenze: «Sottoponevano i cani a condizioni d' isolamento, a diete rigide, a continua tensione psichica nonché alla somministrazione di sostanze stupefacenti o vietate, del tipo nandrolone, in particolare il Decadurabolin». Marco Calì è il capo della squadra mobile di Genova, che ha condotto la prima tranche di accertamenti, e la mette giù chiara: «Quel che sbalordisce è il cinismo nei confronti degli animali e una certa strutturazione dei compiti, con la creazione di piccole palestre e vessazioni sistematiche per aumentare il rendimento degli esemplari». L' obiettivo? «Potenziare la muscolatura dei vari esemplari - qui torniamo alle parole dei magistrati - aumentare in modo innaturale l'aggressività, desensibilizzarli rispetto all' anomala attività di allenamento». Il riflesso è «un danno alla salute degli animali e la morte di un numero indeterminato». Non manca il dettaglio dei contatti, della logistica imbastita sottobanco e con professionalità millimetrica, della monetizzazione: «Le lotte in alcuni casi provocavano il decesso o la scomparsa degli animali stessi e gli organizzatori si scambiavano, attraverso piattaforme informatiche, informazioni sui luoghi degli eventi, sui contendenti, sui risultati degli incontri, nonché materiale audio-video dei combattimenti». Le «piattaforme» sono le pagine segrete e i gruppi Facebook creati con lo scopo di risultare invisibili. Come in un romanzo di Chuck Palahniuk, la prima regola è non parlare mai del Fight Club. I partecipanti si ritrovano in rete e, come per l'innocuo Fantacalcio, hanno squadre, classifiche, compravendite e trasferte. Tutto illegale, una vera e propria community con gergo e parole criptate. Il collante è fornito dal' insana passione per lo show dei cani che uccidono altri cani. Il gruppo viene aperto, ad esempio, per organizzare un match, e sono forniti gli input logistici per raggiungere l'arena top secret. Solo a persone di fiducia è svelato l'account, chiuso in tutta fretta subito dopo il combattimento. I classici «insospettabili» sono invitati all' evento per scommettere o partecipare direttamente all' incontro con propri animali. E se i proprietari non vogliono avere grane, li affidano agli organizzatori e si gustano lo scontro da casa grazie alle immagini riprese con gli smartphone e trasmesse online. Per i cultori di queste sfide - è inclusa la versione contro cinghiali o maiali - la fase dell'addestramento è la cartina di tornasole per comprendere se il proprio esemplare sarà un campione o meno. Uno dei dati ineludibili è l'impiego del collare elettrico, per punire il cane con una scossa quando non risponde ai diktat. L' uso della violenza è smodato: bastonate, giorni a digiuno per essere nutriti con animali sanguinanti, dosi massicce e costanti di calci per far lievitare l'aggressività. Un training senza tregua per creare killer e soprattutto ingrassare il portafogli. «Ritrovamenti di cuccioli con ferite o di bestie morte con cicatrici, furti di animali di grossa taglia, sequestri di allevamenti di pitbull, pagine Internet che esaltano le razze da lotta. Sono tutti segnali che raccontano un mondo sommerso e spietato», sottolinea Ciro Troiano dell'osservatorio zoomafia interno alla Lav. Dalle inchieste sono emersi tre livelli, con figure diverse che ruotano intorno alla galassia dei match: i delinquenti locali con funzioni di basisti (primo livello), i teppisti che curano la realizzazione vera e propria degli incontri con i trafficanti di cani cosiddetti «da presa» (secondo livello). Hanno ruoli differenziati e talvolta si trasformano in scommettitori o allibratori professionisti. C' è poi un ulteriore filone che è parallelo ma, contrariamente al passato, non esclusivo. Ed è quello che lambisce la criminalità organizzata. I rilievi della magistratura raccontano, infatti, l'interesse del clan Giostra di Messina e di alcune 'ndrine calabresi o di affiliati alla Sacra corona unita. Il terzo livello non ha contatti con le mafie ed è costituito da allevatori senza scrupoli, compratori, stimatori di esemplari come dogo argentini, american staffordshire terrier e soprattutto pitbull. «Il fenomeno - prosegue Troiano - è tanto ben organizzato quanto sottovalutato. E lo prova più di tutto l'entità del business». Per un ring bastano quattro assi e un capannone, oppure la strada con un anello di persone a fare da recinto. Le location sono tante e diversificate: i bassi di Napoli, in passato i terrazzi delle Vele di Scampia. A Palermo, inoltre, è stato scoperto un ring improvvisato nel cortile di un'abitazione. Nella campagna dell'Oltrepò Pavese si trovano un numero imprecisato di cascine abbandonate o ricoveri diroccati per animali e cacciatori. Lungo la costa dell'Adriatico era un pescatore l' organizzatore dei combattimenti: portava uomini e cani al largo e si godeva lo «spettacolo».

·        I Cani vittime di poliziotti violenti ed assassini.

Poliziotto spara e uccide cane, sabato a Napoli corteo per ricordare l’animale ucciso. Il Partito Animalista Europeo ha annunciato un corteo per sabato, 20 luglio, da via Cesare Rosaroll alla sede della Questura di Napoli, per chiedere che l’agente che ha sparato al cane uccidendolo “venga punito ai sensi della normativa vigente”. Il gruppo su Facebook creato dopo la morte dei pitbull ha raggiunto 5mila persone. Nico Falco 15 luglio 2019 su Fanpage.it. Non si placano le proteste in seguito alla morte del pitbull di un pregiudicato di 25 anni di via Cesare Rosaroll, a Napoli, ucciso da un poliziotto durante le fasi concitate dell'arresto del ragazzo. Il Partito Animalista Europeo ha organizzato, per sabato 20 luglio, un corteo che partirà da via Rosaroll, dove è avvenuta la sparatoria, e si sposterà fino a via Medina, sede della Questura di Napoli, per chiedere "che l’agente venga punito ai sensi della normativa vigente". Intanto, ha raggiunto circa 5100 membri il gruppo "Giustizia Per Il Povero Pitbull Sparato A Napoli", creato su Facebook il 12 luglio, quando si è saputo dell'episodio. Tra i numerosi post c'è chi carica i video girati durante l'operazione di polizia che ha portato alla morte del cane; la maggior parte accusa la polizia, sostenendo anche che non c'è stato nessun morso e che la foto che ritrae la caviglia ferita dell'agente sarebbe falsa, ma c'è anche qualcuno che prende le difese del poliziotto. Gli agenti erano andati nell'abitazione di un 25enne, dove era agli arresti domiciliari, per notificargli un ordine di carcerazione ma il giovane era uscito in strada brandendo una pistola (poi risultata finta), ha aggredito i poliziotti e ha aizzato il suo cane contro gli agenti e il personale del 118; uno dei poliziotti ha sparato al cane mentre azzannava la caviglia di un collega, esplodendo un secondo colpo quando l'ha visto avvicinarsi agli altri agenti. Il cane è stato soccorso circa un quarto d'ora dopo, quando il 25enne è stato arrestato e la situazione è tornata sotto controllo, ed è stato portato dai poliziotti al Pronto Soccorso veterinario al Frullone; inizialmente dichiarato fuori pericolo, è morto qualche ora dopo. Su quello che è successo, però, sono in molti ad avere dubbi, principalmente per la scarsa qualità dei video diffusi in Rete e che riprendono solo parzialmente o in modo confuso quello che è successo. Si chiedono se fosse necessario aprire il fuoco e se realmente l'agente si trovasse in una situazione di pericolo. Altri, poi, si chiedono il motivo per cui è stato impedito ad alcuni volontari animalisti di soccorrere immediatamente il cane; decisione che probabilmente deriva dal fatto che era ancora in corso una operazione di polizia e che non era possibile autorizzare altre persone ad avvicinarsi all'animale ferito e sanguinante per il potenziale rischio. Per verificare che siano state seguite correttamente le procedure, la Questura di Napoli ha avviato una inchiesta interna sull'episodio. Anche la Procura ha aperto un fascicolo. Oltre all'acquisizione dei video, verranno probabilmente ascoltati nei prossimi giorni gli agenti di polizia che hanno preso parte all'operazione, i sanitari del 118 che erano intervenuti per calmare il 25enne e che sono stati a loro volta aggrediti dal cane, e i testimoni che hanno assistito alla sparatoria e che sono intervenuti subito dopo davanti al terraneo di via Cesare Rosaroll. Su Internet sta circolando un nuovo video, che riprende la scena già immortalata dal primo ma con una inquadratura leggermente più dall'alto: in questo il cane e l'agente morso non sono coperti dalle automobili e si vedono meglio sia il tentativo di allontanare il pitbull sia l'intervento del secondo agente e i due colpi esplosi.

Il poliziotto che ha sparato al pitbull a Napoli ha sbagliato o no? Giovanni Drogo il 16 Luglio 2019 su Next Quotidiano. Non si placano le polemiche per la tragica vicenda del cane Rocky, il pitbull ucciso a Napoli da un agente di Polizia impegnato assieme ad alcuni colleghi a notificare il provvedimento di detenzione in carcere ad un uomo agli arresti domiciliari. Sabato a Napoli è previsto un corteo di protesta organizzato da Enrico Rizzi del Partito Animalista Europeo. In un post pubblicato ieri su Facebook Rizzi aveva fatto sapere di aver intenzione di sporgere denuncia per “uccisione di animali” nei confronti del poliziotto che ha sparato due volte al pitbull. Secondo Rizzi e molti animalisti arrabbiati non c’era alcuna necessità di uccidere l’animale che non presentava in quel momento una minaccia. In realtà anche durante il video che mostra la scena dell’uccisione si vede che il cane sta mordendo la gamba di una persona (non in divisa). Dopo qualche istante, mentre ancora il cane sta aggredendo quell’uomo l’agente fa fuoco una prima volta, a distanza ravvicinata, colpendo l’animale sul posteriore. Un secondo colpo viene esploso quando il cane, ferito gravemente ma ancora in grado di camminare, si trascina verso il padrone e il gruppo di agenti che lo stava arrestando. Che si sia trattato di un arresto difficile lo si evince dal numero di volanti della Polizia (almeno cinque quelle che si vedono nel filmato). La presenza del cane, che fin dall’inizio del video viene inquadrato mentre si aggira libero senza guinzaglio, è un ulteriore fattore di confusione. Ma prima dell’aggressione “finale” (non sappiamo se ce ne siano state altre perché il video mostra solo gli ultimi 48 secondi) si vede un agente spruzzare dello spray al peperoncino verso l’arrestato che è già immobilizzato (e circondato) dai colleghi. Nel farlo centra anche uno degli agenti che si allontana dal tafferuglio facendo il gesto di pulirsi gli occhi dalla sostanza urticante. Nel frattempo poco distante per allontanare il cane dalla gamba dell’uomo un altro agente esplode un primo colpo di pistola. Avrebbe potuto sparare in aria o a terra a poca distanza? Può darsi, ma non c’era alcuna garanzia che il cane avrebbe mollato la presa o cessato l’aggressione. Di fatto la confusione generata dall’arresto aveva probabilmente reso il cane nervoso e la sua gestione era particolarmente difficile. Probabilmente sarebbe stato opportuno levarlo di torno quando subito, magari chiudendolo in macchina. Ma non sappiamo se il cane era mai stato al guinzaglio e quindi in qualche modo “gestibile” anche da persone che non erano i suoi proprietari.

Perché nessuno se la prende con il proprietario del cane e il suo comportamento incosciente? Le intenzioni del cane possono essere anche state “nobili” (difendere il proprio padrone) ma la responsabilità principale della sua morte è di chi lo ha messo in quella situazione: il suo proprietario. Secondo alcune testimonianze infatti sarebbe stato l’arrestato ad aizzare l’animale contro gli agenti. A quanto risulta poi – scrive su Facebook il consigliere dei Verdi Francesco Emilio Borrelli – il cane non era microchippato e detenuto illegalmente. Inoltre la legge vieta la detenzione di certe razze a persone con precedenti o sottoposte agli arresti domiciliari. Quello che è certo è che una aggressione nei confronti degli agenti c’è stata. Si vede dal video e si evince dai referti del pronto soccorso dove sono stati medicati gli agenti pubblicati da David Puente su Open. Borrelli ha anche fatto sapere che la Magistratura ha aperto un fascicolo di indagine per valutare se tutto si è svolto secondo la procedura. La pagina Facebook Nessuno tocchi Ippocrate ha confermato l’aggressione in un post del 12 luglio spiegando che prima, all’interno dell’abitazione l’uomo aveva sferrato un pugno ad un agente e poi aveva aizzato il cane contro i poliziotti e contro il personale del 118. Il cane quindi è uscito in strada dove ha continuato a “proteggere” il proprietario aggredendo appunto quello che sembra essere un agente in borghese. Qualche perplessità la solleva la testimonianza di una volontaria animalista, rilanciata sui social in questi giorni, che sostiene che per una ventina di minuti le è stato impedito di soccorrere il cane in fin di vita e portarlo al pronto soccorso veterinario. Il cane è stato poi portato al Frullone dalla Polizia.

Poliziotto spara al cane e lo uccide a Napoli: immagini complete e le ultime notizie. Redazione Bufale.net il 12 Luglio 2019. Occorre aggiornare la storia “poliziotto spara al cane e lo uccide”, stando agli ultimi aggiornamenti di questo triste fatto di cronaca a Napoli. Contrariamente a quanto abbiamo riportato in un primo momento nell’articolo che segue, tocca prendere atto delle ultime novità rese pubbliche da Il Mattino, secondo cui l’animale sarebbe morto pochi minuti fa. Sta girando moltissimo oggi 12 luglio un video con tanto di descrizione “poliziotto spara al cane“ e lo uccide, durante momenti concitati a Napoli. Considerando quanto diventino virali contenuti e storie del genere, come abbiamo avuto modo di constatare qualche giorno fa con un altro fatto di cronaca del nostro Paese, occorre assolutamente fare chiarezza. Sia per ricostruire i fatti, sia soprattutto per comprendere come stiano effettivamente le cose in questi minuti, al momento della pubblicazione del nostro articolo. Davvero un poliziotto spara al cane e lo uccide al Napoli? Le immagini che trovate a fine articolo sono abbastanza forti e ci mostrano come siano andate le cose. Dalle prime ricostruzioni emerge che la Polizia si sia recata in Via Cesare Rossaron, nei pressi di Porta Capuana per intenderci, al fine di mettersi in contatto con un uomo. Le cose hanno preso subito una brutta piega, per motivi ancora da accertare. Ad un certo punto un agente di polizia, il quale stava tentando di consegnare una notifica al soggetto in questione, proprietario dell’animale e agli arresti domiciliari, è stato aggredito. Ne è nata una mezza rissa, con il cane del pregiudicato intervenuto nel parapiglia. Probabilmente per difendere il padrone. In un primo momento le immagini ci mostrano l’animale scagliarsi contro quello che sembra un passante. Questo è il momento esatto in cui gli agenti intervengono: due colpi di arma da fuoco, ed il secondo sembra essere fatale allo stesso animale. Importanti dettagli ci vengono però forniti da Sky TG 24. Se da un lato il titolo “poliziotto spara al cane” può avere senso, grazie anche al video qui di seguito, va detto che secondo la fonte l’animale non sia morto. Visti i ritardi dell’ambulanza veterinaria, sono stati gli stessi agenti a portare il cane ad un pronto soccorso veterinario. Fonti della Questura affermano che il cane non sia deceduto. Il video è disponibile qui.

Pitbull ucciso a Napoli: la Polizia diffonde i referti medici degli agenti feriti. David Puente su Open.online il 16 luglio 2019. Secondo alcuni, il pitbull ucciso a Napoli dagli agenti della Polizia non avrebbe morso nessuno. Ecco i referti

Il 12 luglio 2019 un pitbull viene ferito con dei colpi d’arma da fuoco dagli agenti della Polizia di Stato durante un arresto avvenuto a Napoli. Soccorso dagli agenti dell’Unità Cinofila, il cane viene condotto presso un centro veterinario dove poi è deceduto. Circola online un video dell’accaduto, pubblicato da testate come Il Mattino – con il titolo «Napoli, pitbull morde agente: ferito e poi soccorso muore» – e da pagine social come quella di Daniele Cinà. Secondo Cinà «mentre il Ministro dell’Interno si prodiga a fare il finto animalista, un poliziotto, in pieno giorno, uccide un cane a colpi di pistola, sparando tra la gente» domandando se tutto questo è normale e sostenendo di trovarci nel «far west». Oltre a Cinà era intervenuto anche il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli: «Sarebbe grave se l’agente avesse colpito l’animale senza una reale condizione di pericolo imminente. Non ci sono giustificazioni per chi spara senza ragioni. Per questo chiediamo una inchiesta interna sull’intera vicenda».

I fatti. Il 12 luglio 2019 mattina gli agenti si erano recati presso via Cesare Rosaroll per eseguire un ordine di carcerazione nei confronti di un 25enne già sottoposto agli arresti domiciliari. Il ragazzo aveva opposto resistenza puntando una pistola contro gli agenti – risultata poi finta e priva del tappo rosso – aizzando il proprio cane contro di loro. Il cane, incitato dal suo padrone, aveva ferito un agente lacerandogli la caviglia sinistra. A seguito dell’aggressione e di fronte all’animale in evidente stato di aggressività, i poliziotti hanno sparato due colpi d’arma da fuoco contro l’animale ferendolo gravemente. Il 25enne non poteva in alcun modo possedere l’animale durante gli arresti domiciliari, inoltre è risultato sprovvisto di microchip.

La risposta social. Di fronte alla morte dell’animale alcuni utenti e animalisti si sono organizzati per attivare petizioni e gruppi di protesta contro gli agenti, in alcuni casi sostenendo che non esisterebbe alcuna vittima dell’aggressione e che si sarebbero inventati tutto per giustificare gli spari. Il post di Fancesca nel gruppo «Giustizia Per Rocky»: «Il problema è che il morso non c’è altrimenti ad oggi la presunta vittima sarebbe apparsa dovunque mettendo in bella mostra la sua gamba lacerata! Non c’è niente nè una dichiarazione della polizia nè del sindaco nè del questore .. e questo è sufficiente per far capire che lo sanno che hanno combinato un casino quel giorno .. hanno perso il controllo della situazione», scrive Rosa.

Morso alla caviglia: il referto medico. Quattro sono stati gli agenti che sono dovuti ricorrere alle cure mediche per traumi, contusioni varie e a causa del morso ricevuto dal cane da parte di uno di loro. Ecco il referto in cui viene riportato il danno del morso: Come si evidenzia dal referto medico rilasciato dall’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, l’agente ha subito dall’animale una lacerazione della caviglia sinistra con una sospetta lesione al tendine d’Achille.

Arresto turbolento. Tutto questo di fronte a un arresto rivelatosi complicato, anche in presenza di una finta pistola non riconosciuta come tale all’inizio dello scontro in mancanza del classico tappo rosso. Il 25enne risulta accusato di violenza, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, come riportato anche dai referti medici di altri due agenti. Per il primo è stata data una prognosi di 15 giorni per contusioni multiple agli arti inferiori.

Il secondo referto medico di un agente ferito durante l’arresto. Per il secondo, invece, dieci giorni di prognosi per trauma cranio facciale con parziale frattura dell’incisivo superiore mediaele e contusioni multiple per il corpo. In tutti i casi, nei referti gli agenti dichiarano di essere stati aggrediti dal cane aizzato dal suo proprietario.

Il terzo referto medico, anche in questo – come nei precedenti – risulta l’aggressione da parte del cane nei confronti degli agenti durante l’arresto.

Le denunce. Non sono mancate le denunce, come quella dell’OIPA, e le richieste di chiarimenti da parte di esponenti politici come Francesco Emilio Borrelli il quale riporta che la Magistratura avrebbe aperto un fascicolo. Di quanto accaduto la Polizia di Stato ha subito informato l’Autorità Giudiziaria, fornendo tutto il materiale riscontrato per le sue valutazioni.

Si chiede Giustizia per Rocky il cane ucciso a Napoli dalla polizia. Loriana Lionetti su Amoreaquattrozampe. Il 12 luglio 2019 durante la consegna di una notifica ad un uomo di 25 anni posto agli arresti domiciliari, il suo pitbull, Rocky è rimasto ucciso dopo svariati tumulti. Ora si chiede Giustizia. La polizia  si trovava sul luogo per consegnare una notifica e per portate via Rocky, il cane del detenuto venticinquenne, che non aveva preso molto bene la notizia dell’allontanamento del suo amico a quattro zampe. Un video girato da una vicina di casa ha ripreso tutta la scena che ha fatto il giro del web suscitando lo sdegno di molti. Nonostante sia stato dichiarato che il cane, un pitbull, abbia morso e ferito un’agente (anche se sul video girato dalla donna non vi è traccia documentata né del morso né dell’agente, tanto che quello che tiene il cane al guinzaglio sembra un civile, che visto e sentito il primo colpo lascia il cane e scappa impaurito) al quattro zampe sono stati sparati ben due colpi di pistola. Il cane era infatti stato colpito da un’altro agente  per proteggere il collega probabilmente in borghese. Terrorizzato dall’animale che ferito, a coda bassa, scodinzolava e si dirigeva verso il suo padrone, ha sparato un secondo colpo di pistola. A quanto riportato dalla Repubblica.it sembra che l’ unica dichiarazione rilasciata dall’ufficio stampa del ministero degli interni sia stata :”A noi risulta attendibile la versione fornita dal collega”. Così LNDC animal protection che già aveva inviato un comunicato dove dichiarava di aver messo in moto il team legale dell’associazione  asserendo: “faremo tutto ciò che è necessario per assicurarci che questa persona paghi per quello che ha fatto”. Ora lancia una petizione #erasolouncane su Change.org indirizzata al Ministro dell’interno a quello della Giustizia e al Presidente del consiglio. Piera Rosati presidente della lega nazionale per la difesa del cane (LNDC) ha sottolineato :”La domanda che si pongono i cittadini italiani è: una volta esploso il primo colpo e ferito il cane, perché mai sparare la seconda volta per ucciderlo?”. “Nella petizione, indirizzata al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Interno e al Ministro della Giustizia chiediamo dunque che i corpi di polizia vengano debitamente formati per gestire situazioni di eventuale pericolo in cui siano coinvolti animali, cosicché sia assicurato l’impiego delle modalità meno cruente, e, a tutela delle altre specie, per eliminare situazioni di rischio”. “Chiediamo inoltre che la Polizia di Stato svolga le opportune indagini in sede disciplinare nei confronti del poliziotto che ha sparato e ucciso il pitbull, e che, al tempo stesso, si raccolgano tutte le testimonianze necessarie affinché la magistratura possa valutare con obiettività e correttezza l’operato dell’agente”. Tutta Italia vuole la verità, e soprattutto che sia fatta  giustizia per il cane che fondamentalmente #erasolouncane. L.L.

Chi l’ha visto Genova: poliziotti Sparano al cane per una pianta di marijuana. Loriana Lionetti su Amoreaquattrozampe. Genova : l’assurda vicenda raccontata da chi l’ha visto. Entrano dentro casa senza mandato e sparano al cane. E’ una giornata come tante per Ylenia, 17enne di Genova, che come tutti i giorni porta a spasso il suo cane per la consueta passeggiata quotidiana. Ma sta volta, c’è qualcosa di diverso, sotto casa trova la polizia che le chiede i suoi documenti.

La perquisizione non autorizzata. Fine settembre alla periferia di Genova Ylenia passeggia tranquillamente con uno dei suoi 2 cani, al rientro a casa, sotto il portone ad aspettarla 2 poliziotti le chiedono i documenti. Ma lei non li ha con se, quindi invita i poliziotti a salire a casa per mostrargli il necessario, i poliziotti accettano e salgono con lei con l’ascensore al quinto piano. Uscita dall’ascensore Ylenia si accorge che altri 3 agenti l’hanno raggiunta a piedi fino al pianerottolo di casa, quindi ora sono in 5 a voler entrare dentro casa sua per quello che doveva essere un semplice controllo delle generalità. Prima di entrare la ragazza chiede ai poliziotti di aspettare un momento per permetterle di mettere i cani fuori al balcone per non farli abbaiare ,all’interno della casa infatti c’è  Coco, un pitbull, la madre e il suo fidanzatino, la polizia acconsente. Ma quanto Ylenia apre la porta ( a detta della ragazza ) viene spinta contro il muro e i 5 poliziotti senza neanche un mandato fanno irruzione nella abitazione nel quale si trovano Coco il cane , la mamma e il fidanzato di Ylenia.

Sparano per una pianta di marijuana. Come era prevedibile Coco viste entrare 5 persone che non conosce inizia ad abbaiare e da lì il caos. Uno dei poliziotti infatti impugna la sua pistola e inizia a sparare più colpi verso il cane ferendolo al muso ed ad una zampa. Anche Ylenia che come ricorderete ha solo 17 anni (quindi è MINORENNE) viene colpita di stiscio da uno dei colpi. La madre sconvolta dalla situazione sviene ed ha bisogno dell’intervento del 118 per riprendersi. Quello che doveva essere un normale controllo si trasforma in una perquisizione non autorizzata con sparatoria annessa, e questo è qualcosa che ha veramente dell’incredibile. il risultato del blitz non autorizzato è un cane ferito (che per fortuna ora sta bene) Una donna priva di sensi e 2 ragazzini MINORENNI sotto  shock. Tutta la vicenda è da imputarsi al fatto che la ragazzina aveva acquistato alla fieraEuroflora una piantina di marijuana priva di thc (quindi legale). E gli agenti sono intervenuti per sequestrare quella che secondo loro era una piantina illegale senza però avere alcun mandato.

La difesa della polizia a Chi L’ha Visto. La 17enne  ha presentato un esposto in procura me quello che ha fatto indignare veramente tutti è la difesa che è stata fatta nei confronti della polizia di stato  nello studio del programma televisivo Chi l’ha Visto dove è stato  mandata una  agente a replicare alle accuse, che però non hanno assolutamente convinto i telespettatori. L.L.

Video choc dagli Usa: poliziotto uccide cane in strada. (RCD - Corriere Tv del 3 luglio 2013)L'animale voleva proteggere il padrone in stato di arresto - rcd. Un poliziotto spara a un cane che è corso in aiuto del padrone ammanettato e lo uccide. Un video scioccante ha suscitato grande scalpore negli Usa. L'episodio è avvenuto domenica a Hawthorne in Califonia. Tre agenti arrestano un uomo per ostacolo alla giustizia, il suo cane Max, chiuso in macchina, riesce a uscire dal finestrino e corre verso di loro. Non li attacca ma abbaia, poi fa un balzo e un agente gli spara. Il video postato lunedì su internet è diventato in poco tempo virale e in Rete si sono sollevate numerose polemiche contro il comportamento dei poliziotti.

New York, poliziotto spara e uccide un cane indifeso: la padrona fa causa alla città. Andrea Paolini il 27 Marzo 2016 su Il Fatto Quotidiano. La polizia di New York (Usa) bussa alla porta di un appartamento. Una donna apre e il pitbull della proprietaria ne approfitta per uscire fuori di casa. Ma il poliziotto non riconosce le buone intenzioni dell’animale e lo uccide con un colpo di pistola alla testa. Le immagini forti, registrate dalle telecamere di sicurezza all’interno di una palazzina nel Bronx, mostrano proprio gli ultimi momenti di vita di Spike, un pitbull di 4 anni, e la disperazione della padrona, Yvonne Rosado, che ora chiede giustizia. Il poliziotto, di cui la Nypd non ha voluto fornire le generalità, era intervenuto sul posto insieme a un collega in seguito ad una chiamata per una lite domestica scoppiata nell’abitazione affianco a quella della donna. La padrona di Spike non si dà pace per quello che è successo e ha intentato una causa contro la città di New York.

TRA MARITO E MOGLIE NON METTERE IL POLIZIOTTO. Da Blitz Quotidiano il 22 dicembre 2015. L’agente di polizia arriva sul posto della rissa scoppiata, estrae la pistola e la punta contro il cane che ringhiava, ma scivola sulla neve ed esplode due colpi per sbaglio. Colpi di pistola che colpiscono Autumn Steele, 34 anni e madre di 3 bimbi, che cade in terra e rimane uccisa. I momenti della tragica sparatoria sono stati ripresi dalla telecamera in dotazione al poliziotto Jesse Hill e nel video caricato da Live Leak su YouTube si vede quanto accaduto a Burlington, cittadina dell’Iowa. L’agente di polizia era intervenuto sul luogo di una rissa familiare tra la Steel e suo marito Gabriel lo scorso 6 gennaio 2015. Quando Hill arriva sul luogo trova i coniugi a litigare in strada e il pastore tedesco della donna si rigira contro di lui. Il poliziotto allora imbraccia la pistola e chiede alla donna di calmare il cane, che sembrava volerlo mordere, ma scivola sulla neve. Tutto accade in pochi secondi nella confusione generale: Hill scivola sulla neve, cade e dalla sua pistola partono inavvertitamente due colpi che raggiungono la Steele. Per la donna non c’è stato nulla a fare, è morta per le ferite riportate.

·        Perché i cani ci salutano quando arriviamo e mai quando partiamo?

Perché i cani ci salutano quando arriviamo e mai quando partiamo? Pubblicato venerdì, 07 giugno 2019 da Fabrizio Rondolino su Corriere.it. Chi ha perso un animale molto probabilmente conosce la leggenda del Ponte dell’Arcobaleno. E’ una storia molto bella. C’è un luogo nell’aldilà, proprio alle porte del paradiso, dove si ritrovano dopo la morte i cani e i gatti e tutti gli animali che hanno condiviso la loro vita con un umano. E’ un grande prato dove il sole risplende sempre, ricco di acqua e di cose buone da mangiare. Ogni animale che vi arriva ritorna giovane e sano, e tutti giocano insieme felici. Ma ogni tanto qualcuno interrompe il gioco, si volta, annusa l’aria e scruta l’orizzonte eccitato. Il suo umano sta arrivando, e non appena lo scorge l’animale gli corre incontro veloce, gli salta in braccio, lo lecca felice mentre l’umano si perde nel suo sguardo dolce. Sono di nuovo insieme, e insieme percorreranno il Ponte dell’Arcobaleno per raggiungere il paradiso, dove nulla potrà più separarli. E’ una leggenda recente, ma ha un sapore antico che ne fa un classico: a volte viene attribuita agli indiani d’America, a volte al mito nordico. In realtà è nata negli anni Ottanta negli Stati Uniti, forse per la penna di uno psicoterapeuta dell’Oregon specializzato nell’elaborazione del lutto, forse grazie ad una coppia di volontari della Pennsylvania impegnati nella cura dei furetti abbandonati. Grazie a internet s’è diffusa rapidamente in tutto il mondo, e oggi aiuta molti di noi a trovare un po’ di consolazione. Ma è anche, e forse involontariamente, la chiave per comprendere un aspetto essenziale della vita dei nostri compagni non umani: l’attesa. Fra i grandi piaceri della vita, come sappiamo tutti, c’è quello di tornare a casa e trovare il cane o il gatto (o il branco) subito dietro la porta, pronto a scodinzolare o a fare le fusa o a saltarti addosso, e insomma a manifestare tutta la gioia del ritrovarsi. In realtà, come sappiamo, nessuno dei nostri animali è rimasto tutto il tempo dietro la porta: ma ci ha sentito da lontano, ha percepito il nostro odore, ha riconosciuto il motore della macchina o magari – capitava sempre a mia moglie con Bob – il tono della scampanellata. E si è subito messo in posizione di attesa. L’attesa è una modalità strutturale nei predatori, la maggior parte dei quali, una volta individuata la preda, passa letteralmente le ore, immobile, ad osservare e ad aspettare, studiando le vie di attacco e di fuga, memorizzando i punti deboli, individuando gli elementi di pericolo. Nei lupi e nei leoni, che cacciano in branco, è la capacità di attendere e di cogliere l’attimo, molto più delle condizioni fisiche, a decidere l’esito della partita. Immagino che i nostri gatti e i nostri cani abbiano ereditato dai loro progenitori selvatici questa virtù e questa tecnica. Quando esco dal bagno, non di rado trovo dietro la porta un paio di gatti seduti come statue egizie, cui a volte si unisce Bonnie, che sembrano non desiderare altro che la mia vista. Chissà, forse un Freud degli animali parlerebbe di predazione sublimata. Ma c’è un altro aspetto curioso nell’attesa e nel ritrovarsi. Quando vado in paese e dico loro di restare, Bonnie e Stella mi guardano in silenzio dal patio. Se sono eccitate e in vena, rincorrono la Jeep per un centinaio di metri, fino alla casa del vicino, e poi tornano a casa o restano dagli amici. Ma non mi salutano mai, non gli viene proprio in mente di salutarmi. Quando ritorno, invece, mi corrono incontro e scodinzolano e s’aggrappano al finestrino e appena scendo si schierano l’una accanto all’altra e poi si strusciano alle mie gambe: è ogni volta una festa grandiosa. I cani non salutano mai quando un umano o un altro cane se ne va, ma lo salutano sempre quando arriva. Perché? Ho l’impressione che questo dipenda dalla loro concezione del tempo. Come i monaci zen, i cani vivono nel tempo presente. E dunque se mi allontano da Bonnie e Stella, semplicemente esco dal loro presente. Gli assenti non esistono. Quando invece torno, entro nel loro qui e ora e dunque ne stimolo le reazioni di gioia, di festa, di allegria. Non è vero che i cani non ricordano il passato e non anticipano il futuro: ma, almeno per quanto ne sappiamo finora, hanno ogni volta bisogno di uno stimolo presente. Però, come sa ogni umano che li frequenti, hanno anche la capacità di ricordare con precisione svizzera l’ora della passeggiata quotidiana, della pappa e di qualunque altra cosa diventi per loro un’abitudine. E, secondo una ricerca recente, sono in grado di stabilire quanto tempo è passato da un determinato evento (per esempio la mia partenza per Roma) calcolando quante molecole di quell’odore (il mio) sono rimaste nell’aria. La mente del cane, come del resto quella del gatto, resta in gran parte inesplorata. Ma ogni volta che ne scopriamo un pezzetto restiamo stupefatti dalla sua raffinata complessità.

DAGONEWS il 18 luglio 2019. Possiamo mai veramente capire che cosa provano gli animali domestici per noi? Oggi la parola "amore" racchiude in sé le varie essenze, ma non si può fare a meno di pensare che gli antichi greci avessero ragione, separando l'amore in vari filoni. Storge ("store-gae") è l'amore tra i membri della famiglia, ad esempio; l'eros è l’amore erotico; la philia è qualcosa che ha a che fare con la lealtà in amicizia; la philautia è amore per se stessi. Iniziamo analizzando l'amore familiare che lega i nostri amici a quattro zampe a noi. Non sorprende sapere che i cani, più di ogni altro animale domestico, mostrano questa forma di amore per noi. E, a differenza della maggior parte degli altri animali domestici, questi animali sono stati oggetto di numerosi studi scientifici. La scienza conferma quello che sapevamo da sempre, ovvero che la maggior parte dei cani sceglie attivamente la prossimità agli umani e, nel giro di pochi mesi dalla nascita, l'attrazione di un cucciolo è più marcata verso le persone piuttosto che verso gli altri cani. Questi animali mostrano ansia da separazione quando i loro padroni li lasciano temporaneamente mentre la pressione sanguigna si abbassa quando vengono accarezzati. Gli studi sul cervello aggiungono ulteriore peso a questa considerazione. Nei cani e negli esseri umani (in effetti in tutti i mammiferi) i legami tra gli individui vengono mantenuti attraverso un cocktail di molecole che vengono assorbite in modi diversi dal cervello. Molti di questi sono regolati da ormoni cerebrali tra i quali la vasopressina e l'ossitocina, la “molecola dell’amore”. In tutti i mammiferi (incluso l'uomo) si hanno picchi ormonali quando gli individui sono sessualmente eccitati, al momento del parto, mentre si allatta e quando vediamo quelli che amiamo, in particolare i familiari stretti. È interessante notare che i cani rispondono con un picco di ossitocina non solo quando interagiscono tra di loro, ma anche (a differenza di quasi tutti gli altri mammiferi) quando interagiscono con gli umani. Un fenomeno simile si verifica nei gatti. Uno studio su piccola scala suggerisce che i gatti hanno un aumento di ossitocina dopo essere stati accarezzati dai loro proprietari, quindi anche loro sperimentano una forma di amore, anche se il picco ormonale è inferiore. Ma che dire dell'eros? Per fortuna, la maggior parte dei cani o dei gatti non ci vede come degli oggetti del desiderio erotico. Anche quando un cane si attacca alla gamba di un umano simulando un atto sessuale: non c’è l’intenzione di inseminare la gamba del padrone, ma piuttosto di gestire tensioni irrisolte o di sfogarsi. Gli uccelli, tuttavia, sono un'altra storia. È molto più probabile che gli uccelli sentano un trasporto per i loro proprietari che si potrebbe definire eros. Per esempio, un pappagallo che viene accarezzato con tenerezza nei luoghi sbagliati dal suo padrone, interpreterà erroneamente i segnali di amicizia come preliminari e inizierà a produrre ormoni sessuali. Se non si desidera eccitare sessualmente un pappagallo, non bisogna accarezzarlo sulla schiena o sopra o sotto le ali. Queste sono le aree che maschi e femmine sfiorano nel loro corteggiamento. Una carezza come quella è come un bacio e una coccola che li prepara al sesso. Gli antichi greci non avevano una parola per descrivere il “cupboard love”, ovvero quell’amore che viene elargito solo per aver in cambio qualcosa che si desidera, in questo caso del cibo. Lo sperimentano persino la rana o un serpente mentre un pesce inizia a muoversi nella parte superiore dell’acquario quando capisce che sta arrivando il cibo. Persino gli invertebrati come gli insetti e gli scarafaggi potrebbero avvicinarsi a qualcosa come questa forma di amore. Si potrebbe obiettare che è qualcosa di simile alla philia, una lealtà o un'affidabile amicizia, con l'accento posto sul cibo. Certo, non è un amore che ispira sonetti, ma è sempre qualcosa.

·        Tale cane…tale padrone.

Milo Parisi per “il Giornale” il 15 settembre 2019. Dopo una lunga convivenza va a finire che ci si somiglia di più. Succede nelle coppie, tra amici e anche con il proprio cane. Le somiglianze sorprendenti fra umani e cani non si limitano però ai gusti o agli atteggiamenti. Uno studio rivela che il cervello del cane riflette i cambiamenti indotti dall' uomo. Se un Labrador si tuffa volentieri in acqua, nuota e magari pesca è perché, nel corso dei secoli, l' uomo lo ha portato a sviluppare caratteristiche «marine». Se un Border Collie è protettivo nei confronti del gregge come un pastore umano è perché qualcuno, nella notte dei tempi, gli ha mostrato come si fa. La «razza canina» intesa come espressione di precisi comportamenti potrebbe essere il risultato di una pressione selettiva. È quanto emerge dall' ultima ricerca pubblicata sul «Journal of Neuroscience». Un team di studiosi guidato da Erin Hecht, della Harvad University, ha preso in esame 62 cani ospedalizzati per accertamenti neurologici, per un totale di 33 varietà canine. Ciascun esemplare è stato sottoposto a scansione MRI (l' imaging a risonanza magnetica), presso il Georgia Veterinary Teaching Hospital, con l' obiettivo di cercare indizi che documentassero differenze significative o modelli ricorrenti nei vari cervelli. Le informazioni raccolte hanno permesso di identificare le mappe di sei reti neuronali, collegate a specifiche funzioni come l' olfatto o il movimento. Al netto delle differenze di forma e dimensione tra un cane e l' altro, gli scienziati hanno osservato che determinati percorsi cerebrali si ripetevano all' interno della stessa razza, mentre cambiavano passando ad esempio da un Terranova a un Border collie. «L'anatomia del cervello varia tra le razze canine», ha spiegato Hecht, sottolineando che almeno una parte delle differenze sembra dovuta all'allevamento selettivo, il cui obiettivo è «ottenere comportamenti particolari, come la caccia, l' allevamento e la sorveglianza». Nel corso di diverse centinaia di anni, gli esseri umani hanno allevato cani con precise caratteristiche fisiche e comportamentali che potessero aiutarli nelle diverse attività. I bulldogs, ad esempio, sono stati allevati perché combattessero contro i tori, ma in un secondo momento sono stati allevati per farne degli affettuosi animali da compagnia. E oggi moltissimi cani non svolgono attivamente il lavoro per il quale la loro razza era stata selezionata. Ad esempio 20mila anni di convivenza hanno reso i nostri animali da compagnia estremamente sensibili nell'interpretazione delle emozioni umane, forse più di ogni altro animale. Hecht insieme ai suoi colleghi ha realizzato anche un' analisi statistica che mostra come le variazioni nel cervello degli animali siano insorte più recentemente piuttosto che nel passato remoto suggerendo che il cervello dei cani si sia evoluto rapidamente. La scienziata ha concluso che tutto ciò «dimostra come gli uomini siano in grado di alterare il mondo che li circonda e come i nostri cervelli stiano cambiando altri cervelli presenti sul pianeta».

Da "it.notizie.yahoo.com" il 15 settembre 2019. Gli animali domestici non mangiano tutto quello che mangiamo noi. Alle volte non è facile resistere alle suppliche del nostro amico a quattro zampe che implora un boccone di quello che stiamo gustando per cena. Ma per il bene dell’amico peloso, bisogna fare attenzione a cosa gli diamo da mangiare. Ecco un elenco dei cibi da cui il vostro cucciolo dovrebbe stare lontano, per non correre rischi, stilato dal Reader’s Digest.

Il cioccolato. Anche se dovrebbe essere ormai una cosa nota, ci sono ancora persone che non sanno quanto estremamente tossico possa essere il cioccolato per i cani. E anche se alcune razze sembrano stare peggio di altre quando lo ingeriscono, sarebbe comunque opportuno evitarlo a prescindere.

Le pesche e le prugne. Se la polpa delle prugne e delle pesche non è un rischio, l'intero frutto è invece tutta un'altra faccenda, dai risvolti persino letali: se infatti il cane ingerisse anche il nocciolo, questo potrebbe non solo bloccargli l'intestino, ma anche avvelenarlo, perché il nocciolo contiene una forma di cianuro, che è un veleno estremamente pericoloso sia per gli uomini che per gli animali. 

Le noci di Macadamia. A differenza delle arachidi, che sono sicure al cento per cento, le noci di Macadamia sono invece piuttosto velenose per i cani e possono andare ad intaccare il loro sistema nervoso, causando vomito, aumento della temperatura corporea e letargia.

Il gelato. In questo caso il problema nasce dal fatto che i cani non riescono a digerire i latticini molto bene, quindi il gelato va dato con estrema moderazione.

L'aglio. Come avverte l'American Kennel Club, "l'aglio può provocare anemia nei cani e fra i possibili effetti collaterali si segnalano gengive pallide, tachicardia, debolezza e collasso".

Il bacon. Se un assaggio di bacon una volta ogni tanto non è la fine del mondo, dare invece al cucciolo questo cibo grasso e salato come abitudine può mettere a rischio il suo pancreas, provocandogli una grave pancreatite.

Gli alcolici. Qualche goccia di birra schizzata per terra non è una tragedia, ma se il cane si scola di nascosto mezza pinta, chiamate subito il veterinario. Sui nostri amici pelosi l'alcol (senza distinzioni) ha infatti lo stesso effetto che ha su di noi, ma ci mette molto meno a provocare loro diarrea, vomito, problemi respiratori o anche peggio.

L'avocado. La polpa, il nocciolo e la buccia di questo frutto contiene persino, una tossina fungicida generalmente innocua per gli esseri umani, ma che può essere pericolosa per gli animali. Da qui il consiglio di tenere il cane lontano non solo dalla ciotola della guacamole, ma anche dall'orto (nel caso in cui coltivaste l'avocado voi stessi).

L'uva. Sembra innocua, ma in realtà l'uva (e l'uvetta sultanina) è incredibilmente tossica per i cani che, subito dopo averla ingerita, possono avere il vomito e soffrire in seguito anche di insufficienza renale, sebbene i veterinari non sappiano cosa esattamente scateni una tale reazione negativa.

Le ossa che si spezzano. Solo perché il giocattolo preferito dal vostro cucciolo è un osso, non significa che tutte le ossa siano sicure da ingerire. Quelle infatti del costato o quelle di pollo possono scheggiarsi facilmente, diventando quindi molto pericolose nel caso in cui il cane le ingerisse.

Il caffè. L'effetto stimolante della caffeina, una xantina metilata contenuta nel caffè, può mandare in corto circuito il sistema nervoso del nostro amico peloso, che potrebbe quindi cominciare a mostrare sintomi quali vomito, irrequietezza, palpitazioni cardiache o anche peggio.

·        Morte da cani.

Quei cani massacrati in Cina salvati da un attivista italiano. Cani torturati e poi cucinati su grosse braci. Si tratta del massacro di Yulin, città della Cina, dove si celebra il Meat Dog Festival. Un'attivista italiano, Davide Acito, ne salva a decine ogni anno. Rosa Scognamiglio, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Cani massacrati, torturati fino alla morte e poi, cotti allo spiedo come polli. È l'inferno a cui vengono condannate decine, centinaia, forse migliaia di bestiole, nella città di Yulin, nella civilissima Cina. Un massacro a cielo aperto. Accade nella provincia del Guangxi, a più di duemila chilometri da Pechino, in un villaggio che sembra – ma forse lo è per davvero – distante anni luce dalla civiltà moderna. Accade, ogni anno, nella settimana tra il 21 e il 30 giugno, a ridosso del solstizio d'estate, a Yulin. L'occasione per dare seguito alla mattanza massiccia è una rassegna del gusto dedicata, il Dog Meat Festival, durante la quale, per l'appunto, si celebra il vile abominio. Così, un numero indefinito di cani diventa ingrediente per pietanze street-food. Colonne di fumo nero sfidano il buon senso comune, tra le decine di bancarelle addobbate a festa e una fiumana di visitatori che pare gradire l'iniziativa. Ne arrostiscono quantità esorbitanti, a ciclo continuo. Orrore puro. Secondo una recente stima dell'istituto World Dog Alliance, l'ente a tutela dei diritti degli animali di razza canina, sono circa 10 milioni le bestiole che ogni anno diventano carne da macello alla "kermesse gastronomica". Un rituale tribale, arcaico e obsoleto a cui ci si prepara mesi prima della rassegna. Durante l'inverno, infatti, si procede alla cattura dei randagi nelle varie campagne e villaggi confacenti alla provincia di Guangxi (talvolta ci si spinge anche oltre i confini regionali). Poi, nelle slaughter house, macelli allestiti ad hoc, i cani vengono ammassati, lasciati senza acqua né cibo, bastonati e torturati senza alcuna pietà. Un massacro necessario che, a detta degli organizzatori, viene eseguito nel rispetto di antiche credenze per le quali più un animale sarà torturato prima del consumo, maggiore sarà la carica sessuale acquisita da chi se ne "delizierà il palato". Per fortuna, però, esistono gli animalisti, associazioni che si battono per porre fine a questo scempio immondo. Tra queste, spicca quella del 33enne italiano Davide Acito che, con la sua Actjon Project animal, in rapporto di stretta collaborazione con gli attivisti cinnesi, organizza delle vere e proprie "missioni di liberazione". A scaglioni, si introducono di notte nelle slaughter house di Yulin, raccattano quanti più cani possono e li caricano su un camion. Poi scappano, in fuga per 25/30 ore, fino a Tianjin, dove è stato costruito l'Island Dog Village, un centro di accoglienza per le bestiole scampate al truce massacro. Fondatrice e finanziatrice del rifugio è la stilista italiana Elisabetta Franchi che, avvalendosi di un team di specialisti, accoglie e cura i randagi, occupandosene fino al momento dell'adozione. Una iniziativa encomiabile che premia, ancora una volta, il grande cuore degli italiani. Tra le bestiole salvate, ve n'è una che è riuscita ad approdare in Italia. Si chiama Beatrix ed è una piccola meticcia dalle fattezze simili a quelle di un labrador. Davide le ha salvato letteralmente la vita, strappandola all'inferno del piccolo villaggio cinese. Dopo aver superato un lunghissimo iter burocratico, la cagnolina è riuscita ad approdare in Emilia, alle porte di Bologna. Oggi, ad occuparsene, ci pensa mamma Angela, una signora di Granarolo che se cura fosse un figlio. "Non mi sembra vero – racconta la donna alle pagine del quotidiano La Repubblica – quando l'hanno portata stava in un angolo terrorizzata, non toccava cibo, non abbaiava, sembrava muta". Ma adesso, è tutta un'altra storia. Beatrix si è rimessa in sesto, corre, saltella, e scondinzola felicemente. E quella prigione di Yulin, è già un ricordo lontano.

MORTE DA CANI. Daniele Mastromattei per Libero Quotidiano il 24 agosto 2019. Perdere il proprio animale è un dolore insopportabile. Quando il veterinario pronuncia la frase che non avremmo mai voluto sentire: «Ha poche settimane di vita», o, peggio, «non resta che l' eutanasia», ci crolla il mondo addosso. E lo sentiamo tutto, nel suo peso infinito. Non riusciamo a parlare, né a pensare. Non riusciamo neanche a muoverci. Siamo paralizzati, mentre ci passano davanti le immagini più belle trascorse insieme al nostro cucciolo. Di fronte ai ricordi più intensi sentiamo il nostro cuore spezzarsi. A nulla servono le parole di circostanza del veterinario. È la fine. La fine di tutto, delle corse al parco, delle passeggiate in riva al mare, delle serate trascorse accoccolati sul divano, sotto il plaid, davanti alla tv. D'improvviso, il suo lamento ci riporta rapidamente alla realtà: steso sul lettino, ci guarda con i suoi occhietti un po' spenti e bisognosi di amore, ora più che mai.Torna in mente una citazione del filosofo francese Jacques Derrida: lo sguardo dell' animale ci lascia nudi. Così, ci sentiamo davanti al nostro amico che ha smesso di scodinzolare, ma che sembra aver capito tutto. Ed è pronto ad accettare la morte con dignità, con sofferenza silente. Sembra saper accogliere il trapasso all' altro mondo ( più di noi), così come ha accolto la vita. Senza paure. La nostra presunzione di voler controllare ogni cosa, davanti al suo contegno si pone in tutta la sua inutilità. E qui arriva il punto più delicato, come scrive il Daily Mail, dopo aver raccolto una serie di testimonianze: i veterinari svelano quale sia il momento più difficile in assoluto per l' animale che sta morendo e qual è l'errore che commettono i padroni, in quei delicati ultimi istanti di vita del loro compagno di giochi.

EGOISMO. Nel 90 per cento dei casi, i padroni decidono di non assistere all' eutanasia. Egoisticamente preferiscono non soffrire troppo. E invece proprio negli ultimi minuti di vita, le nostre bestiole hanno bisogno di noi e di sentirci vicini. Perché come riferisce uno dei veterinari, «si guardano intorno cercando il proprio padrone, e questo mi uccide». Anche per i medici non deve essere proprio una passeggiata vederli morire. Per questo hanno deciso di lanciare un appello: «Vi prego di non lasciarli. Non fate in modo che passino dalla vita alla morte in una stanza piena di sconosciuti e in un posto che detestano. La cosa che la maggior parte della gente deve sapere, ma che ignora per lo più, è che loro vi cercano quando li lasciate. Passano in rassegna ogni volto nella stanza cercando la persona che amano. Non riescono a capire perché li abbiate lasciati soli proprio quando erano ammalati, spaventati, vecchi o mentre stavano morendo di cancro, quando avevano bisogno del vostro conforto. Non siate dei vigliacchi solo perché pensate che assistere sia troppo difficile per voi». Non possiamo e non dobbiamo essere vigliacchi. Gli animali con noi non lo sarebbero, ci resterebbero accanto, fino alla fine, come è accaduto tante volte. Quante storie abbiamo letto di cani e gatti rimasti vicini per ore al padrone senza vita o a fianco della bara in silenzio.

SULLA TOMBA. A volte, il cane intuisce dove è sepolto il padrone e lo va a trovare al cimitero. Non raramente, il fedele animale non trova la forza, o la volontà, di abbandonarlo per sempre. Se ne va per un po', ma poi ritorna portando con sé regali e giocattoli, con la speranza di rivederlo correre e giocare. E capita che preso da depressione smetta di mangiare e deperisca fino a morirgli accanto. I cani (e i gatti in modo sensibilmente diverso) amano intensamente i loro padroni e il loro attaccamento è per la vita e oltre. Anche se l' etologo Danilo Mainardi la pensava diversamente e sosteneva che gli animali non sanno produrre quel sillogismo, così umano e conturbante: se tutti muoiono anch'io dovrò morire. Ma da allora gli studi hanno fatto passi da gigante e dimostrato altro.

IN CASA. Per tornare agli ultimi attimi di vita dei nostri amati amici a quattrozampe. C' è chi, come la veterinaria di Melbourne Lauren Bugeja, insiste per praticare l'iniezione finale nella casa in cui ha vissuto l' animale. Così «quando il padrone rifiuta di assistere, con l' infermiera passiamo del tempo a giocare e a parlare con la bestiola coinvolta, per far sì che viva gli ultimi minuti nel suo ambiente con maggiore serenità. Per quanto sia possibile». Se accanto al cane, gatto, coniglio (o cavallo) ci fosse il compagno di tante giornate passate insieme, l' addio sarebbe indubbiamente meno amaro. Ma forse una riflessione permette di comprendere, seppur malvolentieri, coloro che preferiscono affidarli ai camici bianchi: la morte è un problema irrisolto, dal quale si cerca di stare alla larga; un mistero che ci spinge a credere che sia solo una tappa e che la nostra esistenza continui in qualche modo, anche se la scienza afferma l' esatto contrario. L'uomo non ha paura di andare sulla Luna o su Marte, ma è terrorizzato dalla morte. Anche il più scettico, negli ultimi istanti di vita nutre la speranza che ci sia qualcosa dopo. Il nulla lo annichilisce. Gli animali invece - azzardano gli esperti - sembrano rendersi conto che il trapasso è una tappa della vita e che dopo, ogni cosa cambi.

LISTA DEI DESIDERI. Per fortuna non tutti si fanno prendere dal panico. C'è chi di fronte alla malattia terminale del proprio "figlio", si fa coraggio e non desidera altro che trascorrere insieme ogni minuto che resta. E stila pure una lista di desideri del proprio quattrozampe, da esaudire prima che sia troppo tardi. Un modo per vivere insieme gli ultimi giorni. Quando Lauren Fern Watt, nata a Dallas e cresciuta a Nashville, ha scoperto che il suo mastino inglese, Gizelle di otto anni, stava morendo di un tumore alle ossa arrivato allo stadio terminale, ha deciso di regalargli un'ultima avventura, dopo aver compilato una lista di cose da fare insieme prima della fine. Lauren e Gizelle hanno cominciato con un divertente giro in canoa. Poi, una passeggiata a Time Square al mattino presto, prima che si riempisse di gente e di traffico. Hanno gustato un goloso gelato alla vaniglia in riva al mare, e siccome Gizelle amava andare in giro in automobile, nella lista non poteva mancare un viaggio di quattro giorni, in compagnia della sua migliore amica, nel New England. La loro storia è diventata un libro "La mia vita con un grosso grosso cane", sottotitolo: "Due inseparabili amiche on the road" (Salani 2018), tradotto in 14 lingue. Anche la fotografa Eva Hagel ha realizzato un progetto ad alto contenuto emotivo e sociale che ha chiamato Project Cleo, in memoria del suo boxer, morto qualche anno fa («È stata un' esperienza che mi ha spezzato il cuore»): scatta foto di famiglie con cani ormai allo stadio terminale. La sua singolare mostra è nel Minnesota. Tra le immagini più commoventi, Poh, il labrador che prima di morire ha fatto il giro del mondo con i suoi genitori umani: dalla Virginia all' Arizona passando per Graceland e posando davanti alla residenza di Elvis Presley a Memphis. Cosa non si farebbe per renderli felici negli ultimi momenti: sono gli unici esseri davvero innocenti che hanno camminato al nostro fianco, gli unici che non hanno mai neppure per un attimo dubitato di noi.

·        Gli amanti della caccia.

I gialloverdi si dividono anche sulla caccia. L'esecutivo impugna la legge sulle doppiette voluta dalla Lega ma osteggiata dal M5s, scrive Alberto Giannoni, Sabato02/02/2019, su Il Giornale. I due partiti di maggioranza si dividono anche sulle doppiette. E i leghisti lombardi devono subire un doppio affronto: l'imposizione grillina su un loro territorio di «caccia» privilegiato, infatti, è anche un'interferenza «romana» che mortifica la battaglia per l'autonomia. L'ennesima interferenza. Il governo ha impugnato, davanti alla Corte Costituzionale, la legge lombarda sull'attività venatoria, un provvedimento semplificatorio targato Lega e Fdi che era stato già contestato dal ministro dell'Ambiente Sergio Costa e durissimamente osteggiato dai grillini locali. Tecnicamente, la decisione del governo verte su alcuni aspetti marginali delle norme lombarde, ma risulta difficile da digerire per i leghisti, soprattutto quelli eletti a Bergamo e Brescia, zone ad alta densità di cacciatori-elettori. Particolarmente doloroso il dettaglio che l'impugnativa sia stata deliberata, giovedì, su proposta del ministero competente agli Affari regionali, la leghista Erika Stefani. Il ricorso, probabilmente firmare controvoglia dalla Stefani, non è che l'ultimo caso di intervento governativo su una Lombardia che è sempre più stanca per quelle che vive come continue «intromissioni» centraliste, e anzi dà battaglia, col governatore Attilio Fontana in testa, per conquistare finalmente una vera autonomia. I tempi non sembrano troppo cambiati dall'impugnativa renziana della legge anti-moschee o da quella che bloccò - nell'era Gentiloni - il taglio dei ticket sanitari. E adesso si parla di una possibile impugnazione anche delle norme che introducono il garante per le vittime di reato. Così, una consigliera ed ex assessora regionale come Viviana Beccalossi, che ha «inventato» il garante e - insieme alla Lega - anche la anti-moschee, adesso nota: «Anche sulla caccia, la Lega è come Penelope: di giorno a Milano tesse norme a favore dei lombardi, di notte a Roma le cancella per accontentare l'alleato 5 Stelle». Beccalossi chiede «uno scatto d'orgoglio» al ministro dell'Ambiente Gianmarco Centinaio, che sembrava volesse avocare a sé la materia-caccia, ma a quanto pare ha dovuto alzare bandiera bianca. Ora sono i 5 Stelle che paiono voler fare la voce grossa. E in Lombardia esultano. L'impugnazione viene rivendica come «una vittoria» da Dino Alberti, consigliere regionale, che invita la maggioranza a «imparare a scrivere le leggi» e a «mettersi a lavorare sulle vere urgenze». «Con i favori alla caccia - infierisce - finiamola qui». Ma la Lega lombarda appare poco propensa ad abbassare la testa. Per il capogruppo Roberto Anelli, per esempio, chi pensa che l'impugnazione sia una sentenza dovrebbe «tornare sui banchi di scuola». Non solo: Anelli vede nel caso la conferma che 5 Stelle e Pd sono «i portabandiera di un animalismo ideologico e di pulsioni anticaccia». E avverte: «Difenderemo a oltranza il nostro diritto a legiferare in materia venatoria».

Elefanti, leoni e rinoceronti si avvicinano all'estinzione. Anche il Wwf Italia si unisce alla 10 Years Challenge per stimare il calo delle specie animali più a rischio, scrive Sara Mauri, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale".  Guardare in uno specchio a ritroso nel tempo, immaginare il «prima». Questo era il senso della sfida #10yearschallenge. Ma questa sfida, che ha popolato i social per qualche giorno, è uscita dai nostri specchi. Abbiamo iniziato a pensare ai cambiamenti di quello che sta succedendo al mondo, dallo scioglimento dei ghiacciai, all'inquinamento in mare. Questo pianeta, dopotutto, è lo spazio in cui viviamo. Cosa abbiamo perso, cosa guadagnato? Il #10yearschallenge del WWF offre una fotografia drammatica, ma reale del nostro tempo. La foresta Amazzonica tra 2011 e 2018 si è ridotta di 60.000 kmq. Di elefanti africani, tra il 2007 e il 2014, ne abbiamo persi 144.000. I grandi pachidermi muoiono per le loro zanne di avorio. A dicembre 2018, in Cambogia sono state scoperte 3,2 tonnellate, provenienti da 1026 zanne d'avorio spedite dal Mozambico e in Congo, il presidente Joseph Kabila ha bruciato 1050 kg di avorio per far accendere i riflettori sulla caccia all'oro bianco. Secondo uno articolo del National Geographic, alcuni elefanti per difendersi dal predatore umano stanno nascendo senza zanne. E i rinoceronti? In Sud Africa, in 10 anni, i rinoceronti uccisi sono stati più di 4000. Negli anni 60 la guerra per i corni ha ucciso metà popolazione. Ma l'ultimo rinoceronte bianco settentrionale maschio, lo scorso marzo, è scomparso: estinto. In tre generazioni abbiamo perso il 42% dei leoni africani. A minacciare la specie sono sempre i bracconieri, che cacciano i leoni per sfida o per conquistare un trofeo. Secondo l'Unione internazionale per la conservazione della natura, è probabile che ne sopravvivano meno di 20.000 in Africa. Del resto, si sono estinti in 12 paesi subsahariani. Per i leoni un pericolo è anche la caccia in scatola, o cunned hunting, come nel film «Mia e il leone bianco», uscito nelle nostre sale a gennaio: una caccia con gli animali confinati in un recinto senza possibilità di fuga. Nello Zimbawe, dal 2000 al 2016, i ghepardi sono passati da 1200 esemplari a 170. Anche le rondini in 10 anni sono diminuite del 40%. Abbiamo visto scomparire recentemente anche la bellissima Ara di Spix. Il pappagallo dalle piume blu, che ha ispirato il film «Rio». Ma anche gli insetti subiscono ingenti perdite: in Germania i ricercatori hanno stimato che la biomassa media di insetti volanti è crollata del 76%. Ma ci sono anche notizie più positive. In 10 anni si è perso, ad esempio, il 45% dell'habitat delle tigri. Però, per la prima volta in 10 anni, questi animali stanno registrando un trend positivo: si è passati dalle 3200 tigri del 2010 alle 3890 attuali. Il Nepal è vicino al raddoppio della popolazione di questi animali. Ma anche per i gorilla di montagna le cose stanno andando meglio: adesso sono 1000, la popolazione è aumentata del 25%. Ed è così anche per il leopardo di Amur: 30 nel 2007, sono diventati 100 nel 2018. Anche per l'Italia le cose vanno meglio: i lupi appenninici, da 1000 del 2010, sono quasi raddoppiati. Per l'orso bruno in Trentino, le cose si stanno muovendo nel verso giusto: nel 1999 erano solo tre, nel 2012 erano già 60. La popolazione di orso bruno marsicano, in Italia, rimane stabile con 55 esemplari. Una delle più grandi sfide del 2018 è stata quella dell'aquila di Bonelli, con il progetto LifeConRasi del WWF. Le aquile di Bonelli si contano a coppie nidificanti: nel 2000 queste coppie erano meno di 20; ora sono 44. «Stiamo assistendo a una vera e propria apocalisse dell'estinzione, che ha avuto negli ultimissimi anni un'accelerazione senza precedenti» dice Isabella Pratesi, direttore della conservazione del WWF Italia. Certo, visti i numeri, c'è ancora molto da fare. E il WWF sta facendo molto. Ma dobbiamo vincere una sfida che non possiamo perdere: alla fine, ne va del futuro che consegneremo ai nostri figli.

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le Allerte Meteo.

Polemiche sulle allerte meteo, Biancheri: “Necessaria una migliore suddivisione del territorio e aggiornamento dei bollettini più costante”. Redazione Riviera Time il 25 Ottobre 2019. Dopo le polemiche scaturite anche sui social network in questi giorni a seguito delle allerte arancioni emanate dall’Arpal, oggi interviene anche il sindaco di Sanremo Alberto Biancheri. Sulla sua pagina Facebook ha infatti scritto una sua riflessione e avanzato alcune proposte: “Al termine di questo ciclo di maltempo che ha portato all’emissione di due stati di allerta meteo arancione in pochi giorni, credo che sia opportuno fare una riflessione – anche qui, pubblicamente – su un tema molto sentito dalla popolazione.

Partiamo da alcune premesse:

– le previsioni e il monitoraggio meteoidrologico ufficiali competono ad Arpal

– il settore Protezione civile regionale emana le opportune allerte meteo

– in relazione ai bollettini ufficiali e alle allerte meteo emanate, i sindaci mettono in atto tutte le disposizioni contenute nei piani di protezione civile ed ogni altra azione ritenuta utile alla prevenzione e alla salvaguardia della sicurezza pubblica

Questo è il meccanismo ufficiale e queste sono le uniche voci ufficiali da ascoltare in un frangente delicatissimo come quello di uno stato di allerta meteo. Ciò premesso, una riflessione propositiva e costruttiva va fatta, filtrando il dibattito da sensazionalismi e protagonismi vari e rifuggendo le opposte categorie del “va tutto bene così” e del “va tutto male, io Arpal non la ascolto”. Si è parlato molto in questa settimana di previsioni meteo e di responsabilità, anche in relazione al colore delle ultime due allerte deciso da Arpal-Protezione civile: arancione. E’ bene ricordare che quella arancione è l’allerta massima per i temporali. Non esiste livello superiore, se non per i rischi idraulici e idrogeologici che, nella loro scala massima, prevedono anche l’allerta rossa. Se a me l’Arpal, che è appunto l’organo ufficiale, dotato di squadre di meteorologi che monitorano costantemente i modelli matematici, dice che saremo in allerta arancione, mi evidenzia “alta probabilità di temporali forti, organizzati e persistenti”, e mi dice che resteremo in questo stato di allerta per ben 24 ore dal loro avviso (immaginate uno scenario di 24 ore consecutive di temporali forti), io le scuole chiudo. Non dimentichiamoci che anche in un recente passato si sono purtroppo verificati episodi tragici per allerte arancioni sottovalutate. Se però, come successo domenica scorsa, alle ore 13 viene emanato un bollettino e uno stato di allerta meteo che indica allerta massima per temporali forti, organizzati e persistenti (allerta arancione) dalle 15 di domenica alle 15 del lunedì dopo (quindi valevole per le successive 24 ore), e poi piove forte solo un’ora tra le 3 e le 4 di notte, allora c’è qualcosa che non va, qualcosa da registrare nel sistema Arpal – Protezione civile. Perché se un’allerta inizia ad essere percepita come inefficace dalla popolazione, se un’allerta smette di avere la sua funzione di vigilanza, questo diventa un problema serio.

Io ho messo sul tavolo due proposte di lavoro:

1) UNA MIGLIORE SUDDIVISIONE DEL TERRITORIO. E’ cosa nota anche ai non esperti di meteorologia che il ponente ligure goda di un microclima particolare tale da renderlo peculiare anche sotto il profilo meteorologico. Sanremo (zona A) non può avere la stessa congruenza meteorologica di Cisano sul Neva (stessa zona A), per fare un esempio.

2) AGGIORNAMENTI METEO PIU’ COSTANTI. Ripeto riprendendo l’esempio di domenica scorsa: non si può dare un allerta meteo arancione per 24 ore senza neanche un aggiornamento nel mezzo. Tanto più se poi effettivamente piove solo un’ora. Servono bollettini ufficiali ogni 3-4 ore, o almeno ogni 6 ore, come accade in Francia. Questo permetterebbe, a mio avviso, di abbattere le percentuali di errore (con tutti i miglioramenti che ne conseguirebbero sul piano sociale della prevenzione, oltreché economico), e di dare a noi sindaci gli strumenti necessari per predisporre le azioni più efficaci anche in un lasso di tempo più breve (ad es. chiusure scuole, strade, palestre, cimiteri). Di questo ed altro parlerò con i miei colleghi sindaci della provincia, al fine di portare avanti un’istanza condivisa e proporre agli organi competenti delle possibili migliorie a tutela della collettività. Nel frattempo, la mia forte raccomandazione a tutti i mie concittadini è quella di non abbassare la guardia nelle fasi di allerta: pur senza allarmismi, prestare sempre la massima attenzione alle disposizioni delle autorità locali e alle norme di autoprotezione del codice di Protezione civile. Le allerte meteo sono una cosa seria e le allerte meteo arancioni non vanno minimamente sottovalutate, come ci ricorda purtroppo la drammatica vicenda di Livorno di due anni fa”.

Allerta meteo, monta la polemica. De Magistris: sindaci con il cerino in mano. Il sindaco: avvisi della Protezione civile sono spesso assai generici, fin quando sarà così da parte nostra prevarrà sempre l'eccesso di zelo rispetto a qualsiasi altra considerazione. Il Roma.net Lunedì 22 Ottobre 2018. «Le allerte della Protezione civile sono spesso assai generiche, un atteggiamento molto pilatesco. Fin quando sarà così, da parte nostra da oggi in poi prevarrà sempre l'eccesso di zelo rispetto a qualsiasi altra considerazione». Così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, spiega la decisione di disporre la chiusura delle scuole nella giornata di oggi alla luce dell'allerta meteo di livello arancione diramata dalla Protezione civile della Regione Campania. «I sindaci sono lasciati sempre con il cerino in mano - dichiara de Magistris - e la catena di comando della Protezione civile lancia allerte mai molto dettagliate, anzi molto spesso assai generiche, affidandosi al sindaco con le sue capacità empiriche di valutare cosa fare. Siccome siamo un Paese che cade a pezzi e che non dà ai sindaci la possibilità di mettere in sicurezza, e siccome la sicurezza dei nostri bambini e ragazzi viene prima di tutto, di fronte ad allerte meteo serie noi alzeremo l'asticella della prevenzione». Secondo de Magistris «oggi nemmeno la Protezione civile nazionale è in grado di fare previsioni accurate e approfondite e si preferisce lasciare la decisione a chi ha la responsabilità di tutto e del contrario di tutto, cioè i sindaci. Ieri fino a sera abbiamo cercato di avere qualche specifica nel dettaglio, per capire se chiudere alcune zone o altre, ma non siamo stati in grado di avere informazioni più dettagliate. Se si investisse maggiormente si sarebbe in grado di prevedere al chilometro quadrato il rischio che c'è. Fin quando sarà così e finché i Governi e ne fregheranno della sicurezza dei nostri concittadini noi alzeremo l'asticella della prevenzione, perché la sicurezza viene prima di qualsiasi altro disagio», conclude. 

Allerta meteo e scuole chiuse: di chi sono le responsabilità? Antonio Corradini su Identitainsorgenti.com il 12 Novembre 2019. L’allerta meteo diramata dalla protezione civile nella serata di ieri si trascina dietro l’ennesima prevedibile chiusura prudenziale di scuole, parchi e cimiteri di Napoli. Una procedura preventiva ormai consolidata che si ripresenta a ogni allerta meteo di livello Arancione, per buona pace di genitori e alunni, con questi ultimi ormai saldamente devoti all’idolatrato sindaco, insperato dispensatore settimanale di buone novelle. Ma se il sindaco – tutto a un tratto – è diventato l’idolo indiscusso dei teenager, dall’altra parte della barricata, per i genitori, rappresenta il simbolo dell’inefficienza e del disfacimento della cosa pubblica, e il soggetto sul quale sfogare le proprie frustrazioni e la propria rabbia repressa per una città che – letteralmente, senza dubbio – se ne cade a pezzi. Tra le accuse più frequenti urlate a mezzo social dalle mamme inferocite sbanca quella relativa all’inesistente manutenzione dei plessi scolastici: come è possibile – si domandano – che durante l’estate non si sia intervenuti per mettere in sicurezza la scuola di mio figlio? Partiamo da un presupposto semplice semplice: nessuno, investito di tali gravose responsabilità, si prenderebbe la briga di sottovalutare un’allerta meteo diramata dalla protezione civile e autorizzare l’accesso di decine di migliaia di ragazzini a scuola. Non a Napoli, non in una città così densamente abitata e così colpevolmente trascurata dalle istituzioni. Tuttavia, al di là delle responsabilità e delle inefficienze dell’amministrazione comunale se le scuole della città si ritrovano in queste condizioni ci sarà pure un motivo.

Il salasso agli enti locali. In questi 10 anni di austerity la politica italiana ci ha insegnato almeno qualcosa: quando c’è da raggranellare denaro per una manovra finanziaria basta volgere lo sguardo verso gli enti locali e tagliarne immediatamente i trasferimenti. Secondo la Corte dei Conti, tra il 2007 e il 2015 l’effetto dei tagli previsti dalle manovre si attesta intorno ai 40 miliardi di euro, 19 per gli enti locali e 21 per le Regioni. Lo scorso anno l’Ufficio studi Cgia, per le manovre di finanza pubblica dal 2011 al 2017,  rilevava una sforbiciata nelle casse dei sindaci italiani di ben 8.3 miliardi di euro, una somma che inevitabilmente si traduce in un crollo degli investimenti pubblici e in un aumento delle tasse comunali utili proprio a risanare le casse prosciugate dallo Stato. Dal 2015, con il blocco dei balzelli locali imposto da Renzi, la sola alternativa in possesso degli amministratori locali era quella di ridurre al minimo i servizi al cittadino, una soluzione che al Sud vuol dire paralisi.

Il Federalismo della Lega e i danni al Sud. Come se ciò non bastasse il dossier sul Federalismo di stampo leghista pubblicato da Report e Openpolis appena due settimane fa ci consegna uno scenario davvero drammatico per il Mezzogiorno (anche se ben noto negli ambienti meridionalisti). La cosiddetta Legge Calderoli entrata in vigore 10 anni fa, come da copione, premia i territori del Centro-Nord in base al paradigma che vede le regioni più ricche, e che dunque erogano più servizi, ricevere ogni anno più soldi dallo Stato. Un sistema perverso creato ad hoc da Calderoli per veicolare maggiore liquidità al Nord in un circolo virtuoso potenzialmente senza fine. Sulla carta la legge doveva prevedere un federalismo efficiente ma anche solidale verso i Comuni in difficoltà, come peraltro sancito dalla Costituzione. Per determinare le cifre da compensare lo Stato avrebbe dovuto stabilire i famosi LEP (livelli essenziali delle prestazioni), e cioè i servizi essenziali ai quali hanno diritto i cittadini su tutto il territorio nazionale. Si decide dunque di calcolare il costo di questi servizi che dovrebbe essere finanziato interamente dallo Stato ma che – come conferma l’inchiesta di Report – non è mai stato realmente erogato.

Si scopre che gli effetti della mancata applicazione della legge sono devastanti per il Sud. Solo nel Comune di Napoli, ad esempio, mancano all’appello ben 159 milioni di euro, circa 165 euro a cittadino di spesa sociale sottratti ogni anno alla sanità, all’assistenza ai più deboli e anche all’istruzione. Insomma, se proprio volessimo attribuire una colpa al sindaco di Napoli sarebbe quella di non rivendicare nelle sedi opportune questa pioggia di milioni impunemente sottratti alla città e, di conseguenza, alle scuole dei nostri figli. Antonio Corradini

Da corriere.it il 14 novembre 2019. «Permettetemi di dire "Viva Venezia". Venezia sta passando delle giornate veramente brutte. Mi viene da pensare a quei 7 miliardi buttati per una cosa che non serve a una cippa, non serve a niente. E che sta lì ad arrugginire». Così Fiorello nella prima puntata di Viva RaiPlay! in diretta sulla rinnovata piattaforma digitale Rai, RaiPlay, parlando del Mose, il sistema di paratie che deve impedire all'acqua di allagare la città della Laguna, in produzione dal 2003. La prima puntata della trasmissione si è aperta con Biagio Antonacci. In studio con Fiorello anche Paola Cortellesi: i due si sono esibiti in un duetto al centro della puntata e in chiusura, e i «Meduza»,gruppo di musica house.

Il Pd tra Game of Thrones e Quota 100. Fiorello ha poi usato un paragone con Game of Thrones, serie fantasy targata HBO, per una battuta sul Partito Democratico: «Ho visto attori esordire a 17 anni nella prima serie e raggiungere Quota 100 nell’ultima. Il Trono di Spade è un luogo di fantasia con personaggi di fantasia in lotta tra di loro. Ma non è la storia del Pd?».

Venezia, lo sfogo di Mara Venier: "Uno scandalo, ecco chi si è mangiato i soldi". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. L'alluvione di Venezia addolora la conduttrice Mara Venier, che all'Huffington post affida le sue parole strazianti. “Mi sveglio sempre molto presto la mattina, ma questa è stata purtroppo diversa dalle altre", dice la star di Domenica In, "ho ricevuto chiamate da amici e parenti per informarmi della situazione tragica che hanno vissuto nella notte e che stanno, purtroppo, vivendo ancora. Sono distrutta”. “Anche se sono lontana da anni", dice la Venier, "è come se non mi fossi mai allontanata. Quando succedono cose del genere, subentrano i ricordi, ritorna una giovinezza spensierata che è lontana. Nel 1966, quando la marea toccò i limiti storici, ci eravamo trasferiti a Mestre, ma a Venezia andavamo ogni giorno: mio padre a lavorare in ferrovia, io a trovare un fidanzatino che avevo all’epoca, un morosetto di 15 anni, io ne avevo 16, ma ricordo che tutto venne affrontato con naturalezza nonostante la tragicità. La cosa paradossale e incredibile è che a distanza di tanti anni, siamo ancora a questo punto. Rimango sbalordita”. C'è spazio anche per una polemica: “I lavori del Mose non sono stati ultimati, anche quello è scandaloso: si sono mangiati i soldi, non si è arrivati a una soluzione funzionale e protettiva per la città”.  

Venezia sommersa, Mose il fantasma della Serenissima. Giulia Merlo il 14 Novembre 2019 su Il Dubbio. Apocalisse in laguna. In costruzione dal 2003 l’opera non è ancora finita tra costi lievitati e inchieste. Pensata per risolvere il problema dell’acqua alta, la costruzione della struttura costata 5,5 milardi è stata bloccata nel 2014 da un’indagine per tangenti. Un fantasma monco e costoso aleggia su Venezia. Avrebbe dovuto salvarla, oggi è il principale accusato per non aver evitato una delle più disastrose ‘ acque alte’ che hanno colpito la laguna. Il Mose, acronimo di Modulo Sperimentale Elettromeccanico, è un complesso idraulico di dighe mobili che avrebbe dovuto salvare la Serenissima dalle alte maree del Mar Adriatico. Invece si è trasformato in un buco nero di fondi pubblici e scandali giudiziari. L’opera è stata pensata negli anni Ottanta come sistema di dighe invisibili ( per non rovinare la città) che si alzino e si abbassino per tenere la marea fuori dalla laguna. I lavori di costruzione sono cominciati nel 2003, sotto il governo Berlusconi e la competenza a gestire il complesso viene assegnata al Consorzio Venezia Nuova ( che coordina anche il Piano generale degli interventi di salvaguardia della laguna secondo una legge speciale del 1984, concessionario del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – Magistrato alle Acque di Venezia). Nel corso degli anni, il costo per l’opera è lievitato: nel progetto del 2003 era stimato in 7miliardi di lire, nel 2014 il finanziamento è lievitato a 5,5 miliardi di euro e i lavori si sono fermati a causa di un’inchiesta giudiziaria per fondi illeciti contro alcuni membri del Consorzio Venezia Nuova. Ad oggi, e l’opera risulta ancora non completata: in un’audizione del 2018, l’amministratore straordinario del Consorzio, Francesco Ossola ha spiegato che , oggi risulta ancora incompleto: per tutto il 2020 sono previste attività di collaudo e consolidamento e la data di conclusione e di consegna è stata fissata al 31 dicembre 2021. L’opera, realizzata in calcestruzzo armato per ancorare le paratoie e invasiva per l’equilibrio idrogeologico e dell’ecosistema della laguna, ha suscitato critiche forti da parte degli ambientalisti ma anche dei politici ( uno tra tutti, l’ex sindaco Massimo Cacciari), che hanno lamentato gli altissimi costi di realizzazione le enormi spese di manutenzione. Corruzione, frode fiscale e finanziamento illecito dei partiti. Questi i reati ipotizzati dall’inchiesta giudiziaria del 2014, durata circa tre anni e secondo la quale il consorzio Venezia Nuova avrebbe raccolto circa 10 milioni di euro in 4 anni con un sistema di false fatturazioni, poi girati come tangenti ai politici per favorire e velocizzare la realizzazione dell’opera. Testimone chiave dell’inchiesta e grande accusatore dei politici, Giovanni Mazzacurati, il gran burattinaio del Consorzio Venezia Nuova arrestato nel 2013. L’ipotesi di corruzione, concussione e riciclaggio ha riguardato, tra gli altri, l’ex presidente della Regione Veneto per tre mandati, il forzista Giancarlo Galan. Lui, secondo i magistrati percepiva «uno stipendio di un milione di euro l’anno più altri due milioni una tantum per le autorizzazioni» necessarie all’opera. Il procedimento a suo carico, dopo l’arresto, si è concluso il 9 ottobre 2014, dopo 78 giorni di carcere, quando il Gip ha concesso i domiciliari in seguito a un patteggiamento di 2 anni e 10 mesi, restituendo 2,5 milioni di euro. Il 28 febbraio 2017, Galan è s tato condannato in primo grado dalla Corte dei Conti ad un risarcimento danni pari a 5,8 milioni di euro per le vicende legate al Mose. Nel 2019, infine, il Gip di Venezia ha disposto un sequestro di 12,3 milioni di euro a carico dell’ex presidente della Regione, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo dell’attività finanziaria, riguardante il reinvestimento all’estero delle tangenti. Tra gli arrestati nell’inchiesta del 2014, anche l’allora sindaco di Venezia del centrosinistra Giorgio Orsoni, accusato di finanziamento illecito di 450- 550.000 euro per la sua campagna elettorale da sindaco nel 2010 dal Consorzio Venezia Nuova presieduto da Giovanni Mazzacurati e dall’imprenditore della Mal- tauro Infrastrutture Enrico Maltauro. Orsoni, dopo dimissioni da sindaco, è stato assolto dopo tre anni di processo, sul finanziamento ‘ in bianco”, perchè ‘ il fatto non costituisce reato’, mentre sono state dichiarate prescritte le presunte dazioni di denaro consegnate in nero. L’ex ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, è stato invece condannato per corruzione a 4 anni, alla confisca di 9.575.000 euro e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni ( il reato si è poi estinto in appello nel 2019 dopo la morte prematura in un incidente d’auto dell’ex ministro). Non solo ragioni ambientali, ma anche e soprattutto amministrative hanno sempre creatopolemica contro il Mose. Tra le crtiche, il fatto che l’intero complesso delle opere per la salvaguardia della città siano state affidate a un unico concessionario, eliminando ogni obbligo di bando di gare e rendendo più complicate le funzioni di controllo. La linea di pensiero contraria alla maxi opera, inoltre, prevedeva di spendere risorse in attività manutentiva e interventi mirati, come quelli per la difesa di piazza San Marco. Dopo l’inchiesta, il Consorzio Venezia Nuova è stato commissariato. A mancare perchè l’opera vada a pieno regime è il motore ( con conseguenti compressori, attuatori, sensori, cablaggi necessari), ovvero ciò che farà muovere le paratoie per chiudere fuori dalla laguna l’acqua alta. Al momento della consegna, a fine 2021, si stima che Venezia dovrà spendere circa un centinaio di milioni di euro l’anno per la manutenzione della struttura: l’acqua, infatti, corrode cerniere e paratie e lo sta facendo già da anni, anche se il Mose non è in funzione.

L’apocalisse a Venezia ha la forma dell’acqua. Lanfranco Caminiti il 14 Novembre 2019 su Il Dubbio. Così annega la città con le fondamenta nel mare. L’atrio della basilica di San Marco è finito coperto dall’acqua alta, il salso ha aggredito I mosaici che sono lì da mille anni e mette in pericolo la stabilità dell’edificio. Se l’Apocalisse verrà, inizierà da Venezia. Cos’avrebbe da colpire a Milano, quel bosco verticale di Boeri? Cos’avrebbe da colpire a Firenze, quell’interrotta sequenza di pizzerie, gelaterie, jeanserie che ne hanno cambiato per sempre il volto? E a Roma? Cos’avrebbe da colpire a Roma che non sia già sinistrato dall’incuria di uomini e amministrazioni? Tra buche, sprofondamenti, voragini, disservizi? E poi, se i quattro cavalieri dell’Apocalisse arrivassero a Roma farebbero la fine del marziano di Flaiano, qualcuno chiederebbe uno strappo per arrivare prima in centro, qualcuno salirebbe in groppa chiedendo se c’è tassametro e regolare fattura e balzando sul bianco destriero – aho’ gajardo, ammazza’ che ve siete ‘nventati. No, è a Venezia che inizierà l’Apocalisse – perché è la città più delicata del mondo, proprio come un vetro soffiato; la città più improbabile del mondo, non si costruiscono fondamenta sull’acqua ma sulla terra – così dicono le Scritture; la città più bella del mondo. Quando l’Apocalisse verrà a Venezia, essa non porterà carestia, guerra, peste, morte – e non avrà la forma del fuoco che tutto brucia. Quando l’Apocalisse verrà a Venezia, avrà la forma dell’acqua. Di acqua è vissuta Venezia, della sua intelligenza secolare di sfidarla, domarla, vincerla, convivervi, di acqua perirà. Il Mose, pasticcio e spreco, sarà la sua nemesi: non divide le acque, non le trattiene, anzi consente che passino, che sommergano. Come i villaggi delle valli che, quando si costruisce una diga, finiscono sommersi, la guglia del campanile che ancora appena affiora, in certi giorni e in certe condizioni addirittura si può sentire il rumore sinistro della campana, e tutto il resto sotto: le case, le scuole, il forno, l’officina, la chiesa. Così sarà: il campanile di San Marco che appena affiora – e tutto il resto sotto. Quando l’Apocalisse verrà e avrà sommerso tutto, vivremo sulle zattere e ci sposteremo seguendo le correnti e nessuno ricorderà più che un giorno il mondo era popolato di città bellissime – e avremo le branchie e avremo i piedi pinnati, proprio come Kevin Costner in Waterworld, perché avremo imparato a vivere più nell’acqua che fuori. E cercheremo una Dryland, una terra asciutta – che è come l’isola del tesoro – che però è solo un racconto, una storia, una fiaba che si continua a dire ai bambini, non c’è nessuna isola asciutta. I popoli del mare, creature d’acqua che vivono da sempre sul fondo marino, da prima che l’uomo apparisse sulla terra, sono stanchi. Del nostro inquinamento, delle nostre guerre sottomarine, della Great Pacific Garbage Patch – il continente di spazzatura che galleggia nel Pacifico grande quanto la Spagna, e forse di più. Dei pesci, le creature con cui convivono, che muoiono ingoiando le nostre schifezze, le nostre plastiche che non scompaiono mai. I popoli del mare hanno deciso di sommergerci, con degli tsunami che creano apposta per coprire d’acqua le nostre intollerabili città. Forse, come nel film Abyss di Cameron, un semplice gesto d’amore, un semplice atto di altruismo, ci può salvare. Li commuoverebbe, li tratterrebbe dai loro terribili propositi. Ne siamo ancora capaci? C’è un uomo che ne è ancora capace? C’è un bimbo che è pronto a mettere il dito nella diga che sta già gocciolando dal buco e presto il terrapieno esploderà invadendo il villaggio? L’atrio della Basilica di San Marco è andato sommerso – quello spazio era, un tempo, il luogo del pentimento. E della punizione. L’anno scorso ci furono due picchi intorno al metro e mezzo. Stavolta siamo andati oltre. È la quinta volta nella storia. Il salso ha aggredito i mosaici, i mattoni, le colonne, che sono lì da mille anni – si teme per la sua stabilità.L’Apocalisse è già arrivata. E è iniziata a Venezia.

Laguna in ginocchio, il sindaco Brugnaro: «La diga va ultimata». Il Dubbio il il 14 novembre 2019. Alta marea attesa anche oggi e domani. Il patriarca della città, Francesco Moraglia, ha raccontato di «danni irreparabili alla Basilica di San Marco Venezia è in ginocchio, con l’acqua alta che ha invaso la cripta della cattedrale di San Marco rovinando i suoi tesori, ma anche case, hotel e negozi, con vaporetti e barche di ogni dimensione finiti in fondo alla laguna o arenati. Nel tardo pomeriggio di ieri anche il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si è recato in città per affrontare «la situazione di emergenza drammatica», mentre il sindaco Roberto Brugnaro ha chiesto di «ripartire fornendo soluzioni e facendo squadra: dobbiamo difendere la città, il Mose va finito e vogliamo partecipare alla gestione del sistema di barriere mobili, inserendolo in un piano più generale». Proprio il Mose e il fatto che l’opera ancora non completata non abbia protetto la città è al centro di una aspra polemica tra il sindaco che vuole ultimarla e gli ambientalisti da sempre contrari. Il governatore del Veneto Luca Zaia ha parlato di «scenario apocalittico su Venezia e tutto il litorale», mentre il patriarca della città, Francesco Moraglia, ha raccontato di «danni irreparabili alla Basilica di San Marco, perché l’acqua che la invade è salata e quindi distrugge soprattutto quando si asciuga nella parte bassa dei mosaici e pavimenti». I parlamentari veneti si sono mobilitati e il cordoglio per il disastro della città lagunare è arrivato da tutti i partiti politici. Intanto, i veneziani contano i danni, si sono già rimboccati le maniche e sono impegnati a spazzare e pulire gli ambienti dai quali l’acqua si èa momentaneamente ritirata. Il Centro maree ha indicato il prossimo picco per le 23,35 di ieri a 120 centimetri, e quello successivo per oggi alle 10,50 ( 135 cm). Molto meno dei 187 centimetri di due giorni fa, che hanno acceso il faro di tutto il mondo sulla Serenissima ferita.

Venezia, Vittorio Sgarbi: "La Basilica di San Marco è allo sfinimento. I materiali si stanno sfarinando e..." Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Vittorio Sgarbi, turbato dalla marea che ha devastato Venezia, avverte della necessità che il Mose parta subito, "lo Stato non può perdere tempo e aspettare un altro anno perché l'acqua alta ritorni". Occorre invece "chiudere rapidamente questo progetto e farlo partire - continua Sgarbi - è inutile fare altre considerazioni su interventi speciali, questo è stato costoso e speciale, ora bisogna che parta. Non si può continuare a traccheggiare sui tempi, sulla corruzione che ha ritardato, sul fatto che pare che manchino 5 milioni, una cifra minima per chiudere una cosa che è costata 20 miliardi". Il critico d'arte non poteva non considerare che la Basilica di San Marco è in pericolo: "Non conosco l'entità dei danni, ma presumo che sia quella stabilmente legata all'acqua alta, per cui è una questione di edifici, non credo che abbia toccato dipinti o oggetti che sono ovunque esposti in condizioni non raggiungibili dall'acqua". Certamente "esiste un logoramento organico dei materiali che si sfarinano, quindi il rischio è molto alto e molto grave riguardo alle strutture architettoniche. San Marco, dopo secoli, oggi è allo sfinimento".

Si muore a Venezia mentre il Mose fa cilecca. In teoria le dighe mobili da 5,5 miliardi di euro sono pronte alle quattro bocche di porto. In pratica nessuno ha il coraggio di metterle in funzione perché finora le prove sono spesso fallite. Il rischio è di peggiorare una situazione già drammatica. Gianfranco Turano il 13 novembre 2019 su La Repubblica. Acqua alta catastrofica nella laguna di Venezia. Con una marea prevista a 187 centimetri, ma per fortuna attesa in calo dagli ultimi bollettini, non c'è difesa privata che tenga. Quale migliore occasione per mettere in funzione il sistema delle paratoie mobili detto Mose? Purtroppo la città dei dogi dovrà cavarsela senza le dighe da 5,5 miliardi di euro di investimento. Secondo quanto risulta all'Espresso, il Magistrato alle acque ha dato parere negativo all'ipotesi di attivare le difese anti-marea che pure, in teoria, sono già attivabili nelle quattro bocche di porto di di Malamocco, Lido, Chioggia e Treporti. Una giornata con venti da nord a 100 km/h potrebbe mettere a dura prova un sistema che ha già mostrato difetti gravissimi di funzionamento, alcuni dei quali denunciati dall'Espresso  in un'inchiesta  che ha scatenato le ire della Mantovani, società della famiglia Chiarotto alla testa del Consorzio Venezia Nuova. La lista di incidenti di percorso dell'opera è già molto lunga. Solo pochi giorni fa, il quotidiano La nuova Venezia annunciava che per troppe vibrazioni le dighe della bocca di Malamocco non sarebbero state sollevate. A Treporti ci sono problemi di sabbia nei meccanismi e a Chioggia gli impianti devono essere gestiti manualmente. Il Consorzio Venezia Nuova, colpito da indagini della magistratura e commissariato, ha annunciato che i lavori saranno pronti nel 2021. Ma le incertezze, e i danni che il tempo e la salsedine hanno recato alle parti sommerse da anni, fanno dubitare che l'appuntamento sarà rispettato tanto più che le cifre stimate per la manutenzione annuale dell'infrastruttura (20 milioni a carico dell'investitore pubblico) appaiono grossolanamente sottostimate rispetto alle necessità ingegneristiche. Nel frattempo Venezia subisce il danno e la beffa di un sistema di intervento statale fallimentare, ideato durante la Prima Repubblica e messo a servizio di corruzione e tangenti. E l'inverno non è neanche incominciato. Sono pesantissimi i danni provocati dalla marea a Venezia: gondole e barche sono state strappate dagli ormeggi e alcune sono rimaste incastrate tra i palazzi. Tre vaporetti sono affondati e alcune imbarcazioni sono finite alla deriva.  

Venezia, decine di milioni di tangenti e una ventina di condanne: perché non c’è il Mose a proteggere la città. L'ex governatore Galan, l'ex assessore Chisso: la lunga lista di politici e imprenditori responsabili del sistema di tangenti scoperto tra il 2013 e il 2014 che tra arresti, indagini e processi ha bloccato lo sviluppo dell'opera. Secondo i magistrati attorno al Mose sarebbero state emesse 33 milioni di euro di fatture false: almeno la metà - 16/17 milioni - sarebbero servite a pagare mazzette. Ma altre stime portano a una stima di quasi cento milioni. Il Fatto Quotidiano il 13 Novembre 2019. Un numero preciso sull’ammontare delle tangenti non c’è. E questo la dice lunga sul livello di corruzione che ha caratterizzato la storia del Mose, acronimo di Modulo Sperimentale Elettromeccanico che rimanda direttamente al profeta capace di far separare le acque del Mar Rosso. È questo che dovrebbe fare il Mose, senza accento: proteggere Venezia dall’acqua alta. Ideato negli anni ’80, cominciato nei duemila, il progetto non ha ancora visto la luce. Colpa, sopratutto, di un sistema di tangenti scoperto tra il 2013 e il 2014 e che tra arresti, indagini e processi ha bloccato lo sviluppo dell’opera. Secondo gli inquirenti attorno al Mose sarebbero state emesse 33 milioni di euro di fatture false: almeno la metà – 16/17 milioni – sarebbero servite a pagare tangenti. Altre stime, invece, portano a ipotizzare quasi cento milioni di euro di mazzette. La data spartiacque (è proprio il caso di dirlo, nonostante il gioco di parole) nella storia dell’opera è il 4 giugno del 2014: quel giorno Venezia viene travolta da un’ondata d’alta marea partita dalla procura. Vengono arrestate 35 persone, un centinaio gli indagati. In quell’elenco di nomi ci sono imprenditori, politici, amministratori, di centrodestra e centrosinistra, che negli anni sono entrati nel libro paga di Giovanni Mazzacurati, a lungo direttore generale del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per le opere di salvaguardia della Laguna dalle acque alte. Mazzacurati voleva assicurarsi di non avere ostacoli nei finanziamenti pubblici per il Mose. Per questo pagava politici e imprenditori. Un giro colossale di mazzette, all’inizio calcolato in cento milioni di euro per cinque anni, che aveva colpito l’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, l’ex ministro dei Trasporti, Altero Matteoli. L’indagine era nata dagli accertamenti sui fondi neri creati all’estero da alcuni imprenditori legati al Consorzio Venezia Nuova: Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani, Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan diventata imprenditrice e poi lo stesso Mazzacurati. I tre decisero di patteggiare e sulle loro dichiarazioni è nata l’inchiesta che ha travolto Venezia. Il nome principale finito nella bufera era quello del “doge” Galan, potente ex governatore, che ha patteggiato due anni e dieci mesi per corruzione continuata. Gli hanno confiscato la villa sui Colli Euganei, per un controvalore di due milioni e 600mila euro. L’ex governatore, poi deputato di Forza Italia e poi ministro dell’Agricoltura, è stato anche condannato a risarcire lo Stato per 5 milioni 808 mila euro, di cui 5 milioni 200 mila euro per danno all’immagine e 608 mila euro per danno da disservizio. Ha patteggiato sempre per corruzione anche l’allora assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso: per lui due anni e mezzo di pena. Si è accordato a due anni l’ex magistrato delle Acque, Patrizio Cuccioletta. In totale il 16 ottobre del 2014 furono 19 gli indagati che patteggiarono davanti al giudice di Venezia. A Milano, invece, si accordarono con la procura – in uno stralcio dell’inchiesta – l’ex generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante e l’ex ad di Palladio Finanziaria Roberto Meneguzzo, rispettivamente a 4 anni di carcere con una confisca di 500 mila euro e a 2 anni e mezzo di reclusione. Provò a patteggiare anche l’ex sindaco di Venezia, Orsoni, ma il gup respinse l’istanza. Si aprì dunque un processo col rito ordinario: l’ex sindaco è stato assolto in appello nel luglio scorso per alcuni capi d’accusa di finanziamento illecito e prescritto per altri. La stessa decisione emessa per l’ex presidente del Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva. Sempre i giudici di secondo grado hanno dichiarato il non doversi procedere per l’ex ministro dei Trasporti, Altero Matteoli, ritenendo “il reato estinto per morte dell’imputato” e revocando “le corrispondenti situazioni civili”. In primo grado l’esponente del Pdl era stato condannato a 4 anni per corruzione. Condanna a 4 anni confermate in appello anche per Erasmo Cinque, con confisca di beni ridotta 9 milioni di euro. All’ex presidente di Adria infrastrutture, Corrado Crialese, è stata rideterminata la pena a un anno e otto mesi. Prescritte tutte le accuse a carico dell’imprenditore veneziano Nicola Falconi, in primo grado condannato a 2 anni e 2 mesi oltre che a un maxi risarcimento di 3 milioni di euro, poi ridotto a circa 100 mila euro. I grandi accusatori della vicenda Mose, invece, hanno patteggiato solo il 28 febbraio 2019: Baita, Minutillo, Mirco Voltazza, Nicolò Buson, ex direttore finanziario di Mantovani, e Pio Savioli. I primi tre hanno patteggiato 2 anni per corruzione e frode fiscale, mentre hanno chiusa la propria vicenda giudiziaria con un anno e otto mesi Buson e Savioli, quest’ultimo solo per reati fiscali. Il gup ha disposto confische per circa 24 milioni, per la maggior parte a carico di Baita e Buson, per i ruoli che avevano in Mantovani. Un primo tentativo di patteggiamento era fallito perché Baita e Buson non avevano dimostrato la possibilità di saldare le richieste economiche.

Il Mose di Venezia: in che condizioni è l'opera sott'acqua? Le Iene il 9 dicembre 2019. Sabbia, incrostazioni e anche un danneggiamento a un angolo della paratoia. Giulio Golia è andato a vedere come si presenta il Mose. Un’opera costata 5 miliardi e mezzo di euro per difendere dall’acqua alta Venezia e non ancora in funzione. L'ingegner Alberto Scotti è il papà del Mose, il sistema di barriere mobili che dovrebbe difendere Venezia dall’acqua alta. Ha iniziato a lavorarci quando aveva 40 anni, oggi ne ha 73. È un’opera costata oltre 5 miliardi e mezzo, il triplo dell’autostrada del Sole, e non è mai entrato in funzione. Lunedì notte la parte dell’opera posata alla bocca di Malamocco si è mossa per un test. Il Mose si è alzato e il sindaco di Venezia ha parlato di momento storico. A Cuta Simioli lo stato delle paratoie lascia però perplessi. “Alzano le prime dieci, ma mai le ultime. Chi le ha mai viste? Sfido a vedere chi le ha alzate”, dice un testimone. Qui tra acqua e sabbia lo stato delle paratoie è drammatico: “Vorrei tanto che riusciste ad andare sotto e filmare velocemente”. “Credo che per la manutenzione delle paratoie non si possa parlare di meno di 100 milioni di euro all’anno”, ha stimato l’ingegner Scotti. Secondo le ultime stime l’opera sarebbe stata realizzata per il 94%. “Forse la parte strutturale, ma quella elettronica che comanda ed è più delicata? Nessuno lo sa”, puntualizza il professore Giuseppe Gambolati. Il progetto prevede anche dei compressori per movimentare le paratoie. Al momento però c’è solo una squadra di persone che movimenterà il Mose. Nel 2016 a Punta Sabbioni un paio di paratoie sono rimaste alzate di 70 centimetri per i detriti e altro materiale che si era accumulato sul fondale marino. Siamo andati nella pancia del Mose a 12 metri sotto il livello del mare per vedere com’è messo. Ci sono due gallerie parallele dove ci sono tutti gli impianti per muovere il Mose. Vediamo ancora cavi penzolanti, ascensori non installati e la control room da cui tutto verrà monitorato non esiste. Ci dicono però che tutto verrà completato entro metà 2021, ma sono in tanti a essere scettici su questa data. Alla fine non riceviamo l’autorizzazione a fare le riprese sott’acqua. Riusciamo a vedere com’è lo stato là sotto grazie alle riprese che ci ha inviato un sub. L’acqua in laguna a Punta Sabbioni è torbida attorno alle paratoie ci sono sabbia e incrostazioni. Un pezzo di angolo di paratoia in acciaio è piegato, sembra quasi danneggiato. Dopo aver visto queste immagini lo chiediamo ancora una volta: in quali condizioni sono le paratoie del Mose?

PERCHÉ IL MOSE NON FUNZIONA? L’esperto: nasce morto, è solo un esercizio di calcolo.  Marco Mancini il 14.11.2019 su Il Sussidiario. Il Mose di Venezia? “La sua realizzazione ha visto una serie di errori, tecnologie che non funzionano, ingegneria che lascia a desiderare”. Usa parole profondamente amare il professor Marco Mancini, docente ordinario di Costruzioni idrauliche, insegnante di Sistemazione di bacini idrografici e infrastrutture idrauliche al Politecnico di Milano, nonché responsabile di progetti scientifici del Miur e dell’Esa, quando gli chiediamo della drammatica situazione che sta vivendo Venezia in queste ore. L’innalzamento record del livello delle acque, che ha toccato l’altro ieri addirittura i 187 centimetri, ha provocato la morte di due persone e danni gravissimi a strutture di interesse mondiale come la Basilica di San Marco.

Può essere il Mose la soluzione a questi problemi?

«In tanti hanno studiato il Mose come possibile soluzione, ma i risultati di un progetto che di fatto non è stato chiuso mai, mi fanno dire che è una soluzione che lascia a desiderare».

In effetti, nel mirino è più volte finito il sistema protettivo, le schiere di paratie mobili a scomparsa poste alle cosiddette bocche di porto, cioè i varchi che collegano la laguna di Venezia con il mare aperto, che nelle intenzioni dovrebbero isolare la laguna dal mare Adriatico proprio durante le fasi di alta marea. Perché?

«Sarebbe interessante andare a chiedere a tutti quelli che hanno gestito il Mose quanto tempo hanno perso. E ai progettisti, perché non funziona».

Pochi giorni fa, nel corso dell’ennesimo tentativo di collaudo della struttura, si sono verificate vibrazioni anomale e le cerniere delle paratie sono risultate arrugginite e da sostituire…

«Il Mose è un bell’esercizio di idraulica, ma probabilmente non è inserito bene nella realtà di Venezia».

C’è chi porta come esempio il sistema posto a difesa della città di Londra, sul Tamigi. Che ne pensa?

«È sì un sistema analogo, ma per la situazione del territorio che si affaccia sul Tamigi, meno complesso e meno esteso rispetto alla Laguna, è più semplice dal punto di vista della movimentazione della paratia, che infatti non si gonfia. Lì non viene immessa aria e si toglie l’acqua come con il Mose, ma funziona con un meccanico rigido».

Insomma, sul Mose l’ingegneria italiana non ci fa una bella figura?

«Stiamo parlando di società di ingegneria importanti che hanno lavorato per il Mose, eppure il sistema non funziona. Vuol dire che il progetto non può essere solo un mirabile esercizio di calcolo, ma va inserito bene là dove deve funzionare».

È un po’ quello che è successo con il ponte Morandi a Genova?

«Anche il ponte Morandi era un mirabile esercizio di calcolo, ma lo stesso Morandi si diceva preoccupato perché era posizionato in un posto dove l’atmosfera era corrosiva per la sua struttura, dunque non era la soluzione giusta. Evidentemente anche per il Mose vale lo stesso discorso».

C’è da augurarsi, quindi, che vengano risolti i problemi tecnologici, frutto di una progettazione non del tutto attenta, così che le pareti del Mose non corrano il rischio di arrugginirsi?

«La sua realizzazione ha visto evidentemente una serie di errori, tecnologie che non funzionano adeguatamente e probabilmente siamo in presenza di un’ingegneria che lascia un po’ a desiderare».

Intanto tutto il mondo è sottoposto a cambiamenti climatici estremi. Quanto influiscono sulla singolarità di Venezia dal punto di vista idrologico?

«Il problema di Venezia è complesso. Nasce su una laguna, che è soggetta alle fluttuazioni cicliche delle maree, e l’acqua alta è un fenomeno che si manifesta per la concomitanza di più fattori, legati per esempio all’astronomia o ai venti che provengono dal sud dell’Adriatico. A questo dobbiamo aggiungere altri problemi come i piccoli cedimenti strutturali della falda, le condizioni climatiche peggiorate negli ultimi anni e il complessivo innalzamento del livello del mare. E in futuro il quadro sicuramente si aggraverà. Purtroppo eventi di questo tipo si verificano e si verificheranno sempre più spesso e Venezia ne soffre sempre di più». (Paolo Vites)

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 18 novembre 2019. L' uomo del Mose ha detto no. Quando l'acqua intorno a Venezia saliva e saliva ancora, è stato l' ingegner Alberto Scotti il primo a escludere la possibilità di sollevare d' urgenza le paratoie agli imbocchi della Laguna. «Sarebbe stato un atto di pura incoscienza. Dovete togliervelo dalla testa, il Mose non può ancora proteggere Venezia perché non è finito. Sarebbe stato come guidare una Ferrari senza i freni». Al mondo non c' è persona che conosca quest' opera idraulica quanto l' ingegner Scotti: è lui che l' ha progettata alla fine degli anni Ottanta (era a capo di un pool di 150 ingegneri), ed è lui che da trent' anni ne assiste al parto infinito. «Più che il padre, sono il nonno del Mose». Milanese, 73 anni, amministratore delegato della Technital, del sistema di dighe mobili conosce ogni bullone. E non è un modo di dire. Il sindaco grillino di Chioggia sostiene che se aveste chiuso almeno la bocca di Lido, i danni sarebbero stati inferiori.

«Non sa di cosa sta parlando. Tecnicamente era possibile sollevare le barriere, ma poi non saremmo stati in grado di seguire la marea, perché gli impianti non sono pronti».

In che senso?

«Per alzarle nel tempo utile di una mezz' ora, come avverrà quando il Mose sarà a regime, servono tre compressori. Ad oggi ne abbiamo solo uno. Ci avremmo impiegato cinque ore, non aveva senso».

Si sapeva dal giorno prima che sarebbe arrivata l' alta marea. Non potevate programmarlo?

«Il Mose si può azionare solo quando l' acqua raggiunge un certo livello, intorno agli 80-90 cm. Non si può e non si deve farlo prima. E comunque se anche avessimo chiuso le bocche del Lido e di Chioggia, lasciando aperta quella di Malamocco dove il test di prova ha mostrato vibrazioni anomale nelle condotte, sarebbe cambiato poco: forse dieci centimetri di acqua in meno rispetto ai 187 che si sono avuti».

L' allarme per Venezia non imponeva di fare almeno un tentativo?

«La decisione è stata molto sofferta. Non creda che io e i due commissari del Consorzio non ci sentiamo addosso questa responsabilità. Ma in quelle condizioni sarebbe stata una follia».

Cosa si rischiava?

«L' allagamento delle gallerie dove ci sono i tecnici a lavorare. Senza collaudo, e con un solo compressore, il mare sarebbe passato sopra le paratoie».

Quando avete preso la decisione?

«Il giorno prima, al telefono. Sapevamo che avremmo avuto acqua a 150-160 cm, non certo 187. Di fronte a quell' informazione, sono contento della nostra scelta».

Scelta unanime?

«L' avvocato Fiengo era possibilista, ma né io né l' altro commissario, l' ingegner Ossola, l' abbiamo ritenuta un' ipotesi fattibile. Capisco l' esigenza della politica, perché la popolazione è stremata, ma il Mose non può ancora essere azionato in sicurezza».

Il prefetto, la Protezione civile o il ministero in teoria potrebbero obbligarvi a farlo.

«Se qualcuno me lo impone io scappo».

Però comprenderà il nervosismo dei cittadini per un' opera di cui si parla da trent' anni, costata quasi sei miliardi, e incompiuta.

«Ai tempi di Giovanni Mazzacurati, il Consorzio diffondeva cronoprogrammi del tutto impossibili da rispettare. Ora abbiamo una data di consegna realistica: 31 dicembre 2021. Stavolta ce la faremo».

Ma perché ci state mettendo tanto?

«Vi dimenticate che i fondi dello Stato non sempre stati erogati con continuità. Intorno al 2008 chiusero i rubinetti e il Consorzio dovette chiedere un finanziamento internazionale per andare avanti. Poi c' è stata l' inchiesta dei magistrati veneziani, giustissima, ma che ha portato alla fuga o al fallimento delle grandi ditte che costruivano il Mose».

Le ditte delle tangenti e delle sovrafatturazioni, ingegnere.

«Ripeto, inchiesta sacrosanta. Però ora Condotte, Mantovani, Fincosit non ci sono più, e questo rallenta i lavori. È inevitabile, il Mose è un' opera innovativa e complessa, non è come fare un ponte dove puoi alternare le imprese senza troppi problemi. Era sbagliato illudersi che il terremoto giudiziario non avrebbe creato rallentamenti».

Anche adesso, però, non pare che andiate spediti.

«Il Provveditorato alle opere pubbliche del Veneto non vuole darci i soldi per aggiustare gli errori degli altri. Ma gli altri, cioè le grandi ditte, sono scomparsi. E dove lo troviamo il denaro per rimettere a posto gli sbagli del Sistema Mazzacurati?» 

Hanno rovinato per sempre il Mose?

«No, però l' eredità è rognosa. Ad esempio l' aria condizionata nelle gallerie subacquee, che permette di tenerle asciutte, doveva essere la prima cosa da fare, invece l' hanno messa per ultima. Anche la corrosione delle cerniere delle paratoie in parte è dovuta a errori di programmazione».

Errori voluti, per poi lucrarci sopra?

«Per ignoranza, in realtà. Non erano esperti in impianti, prendevano decisioni in termini di economia di azienda. Ora non si può tornare indietro».

È comunque costato uno sproposito.

«Se lo confrontiamo con barriere simili costruite all' estero, sul Tamigi o sulla Schelda, costa la metà».

Avevate preventivato un terzo di quanto ha dovuto poi sborsare lo Stato. Non ha niente da dire sulle decine di varianti in corso d' opera?

«Ha ragione. Ma qui parliamo di un' opera idraulica innovativa che non ha eguali al mondo. Era impossibile azzeccare il prezzo finale. Anche tutti gli "acciacchi" attuali, come le vibrazioni nelle condotte, sono normali per un impianto di questa complessità».

In molti ritengono che il Mose sia già obsoleto, perché pensato negli anni Ottanta quando gli effetti del riscaldamento globale sulle maree erano sottovalutati.

«Abbiamo fatto i calcoli e studi fino al 2000. Il Mose è un sogno: raggiunge l' obiettivo di difendere Venezia senza che si veda. Funzionerà anche con maree alte tre metri. E non trasformerà la Laguna in una palude».

Mose sotto accusa: il test che dieci giorni fa non è stato autorizzato. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Francesco Battistini su Corriere.it. «Forse abbiamo sbagliato…». Piove forte sul Mose. E un po’ su Giuseppe Fiengo, uno dei due commissari, «l’americano» (nato nel Massachussetts) che Renzi non volle più all’avvocatura dello Stato e che l’anticorruttori Raffaele Cantone invece ripescò, proponendolo all’infinita incompiuta di Venezia: i grillini che accusano lui e il collega Francesco Ossola d’essere stati troppo prudenti la notte del disastro, i bottegai veneziani che scrivono furiosi sulla saracinesca «siamo chiusi grazie al Mose!», qualcuno che s’indigna dei superstipendi di tutti questi commissari… «Forse abbiamo sbagliato dieci giorni fa a bocciare i test di sollevamento, non lo so… Io ero perplesso, ma Ossola ha detto che non se la sentiva di dare l’ok: “Può accadere di tutto…”. Sottoscrivo quel che ha dichiarato per spiegare la nostra scelta. Del resto, eravamo soli a decidere». Sia sincero: tornasse a martedì, risponderebbe ancora picche al sindaco di Chioggia, quando l’Acqua Grandissima saliva e lui vi chiedeva d’azionare il Mose anche senza collaudi? «Non è facile dirlo. Forse insisterei di più col prefetto: non è che in quelle situazioni muovi una cosetta piccola...». Ma se domani c’è un’altra emergenza, che fate? «Deve venire qualcuno e dare l’ordine. Se c’è un ordine, si azionano la paratoie anche parzialmente». Cerchi il Mose e trovi solo parole. Pezzi smontati. Prototipi virtuali. Vai sul mare a Malamocco e il tassista ci ride: «Dovrebbe stare più o meno qua sotto…». C’era una Control Room allestita all’Arsenale, monitor come alla Nasa, ma hanno deciso di rifarla e oggi è una stanzetta anonima e spoglia: «Non sappiamo bene cosa dobbiamo fare», l’unica verità che si fa sfuggire un impiegato all’uscita (si dice sempre che Venezia è il manico e l’Arsenale il boccale, quindi bevetevi che questa è una sala operativa...). Ci sarebbero 78 dighe mobili, ti raccontano i pr, ma «è come se avessimo costruito la Tour Eiffel in fondo al mare e nessuno la potesse ammirare»: un pezzo, finalmente, questo giovedì mattina si vede a Chioggia e alle dieci non tira un filo di vento, non cade una goccia, il mare è quieto e insomma non ce n’è più bisogno, ma una paratoia — eccola! — la testano. «Dovevamo controllare le condutture attraverso cui passa l’aria compressa: sì, oggi è andata bene, c’erano meno pericoli, ma è innegabile che oltre certi livelli di marea la struttura ancora balli...». Si ricomincia da Chioggia e Alessandro Ferro, il sindaco M5s, ripete che si poteva fare prima: «Noi chioggiotti abbiamo già il nostro baby-Mose, una piccola diga che blocca il canale principale, e funziona da cinque anni. Il Mose grande, bisognava testarlo sul campo martedì sera: io alle cinque del pomeriggio ho chiamato Ossola e contattato Fiengo, c’era ancora il tempo, ma mi han detto che non si poteva fare. Invece serviva un po’ di coraggio! Anche alzare le dighe parzialmente. Questo disastro si poteva evitare». L’unica cosa che manca al Mose per fermare le acque è l’accento sulla «e», scherzano nei sotoporteghi. Fosse l’unica: se Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità (Guccini), l’araba fenice del Mose è sulle tragiche fatalità — il cambiamento climatico, la bora eccezionale — che scarica le sue colpe. Il presidente veneto Zaia, che pure tagliò il nastro, si chiede perché i 5 miliardi spesi stiano ancora sott’acqua: «Io sto là a lavorare tutti i giorni, mi faccio il culo — dice Fiengo, il commissario —. Per ogni test, servono mille autorizzazioni. E sia chiaro, col Mose siamo ancora in una fase sperimentale. Quando sono arrivato, ho trovato cose pazzesche, altro che il 93 per cento del Mose già realizzato! Quelli che chiamavano impianti, erano semplici forniture. È come se io avessi quattro ruote, un volante e mezza scocca, tutto ancora da assemblare, e dicessi che quella è un’auto pronta da guidare...». Sul Mose si trovano d’accordo perfino pareri di solito incompatibili, Emanuele Filiberto di Savoia che fa sapere di pensarla più o meno come il filosofo Massimo Cacciari: quante incompetenze e bugie, per arrivare a queste acque tanto alte quanto putride in cui rema a fatica anche Fiengo. «Il mio è un lavoro d’obbiettive difficoltà, gestisco 500 appalti — si sfoga il commissario —. Sono guardato come un nero dell’Alabama. Ma lo sa che quando stavo per chiudere un contratto d’assicurazione da 120 milioni, ho dovuto aspettare otto mesi perché l’allora prefetto di Venezia, a me, non dava la certificazione antimafia? O che, se faccio una denuncia al fisco su un contratto, poi mi trovo il fisco che fa un accertamento su di me?». Il suo stipendio è finito sotto osservazione... «A Mario Giordano rispondo che, quando sono arrivato, la retribuzione annua del commissario era di 800mila euro lordi. Noi siamo stati allineati al tetto massimo di tutti i manager pubblici, 240mila lordi». Dal governo ora si parla di cabine di regia, hanno nominato una nuova supercommissaria… «Chiunque mandino, va benissimo. Basta che sia qualcuno che mi dica di aprire le paratoie, e io le apro».

Dagospia il 15 Novembre 2019. Da radiocusanocampus.it. Felice Casson, ex magistrato e politico, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul Mose. “La magistratura è intervenuta di fronte a conclamati gravissimi fatti di corruzione ad altissimo livello –ha affermato Casson-. Da subito la magistratura ha lasciato mano libera di continuare i lavori al Consorzio Venezia nuova anche quando è stato commissariato. E’ infondato quindi dire che i ritardi dell’opera siano dovuti all’inchiesta della magistratura, che non ha sequestrato alcunchè. Chi ha mangiato? La situazione è chiara, ci sono stati processi e condanne a ministri della Repubblica, governatore della Regione. Han preso soldi dal Mose praticamente quasi tutti i responsabili delle forze politiche della zona, le associazioni, comprese il Patriarcato. Un po’ è un delirio di onnipotenza, un po’ è chi più ha cerca di avere sempre di più. Durante le mie legislature al Senato ripetutamente ho presentato interrogazioni sullo scandalo Mose, era una cosa conclamata. Le tre scimmiette non volevano vedere, sentire, tantomeno parlare. Quando scoppia il bubbone è normale che intervenga la magistratura. Se il Mose va completato? Fino a poco tempo fa io stesso mi ero chiesto se valesse la pena concludere questa opera, buttando ancora soldi per finirla e almeno 100 milioni l’anno per la manutenzione, che peraltro non si sa chi le metterebbe. E’ ora che qualcuno da un punto di vista scientifico e oggettivo dica se funzionerà o no. C’erano alternative al Mose ma sono state scartate perché costavano molto meno e ci avrebbero mangiato meno. A questo punto finiamo, verifichiamo se funziona, ma con criteri scientifici. C’è anche un problema del ruolo della scienza, dei ricercatori, degli esperti che dovrebbero davvero essere indipendenti rispetto al potere economico e politico”. Sull’ex Ilva. “Quando si arriva a questo punto, la politica ha fallito, qualsiasi cosa faccia da oggi in poi. Quando c’è un morto, quando c’è un ammalato, quando ci sono bambini che presentano malattie con eccessi statistici, è un segnale fortissimo per la politica che in quel caso non è intervenuta. Scudo penale? Sono contro qualsiasi forma di scudo penale, perché credo che di fronte alla Costituzione e alla legge ordinaria tutti debbano essere uguale. Nel caso dell’Ilva lo scudo penale è una semplice scusa, quando l’industriale decide di andare via molla tutto e se ne va oppure ancora una volta va a mungere le casse dello Stato, ma sempre per interessi economici”. 

Da liberoquotidiano.it il 14 Novembre 2019. Le telecamere di Otto e mezzo a volte sembrano indugiare su Massimo Cacciari, magnetico filosofo, ex sindaco di Venezia per il centrosinistra e oggi apprezzatissimo da tutti i talk tv come opinionista per la sua verve scapigliata e polemica. I telespettatori di La7, tra una inquadratura di Lilli Gruber e l'altra, non hanno però potuto fare a meno di notare un dettaglio piuttosto bizzarro: nella bocca di Cacciari spiccava uno spazio nero, un "buco". Dente mancante? O piuttosto dente curato in attesa degli ultimi ritocchi dal dentista? Potenza dell'immagine: Cacciari in puntata ha detto molte cose interessanti su Mose, Venezia, l'alluvione e le responsabilità della politica. Ma ogni volta l'occhio cadeva lì...

Dagospia il 14 Novembre 2019.Da “Circo Massimo - Radio Capital”. Il disastro di Venezia mette al centro del dibattito politico il Mose, la grande opera che dovrebbe tutelare la città lagunare ma che, fra rinvii e inchieste, non è stata ancora inaugurata. A Circo Massimo, su Radio Capital, ne parla Massimo Cacciari, tre volte sindaco di Venezia: "Il governo attuale e la ministra Paola De Micheli sono innocenti, ma lei non sa nulla e non si è informata su questa vicenda. Zaia invece sa tutto. È stato per anni vicepresidente di Galan, ed era stato colui che aveva sponsorizzato la realizzazione del Mose pancia a terra", dice il filosofo, intervistato da Massimo Giannini e Oscar Giannino, "Fin dall'inizio io e altri che, a differenza di me, si intendevano di ingegneria e idraulica, abbiamo contestato tecnicamente la scelta del Mose, che è stata assunta trent'anni fa e poi è proceduta irreversibile, senza che nessuno nelle sedi adeguate prendesse in considerazione le mie critiche, i dati e le analisi che via via negli anni ho fornito, o valutasse soluzioni alternative. Le criticità che poi sono emerse per la realizzazione dell'opera sono tutte contenute nero su bianco in migliaia di pagine depositate presso il comune di Venezia, e chi ha voglia - e la ministra, se ne ha voglia - si informa". Trent'anni in cui, attacca Cacciari, "il Mose ha divorato tutte le risorse che la legge speciale attribuiva a Venezia per la manutenzione pubblica o i restauri dei privati, centinaia di milioni all'anno. Quindi Venezia è rimasta senza la possibilità di continuare opere, come la manutenzione delle fondamenta e del sistema fognario, che avevo cominciato nel '93. E soprattutto ha impedito che si realizzasse un lavoro di grande complessità, che però sarebbe stato fondamentale per la città, per fare una grande vasca sotto tutta piazza San Marco, così da impedire che la chiesa venga minacciata dall'acqua alta, perché noi stiamo massacrando una delle cose più importanti che ci sono sulla faccia della terra. Quella cosa si poteva fare", continua, "ma il Mose ha divorato tutto con gli applausi di Galan, di Zaia che è stato vicepresidente di Galan per anni, di Brugnaro che è stato presidente della Confindustria veneziana. Erano tutti per il Mose, scatenati. E ora stanno lì a dire che l'opera non funziona, e la ministra De Micheli fa l'agnostica. Ma scherziamo? Ma che cazzo di ipocrisia è?" "Nel 2006, nel comitatone, ho portato per l'ultima volta tutti i miei dati e tutte le mie perplessità", ricorda ancora Cacciari, "Prodi, all'epoca premier, aveva evocato a sé tutti i poteri degli altri ministri perché alcuni erano contrari e favorevoli alla mia posizione, non li ha fatti parlare, ha parlato solo lui, viva il Mose e siamo partiti definitivamente. È agli atti la mia dichiarazione di voto contrario, l'unico, in cui però dicevo che avrei fatto il possibile per realizzare il Mose più rapidamente possibile, e speriamo funzioni". Oggi l'opera va completata? "È evidente che va fatto, ma tutte le criticità non sono state risolte. Quando la ministra dice che è pronto al 93%, dice balle", attacca l'ex sindaco, "Non è stata fatta la minima prova. Mi auguro che possa essere finito entro il 2021. Bisogna essere dei pazzi a sperare che siano stati buttati via 6, 7 miliardi. Quello che è successo al Mose", conclude, "è una delle cose più gravi che siano successe in Europa negli ultimi vent'anni. Un'opera pubblica da 7 miliardi che minaccia di essere buttata via è una cosa inaudita. E mi tocca sentire Zaia dire che ci sono cinque miliardi sott'acqua! Zaia! Ma dov'eri, tesoro?" 

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 14 Novembre 2019. E il Mose? Ecco la domanda del giorno dopo. Il Mose. Dov’è, a che punto siamo, perché le 78 paratoie mobili già installate sul fondale delle tre bocche d’ingresso in Laguna (Lido, Chioggia e Malamocco) non si sono alzate per proteggere Venezia? Il Mose non c’è ancora. Il Mose non è finito. E anche quando sarà terminato (ora dicono alla fine del 2021, se il Provveditorato si deciderà a erogare gli ultimi 200 milioni) a lungo andare potrebbe fare più danni di quelli che deve prevenire. Ormai i numeri del Mose sono grani di un rosario che gli italiani conoscono a memoria. Se ne parla dagli anni Ottanta, il progetto definitivo viene approvato dal “Comitatone” per la salvaguardia di Venezia nella primavera del 2003, nel 2006 il governo Prodi dà il via libera decisivo. Un nome che è un acronimo (Modulo Sperimentale Elettromeccanico), ma che evoca il biblico Mosé e la separazione delle acque del Mar Rosso. Doveva costare 3,4 miliardi di euro, ne costerà 5,49. Doveva essere finito nel 2016, lo vedremo in funzione, se va bene, tra due anni. «Penso che ce la faremo», dice a Repubblica Giuseppe Fiengo. E in quel “penso” ci sta tutta l’inquietudine dei 259 mila abitanti della Serenissima. L’avvocato Fiengo è uno dei due commissari (erano tre, poi Luigi Magistro si è dimesso) del Consorzio Venezia Nuova, nominati nel 2015 dall’Anticorruzione dopo la retata della Guardia di finanza che decapitò il Sistema Mazzacurati. Il cui riverberotuttora influenza il cronoprogramma. «Ci manca da ultimare la parte impiantistica, quindi le paratoie non possono ancora essere chiuse tutte contemporaneamente». Quel che racconta Fiengo spiega bene come giravano le cose ai tempi del Sistema. «Oltre alle criticità sulle cerniere dei cassoni, già arrugginite, abbiamo scoperto che gli impianti non erano nemmeno stati inseriti nel progetto: era prevista la fornitura dei macchinari, ma senza i collegamenti». “Ci devono dare 200 milioni” Il Mose oggi è costruito al 94%. Il denaro per finirlo c’è, perché lo Stato ha messo a disposizione l’intero importo, solo che per percorrere l’“ultimo miglio” servono i 200 milioni fermi al Provveditorato di Venezia. «Non li eroga — sostiene Fiengo — per cavilli burocratici: ne abbiamo bisogno per rimediare ai difetti di costruzione, per la manutenzione, per le prove delle paratoie, per pagare i 240 dipendenti Consorzio; ci rispondono che da regolamento possono sbloccarli solo a Saldo avanzamento lavori come da capitolato del progetto». Non per lavori extra, dunque, necessari per riparare alla malagestione precedente, quando vigeva il Sistema. Funzionava così: il patron del Consorzio Giovanni Mazzacurati (morto in California lo scorso settembre a 87 anni, senza sottoporsi al processo) ungeva con mazzette, favori e regali tutta la filiera da cui dipendeva l’avanzamento del progetto Mose e il rubinetto dei finanziamenti. È andata avanti fino al 2014, quando il pool di magistrati veneziani scoperchiò il Sistema. Sono arrivate condanne in primo e secondo grado, più una sfilza di patteggiamenti tra gli imprenditori, e spesso si dimenticano le reali dimensioni dello scandalo Mose: i finanzieri hanno calcolato che il Consorzio, tra il 2004 e il 2014, si è mangiato 250 milioni di euro in tangenti, sovrafatturazioni, evasioni fiscali, fondi neri, consulenze fittizie; solo in mazzette sono stati dissipati almeno 40 milioni di euro, tutti (e anche qualche milione in più) rientrati nelle casse dello Stato grazie alla strategia seguita dai pm veneziani per accordare i patteggiamenti agli indagati. Secondo il piano dei commissari, già nell’autunno 2020 le barriere, seppur in fase di sperimentazione, si chiuderanno per difendere la città dalle maree. E serviranno almeno 80 milioni di euro all’anno per la manutenzione, che saranno pagati dall’ente gestore ancora da individuare. Una parte, assai nutrita, di ingegneri idraulici e ambientalisti dubita però della reale efficacia del Mose. Già nel 2006 uno studio di Principia, leader mondiale nel campo della modellistica, metteva in guardia: con particolari condizioni di mare (onda di 2,2 metri con frequenza di 8 secondi), si può generare l’effetto “risonanza”, che rende le paratoie instabili e inefficaci. Non solo. Armando Danella, membro dell’associazione AmbienteVenezia, consulente della ex giunta Cacciari, spiega: «Nel 2003, quando hanno definito il progetto Mose, hanno calcolato un innalzamento del livello del mare, dovuto al riscaldamento globale, di appena 22 centimetri in un secolo. Ipotizzavano di azionarlo 6 volte all’anno, quando l’alta marea raggiungeva 1 metro e dieci dal medio mare. Hanno sottovalutato tutto: le più recenti previsioni stimano in 90 centimetri l’innalzamento del livello del mare, e infatti già nel 2018 il Mose sarebbe entrato in funzione venti volte. In questo modo, senza il ricircolo dell’acqua e l’ossigenazione necessaria, la Laguna diventerà una fogna».

Danilo Guerretta per “la Stampa” il 14 Novembre 2019. Ecco il Mose, salverà Venezia dall' acqua alta e sarà pronto nel giro di 3 anni per un costo di 20 miliardi di lire». Era il 1992 quando Luigi Zanda, presidente del Consorzio Venezia Nuova presentò il progetto delle dighe mobili, un'opera di ingegneria idraulica unica al mondo. Dodici anni prima, era stato il ministro dei Lavori pubblici Nicolazzi a conferire l' incarico a un gruppo di esperti per redigere lo studio di fattibilità e il progetto per un' opera che difendesse Venezia dall' acqua alta: era il cosiddetto «Progettone». Storia infinita La storia del Mose è una storia infinita, fatta di ritardi, costi lievitati e inchieste giudiziarie, ma soprattutto è una storia che non è ancora terminata: la prova di innalzamento delle barriere del 4 novembre è slittata a causa delle troppe vibrazioni, l' entrata in funzione prevista per il 2022 è a rischio. L'unica certezza sono i 5,5 miliardi di euro che i governi hanno sborsato fino a oggi ai quali vanno aggiunti 700 milioni per la riparazione delle strutture già rovinate e circa cento milioni l' anno per garantire il funzionamento e la manutenzione di un' opera che doveva essere pronta otto anni fa e costare 1,6 miliardi di euro. Dalla presentazione del progetto alla posa della prima pietra sono trascorsi 11 anni, era stato il premier Berlusconi, il 14 maggio 2003, a dare il via ai lavori anche se non tutti a Venezia erano convinti che quella fosse la soluzione migliore. Il Consiglio comunale spedì a Roma una decina di alternative ma nel 2006 il ministro dei Lavori Pubblici Di Pietro riferì che l' esame comparato aveva un unico vincitore: il Mose. Il progetto prevedeva 78 paratoie mobili lunghe fino a 29 metri, posizionate alle bocche di porto della Laguna, collocate in cassoni di calcestruzzo adagiati sul fondale e pronte a entrare in funzione con una marea di 110 centimetri. I lavori proseguirono nonostante qualche intoppo come il cedimento delle nave speciale che doveva sollevare le barriere o l' esplosione di un cassone nel fondale di Chioggia. Uno studio del Cnr sullo stato di salute della Laguna lanciò l' allarme dell' erosione dei fondali a causa dell' impatto dei lavori, ma il Mose era un treno in corsa e il 12 ottobre 2013 il sindaco Orsoni e il ministro delle Infrastrutture Lupi applaudirono l' innalzamento della prima paratoia. Il terremoto giudiziario Otto mesi dopo il terremoto con l'inchiesta giudiziaria che travolse politici, imprenditori e vertici del Consorzio. Tra i 34 arrestati Orsoni, l'ex governatore Galan, l' assessore regionale alle Infrastrutture Chisso ma anche ex magistrati alle Acque, generali della guardia di finanza e imprenditori a capo di aziende che lavoravano per la realizzazione dei lavori. I magistrati hanno portato alla luce un sistema di corruzione, fondi neri, finanziamenti illeciti ai partiti e false fatture che di fatto hanno fermato i cantieri e l' attività del Consorzio. Per sbloccare la situazione il presidente del Consiglio Renzi inviò nel 2014 tre commissari con il compito di gestire il prosieguo dei lavori ma i contenziosi con le imprese appaltatrici bloccarono i cantieri. Un altro rinvio «In queste condizioni è impossibile rispettare l' impegno del 31 dicembre 2021» aveva detto il Provveditore alle Opere Pubbliche alla commissione Ambiente della Camera durante l' ultimo sopralluogo ai cantieri lo scorso marzo. L'opera (completa al 94%) doveva essere testata il 4 novembre, una data simbolo per i veneziani perché coincidente con l' anniversario della grande alluvione del 1966 ma un problema riguardante le troppe vibrazioni durante le prove di sollevamento delle barriere ha causato l' ennesimo rinvio in attesa di «verifiche tecniche dettagliate e interventi di soluzione». Il Mose, l' opera che, come si legge nel sito del Consorzio «può proteggere Venezia e la laguna da maree alte fino a 3 metri e da un innalzamento del livello del mare fino a 60 centimetri nei prossimi 100 anni» si è fermato ancora.

Davide Scalzotto per “il Messaggero” il 14 Novembre 2019. Cinque miliardi e 493 milioni. Più del doppio di quanto destinato in Legge di bilancio al taglio del cuneo fiscale. È il costo finale del Mose, l'opera che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta e che invece, come si è visto martedì sera, è un fantasma che giace nei fondali tra mare e laguna, buono finora solo per far attecchire cozze e ruggine e per qualche tour di ingegneri idraulici e comitive curiose. Del resto la fauna marina e le magagne dell'usura hanno avuto buon tempo per attecchire: negli ultimi 5 anni. Anziché accelerare verso la conclusione, i lavori per il Mose sono infatti avanzati di una percentuale minima, annaspando e arrancando. Un po' come Dorando Petri alla maratona delle Olimpiadi del 1908. Solo che di epico, in questa vicenda c'è ben poco. Non fosse altro che per quel miliardo (di euro) sparito tra tangenti e creste nello scandalo esploso nel 2014. Tuttavia - concepito, dopo anni di gestazione e polemiche, dalla Legge obiettivo del 2013 - più che da ruggine e cozze il Mose è rimasto prima di tutto ingabbiato da ruberie, polemiche, lungaggini, liti, invidie, burocrazia, cause. Tutti si aspettavano che, fatta piazza pulita del passato, l'opera viaggiasse con il vento in poppa verso la fine, salvando Venezia. Invece si è arenata, malgrado la nomina di commissari ad acta che non hanno saputo, potuto o voluto accelerare verso il traguardo. Cosa è successo? È successo soprattutto che la struttura incaricata di finire l'opera, vale a dire il Consorzio Venezia Nuova, è andata in tilt. Alcune grandi aziende che ne facevano parte sono saltate dopo il ciclone giudiziario, lasciando spazio alle piccole, che hanno cercato di portare avanti l'opera. Senza fare i conti, però, con un Moloch organizzativo e gestionale (la struttura del Consorzio) nel quale si sono arenati i milioni che lo Stato continuava a elargire attraverso il proprio ente, il Provveditorato alle opere pubbliche, di fatto il controllore e il collettore dei finanziamenti pubblici. È accaduto quindi che da un lato il Consorzio in questi anni abbia continuato a chiedere soldi allo Stato, ma che dall'altro le imprese abbiano continuamente evidenziato che non c'erano abbastanza soldi per andare avanti. Come se il volano che doveva mettersi in moto con i finanziamenti non sia mai riuscito a ingranare. Un altro dei misteri del fantasma Mose. Dal 2015 il Consorzio è gestito dai commissari: prima 3, oggi 2. Il terzo non è mai stato integrato. L'ex ministro Danilo Toninelli, per semplificare le cose, aveva deciso di metterci il carico da undici nominando un super-commissario (ex carabiniere, peraltro) che scavalcasse i due esistenti. Il predestinato invece è rimasto impigliato nella crisi di governo e nel ribaltone giallo-rosso, finendo quindi negli spogliatoi anzitempo. Uno pensa che un pool di commissari, che siano 3 o 2, abbiano tutti i poteri per portare avanti la loro missione. E invece no. Eppure il loro stipendio viaggia sui 240mila euro l'anno, a testa. Stipendio che, ovviamente, si prolunga a ogni rinvio della fine lavori del Mose. Mettiamoci poi i rapporti non idilliaci, per non dire pessimi, tra i commissari del Consorzio e il Provveditore Roberto Linetti, andato in pensione il 30 settembre e non ancora sostituito, se non da un vicario. Il risultato è quanto si è visto martedì sera: il Mose non si è alzato per la sua prova e Venezia si è ritrovata, di colpo, proiettata a 53 anni fa. Come se fossero passati invano 53 anni, tante parole spese, tanta indignazione mondiale, tanto impegno, tante promesse, tanto denaro. La data di consegna del Mose è fissata al 31 dicembre 2021: quella di martedì avrebbe dovuto essere la prova generale del funzionamento, che forse avrebbe messo al riparo Venezia. Però anche questa scadenza non è stata rispettata. Colpa di problemi tecnici. Ora tutti si attendono risposte. Ieri però sia il Consorzio sia in Provveditorato hanno scelto un silenzio imbarazzante. Al Consorzio, addirittura, un direttiva interna ha stabilito che i dipendenti potessero stare a casa, viste le condizioni meteo. Un paradosso che in una giornata di emergenza come ieri siano stati dispensati dal lavoro coloro che il Mose dovrebbero farlo funzionare.

Venezia, Carlo Nordio: "I burocrati hanno complicato tutto ma è una follia fermare il Mose adesso". Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Carlo Nordio, ex procuratore di Venezia, in una intervista a Il Giornale, si dice convinto della necessità di completare il Mose che dovrebbe difenderla dalle alte maree e dalle alluvioni: "Fermarsi adesso a un passo dalla fine sarebbe follia pura, ancora di più con il cambiamento climatico in corsa, ma credo che nessuno possa anche solo concepire una soluzione del genere". L'ex pm, rispetto all'intervento della magistratura lagunare che di fatto bloccò l'avanzamento dell'opera, afferma che "quello è stato un intervento doveroso che ha scoperchiato sprechi da far piangere e un sistema di corruzione capillare, fra i politici, da destra a sinistra, gli imprenditori e pure gli organi di controllo" e precisa che la magistratura è intervenuta "per perseguire dei reati, non per un disegno ideologico sulla città" "ma la burocrazia adesso ha complicato tutto". Nordio ammette tuttavia che "gli arresti hanno avuto inevitabili effetti collaterali" come il rallentamento dell'esecuzione del progetto. Però sottolinea anche che il Mose "è un'opera unica al mondo e quando sarà terminato diventerà uno straordinario biglietto da visita per l'imprenditoria italiana", "non ci sono alternative - chiosa - speriamo che entri in azione in fretta", "come cittadino anch'io attendo il Mose con ansia" perché "Venezia è fragile, sempre più fragile, e non si può andare avanti cosi, all'infinito". 

Bruno Vespa sul dramma a Venezia: "Perché è rimasto bloccato il Mose, questa è l'Italia". Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Bruno Vespa, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira su La7, commenta il disastro di Venezia, sommersa dall'acqua per la marea record che l'ha investita: "A Venezia si concentrano tutte le caratteristiche dell'Italia, la bellezza, il genio (il Mose è un'opera geniale), la corruzione (il Mose ha portato le tangenti) e l'inefficienza burocratica". Continua il direttore di Porta a porta, "il procuratore mi aveva detto che finalmente erano riusciti a fare delle strutture per evitare quello che poi è successo, un'ondata straordinaria". Il Modulo Sperimentale Elettromeccanico, un'opera di 8 miliardi complessivi come ricorda la conduttrice in diretta, "si era bloccato per una lite, per un malinteso", conclude Vespa, "questa è l'Italia". 

Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera il 14 Novembre 2019. «Vento e piova / Che el Signor la mandava / Dai Tre Porti / Da Lio, da Malamocco / L' acqua vegniva drento de galopo / La impeniva i canali, / La bateva in tei pali...». A vedere montare l' acqua alta, l' altra notte, i veneziani hanno rivissuto i versi disperati del poeta ottocentesco Francesco Dall' Ongaro. Le sirene del primo allarme sono arrivate alle sei del pomeriggio: 145 centimetri. Le seconde verso sera: 160. Le terze alle 22.50: «La laguna subisce gli effetti di non previste raffiche di vento da 100 km orari. Il livello potrebbe raggiungere i 190 centimetri alle 23.30». Arriverà in realtà a 187. Solo sette centimetri in meno della disastrosa «aqua granda» del 1966. Anche i più previdenti, come Gianpietro Zucchetta che anni fa scrisse per Marsilio «Storia dell' acqua alta a Venezia», un libro pieno di cronache antiche e illustrazioni e rapporti scientifici, nulla hanno potuto davanti alla violenza della marea. Sul portone di casa aveva montato una robusta paratoia che arrivava a un metro e 75 centimetri. Più di così! Nella notte le acque se la sono portata via e la stanza d' ingresso è finita sotto. Le foto pubblicate da Corriere.it dicono tutto. Gondole strappate all'ormeggio e lasciate dalla corrente in mezzo alle calli e ai campielli. E poi vaporetti sollevati come barchette e sbattuti di sbieco sulle rive del Canal Grande. Alberghi di lusso come il Gritti coi divani e i tavolini del Settecento galleggianti tra le stanze dorate col ritratto di un doge severo appeso alla parete. Negozi di oreficeria e suppellettili e vestiti travolti dalla marea, con borse e borsette che affogano in un liquido scuro. Maschere da carnevale inzuppate e sformate. Negozianti con le mani nei capelli. La cripta di San Marco invasa dalle onde e così la Basilica e la Piazza, coi turisti che si muovono silenziosi trascinando gli stivaloni. Eccetto il solito bulletto, che sguazza ridendo nell' acqua per la foto ricordo. Del tutto ignaro della tragedia che si va compiendo. E sintetizzata dal procuratore di San Marco così: «Siamo stati a un soffio dall' Apocalisse». Solo la piena del '66 fu così devastante. Al punto di sollevare un' indignazione mondiale contro il continuo aumentare dei giorni di acqua alta. E di spingere Venezia, il Veneto, l' Italia, a cercare una soluzione. «Non c' è tempo da perdere!», dicevano tutti. «Non c' è tempo da perdere!». Poi le acque si ritirarono, il fango fu asciugato, le botteghe vennero riaperte, i tavolini dei bar tornarono al loro posto e coi tavolini tornò al suo posto anche il sole. I lavori «urgentissimi» si fecero «urgenti», poi «necessari in tempi brevi», poi diluiti nei dibattiti: «Bisogna pensarci bene». I danni gravissimi al patrimonio umano, artistico, culturale non servirono neppure a rallentare la costruzione in corso del grande Canale dei Petroli. Che c' entrava, quel canyon scavato in una laguna profonda in media 110 centimetri, con l' acqua alta? Tre anni dopo, nel 1969, Indro Montanelli si sfogava contro certe iniziative «prese e tirate avanti senza che si fossero studiati gli effetti che potevano sortire sul delicato equilibrio acqua-aria-terra su cui Venezia si regge, e che ora dà segni di catastrofico sconvolgimento». E ammoniva che a Venezia «non si può procedere al buio. Uno sbaglio, che a Milano può essere corretto e rimediato, per Venezia può significare la morte. Ci si astenga quindi da imprese, di cui prima non si siano studiate a puntino le conseguenze». Ci pensarono per quasi vent' anni, dopo l' alluvione, prima di decidere. Poi scesero di aggiornare l' idea «molto grandiosa» che un certo Augustino Martinello aveva proposto al Doge nel 1672 e cioè di fare un «muro a archi» alle bocche di porto con «delle porte da alzare e bassare per regolare le acque in caso di bisogno». Già nel 1982, come prova un' Ansa , c' era chi era perplesso. Ma nell' 85 ad Amburgo il progetto fu lanciato con turbo-ottimismo: «La marea sarà prevedibile con un anticipo minimo di cinque ore e le paratoie, suddivise in "porte'' da cinque metri ciascuna, saranno innalzabili in meno di un' ora e capaci sia di resistere a mareggiate molto forti...». Nell' 86 Bettino Craxi diede il via libera definitivo: «Le opere per la difesa di Venezia verranno ultimate entro il 1995». Due anni dopo, un pimpante Gianni De Michelis presentava il prototipo di una delle paratoie. Gongolò l' allora doge socialista: «Per Venezia è un giorno storico. Per la prima volta si passa dai progetti, dalle intenzioni, dai dibattiti e dalle chiacchiere a qualcosa di concreto. Se tutto andrà bene, dopo questi mesi di sperimentazione, potremo finalmente cominciare il conto alla rovescia per la sistemazione di queste paratoie che proteggeranno la laguna dall' acqua alta». Ciò detto, battezzò quella che considerava una «sua» creatura: «Chiamiamolo Mosè». Poi Mose. Appena nato, si legge sul Corriere di quel giorno, segnava già un record: «È il prototipo forse più costoso mai costruito al mondo. Una "brutta copia" da venti miliardi di lire. È un colosso alto 20 metri, lungo 32, largo 25. Pesa 1.100 tonnellate e vivrà circa otto mesi, il tempo di collaudare il funzionamento della "paratoia", quell' enorme cassone piatto e internamente vuoto, lungo 17 metri, largo 20 e spesso quasi 4, ancorata agli angoli da quattro gru». Ma i tempi? De Michelis: la scadenza «resta quella del 1995». Certo, precisava, «potrebbe esserci un piccolo slittamento, visto che siamo partiti con tanto ritardo. Ma ormai il processo è avviato». Sono passati, dallo spot pubblicitario di Amburgo, 34 anni. Quasi quanti quelli trascorsi dal Mosé biblico e dal suo popolo nell' interminabile traversata del deserto. E qual è la situazione? Prendiamo dall' Ansa l' ultima promessa, il 12 settembre scorso: « È fissata al 31 dicembre 2021 la consegna definitiva del sistema Mose, a protezione della Laguna di Venezia dalle acque alte. La data è contenuta nel Bilancio 2018 del Consorzio Venezia Nuova, il concessionario per la costruzione del Mose. Il completamento degli impianti definitivi del sistema è previsto per il 30 giugno 2020, con l' avvio dell' ultima fase di gestione sperimentale». Rileggiamo: «Fase sperimentale». Tre decenni e passa di prove tecniche. Polemiche. Sprechi. Mazzette. Rinvii. Inchieste giudiziarie. Manette. Dimissioni. Commissari. E buonuscite astronomiche come quei 7 milioni di euro (duecentotrentatremila per ogni anno di lavoro: lo stipendio annuale del Presidente della Repubblica!) dati come liquidazione all' ingegner Giovanni Mazzacurati, il deus ex machina del Consorzio che se l' era già filata a vivere in California, dove poi sarebbe morto, prima ancora di sapere come sarebbe finito il processo che avrebbe potuto condannarlo a risarcimenti milionari...Otto miliardi di euro, contando i soldi per le opere di contorno, è costato finora il Mose: quasi il triplo dei due miliardi e 933 milioni (euro d' oggi) dell' Autostrada del Sole. Prospettive? Un' ottantina di milioni l' anno per la manutenzione delle cerniere sottomarine. Se andrà bene. Notizia d' agenzia del 31 ottobre: «Non c' è pace per il Mose, la grande opera che dovrebbe salvaguardare la città e la laguna dalle alte maree. (...) Il Consorzio Venezia Nuova ha reso noto oggi che è stato rinviato a un' altra data il sollevamento completo della barriera posata alla bocca di porto di Malamocco». Colpa della scoperta di «vibrazioni in alcuni tratti di tubazioni delle linee di scarico». Vale la pena di insistere? Questo è il nodo. «La domanda che va posta è se una scelta tecnologica fatta quarant' anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell' analisi costi benefici», scrivono in Corruzione a norma di legge Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri, «Si dirà che oggi è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant' anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che "ormai i lavori sono quasi finiti"». Manca poco... Manca poco...E intanto la città che fu serenissima è andata di nuovo sotto. Con la paura che arrivino altri «effetti di non previste raffiche di vento»...

Gian Antonio Stella per il “Corriere della sera” il 15 Novembre 2019. «E mai nessuno che alzasse la mano per dire no, così non va». Mette i brividi, a rileggerlo oggi, lo sfogo di Lorenzo Fellin, ingegnere padovano docente di impiantistica, dopo essere stato costretto a sbattere la porta per avere espresso dubbi pesantissimi sulle cerniere che il Consorzio Venezia Nuova aveva deciso di far costruire per il Mose. Sia chiaro: la barriera di paratoie sommerse alle bocche di porto della laguna, al di là dei ritardi, degli imbrogli, degli arresti, dei dubbi dello stesso Raffaele Cantone che proprio a quelle cerniere e a un possibile conflitto di interessi ha dedicato la sua ultima relazione da commissario dell' anticorruzione, non può essere indicata come l' unica responsabile di tutto. Basti leggere, nel suo libro SoS laguna , l' invettiva dell' ingegnere idraulico Luigi D' Alpaos contro la sola ipotesi di un ampliamento del Canale dei petroli e altri canali per favorire le Grandi Navi: «Preoccupano al riguardo recenti prese di posizione dell' Autorità portuale, che punta i piedi per intervenire sul canale navigabile dragando e allargando qualche tratto a proprio piacimento, mai ma proprio mai pensando che si debbano in primo luogo attuare con precedenza assoluta gli interventi da tempo richiesti per neutralizzare gli effetti morfodinamici sulla laguna del più devastante misfatto idraulico del Novecento». Così è definito, per i danni alla morfologia del delicatissimo ambiente lagunare, quel largo e profondo canyon scavato per far passare le petroliere perfino dopo l' alluvione del '66: il «più devastante misfatto idraulico del Novecento». Guai, se il Mose diventasse il capro espiatorio, unico, di tutti gli errori commessi. Parallelamente alle cose da fare e da non fare per non causare altri disastri, però, il problema del Mose resta comunque, oggi, il nodo centrale: ma come l' hanno costruito? Con quali scelte tecniche? Quali materiali? Quali risorse umane? Da chi ha speso complessivamente per il progetto e i lavori di contorno quasi il triplo del costo dell' intera Autostrada del Sole, i cittadini hanno diritto di pretendere una certezza: che per salvare con quella massa enorme di denaro la più bella e delicata città del pianeta siano stati usati i migliori ingegneri del mondo, i migliori idraulici del mondo, i migliori scienziati del mondo, le migliori maestranze del mondo, i migliori materiali del mondo. Ma non è andata così. Dice tutto, appunto, quello sfogo che Lorenzo Fellin affidò sei anni fa (quando la data di consegna era stata già spostata in avanti per l' ennesima volta fino al 2015: campa cavallo!) ad Alberto Vitucci de La Nuova Venezia : «In tutte le riunioni a cui ho partecipato non ci sono mai stati interventi critici, qualcuno che alzasse la mano per dire no così non va. In fondo era quello il nostro compito, controllare. Molti avevano anche progetti che andavano in discussione. O erano consulenti delle imprese del Mose o di imprese ad esse collegate». Prendiamo le cerniere alle quali sono agganciate le paratoie. «Le cerniere sono l' oggetto in assoluto più importante del Mose. Se fallisce quello, fallisce il progetto», spiegherà il docente di impiantistica, già prorettore all' Edilizia all' Università di Padova, al processo nell' aprile 2017 per le tangenti sui «cassoni». Denunciando che la scelta di quelle cerniere era stata cambiata in corsa «non» per motivazioni scientifiche: all' inizio era previsto che dovessero essere cerniere con la «fusione di ghisa», poi con «la lamiera saldata». Il Consorzio Venezia Nuova, stando alla deposizione del docente, «sosteneva che il "saldato" era un passo avanti rispetto alla "ghisa"». Ma la sua sensazione era diversa. Dubbi? Tanti. Soprattutto dopo una telefonata ricevuta dall' ingegner Scotti della società di progettazione: «Mi avvertì che aveva avuto ordine dal Consorzio di presentare una perizia di variante che prevedeva appunto l' alternativa del "saldato". Disse anche che si voleva assegnare il lavoro a un' azienda del Consorzio che non aveva la tecnologia per fare la fusione». Ma come: con tutti quei soldi in ballo venivano prima gli interessi di bottega? Sì, rispondeva Lorenzo Fellin nell' intervista già citata: «Io ero l' unico esperto di impianti, chiamato a far parte del Comitato dalla presidente Piva. Dopo lunghi studi ero arrivato alla conclusione che non fosse opportuno costruire le cerniere saldando i due pezzi. La letteratura scientifica internazionale lo dice». Invece? «Avevano già scelto di farle saldate, affidandole alla Fip di Padova, acquistata dalla Mantovani specializzata in quel tipo di lavorazione». Come finì lo potete immaginare: «Uscii sbattendo la porta dopo una tesissima riunione del Precomitato». Gli studi sulle cerniere del resto, studi affidati al professor Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgia all' ateneo di Padova, non sono mai stati rassicuranti. Spiegava una relazione riservata del 20 ottobre 2016, pubblicata su L'Espresso dallo stesso Vitucci e da Gianfrancesco Turano (querelati dalla Mantovani ma assolti giorni fa da una sentenza del gip romano Nicolò Marino: fecero solo il loro mestiere di giornalisti) che «la natura metallica non inossidabile del materiale prescelto con cui è stata realizzata la maggior parte dei componenti immersi rende quest' ultimo particolarmente vulnerabile alla corrosione elettrochimica provocata dall' ambiente marino». Di più: «Abbiamo l' assoluta convinzione che la protezione offerta dalla vernice non sia totale né duratura, causa le abrasioni prodotte da sabbia e detriti». Insomma, un degrado sùbito preoccupante. Tanto più che la manutenzione era prevista soltanto dopo cento anni. Una scadenza che, anche alla luce di quanto è successo l' altra notte con l' acqua alta fino a 187 centimetri e il vento che infuriava, appare oggi ancora più strabiliante. Nella realtà, come è noto, la spesa per la manutenzione è già stata aggiornata più volte fino alla previsione di 60 e poi addirittura 80 milioni di euro l' anno. Una tombola. D' altra parte, insisteva Paolucci, in questa situazione «c' è la seria probabilità che la corrosione provochi danni strutturali e dunque il cedimento della paratoia». Il nodo fondamentale, a leggere quella relazione di nove pagine ripresa anche da inGENIO-web.it , una rivista del settore gestita da ingegneri ed architetti, erano le «differenze sostanziali tra l' acciaio utilizzato per i test e quello poi utilizzato nella costruzione delle 158 cerniere. Il primo, scrive Paolucci, era acciaio inox superduplex prodotto dalle Acciaierie Valbruna di Vicenza. Il secondo invece - che proviene con ogni probabilità dall' Est - era di lega diversa e di costo ovviamente inferiore». Risultato: «Questa difformità della lega lascia qualche margine di dubbio sulla tenuta strutturale e anticorrosione nel tempo di questo importantissimo elemento strutturale». Per non dire di altri dubbi: «Viene da domandarsi se nel documento sulla manutenzione delle cerniere sia stata inserita l' ispezione subacquea periodica degli elementi femmina, anche se dubitiamo che una tale azione possa risultare sufficientemente accurata e minuziosa per finalità preventive». Sono passati, da quella relazione, tre anni abbondanti. Con due acque alte violentissime nel novembre 2018 e tre giorni fa. E si fa strada, per quanto lo si voglia scacciare, un rovello angosciante: e se non l' avessero ancora provato, il Mose, perché non sono certissimi che possa funzionare davvero e che quelle cerniere siano all' altezza di uno sforzo titanico?

Tommaso Rodano per “il Fatto Quotidiano” il 15 novembre 2019. La fotografia definitiva sul Mose porta la data del 14 maggio 2003. È stata scattata a Venezia dopo la posa simbolica della prima pietra. I soggetti stringono tra le mani un pezzo di nastro tricolore che è appena stato tagliato: sulla sinistra in cappotto scuro c' è Altero Matteoli, ministro dell' Ambiente ex Msi; alla sua destra c' è un sorridente Giancarlo Galan presidente della Regione Veneto di Forza Italia; al centro l' uomo con le forbici in mano, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; alla sua destra c' è il leghista Luca Zaia, si distingue per il fazzoletto verde appuntato sulla giacca nera (all' epoca era presidente della provincia di Treviso, due anni dopo sarebbe diventato vice di Galan in Regione e nel 2010 avrebbe preso il suo posto); sulla destra con un vistoso foulard rosso gonfiato dal vento c' è Renato Brunetta, veneziano, ai tempi eurodeputato di Forza Italia, il futuro gli avrebbe regalato vari incarichi, tra cui quello di ministro. È una foto a suo modo incredibile, come tutte quelle che precedono un disastro. I cinque politici sorridenti e ben vestiti inauguravano quello che sarebbe diventato un monumentale altare all' incapacità e alla corruzione della politica italiana. Eppure ancora oggi hanno la faccia - invecchiata in modo più o meno inclemente - per correre a Venezia a parlare di Mose, cercando - altrove - i colpevoli della catastrofe. Tranne il povero Matteoli, morto in un incidente stradale nel 2017 (pochi mesi dopo la condanna a 4 anni per corruzione), in questi giorni hanno parlato tutti. Persino Giancarlo Galan , il personaggio simbolo dell' inchiesta sulle tangenti del Mose, per la quale ha conosciuto il carcere di Opera e poi patteggiato una pena di due anni e 10 mesi (e la restituzione di 2,5 milioni di euro). Ieri Galan è tornato metaforicamente sul luogo del (suo) delitto. Senza arretrare di un millimetro: "Il Mose funzionerà, sarà la più grande opera idraulica della storia dell' umanità dopo il Canale di Panama", ha detto ai microfoni di Radio Cafè. Di chi è la colpa, quindi? "Doveva essere pronto nel 2012, andate a verificare. È in ritardo? Chiedete a Roma. La Regione non c' entra niente". Galan chiama in causa i governi (anche quello in cui ha fatto il ministro?). A Roma, per lustri, a Palazzo Chigi c' è stato lui. Silvio Berlusconi ieri è corso a Venezia ad abbracciare il sindaco Luigi Brugnaro (e si è pure commosso). L' ex premier non si dà pace: "È uno scandalo che il Mose non sia ancora in funzione. C' era una prova il 4 novembre che non è stata fatta, quindi si potrebbe già provare a usarlo". È lo stesso Berlusconi che dal 2003 a oggi è stato presidente del Consiglio in due diversi mandati, lo stesso Berlusconi che è stato leader della maggioranza di centrodestra che ha governato ininterrottamente il Veneto negli ultimi 18 anni, lo stesso Berlusconi che ha fatto eleggere governatore per tre volte il pregiudicato Galan, lo stesso Berlusconi che nel 1999 dichiarava: "Il Mose sarà pronto presto". Vent' anni fa. Oggi dà la colpa al grillino Toninelli, rimasto ai Trasporti per 15 mesi: "Era contrario a tutte le opere pubbliche". In stivaloni accanto all' ex premier, durante la visita alla città sommersa, c' è Renato Brunetta . Anche lui straordinario sostenitore di quest' opera disastrosa, pure lui tra i protagonisti della lunga stagione del centrodestra di governo, e particolarmente coinvolto nelle decisioni sulla sua Venezia. Oggi ovviamente non sa a chi dare la colpa: "Con il Mose - dice - l' acqua alta non avrebbe travolto tutto. Soltanto che l' opera è stata fermata in ragione degli scandali succedutisi dal 2014 in poi". Eh già. E con chi se la prende Luca Zaia ? "Il Mose è uno scandalo nazionale - arringa in queste ore l' uomo che governa il Veneto dal 2010 - perché non è in funzione?". Lui, sia chiaro, non c' entra nulla: "Non è un' opera della Regione, ma un cantiere dello Stato". Eppure uno dei primissimi atti di Zaia da presidente fu una visita trionfale, con stampa al seguito, proprio a quel cantiere "dello Stato": "Questa non sarà un' opera incompiuta", giurava. E firmava con il pennarello uno dei container (sempre dello Stato, sia chiaro) per rendere omaggio agli operai: "Grazie!!!". Ora, con sprezzo del ridicolo, attacca l' attuale ministra delle Infrastrutture, la dem Paola De Micheli: "Abbiamo un' opera da 5 miliardi di euro che resta bloccata sott' acqua", arringa il leghista.

Michele Fullin e Francesco Pacifico per “il Messaggero” il 17 novembre 2019. L'acqua alta dà una giornata di tregua a Venezia, in attesa di un nuovo picco - 160 centimetri - già previsto per oggi alle 12.30. Così ieri la Serenissima ha avuto il tempo di guardare ai danni (entro tre settimane una prima stima) e alle soluzioni per affrontare le emergenze e il nodo dei mutui. Il direttore del Dipartimento di protezione civile, Angelo Borrelli, ha firmato l'ordinanza che contiene la nomina del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, a commissario delegato per l'emergenza e l'impiego dei primi 20 milioni di euro stanziati dal governo in aiuto alla popolazione lagunare: il primo intervento sarà fino a 5mila euro per le famiglie e di 20mila per le attività commerciali e sociali. A campione, poi, la guardia di finanza verificherà i requisiti. Per le cifre superiori si procederà più avanti. Soprattutto c'è la sospensione alle rate dei mutui almeno per un anno. Operazione che molte banche hanno spontaneamente già stabilito. Manca invece il rinvio delle scadenze fiscale, molte delle quali cadranno già la prossima settimana come l'Iva. Buona parte delle imprese della città e delle isole non è in grado di adempiere per via telematica, a causa dei guasti ai sistemi dei computer, agli impianti elettrici e telefonici. Né si potrà ricorrere ai bancomat, visto che moltissimi sono ancora fuori uso. Per questo slittamento, non nelle competenze della Protezione civile, serve un provvedimento ad hoc del ministro dell'Economia. «Ma il tema è già stato affrontato mercoledì con il premier Conte - ha aggiunto Borrelli - e ieri ho sentito il responsabile del dipartimento di politiche fiscali del ministero alle Finanze, il quale ha garantito che i tempi saranno brevi. Domani faremo la richiesta al Mef». Tornando all'ordinanza, la struttura emergenziale del commissario delegato provvederà entro tre settimane a verificare e quantificare la cifra complessiva di quelli che saranno solo i primi ristori a favore dei veneziani. A breve saranno resi disponibili i moduli per segnalare i danni. Previsto anche un contributo - da 400 euro a 900 euro mensili a seconda dei componenti del nucleo familiare - per chi ha avuto la casa inagibile a causa della marea e troverà autonomamente una sistemazione alternativa. Il sindaco-commissario, poi, si potrà avvalere di una struttura commissariale composta da personale del Comune, della Città metropolitana e delle strutture in-house per redigere il piano degli interventi. «Inoltre - ha aggiunto Borrelli - avrà la possibilità di effettuarli in deroga al codice dei contratti pubblici, per quanto riguarda tempistiche e attività burocratiche». Sempre l'ordinanza permetterà a Brugnaro di poter disporre di parte dei 16mila volontari di Protezione civile del Veneto e detta norme straordinarie per la gestione dei rifiuti, considerata l'enorme mole di materiali cosiddetti ingombranti (mobili, elettrodomestici, materassi) da smaltire dopo l'acqua alta. «Misure concrete e immediate, non polemiche o slogan», ha fatto sapere via Facebook il premier Giuseppe Conte, mentre da Palazzo Chigi il sottosegretario Riccardo Fraccaro ha annunciato che lo stato di emergenza sarà esteso alle altre località colpite dal maltempo. Intanto ieri nella Serenissima sono giunti anche la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, il ministro, dell'Interno, Luciana Lamorgese, e una delegazione della Nazionale di calcio. La titolare del Viminale ha sottolineato che «di fronte a una situazione del genere devono sparire le differenze politiche». Parole che non hanno evitato qualche contestazione: sul ponte di Rialto gli attivisti del movimento Fridays for future hanno srotolato uno striscione che recitava: «Da Venezia a Matera, basta passerelle elettorali». Lievi contestazioni anche all'arrivo della Casellati a piazzale Roma. Intanto la Lega ha annunciato querele contro un professore dell'università di Ferrara, Gianfranco Franz, che su Facebook ha scritto di non provare «nessuna compassione per Venezia o per i veneti» e ha accusato il Carroccio di corruzione.

Alda Vanzan per “il Messaggero” il 16 novembre 2019. A Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia, toccherà lei gestire questa emergenza, il governatore Luca Zaia ha caldeggiato la sua nomina a commissario per il territorio comunale. «Sì, Zaia l'ha chiesto espressamente. È la prima volta che l'incarico di commissario governativo viene assegnato a un sindaco».

C'è una prima stima dei danni?

«Siamo attorno al miliardo di euro. Quando tutto si asciugherà, si potranno capire con precisione i danni arrecati dall'acqua salsa alle abitazioni, alle imprese, ai negozi, al patrimonio culturale e artistico».

Quanti soldi arriveranno dal Governo?

«Ci sarà un primo stanziamento di 20 milioni di euro per gestire l'emergenza e far ripartire la funzionalità della città. Le cabine elettriche, i pontili, i pontoni. E se non dovessero bastare, sia il premier Giuseppe Conte che il ministro Paola De Micheli e il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli mi hanno promesso ulteriori stanziamenti».

Lo sa che tra i veneziani comincia a serpeggiare un certo fastidio nei confronto delle visite dei politici? Mercoledì Conte e De Micheli, giovedì ancora Conte e Berlusconi, venerdì D'Incà, Salvini, Franceschini, ora sono attesi Casellati e Lamorgese. Sono solo passerelle?

«Ma scherziamo! Vanno ringraziati per essere venuti di persona a rendersi conto dei danni provocati dalla marea e dal vento. E in primis io ringrazio il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella mi ha chiamato poche ore dopo il disastro, mi ha detto: Sono a sua disposizione. E' un messaggio importantissimo, vuol dire che lo Stato c'è e sa dell'importanza di Venezia. Così come è stata importante la visita di Berlusconi, con lui potremo presentare progetti internazionali per il consolidamento della città. Le relazioni internazionali mica si inventano, Berlusconi parla con Putin. E Venezia, che è di nuovo sotto gli occhi del mondo, deve dimostrare di riuscire a risollevarsi. Per noi è stato un onore e un orgoglio avere il sopralluogo del premier Conte, dei ministri, dei parlamentari».

Cosa deve fare chi ha avuto danni?

«Daremo tutte le indicazioni precise. Posso dire che ci saranno due procedure. Una più snella, una autocertificazione asseverata per contributi fino a 5mila euro per le famiglie e fino a 20mila per le imprese. E una per danni più ingenti con copertura fino al 70%».

Sindaco, martedì, quando c'è stato un metro e 87 di acqua alta, il Mose se fosse stato in funzione sarebbe servito?

«Certo che sarebbe servito».

E non potevate approfittare di quella marea eccezionale per fare una prova?

«A me lo chiedete? Io non so nulla del Mose, quello che so lo leggo sui giornali. Il Comune è stato totalmente estromesso dalle dighe mobili».

E volete entrarci?

«Vogliamo che il Mose sia completato e vogliamo partecipare, sapere, essere informati. Voglio, non dico una data precisa della fine dei lavori, ma almeno un cronoprogramma. Per essere informato e per andare a vedere cosa fanno. L'occhio del padrone ingrassa il cavallo, si dice così, no?».

Però ha anche detto che il Mose da solo non basta.

«È tutto il sistema che deve essere completato. Le pompe idrauliche, l'impianto antincendio, lo scavo dei canali a partire dal Vittorio Emanuele che può diventare una seconda via di fuga a Malamocco. Perché la gestione del Mose riguarderà anche il porto e pure Porto Marghera. E va rifinanziata la Legge speciale, si deve poter finanziare l'acquisto di beni strumentali per chi lavora in centro storico».

Sindaco, Berlusconi durante la visita a Venezia sembra averla incoronata suo successore. Sarà lei l'erede del Cavaliere?

«L'erede di Berlusconi non c'è, io sono un povero lavoratore della vigna».

Francesca Sforza per “la Stampa” il 19 novembre 2019. Un milione di euro in neanche 24 ore, è la risposta russa all'appello lanciato dall'Ambasciata italiana a Mosca per sostenere il restauro del patrimonio culturale danneggiato dall' acqua alta a Venezia. «Non ho fatto in tempo a lanciare la campagna che già abbiamo raccolto l'adesione del maestro Valery Gergiev, il più grande direttore d'orchestra vivente russo, attualmente a capo del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, per un concerto straordinario dedicato all' iniziativa», ha detto il nostro ambasciatore a Mosca Pasquale Terracciano. Sull'onda del concerto, l'appello verrà esteso nei prossimi giorni a tutto il territorio della Federazione Russa, e con tutta probabilità la raccolta fondi continuerà ad aumentare. Una così grande mobilitazione si spiega senza dubbio con «il grandissimo amore che la Russia ha per l' Italia e in particolare per Venezia, che suscita emozioni particolari nell' immaginario collettivo», come ha osservato Terracciano, ma anche con gli interessi che legano Mosca alla laguna. Tra i primi a mobilitarsi ci sono stati infatti i grandi collezionisti e gli oligarchi legati al mondo dell' arte, già autori di diverse iniziative a Venezia. La Victoria Foundation, di proprietà della società di idrocarburi Novatech - uno dei più grandi gruppi russi nel settore dell' energia, guidato dall' oligarca Leonid Mikhelson - è stata protagonista alla Biennale di Venezia 2019 con un padiglione che ha suscitato grande interesse da parte della critica. Così come è ormai collaudata la collaborazione tra il Museo Pushkin di Mosca e le istituzioni museali veneziane, con scambi di mostre e collezioni. Ci sono anche Roman Abramovich e Andrey Melnichenko tra i miliardari che negli anni hanno frequentato Venezia a bordo dei loro yacht, con feste memorabili all' insegna del lusso. E se i nomi dei donatori sono coperti dal più assoluto riserbo, tutto fa pensare che siano in molti, a Mosca, a voler aiutare Venezia.

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 19 novembre 2019. Il Mose è ostaggio di se stesso. Della «improduttiva pedanteria delle consuetudini e delle forme» che si chiama burocrazia, e che ne immobilizza le 78 paratoie, tuttora incapaci di proteggere Venezia. Da almeno due anni, infatti, i soggetti che hanno il compito di finirlo - il Consorzio Venezia Nuova da una parte, il Provveditorato per le opere pubbliche del Veneto dall' altra - si parlano con la lingua dei separati in casa: carte bollate, richiami «alla leale collaborazione», accuse reciproche e giornalieri scaricabarile. È il paradosso dell' ultimo miglio del Mose, arrivato al 94 per cento della realizzazione: i soldi per terminare la parte impiantistica (che ne consentirebbe l'utilizzo d'urgenza) ci sono, ma non riescono a spenderli. E la spiegazione è contenuta in uno scambio riservato di mail che Repubblica ha visionato. Dunque, con ordine. Il 27 marzo 2019 i due commissari del Consorzio inviano al ministro della Infrastrutture e al provveditore Roberto Linetti una lettera, nella quale, oltre a rimandare al 31 dicembre 2021 la consegna dell' opera, chiedono denaro per pagare fino ad allora dipendenti e tecnici. La risposta di Linetti arriva un mese e mezzo dopo, e, diciamo, non è delle più concilianti. «La ora declamata impossibilità di rispettare i termini stabiliti è dovuta esclusivamente all' inerzia del concessionario (il Consorzio, ndr ). Appare molto grave la costante noncuranza degli obblighi che entrambi gli amministratori hanno assunto». Non solo. Rispedisce al mittente anche la richiesta di sbloccare il finanziamento necessario. «Già lo scorso anno - scrive Linetti - questo Istituto ha rischiato di chiedere una disponibilità ben maggiore di quella effettivamente commisurata all' andamento dei lavori del Mose, con la conseguenza di perdere parte dei finanziamenti. A fronte di motivazione dichiarata dal Consorzio di provvedere nei primi mesi del 2019, a pagamenti per gli impianti ho trasferito svariati milioni: ebbene, ad oggi è pervenuto un solo Saldo avanzamento lavori pari al 10% dell' importo presunto, ancora una volta dimostrando scarsa attendibilità». Una durezza che ha portato i due commissari Fiengo e Ossola a replicare, il 15 luglio, con l'allora ministro delle Infrastrutture Toninelli: «Constatiamo il perdurante e immotivato atteggiamento ostruzionistico, perseguito con rappresentazioni parziali e fuorvianti dello stato di fatto e di diritto». Il 7 ottobre il Consorzio rincara la dose con la ministra De Micheli. L'oggetto della mail («Dovere di leale collaborazione per la realizzazione del Mose») da solo basta a far capire che aria tira a Venezia: «Così non riusciamo a dare continuità. Da gennaio a luglio su 18 nuovi lavori esaminati dal Cta (organo tecnico del Provveditorato) ne risultano approvati solo 4; e solo 2 varianti suppletive su 13 presentate; i tempi di erogazione delle somme, poi, non sono tempestivi». Linetti, andato in pensione a settembre, spiega a Repubblica che la leale collaborazione non è mai venuta meno. «Ho anche autorizzato finanziamenti per opere doppie, cioè per aggiustare lavori fatti male, come per ripristinare la conca di navigazione (20 milioni) e le tubature di Malamocco danneggiate da una mareggiata nel 2015. Ma pagare con soldi pubblici la guardiania dei cantieri, come mi hanno chiesto, è troppo. I due commissari potevano fare molto di più in questi mesi, la verità è che non è il loro mestiere». E adesso arriva il terzo: la prefettura di Roma ha infatti nominato l' avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata al posto di Luigi Magistro, dimessosi nel 2017. Tre commissari del Consorzio, una supercommissaria (Elisabetta Spitz) e un nuovo provveditore dovrebbero bastare per coprire l' ultimo miglio del Mose. Si spera.

Giuseppe Pietrobelli per il “Fatto quotidiano” il 21 novembre 2019. Il Mose ha un "tesoretto" da 413 milioni di euro. Una cifra enorme, frutto di risparmio sugli interessi bancari pagati nell' arco di una quindicina di anni, a suo tempo stanziata dal Cipe. Adesso i commissari del Consorzio Venezia Nuova hanno chiesto al ministero delle Infrastrutture di poter entrare in possesso della somma che lo Stato ha trattenuto, non essendo stata spesa. Intendono usarla per risolvere le numerose criticità dell' opera, per concludere i lavori e mettere in moto la fase di avviamento. La notizia è nuova, visto che è stata scritta per la prima volta nel bilancio d' esercizio 2018, firmato a settembre dai commissari Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo. E dimostra che i soldi per finire il Mose ci sono tutti. Perchè oltre ai 413 milioni ora oggetto di una trattativa (ma è prevedibile un braccio di ferro) con il ministero, il programma finanziario già prevedeva lo stanziamento (dal 2017 al 2024, in tranches diverse) degli ultimi 221 milioni per arrivare a quota 5 miliardi 493 milioni di euro, la somma ufficiale, il costo, "chiuso" di tutta l'opera. Se il Mose non verrà terminato nei tempi indicati (fine dicembre 2021) non sarà, quindi, per una questione economica. Da quale cilindro escono quei 413 milioni di euro ancora virtuali? I commissari Cvn hanno avviato l' istruttoria per ottenere dal Mit "l' utilizzo di somme residuali derivanti da contributi pluriennali a suo tempo già assegnate dal Cipe al Sistema Mose: tali somme, attualizzate, ammonterebbero a circa 413 milioni di euro". Come è possibile che una cifra del genere sia stata stanziata e non spesa? Dal 2003 al 2018 il Cipe aveva previsto lo stanziamento pluriennale di contributi per 3 miliardi 390 milioni di euro. Una cifra spalmata in 15 anni. Il che ha comportato problemi di liquidità e di anticipi, risolti con affidamenti da parte di Cassa Depositi e Prestiti, Banca Europea per gli Investimenti bancari e Dexia, un gruppo finanziario franco-belga. Il volume degli investimenti (quota capitale) era previsto in 2 miliardi 547 milioni di euro, gli interessi in 842 milioni di euro. Questo dimostra come il Mose si sia rivelato un affare non solo per le imprese costruttrici, ma anche per chi ha concesso mutui o prestiti. La realtà è stata però meno onerosa dei preventivi. In questo arco di tempo gli interessi pagati sono stati molto inferiori, raggiungendo quota 323 milioni. E quindi si è determinata una differenza pari a 520 milioni di euro. Il tesoro è questo. Nel bilancio i commissari indicano 413 milioni perchè anche in questo caso c' è un' incidenza della quota interessi. La scoperta dei soldi tenuti nelle pieghe dei bilanci dello Stato non altera il monte totale del costo del Mose. Ma come verranno spesi quando Cvn riuscirà a incassarli? La risposta è contenuta nel bilancio 2018. "Nel corso degli ultimi anni sono state evidenziate criticità che richiedono la realizzazione di interventi di sistemazione, adeguamento, riprogettazione e rifacimento, oltre alla manutenzione delle parti realizzate". I capitoli sono diversi. Si va dalla ruggine riscontrata sulle cerniere delle paratoie, ai sedimenti portati dalle maree che hanno impedito la sollevazione totale delle dighe mobili. Dall' adeguamento di una nave per la posa delle paratoie, all' umidità nei locali subacquei e nelle gallerie per mancanza degli impianti di condizionamento. Naturalmente, le cause alle imprese negligenti dovranno accertare il diritto ad eventuali rivalse. "Nell' ambito delle finalità dell' atto di completamento sottoscritto nel 2017 e del piano a finire da esso delineato, il Provveditorato e gli amministratori straordinari hanno individuato una serie di attività e di interventi strettamente correlati con il completamento dell' opera che richiederebbero immediata copertura finanziaria". Per ultimare il Mose manca circa il 6% dei lavori. Come ha spiegato l' ingegnere Alberto Scotti, il progettista, la quota è costituita in parte da impiantistica elettromeccanica. Su questo fronte si sta operando con gli appalti messi in gara, anche per ordine dell' Unione Europea che a suo tempo aveva contestato (per mancanza di concorrenza) l' affidamento diretto alle tre imprese principali del Mose, Mantovani, Condotte e Fincosit, uscite di scena per gli scandali e per crisi gestionali. Ma c'è una buona parte (valore 300 milioni di euro) che, avvalendosi dell' affidamento diretto, nel dicembre 2018 i commissari hanno assegnato a due consorzi composti da ditte locali, soprattutto venete, che già avevano una quota parte in Cvn. Si tratta di Kostruttiva (sorta sulle ceneri della coop rossa Coveco, coinvolta nello scandalo e rinnovatasi) e di San Marco. Ad entrambi progettazioni e realizzazioni per circa 150 milioni. "A noi spettano opere edili e compensazione ambientale. - spiega Devis Rizzo, presidente di Kostruttiva - Il commissariamento è stato un punto di svolta, una cesura rispetto alle condotte illecite, un presidio di legalità a fronte della 'cupola' che agiva in precedenza". Un esempio? "Siamo tornati alle marginalità lecite, che sugli appalti pubblici sono del 4-5%. Le grandi aziende del Cvn guadagnavano anche il 40-50, con fatture false e bilanci fasulli". E la politica? "Dovrebbe approfittare del tempo che manca all' ultimazione del Mose per progettare, con la stessa logica di rigore e trasparenza, la fase di gestione futura su cui ci sono già tanti appetiti". Infatti si calcola che far funzionare il Mose possa costare 100 milioni di euro all' anno.

Il coraggio dell'elettricista-gondoliere. Marco, volontario a Venezia dopo un appello in rete: è già un eroe. Vittorio Macioce, Domenica 17/11/2019 su Il Giornale. Quando non ci saranno più parole per piangere Venezia serviranno gli elettricisti. Adesso c'è l'odore di muffa, l'acqua che ristagna, le pareti umide e il freddo che senti nelle ossa. Non ci sono luci da accendere. I negozi resteranno chiusi a lungo e gli appartamenti sospesi sulla laguna, gli unici che ti puoi permettere se il lavoro va a giornate o la pensione è misera, non puoi più chiamarli casa. Bisogna aspettare che tutto si asciughi e poi ricominciare. Allora servono gli elettricisti e quelli che rimettono in funzione le pompe idrauliche e quelli per far ripartire le caldaie e i frigoriferi. Non si torna alla normalità, a Venezia non esiste, ma si ricomincia. Marco Donatelli Zamboni non sa quando sarà pronto il Mose e neppure se funziona davvero. Ha 35 anni e vive a Bussolengo. È terra di pesche, gelsi, bachi da seta e scarpe, da una parte c'è Verona e dall'altra il Lago di Garda. Quando da qui pensano a Venezia si chiedono se sia mai esistita. Per Marco infatti è un sogno. Marco non nasce gondoliere, si è accorto un giorno che non avrebbe potuto fare altro. Si è innamorato della gondola, non solo a toccarla, vederla, sentirla, ma proprio come idea. La gondola è un modo di guardare il mondo. Si è iscritto a un corso di «Venice on board» per imparare a vogare. Su questo progetto ha investito. Si è comprato una gondola. Non l'ha messa in laguna, perché Venezia è un sogno ma non tutti possono viverci dentro, così si è messo a fare il gondoliere a Peschiera del Garda. Non è la stessa cosa, ma ci sono turisti anche lì. Marco però a Venezia ci ha lasciato un pezzo di cuore. «Non è che posso salvarla io, ma ho pensato che qualcosa, di piccolo, di quotidiano, potevo fare. Uno fa poco, ma tanti magari possono dare una mano concreta». Ecco allora l'appello, smistato su tutte le reti, agli elettricisti del Veneto per aiutare Venezia. Poi venerdì ha preso il treno ed è partito. Altri lo hanno chiamato e faranno lo stesso. Quanti? «Quelli che hanno chiamato me sono una quindicina, ma so che molti sono in contatto con la protezione civile». I volontari non possono andare allo sbando. È la prima regola di ogni emergenza. Marco non fa più l'elettricista, ma il mestiere lo conosce. Si è fatto dodici chilometri a piedi girando nelle calli. «Mi hanno chiamato persone anziane disperate, che volevano un aiuto per le cose più semplici. Qualche volta sono riuscito a fare qualcosa, altre ho dato solo consigli. A volte già ascoltare può rassicurare chi si sente smarrito, disperato». Marco racconta la storia di una ragazza che tre mesi fa ha aperto un negozio di abbigliamento. Non ha ancora cominciato a pagare i debiti e ha perso tutto. Non sta però pensando di andarsene. La prima cosa che ha chiesto è come fare per riaccendere la luce. Non è razionale. È qualcosa di più. È non arrendersi, non scappare, non rinnegare Venezia, con la pazienza di Giobbe. Ripartire dalle mani. Come un atto d'amore. Come in una canzone di Paolo Conte: «E ti offro l'intelligenza degli elettricisti, cosi almeno un po' di luce avrà, la nostra stanza negli alberghi tristi, dove la notte calda ci scioglierà». Un gelato al limone. C'è una foto che sta girando come un simbolo, come una stanca speranza. È Marco Donatelli Zamboni che torna la sera a casa, addormentato sulla poltrona di un treno, in un vagone mezzo vuoto. «Non fatela sembrare speciale. Ce ne sono tanti come me». È solo un elettricista in gondola che sogna di illuminare Venezia.

Acqua alta, danni e morti a Venezia: il Mose avrebbe evitato tutto questo? Le Iene il 18 novembre 2019. Case sott’acqua, auto distrutte e purtroppo anche morti. È il bilancio dell’acqua alta a Venezia: questo dramma si sarebbe potuto evitare con l’apertura del Mose? Giulio Golia ricostruisce che cos’è successo quella notte partendo dall’isola di Pellestrina. “Questa è una barriera naturale, se non ci fosse quest’isola qua non ci sarebbe più da 500 anni”. Giulio Golia è stato a Pellestrina, una striscia di terra che protegge Venezia dalle inondazioni. L’isola invece è protetta sia sul lato del mare che della laguna da un muro alto un metro e mezzo. Martedì notte è stato scavalcato da un’enorme massa d’acqua che ha sommerso per 24 ore tutta l’isola e i suoi 3mila abitanti. Pellestrina si è trasformata in una trappola con auto, barche ed elettrodomestici sott’acqua. “Ho dovuto mettere il tavolo con il frigorifero sopra per tenere ferma la porta chiusa a chiave. La forza del mare la stava strappando”, racconta un residente. Oggi è tutto un cimitero di divani, vetri rotti e giocattoli travolti dall’acqua. Qualcuno in questa tragedia ha perso anche persone care: Giovanni De Poli, 89 anni, e Giannino Scarpa, 78, sono morti durante l’inondazione. Chi è sopravvissuto alla catastrofe deve oggi pensare ai danni per provare a voltare pagina. “Mi sono ritrovata la casa piena di merda”, racconta una residente. In quelle ore l’acqua è fuoriuscita anche dai bagni. “Da anni paghiamo la tassa di depurazione, ma noi siamo mai stati collegati. Il Mose però sta mangiando ancora”. Che cosa non ha funzionato quella notte? “Le pompe idrovore che dovrebbero pompare l’acqua fuori dall’isola. Non è la prima volta che succede”, sostiene Danny Carella, presidente della municipalità Lido Pellestrina. “Così l’isola si è trasformata in una grande vasca da bagno”. Gli abitanti di Pellestrina temono che tutti gli aiuti vadano solo a Venezia. “È facile fare promesse da campagna elettorale, ma sono sicuro che succederà come con i terremotati, con il ponte di Genova. Tutti si sono alzati le maniche come lo faremo anche noi”, dice uno dei residenti che ieri ha ricevuto la visita del presidente del consiglio Conte. “Ci chiediamo perché è successo questo se il Mose è pronto al 96% come dicono. Perché non l’hanno alzato lo stesso almeno si evitava di avere questa tragedia?”, si chiedono i residenti dell’isola. “Pellestrina non si sarebbe allagata perché il Mose si sarebbe chiuso tenendo in laguna un livello di 100 centimetri”, sostiene Luigi D’Alpaos, docente universitario emerito di Idraulica. “Se vogliamo difenderci dall’acqua alta non c’è soluzione che chiudere le bocche di porto. Va isolata la laguna rispetto al mare”. Ma ci sono ancora problemi da risolvere prima della sua entrata in funzione che nel tempo è stata sempre più posticipata. Qualche giorno fa si parlava addirittura di 2022. E rimane ancora il nodo dei costi delle manutenzioni, qualora il Mose dovesse essere attivato: “Si parla di 100 milioni all’anno per una struttura in metallo che rimane costantemente a contatto con l’acqua di mare”. Nonostante l’opera sia costata oltre 6 miliardi di euro. 

Lavandini, pneumatici e ossa di animali: il bottino dei gondolieri-sub trovato nei canali. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Corriere.it. Più di 600 chili di materiale, tra pneumatici usati come parabordo dagli anni Settanta sulle barche da trasporto e bombole per le bibite usate dai bar. È questo il «bottino» (verrà smaltito da «Veritas», la multiutility del Comune) dell’immersione effettuata domenica da sei gondolieri sub di Venezia nelle acque del Rio di San Luca, nel tratto da Palazzo Grimani a Campo Manin, protagonisti delle immersioni sperimentali promosse grazie ad un accordo con il Comune di Venezia, attraverso la Direzione Progetti strategici e Ambientali, in collaborazione con Veritas e il supporto dell’associazione nazionale Carabinieri. L’immersione è stata la prima dopo la grande acqua alta dello scorso 13 novembre, quando il livello del mare raggiunse 187 centimetri, avvicinandosi a quello record di sempre di 194 centimetri fatto registrare durante l’alluvione del 1966. Dopo l’acqua alta per dieci giorni i veneziani sono stati costretti a svuotare case, magazzini e negozi e buttando materiale di qualsiasi tipo, dai mobili agli elettrodomestici ai vestiti, rovinati dall’acqua salata. «Contrariamente a quanto si possa pensare – spiega Andrea Balbi, dall’anno scorso Presidente Associazione Gondolieri (433 gondolieri e 200 sostituti in tutta Venezia) — non abbiamo trovato oggetti ed elementi derivanti dall’alta marea. Se un tempo, ma parlo di tanti anni fa, c’era l’usanza da parte dei veneziani di buttare in canale tutto quello di cui volevano disfarsi, oggi non è più così. È cambiata la cultura, si è molto più informati sui danni delle materie non riciclabili e c’è un servizio attivo per lo smaltimento dei rifiuti, operato dalla Veritas. Certo, in canale San Luca abbiamo trovato 600 chili di materiale, soprattutto pneumatici usati come parabordi, ma anche pezzi di elettrodomestici: sono tutte cose che risalgono a parecchio tempo fa». «Oggi la città è quasi perfetta — spiega ancora il presidente — manca pochissimo che torni come prima: i negozi hanno riaperto, noi gondolieri abbiamo ripreso servizio già dal giorno dopo l’alta marea…C’è ancora qualche problema di servizio pubblico nel senso che qualche fermata non è ancora attiva, ma per il resto la città funziona normalmente anche grazie all’intervento di molti volontari che sono venuti ad aiutare i veneziani. Ora stiamo affrontando questa grande opera di pulizia dei canali e dei rii da quello che da tempo giace sott’acqua. Se funziona potrebbe essere la chiave per il futuro della città. Dobbiamo proteggerla e i modo ci sono… Lo sa che molti dei nostri gondolieri lavorano con un retino a bordo gondola? Al posto delle farfalle, però, pescano plastica». Ma c’è ancora molto da fare. Solo quest’anno, tuttavia, tra marzo e giugno, i gondolieri hanno recuperato oltre 2,5 tonnellate di rifiuti, spesso non riciclabili, che giacevano da tempo sotto acqua, adagiati sui fondali dei canali e rii. «Quello del Ro di San Luca è il secondo intervento che facciamo — spiega il gondoliere Alessandro Zuffi — il primo è stato realizzato di notte nella zona del mercato di Rialto dove abbiamo trovato pezzi di lucidatrice, un omero di vacca, una radio, un carretto dei netturbini, un lampadario, un pezzo di lucidatrice, bottiglie, lattine, cavalletti delle passerelle dell’acqua alta, un lavandino, una caldaia, tubazioni e fusti di birra usati… tutto buttato in Canal Grande». Zuffi con collega Stefano Vio, ha dato vita al ciclo di immersioni, in forma gratuita e sperimentale, del ciclo di immersioni dedicate alla pulizia manuale dei fondali di Venezia. Prima dell’intervento di domenica, ce n’era stato uno la notte del 3 novembre, di notte, in Canal Grande davanti alla Pescheria, a ridosso della riva, con partenza dal pontile del Tribunale. «Siamo gondolieri con la passione della subacquea — prosegue Zuffi, che è anche istruttore sub per la Sub San Marco —. Volevamo aiutare Venezia. Certo, una “pesca” così non ce l’aspettavamo, ma sapevamo che erano 40 anni che i canali non venivano puliti». Gli interventi previsti sono sei in tutto e, dopo quello di domenica, andranno avanti fino ad aprile 2020. Supportati dai collaboratori volontari, i sub dell’associazione di categoria Gondolieri di Venezia interverranno il 19 gennaio 2020 in Rio San Luca da Campo Manin a Rio Barcaroli; il 2 febbraio in Rio della Fava; il 15 marzo in Canal Grande, a ridosso della riva da Palazzo Grimani a Ca’ Farsetti (nessuna interruzione della navigazione); il 19 aprile in Rio San Polo. I nuovi interventi saranno resi più efficienti e più sicuri per i sub grazie al supporto di due ditte del settore che hanno offerto la strumentazione necessaria alle immersioni (mute, caschi, manichette, interfono). «Le immersioni dei gondolieri sub, lo scavo dei rii, la lotta al moto ondoso, la partecipazione concreta dei cittadini — ha detto il sindaco Brugnaro — sono tutti tasselli di un grande mosaico che dobbiamo costruire insieme per la tutela della nostra città». «Quello con i gondolieri sub — ha commentato il consigliere delegato alla Tutela delle Tradizioni, Giovanni Giusto — è ormai diventato un appuntamento fisso per la nostra città. Quello che stupisce è che ad ogni intervento vengano recuperati nuovi rifiuti, questa volta un numero davvero elevato di vecchi copertoni. E’ un’opera sicuramente utile, non solo dal punto di vista materiale, ma anche per il valore di esempio che riveste. L’appello è quindi quello di essere molto attenti, per conservare i canali veneziani e i fondali in modo che possano continuare ad essere usufruibili. I comportamenti ambientali sbagliati vanno corretti per il bene di tutta la comunità».

Non solo Mose: alziamo Venezia di 30 centimetri? Le Iene il 25 novembre 2019. Il sistema di paratie che dovrebbe proteggere Venezia dall’acqua alta è in gravissimo ritardo, anche a causa delle inchieste per corruzione. Giulio Golia parla con esperti che ci raccontano i sistemi alternativi al Mose, con anche una telefonata all’ex governatore Galan che lascia perplessi…Il Mose dovrebbe salvare Venezia dalla marea. L’opera sarebbe dovuta essere pronta nel 1995. Sono passati 24 anni, il sistema ci è già costato oltre 6 miliardi e nessuno sa se e quando sarà pronto. “Speriamo che funzioni”, dice il governatore del Veneto Luca Zaia a Giulio Golia. “Le uniche prove che hanno fatto, le han fatte in laboratorio. Se funziona è un’opera stratosferica”. Già, se funzionerà…Altre città in Europa hanno fatto altre scelte, come è successo a Londra o sul fiume Ems in Germania. Sistemi differenti che sono già entrati in funzione e con costi di realizzazione molto più bassi di quelli del Mose. A Rotterdam c’è infine la più grande diga mobile del mondo: quella barriera è costata meno della metà di quella che dovrebbe proteggere Venezia. Gli olandesi avevano vagliato una soluzione simile a quella del Mose, ma l’avevano scartata perché considerata troppo costosa. Anche se il Mose superasse tutti i problemi di cui vi parliamo nel servizio che potete vedere qui sopra, ce n’è un altro che non sembra risolvibile: il sistema è stato progettato per essere utilizzato tra le 10 e le 30 volte. Con l’innalzamento previsto del mare, però, si renderebbe necessario chiudere le bocche di porto tra le 300 e le 400 volte all’anno, in pratica ogni giorno. Oltre ai problemi tecnici ed economici che questo comporterebbe, ci sarebbe da affrontare anche il tema ambientale: chiudere costantemente la laguna provocherebbe dei profondi cambiamenti nella flora e nella fauna che popolano le acque di Venezia. Un’altra soluzione, però, potrebbe esistere: “Alzare Venezia”. A sostenerlo è Giuseppe Gambolati, professore di Ingegneria dell’università di Padova. Sebbene il suo progetto possa apparire folle, è serissimo dal punto di vista scientifico. Bisogna partire da un dato: per far funzionare le vicine industrie di Marghera è stata estratta acqua dalle falde sotto Venezia e questo ha causato un abbassamento della città di 11 centimetri. Il progetto del professore prevede di iniettare acqua di mare attraverso delle pompe a profondità differenti nel sottosuolo, producendo un effetto di rialzamento che potrebbe arrivare fino a 30 centimetri. “Dopo dieci anni Venezia sarebbe sollevata di 30 centimetri”, dice il professore. Per lui non esiste il rischio di “spezzare” la città. “Alzando uniformemente la zona non ci sarebbe possibilità di provocare rotture”. E tutto questo permetterebbe di utilizzare il Mose molto di meno. Nonostante l’apparente entusiasmo per questa soluzione, non si è mai arrivati vicini a realizzare davvero il progetto. “Sarebbe costato tra i 200 e i 250 milioni di euro”. Nel 2014 l’intera realizzazione del Mose è stata travolta da un grave scandalo di corruzione e tangenti, di cui vi abbiamo parlato qui. Il simbolo di questo scandalo è stato l’ex governatore veneto Giancarlo Galan, che ha patteggiato due anni e dieci mesi per corruzione nell’ambito dell’inchiesta. Oggi deve risarcire 5,2 milioni di euro alla regione Veneto. Sentito al telefono da Giulio Golia, si è messo a ridere all’idea di restituire quel denaro: “Sarà nella prossima vita, nella quarta o quinta reincarnazione, non so”. Nella conversazione con l’ex presidente della Regione, che potete sentire integralmente qui sopra, Galan racconta di sapere con precisione dov’è finito il miliardo di euro che sarebbe stato distratto illegalmente dai fondi destinati alla realizzazione del Mose. Galan però non ci dice di più e sembra di capire che i soldi che gli è stato imposto di restituire potrebbero non arrivare mai. Luca Zaia, successore di Galan, dice: “I lavori vanno avanti a seconda dei finanziamenti che hanno ricevuto. Leggendo le carte della procura, sembra che non tutti siano stati destinati ai lavori. Penso che i soldi ci fossero, ma siano andati su altri fronti”. Per Zaia c’è una sola soluzione per evitare che la realizzazione delle opere pubbliche finisca bloccata da un eccesso di burocrazia e impantanata nella corruzione: togliere alla politica il compito di redigere i bandi. “A me di tutta questa esperienza resterà una cosa, la reputazione. Questo è un paese che ha bisogno di ritrovare una identità nelle opere pubbliche: l’opera è demonizzata, ma a volte è necessaria”.

Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 18 novembre 2019. Entro la fine del secolo, circa il 7% della popolazione mondiale, compresi gli abitanti di molte città costiere italiane, compresi quelli di Venezia – duramente colpita nei giorni scorsi e ancora oggi da tempeste e inondazioni – rischia di finire sott’acqua. Lo dice una recente ricerca dell’Università di Princeton che va a mettere in evidenza che tutta questa rapida crescita dei livelli dei mari potrebbe aggravare l’esposizione ai rischi d’inondazione per milioni di persone, a cominciare proprio dagli Stati Uniti. Città come Boston, New York, New Orleans e Miami sono a rischio e le prime avvisaglie ci sono già state con l’erosione di diverse isole. Anche altri Stati possono soffrire le conseguenze dell’innalzamento dei mari, ad esempio i Paesi Bassi o Singapore. “Gli esempi potrebbero continuare all’infinito fino a quando non si troverà una soluzione”, spiega all’HuffPost Francesca Santolini, giornalista esperta di temi ambientali e autrice di “Profughi del clima”, un libro appena uscito per Rubbettino Editore che affronta questi argomenti attuali e scottanti con un linguaggio adatto a tutti, perché simili problematiche devono essere conosciute e percepite da quante più persone possibili. Il titolo si riferisce a un esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuto all’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione e a conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche. La categoria del “migrante ambientale” o, più opportunamente, di “rifugiato ambientale”, ancora non esiste nel diritto internazionale e questo, precisa l’autrice, “è anche un alibi a non occuparsene”. Ciò significa che le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici, oggi sono fantasmi e non sono tutelate dal diritto internazionale oltre a non poter beneficiare dello status di rifugiato che la Convenzione di Ginevra del 1951 concede solo a chi è perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. Dell’ambiente e delle conseguenze del clima, e del diritto alla loro protezione, dunque, incredibilmente, non vi è ancora traccia. Al momento il dibattito sembra arenato sulle emergenze del Mediterraneo che alimentano i dibattiti politici interni ai paesi europei. L’Alto commissariato della Nazioni unite e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno tra i 200 e i 250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio Paese. Partono perché non riescono a sopravvivere nel loro luogo d’origine, non hanno più accesso a terra, acqua, mezzi di sussistenza. Ci sono tanti cambiamenti connessi al riscaldamento globale, come ad esempio, quello che riguarda il ciclo dell’acqua, si legge nel libro. “Bisognerebbe chiedersi, aggiunge Santolini, se alla luce delle evidenze scientifiche – che ci sono da anni sulle conseguenze del livello del mare, anche a Venezia – se il Mose (il sistema di barriere mobili che dovrebbe salvare la città quando l’acqua si alza troppo, ndr) sia stato pensato integrando gli scenari definiti dagli scienziati e dai climatologi. Sono loro che devono essere ascoltati dalle istituzioni”. Negli ultimi 25 anni il livello degli oceani è cresciuto di 7 centimetri e i mari avanzano di quasi un millimetro extra ogni 10 anni, stando ad un recente studio dell’Università del Colorado Boulder. “Sono preoccupanti, ma è un dato di fatto che non si può continuare a ignorare. Quello che è successo a Venezia, può succedere in tanti altri posti. Difficile dire se la tragedia di Venezia si poteva evitare. Sicuramente si tratta di una tragedia annunciata. Rispetto al 1966 è un fenomeno inedito che ha a che fare con le conseguenze del cambiamento climatico e che dovrebbe farci riflettere. Anche perché i costi economici per riparare i danni saranno altissimi, come sempre avviene quando si ha a che fare con tragedie climatiche”. Ad influire nel cambiamento climatico, ci sono stati e ci sono diversi fattori. Da una parte l’innalzamento del livello del mare, dovuto allo scioglimento dei ghiacci, che è un effetto diretto del cambiamento climatico stesso, anche se stavolta a fare la differenza sono stati gli effetti di flussi di venti di Scirocco che provengono dal Sud, che sono sempre più frequenti nella nostra penisola e che anche in questo caso possiamo attribuire al cambiamento climatico. “Il vero problema – aggiunge - è che questo è solo l’inizio, un anticipo di quello che succederà nei prossimi anni. Ci sono scenari apocalittici preconizzati da molti rapporti italiani e internazionali, in particolare, per Venezia si prevede un picco di marea di 2,5 metri”. Non si tratta di catastrofismo ma di realismo ed è lei stessa a precisarlo. “Negare oggi il cambiamento climatico è criminale, precisa l’autrice, mettere competenza e incompetenza sullo stesso piano non è mettere i cittadini in grado di decidere: è rendersi conto della dilagante disinformazione scientifica. Il cambiamento climatico esiste. E’ la scienza che lo dice, da anni. Bisognerebbe ascoltarla e integrare le evidenze scientifiche nelle decisioni politiche di lungo termine. Gli anglosassoni usano un’espressione per definire questo rapporto stretto tra scienza e istituzioni politiche: sound of science, giocando con le parole del titolo di una bellissima canzone di Simon and Garfunkel. C’è da augurarsi che il “sound of science” risuoni anche nelle orecchie dei governi di tutto il pianeta. Compreso il nostro”.

Dagospia il 18 novembre 2019. Introduzione del libro “Profughi del clima” di Francesca Santolini pubblicato da la Stampa. Il libro affronta quella che potrebbe trasformarsi nella più grave crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale, con flussi migratori che già investono il nostro Paese e che potrebbero avere dimensioni senza precedenti. Nelle migrazioni, infatti, sono e saranno sempre più cruciali gli esodi provocati dagli effetti dei cambiamenti climatici. Eppure, nonostante l’evidenza, il tema e pressoché assente dalle priorità delle istituzioni nazionali e internazionali. Quella che Zygmunt Bauman pochi anni fa definiva «la società liquida» (e forse non si aspettava di essere superato da formule successive come «società emotiva» o «società dell’istante») sembra incappata in una strettoia della storia, nella quale il potere politico, l’opinione pubblica, le classi dirigenti accelerano tutte insieme, intasando la via e bloccando sia le politiche nazionali sia il sistema internazionale. La coscienza sociale sembra intossicata dall’eccesso di informazione e di dibattito scatenati dalla rete, e la politica spesso risulta in difficoltà nell’indicare le vere emergenze del nostro tempo e nel prendere le decisioni necessarie per farvi fronte. Da qui gli incredibili ritardi che si registrano su norme e interventi che potrebbero permettere di gestire il fenomeno migratorio con politiche a lunga scadenza, garantendo lo status di profugo e il diritto d’asilo a chi fugge da territori devastati dal clima per non morire di fame o malattie o travolto dalla terra stessa che si trasforma, con l’esondazione dei bacini idrici, gli smottamenti montani, l’espansione delle zone desertiche. E evidente che la comunità internazionale (Italia compresa) ha il dovere di preoccuparsi e occuparsi del contrasto alla nuova frontiera del traffico di esseri umani rafforzando politiche di integrazione e gestione condivisa. Ma resta impressionante il disinvolto ritardo accumulato nel predisporre un piano di azioni concrete per frenare i cambiamenti climatici. Eppure, la svolta nella politica internazionale dell’ambiente era stata già definita a Rio de Janeiro nel 1992, e poi, nel 2015, una grande convenzione internazionale ha solennemente firmato accordi che stabilivano precisi impegni da attuare in tempi rapidi. Da allora, però, la politica di concreta attuazione degli impegni e proceduta con un continuo stop and go, fra scambi diplomatici da un summit all’altro. I dati restano da allarme rosso, come ci confermano gli allarmi che non provengono più soltanto da ecologisti e naturalisti, biologi e fisici, climatologi e meteorologi ma ormai anche dagli economisti e broker di Wall Street, che non sono certo figli dei fiori in cerca di rapporti idilliaci con la natura, ma freddi analisti della contingenza economica. Secondo uno studio della Banca Mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre regioni più densamente popolate del mondo metteranno in moto, entro il 2050, 143 milioni di migranti del clima come conseguenza di alluvioni, siccità, fame, carestie, epidemie, devastazioni di intere aree urbane per eventi meteo estremi che porteranno a incrementi mai registrati delle migrazioni forzate. Ma non è tutto. Per l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, le variazioni climatiche e il fattore ambientale sono e diventeranno sempre più una minaccia alla sicurezza. Ci sono aree più esposte, come l’Asia centrale, dove la mancanza d’acqua comincia a provocare spostamenti di popolazioni con conseguenze su molte economie locali con un impoverimento che incentiva l’esodo. L’Africa subsahariana occidentale, fortemente colpita dalle variazioni climatiche e in rapido sviluppo demografico, e un altro hot-spot dove gli effetti amplificano tensioni sociali e debolezze strutturali, destabilizzando comunità già vulnerabili. Per la prima volta anche il World Economic Forum, gotha dell’economia mondiale, riconosce il cambiamento climatico come il rischio più grande del pianeta. Secondo il rapporto “Global Report”, la «mancata mitigazione e il mancato adattamento al cambiamento climatico sono il rischio globale numero uno in termini di impatto, mentre il pericolo più probabile e costituito dalle migrazioni involontarie su larga scala, che registrano quest’anno la più forte crescita in termini di impatto e di probabilità». Su questo, anche l’ultimo rapporto dell’Ipcc, l’organismo voluto dall’Onu che riunisce duemila scienziati di tutto il pianeta, è stato chiaro: «[…] il cambiamento climatico e destinato ad aumentare le migrazioni delle persone. Popolazioni che mancano di risorse per una migrazione pianificata sono maggiormente esposte ad eventi meteorologici estremi, in particolare nei Paesi in via di sviluppo a basso reddito. I cambiamenti climatici possono indirettamente aumentare i rischi di conflitti violenti amplificando i ben documentati “driver” di questi conflitti, come la povertà e gli shock economici». A confermare il ruolo primario delle variazioni climatiche nei flussi migratori che si muovono dal Sahel africano verso l’Italia e il recente studio pubblicato sulla rivista internazionale Environmental Research Communications dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche. Secondo questa ricerca, gran parte del flusso migratorio verso l’Italia è già oggi causato da fenomeni meteo-climatici che rappresentano uno dei vettori principali degli spostamenti di massa. Ma quand’è che un semplice migrante diventa «migrante climatico»? La natura e la novità del fenomeno, insieme alle troppe semplificazioni e incoerenze, hanno reso finora impossibile un accordo internazionale che stabilisca una definizione condivisa. Non e dunque un caso se non esiste una definizione ufficialmente riconosciuta di «migrante ambientale». L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ad ogni modo, ha già fornito una «definizione di lavoro» ancorché generica: «I migranti ambientali sono quelle persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati o scelgono di lasciare le proprie case temporaneamente o permanentemente, muovendosi all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali». Tuttavia, la categoria del «migrante ambientale» o, più opportunamente, di «rifugiato ambientale», ancora non esiste nel diritto internazionale e questo e anche un alibi per non occuparsene. Ciò significa che le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici sono fantasmi, non sono tutelate dal diritto internazionale e, dunque, non possono beneficiare dello status di rifugiato che la Convenzione di Ginevra del 1951 concede solo a chi e perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. Dell’ambiente e delle conseguenze del clima, incredibilmente non vi è ancora traccia. Come non c’è traccia di un piano serio con politiche e investimenti per l’adattamento e la mitigazione del rischio clima nella nostra Penisola. In questo libro leggerete di questa emergenza che sta già riversandosi su di noi, e prima ancora sulle popolazioni costrette a lasciare le zone del mondo che il clima ha reso ormai inabitabili. E leggerete della strana incapacità dell’informazione e della politica di rendersi conto dell’emergenza e di prospettare possibili rimedi. Leggerete di una gigantesca onda di risacca che sta per rovesciarsi su chi, con gli occhi chiusi e le cuffie ben infilate nelle orecchie, si ostina a far finta che il mare sia calmo. (....) Entro la fine del secolo circa il 7% della popolazione mondiale, compresi gli abitanti di Venezia e di altre città costiere italiane, rischia di finire sott’acqua. Una ricerca dell’Università di Princeton mette in evidenza che la rapida crescita dei livelli dei mari potrebbe aggravare l’esposizione ai rischi di inondazione per milioni di persone negli Stati Uniti. “Città come Boston, New York, New Orleans e Miami sono a rischio e le prime avvisaglie ci sono già con l’erosione di diverse isole”. Anche altri stati possono soffrire le conseguenze dell’innalzamenti dei mari: i Paesi Bassi, ad esempio con gran parte del loro territorio sotto il livello del mare e protetto da un sistema di dighe che gli olandesi stanno già pianificando di rinforzare. Oppure Singapore...Ci sono tanti cambiamenti connessi al riscaldamento globale, come ad esempio, quello che riguarda il ciclo dell’acqua. Gli scenari per fine secolo danno un aumento di due metri del livello del mare Negli ultimi 25 anni il livello degli oceani è cresciuto di 7 cm. Oltre ai 3 millimetri circa di innalzamento annuo, i mari avanzano di quasi un millimetro "extra" ogni 10 anni. Lo conferma uno studio dell'Università del Colorado Boulder in collaborazione con la NOAA, la NASA e l'Università della Florida meridionale pubblicato su “ Proceedings of the National Academy of Sciences ”. Le previsioni sono confermate anche dall’IPCC che prevede un aumento globale del livello del mare tra i 52-98 cm entro il 2100. Circa la metà dei 25 centimetri di aumento del livello del mare riscontrato a partire dal 1880 è dovuto alla dilatazione termica dell’acqua. L’altra metà è attribuita alla fusione dei ghiacci ubicati sui continenti. L’Artico si sta riscaldando più del doppio rispetto al resto del pianeta con conseguenze pesanti per popolazioni residenti e fauna locale. L’aumento della temperatura media in queste aree del mondo è, infatti, il doppio di quanto registrato in altre zone del globo.

Greta Thunberg a Piazza San Marco "gode" per l'alluvione: spunta un'immagine clamorosa. Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Greta Thunberg a Piazza San Marco con le braccia incrociate come per dire: "Ve l'avevo detto". La sua foto, ovviamente taroccata, sta facendo il giro del web. Mostra la vispa svedese, simbolo mondiale dell'impegno ecologista, nella piazza inondata di Venezia. Ha l'impermeabile giallo, lo stesso con cui è ritratta sulla copertina del suo libro. Con lo sguardo severo, come sempre, la giovane paladina dell'ambiente ammonisce: ecco cosa succede a ignorare gli effetti dei cambiamenti climatici per cui lei si batte. Il fotomontaggio di Greta Thunberg creato da Luca Fancellu e pubblicato su Twitter e stato retwittato da Spinoza, che l'ha ricondiviso anche sulla pagina Facebook, ed è diventato virale. Greta ora si trova sul catamarano Le Vagabonde della coppia di influcencer australiani che stanno girando il mondo con il loro bambino di 11 mesi. I due velisti, idoli di YouTube, hanno deciso di dare un passaggio dagli Usa all'Europa a Greta, che deve partecipare a Madrid al summit sul clima. All'andata in Usa Greta era andata con la barca a vela di Pierre Casiraghi (poverina), al ritorno fa l'upgrade: un confortevole catamarano Outremer. 

Da it.mashable.com il 16 novembre 2019. Braccia conserte, impermeabile giallo, lo stesso con cui è ritratta sulla copertina del suo libro, e alle spalle una Piazza San Marco completamente inondata dall'acqua alta che a Venezia ha toccato il record dal 1966. Il fotomontaggio di Greta Thunberg creato da Luca Fancellu (che l'ha pubblicato su Twitter) e ricondiviso sulla pagina Facebook Colors by Spinoza.it, il cui lancio recita ''I told you''(Ve l'avevo detto), è diventato virale in poco tempo. ''È difficilissimo addentrarsi quando ci troviamo di fronte a eventi di natura straordinaria - ha spiegato a Mashable Italia l'autore del fotomontaggio - sono sempre più vicini in ordine di tempo è questo fa suonare mille allarmi. Forse abbiamo bisogno di icone come la giovane attivista''. All'indomani dell'emergenza che ha colpito Venezia, dove l'acqua alta ha raggiunto il metro e ottantasette, è questa una delle immagini che meglio si presta per parlare dei fenomeni meteorologici sempre più estremi, dovuti anche all'innalzamento delle temperature. Ad aggravare la situazione della città c'è anche l'abbassamento del livello del suolo, sceso di circa 12 centimetri tra il 1950 e il 1970. Lo scatto ha alimentato grande dibattito sui social, dove, tra gli utenti, c'è anche chi ha sostenuto che l'evento del 4 novembre 1966 a Venezia fu in assoluto il più catastrofico. I dati però dimostrano come dal 2000 i picchi d'acqua alta si siano intensificati sempre di più.

Venezia, occhio a questa foto: il dettaglio che smonta le tesi di Greta Thunberg ed eco-terroristi. Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. Il dipinto riprodotto qui sopra è opera dell'artista veneziano Vincenzo Chilone (1758-1839). Raffigura, come spiega la didascalia del sito della casa d'aste Sotheby's, Piazza San Marco inondata. Da alcuni elementi del quadro (le bandiere austriache e un edificio in seguito abbattuto) si può datare la scena al 9 dicembre 1825 quando le gazzette del tempo registrano forte acqua alta. Secondo gli esperti di Sotheby's, le gondole addobbate dimostrano che gli allagamenti erano occasione di divertimento. Frase eccessiva; ma è un fatto che i fenomeni di questi giorni non sono unici nella storia. 

Vittorio Feltri, la letterina a Greta Thunberg e gretini: "Ambientalisti da strapazzo, prendetene atto". Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. Ormai gli ambientalisti spopolano. La moda ecologista dilaga in ogni strato sociale e non c' è verso di arginarla. Rassegniamoci a subirne le conseguenze devastanti. Ma ci sia almeno consentito di opporre al catastrofismo imperante alcune considerazioni basate sulla osservazione della realtà. Il surriscaldamento del pianeta è una boiata pazzesca, nel senso che i mutamenti climatici sono sempre avvenuti, in modo altalenante, provocando talvolta disastri, mai però esiziali. Almeno finora. Eppure un grado in più o in meno di temperatura non ha sostanzialmente influito sulla esistenza degli umani. Sorvoliamo su questi dettagli ininfluenti. Esaminiamo piuttosto ciò che è successo negli ultimi 50/60 anni. La mortalità infantile, fenomeno un tempo tragico, si è praticamente ridotta a zero. Mio padre, ad esempio, ebbe cinque fratelli, tra cui due gemelli, che tirarono le cuoia precocemente. Mia moglie ebbe pure due sorelle, entrambe decedute in fasce. All' epoca era così, un orrore che colpiva quasi tutte le famiglie del Nord e del Sud. La medicina era impotente di fronte a certe malattie. Oggi non crepa più nessuno nella culla, tranne rare eccezioni. Non solo. L' età media era molto bassa, si andava all' altro mondo intorno ai 50 anni e chi arrivava ai 70 era considerato un matusalemme. Oggigiorno ad oltrepassare le 80 primavere giunge una moltitudine, maschi o femmine che siano. Il benessere è diffuso a qualsiasi livello. Ogni abitazione ora dispone di un bagno attrezzato quando una volta non esisteva che un cesso privo di vasca e di bidet, il frigorifero era un oggetto misterioso, i nuclei familiari più abbienti godevano di una ghiacciaia funzionante soltanto d' estate allorché si poteva acquistare il ghiaccio dagli ambulanti. Le automobili le possedevano i ricchi, una minoranza sparuta, qualche privilegiato aveva la Vespa o la Lambretta. Ce lo vogliamo dire che si campava male? La carne si mangiava al massimo la domenica, ci si lavava poco e le case erano piccole, troppo piccole per parentadi numerosi. Tuttavia adesso ci si lamenta di più, ci lagniamo per l' inquinamento immaginario, visto che nella città giudicata più sporca, Milano, le aspettative di vita sono le più lunghe d' Italia. Scrivo queste verità affinché gli ecologisti da strapazzo ne prendano atto e la smettano di ammorbarci con discorsi e recriminazioni improntati a bugie. Si dà infine il caso che il nostro Paese, nonostante sia infestato dallo smog, come dicono insensatamente gli amici e gli ammiratori di Greta, in Europa sia al vertice della longevità. Vuol dire che l' aria mefitica fa bene alla salute. E che l' aumento della temperatura ci fa stare coi piedi caldi, quindi ci giova.

Martina Zambon per corrieredelveneto.corriere.it il  14 Novembre 2019.  La teoria ininterrotta di cuoricini spezzati, smile in lacrime, leoni ruggenti di incoraggiamento e parole di vicinanza a Venezia e ai veneziani, declinate in decine di lingue, si interrompe a tratti. Quando affiorano anche messaggi d’odio. Tanti, velenosi, cinici nel migliore dei casi. Su Facebook, su Twitter, su Instagram. A scatenare i leoni da tastiera, ad esempio, è il video impressionante dell’Hotel Gritti. Con il Danieli, l’altro hotel-gioiello, il Gritti ha fronteggiatole raffiche di vento a cento chilometri all’ora, la furia devastatrice dell’acqua capace di sollevare un vaporetto e il mare stesso che si riversa nell’androne, a cascata. «Povera gente» il commento di chi posta il video. «Povera un c...o, per dormire lì ci devi lasciate un litro di sangue» commenta un altro utente. Il rancore accumulato ha la stessa potenza dell’acqua granda. E si trascina appresso i tanti scandali legati agli scontrini monstre, i caffè da otto euro da sorbire lentamente ai tavolini di piazza San Marco, gli alberghi glamour, appunto, off limits per chi si deve accontentare di qualche umido pian terreno affittato in nero.

I fotomontaggi. Nella trama che tesse la reazione social sul dramma veneziano c’è, poi, anche il filo dello humor nero. E così c’è chi trova spiritoso twittare: «Dicevano che era una città eccellente, invece fa acqua da tutte le parti». Altri ancora trovano il tempo per realizzare con perizia fotomontaggi del vaporetto scaraventato a riva e due vigili urbani che lo multano «Per il divieto di sosta sono 46 euro». Scendendo ancora un gradino dell’ironia social, si arriva al sottomarino che affiora da acque fangose e il commento «Nuovi mezzi di trasporto a Venezia». Meno corrosiva, invece, la vignetta in cui un passerotto fiducioso, appollaiato sul Mose, spiega in veneziano stretto a due piccole meduse come «In teoria dovrebbe alzarsi...» per poi essere affogato dalla marea crescente. Innumerevoli, poi, i riferimenti livorosi allo scandalo Mose. Al grido (e relativo hashtag) #bastabuonismo c’è chi scrive in 140 corrosivi caratteri: «Votate i fascisti? Vi macchiate di razzismo, omofobia e quant’altro? Poi non vi lamentate se i governi di destra che scegliete vi mettono in queste condizioni per arricchirsi e spartirsi le tangenti, poiché nessuno sfugge alla giustizia di Dio. Basta buonismo». A chi commenta che forse parlare di «giustizia di Dio» è passare il segno, viene risposto: «Chi se ne frega se è offensivo!!! È ciò che si meritano per i loro peccati e il loro nazismo!!! L’epoca del buonismo è finita».

Mentana e il «pensiero di schifo». Sui commenti carichi di odio e livore è intervenuto anche il direttore del Tg di La 7 su Facebook. Anticipando che la sottoscrizione per aiutare la città sta andando molto bene, Enrico Mentana ha anche detto che va «pensiero di schifo per tutti coloro che - nonostante avessi espressamente chiesto rispetto almeno di fronte a questa catastrofe - hanno dato vita alla solita parata di odio e rancore. Ho tirato lo sciacquone, bloccandoli. Non ci mancheranno».

Zaia, Galan e l’autonomia. Il filone politico è prevedibilmente ricco. Le foto ormai quasi color seppia di Luca Zaia e Giancarlo Galan appaiati e sorridenti gemmano e invadono il web. Ma ce n’è per tutti, incluso il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro «reo» di aver detto: «Il governo ci aiuti». Pronto il commento al vetriolo: «Non la vogliono più l’autonomia. Se fossimo pezzenti come voi dovremmo lasciarvi fottere. Invece siamo italiani come voi, la solidarietà è un obbligo morale oltre che civile e vi aiuteremo con piacere».

L'acqua alta che bagna tutta l'Italia. Ci indigna quanto successo a Venezia; ma ruberie uniscono l'intero paese. E quelle funzionano benissimo. Mario Giordano il 29 novembre 2019 su Panorama. Non è vero che il Mose è il simbolo dell’Italia che non funziona, come è stato detto ripetutamente in questi giorni, dopo la nuova alluvione che ha sommerso Venezia, la più grande dopo quella del 1966. Al contrario: il Mose è il simbolo dell’Italia che funziona perfettamente. I soldi che dovevano salvare la città più bella del mondo, infatti, sono stati utilizzati per salvare nell’ordine: amici, parenti, conoscenti, amanti, commesse inutili, appalti tarocchi, consulenze d’oro, gite premio, sponsorizzazioni, favori vari. È stato calcolato che in questo modo siano stati buttati almeno 100 milioni l’anno. Oltre un miliardo di euro. Il Mose non è mai stato completato. Ma chi l’ha mai detto che i 6 miliardi spesi per il Mose servivano davvero per fare il Mose? L’Italia è un Paese così. Non è che funziona male. Funziona così. Negli altri Stati se decidono di costruire un ponte, costruiscono un ponte. Noi facciamo l’ente per il ponte sullo stretto di Messina, che dopo trent’anni di studi, progetti, quintali di carta e documenti, soldi e sprechi, è ancora lì, con il suo commissario e i suoi dipendenti, l’unico pilastro immarcescibile dell’opera. Che non ci sarà mai. Qualche tempo fa girava una storiella: un politico riceve un amico in una bella casa e l’amico gli chiede: «Come hai fai fatto a comprarla?». E lui: «La vedi quella strada? Per essere sicura doveva avere un lampione ogni venti metri. Io ne ho fatto mettere uno ogni cinquanta metri, con i soldi risparmiati, mi sono fatto la casa». Qualche tempo dopo l’amico va a trovare di nuovo il politico che sta in una casa ancora più bella e gli ripete la stessa domanda: «Come hai fatto a comprarla?». Lui: «La vedi quella strada?». «Sì». «Per renderla sicura bisognava mettere il guardarail nelle due carreggiate, io l’ho fatto mettere solo da una parte. E con i soldi risparmiati, eccomi nella casa più bella». Qualche tempo dopo l’amico torna a trovare il politico che sta in una villa meravigliosa, cento volte più bella delle altre, una dimora hollywoodiana. «Come hai fatto a comprarla?», gli chiede ancora. E lui: «La vedi quella strada?». «No». «Appunto». Ecco mi è rivenuto in mente questo aneddoto: il Mose non c’è, ma in quanti si sono arricchiti? Il meccanismo malato che ha foraggiato l’intero sistema politico (a cominciare dall’allora governatore del centrodestra Giancarlo Galan) si fondava su due persone: Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, e l’ingegner Piergiorgio Baita, detto il Serenissimo. Il primo è morto poco tempo fa in una lussuosa villa della California, dove ha vissuto gli ultimi anni della sua vita. Non ha mai pagato per i suoi disastri. Quando qualcuno gli faceva domande, rispondeva che non ricordava nulla. Il secondo, quando nel 2013 è stato arrestato, risultava titolare di 250 conti correnti, era arrivato a occupare fino a 88 poltrone contemporaneamente, e aveva accumulato ricchezze per milioni e milioni di euro. Ha patteggiato, è libero. L’hanno visto sfrecciare su una Porsche fiammante e cenare nei più rinomati ristoranti di pesce di Venezia. Altro che salvare la Laguna. Lui lì, ci continua soltanto a mangiare. E così si spiega il paradosso di un sistema che è stato pensato nel 1966, previsto per la prima volta da una legge nel 1984, formalmente avviato con la posa della prima pietra nel 2003, e che nonostante tutto ciò, incredibilmente, non è ancora concluso. Con quell’assurdità che sta nel nome stesso: Mose, Modulo sperimentale elettromeccanico. Pensateci: abbiamo quasi da 40 anni un modulo sperimentale che nessuno ha mai sperimentato. Ormai è ultimato al 95 per cento, ma nel frattempo è già consumato, arrugginito, rovinato. Si fanno bandi per sostituire i pezzi. L’inaugurazione è prevista per il 31 dicembre del 2021. L’altro giorno il premier Giuseppe Conte ha annunciato trionfante: «La anticiperemo». A quando? «Alla primavera 2021». Bello sforzo. Dopo 50 anni, si anticipa di qualche mese (se va tutto bene) un’opera che aspettiamo dal 1966 e non si sa ancora se funzionerà o no per il semplice fatto che è costata sei miliardi di euro senza mai funzionare. Non è geniale? Ma credetemi: non è un’eccezione. È l’Italia che funziona così. Ormai non riusciamo neppure più a meravigliarci. Da sei anni per esempio quelli che non fanno funzionare il Mose sono due commissari, pagati 280 mila euro l’anno a testa, con stipendio che si prolunga man mano che il Mose non funziona. Ora come soluzione dopo lo choc dell’acqua alta, sapete che si fa? Si nomina un altro commissario. Anzi, un supercommissario. E avanti, un supercommissario dopo l’altro, perché nell’Italia che si specchia nella Laguna affondante non è importante che si alzino le difesa. Ma che si alzino gli stipendi. È per quello che serve il Mose. È per quello che è servito. E in questo, bisogna dirlo, è servito alla perfezione.

Mose: dal governo 320 milioni per completarlo. Ma potrebbe essere inutile. Le Iene il 27 novembre 2019. Il premier Conte presiede il comitatone per Venezia e stanzia gli ultimi 320 milioni di euro per completare il Mose, che dovrebbe salvare la città. Un’emergenza di cui ci ha raccontato il servizio di Giulio Golia. Fine dei lavori per il Mose al 31 dicembre 2021 e stanziamento dei 320 milioni di euro mancanti. Lo ha deciso il comitatone per Venezia presieduto dal premier Giuseppe Conte, alla presenza di alcuni ministri, del sindaco Brugnaro e del governatore del Veneto Luca Zaia. Il governo Conte ha confermato il finanziamento di 5 miliardi e 493 milioni per l’opera: “Sono state prese delle decisioni molto importanti – ha spiegato il sindaco di Venezia -, son stati ripartiti i fondi, non solo per Venezia, che non erano stati deliberati. Il comitatone è andato molto bene, abbiamo visto che c'è la volontà del governo di risolvere le cose”.  E sarebbe davvero l’ora, visto il gravissimo ritardo con cui viaggia il progetto del sistema di paratie che dovrebbe proteggere Venezia dall’acqua alta, e dopo la gravissima alluvione dei giorni scorsi. Ve ne abbiamo parlato con il servizio di Giulio Golia, che potete rivedere qui sopra. La Iena ha parlato con esperti che ci raccontano i sistemi alternativi al Mose, che avrebbe dovuto essere terminato addirittura nel 1995. Sono passati 24 anni e il sistema ci è già costato oltre 6 miliardi di euro, mentre altre città europee sembrano avere risolto un’emergenza simile. Pensiamo a Londra o sul fiume Ems in Germania, con sistemi già entrati in funzione e con costi di realizzazione molto più bassi di quelli del Mose. C’è poi il caso dell’olandese Rotterdam, dove è stata creata la più grande diga mobile del mondo: quella barriera è costata meno della metà di quella che dovrebbe proteggere Venezia. Ma anche se il Mose superasse tutti i problemi di cui vi parliamo nel servizio, ce n’è un altro che non sembra risolvibile: il sistema è stato progettato per essere utilizzato tra le 10 e le 30 volte. Con l’innalzamento previsto del mare, però, si renderebbe necessario chiudere le bocche di porto tra le 300 e le 400 volte all’anno: in pratica ogni giorno. Oltre ai problemi tecnici ed economici, occorrerebbe affrontare anche il tema ambientale: chiudere costantemente la laguna provocherebbe dei profondi cambiamenti nella flora e nella fauna che popolano le acque di Venezia. Un’altra soluzione, però, potrebbe esistere: “Alzare Venezia”. A raccontarlo a Giulio Golia è Giuseppe Gambolati, professore di ingegneria dell’università di Padova. Il progetto del professore prevede di iniettare acqua di mare attraverso delle pompe a profondità differenti nel sottosuolo, producendo un effetto di rialzamento che potrebbe arrivare fino a 30 centimetri. “Dopo dieci anni Venezia sarebbe sollevata di 30 centimetri”, spiega il professore. Per lui non esiste il rischio di spezzare la città. “Alzando uniformemente la zona non ci sarebbe possibilità di provocare rotture”. E tutto questo permetterebbe di utilizzare il Mose molto di meno. Nonostante l’apparente entusiasmo per questa soluzione, non si è mai arrivati vicini a realizzare davvero il progetto. “Sarebbe costato tra i 200 e i 250 milioni di euro”. La storia del Mose, il cui funzionamento è spiegato molto bene in questo vecchio servizio di Alessandro Sortino, è anche quella di un uso spregiudicato dei fondi a esso destinati: è il 2014 quando il Mose viene travolto da un grave scandalo di corruzione e tangenti, di cui vi abbiamo parlato qui. Il simbolo di questo scandalo è l’ex governatore veneto Giancarlo Galan, che ha patteggiato due anni e dieci mesi per corruzione nell’ambito dell’inchiesta e che oggi deve risarcire 5,2 milioni di euro alla regione Veneto. Giulio Golia lo sente al telefono e lui, sull’ipotesi di restituire quei soldi, si mette a ridere: “Sarà nella prossima vita, nella quarta o quinta reincarnazione, non so”. Galan racconta anche di sapere con precisione dov’è finito il miliardo di euro che sarebbe stato distratto illegalmente dai fondi destinati alla realizzazione del Mose. Senza però spiegare di più.

Venezia, Mose: chieste verifiche dopo le immagini che abbiamo mostrato. Le Iene l'11 dicembre 2019. Sabbia, detriti e un angolo di una paratoia piegato. Sono le immagini delle paratoie del Mose che ci sono arrivate in redazione e che vi abbiamo mostrato nell’ultimo servizio di Giulio Golia dedicato all’opera costata 5 miliardi e mezzo. Ora il provveditorato per le Opere pubbliche ha chiesto al Consorzio Venezia nuova di verificare le condizioni dell’opera. La sabbia, le incrostazioni e anche una parte di acciaio piegata. Non sono passate inosservate le condizioni delle paratoie del Mose di Venezia di cui vi abbiamo parlato nell’ultimo servizio di Giulio Golia dedicato all’opera costata 5 miliardi e mezzo per difendere la città dall’acqua alta. Un’opera che non è ancora in funzione. Dopo le immagini che vi abbiamo mostrato, il Provveditorato delle Opere pubbliche del Triveneto chiede di fare alcune verifiche al consorzio Venezia Nuova. Devono capire se le immagini che avete visto corrispondono allo stato attuale delle paratoie. Le paratoie del Mose sono enormi strutture in acciaio piene d’acqua che stanno sul fondo del mare. Sono ancorate a giganteschi cassoni in cemento armato. Quando il livello del mare sale, dentro alle paratoie viene soffiata aria compressa che butta fuori l’acqua e le fa alzare. Ma se rimangono sul fondo per troppo tempo, rischiano di subire danni e essere sepolte dalla sabbia. Con Giulio Golia abbiamo provato in tutti i modi ad avere l’autorizzazione per scendere sott’acqua e constatare le condizioni di queste strutture, ma non è stato possibile. Secondo quanto ci ha riferito un segnalatore, lo stato delle paratoie non sarebbe dei migliori: “è tutto sabbione, c’è terra sopra, sabbia”, ha detto il segnalatore. Dopo i nostri innumerevoli tentativi, qualcuno è riuscito ad andare proprio sott’acqua dove si trovano le paratoie. In redazione, infatti, ci è arrivato un video: siamo a Punta Sabbioni. Sul fondo appaiono le paratoie colorate di giallo. E lì sembra esserci sabbia ovunque, proprio come ci avevano segnalato e c’è addirittura un pezzo d’acciaio piegato, come se fosse danneggiato. Ci sono detriti, incrostazioni. C’è una paratoia sollevata dal fondo. Per portare a termine i lavori del Mose, inteso come le opere alle bocche di porto, mancano ancora 303 milioni di euro. E se si includono i lavori già finanziati, gli interventi ambientali, la manutenzione dell’Arsenale, il sistema informativo e altro la cifra sale a 461 milioni. Si tratta di soldi mancanti anche se già inclusi nei 5 miliardi e mezzo previsti per l’opera.

Emergenza Venezia, de Magistris: "Quando accade al Sud c'è molta meno attenzione". "Tendenzialmente c'è un atteggiamento di assoluta discriminazione", dice il Sindaco di Napoli. Napolitoday.it il 14 novembre 2019 11:28. "Tendenzialmente c'è un atteggiamento di assoluta discriminazione, quando accadono cose del genere al Sud c'è molta meno attenzione". Così il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, parlando a Radio Crc nel corso della trasmissione "Barba & Capelli", ha commentato quanto sta accadendo a Venezia a causa del maltempo. "E' altrettanto grave che ancora una volta si navighi a vista e si intervenga solo quando c'è l'emergenza. Sono anni che ho atteso un Governo nazionale che facesse una manovra che portasse alla messa in sicurezza del nostro Paese. Sarebbe non solo una cosa giusta, ma creerebbe economia, lavoro, sviluppo e investimenti. Non capisco perché nessun Governo abbia la capacità, la voglia e l'amore per l'italia per mettere in campo qualcosa di questo tipo. Oggi siamo tutti preoccupati perché siamo tutti legati a Venezia, ma è un Paese che non ha prospettive se continua così", ha aggiunto il primo cittadino partenopeo.

Luigi de Magistris: “Venezia? Altro atteggiamento di discriminazione per il Sud”. Luigi Maria Mormone su 2anews.it il 14 Novembre 2019. Luigi de Magistris: il sindaco di Napoli ha parlato a Radio CRC dell’ondata di maltempo, del rimpasto della Giunta (con annesse polemiche) e delle prossime Regionali. A ‘Barba&Capelli’, trasmissione di Corrado Gabriele in onda su Radio CRC, è intervenuto Luigi de Magistris, sindaco di Napoli. Tema d’attualità è purtroppo il maltempo che sta flagellando l’Italia, da Venezia alla maxi voragine in via Masoni. Il primo cittadino non si sottrae alla polemica: “Venezia? Molto tendenzialmente c’è un atteggiamento di assoluta discriminazione, quando accadono cose al sud c’è molta meno attenzione.

Mentana lancia una raccolta fondi per il Nord «popolato da gente abituata a non perdersi in lamenti e richieste di aiuto». Enzo Boldi il 05/11/2018 su giornalettismo.com. Enrico Mentana ha lanciato una raccolta fondi per la riforestazione delle città del Nord. Polemica per la sua visione dei cittadini del Sud Italia. La replica piccata a chi gli fa notare il suo atteggiamento nei confronti dei meridionali. Un post che ha fatto e farà molto discutere. Giustamente. A scriverlo è stato Enrico Mentana, direttore del Tg di La7 e del nuovo suo nuovo giornale Open, che è scaduto in alcune righe polemiche nei confronti del Sud Italia che in questi giorni e queste ore è al centro di alcune catastrofi dovute al maltempo, così come accaduto nel Nord Italia. Ma per il giornalista, molto attivo sui social, c’è un’evidente disparità di trattamento e considerazione tra chi vive nel settentrione e chi vive nel meridione. Chi merita la solidarietà (economica) dopo i danni del maltempo? Mentana ha le idee chiare: «Le zone di Veneto Trentino e Friuli segnate dalla peggiore ondata di maltempo dell’ultimo mezzo secolo, sono terre amate da tanti italiani, popolate da gente abituata a non perdersi in lamenti e richieste di aiuto, a fare e ricostruire da sola». Ed è proprio quella sottolineatura «gente abituata a non perdersi in lamenti e richieste di aiuto» che mette in evidenza una sorta di discriminazione territoriale.

Mentana e quel post contro le città del Sud Italia colpite da maltempo: Esistono italiani di serie a e altri di Serie b? Per Mentana, leggendo quel suo post su Facebook, sembra proprio di sì. Facendo di tutta l’erba in fascio – considerando che molte operazioni delle guardia di finanza e della magistratura hanno portato a segno arresti per corruzione, appalti truccati e altri reati di questo genere, in tutta Italia da Nord a Sud passando per il Centro – il direttore del Tg di La7 ha scelto arbitrariamente di optare per una raccolta fondi solo per le regioni settentrionali (Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia), con una sottolineatura polemica nei confronti del popolo meridionale".

E se non bastasse il post, anche una delle tante risposte date da Mentana agli utenti si mantengo sulla stessa linea.

Maltempo, alluvione in Calabria come il 24 novembre 1959. Il Riformista 24 Novembre 2019. Questa mattina gli abitanti di Reggio Calabria si sono svegliati in mezzo a una incredibile alluvione. La pioggia battente ha infatti allagato la città in maniera eccezionale. Giusto 60 anni fa, precisamente il 24 novembre del 1959 avveniva l’ultima grande alluvione. Il 24 novembre 1959 la violenta inondazione colpì la città di Cosenza per l’improvviso straripamento del fiume Crati. Nonostante tutte le risorse impegnate per la realizzazione degli argini e dei nuovi ponti sui due fiumi, la città fu costretta a fronteggiare un’altra imponente esondazione. Le precipitazioni a carattere eccezionale, incessanti sin dal giorno prima, con la massima piovosità nell’alto bacino del Crati, fece registrare, al Ponte di San Lorenzo, una portata di 720 metri cubi al secondo e una velocità media pari a 50 km/h. Rotti gli argini, quello destro in Contrada Caricchio e Casa Donato e il sinistro presso le contrade Caruso e Castagna, straripato sulle altre barriere di contenimento esistenti a monte e all’interno della città, il Fiume Crati in piena si riversò a destra nei quartieri posti alle pendici di Colle Triglio, e, a sinistra, lungo il Pancrazio, tra le piazze dello Spirito Santo e dei Valdesi, distruggendo per intero il mercato popolare di Lungo Crati Luigi De Seta e danneggiando l’allora Jolly Hotel. Il livello delle correnti superò, in alcuni punti, di oltre due metri quello delle strade. Ci furono danni enormi alle abitazioni, ai negozi e alle botteghe delle vie rionali, invasi da uno spesso strato di fango e da enormi tronchi d’albero. La data di oggi? Novembre 1950.

Alluvioni, in calabrese neanche i verbi hanno futuro…Gioacchino Criaco su  Il Riformista il 26 Novembre 2019.  Ci porta via. Ci sta portando via. Ci ha portato via. Ndi leva. Ndi staci levandu. Ndi levau. Basta un normale giorno di alluvione per scoprire che i tempi verbali calabresi mancano del futuro. Presente, forma progressiva e passato. Non si può dire in calabrese: ci porterà. Ed è vero che in presenza di eventi atmosferici particolari sia tutta l’Italia ad andare in tilt, soprattutto nei decenni ultimi, in cui la crisi ha tolto soldi alla cura del mondo in cui si vive, alla sua sicurezza. Le previsioni meteo funzionano almeno dai tempi del mitico colonnello Bernacca, per tanti anni si è vissuto senza la protezione degli allerta preventivi, si è morti pure per l’assenza di un sistema di allarme. Ma mentre in una parte del Paese, gli eventi dovevano essere veramente straordinari, nel Sud in genere, e in Calabria in particolare, è sempre bastata poca roba per fare tragedia. L’alluvione è una condizione endemica: da quando il sole si impigrisce, cosa che in Calabria avviene intorno al 19 ottobre, che giù è chiamato 80 agosto, il cielo chiude gli ombrelloni e si apre a ombrello. Il temporale spunta come un agguato locrideo, spara un po’ d’acqua, e sui social si passa dallo sberleffo ai Nordici, da un “non venite in Calabria” scritto su una foto che ritrae un mojito e il mare blu, agli improperi allo Stato, al Governo, alla Regione e al Comune per l’arretratezza strutturale del Sud. Si piangerà fino a marzo, e il primo di aprile, invece del pesce si aprirà l’ombrellone. Ma ora che l’ottanta agosto è trascorso, e il futuro non lo abbiamo nella lingua per vedere aprile, a ogni acquazzone la Calabria ritrova solo il passato. Quando piove, anche se non è diluvio vero e proprio, è sempre alluvione, ci si chiude in casa, niente scuola e niente del poco lavoro che c’è, si ridiventa pastori e in onore di Corrado Alvaro ci si raggomitola dentro una capanna di frasche e fango e si attende la forza dei torrenti per essere trascinati a mare, e mentre si naviga a dorso di fiumara lo si vede il mondo calabrese: i suoi binari unici senza linea elettrificata, le littorine diesel. Un mondo liquido in cui, se togli qualche scarpa di marca ai piedi e qualche macchina nuova da sotto casa. Il calendario segna novembre 1950 e la gente e piegata sotto le vettovaglie per raggiungere un bastimento che la porterà via per sempre, anzi, l’ha già portata via, mentre sulla Statale 106 Jonica si muovono veloce solo le gazzelle con i lampeggianti accesi e le sirene spiegate: portano via i rimasugli di una mafia che un tempo era potente e in zona ha lasciato solo controfigure. A Reggio Calabria e a Lamezia Terme le vie cittadine sono diventati Canali veneziani, a Cosenza in timore dell’inondazione del 1959 si guarda il Crati giorno e notte. È alluvione pure in Calabria, come in Veneto e in Liguria, ma è solo un giorno di normale alluvione. 60 anni dopo.

Cara Calabria, Pasolini non c’è più ma tu sei ancora sola e ignorata. Gioacchino Criaco su  Il Riformista il 14 Novembre 2019. Nel 1959, scriveva Pasolini nella sua lettera dalla Calabria: “Anzitutto a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulteriore considerazione, il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto: questo furto consiste poi nell’aver fatto legna nella tenuta del barone. Ora vorrei sapere che cos’altro è questa povera gente se non “bandita” dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei servi politici? E appunto per questo che non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuole perpetuare questo stato di cose, ignorandole, mettendole a tacere, mistificandole”. A distanza di sessant’anni la Calabria resta terra fuori dal contesto nazionale: per fatti suoi nemmeno di frontiera. “Bandita”, incompresa, ignorata e mistificata, tradita dal suo interno e, sostanzialmente, abbandonata al suo destino dalla politica nazionale, vicina solo a parole e parate. Comunque, amata e difesa, nella sua gente, da una nuova generazione di intellettuali calabresi liberi da pregiudizi, impegnati e curiosi, ma trattata con superficialità, se non vilipesa, da una letteratura e un giornalismo nazionale, oziosi, da scrivania. C’è stato il tempo di una politica romana che capiva i bisogni, era vicina alla gente, e anche se non risolveva i problemi, comprendeva: Amendola incredulo raccontava del pane nero di Africo, fatto di ghiande e segatura. Ora esiste una politica che prescinde dai calabresi e parla solo ai rappresentanti istituzionali, possibilmente quando sono accomunati dalle stesse bandiere. La prima, romantica, di quando il popolo si ribellava alle regole contro l’oppressione del padrone e dei servi politici. Di quando, a dispetto delle tesi antropologiche e di quelle apocalittiche, della ‘ndrangheta, dal Pollino fino al passo della Limina, non c’era nemmeno la puzza, nel crotonese i reati più gravi erano il pascolo abusivo e il furto di legna e Catanzaro rincorreva il suo record mondiale di assenza di omicidi, due in 40 anni, Silipo e Malacaria (per altro di matrice politica). Di un tempo in cui si lottava per le terre da Melissa a Casignana e le idee, in modo spontaneo senza il gagliardetto di un partito o di un’associazione. Di quando i calabresi erano ancora vivi. La seconda, attuale, stracciona e opportunista, in cui il popolo non esiste più, la mafia è considerata immanente e: o stai di qua o di là. E non c’è spazio per proteste o discussioni, e di altro non si può parlare se non dentro un dibattito soffocante di mafia e antimafia. È una Calabria ignorata, oggi che non ci sono più i Pasolini, gli Amendola. Non esistono figure di riferimento né a destra né a sinistra. Il Giorno della Civetta è tramontato oltre una qualunque e qualsiasi Gomorra, il popolo non ruba per sfamarsi ma per avere l’ultimo iPhone, e la gente se ne frega del voto senza bisogno che le sia tolto il diritto. Fra dimissioni e scioglimenti, votare è diventato inutile. La Calabria è sola, come sole sono le amministrazioni comunali calabresi, prive di mezzi per dare risposte concrete, lontane da un popolo stanco, che non crede più a nulla, sommerso dalle chiacchiere e senza nemmeno un bosco in cui rubare legna o un barone contro cui bestemmiare. Banditi e abbandonati, abitanti di un mondo a parte, con politici, istituzioni e intellettuali che non sanno più di che colore sia il pane calabrese.

·        È il Paese delle frane.

Siamo il Paese delle emergenze. L’Irpinia non è servita. Franco Insardà il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. È passato un altro 23 novembre. Una data drammatica per l’Irpinia, per il Sud e per l’Italia intera. Sono trascorsi 39 anni da quella tragedia che distrusse territori, comunità e sconvolse nell’intimo generazioni che in un attimo persero i loro affetti più cari. Quei novanta secondi, sì proprio novanta interminabili secondi, alle 19 e 34 di una tranquilla domenica, sono rimasti nella mente e nello spirito di tutti quelli che l’hanno vissuti. E poi i 2914 morti, gli 8.848 feriti, la disperazione di circa 280.000 sfollati e quel “Fate presto” del Mattino, strillato a nove colonne, immortalato per sempre da Andy Warhol , hanno segnato le vite di tutti noi. Quel 23 novembre rappresentò per l’Italia anche la nascita della Protezione civile, un’intuizione di Giuseppe Zamberletti, uomo del Nord, che divenne per noi terremotati un riferimento e un amico al pari del presidente della Repubblica Sandro Pertini. L’Irpinia e le altre zone colpite conobbero la solidarietà di un’Italia pronta a rimboccarsi le maniche. La ricostruzione sarebbe potuta essere l’occasione per ripartire, per rilanciare economicamente questi territori, ma una politica miope, interessata ai profitti, la trasformò in un fallimento. Per ammissione dello stesso Zamberletti, che ho intervistato qualche anno fa, non fu la ricostruzione privata a fallire, ma l’idea di voler industrializzare territori che fino ad allora vivevano d’altro. E i nuclei industriali abbandonati dopo pochi anni ne sono la conferma. A distanza di 39 anni la nostra Protezione civile è un modello apprezzato e copiato in tutto il mondo. Nell’emergenza siamo imbattibili, ma nella prevenzione continuiamo a essere una frana: purtroppo letteralmente. Dal Piemonte al Veneto, dalla Liguria alle Marche, al Lazio e giù fino alla Campania, alla Calabria e alla Sicilia. Non si salva nessuno, ma purtroppo queste tragedie sembrano non insegnare nulla. Dopo l’allarme della Protezione civile e la mobilitazione si spera che non accada nulla o che almeno non ci siano vittime. Poi parte il circo mediatico con il solito il cliché. Inviati che tra il fango e sotto la pioggia fanno il bilancio, intervistano sindaci che scaricano le responsabilità su chi li ha preceduti, anche se spesso amministrano da decenni, e cittadini disperati, ma a volte anche responsabili per aver costruito le loro case dove non avrebbero dovuto. Puntualmente spuntano geologi, urbanisti, ingegneri e architetti che analizzano le cause delle tragedie, evidenziando le criticità del nostro Paese e ripetono ossessivamente: c’è necessità di fare prevenzione. Ma passato il maltempo, fatta la conta dei danni gli esperti ritornano nel dimenticatoio e i politici, invece di programmare un piano nazionale di prevenzione, che costerebbe sicuramente meno in vite umane e risorse economiche, si affrettano ad annunciare: “chiederemo lo stato di emergenza”. Purtroppo quel 23 novembre 1980 e tutte le tragedie che si sono succedute in questi ultimi decenni hanno insegnato poco. È stato trasformato in una triste ricorrenza per alcuni e come esempio di spreco di fondi pubblici per altri. Avrebbe dovuto far capire a tutti che i danni provocati da alcuni fenomeni naturali possono essere prevenuti o ridotti grazie a una politica di prevenzione. Invece si attende, ci si affida alla buona sorte, si incrociano le dita e si spera che non succeda nulla. Altrimenti parte l’emergenza e in quella, almeno, siamo bravi.

"È il Paese delle frane". Giulia Belardelli su huffingtonpost.it24 24/11/2019. “Viviamo in un quadro di rischio totale. Siamo i più fragili e i più esposti d’Europa, paghiamo il prezzo di uno sviluppo urbanistico scellerato. La politica si svegli”. Intervista a Erasmo D’Angelis, ex coordinatore di Italia Sicura. “Viviamo in un quadro di rischio totale. Siamo il Paese con più frane e più piogge in Ue. Siamo i più fragili e i più esposti d’Europa, anche per colpa di uno sviluppo urbanistico scellerato che ha innescato nel territorio migliaia di trappole. E la politica che fa? Parla di sicurezza solo agitando la fantasmagorica minaccia dei migranti. La mappatura della pericolosità da frane o alluvioni è drammatica. Liguria e Calabria sono le Regioni più fragili, ma Roma è la Capitale del rischio idrogeologico”. Erasmo D’Angelis era coordinatore di Italia Sicura, la struttura di missione voluta nel 2014 dal governo Renzi e spazzata via all’inizio dell’Era Conte. Oggi è a capo dell’Autorità di Bacino dell’Italia centrale, da dove monitora con preoccupazione le condizioni di un territorio che ci sta letteralmente franando sotto i piedi.

Da nord a sud straripano i fiumi, a Savona è crollato un pezzo di viadotto, una donna è morta nell’Alessandrino travolta dal fiume Bormida. Cosa ci rende così fragili, così esposti?

“Abbiamo un territorio molto particolare: la penisola italiana è per 2/3 colline e montagne circondate dal mare, con 7.646 corsi d’acqua. Abbiamo il record europeo di corsi d’acqua e il record europeo di piogge. Sono aspetti che tendiamo a dimenticare o a rimuovere, ma sull’Italia cadono 302 miliardi di metri cubi di piogge ogni anno. In Europa un dato così non ce l’hanno neanche l’Inghilterra o la Germania. Ovviamente ci sono alcune aree che sono più a rischio: la Liguria e la Calabria sono le Regioni più a rischio d’Italia”.

Qual è la gravità del rischio idrogeologico in Italia? Perché ci ritroviamo nei guai molto più dei nostri vicini europei?

“Geologicamente la nostra penisola è l’ultima nata in Europa, si è formata 5-600 milioni di anni fa come ultimo territorio europeo. Questo vuol dire che ci sono terreni argillosi, sabbiosi, poco rocciosi e con le piogge c’è un dilavamento verso valle che è impressionante. Non a caso, sulle 750mila frane censite in tutto il continente europeo, 620.808 sono in Italia: praticamente quasi tutte, con 2.436 frane monitorate h24 dalla Protezione civile. Noi siamo questo Paese qui. Prendiamo atto che circa l’8-9% del territorio urbanizzato italiano è interessato da aree in frana, con quasi 7mila Comuni che hanno delle località nei confini che sono interessate alle frane. L’altro aspetto sono le alluvioni: abbiamo circa 10 milioni di italiani condizionati da aree che possono allagarsi. Questo è il quadro del rischio. Un quadro di rischio totale”.

Quali sono le colpe di uno sviluppo urbanistico sconsiderato?

“Siamo forse l’unico Paese al mondo che negli ultimi 50-60 anni ha avuto uno sviluppo urbanistico impressionante. Fino al 1950, il costruito occupava il 2,3% del territorio. Nel giro di qualche decennio – un flash per la nostra storia di 2mila anni - quel 2,3% è diventato il 7,5%: si è moltiplicato per tre. Le città devono espandersi, e va bene. Ma non su aree franose e alluvionali; non su ex paludi, montagne e colline; non dentro i fiumi. Sono tutte aree in cui abbiamo innescato migliaia di trappole. I tre condoni hanno sanato e graziato tanta edilizia abusiva costruita proprio dentro le golene dei fiumi. Pensiamo a Roma: Ostia e Fiumicino hanno il 75% delle loro costruzioni addirittura sulla foce del Tevere, sono situazioni molto pericolose”.

Come si comporta la politica di fronte a questo “quadro di rischio totale”, come lo definisce lei?

“Mi sorprende e mi fa rabbia il fatto che tutto il dibattito sulla sicurezza degli italiani sia incentrato sul fantomatico pericolo dei migranti o sulla sicurezza nelle strade, quando invece la principale fonte di insicurezza per gli italiani dipende proprio dalla mancanza di interventi sul territorio. Il diritto alla protezione deve essere portato nella serie A della politica, cosa che attualmente non avviene. Oggi vedo solo grandi emozioni e grandi rimozioni. In queste ore siamo tutti molto preoccupati da quello che vediamo, l’ennesimo viadotto crollato, eccetera. Ma in genere passano due-tre giorni e ce lo dimentichiamo. La mappatura della pericolosità da frane o alluvioni è drammatica”.

Quali erano i pregi di Italia Sicura e del Dipartimento Casa Italia? E quali sono le responsabilità del governo Conte I nell’averli smantellati?

“Con l’operazione Italia Sicura del governo Renzi e poi con il Dipartimento Casa Italia - votato dal Parlamento ben due volte, prima con il governo Renzi e poi con Gentiloni - c’era l’idea di strutturare un Dipartimento a Palazzo Chigi che lavorasse con i tempi lunghi, senza una scadenza, al di là delle beghe della politica, al di là dei governi. Una struttura che si facesse carico di questi problemi, h24, tutti i giorni dell’anno. Il governo Conte I è tornato alle caselle di partenza, ossia ai ministeri. Eliminare Italia Sicura è stato il più grande errore del governo giallo-verde. Era una struttura tecnica. A parte il coordinatore e il direttore, tutto il resto era personale dei ministeri. Costava quasi nulla e ha prodotto risultati concreti. È grazie a Italia Sicura se oggi abbiamo un piano di opere da realizzare che prima non c’era: sono 1.026 opere e interventi che sono state consegnate a tutte le Regioni dalla Protezione civile e dalle Autorità di bacino. Hanno un costo presunto complessivo di quasi 31 miliardi di euro. Un lavoro di una quindicina di anni che è alla portata dell’Italia”.

Ma come la mettiamo con le risorse?

“L’unica cosa che non ci manca sono i soldi, sia per quanto riguarda il dissesto che la sismica. Partiamo dal dissesto: in questo momento nelle casse dello Stato (tra ministeri, Protezione civile, Agenzia di coesione e Regioni) ci sono quasi 12 miliardi di fondi pronti per essere spesi. I fondi ci sono. Mancano le progettazioni di opere, perché se non ci sono opere progettate non si possono aprire i cantieri. Da una ventina d’anni lo Stato non progetta più: prima c’era un incentivo per i progettisti e i tecnici delle Regioni e dei Comuni, progettavano un’opera e avevano un incentivo sullo stipendio. Sparito quello, lo Stato ha smesso di progettare e non si è aperto un mercato delle progettazioni. I soldi invece sono un alibi”.

Anche sulla sismica?

“Tutte le indagini ci dicono che servono 100 miliardi di euro per mettere in sicurezza tutta l’edilizia pubblica e privata italiana. Su 12 milioni di edifici italiani, ne abbiamo circa 4 milioni che non sono antisismici. Di fronte a questa cifra dei 100 miliardi, ci si ferma e si dice: e dove li prendiamo? Però fermiamoci a guardare quanto lo Stato sta spendendo per gli ultimi tre terremoti degli ultimi dieci anni… l’Aquila è costata 17,5 miliardi, l’Emilia quasi 12 miliardi, il Centro Italia 23,5 miliardi. Se si mettono insieme questi numeri, siamo a più di metà di quella cifra lì. Noi spendiamo per riparare, invece dobbiamo spendere per prevenire. Questo è il passaggio che dovremmo fare. Prevenzione seria, strutturata, ogni giorno dell’anno”.

Quanto incidono i cambiamenti climatici sul rischio permanente a cui siamo esposti?

“I cambiamenti climatici c’entrano tanto. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono già oggi molto visibili. Lo vediamo dall’aumento di piogge a carattere esplosivo. Le hanno chiamate bombe d’acqua, e sono in effetti esplosioni in aree sempre più ristrette e in pochissimo tempo. L’altra faccia della medaglia è la siccità: passate queste settimane molto piovose, probabilmente incontreremo mesi di siccità. Lungo le nostre coste abbiamo problemi molto seri con le infiltrazioni del mare nelle falde costiere, quindi si annaffia ma è acqua salata. C’è il tema dell’inaridimento di tanti territori, l’aumento del livello del mare nei confronti del quale bisognerà difendersi…”

Torniamo alla Liguria. Genova sta riuscendo a proteggersi, a imparare dalla sua storia?

“Oggi a Genova sono aperti 8 cantieri dentro la città per mezzo miliardo di euro. Sono aperti perché c’erano i progetti pronti, perché Comune, Regione e Stato stanno collaborando e stanno allargando le sezioni dei fiumi. Perché oltre ad occupare terreno, noi italiano abbiamo fatto un altro errore drammatico, che è stato quello di tombare moltissimi fiumi sotto le città. In Italia ci sono 20mila km di fiumi tombati, Genova ne ha 52 km. A Genova si sta facendo un lavoro molto importante di allargamento delle sezioni sotterranee che trasportano questi fiumi. Genova è la città che in questo momento ha in corso i più importanti lavori di contrasto alle alluvioni, mezzo miliardo non esiste in nessun’altra città europea. È un esempio da seguire, come anche i lavori sull’Arno. Sono lavori iniziati nel 2015 e che si concluderanno nel 2023. Nel 2023 Genova sarà senz’altro più sicura”.

Sono lavori lunghi, costosi e spesso invisibili, ma che possono salvare centinaia di vite e intere comunità...

“Domenica scorsa Pisa è stata salvata da un’alluvione catastrofica perché 5 milioni di metri cubi di acqua di piena dell’Arno alle porte di Pisa sono stati deviati in una cassa d’espansione e poi in uno scolmatore che li ha portati al mare senza farli passare dalla città. È stata la prima volta. Tanta acqua non è arrivata in città ma si è fermata a monte della città. Questo intervento dimostra quanto siano importanti queste opere”.

Lei oggi è a capo dell’Autorità di Bacino Distrettuale dell’Appennino Centrale. Quali sono i rischi che per questa parte d’Italia? E per Roma Capitale?

“Noi ora metteremo a gara le opere per Roma, perché anche Roma ha dei problemi abbastanza seri per quanto riguarda possibili piene del Tevere. Metteremo a gara un sistema di invasi a monte dell’Orvietano che possa salvare sia la piana di Orvieto fino a Orte che Roma Capitale. Roma è la capitale del rischio idrogeologico. Non esiste in Europa una città che abbia 250mila abitanti a rischio di alluvione e in parte anche di frane, essendo Roma un sistema di colli. Stiamo correndo contro il tempo per bloccare a monte della Capitale e dell’Orvietano – sul fiume Paglia e quegli affluenti che mandano acqua al Tevere – 40-50 milioni di metri cubi di acqua di piena”.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 25 novembre 2019. La colata di fango e alberi ha inciso nel costone l'immagine di un cobra che apre le sue fauci verso la Madonna del Monte. La cascata di fango è scesa avvolgendo le sue spire intorno al bosco. Trecento, forse 400 metri di un unico fronte. Hanno travolto le pile centrali del piccolo viadotto dell'autostrada Torino-Savona, il primo che si incontra lasciandosi il mare alle spalle. Il torrente di terra ne ha spazzato via trenta metri. L'asfalto è ancora intatto, in un unico blocco con le due carreggiate che correvano verso il Piemonte. È quindici metri più sotto, poggiato al costone di bosco, come se l'impeto della frana avesse adagiato quelle migliaia di tonnellate di calcestruzzo a una riva dal fiume di fango. Dall'alto i due guardrail ancora intatti sono incurvati nel vuoto dal loro peso. Non ci sono auto, almeno non se ne vedono. E anche se di notte i vigili del fuoco ancora scavano, si può sperare che non ci siano vittime nel bilancio finale dell'ennesima tragedia che colpisce la terra fragile di Liguria in una ordinaria domenica da allarme rosso dopo sette giorni di pioggia senza pause. Una tragedia che riporta negli occhi il Ponte Morandi, le sue 43 vittime e l'identico vuoto lasciato dai piloni crollati.

Le voci. Daniele Cassol, vigilante di 56 anni, era in autostrada e il ponte se l'è visto cadere davanti. Erano le 14 passate da qualche minuto, pioveva. «Ero in fase di sorpasso, ho visto una persona che sbracciava. Mi sono voltato e ho visto tutto nero. Il viadotto non c'era più, mi sono fermato sul baratro». Alle sue spalle c'era un pullman carico di viaggiatori, anche lui fermato dallo sbracciare degli automobilisti. Tra questi c'era Franco Spano di Albisola che doveva raggiungere Cadibona per andare dal figlio, ma un altro smottamento qualche ora prima ne aveva bloccato la strada. Lui allora ha imboccato la A6, unica via per salire verso monte, e s'è trovato tra i primi testimoni del crollo. In un video, girato prima che i soccorsi arrivassero, si sporge insieme a un altro uomo fino all'orlo del precipizio d'asfalto cercando di scorgere auto o feriti. Ma si vede solo un cartello stradale rimasto conficcato nel fango. Qualche ora dopo lo racconta in diretta a Primocanale. «Per fortuna non c'era nessuno. L'autista di un camion s'è accorto che qualcosa stava succedendo, ma è riuscito a passare. Poi tutto è venuto giù».

Il tuono. Dall'alto, dalla frazione della Madonna del Monte — una chiesa, un ristorante e poche case — hanno sentito come un tuono, poi è venuto già un pezzo di montagna. Il viadotto della «Madonna del Monte» è lungo una cinquantina di metri e dista meno di un chilometro dal casello di Savona. In quel tratto i due sensi di marcia si dividono. Verso la costa della montagna la carreggiata Nord, cinquanta metri più esterna quella diretta verso il mare. É rimasta intatta, come se nello spazio tra i due viadotti la frana di fango avesse perso il suo vigore. Il crollo ha interessato la pila centrale, ha spazzato via i quattro pilastri di cemento armato che sorreggevano l'impalcato. Nel punto dello sbalzo l'asfalto sembra quasi tranciato di netto. Mentre due metri prima una vasta crepa longitudinale fa temere che lo smottamento possa ripartire. I vigli del fuoco hanno ispezionato per ore la cresta del fiume di fango e i boschi in cerca di possibili vittime. I cani da ricerca, gli stessi impiegati nel dramma del Morandi un anno e mezzo fa, non hanno fiutato tracce. Si lavora anche nella speranza di riaprire la A10 nelle prossime ore, almeno su una sola corsia per senso di marcia. I tecnici di Autostrada dei fiori spa, società del gruppo Gavio, stanno verificando la tenuta dei piloni del secondo viadotto. L'autostrada è vitale perché le provinciali nei dintorni sono quasi tutte chiuse o a corsie ridotte per frane e smottamenti.

La manutenzione. Il crollo è stato provocato dal fiume di fango in caduta, ma le indagini affidate ai vigili del fuoco di Savona, guidati dal comandante Emanuele Gissi, e alla polizia stradale, dovranno verificare anche lo stato di manutenzione del viadotto. Due anni fa il consigliere regionale dei 5 Stelle Andrea Melis aveva presentato un'interrogazione sullo stato dei ponti della Savona-Torino. In particolare del viadotto Bormida, poco più avanti, dopo che erano rimbalzate via social le foto dei piloni corrosi dalla ruggine. Autostrada dei fiori aveva replicato garantendo la massima sicurezza: «Dal 2013 sono stati investiti sulla tratta 280 milioni e posizionati sensori di movimento sui viadotti. Non sono mai stati segnalati pericoli». 

L’Italia delle 620 mila frane. A rischio il 16,6% del nostro territorio. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Salvia. Coinvolta una superficie grande come tutta la Lombardia. 1.900 i chilometri di ferrovia in zone a rischio. Si chiama Iffi, è l’Inventario dei fenomeni franosi in Italia. Dice che nel nostro Paese di frane ce ne sono 620.808. E che interessano 23.700 chilometri quadrati, il 7,9% del territorio. Come tutta la Lombardia. Anzi, come se stessero venendo giù tutti insieme 3 milioni e 300 mila campi di calcio. Una catastrofe quotidiana che spesso non fa nemmeno notizia. L’ultimo rapporto dell’Ispra, l’Istituto per la protezione dell’ambiente che gestisce questa banca dati, sottolinea come un terzo delle frane sia a «cinematismo rapido». Scende giù rapidamente, cioè, «con gravi conseguenze in termini di vite umane». Ma questa è solo la fotografia di quello che è già successo. Più interessante, e preoccupante, è la previsione di quello che potrebbe accadere. Specie se incrociata con la mappa delle infrastrutture che attraversano il nostro Paese, con strade, ponti, ferrovie, viadotti. Il 91,1% dei Comuni italiani ha almeno un’area a rischio per frana o alluvione. Rientrano in questa categoria tutti i comuni della Liguria, dove domenica la frana ha fatto venire giù quel pezzo del viadotto. Una Regione che, per aggiungere carico al carico, ha il maggior numero di chilometri di autostrada rispetto alla superficie: 69,2 ogni mille chilometri quadrati, quasi il triplo della Lombardia. Nella provincia di Milano i Comuni da considerare a rischio sono il 63,4%. Ma secondo gli esperti dell’Ispra la tabella da guardare è un’altra, più raffinata. Mette insieme due rischi che spesso vanno in parallelo, come dimostra il crollo dell’altro giorno. Non solo il pericolo frana, nelle categorie elevato o molto elevato. Ma anche la pericolosità idraulica, cioè da alluvione, nella categoria media. Viene fuori che il 16,6% del territorio italiano rientra in questo elenco poco rassicurante. Non sorprende che il valore massimo (83,2%) sia in una regione tutta montuosa, come la Valle d’Aosta. Colpisce che subito dopo, con il 60,1%, venga un territorio in larga parte pianeggiante, ma attraversato da tanti fiumi, come l’Emilia Romagna. La Lombardia è in una posizione media, con il 16%, quasi il doppio del Lazio. In fondo c’è invece la Sicilia, con il 2,9%. Eppure è proprio in questa regione che si trova buona parte dei 25 viadotti dell’Anas chiusi in questo momento per interventi strutturali di recupero. Gli altri sono in Campania e Veneto, oltre che nelle Marche e in Umbria, per effetto del terremoto. Ma cosa viene fuori se si sovrappone questa mappa del rischio alla cartina delle infrastrutture italiane? Ci sono 1.900 chilometri di rete ferroviaria, non solo ponti ma anche linea normale, che attraversano zone a rischio idrogeologico. Sono l’11,3% del totale e per metterli in sicurezza le Ferrovie dello Stato hanno speso negli ultimi cinque anni 650 milioni di euro. C’è poi un’altra classifica da guardare con attenzione: quella dei ponti gestiti dalle Province, che hanno meno soldi di prima ma continuano a doversene occupare. Si tratta di strutture che hanno bisogno di interventi urgenti, anche (ma non solo) per il rischio frane. In tutto sono 5.931, e al primo posto c’è la Lombardia con 877. Il dissesto, però, non è fatto solo di numeri. Una frana che coinvolge una strada diventa sempre una formidabile occasione di rimpallo delle responsabilità. Pagare i danni e fare i lavori tocca a chi gestisce la strada o chi è proprietario del terreno, che in caso di frana è spesso un altro, a monte? Il confine è labile e la questione finisce spesso nelle mani degli avvocati. Come nel caso dello statale di Alemagna, che ha visto scontrarsi a lungo Anas e comune di Vittoria Veneto. Probabile che vada così anche stavolta. Tanto non c’è problema: dal dopoguerra ad oggi per riparare i danni della frane abbiamo speso più di 60 miliardi di euro. Non proprio spiccioli.

"Schiavi della burocrazia Per completare un ponte non ci bastano 15 anni". Il presidente dell'Ance, Gabriele Buaia: un labirinto di norme e pareri. Per uscirne accorciamo la filiera. Stefano Zurlo, Martedì 26/11/2019, su Il Giornale.

Troppe norme. Troppi pareri. Troppe voci. Troppo tempo.

«Troppo di tutto - sbotta Gabriele Buia, presidente dell'Ance, l'Associazione nazionale costruttori edili - attraversiamo una perenne emergenza, il dissesto idrogeologico avanza come una lebbra ma noi siamo sempre alle prese con la nostra devastante burocrazia, con le procedure bizantine, con i soldi che alla fine restano in qualche cassetto».

Domenica è caduto un viadotto sulla Torino-Savona. È solo l'ultima di una serie infinita di sciagure. Come ne usciamo?

«Purtroppo, che si tratti di riparare una galleria o di costruire una nuova strada, le cose non cambiano. Si entra in un labirinto».

Un labirinto?

«Sì. Io per un singolo intervento ho conteggiato tredici pareri. E parliamo di una strada a rischio. Siamo dentro un colossale gioco dell'oca: il governo stanzia i soldi, poi li gira al ministero che magari li passa alle regioni. E intanto si alzano voci, innumerevoli e dissonanti. La Regione contro il Comune e contro il Governo. E poi la legge A che dice il contrario della norma B. Un manicomio».

Ma la manutenzione?

«È lo stesso pantano. Che si debba realizzare la ferrovia veloce Napoli-Bari o sistemare un pezzo di rete, la sostanza non cambia».

Cosa serve?

«Dobbiamo far ripartire l'Italia».

Mi scusi, Presidente: lo ripetono tutti.

«Anche noi e da anni. Il problema è che non ci ascoltano. Anzi»...

Anzi?

«Quando mettono mano, i politici aggiungono un'altra legge che complica ancora di più il cammino già lentissimo».

Ma allora?

«Ci sono miliardi su miliardi stanziati che non si riesce a spendere».

Ma come è possibile?

«Gliel'ho detto. È un iter contorto e farraginoso, con mille stazioni, mille problemi e mille campane che suonano. Neppure i morti bastano per sciogliere questi nodi intricati. A Sarno, dove ventuno anni fa ci furono 160 vittime, ci sono interventi finanziati da anni che restano sulla carta. Come gran parte delle opere annunciate da questo o quel governo. Il tempo se ne va in un corpo a corpo senza fine. Corpo a corpo a corpo con il groviglio legislativo, con i bandi, con la ripartizione dei fondi, con i funzionari che non firmano gli atti per la paura di commettere un abuso d'ufficio o di essere richiamati dalla Corte dei conti».

Ci sarà pure una soluzione.

«Si deve accorciare la filiera, ridurre le caselle e gli attori. Non è possibile che l'Anas solo per farsi approvare un progetto attende in media cinque anni. E che la Presidenza del consiglio ci offra un dato sconcertante: per completare nuove infrastrutture sopra i cento milioni di spesa servono almeno quindici anni».

Buia sorride ironico e allarga le braccia: «Io non sono il Presidente dell'Ance ma dell' associazione Reduci e combattenti».

Siamo senza speranza, mentre il Paese si sbriciola giorno per giorno?

«A volte i commissari, che hanno poteri in qualche modo speciali, riescono ad abbreviare le liturgie dello Stato. Ma non possiamo vivere di emergenze».

E allora?

«Dobbiamo riprendere il modello spagnolo. In Spagna fra il 2010 e il 2012 hanno speso 13 miliardi di euro. Cifre per noi inimmaginabili».

Il segreto?

«Fissare una linea invalicabile, una data sul calendario, e poi partire. Abbiamo sperimentato qualcosa di simile con i piccoli interventi per i Comuni in difficoltà».

E come è andata?

«Benissimo. Sono stati stanziati 400 milioni ma questa volta quasi tutti i cantieri, si sono messi in movimento. Un miracolo nell'Italia di oggi».

Gallerie killer, cedimenti, appalti e poltronifici: così le nostre strade sono diventate un incubo. Il ponte Morandi è solo l'ultimo di una lunga serie di tragedie e inefficienze. E la legge del 2001 sulle responsabilità delle aziende protegge i top manager, che "possono non sapere". Gianfranco Turano il 28 agosto 2018 su L'Espresso. C’è una presunzione di colpevolezza in ogni grande infrastruttura. In Italia ogni strada, ogni ponte, ogni binario sono sospettati di esistere non perché necessari ma come pretesto per creste, tangenti, ruberie. È triste, quando va bene e si finisce in coda. Sa di presa in giro quando si osserva increduli il minischermo del casello che indica l’ennesimo aumento di pedaggio poco prima che la sbarra si alzi e una voce registrata ti dica arrivederci con allegria. È tragico quando la campata del viadotto Morandi a Genova si sbriciola sotto le ruote dei veicoli di passaggio, martedì 14 agosto. Il bilancio delle vittime è da strage terroristica. Il costo politico non è meno pesante. A ragione o a torto, lo paga per intero il centrosinistra, accusato dalla folla ai funerali del 18 agosto e dai social network di comparaggio con il concessionario Autostrade per l’Italia (Aspi). Le scuse tardive dei Benetton hanno messo benzina nel serbatoio di un governo spaccato sulle infrastrutture. È parso che sia stata la linea dura del premier Giuseppe Conte a piegare l’arroganza e il gelo tecnicistico del management di Aspi, guidato da Giovanni Castellucci e Fabio Cerchiai. Conte è un avvocato. Per mestiere sa che un contenzioso sulla revoca della concessione può durare più del suo governo ma ha giocato bene la sua carta. Ha fatto dimenticare che il suo alleato, la Lega, ha governato in sede locale e nazionale alcuni fra i peggiori disastri strutturali e che tutti hanno partecipato a costruire la distruzione, incluso lo stesso premier, consulente ben retribuito delle concessionarie.

La strana alleanza. Questa estate chi ha percorso la Salerno-Reggio Calabria, gestita dall’Anas e dunque dallo Stato, si sarà goduto il solito spettacolo di una mezza dozzina di gallerie che traforano il nulla, con un po’ di terra sparsa in cima a scopo ornamentale. Nella zona fra Mileto e Rosarno gli automobilisti avranno visto che il limite di velocità scende a 80 km/h senza ragione apparente. Una serie di cartelli gialli, lunghi otto righe e non proprio di facile lettura anche rispettando gli 80, spiegano che quel tratto è sotto sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per l’inchiesta sulla ditta Cavalleri, avviata oltre due anni fa. È possibile che abbiano rubato, quindi bisogna andare piano. Nella stessa zona c’è la “galleria killer” Fremisi-San Rocco, un tunnel nuovo di zecca che ha provocato cinque morti in pochi mesi nel 2016 con relativa inchiesta e dodici indagati. Come si spiega la galleria killer a un turista tedesco? Lui viene da un paese dove le autostrade non si pagano e si comportano con ottusità germanica, ossia da autostrade e non da oggetti di cristalleria. Come si spiega a uno straniero in una domenica di controesodo infernale, che per salire dalla Riviera adriatica bisogna aggirare la voragine di Bologna e che lo stesso accade a Genova, dove ci sono anche i traghetti in arrivo da Corsica e Sardegna? Le grandi opere sono un mondo complicato, pieno di codici e norme in continuo cambiamento, dove ballano cifre a otto o a nove zeri. È un sistema dove è difficile fare cronaca, tra querele sistematiche e budget pubblicitari usati a mo’ di silenziatore. Così il dibattito pubblico si è polarizzato sugli slogan. Di qua c’è il no a tutto, alla Gronda di Genova, al passante di mezzo di Bologna, alla Tirrenica, alla Torino-Lione, al passante ferroviario di Firenze, e via elencando. È la posizione del M5S prima del 4 marzo. Dall’altra parte c’è la Lega e il suo sì a tutto perché l’Italia si sviluppa soltanto con più cemento, più strade ferrate, più acciaio. L’escamotage del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cioè il calcolo costi-benefici sui progetti in cantiere, serve soltanto per guadagnare tempo e rinviare la resa dei conti nell’esecutivo. Ma il calcolo costi-benefici sulle grandi opere è sempre in perdita. Le principali infrastrutture, dal canale di Suez a Panama all’Eurotunnel, sono costate cifre terrificanti, hanno rovinato i privati che ci hanno investito e hanno sommerso di debiti gli Stati. L’unico calcolo sensato sarebbe: serve o non serve? Ma per questo ci vuole una linea strategica a lungo termine, non un’alluvione di tweet e comparsate tv per vincere le prossime regionali in Abruzzo. La fretta dei politici nel monetizzare i disastri corre in parallelo con la cecità aziendale dell’obiettivo immediato, a scadenza trimestrale, finalizzato al bonus variabile di fine anno. Se lo Stato è il primo colpevole, è difficile trovare innocenti. Dice un progettista con trent’anni di esperienza e qualche no di troppo che non ha certo giovato alla sua carriera: «È un caso da manuale di eterogenesi dei fini. L’antagonismo sistematico degli ambientalisti è stato il migliore alleato di chi non voleva investire».

Rischio erosione. Soltanto in Sicilia, trenta viadotti sono a rischio inclusi i due realizzati da Morandi sulla Agrigento-Porto Empedocle e il Corleone, quello che sembra più problematico. A Catanzaro c’è un altro Morandi, il ponte Bisantis non lontano dagli svincoli nuovi creati nella zona dell’università di Germaneto che hanno già mostrato segni di cedimento. Più a nord c’è il ponte sulla statale 107 che oscilla e si flette in modo pauroso al passaggio dei veicoli: la Procura di Cosenza ha appena aperto un’indagine. L’Anas ha assicurato che è tutto a posto. Ma è la stessa cosa che ha detto l’ingegnere Giovanni Castellucci, ad di Atlantia-Autostrade. Lo ha detto dopo, non prima che crollasse il viadotto sull’A10 («Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso»). A Benevento un’altra opera di Morandi è stata chiusa dal sindaco Clemente Mastella. In Abruzzo c’è il ponte di Lanciano, sulla Torino-Savona c’è il viadotto Lodo con i tondini in bella mostra grazie all’erosione del cemento. È un elenco infinito e da dopo Ferragosto centinaia di Comuni italiani con strutture a rischio, reale o presunto, stanno tempestando di telefonate l’Anas che ha dovuto creare una struttura ad hoc. La tragedia di Genova segna la fine della fiducia nei controllori e l’inizio della speranza in un fato benevolo ogni volta che si sale in macchina. Sul fronte delle sanzioni non va molto meglio. Per il crollo del viadotto di Fossano dell’aprile 2017 ci sono dodici indagati. Ci è voluto più di un anno per una perizia tecnica che non ha portato a conclusioni definitive sulle responsabilità. Per il crollo del viadotto sull’A14 ad Ancona il 9 marzo 2017 (due morti) l’inchiesta è in corso con sei indagati dipendenti di Aspi. Anche per il crollo del viadotto di Annone Brianza sulla statale 36 il 28 ottobre 2016 (un morto) sono in corso le indagini. Per il crollo del viadotto Scorciavacche, inaugurato senza collaudo dal top management dell’Anas il 23 dicembre 2014 e collassato una settimana dopo, il gip di Termini Imerese sta valutando le richieste di rinvio a giudizio della Procura. Per la strage sul viadotto dell’Acqualonga ad Avellino, dove un pullman sfondò le barriere dell’A16 (40 morti) il 28 luglio 2013, è in corso il processo che vede fra gli imputati anche Castellucci. Per il cedimento del ponte di Carasco (Genova) sul torrente Sturla il 21 ottobre 2013 (due morti) ci sono state quattro assoluzioni. Il crollo non era prevedibile. Per il crollo sulla provinciale Oliena-Dorgali in Sardegna del 18 novembre 2013, che provocò la morte di un poliziotto di scorta a un’ambulanza, la Procura ha chiuso le indagini ad aprile di quest’anno con tre richieste di rinvio a giudizio. La legge 231 del 2001 sulla responsabilità penale delle aziende ha prodotto una quantità di organi di vigilanza che sono diventati un poltronificio ben pagato per i soliti noti, grandi avvocati, ex magistrati amministrativi o contabili. Sul piano pratico, la 231 ha spesso allontanato la responsabilità dal top management, che ha il diritto di non sapere, per scaricarla sui livelli medi o bassi, nella più classica struttura di governance fantozziana. Del resto, il responsabile per Autostrade della manutenzione sull’A10 è un geometra, come risulta dai documenti interni di Aspi. Si chiama Mauro Moretti ed è solo omonimo dell’ingegnere Moretti. Il numero uno di Fs, e poi di Finmeccanica, è stato condannato in primo grado a sette anni per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 (32 morti). L’appello inizierà il prossimo novembre. Forse per la presunzione di innocenza il Moretti delle Fs è ancora presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato e ha la carta per viaggiare gratis sui treni. A oggi la sentenza più dura è toccata a Sandro Gualano per il disastro di Linate dell’8 ottobre 2001 (118 morti). L’ex ad di Enav è stato condannato in via definitiva a sei anni e sei mesi.

Controlli? No, grazie. Sugli aspetti giuridici della revoca della concessione è intervenuto l’ex magistrato ed ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Il fondatore dell’Idv ha commentato che la costituzione di parte civile contro Atlantia da parte del ministro attuale è infondata perché proprio il Mit dovrebbe controllare le concessionarie. Toninelli, dottore in giurisprudenza, dovrebbe sapere che a un tribunale non interessano i cambi di maggioranza. I giudici valutano gli atti del governo in continuità e chi non ha controllato o ha controllato male è responsabile per un principio giuridico (culpa in vigilando) vecchio quanto il diritto romano. È anche giusto ricordare che, da ministro delle Infrastrutture (2006-2008), Di Pietro diede il via alla convenzione Anas-Autostrade che conteneva l’adeguamento automatico delle tariffe (70 per cento sull’inflazione reale). Inserita nel decreto Milleproroghe, ultimo atto del governo Prodi bis, la convenzione fu esclusa in extremis e approvata il 18 giugno 2008 dal nuovo Senato a maggioranza Pdl. È un meccanismo con benedizione bipartisan che nessuno è più riuscito a smontare, come pure ha tentato di fare Graziano Delrio, fallendo per i ricorsi ai tribunali dei concessionari. Benetton, Gavio e gli altri imprenditori che gestiscono le strade a pagamento hanno sempre pubblicizzato i loro investimenti a nove zeri. In che misura siano stati fatti è difficile dire. Fino a sei anni fa questi investimenti li controllava l’Anas. Poi, sotto la gestione di Pietro Ciucci, l’ex ente concedente ha voluto farsi concessionario nel tentativo di uscire dal perimetro della pubblica amministrazione. Destinata alla regionalizzazione dalle prime ipotesi federaliste di vent’anni fa, l’Anas si è messa in società con le regioni, attraverso una serie di jont-venture dalla Lombardia al Veneto, dal Molise al Lazio, dall’Umbria alle Marche, che avevano come principale utilità il parcheggio a peso d’oro di pensionati dell’Anas stessa e di usati sicuri della politica locale. Intanto l’Ivca, l’ispettorato vigilanza concessioni autostradali dell’Anas, è passata armi, bagagli e personale al Mit nell’autunno del 2012 cambiando nome in Svca (struttura di vigilanza sulle concessioni autostradali) e mantenendo alla guida Mauro Coletta. I controlli, che già non erano feroci, sono stati ulteriormente ammansiti all’interno di una squadra demotivata dal taglio di stipendio. Nell’agosto 2017 alla Svca è stato nominato il dottore in scienze politiche Vincenzo Cinelli, ex dg per il settore dighe e infrastrutture elettriche, mentre Coletta ha assunto la direzione di controllo sui porti del Mit. È uno degli esempi di quel nocciolo duro di alti dirigenti ministeriali che, di norma, finiscono per contare più dei ministri stessi, qualunque sia il loro orientamento politico.

Controesodo Anas. Il tutti contro tutti fa emergere vecchi rancori fra la parte pubblica, dove gli stipendi sono più bassi, e la parte privata. Un dirigente dell’Anas racconta così il suo esodo estivo sull’A16, la Napoli-Bari gestita da Autostrade. «Il 3 agosto nel beneventano inizia a grandinare. Non si vedeva nulla e non ci si poteva fermare perché non c’è corsia di emergenza. Siamo finiti incolonnati dietro un mezzo di Autostrade che segnalava lavori in corso. Lì sono tutti viadotti con una piazzola di emergenza ogni tanto. Le nostre statali, anche quelle più problematiche come la 106 hanno la corsia di emergenza. D’inverno, alla prima nevicata, i concessionari chiudono l’autostrada e scaricano tutto il traffico sulla nostra rete». Nei giorni di fuoco del viadotto Morandi è tornata più volte l’eventualità di affidare le autostrade di Aspi all’Anas, in caso di revoca della concessione o addirittura di nazionalizzazione. Anche questa sarebbe un’inversione di marcia a 180 gradi e presume un accordo politico fra le forze di governo. Il primo passo operativo è relativamente semplice: annullare l’incorporazione di Anas nel gruppo Fs varata alla fine del 2017 da Delrio. L’Anas grillo-leghista sarebbe più simile al vecchio ente della Prima Repubblica senza averne le forze, dopo anni di destrutturazione dovuta al cosiddetto federalismo stradale previsto dalla legge Bassanini del 2000. Un vecchio dirigente dell’Anas ricorda di quando andò a contrattare la restituzione delle strade agli enti locali. «I liguri erano i più scatenati», dice. «Volevano fino all’ultimo metro di asfalto disponibile e lo volevano subito». Il riflusso è partito già da qualche anno e, ancora una volta, la Liguria ha guidato la devoluzione dei tracciati dopo avere scoperto che sono soltanto spese e contenzioso. Il controesodo da regioni e province ha portato l’Anas vicino ai 30 mila chilometri di strade gestite.

Lega d’asfalto. Prima del 14 agosto, la Lega lo aveva detto chiaro attraverso i suoi governatori di punta. Luca Zaia e Attilio Fontana hanno comunicato: con la Torino-Lione e il gasdotto Tap fate come vi pare, ma le nostre pedemontane vanno completate a qualunque costo e i miliardi che mancano vanno trovati. In Liguria il terzo governatore di centrodestra, il forzista con appoggio della Lega Giovanni Toti, si ritrova in una posizione di forza dopo lo scempio dell’A10. Non solo ha tutte le ragioni di puntare oltre l’emergenza ma sarà complicato per i grillini bloccare anche altre grandi opere di quel quadrante, incluso il terzo valico dell’Av ferroviaria. C’è però un elemento di allarme che è sfuggito al fiume di dichiarazioni successive al 14 agosto. Le grandi opere si fanno a debito. Per finanziare i lavori non ci sono solo i soldi pubblici del Cipe ma un insieme di mutui bancari, di pegni, di obbligazioni emesse da società private (corporate) oppure da enti come nel caso Pedemontana Veneta, con la regione che paga interessi stratosferici sul capitale. Alcuni di questi bond sono quotati e tutti questi strumenti gravano sui bilanci. Imprese e concessionarie sono cariche di debiti che hanno una sostenibilità solo a fronte di margini improbabili, per chi costruisce, e di convenzioni a lunghissima durata, per chi gestisce. Con la crisi delle cooperative di costruzione, di Condotte, di Astaldi, non è esagerato dire che il vigilante di ultima istanza sul sistema grandi opere è la Banca d’Italia. Con una frase che meglio di tutte riassume la vacuità amatoriale del governo, Di Maio ha affermato: «L’Italia non è ricattabile». Come no. La precarietà finanziaria del sistema grandi opere è una bomba a orologeria nei conti già pericolanti dell’intera nazione.

Divorzio miliardario. Nel disastro, tra le foto delle famiglie distrutte e dei bambini travolti dal cemento, è crollato anche l’alibi di un certo capitalismo italiano fatto di imprese che vivono di tariffe. Suona paradossale che il gruppo Benetton, nato dal prodotto, abbia cambiato pelle fino a questo punto: tanta finanza, taglio costi, tariffe e royalties per fare utili. Atlantia ha portato il grosso dei profitti distribuiti alla famiglia (2,7 miliardi nel biennio 2016-2017 e 4,8 miliardi negli ultimi cinque anni). Come disse anni fa Alessandro Benetton a un manager del gruppo: «Ma tu lo sai quanti cugini ho?» Castellucci ha assicurato un considerevole tenore di vita alla seconda e alla terza generazione della famiglia di Ponzano Veneto ed è stato premiato con l’affidamento della pratica Leonardo da Vinci, l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino. Una delle sue frasi famose dette in riunione ai suoi manager recita: «Gli italiani non hanno mai fatto una rivoluzione». Dopo il disastro il gruppo ha promesso mezzo miliardo di euro per risarcire le vittime. Tanto o poco che sia, bisogna ricordare che nelle concessioni, secretate per motivi di concorrenza, c’è una clausola che vale molto di più. Si chiama diritto di subentro. Se lo Stato si riprende il suo, cioè l’autostrada, deve pagare un indennizzo al concessionario. L’unico caso pubblico finora è stato quello della Sat, l’autostrada tirrenica. D’accordo con l’Anas e il Mit, i Benetton avevano inserito una clausola di subentro alla scadenza (anno 2046) pari al costo previsto dell’opera (3,8 miliardi di euro). La clausola fu bocciata da una direttiva dell’Ue e cancellata dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Su altre concessioni il subentro è in vigore. Altri costi e altre cause in vista.

Matteo Indice e Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 26 novembre 2019. Altri otto viadotti gestiti da Autostrade per l' Italia in Piemonte e Liguria, oltre a quelli chiusi ieri, sono «a rischio crollo» secondo la scala di valutazione fornita dalla stessa società alla commissione ministeriale d' indagine sulla strage del Ponte Morandi, dei cui verbali «La Stampa» è in grado di rivelare il contenuto. Convocati dalla Procura di Genova, manager e tecnici del concessionario hanno sempre taciuto. Ma davanti alla commissione, due settimane dopo il disastro, non potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. La loro versione mirava a negare ogni responsabilità, personale e aziendale, nello scempio che aveva causato 43 morti. Ma riletta oggi, alla luce delle nuove valutazioni sui viadotti compiute da aziende indipendenti anziché dalla controllata Spea, racconta un' altra verità. L' uomo chiave è Michele Donferri Mitelli. Sessant' anni, uno dei vertici operativi di Autostrade dai tempi delle partecipazioni statali. Indagato a Genova per omicidio colposo plurimo e disastro, è stato licenziato un mese fa e la società non ha chiarito se a fronte di una buonuscita. Ma il 31 agosto 2018, quando si presenta davanti ai cinque esperti della commissione, è ancora «direttore maintenance investimenti esercizio». Supercapo delle manutenzioni. Un autentico generale sul campo. Così illustra nei dettagli il dispositivo di vigilanza di Autostrade sull' intera rete, dal punto di vista sia giuridico (leggi e convenzione con lo Stato) che tecnico. «Considerate - premette - che parliamo di 3mila chilometri, 1976 viadotti e 1912 cavalcavia suddivisi in 9 direzioni di tronco. Ciascuna delle quali ha alle dipendenze, non gerarchiche ma funzionali, i nuclei ispettivi di Spea. Tutte le ispezioni trimestrali vengono raccordate da un' ispezione unica a fine anno, da parte di un tecnico laureato». Alle quali si aggiungono quelle straordinarie. La commissione ha in mano le schede sul ponte Morandi, compilate nei dieci anni precedenti dai controllori di Spea, l' impresa della galassia Benetton cui era delegato lo screening delle infrastrutture. Gli chiede il significato dei punteggi attribuiti al ponte, mai superiori a 30-40. «La scheda d' ispezione non è altro che una decodifica del difetto - risponde Donferri -. Di fatto assomiglia molto alla scala Mercalli (quella dei terremoti, ndr) e va da 10 a 70. In termini di gerarchia di voti, 50 è una condizione in cui devi pianificare l' intervento in tempi ragionevoli; 60 significa compromessa la capacità statica; 60/70 crollo incipiente; 70 crollo, effettivamente. Il monitoraggio è esteso a tutte le opere della rete, indistintamente». È la graduatoria del rischio per l' incolumità pubblica snocciolata da uno dei dipendenti più esperti della principale società autostradale italiana. In quel momento nessuno dei viadotti, stando ai dati Spea/Autostrade, ha una valutazione di rischio superiore a 50. Ma un anno dopo gli inquirenti dubitano che quei dati fossero veritieri. I pm genovesi, oltre a far luce sulle omissioni che hanno preceduto il crollo del Morandi, indagano venti dirigenti e tecnici, sia di Autostrade sia di Spea, per aver falsificato i report su una trentina di viadotti, concentrati in prevalenza fra Piemonte e Liguria. L'ipotesi della Procura, basata su decine di ore d' intercettazioni, è che le schede di rischio sulle infrastrutture fossero taroccate con valutazioni inferiori per restituire un quadro più rassicurante della realtà. Ed evitare, ridurre o rinviare costosi interventi di manutenzione. Il che pare confermato da una conversazione del 2017, registrata da un tecnico di Spea durante una riunione riservata e ora acquisita dalla Procura. Ignaro di essere registrato, Donferri Mitelli invita i controllori ad abbassare a tavolino i temutissimi voti: «Cosa sono tutti 'sti 50 - dice - mettete più 40, più 30, devono entrare i soci cinesi e non possiamo far vedere che c' è da spendere troppo (in manutenzione, ndr)». Mentre l'inchiesta penale consolida l' ipotesi di «falsificazioni sistematiche» su molti viadotti, le intercettazioni negli ultimi mesi documentano un crescente allarmismo dentro Autostrade. Che induce a tre mosse: la sostituzione dei vertici più coinvolti; la pubblicazione online dei voti di ciascun viadotto, per dimostrare che anche i più critici non superano mai il muro del 50; l' esclusione di Spea da accertamenti sulle opere e sull' attribuzione dei punteggi. L' autogestione dei monitoraggi, ripetutamente stigmatizzata dall' Autorità anticorruzione, non è più sostenibile. Quando, un mese e mezzo fa, le valutazioni vengono aggiornate alla luce delle indicazioni dei nuovi ispettori, il risultato è stupefacente: alcune opere che per anni erano state classificate a rischio 50, all' improvviso diventano 60 o addirittura 70. Cioè entrano nella scala Donferri con il massimo rischio di crollo. Nello specifico: ponte Scrivia (A7 in prossimità di Busalla, Genova, da 50 a 70); viadotto Coppetta (A7 tra Bolzaneto e Busalla, Genova, da 50 a 70); viadotto Bormida carreggiata Nord (A26 tra Ovada e Alessandria Sud, Alessandria, da 50 a 70); ponticello ad archi al km 16 (A10 tra Voltri e Arenzano, Genova, da 50 a 70); viadotto Vegnina (A26 tra Masone e Ovada, Genova/Alessandria, da 50 a 60); viadotto Biscione carreggiata Sud (A26 tra Masone e Ovada, Genova/Alessandria, da 50 a 60); sottovia Schiantapetto (A10 tra Albisola e Savona, da 50 a 60); ponte sulla Statale del Monferrato (A26 tra Alessandria Sud e Casale Monferrato, da 50 a 60). Autostrade impone su quattro di queste infrastrutture limitazioni al traffico: sul ponte Scrivia chiusura della corsia di marcia e divieto di transito per i trasporti eccezionali oltre le 44 tonnellate; sul viadotto Coppetta chiusura della corsia di marcia, divieto di sorpasso per i mezzi oltre le 7,5 tonnellate, divieto di transito per i trasporti eccezionali oltre le 44 tonnellate; sul Bormida chiusura delle corsie di sorpasso, divieto di sorpasso per i mezzi oltre le 7,5 tonnellate, divieto di transito per i trasporti eccezionali oltre le 90 tonnellate; sul ponticello ad archi chiusura della corsia di marcia, divieto di sorpasso per i mezzi oltre le 7,5 tonnellate, divieto di transito per i trasporti eccezionali oltre le 44 tonnellate. Misure parziali. Compatibili con la valutazione del rischio fornita da Donferri Mitelli? Autostrade spiega che «nel manuale di manutenzione programmata delle opere d' arte stradali di Spea e Aspi, il voto 70 è così definito: il difetto provoca una riduzione dei coefficienti di sicurezza e sono previsti provvedimenti immediati quali limitazioni di traffico, fino alla chiusura della carreggiata, seguiti generalmente da interventi di tipo provvisionale e quindi da un intervento in somma urgenza». Una risposta indipendente arriverà dalla Procura, che ha acquisito verbali e audio di Donferri Mitelli.

Liguria, viadotto crollato: "La tratta è ok". Sette giorni dopo, la tragedia sfiorata. Giuliano Zulin su Libero Quotidiano il 27 Novembre 2019. Nessuna vittima, ma tanta paura. E numerose polemiche. Il crollo del viadotto sulla Savona-Torino ci ha riportati indietro di 15 mesi. Al disastro del ponte Morandi di Genova. Nessuno se lo sarebbe mai immaginato. Sulla fatalità punta anche il gruppo Gavio che gestisce l'autostrada A6: la frana che ha investito il viadotto "Madonna del Monte" è un evento «da considerarsi imprevisto e imprevedibile». L'Autostrada dei Fiori sottolinea che «domenica si è verificato un movimento franoso di significativa rilevanza, dell' ordine di circa 20.000/30.000 metri cubi, in una zona classificata come a scarso rischio geologico e non di pertinenza della società concessionaria». L'ammasso franoso, composto da detriti ed alberi di grandi dimensioni, aveva raggiunto velocità molto elevate, comprese tra 10 e 20 metri al secondo. «Tale massa - spiega ancora la società - ha investito con elevata quantità di energia una pila del ponte costituita da 4 colonne con collegamenti orizzontali. Venendo a mancare il supporto verticale per una delle due campate, la stessa è crollata con un movimento rotatorio nella direzione di scorrimento della frana». Insomma, dall'Autostrada dei Fiori danno la colpa alla sfortuna, figlia di maltempo e tanta pioggia. Bene, però una settimana fa sul Sole24Ore la Sias, ovvero la holding della famiglia Gavio che gestisce oltre 4500 chilometri di autostrade nel mondo, si vantava della propria capacità di prevenire praticamente qualsiasi evento avverso.

Approccio industriale. Umberto Tosoni, amministratore delegato di Sias, sottolineava come «il gruppo Gavio ha da sempre avuto un approccio industriale al tema della sicurezza e su controlli e monitoraggio delle infrastrutture siamo in pista già da molti anni». Nell' articolo del quotidiano di Confindustria si parlava proprio della Torino-Savona, tra i collegamenti a più alta densità di viadotti in Italia: 130 chilometri di tratta e 210 cavalcavia. Proprio in questa porzione di rete autostradale la società concessionaria ha messo a punto un sistema di monitoraggio delle infrastrutture insieme alla Sacertis, società di ingegneria civile specializzata nello sviluppo di sistemi per la sicurezza. Ci sono 3mila sensori posizionati lungo una ventina di viadotti della Torino-Savona e di altre arterie del gruppo, che prevede una copertura a tappeto. «Sulla sola A6 abbiamo investito per la sicurezza 270 milioni», spiegava Tosoni che ha anche descritto il sistema di controlli indipendenti basato su tre livelli di validazione da parte di tre società autonome, a cui da due anni si è affiancato il lavoro con la Sacertis. «Abbiamo affinato, sul campo, un modello che ci dà ottimi risultati e permette di vedere come si comporta in tempo reale una infrastruttura, come è variata rispetto ad una certa programmazione e se è stata sottoposta a uno stress. Abbiamo messo a servizio delle infrastrutture - puntualizzavano Andrea Cuomo, cofondatore di Sacertis, e Tosoni - una intelligenza capace di comprendere da parametri rilevati da sensori lo stato di salute del manufatto e programmare interventi in chiave predittiva». Predittiva? La frana però non è stata prevista... Il sistema di misura si basa sull' utilizzo - raccontava ancora Il Sole24Ore - di un dispositivo dotato di sensori per rilevare movimenti, temperatura, carichi e un processore, con centraline a ridosso dei singoli viadotti. Sulla Torino-Savona la società negli ultimi anni ne ha demolito e ricostruito tre e adeguato oltre 20 strutture.

Anac delusa. Tutto bene, come mai però, malgrado la richiesta dell' Autorità Anti-corruzione, l' Autostrada dei Fiori non ha rivelato la spesa della manutenzione? A luglio l' Anac, l' organo nato con Raffaele Cantone alla guida, diffuse un documento riguardante gli esiti dell' indagine conoscitiva sui concessionari autostradali che avevano realizzato una percentuale di investimenti inferiore al 90% di quelli previsti. Fra queste c' era «la Torino-Savona negli anni 2015 e 2016». La società, come detto, non ha voluto rispondere in merito. Tuttavia, stando all' ultima relazione disponibile al Ministero delle Infrastrutture, questo tratto della A6 è rimasto (nel periodo 2008-2017) a un 65% scarso di attuazione degli investimenti a consuntivo rispetto al piano economico finanziario. In compenso il pedaggio - nel periodo 2009-2018 - ha registrato un incremento del 14,89% per il 9,37% determinato dall' inflazione. A febbraio la procura di Savona ha aperto un' inchiesta sulla manutenzione dei viadotti dell' A6, su segnalazione - con foto eloquenti - di un ingegnere a capo di un comitato locale. Nessun indagato finora. Giornata nera infine in Borsa per il gruppo Gavio. I titoli della scuderia, Sias e Astm, hanno perso intorno al 2%. Niente di drammatico, però serviranno 4 mesi per ricostruire il cavalcavia crollato. Speriamo serva meno tempo per tappare la voragine formatasi sull' A21 vicino ad Asti. Giuliano Zulin

La frana, il crollo: «Noi fermi sull'orlo del baratro, davanti a me è sparita la strada».  La mappa dei rischi dei viadotti? Non c'è. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it da Cesare Giuzzi, Marco Imarisio. Liguria, nuovo dramma del maltempo: alle 14 di ieri una frana ha fatto crollare 30 metri di viadotto sulla A6. Lo choc dei viaggiatori. Due anni fa un'interrogazione sui ponti di quell'autostrada. La ricerca di possibili vittime. La colata di fango e alberi ha inciso nel costone l'immagine di un cobra che apre le sue fauci verso la Madonna del Monte. La cascata di fango è scesa avvolgendo le sue spire intorno al bosco. Trecento, forse 400 metri di un unico fronte. Hanno travolto le pile centrali del piccolo viadotto dell'autostrada Torino-Savona, il primo che si incontra lasciandosi il mare alle spalle. Il torrente di terra ne ha spazzato via trenta metri. L'asfalto è ancora intatto, in un unico blocco con le due carreggiate che correvano verso il Piemonte. È quindici metri più sotto, poggiato al costone di bosco, come se l'impeto della frana avesse adagiato quelle migliaia di tonnellate di calcestruzzo a una riva dal fiume di fango. Dall'alto i due guardrail ancora intatti sono incurvati nel vuoto dal loro peso. Non ci sono auto, almeno non se ne vedono. E anche se di notte i vigili del fuoco ancora scavano, si può sperare che non ci siano vittime nel bilancio finale dell'ennesima tragedia che colpisce la terra fragile di Liguria in una ordinaria domenica da allarme rosso dopo sette giorni di pioggia senza pause. Una tragedia che riporta negli occhi il Ponte Morandi, le sue 43 vittime e l'identico vuoto lasciato dai piloni crollati. Daniele Cassol, vigilante di 56 anni, era in autostrada e il ponte se l'è visto cadere davanti. Erano le 14 passate da qualche minuto, pioveva. «Ero in fase di sorpasso, ho visto una persona che sbracciava. Mi sono voltato e ho visto tutto nero. Il viadotto non c'era più, mi sono fermato sul baratro». Alle sue spalle c'era un pullman carico di viaggiatori, anche lui fermato dallo sbracciare degli automobilisti. Tra questi c'era Franco Spano di Albisola che doveva raggiungere Cadibona per andare dal figlio, ma un altro smottamento qualche ora prima ne aveva bloccato la strada. Lui allora ha imboccato la A6, unica via per salire verso monte, e s'è trovato tra i primi testimoni del crollo. In un video, girato prima che i soccorsi arrivassero, si sporge insieme a un altro uomo fino all'orlo del precipizio d'asfalto cercando di scorgere auto o feriti. Ma si vede solo un cartello stradale rimasto conficcato nel fango. Qualche ora dopo lo racconta in diretta a Primocanale. «Per fortuna non c'era nessuno. L'autista di un camion s'è accorto che qualcosa stava succedendo, ma è riuscito a passare. Poi tutto è venuto giù».

Dall'alto, dalla frazione della Madonna del Monte — una chiesa, un ristorante e poche case — hanno sentito come un tuono, poi è venuto già un pezzo di montagna. Il viadotto della «Madonna del Monte» è lungo una cinquantina di metri e dista meno di un chilometro dal casello di Savona. In quel tratto i due sensi di marcia si dividono. Verso la costa della montagna la carreggiata Nord, cinquanta metri più esterna quella diretta verso il mare. É rimasta intatta, come se nello spazio tra i due viadotti la frana di fango avesse perso il suo vigore. Il crollo ha interessato la pila centrale, ha spazzato via i quattro pilastri di cemento armato che sorreggevano l'impalcato. Nel punto dello sbalzo l'asfalto sembra quasi tranciato di netto. Mentre due metri prima una vasta crepa longitudinale fa temere che lo smottamento possa ripartire. I vigli del fuoco hanno ispezionato per ore la cresta del fiume di fango e i boschi in cerca di possibili vittime. I cani da ricerca, gli stessi impiegati nel dramma del Morandi un anno e mezzo fa, non hanno fiutato tracce. Si lavora anche nella speranza di riaprire la A10 nelle prossime ore, almeno su una sola corsia per senso di marcia. I tecnici di Autostrada dei fiori spa, società del gruppo Gavio, stanno verificando la tenuta dei piloni del secondo viadotto. L'autostrada è vitale perché le provinciali nei dintorni sono quasi tutte chiuse o a corsie ridotte per frane e smottamenti. Il crollo è stato provocato dal fiume di fango in caduta, ma le indagini affidate ai vigili del fuoco di Savona, guidati dal comandante Emanuele Gissi, e alla polizia stradale, dovranno verificare anche lo stato di manutenzione del viadotto. Due anni fa il consigliere regionale dei 5 Stelle Andrea Melis aveva presentato un'interrogazione sullo stato dei ponti della Savona-Torino. In particolare del viadotto Bormida, poco più avanti, dopo che erano rimbalzate via social le foto dei piloni corrosi dalla ruggine. Autostrada dei fiori aveva replicato garantendo la massima sicurezza: «Dal 2013 sono stati investiti sulla tratta 280 milioni e posizionati sensori di movimento sui viadotti. Non sono mai stati segnalati pericoli».

Stefano Origone per “la Repubblica” il 25 novembre 2019. «Ferma, ferma, è venuto giù tutto». A Daniele Cassol batte fortissimo il cuore quando pensa a quello che ha visto. «Mi è venuto in mente il ponte Morandi. Ma un conto è guardare la tv, un altro è vedersi la morte in faccia». La guardia giurata, 56 anni, di Savona, stava percorrendo l' A6 Torino-Savona quando la strada è venuta giù e il viadotto Madonna del Monte è stato travolto dalla frana. Ha fermato la Panda dell' istituto di vigilanza "La Pantera", si è messo a sbracciare evitando che le auto e un pullman finissero nella voragine.

Il suo gesto è stato decisivo. Ha salvato molte persone.

«Ho fatto solo il mio dovere, è stato un istinto a guidarmi, forse perché faccio questo lavoro da tanti anni».

Una giornata tranquilla di lavoro che ha rischiato di finire in tragedia.

«Stavo andando a Cengio per un sopralluogo, alle 13.51 ho preso l' A6, come ho spiegato alla polizia consegnando il biglietto. Davanti a me c' era quel pullman delle ferrovie, mi hanno detto in sostituzione di un treno che non poteva partire per le frane. L' ho sorpassato e dopo poco è sparito dallo specchietto».

Pioveva in quel momento?

«Sì, non c' era traffico, forse per via dell' allerta. Saranno passati cinque minuti dal momento in cui ero partito dal casello. Ho visto sulla mia destra un Suv fermo sulla corsia di emergenza e un uomo che allargando le braccia mi faceva segno di fermarmi. Urlava, ho pensato a un problema alla macchina o un malore, così dalla corsia di sorpasso mi sono spostato a destra per cercare di fermarmi».

Non si era reso conto che poche decine di metri più avanti la strada non c' era più?

«No, solo quando mi sono voltato per evitare di andare a sbattere, ho visto come un buco nero. Ho pensato: ma che sta succedendo? Ho inchiodato e sono riuscito a fermarmi una quarantina di metri prima».

E poi?

«Guardi, avevo timore che arrivasse il pullman e mi tamponasse. Per fortuna sono sceso e l' ho visto arrivare in tempo. Ho allargato le braccia, ho fatto segno di fermarsi ed è andata bene. Comunque non so ancora come sono riuscito a fermarmi, sono salvo per miracolo».

Quindi, cosa ha fatto?

«Dopo che tutti si sono fermati, ho chiamato il 112 e il 115 ma i telefoni erano ko - dice riferendosi al guasto alle linee Vodafone durato più di quattro ore - , così ho preso quello di servizio che ha un altro operatore e ho avvisato la questura. Mi sono qualificato come guardia giurata e ho chiesto di mandare subito i soccorsi perché erano crollati venti metri di viadotto. Con quello che è successo a Genova l' anno scorso, mi hanno creduto subito e hanno inviato pattuglie e pattuglie, anche una in moto».

A quel punto è diventato un soccorritore.

«Ho allontanato tutti e mi sono avvicinato al bordo del viadotto per controllare che sotto non ci fosse nessuno, perché subito ho pensato che fosse volata qualche macchina. Mi sono fermato qualche minuto perché ho avuto paura che venisse giù un altro pezzo».

Lei percorre spesso questa autostrada. Dopo il Morandi avrebbe mai immaginato che potesse crollare anche questo viadotto?

«Fa un certo effetto trovarsi in una situazione del genere. Il ponte non c' era più e ho avuto paura di fare la stessa fine di quella povera gente che è morta a Genova un anno fa».

Crollo del viadotto sulla Torino-Savona, Gavio festeggia lo scampato pericolo. Il disastro sull'A6, per quanto meno tragico del Morandi di Genova, riapre la ferita dei controlli insufficienti sulla rete autostradale gestita dai concessionari privati. Un modo di fare impresa che produce utili colossali ma poche verifiche da parte delle autorità ministeriali. Gianfrancesco Turano il il 25 novembre 2019 su L'Espresso. Beniamino Gavio, secondo concessionario autostradale dopo Autostrade-Atlantia (Benetton), ha di che festeggiare. Il crollo del viadotto sulla A6 Torino-Savona, gestita dal suo gruppo, non ha avuto le conseguenze catastrofiche del ponte Morandi di Genova: 43 morti il 14 agosto 2018. Eppure la pubblicità non è delle migliori, nonostante l'anno scorso il gruppo di Castelnuovo Scrivia (Alessandria) avesse portato a termine un check-up ingegneristico delle infrastrutture in gestione prima di fare entrare il gruppo francese Ardian nel capitale con una cessione parziale del controllo pagata 850 milioni di euro. In attesa di capirne di più sulle ragioni del nuovo incidente, se incidente si può chiamare, va ricordato che Gavio ha vinto una gara in Brasile (oltre 400 chilometri di tracciato fra gli stati di Goiàs e Minas Gerais) e attende di sapere come andrà la gara su alcune delle sue concessioni scadute (Torino-Piacenza, Torino-Ivrea, tangenziale di Torino) per circa 2 miliardi di euro. Le gare vinte con la controllata EcoRodovias in America del Sud hanno fatto della holding alessandrina Argo Finanziaria il secondo gestore autostradale al mondo (4539 chilometri), dietro Atlantia-Abertis (14095 chilometri). Sullo sfondo rimane l'indecisione dei politici che negli ultimi vent'anni hanno lasciato sempre più spazio ai concessionari privati con tariffe in crescita automatica e controlli spostati fra Anas e Ministero delle infrastrutture. I risultati si vedono nelle immagini dei crolli dalla Sicilia all'Italia settentrionale e anche i grandi successi dei nostri imprenditori autostradali all'estero sono resi possibili da una situazione molto italiana dove il concessionario può realizzare gli interventi con società edili di sua proprietà. È il sistema del controllore-committente di se stesso. Funziona benissimo per il conto economico. Molto meno per la sicurezza stradale.

Filomena Greco per ''Il Sole 24 Ore'' del 19 novembre 2019.  Con 1.400 chilometri di autostrada in gestione in Italia, centinaia di viadotti da monitorare, il tema della sicurezza tiene banco in casa del Gruppo Gavio. Il crollo del ponte Morandi ha rappresentato un punto di non ritorno per il settore, «ma il Gruppo Gavio ha da sempre avuto un approccio industriale al tema della sicurezza e su controlli e monitoraggio delle infrastrutture siamo in pista già da molti anni» sottolinea Umberto Tosoni, amministratore delegato di Sias. Il Gruppo gestisce dal 2013 - anno in cui l' ha acquisita da Autostrade - la Torino-Savona, tra i collegamenti a più alta densità di viadotti in Italia: nei 130 chilometri che uniscono il capoluogo piemontese alla città ligure, ce ne sono 210. Ed è qui che il Gruppo Gavio - che ha all' attivo in totale 4.600 chilometri di infrastruttura in gestione, soprattutto in Brasile ed è il secondo operatore al mondo nella costruzione e nella gestione di reti autostradali - ha messo a punto un sistema di monitoraggio delle infrastrutture insieme alla Sacertis, società di ingegneria civile specializzata nello sviluppo di sistemi per la sicurezza e il risk assessment delle costruzioni. Sono 3mila i sensori posizionati lungo una ventina di viadotti della Torino-Savona e di altre arterie del Gruppo, che prevede una copertura a tappeto. «Sulla sola Torino-Savona abbiamo investito per la sicurezza 270 milioni, 4,6 miliardi in dieci anni sulla nostra intera rete. Siamo nati nei cantieri e nelle costruzioni, manteniamo un approccio più ingegneristico che finanziario al settore» spiega Tosoni che descrive il sistema di controlli indipendenti costruito dal Gruppo: tre livelli di validazione da parte di società autonome - la Sintecna sulla priorità degli interventi, la Fhecor sulla pianificazione degli interventi e la Edin sulla validazione complessiva di processo - a cui da due anni si è affiancato il lavoro con la Sacertis. «Abbiamo affinato, sul campo, un modello che ci dà ottimi risultati e permette di vedere come si comporta in tempo reale una infrastruttura, come è variata rispetto ad una certa programmazione e se è stata sottoposta a uno stress. Abbiamo messo a servizio delle infrastrutture una intelligenza capace di comprendere da parametri rilevati da sensori lo stato di salute del manufatto, il suo ciclo di vita e programmare interventi in chiave predittiva» spiegano Andrea Cuomo, cofondatore di Sacertis, e Tosoni. Il sistema di misura si basa sull' utilizzo di un dispositivo dotato di sensori - per rilevare movimenti, temperatura, carichi - e un processore, con centraline a ridosso dei singoli viadotti. L' elaborazione dei dati è gestita in tempo reale sul cloud Ibm mentre gli ingegneri di Sacertis hanno messo a punto una "intelligenza" in grado di monitorare la situazione dei singoli manufatti, valutarne gli standard di sicurezza in base ad un modello matematico e programmare, in chiave predittiva, gli interventi, di manutenzione o strutturali. «Non basta registrare dei segnali - spiega Cuomo - ma è necessario fare un punto iniziale, ovvero sviluppare un modello strutturale che faccia da riferimento per le analisi successive». Tutte le misurazioni di oscillazioni, inclinazioni e tensioni della struttura vengono trasformate in parametri strutturali e confrontate con il modello teorico per verificare il margine di sicurezza, dato dalla differenza tra «il degrado delle prestazioni nel tempo e i carichi che sono aumentati» aggiunge. Il sistema di implementazione segue un piano dei lavori serrato, con interventi sui viadotti di tutta la rete, con un approccio capillare che punta a monitorare ogni singola trave del ponte. Sulla Torino-Savona la società negli ultimi anni ha demolito e ricostruito tre viadotti sulla Torino-Savona e adeguato oltre 20 strutture. «La tecnologia - aggiunge l'amministratore delegato Tosoni - rappresenta la nuova sfida per i gestori, per puntare allo sviluppo di nuovi servizi per la sicurezza e per garantire in futuro strade e collegamenti sempre più connessi». Più in generale, argomenta Cuomo - che nasce ingegnere nucleare ma vanta anni di lavoro come responsabile della ricerca per STMicroelectronics - il tema è l' integrazione tra elettronica, matematica, informatica e ingegneria civile, per costruire una soluzione industriale al bisogno di sicurezza delle infrastrutture.

Con Gavio si viaggia leggeri. Il gruppo Argo Finanziaria vende ai francesi di Ardian. Che dopo il crollo del Morandi chiedono controlli supplementari. Gianfrancesco Turano il 25 settembre 2018 su L'Espresso. Un pezzo del ponte Morandi rischia di crollare anche su Beniamino Gavio. Il secondo concessionario privato italiano dopo i Benetton (Atlantia-Autostrade) aveva firmato il 2 agosto le carte per cedere il 40 per cento di Astm e Sias, le subholding delle autostrade, per 850 milioni di euro. L’impegno a comprare entro fine settembre è stato firmato dai francesi di Ardian infrastructure, primo fondo europeo e uno dei primi cinque del mondo con un patrimonio gestito superiore ai 70 miliardi di euro. Ma il 14 agosto, dopo la catastrofe di Genova, in Ardian è scattato l’allarme rosso. Prima di pagare, i francesi hanno chiesto e ottenuto di verificare la sicurezza di alcune opere. Nel mirino è finita la Torino-Savona, 124 chilometri di autostrada che nel tratto appenninico presenta una successione interminabile di viadotti. Gavio si dice fiducioso sull’esito dell’operazione. «Come tutti, anche i nostri partner sono rimasti colpiti dal crollo del 14 agosto e hanno chiesto di partecipare a una serie di riunioni tecniche con i loro esperti». Secondo quanto risulta all’Espresso, gli ingegneri mandati dai francesi stanno eseguendo controlli sul tracciato in autonomia rispetto ai consulenti del gruppo Gavio, cioè la società spagnola Fhecor e il professore Giuseppe Mancini, ex docente del Politecnico di Torino da qualche mese in pensione, molto critico sui difetti di progettazione del viadotto Morandi. Le riserve di Ardian non sono l’unica incertezza sulla conclusione dell’accordo nei tempi stabiliti. Il passaggio delle quote di Nuova Argo Finanziaria, creata il 2 agosto per accogliere i partner transalpini, deve essere approvato dal titolare della concessione, il Ministero delle infrastrutture (Mit) guidato da Danilo Toninelli. «Alcune delle prescrizioni rimandate al Mit», prosegue Gavio, «hanno avuto seguito, altre no. Non abbiamo mai avuto contatti diretti e non conosco il ministro. Aspettiamo di essere chiamati ma al momento c’è una grande confusione». Parlare di confusione al Mit è un understatement. Toninelli ha parlato di revoca della concessione per l’A10 senza sapere che il tratto Savona-Ventimiglia non è dei Benetton ma di Gavio. Il decreto Genova è vago e incompleto. La nazionalizzazione delle concessionarie è avversata dalla Lega e l’unica società che potrebbe farsi carico delle autostrade, l’Anas, è stata finora esclusa in attesa che l’ad Gianni Armani, nominato da Matteo Renzi, venga estromesso in favore di un manager di fede grillina. Per il gruppo Gavio l’accordo con Ardian è fondamentale ai fini dello sviluppo in Usa, in Colombia e soprattutto in Brasile, dove il gruppo di Castelnuovo Scrivia controlla Ecorodovias e ci sono 20 mila chilometri di nuove strade da costruire. È un mercato che ha ben altra attrattiva rispetto all’Italia dove Gavio ha visto scadere le sue concessioni sulla Torino-Piacenza e sulla Torino-Ivrea-Val d’Aosta, mentre una terza, la Savona-Ventimiglia, scadrà nel 2021. La potenza di fuoco di Ardian è indispensabile per l’espansione all’estero. I rapporti con i francesi sono nati dall’acquisto del 49 per cento dell’Autovia Padana (Piacenza-Cremona-Brescia) per 80 milioni di euro nel 2017. Nelle buone relazioni sul fronte transalpino è stato essenziale il ruolo di Stefano Mion. L’ad di Ardian Infrastructure Usa è il figlio di Gianni Mion, per trent’anni architetto della diversificazione e dell’organizzazione finanziaria in Benetton. Mion senior e Fabrizio Palenzona, presidente delle concessionarie autostradali (Aiscat), hanno organizzato la pace fra i due gruppi, a lungo rivali. Sineco, la società di engineering e manutenzione dei Gavio, lavora con Aeroporti di Roma (Atlantia). E proprio la Torino-Savona è un esempio dell’intesa cordiale tra Ponzano Veneto e Castelnuovo Scrivia. Costruita dalla Fiat alla fine degli anni Cinquanta come collegamento verso il porto di Genova, è stata per decenni l’autostrada più pericolosa d’Italia con tratti alternati a due e quattro corsie. Dalla Fiat, la Torino-Savona è stata ceduta all’Iri. Lo Stato l’ha girata ad Autostrade che a novembre dell’anno scorso l’ha venduta a Gavio. Anche con le quattro corsie, il tracciato rimane molto problematico. Due viadotti sono stati abbattuti e sostituiti. Un terzo, il Mallere, farà la stessa fine a partire dall’autunno. Sul colossale viadotto Lodo a Cadibona, definito “opera d’arte” sul sito dell’autostrada anche se il ferro arrugginito emerge dal cemento, sono in programma investimenti per 20 milioni. Il 28 agosto, due settimane dopo Genova, l’autostrada ha vietato il transito ai trasporti in eccedenza per 14 km fra Savona e Altare in direzione Torino. È la rotta dei tir che portano i coil d’acciaio dall’Ilva di Cornigliano all’impianto di Novi Ligure. Uno di questi veicoli, con 443 tonnellate di carico, potrebbe avere dato il colpo di grazia al Morandi. Gavio, che fa anche autotrasporti, conosce il problema. «Tre dei nostri mezzi sono passati sul ponte un quarto d’ora prima del crollo». Sulla Torino-Savona meglio viaggiare leggeri.

Fabio Amendolara per ''La Verità'' il 29 novembre 2019. Gruppo Gavio stava cercando di ottenere il rinnovo della concessione per la gestione delle autostrade fino al 2030. Ma c' era un problema: la Commissione ministeriale era convinta che la scadenza fosse da anticipare al 2024, mentre il ministro Graziano Delrio pensava a una proroga che non superasse il 2028. I Gavio puntano tutto su un loro consulente: Maurizio Maresca, che era pure consulente dell' Aiscat (l' associazione delle concessionarie), di Atlantia, consigliere di Renzi per la razionalizzazione delle concessioni e collaboratore del ministro Delrio per la struttura di missione che ha perorato la proroga delle concessioni a Bruxelles. All' epoca i carabinieri evidenziarono gli incontri di Maresca con Alberto Bianchi, oggi indagato per traffico di influenze per i rapporti con un altro concessionario autostradale, il gruppo Toto, a cui avrebbe fatto da trait d' union con il Giglio magico. Ma quelle carte rimasero in un cassetto, forse perché l' oggetto dell' inchiesta erano le grandi opere. Gli investigatori che si stanno occupando di Open, però, dopo essere stati nello studio dell' avvocato Bianchi (perquisito il 22 settembre scorso), sono entrati negli uffici del Gruppo Gavio (tra i finanziatori della fondazione) che, insieme ai Toto, hanno beneficiato dell' articolo 5 inserito nel decreto Sblocca Italia il 5 novembre 2014. E hanno riesumato l' informativa nella quale traspare che Gavio volesse fare «sfaceli», così viene descritta al banchiere Fabrizio Palenzona l' intenzione degli imprenditori (che nel 2015 non erano ancora sostenitori di Renzi). L'unica strada percorribile è pressare il governo. E l' uomo individuato da Maresca è l'avvocato Bianchi. Tra i due ci sono scambi di sms. E incontri. Come quello del 18 giugno 2015. Le prime indicazioni vengono fornite agli investigatori da una chiamata intercettata fra lui e Palenzona. Quest' ultimo chiede: «Dove sei stella?». Lui replica: «Sono a Genova che sto andando a Milano [] poi nel pomeriggio vado a Firenze». Per l' interlocutore non ci sono dubbi: «Ormai sei Giglio magico pieno». Maresca si schermisce: «No che Giglio magico... vado dal nostro amico Alberto». Gli investigatori lo seguono. E lo fotografano. Maresca arriva nel capoluogo toscano con un treno veloce alle 15.55. E da lì va a piedi verso via Palestro 3, sede dello studio legale Bianchi. Qualche minuto più tardi Paolo Pierantoni, presidente di Sias, società del gruppo Gavio, avvisa Maresca che a breve li raggiungerà. Mentre si pensa di avvicinare anche Giovanni Toti, governatore della Liguria (ma le citazioni nell' informativa si sprecano: oltre che di Renzi, si parla di Mauro Bonaretti, ex direttore generale a Palazzo Chigi, e di Roberto Mercuri, che aveva attirato l' attenzione di Luigi De Magistris quando ancora faceva il pm in Calabria), seguono altri incontri. In un' occasione si ipotizza che possa partecipare anche Beniamino Gavio detto Mino. Ed è a questo punto che il prof sembra parlare con Bianchi di soldi. I carabinieri annotano: «Tocca il tema dei comuni compensi che Bianchi dovrebbe affrontare con Gavio». Ecco il testo, trascritto a pagina 117 dell' informativa: «Chiaro...tieni conto che io ma non parlando al capo ma parlando a Pierantoni... per il tema compensi eccetera... un accenno glielo avevo fatto... che riguardava entrambi... quindi a mio avviso se ti attacchi lì va bene...». E Bianchi: «Cioè i 500?». Maresca: «500 oltre a... oltre a...». Delrio, però, si è chiuso a riccio. E c' è un interlocutore di Maresca che sembra aver capito bene cosa fare, il vicesegretario generale della presidenza del Consiglio, Raffaele Tiscar: «In questa situazione c' è bisogno di un chiaro mandato politico...». E dopo l' ennesimo incontro con Bianchi, Maresca aggiorna Palenzona: «[...] con Alberto è venuto un po' fuori il tema di come ci si comporta...». E Bianchi, stando al racconto di Maresca, avrebbe detto: «È chiaro che se però prendi una posizione che sia proprio visibilmente anti governo e anti capo del governo, vuol dire che scommette che questo governo tra poco non ci sia più o non scommette insomma». Come ha indicato Tiscar, serve un mandato politico. Maresca cerca una nuova strategia: «Io contornerei informandone Lotti». La valutazione che fa Palenzona è questa: «Io temo che il povero Renzi sia più ammalorato di quello che pensi». Ma successivamente qualcosa si dev' essere sbloccato: ad aprile 2018 la Sias dei Gavio ha ottenuto la proroga sino al 2030. Al governo c' era ancora il Pd, ma il premier era Paolo Gentiloni. Un anno prima era stato approvato un emendamento a favore dei Toto. E ora la Procura vuole vederci chiaro.

Chiusura dell’A26, il procuratore di Genova: “Ponti come dei balconi con soletta sgretolata”. Il Riformista il 26 Novembre 2019. “Per fare un esempio, era come se in un balcone la soletta sottostante fosse completamente sgretolata e la parte sana solo quella piastrellata”. È quanto rivelato dal procuratore capo di Genova Francesco Cozzi a proposito della chiusura della A26 in prossimità dei ponti Fado e Pecetti, che ha visto da stamattina riaprire al traffico una corsia per ogni senso di marcia durante la riunione tra il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli e i vertici Aspi. “I nostri consulenti – è l’allarme lanciato da Cozzi – hanno rilevato ieri un grave stato di degrado che consisteva in una mancanza di cemento che imponeva un controllo sicurezza immediato per pericolo di rovina”. Finora il procuratore aveva parlato solo di un generico “stato di degrado” delle infrastrutture. La procura di Genova aveva disposto ieri ad Autostrade per l’Italia di chiudere in entrambe le direzioni la tratta dell’autostrada A26 compresa tra l’allacciamento con l’autostrada A10, a Genova, e lo svincolo di Masone. Il procuratore capo di Genova ha poi tenuto a precisare che “non abbiamo preso un provvedimento avventato, ma è stato un provvedimento tempestivo che non poteva essere procrastinato. Non è stata una decisione avventata. Ho seguito le operazioni tutta la notte. Quello che è successo e che i nostri consulenti hanno visto che su quei viadotti erano stati controllati ed erano stati segnalati con voti entro il 50. Quando in realtà erano a 70 e quindi si doveva intervenire”. Cozzi ha quindi fatto un riferimento all’inchiesta sul ponte Morandi di Genova, che poi si è estesa proprio con il filone dei falsi report sulle condizioni dei viadotti delle autostrade: “Bisognerà vedere con le indagini se quanto successo prima era una filosofia generale, quella degli omessi controlli, oppure se si sia trattato di episodi singoli. Quello che è successo prima non deve più succedere. L’impressione che abbiamo avuto, nei mesi scorsi, è quella di una sottovalutazione dello stato delle infrastrutture”. Sulla decisione di chiudere parzialmente l’A26 il procuratore ha poi chiarito il ruolo del suo ufficio: “Noi non ci sostituiamo a nessuno, alle competenze di nessuno, il nostro compito è casomai di sollecitare gli interventi di competenza di altri”. E’ vero che Aspi ha programmato una serie di interventi anche con società esterne. E’ in atto un piano di controllo che mi auguro venga seguito anche dal Mit perchè non spetta a noi”. 

Il viadotto chiuso dai pm non era mai stato controllato. Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Marco Imarisio, inviato a Genova. Il Fado non compare mai nella carte di Spea. Gli evidenti segni di usura. Negli uffici di Spea, la società della galassia Atlantia-Aspi incaricata delle verifiche a partire dal 2001 prima della recente revoca causa inchieste per falso, risulta non pervenuto. Come se non ci fosse mai stato, quando invece il viadotto vicino aveva di recente ottenuto una valutazione di 41, su una scala di 70, prima che Speri, la nuova società di revisione, esterna e indipendente, correggesse la generosa stima con la massima previsione possibile di rischio, obbligando i pubblici ministeri a imporre lo stop a entrambe le infrastrutture. Anche perché dalla relazione dei tecnici di Speri le tracce di usura delle solette sottostanti l’asfalto risultavano visibili a occhio nudo. Magari è solo un dettaglio, ma aiuta a capire come andassero le cose prima del disastro del ponte Morandi e dell’ingresso della magistratura nel campo dell’ingegneria civile. Gli ultimi controlli sul viadotto Fado, almeno secondo il materiale recuperato dalle Fiamme gialle, si perdono nella notte dei tempi. Eppure il suo «stato di ammaloramento» era superiore a quello del Pecetti, che pure nell’ultimo sopralluogo ha ricevuto il grado massimo di allarme e per la magistratura è stato oggetto di «controlli superficiali determinati da ispezioni svolte con modalità interne alla società concessionaria». Per entrambi i viadotti è stato rilevato «un grave deterioramento con pericolo di rovina». Peggio, non si poteva. Non solo per loro, ma anche per altri tre viadotti liguri gestiti da Aspi, la diagnosi, recente e imparziale, risulta impietosa. Il Bisagno e il Veilino sulla A12 Genova-Livorno, e il già noto Letimbro sulla A10 per Ventimiglia, hanno ricevuto tutti quel 70 di valutazione che impone lavori urgenti, magari senza un provvedimento drastico come la chiusura decisa invece lunedì sera. I cinque ponti «incriminati» sono state tra le prime infrastrutture segnalate dalla magistratura dopo la scoperta dei presunti falsi sulle relazioni di servizio dei quali sono accusati Spea e Aspi. La magistratura ha aperto un fascicolo di indagine a carico di ignoti per «omissione di lavori che minacciano rovina», avvenuta su un arco di tempo che comprende anche i quindici mesi trascorsi dalla tragedia del 14 agosto 2018 a oggi. La nuova inchiesta, affidata al pubblico ministero Walter Cotugno già titolare di quella sui falsi, nasce dalle analisi dei periti della Procura, che hanno evidenziato come tutte questi viadotti fossero in stato di «pericolo imminente». La contabilità spicciola impone anche di aggiornare le accuse di falso, estese a quattro nuovi viadotti liguri. A un elenco già nutrito di ponti in tutta Italia definiti «sotto stretta sorveglianza» si aggiungono lo Scrivia e il Coppetta sulla A7 Milano-Genova, il Ponticello sulla A10 e il Bormida sulla A26. La presunta alterazione dei rapporti sul loro stato di salute è una conseguenza del passaggio dalle valutazioni date da Spea, mai superiori al 50 che certifica il buono stato dell’opera a quelle della società Speri, invece comprese tra il 60 e quel 70 che in teoria segnala il rischio di crollo. Ponti, sempre ponti. Le inchieste genovesi stanno diventando uno specchio fedele dei vizi italiani. Al primo posto, l’incuria. Mercoledì il procuratore capo Francesco Cozzi ha azzardato una metafora con la quale sembrava invocare una maggiore presenza del settore pubblico. «In questo momento siamo come il sindaco che camminando per la sua città vede che si sta sgretolando il balcone di un ufficio comunale e decide di intervenire per tutelare la cittadinanza. Solo che qui manca il sindaco, e tocca a noi».

Marco Imarisio per il “Corriere della sera” il 28 novembre 2019. Fado, questo sconosciuto. Neppure tra le carte e i documenti sequestrati di recente dalla Guardia di Finanza c' era traccia dell' esistenza del viadotto sulla A26 chiuso domenica sera da Autostrade per l' Italia su gentile invito della magistratura insieme al suo gemello Pecetti, che scorre parallelo sulla corsia accanto. Eppure è stato ultimato nel 1973, ha sulle spalle 46 anni di onorato servizio. Ma agli atti non risultano controlli, di stabilità o sicurezza che siano. Negli uffici di Spea, la società della galassia Atlantia-Aspi incaricata delle verifiche a partire dal 2001 prima della recente revoca causa inchieste per falso, risulta non pervenuto. Come se non ci fosse mai stato, quando invece il viadotto vicino aveva di recente ottenuto una valutazione di 41, su una scala di 70, prima che Speri, la nuova società di revisione, esterna e indipendente, correggesse la generosa stima con la massima previsione possibile di rischio, obbligando i pubblici ministeri a imporre lo stop a entrambe le infrastrutture. Anche perché dalla relazione dei tecnici di Speri le tracce di usura delle solette sottostanti l' asfalto risultavano visibili a occhio nudo. Magari è solo un dettaglio, ma aiuta a capire come andassero le cose prima del disastro del ponte Morandi e dell'ingresso della magistratura nel campo dell' ingegneria civile. Gli ultimi controlli sul viadotto Fado, almeno secondo il materiale recuperato dalle Fiamme gialle, si perdono nella notte dei tempi. Eppure il suo «stato di ammaloramento» era superiore a quello del Pecetti, che pure nell' ultimo sopralluogo ha ricevuto il grado massimo di allarme e per la magistratura è stato oggetto di «controlli superficiali determinati da ispezioni svolte con modalità interne alla società concessionaria». Per entrambi i viadotti è stato rilevato «un grave deterioramento con pericolo di rovina». Anche per altri tre viadotti liguri gestiti da Aspi, nei confronti della quale ieri Luigi Di Maio è tornato a chiedere la revoca delle concessioni, la diagnosi, recente e imparziale, risulta impietosa. Il Bisagno e il Veilino sulla A12 Genova-Livorno, e il già noto Letimbro sulla A10 per Ventimiglia, hanno ricevuto tutti quel 70 di valutazione che impone lavori urgenti, magari senza un provvedimento drastico come la chiusura decisa invece lunedì sera. I cinque ponti «incriminati» sono state tra le prime infrastrutture segnalate dalla magistratura dopo la scoperta dei presunti falsi sulle relazioni di servizio dei quali sono accusate Spea e Aspi. La magistratura ha aperto un fascicolo di indagine a carico di ignoti per «omissione di lavori che minacciano rovina», avvenuta su un arco di tempo che comprende anche i quindici mesi trascorsi dalla tragedia del 14 agosto 2018 a oggi. La nuova inchiesta, affidata al pubblico ministero Walter Cotugno già titolare di quella sui falsi, nasce dalle analisi dei periti della Procura, che hanno evidenziato come tutti questi viadotti fossero in stato di «pericolo imminente». La contabilità spicciola impone anche di aggiornare le accuse di falso, estese a quattro nuovi viadotti liguri. A un elenco già nutrito di ponti in tutta Italia definiti «sotto stretta sorveglianza» si aggiungono lo Scrivia e il Coppetta sulla A7 Milano-Genova, il Ponticello sulla A10 e il Bormida sulla A26. La presunta alterazione dei rapporti sul loro stato di salute è una conseguenza del passaggio dalle valutazioni date da Spea, mai superiori al 50 che certifica il buono stato dell' opera, a quelle della società Speri, invece comprese tra il 60 e quel 70 che in teoria segnala il rischio di crollo. Ponti, sempre ponti. Le inchieste genovesi stanno diventando uno specchio fedele dei vizi italiani. Al primo posto, l' incuria. Ieri il procuratore capo Francesco Cozzi ha azzardato una metafora con la quale sembrava invocare una maggiore presenza del settore pubblico. «In questo momento siamo come il sindaco che camminando per la sua città vede che si sta sgretolando il balcone di un ufficio comunale e decide di intervenire per tutelare la cittadinanza. Solo che qui manca il sindaco, e tocca a noi».

Giuseppe Filetto per “la Repubblica” il 28 novembre 2019. Ventiquattr' ore dopo la chiusura (e la riapertura parziale) dei due ponti della A26, Pecetti e Fado, si registra un' altra impennata della Procura di Genova sui viadotti a "rischio crollo". Aperti due nuovi filoni di inchiesta e altri cinque indagati per falso. Il primo fascicolo riguarda il reato di "omissioni di lavori che provocano rovina" ed è riferito sia ai due ponti autostradali della Genova- Gravellona Toce, sia ad altri tre che versano nelle medesime condizioni: Bisagno e Letimbro, che rispettivamente scavalcano i centri abitati di Genova e Savona; più il Veilino, situato nei pressi dello svincolo di Genova-Est, sulla A12. Il fascicolo è contro ignoti. Al momento. Anche se nel mirino della magistratura e della Guardia di Finanza ci sono i dirigenti e i tecnici di Autostrade che avrebbero dovuto attuare gli interventi di consolidamento e messa in sicurezza. Il secondo filone di inchiesta ruota invece sulle trimestrali (schede di valutazione delle condizioni dei viadotti) pubblicate da Aspi, ma compilate sui report di Spea, società gemella che si occupa di monitoraggio della rete autostradale. Nelle valutazioni del secondo trimestre 2019, quattro ponti avevano voti sotto i 50, cioè da tenere d' occhio, ma non in condizioni di rischio: Coppetta e Busalla sulla A7, la Genova-Milano; Bormida sulla A26; Ponte ad Arco sulla Genova-Savona. E però nell' ultima trimestrale pubblicata ad ottobre hanno avuto 70, a rischio chiusura o quantomeno a limitazione di traffico. «Se gli indici sono cambiati drasticamente nel giro di un mese, passando da 40 a 70 - dice il procuratore capo Francesco Cozzi - vuol dire che i controlli precedenti non erano affidabili». Va ricordato, però, che dopo il crollo del Morandi, Spea è stata commissariata, i controlli vengono fatti insieme a due società esterne, Proger e Studio Speri. Sicché, così come per i report "edulcorati" per una serie di ponti sparsi in tutta Italia, anche stavolta si ipotizza il falso tra quanto riportato nella penultima trimestrale e la situazione reale. Da ieri il fascicolo contiene le generalità di cinque indagati: dirigenti e tecnici di Spea che appunto nei controlli di giugno avrebbero prodotti i falsi.

L'Italia va a pezzi? No problem: Anas arruola un uomo di Gladio. La procura di Roma indaga su un ammanco di decine di milioni di euro che la società di Stato ha investito in Qatar, India e Russia. Mettendo a rischio i bilanci. Gianfrancesco Turano il 4 dicembre 2019 su L'Espresso. Quando in Anas pensavano di avere visto tutto, fra viadotti crollati, scandali giudiziari, tangenti e nepotismo sistematico, ecco arrivare la spy story. Lui si chiama Vittone, Omar Vittone, e prima di diventare lo strapagato “branch deputy manager” di Anas international Qatar con un mensile di 93 mila riyal (circa 23 mila euro) più alloggio era un veterano delle missioni militari in Iraq, Afghanistan, Libano ed è tuttora il rappresentante per Piemonte e Valle d’Aosta dell’associazione volontari di Stay behind, la rete costituita dai servizi segreti Usa e italiani meglio nota come Gladio, ufficialmente sciolta nel 1990 dopo la storica testimonianza di Giulio Andreotti di fronte alla commissione parlamentare stragi. Il saldo delle escursioni dell’Anas e della controllata Anas international enterprise (Aie) in nazioni poco note per la loro trasparenza finanziaria è pesante. Anas, che è confluita nel gruppo Ferrovie dello Stato alla fine del 2017, ha dovuto creare un fondo rischi da 32 milioni che corrisponde prudenzialmente al buco di Aie. Oltre a questo, per garantire la continuità aziendale, il 18 giugno 2019 ha versato 10 milioni di euro per coprire i 7,5 milioni di perdite e ricostituire il capitale sociale. Il giorno prima, 17 giugno 2019, Pino Zingale, magistrato della Corte dei conti delegato al controllo dell’Anas, ha denunciato “gli elementi di possibile reato e danni erariali” alla procura di Roma e alla procura regionale della Corte dei conti. L’esposto è stato inviato anche alla ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, e all’attuale ad dell’Anas Massimo Simonini, figlio di un dirigente dell’Anas nominato ad dall’ex ministro Danilo Toninelli.

La ministra De Micheli ha chiesto informazioni sul buco Anas International dal giugno di quest'anno. Il 24 giugno Toninelli ha chiesto chiarimenti via lettera sull’ammanco principale, quello dell’Anas Tec Gulf del Qatar. Il 25 giugno l’attuale ad Aie, Guido Perosino, subentrato a Bernardo Magrì in aprile dopo sei mesi di vacatio, è partito per Doha in cerca di 7 milioni di euro di denaro pubblico che non sono mai più tornati indietro. Quello che ha trovato Perosino in Qatar non deve essergli sembrato gradevole, perché ha aggiunto la sua segnalazione a quella di Zingale e si è messo al lavoro su un piano industriale da ultima spiaggia con l’assistenza di Pwc. Il piano è stato approvato il 20 novembre e spedito per il vaglio definitivo alla holding Ferrovie.

Nostalgia Gheddafi. A completare il quadro ci sono due relazioni del collegio sindacale Aie (2017 e 2018) che “ha rilevato gravi criticità” e un parere pro veritate ancora più critico firmato dall’avvocato Mario Bussoletti che l’Anas intende usare contro il suo ex manager Magrì. L’ingegnere napoletano, 59 anni, non ha avuto un attimo di tempo per chiamarsi disoccupato visto che appena si è dimesso da Aie (settembre 2018) è diventato uno dei principali dirigenti operativi del gruppo Gavio come amministratore delegato di Satap (Torino-Piacenza), Asti-Cuneo, Siteco e Autofiori, la concessionaria che gestisce la Torino-Savona dove domenica 24 novembre è crollato un viadotto a causa di una frana.

Ma procediamo con ordine. L’idea di trasformare l’Anas in competitor internazionale nasce una decina di anni fa, quando si tenta di lanciare la società sul libero mercato per giustificarne l’uscita dal perimetro del debito pubblico. Il fatidico 30 agosto 2008 il colonnello Muhammar Gheddafi, capo della Jamahiryya libica, pianta le tende a villa Borghese e firma con il premier Silvio Berlusconi l’accordo che prevede, come risarcimento per l’occupazione coloniale, di un’autostrada costiera dal confine tunisino al confine egiziano. L’impegno è affidato all’Anas. Tre anni dopo Gheddafi viene ucciso e la Libia precipita nel caos. Ma a Roma si insiste sul presunto Eldorado delle commesse estere, forse perché in Italia ci si annoia da quanto tutto va bene. Il numero uno dell’Anas, l’ex dell’Iri Pietro Ciucci, costituisce Aie a giugno del 2012. La nuova società apre in pochi anni quattro filiali (Colombia, Georgia, Argentina, Qatar) e nove partecipate fra Libia, Algeria, Russia e India. Nell’autunno del 2015 Matteo Renzi sostituisce il lettiano Ciucci con Gianni Vittorio Armani, figlio di Pietro, anch’egli ex amministratore Iri in quota Alleanza nazionale. Armani si dà da fare. Chiude un accordo con l’Iran a luglio del 2016, alla presenza del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e del suo omologo iraniano Abbas Ahmad Akhoundi. Nel 2017 sbarca in Russia per il tracciato Rostov-Krasnodar. Due anni dopo tocca al subcontinente con la costituzione di Anas Tec India e poi all’Armenia, per il corridoio autostradale nord-sud. Ogni volta si comunica allo spettabile pubblico che si tratta di investimenti stramiliardari (3,6 miliardi in Iran, 1 miliardo in Armenia, centinaia di milioni in Russia). Queste cifre sono ancora nulla a paragone dell’avventura in Qatar dove l’Anas informa che la famiglia reale, guidata dall’emiro Tamim al Thani, programma investimenti in infrastrutture per 140 miliardi di dollari in vista dei mondiali di calcio del 2022. La manifestazione sportiva è contestatissima ma pecunia non olet e piatto ricco mi ci ficco.

L'Ar Wakrah Stadium in Qatar costruito per ospitare i Mondiali 2022. In realtà gli incassi sono ampiamente inferiori agli annunci. In Qatar Anas assiste Ashghal, l’authority dei lavori pubblici locale, nella preparazione dei capitolati di progettazione con una commessa che era già stata firmata nel 2012 e che valeva 50 milioni in sette anni. I ricavi Aie del 2018, in aumento rispetto agli anni precedenti, sono poco al di sotto dei 9 milioni di euro con perdite per 7,5 milioni sulle quali incidono i costi del personale (3,7 milioni di euro). Nel biennio 2019-2020, sterilizzate le emorragie principali, ci dovrebbero essere perdite aggregate per altri 2 milioni di euro. Allora perché è stata tenuta in piedi Aie? Armani stesso, in un’intervista all’Espresso dell’ottobre 2015, aveva manifestato perplessità sulla struttura e aveva abolito la figura del direttore generale, occupata da Fabrizio Averardi Ripari coinvolto nell’inchiesta fiorentina sul sistema delle opere pubbliche.

Sono Omar, risolvo problemi. La ristrutturazione targata Armani si orienta verso la creazione di società all’estero ma va subito incontro a qualche difficoltà. Per l’Atg di Doha Magrì decide di ricorrere a Vittone, aostano di 49 anni, che al primo punto del suo curriculum indica appunto “spiccate doti di problem solving”. Laureato in scienze politiche alla Cattolica di Milano, Vittone è capo della sicurezza ai Giochi Mondiali militari disputati in Val d’Aosta nel 2010. A marzo del 2012 debutta nel mondo delle concessionarie come amministratore del Rav, il raccordo autostradale della Val d’Aosta gestito da Atlantia. La Stampa titola: alla Rav serve il reduce dell’Iraq, sottolineando che Vittone fa parte dell’associazione volontari di Stay behind definita “discussa formazione paramilitare top secret”. Il presidente dell’associazione, Antonio Sanviti, querela il giornale che avrebbe diffamato i gladiatori. Terminato il mandato in Rav, nel maggio 2015 Vittone diventa presidente della società del traforo del Monte Bianco (Sitrasb), controllata dalla regione. Il consigliere Alberto Bertin trova da eccepire sulle qualifiche professionali nel mondo autostradale dell’esperto di intelligence, tanto più che Vittone ha amministrato Rav vivendo in Guinea Conakry dal 2011 al 2014. Il governatore Augusto Rollandin, condannato in primo grado a quattro anni e sei mesi per corruzione a marzo di quest’anno, risponde che Vittone era nel paese africano “per collaborare a progetti di volontariato”. Bertin replica che non dubita delle capacità di Vittone di gestire il traforo: “è stato talmente bravo che l’ha fatto dalla Guinea, un esperto in trasporti, addirittura di teletrasporto”. L’ironia del consigliere non turba Vittone che resta in carica in Sitrasb fino a novembre 2017, poco prima che venga fondata l’Atg a Doha e che l’esperto di intelligence vi venga destinato. Dal parere pro veritate chiesto da Aie risulta però che, a dispetto della retribuzione “Vittone non ha in effetti mai operato in Qatar non avendo conseguito il necessario ID (documento di identità locale)”.

Il console onorario. Forse a San Marino non lo sanno perché il 14 maggio 2018 il Congresso di Stato della Repubblica del Titano nomina Vittone console onorario in Qatar e la camera di commercio locale lo delega agli affari internazionali con l’obiettivo di partecipare agli appalti del Mondiale 2022. A San Marino Vitone, che fa parte dell’Icrim, il centro di ricerca sul management della Cattolica, organizza incontri tra l’ateneo e il segretario di Stato allo sport per inserire la piccola repubblica nella Summer school in football stadia management, non proprio una priorità visto che l’impianto maggiore del Titano, ribattezzato San Marino Stadium, ha una capienza intorno ai 5 mila posti.

Il rapporto di lavoro fra l’esperto di intelligence e Aie si conclude il 30 maggio 2018 su decisione di Magrì al quale oggi Anas rimprovera di non avere osservato “le procedure interne di selezione del personale”. Ne consegue “la responsabilità risarcitoria di Magrì” verso la capogruppo.

A dispetto delle critiche sulla sua gestione di Aie, Magrì è ancora direttore generale di Sitaf, la società concessionaria del traforo del Frejus dov’è entrato nel 1996 come direttore tecnico. Il padre Ennio, classe 1933, è uno dei più noti avvocati amministrativisti d’Italia con lo studio Msa (Magrì Sersale Ambroselli) fondato a Napoli nel 1960. Nel 1970 lo studio ha aperto una sede a Roma dedicata ai rapporti con la pubblica amministrazione e un’altra nel 2000 a Milano con specializzazione nel project financing. Padre e figlio sono soci di una srl, la Servizi legali. Magrì senior, che era in ottimi rapporti con lo storico numero uno di Sitaf Felice Santonastaso, ex Iri-Italstat scomparso nel 2014, ha patrocinato Sitaf almeno fino al 2017 in una causa civile definita dalla Cassazione.

Braccio di ferro con Gavio. Il groviglio di interessi familiari e societari è complicato dalla situazione particolare della società che gestisce il traforo del Frejus e la Torino-Bardonecchia. Al momento, il controllo è dell’Anas, e dunque delle Fs guidate da Gianfranco Battisti, perché la società pubblica ha rilevato le quote del Comune e della provincia di Torino per un complessivo 19 per cento del capitale alla fine del 2014. Il gruppo Gavio, azionista di minoranza, ha contestato l’acquisto al Tar, che ha bocciato il ricorso due volte. Il consiglio di Stato, invece, ha dato ragione a Beniamino Gavio e, alla fine di ottobre, ha ordinato alla città metropolitana di Torino di revocare la cessione e mettere a gara il 19 per cento del capitale Sitaf, con la possibilità che il gruppo di Castelnuovo Scrivia, forte di 850 milioni incassati dai francesi di Ardian in cambio della maggioranza, faccia un’offerta vincente e si garantisca il controllo del Frejus. La situazione sembra intricata? Lo è. Ricapitolando, Magrì è figlio di un legale difensore della controllata Anas Sitaf di cui è direttore generale. Ma è anche manager del gruppo Gavio che è in contenzioso con Anas per strapparle il controllo di Sitaf. Fino ad aprile del 2019 il manager napoletano è stato anche ad di Tecnositaf Gulf che è stata la prima società del gruppo Anas-Sitaf ad aprire bottega in Qatar (2016) in partnership con una società locale (Gulf business development). Tecnositaf Gulf partecipa alla realizzazione del tunnel Dukhan in Qatar e del tunnel Saadiyat che collega il centro di Abu Dhabi con l’isola dove sorgono il Louvre e il Guggenheim degli Emirati. Amministratore delegato di Tecnositaf Gulf è Raymond Mikhael, cittadino libanese e fratello di Georges, azionista di Defendini logistica, presidente dell’aostana Sav (gruppo Gavio), consigliere di amministrazione di Terna interconnector e di Transenergia insieme allo stesso Bernardo Magrì oltre che della Ragusa-Catania di Vito Bonsignore, recentemente statalizzata con un versamento che si aggirerebbe intorno ai 40 milioni di euro. Secondo un’interrogazione parlamentare grillina del 18 novembre 2018, è grazie alle conoscenze di Georges e Raymond Mikhael che Paolo Massimo Armani, fratello maggiore dell’ex ad Anas, è arrivato alla guida della società libanese Scale up del gruppo Al Yafi. Insomma, non è tanto che il mondo è piccolo. È che è pieno di fratelli.

Dagospia l'1 dicembre 2019. Lettera di Luciano Benetton ai quotidiani italiani. Gentile Direttore, la ringrazio per avere ospitato questo mio scritto. Trovo necessario fare chiarezza su un grande equivoco, nessun componente la famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade. La famiglia Benetton è azionista al 30% di Atlantia che a sua volta controlla la società Autostrade. Atlantia è una azienda quotata in borsa che ha il 70% di azionisti terzi, nazionali e internazionali, tra cui sono presenti importanti fondi sovrani e investitori a lungo termine, che nulla hanno a che vedere con la famiglia Benetton. Le notizie di questi giorni su omessi controlli, su sensori guasti non rinnovati o falsi report, ci colpiscono e sorprendono in modo grave, allo stesso modo in cui colpiscono e sorprendono l' opinione pubblica. Ci sentiamo feriti come cittadini, come imprenditori e come azionisti. Come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa. Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di avere contribuito ad avallare la definizione di un management che si è dimostrato non idoneo, un management che ha avuto pieni poteri e la totale fiducia degli azionisti e di mio fratello Gilberto che, per come era abituato a lavorare, di sicuro ha posto la sicurezza e la reputazione dell'azienda davanti a qualunque altro obiettivo. Sognava che saremmo stati i migliori nelle infrastrutture. Non cerco indulgenza per Autostrade, chi ha sbagliato deve pagare, ma quello che trovo inaccettabile, è la campagna di odio scatenata contro la nostra famiglia, con accuse arrivate da subito e che continuano tutt' ora con veemenza da parte di esponenti del governo, come l' onorevole Di Maio, che addita la famiglia come fosse collusa nell' avere deciso scientemente di risparmiare sugli investimenti in manutenzioni. In pratica come fosse malavitosa. Questo è inaccettabile, chi ci conosce sa come lavoriamo, basta guardare i risultati ottenuti con Autogrill o l' aeroporto di Roma, due realtà che sono diventate leader a livello internazionale. Siamo azionisti di lungo periodo che si sono sempre posti come obiettivo la crescita del valore delle aziende tenuto conto dell' interesse di tutti, utenti, clienti, lavoratori, investitori e azionisti. Non cerco giustificazioni, da quanto sembra l' organizzazione di Autostrade si è dimostrata non all' altezza, non è stato mantenuto il controllo necessario su tutti i settori di un sistema così complesso. Una struttura è fatta di uomini e qualche mela marcia può celarsi dappertutto. Leggere di intercettazioni tra tecnici che falsificano delle relazioni è inconcepibile, a chi giova mettere a rischio le strutture? A chi? Per risparmiare cosa? Quando il rischio è tale che qualsiasi risparmio ne verrebbe annientato, come dimostra il caso del ponte Morandi. È una domanda a cui non riesco a rispondere. Noi ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso con rapidità e si possano finalmente dare risposte chiare a tante domande. Nel frattempo mi appello alle istituzioni e ai media affinché trovino il giusto linguaggio per trattare questi argomenti, la scelta del capro espiatorio da linciare sulla pubblica piazza è la più semplice ma anche la più rischiosa. Chi come noi fa impresa e ha la responsabilità di decine di migliaia di dipendenti si aspetta serietà, soprattutto dalle istituzioni, serietà non indulgenza.

La replica: "Ridicoli, avanti su revoca concessione". Luciano Benetton, lettera e polemiche: “Autostrade, mele marce ci sono ovunque”. Il Riformista l'1 Dicembre 2019. Polemiche per la lettera inviata dalla famiglia Benetton, proprietaria della società che gestisce Autostrade, a diversi quotidiani. Nella missiva la società si scaglia contro la gogna mediatica ricevuta in questi ultimi anni dopo la tragedia del Ponte Morandi a Genova. “Oggi leggo una lettera surreale di Luciano Benetton in cui prende le distanze da Autostrade. Ma vi pare possibile? È ridicolo. Ditemi voi se è normale che a un anno e mezzo di distanza dalla tragedia del Ponte Morandi, l’uomo che per primo si è arricchito alle spalle degli italiani chiudendo un occhio sui mancati interventi di manutenzione da parte della sua società, oggi si improvvisi in un appello alla pace e al bene. Contro le campagne d’odio, come ha detto lui stesso”. Così su Facebook Luigi Di Maio, capo politico del Movimento Cinque Stelle. “Perché Luciano Benetton non va a dirlo alle famiglie delle vittime del Ponte Morandi? Perché non si spese allo stesso modo per scusarsi? Perché non è intervenuto prima quando perizie, indagini e approfondimenti hanno rivelato dettagli sconcertanti anche su un “rischio crollo” già comunicato anni prima e ignorato dalla sua società? – aggiunge – Guarda il caso, i Benetton alzano la voce proprio ora che sentono di poter perdere i loro contratti milionari, ottenuti grazie al silenzio di una classe politica complice e inadeguata. Le famiglie delle vittime del Ponte Morandi chiedono e devono avere giustizia. Sulla revoca della concessione tireremo dritti”, assicura Di Maio.

LA LETTERA – La lettera è stata inviata dalla famiglia Benetton a diversi quotidiani. Il testo: “Trovo necessario fare chiarezza su un grande equivoco, nessun componente la famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade. La famiglia Benetton è azionista al 30 per cento di Atlantia che a sua volta controlla la società Autostrade. Atlantia è una azienda quotata in borsa che ha il 70 per cento di azionisti terzi nazionali e internazionali, tra cui sono presenti importanti fondi sovrani e investitori a lungo termine, che nulla hanno a che vedere con la famiglia Benetton”. “Le notizie di questi giorni su omessi controlli – spiega Luciano Benetton -, su sensori guasti non rinnovati o falsi report, ci colpiscono e sorprendono in modo grave, allo stesso modo in cui colpiscono e sorprendono l’opinione pubblica. Ci sentiamo feriti come cittadini, come imprenditori e come azionisti. Come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa”, aggiunge. “Non cerco indulgenza per Autostrade, chi ha sbagliato deve pagare, ma quello che trovo inaccettabile, è la campagna di odio scatenata contro la nostra famiglia, con accuse arrivate da subito e che continuano tutt’ora con veemenza da parte di esponenti del governo, come l’onorevole Di Maio, che addita la famiglia come fosse collusa nell’aver deciso scientemente di risparmiare sugli investimenti in manutenzioni. In pratica come fosse malavitosa. Questo è inaccettabile, chi ci conosce sa come lavoriamo, basta guardare i risultati ottenuti con Autogrill o l’aeroporto di Roma, due realtà che sono diventate leader a livello internazionale”, argomenta ancora. “Non cerco giustificazioni, da quanto sembra l’organizzazione di Autostrade si è dimostrata non all’altezza, non è stato mantenuto il controllo necessario su tutti i settori di un sistema così complesso. Una struttura è fatta di uomini e qualche mela marcia può celarsi dappertutto”, prosegue Benetton. “Noi ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso con rapidità e si possano finalmente dare risposte chiare a tante domande. Nel frattempo mi appello alle istituzioni e ai media affinché trovino il giusto linguaggio per trattare questi argomenti, la scelta del capro espiatorio da linciare sulla pubblica piazza è la più semplice ma anche la più rischiosa. Chi come noi fa impresa e ha la responsabilità di decine di migliaia di dipendenti si aspetta serietà, soprattutto dalle istituzioni, serietà non indulgenza”, conclude.

FRATELLI D’ITALIA: “BENETTON SI SMENTISCE DA SOLO” – “Luciano Benetton scrive ai quotidiani una lettera per prendere le distanze dalla gestione di Autostrade ma si smentisce da solo. Benetton dichiara infatti: “Trovo necessario fare chiarezza su un grande equivoco, nessun componente la famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade. La famiglia Benetton è azionista al 30 per cento di Atlantia che a sua volta controlla la società Autostrade”. Quindi l’azionista di maggioranza di Atlantia non sarebbe responsabile della gestione delle società controllate da Atlantia. Peccato che nella stessa lettera Benetton sostenga esattamente l’opposto scrivendo che: “chi ci conosce sa come lavoriamo, basta guardare i risultati ottenuti con l’aeroporto di Roma”, che, però è al 95% controllato da Atlantia ed è, come Autostrade, una generosissima concessione di un bene pubblico che frutta miliardi ai fortunati azionisti. Quindi come funziona la cosa? La famiglia Benetton è responsabile o no della gestione delle società del gruppo Atlantia? Perché non si può dire tutto e il contrario di tutto nella stessa lettera di autoassoluzione”. È quanto dichiara il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. “Gli italiani sono stanchi di farsi prendere in giro. I contratti capestro delle attuali concessioni pubbliche delle autostrade e degli aeroporti sono una vergogna indegna di una nazione civile alla quale bisogna mettere rimedio al più presto”, aggiunge.

I Benetton si sentono vittime del Ponte Morandi. Con una lettera pubblicata dai quotidiani la famiglia Benetton si dissocia da quanto accaduto il 14 agosto 2018 a Genova, come fosse colpa di altri. Maurizio Belpietro il 2 dicembre 2019 su Panorama. Ieri abbiamo scoperto che Luciano Benetton, il patriarca di una famiglia che ha fatto fortuna con le maglie colorate e ne ha fatta ancora di più grazie a una concessione pubblica, è stato azionista della società Autostrade per decenni, ma a sua insaputa. Anzi, all'insaputa di tutti i suoi fratelli i quali, pur essendo proprietari dell'azienda, non si sono mai occupati né di caselli né di pedaggi, ma soprattutto in tutta la loro vita non hanno avuto a che fare con i ponti e con la manutenzione delle rete viaria. A fine esercizio, i quattro Benetton incassavano laute cedole da Autostrade, che poi servivano a foraggiare l'intera dinastia, ma senza comprendere come queste venissero generate. Perché l'anziano imprenditore abbia deciso di scrivere una lettera ai giornali un anno e mezzo dopo il crollo del ponte, ci è incomprensibile. Soprattutto fatichiamo a capire perché, per dire una cosa così semplice, ovvero che nonostante la famiglia abbia festeggiato il Ferragosto a Cortina il giorno dopo la strage del Morandi, l'azienda non può essere considerata responsabile né moralmente né patrimonialmente di 43 morti, Luciano Benetton ci abbia messo 480 giorni. Un anno e tre mesi e mezzo per non scusarsi e nemmeno per promettere di aiutare le famiglie rimaste senza casa e quelle private dei congiunti. Eppure era la cosa più logica da farsi, ovvero chiedere scusa e metterci la faccia, oltre che il portafogli. Nessuna lacrima versata sui poveri corpi senza vita avrebbe ovviamente resuscitato i morti o anche solo alleviato le responsabilità penali di chi aveva mancato di vigilare. Tuttavia, uscire dalle proprie lussuose ville e rimettere piede a terra dopo una vacanza a bordo del proprio panfilo sarebbe stato utile, per lo meno per avvicinare l'azienda alle famiglie delle vittime. Invece, come tutti ricorderanno, la prima scelta di Autostrade fu quella di negare qualsiasi responsabilità nel crollo. Il ponte era venuto giù da solo, per colpa propria, travolgendo la vita di 43 persone. Nessuna responsabilità dunque poteva essere accollata a chi per anni aveva gestito l'autostrada, incassandone il pedaggio.

Giuseppe Salvaggiulo e Matteo Indice per ''La Stampa''  l'8 dicembre 2019. «Ingegner Castellucci, grazie per aver accolto il nostro invito, per averci dato la possibilità di avere informazioni in più, che ci aiutino a capire questa disgraziata vicenda». È il 13 settembre 2018: la commissione del ministero delle Infrastrutture che indaga sul crollo del Ponte Morandi, che un mese prima ha causato 43 morti, si trova davanti l' amministratore delegato di Autostrade per l' Italia. È la prima volta che Giovanni Castellucci rende un' audizione. E sarà anche l' ultima: come molti altri indagati della società, davanti ai magistrati si avvarrà della facoltà di non rispondere. Ma in quei giorni manager e tecnici non possono sottrarsi alle domande e alle contestazioni degli esperti del ministero. Sono gli uomini di punta di Autostrade. E parlano senza rete e senza avvocati, forti dei «pieni poteri» e della «totale fiducia» degli azionisti che verrà meno solo 14 mesi dopo, cioè domenica scorsa, quando il patron Luciano Benetton, in una lettera aperta, ha definito il management di Autostrade «non idoneo» e l' organizzazione «non all' altezza», perché «una struttura è fatta di uomini e qualche mela marcia può celarsi dappertutto». I verbali, acquisiti dalla Procura di Genova e di cui La Stampa può rivelare il contenuto, ricostruiscono la catena di comando di Autostrade. Il parto del progetto mai attuato di ristrutturazione dei tiranti sul Morandi. Le segnalazioni di pericolo, ignorate. Il dispositivo di sicurezza su quello e altri 2000 ponti in tutta Italia. Le ambiguità tra Aspi e l' azienda consorella Spea, cui erano delegate le verifiche di sicurezza. Le reticenze. Lo scaricabarile. Ma anche la voce fuori dal coro di un dirigente di punta della società. Il primo e l' unico a rivelare che le segnalazioni di rischio sui viadotti «per prassi» dovevano essere riferite «anche direttamente ad Autostrade». A definire «assurdi» gli errori nelle schede tecniche. A confermare che i rilievi nella relazione allegata al progetto mai attuato avrebbero meritato «un approfondimento». A riconoscere che per il principale concessionario autostradale del Paese sul fronte della sicurezza «c' è qualcosa che non va».

"Ta-ta-ta-tà". Castellucci è sulla difensiva. Misura le parole. Tiene la linea. Dice di non voler «interferire con le indagini». Sostiene di aver saputo dei lavori sul Morandi «solo quando il progetto ci è stato presentato in Consiglio d' amministrazione», definendolo «un piccolo investimento» da 20 milioni. Precisa che la delibera del Cda non rappresenta «un' approvazione del progetto» dal punto di vista tecnico, e così esclude qualsiasi ipotesi di consapevolezza delle più urgenti criticità sul ponte in seguito collassato. Poi racconta, con qualche semplificazione onomatopeica, la seduta che diede l'ok al restyling. «Donferri (Michele, allora supercapo delle manutenzioni, ndr) venne invitato in via straordinaria a illustrare il progetto (...). È un' opera strategica, situata all' inizio dell' autostrada, ne dà un'indicazione generale, ta-ta-ta-tà».

Dati inquietanti. Castellucci nega una particolare «esigenza» di sicurezza per intervenire sul Morandi, sebbene al dossier sulla ristrutturazione fosse allegato qualche dato preoccupante. Definisce il progetto «un intervento preventivo che nasceva da un obiettivo di miglioramento della qualità e della durata di vita» dell' infrastruttura. E in ogni caso, risponde ai commissari che lo incalzano, l' amministratore delegato nulla c' entra perché «il piano delle manutenzioni straordinarie è un qualcosa che potete chiedere a Berti (Paolo, in quel momento direttore centrale operativo, il numero tre dell' azienda ndr). È la sua struttura che lo sviluppa e aggiorna (...) sulla base delle verifiche, dei monitoraggi e nasce da un forte coinvolgimento delle direzioni di tronco, oltre che delle direzioni centrali, e si tende a responsabilizzare molto le strutture nel fare quello che è necessario». Alla domanda se Autostrade abbia fatto quello che era in suo potere per garantire la tenuta del ponte, Castellucci fa muro: «Ritengo che la domanda sia generica». La commissione lamenta che «questa risposta probabilmente poteva essere accettata due mesi fa, ma ora no» perché il Paese reclama «un' assicurazione in ordine al fatto che avete capito qual è il problema, l' avete rimosso e ora siete tecnicamente certi che non si verificheranno più questi disastri». «Non sono un tecnico - è la risposta di Castellucci - so solo dire che il Polcevera era un ponte su cui c' erano monitoraggi, i risultati erano noti, erano condivisi e chi aveva fatto monitoraggi non aveva evidenziato elementi di criticità. Il Morandi è un ponte ad hoc, lo potrà confermare anche l' ingegner Berti che non ci sono problematiche analoghe altrove». In ogni caso, «non esiste una strategia che limita gli investimenti». In realtà le carte in mano alla commissione, e ancor più quelle successivamente raccolte da Procura e Finanza, dimostrano che esistevano sia «elementi di criticità» sul Morandi che «problematiche analoghe» su altri viadotti. E le intercettazioni fanno ipotizzare una strategia di riduzione degli investimenti in sicurezza. Dunque Castellucci si fa scudo di Berti. Un super-manager con competenze tecniche. Sa tutto lui. Invece, ascoltato lo stesso giorno dalla commissione, Berti inanella una serie di 20 «no», «non so», «non mi risulta», «non ricordo», «non l' ho letto».

La messa in sicurezza dei viadotti è stata vagliata dal Comitato grandi opere?

«Che mi risulti no».

Sa perché il progetto definitivo di messa in sicurezza del Morandi non è mai stato all' attenzione della direzione generale del ministero?

«Non lo so».

Ha mai saputo dei deficit strutturali evidenziati dal progetto?

«No. A me segnali evidenti di questi deficit non sono mai giunti».

Ha mai letto il rapporto di validazione del progetto esecutivo, che conteneva 62 osservazioni?

«Non l' ho mai letto».

Il Polcevera aveva dei deficit anche sulle travate dall' 1 all' 8: questa notizia le è mai arrivata?

«No».

La sua società ha mai prodotto un' analisi di rischio sul viadotto Polcevera?

«Non lo so».

Lei viene presentato dal Cda come uno dei progettisti: lo conferma?

«Assolutamente no».

Esiste una struttura che approva i progetti?

«Non lo so dire con precisione».

Solo su un punto Berti è assertivo: «Per quanto riguarda il sistema di monitoraggio dei ponti, tutta questa pericolosità io non la percepisco. C' è un sistema molto valido». La filiera del management che reggeva le sorti di 3000 chilometri di autostrade italiane, per come emerge dalle audizioni, è chiara: Castellucci-Berti-Donferri. Amministratore delegato-direttore operativo-direttore manutenzioni. Tutti indagati a Genova per disastro e omicidio plurimo colposo. Oggi nessuno dei tre fa più parte dell' azienda. Castellucci ha lasciato Autostrade a inizio anno a la Holding Atlantia due mesi fa, con una buonuscita di 13.095.675 euro. Nello stesso periodo Berti e Donferri sono stati formalmente licenziati e l' azienda non ha voluto precisare se a fronte di buonuscite e accordi di riservatezza.

"Andreotti insegna". Al di là dei verbali della commissione ministeriale, Berti e Donferri non hanno mai rilasciato dichiarazioni pubbliche. Raccontano qualcosa le intercettazioni. L' 11 gennaio 2019 si conclude il processo in primo grado per la strage di Acqualonga (Avellino). Nel luglio 2013, da un viadotto della Napoli-Canosa, anche a causa delle protezioni insufficienti, precipitò un bus di pellegrini: 40 morti. Berti viene condannato insieme ad altri cinque dirigenti e tecnici di Autostrade a 5 anni e mezzo di carcere. Castellucci, per cui la Procura aveva chiesto 10 anni, viene assolto. Nessuno dall'azienda si fa sentire e Berti, tre giorni dopo la sentenza, telefona a Donferri. Con il suo fedelissimo si sfoga. Chiama in causa Amedeo Gagliardi, direttore legale di Autostrade. «Quello meritava una botta - dice -. Meritava che mi alzassi una mattina e andassi a dire la verità. Così proprio lui lo ammazzavo credimi, era l' unica soddisfazione che avevo». Donferri lo calma: «Devi stare tranquillo perché comportandoti così hai la possibilità di trovare un accordo con questa gente. Che tacciano pure, ma un accordo devi trovarlo. Su questo devi riflettere (...) voglio dire, Andreotti insegna. Se non puoi ammazzare il nemico, te lo fai amico». E in un altro passaggio gli ripete «ora puoi fare l' accordo con il capo». Che, secondo gli inquirenti, sarebbe proprio Castellucci.

L' ultimo anello della catena. Poiché la triade di manager scarica la responsabilità della sicurezza dei viadotti sulle direzioni di tronco, gli esperti del ministero convocano Stefano Marigliani. Capo del nodo genovese quand' è crollato il Morandi, anch' egli indagato, sarà successivamente trasferito a Milano. Alla commissione spiega: «Mi sono insediato nel 2016. Per il tronco di Genova praticamente Autostrade sono io». Ma sul progetto di retrofitting strutturale del Morandi non sa nulla, perché da una parte «il committente è la struttura di manutenzione della direzione generale», dall' altra «il percorso di sorveglianza è affidato dalla mia direzione a Spea», la società del gruppo a cui erano delegate ispezioni e verifiche sulle infrastrutture, estromessa due mesi fa dopo le accuse della Procura sui falsi report. «Le strutture tecniche, come la direzione di tronco, elaborano i dati già forniti e sintetizzati da Spea. La sorveglianza è affidata a Spea ed è il primo soggetto che valuta, interpreta, sintetizza, svolgendo le ispezioni con i mezzi speciali». Marigliani spiega così il dispositivo di sicurezza: «La prima cosa di cui io prendo visione è un voto assegnato all' opera» e sul Morandi «non ho avuto indicazioni che ci fosse un adempimento incompiuto. In altri casi dove il sistema di voti mi aveva dato evidenze, sono intervenuto: quando mi sono insediato mi hanno detto che i tiranti erano sorvegliati, mai ho avuto un campanello d' allarme». La commissione si rivolge allora a Massimiliano Giacobbi, direttore tecnico Spea che successivamente, indagato per il crollo del Morandi e nell' inchiesta bis sui falsi report, finirà per un periodo agli arresti domiciliari. Giacobbi è l' unico che si presenta accompagnato da un avvocato. «La vigilanza e il controllo sul Polcevera li abbiamo fatti noi - spiega - ma non ci compete programmare interventi di manutenzione. Con le ispezioni viene alimentata una banca dati creata da Autostrade. La sintesi ragionata dei report post-ispezioni veniva mandata alla direzione di tronco, dal 2013 al 2015 in copia alla direzione centrale di Roma. Noi compiliamo la scheda, diciamo ad Autostrade: questo è lo stato dell' opera, dopodiché non è compito di Spea e non è nel mandato di Spea dire "devi intervenire o meno" anche sulla chiusura al traffico. Sono tutte costruzioni che fa Autostrade, che ha la sua struttura per valutare. Noi mandiamo tutto ad Autostrade». Il cerchio dello scaricabarile sembra chiudersi. Castellucci si scherma con i superdirigenti Berti e Donferri. Berti oppone «non so» e «non ricordo». Donferri si dilunga in tecnicismi. Tutti e tre evidenziano il ruolo cruciale della direzione di tronco, il cui capo dice che in realtà il polso della sicurezza lo aveva Spea. Che, per bocca del direttore tecnico, restituisce il cerino ad Autostrade.

"C' è qualcosa che non va". Sono strategie difensive già evidenziate nel processo di Avellino, nell' ambito di quella che Castellucci definisce «azienda a rete». Ma il meccanismo si inceppa quando viene chiamato a testimoniare Alberto Selleri, responsabile della direzione realizzazione nuove opere di Autostrade, distaccato a Genova per seguire il progetto della Gronda. Manutenzione e nuove opere sono, nell' azienda, «due silos separati, con due approcci diversi». Non indagato e non coinvolto nel crollo del Morandi, Selleri è un ingegnere di punta della società. Ha anche lavorato in Spea e smentisce i dirigenti attuali spiegando che quando dopo le verifiche «non tornano i conti», il progettista «normalmente alza la mano e dice c' è qualcosa che non va», risalendo la filiera dal capo dell' ufficio strutture al direttore tecnico «oppure direttamente ad Autostrade. La prassi è questa». Gli mostrano la scheda di valutazione sismica del Morandi, piena di «errori madornali che sarebbero accettabili su un ponticello su un ruscello» e lui risponde imbarazzato: «Mi sembra assurdo. Non so cosa dire. In effetti qui sembra un ponticello». Gli fanno vedere i coefficienti di sicurezza del progetto, «ottimisticamente sovrastimati», e Selleri non usa giri di parole: «Sulla sicurezza mi sembra che ci sia qualcosa che non funziona. Questa tabella avrebbe meritato un approfondimento». La commissione chiede a Selleri un ultimo conforto, «perché noi abbiamo un ingrato compito, leggendo queste carte redatte da colleghi. Ci stiamo sbagliando? Non abbiamo capito niente? Siamo tutti impazziti?». «Alla prima impressione direi di no».

Indagini sui report alterati sui viadotti: Atlantia sospende la liquidazione  dell’ex ad Castellucci. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Ecco perché il consiglio di amministrazione ha ritenuto prudenzialmente di sospendere il pagamento «in relazione agli elementi sopravvenuti emersi dalle indagini in corso da parte dell’autorità giudiziaria e indipendentemente dalla rilevanza penale degli stessi», quelli relativi alla costola dell’inchiesta principale della procura di Genova che ha evidenziato una serie di report alterati sullo stato dei viadotti con dichiarazione fraudolente al ministero dei Trasporti sugli interventi di manutenzione. «Il Consiglio di Amministrazione della Società - si legge nella nota emessa venerdì 13 dicembre - ha deliberato di sospendere il pagamento della seconda rata, in scadenza il 2 gennaio 2020, di cui all’Accordo di risoluzione consensuale sottoscritto con l’Ingegnere Castellucci in data 17 settembre 2019» (leggi l'articolo). Il board di Atlantia ha deciso anche di terminare l’esperienza del comitato esecutivo al timone della holding. Si legge nella nota: «Superata la iniziale fase di operatività del direttore generale, in data odierna il consiglio di amministrazione ha ritenuto di procedere a una riarticolazione dei poteri, revocando quelli temporaneamente conferiti al Comitato Esecutivo, che quindi terminerà le proprie funzioni». Si tratta di una semplificazione societaria al timone della holding infrastrutturale che preluderà nel primo trimestre dell’anno nuovo alla nomina di un amministratore delegato.

Ponte Morandi, nuove verità: “Aspi voleva risparmiare”. Antonella Ferrari il 04/12/2019 su Notizie.it.  Secondo quanto rivelato dalle indagini sul crollo del Ponte Morandi, i report sui rischi erano compilati seguendo logiche di risparmio. Proseguono le indagini sul crollo del Ponte Morandi e il Tribunale del riesame ha giustificato l’accoglimento della richiesta della Procura di interdire alcuni tecnici e dipendenti dalla professione definendo i falsi report sul viadotto un “falso estremamente pericoloso“. Dalle indagini sono infatti emersi dei report falsati rispetto al pericolo reale di crollo del Morandi: la mancata manutenzione ne ha causato il crollo il 14 agosto 2018.

Ponte Morandi: le accuse. “Aver riportato, anzi ricopiato, nei rapporti trimestrali i medesimi difetti e voti dei verbali precedenti, accampando la giustificazione che non si poteva entrare nei cassoni – argomentano i giudici -, integra una condotta di falso, per di più falso estremamente pericoloso“. Le motivazioni del Tribunale sono state rese note solo ieri, nonostante la sentenza sia stata pronunciata a novembre. Secondo i magistrati, “è stata fornita una posticcia copertura a gravissime inerzie, fonte di potenziali e rilevantissimi pericoli per la sicurezza dei trasporti e l’incolumità pubblica“.

“Aspi voleva risparmiare”. “Aspi e Spea – spiegano i giudici – paiono proiettati a una logica di risparmio sui costi di manutenzione per trasmettere l’immagine di efficienza della rete evitando sia impegnativi interventi di manutenzione sia drastiche decisioni dell’organo pubblico di controllo, come la chiusura di tratti autostradali“. Sarebbero proprio queste le condotte contestate dai giudici inserite in una logica di illeciti “dettata da motivi di stretta convenienza commerciale” che comprende “disinvolta attribuzione dei voti circa i difetti delle opere ammalorate e la radicale omissione di ispezioni significative finendo per occultare situazioni concretamente pericolose“.

Ettore Livini per ''la Repubblica'' l'1 dicembre 2019. La stretta del governo sulla revoca delle concessioni autostradali costa un miliardo in tre giorni ad Atlantia e convince la prima agenzia di rating ad accendere un faro sulla "pagella" del gruppo per una possibile bocciatura. Il titolo della holding controllata dai Benetton ha perso da mercoledì scorso il 7% e il valore della società a Piazza Affari è sceso in 72 ore da 17,9 a 16,8 miliardi di euro. E Fitch venerdì sera ha messo sotto osservazione il "voto" del gruppo per un possibile declassamento dopo le «dichiarazioni Giuseppe Conte sulla possibile risoluzione anticipata» della convenzione con Autostrade per l' Italia (Aspi) e in seguito «all' ulteriore tensione tra la società e il governo» a causa del ritiro dalla partita Alitalia. Il programma dell' esecutivo giallorosso prevede in teoria solo una "revisione" degli accordi con Atlantia. Ma nelle ultime settimane la posizione della società è decisamente peggiorata: prima per le indiscrezioni sui report "addomesticati" sui viadotti emerse durante l' inchiesta della Procura di Genova. Un fatto - ammette lo stesso Luciano Benetton nella lettera qui a fianco - «inconcepibile ». Ad aggravare le cose sono arrivati poi i problemi di manutenzione che hanno portato alla chiusura temporanea della A26. Un uno-due che ha convinto anche le "colombe" nel Pd a esaminare con più attenzione la possibilità della revoca della concessione, da sempre un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Il problema è come. Il testo della convenzione - blindato in Parlamento con la legge Salva-Benetton del 2008 dal governo Berlusconi (Lega compresa) - è chiaro: se il governo decide unilateralmente di togliere i caselli ai Benetton, deve pagare un indennizzo proporzionato alla durata residua del contratto (il 2042). Valore: 20 miliardi circa, da sborsare anche se la magistratura provasse che Aspi è responsabile della tragedia del Ponte Morandi. La holding di Ponzano Veneto invece se la caverebbe con una penale tra gli 1,5 e i 2 miliardi anche se fosse provata la sua "grave inadempienza". È possibile evitare questo salasso per le casse dello Stato? Gli esperti cui il ministero dei Trasporti ha affidato una radiografia del contratto, sostengono di sì. Ma hanno lo stesso suggerito al governo di cercare «una soluzione negoziale» perché i prevedibili ricorsi legali di Atlantia potrebbero comportare penali «di importo molto elevato», al punto «di mettere a rischio i saldi di finanza pubblica». I pontieri che spingono per il compromesso hanno già individuato un possibile terreno di intesa: una sorta di "maxi-compensazione per gli italiani", come la chiamano loro, per cui il gruppo dei Benetton accetterebbe un taglio alle tariffe e un deciso colpo di acceleratore agli investimenti, salvando così lo status quo sulla gestione della rete. Il premier Conte starebbe però valutando un' altra ipotesi: la cancellazione (in gergo tecnico la "delegificazione") della legge del 2008. Obiettivo: revocare la concessione senza penali - magari dopo una sentenza di primo grado contro Atlantia, come consentito dal codice dei contratti. E qualcuno nelle file dell' esecutivo ritiene sufficienti per procedere già ora le condanne a 6 dirigenti Aspi per l' uscita di strada di un bus sull' A16 vicino ad Avellino del 2013 che ha causato la morte di 40 persone. Si vedrà. Di sicuro, in attesa di una soluzione che potrebbe arrivare la prossima settimana e nella certezza di una durissima battaglia legale prossima ventura, infuria la polemica politica. I grillini hanno trasformato la vicenda Aspi in un vessillo elettorale: il Blog delle Stelle ha sferrato ieri l' ennesimo durissimo attacco alla società accusandola di «aver frenato gli investimenti mentre utili e ricavi sfrecciavano». Matteo Salvini ha ribadito ieri che la Lega non si è mai messa di traverso al ritiro della licenza, punzecchiando però le indecisioni di Conte e Luigi Di Maio: «È più di un anno che vanno avanti con revoca sì, revoca no, revoca forse - ha detto - e il risultato è che non c' è manutenzione e vengono chiusi i tratti autostradali. Quindi scelgano, o sì o no. Sono al governo e facciano qualcosa».

Frane e alluvioni, l'Italia annega. Italia Paese dei disastri, 9mila opere bloccate per mancanza fondi. Deborah Bergamini il 30 Novembre 2019 su Il Riformista. Allagamenti, frane, esondazioni, interruzioni di strade e viadotti che crollano. Da Nord a Sud, ormai, è un bollettino di guerra. È davvero incredibile che un Paese avanzato come l’Italia, al settimo posto nella classifica dei Paesi più industrializzati del mondo, si ritrovi sistematicamente a rincorrere l’emergenza, incapace di predisporre una programmazione efficace della gestione del proprio territorio e delle proprie infrastrutture. Siamo un Paese sempre disunito a causa delle contrapposizioni interne – che prevalgono inesorabili sulla concretezza necessaria a gestire fenomeni complessi –  ma molto unito nell’abitudine a vivere in un perenne stato di emergenza, in convivenza con un remoto ma costante senso della tragedia incombente. Purtroppo gli eventi che si sono succeduti nei decenni – dal terremoto dell’Irpinia di 39 anni fa al crollo del Ponte Morandi nel giugno 2019 – sembrano non averci insegnato nulla. Si paga un notevole tributo di vite umane, si contano i danni, si annunciano piani straordinari e, con un ingente spreco di risorse pubbliche per la gestione delle emergenze, si lascia finire tutto nel dimenticatoio. Perché puntuali si presentano nuove emergenze. A fronte di fenomeni atmosferici che negli anni sono diventati sempre più imprevedibili e violenti, anche a causa dei cambiamenti climatici, i nostri territori sono sempre più esposti a rischio idrogeologico, con il 91% dei comuni e oltre 10 milioni di italiani esposti a un rischio elevato, ogni minuto della loro vita. Le mappature del rischio per provare a mettere in sicurezza il Paese ci sono, così come le risorse. Nel 2014 il governo Renzi, con il decreto Italia Sicura, stanziò 10 miliardi euro, nel 2017 il governo Gentiloni fece altrettanto con lo Sblocca Italia, nel 2018 il governo Conte I, con il Proteggi Italia, mise a bilancio 11 miliardi di euro e per  il 2020 altri 4 miliardi. Ma che fine hanno fatto tutte queste risorse, se è vero che sono stati spesi solo il 19% dei fondi? In quale degli infiniti rivoli burocratici e attendisti che dissanguano il Paese sono finiti? Si alternano i governi, cambiano i nomi dei decreti ma si continuano a rimandare gli interventi strutturali , anche quelli più urgenti, per mancanza di progetti esecutivi e per le maglie troppo strette della nostra architettura statale. Un cantiere su due è bloccato. E lo sport nazionale in tema di infrastrutture e territorio è diventato il rimpallo di responsabilità. C’è un elenco di oltre 9mila opere considerate indispensabili da regioni e autorità locali per difendere i territori da frane e allagamenti. Di queste solo 650 sono immediatamente cantierabili mentre le altre 8mila non hanno ancora il progetto esecutivo. Un cane che si morde la coda, perché se un’opera non ha il progetto non può naturalmente essere finanziata. Per non parlare dei tempi. In media, per la realizzazione di un’opera pubblica, secondo l’Agenzia per la coesione territoriale, trascorrono circa 12 anni per progetti fra i 50 e i 100 milioni di euro, che lievitano a oltre 15 anni e mezzo per opere il cui costo supera i 100 milioni. Inutile dire che negli ultimi anni i tempi di realizzazione, anziché accorciarsi, si sono ulteriormente allungati. Tutto accelera in questi tempi di grande sviluppo tecnologico, ma per le opere infrastrutturali e di tutela del territorio in Italia l’orologio procede al contrario. È evidente che siamo di fronte a un’urgenza improcrastinabile. Occorre al più presto un piano condiviso con gli enti locali che guardi più a lungo raggio. Occorre lo sblocco immediato dei cantieri, che consentirebbe finalmente di fare investimenti, attivare l’economia e creare occupazione. Occorre una Costituente per la ripartenza economica del nostro Paese che si focalizzi, oltre che sui nodi ben conosciuti legati alla oppressione fiscale e burocratica, su due elementi fondamentali: lo sviluppo delle infrastrutture e la modernizzazione dei cicli ideativi e produttivi  grazie ad un utilizzo massiccio della tecnologia digitale. Questa Costituente dovrebbe elaborare un piano di riattivazione economica ambizioso e condiviso, che ogni governo, di qualsiasi colore politico, dovrà poi impegnarsi a portare avanti in spirito di continuità. Potrebbe essere un modo per recuperare la capacità di immaginare il futuro e di prendersi delle responsabilità di fronte alle prossime generazioni, senza dover temere di cadere sotto il loro peso.

Senza fondi la Penisola affonda. C’erano soldi veri e c’era un piano contro il dissesto: Conte l’ha azzerato. Mauro Grassi su  Il Riformista il 26 Novembre 2019. Puntuale come tutti gli anni con l’arrivo delle piogge di novembre si apre la stagione dei disastri da dissesto idrogeologico. Con l’ingresso in un’era di cambiamento climatico, che è oramai a livello scientifico un dato assodato e non più un tema di discussione, la situazione non può che peggiorare. Sia per intensità, sia per imprevedibilità e sia per diffusione territoriale e temporale in aree del Paese dove magari il fenomeno appariva del tutto eccezionale e in stagioni che non si caratterizzavano per questo tipo di problematicità. Senza parlare del futuro già l’oggi appare decisamente critico per il paese. Secondo il Rapporto Ispra per il 2018 il tema del rischio idrogeologico appare nella sua evidente drammaticità. Se si considerano le classi di pericolosità elevata per le frane e media per le alluvioni, con tempo di ritorno tra 100 e 200 anni, i comuni interessati da aree a pericolosità sono 7.275 pari al 91,1% dei comuni italiani. La superficie delle aree classificate come pericolose in Italia ammonta complessivamente a 50.117 km2, pari al 16,6% del territorio nazionale. In termini di popolazione la pericolosità riguarda circa 1 milione e 300mila abitanti per le frane e circa 6 milioni e 200 mila abitanti per le alluvioni. Una situazione da mettere i brividi. Ma sembrerebbero brividi passeggeri se è vero che, passata la stagione delle piogge e quindi dei disastri, i governi dimenticano il rischio incombente e anche l’opinione pubblica, salvo i malcapitati toccati dai fenomeni più recenti, smettono di far pressione sulla politica. Il dibattito ritorna sui temi più in voga, magari sugli scontri verbali fra leader di diversa fede e ideologia, e il tema del rischio paese torna in sordina. Come ha fatto per tanto tempo. Ed è per questo che a fronte di danni per frane e alluvioni che, negli ultimi trent’anni senza andare troppo indietro, hanno raggiunto la rilevante cifra di oltre 3 miliardi e mezzo all’anno per perdite di patrimonio privato e pubblico, per lo più ricoperte dalla finanza pubblica, lo Stato si è impegnato nella prevenzione con appena 300 milioni all’anno. Un rapporto fra danni e prevenzione intorno a 11 volte. Lo Stato insomma, di fronte al “grande rischio idrogeologico” ha preferito rifondere i danni, contare le vittime, portare solidarietà alle comunità ma non ha fatto la cosa più sensata che era, come hanno fatto gli altri Paesi europei, un serio piano di prevenzione. Questo è l’andazzo del Paese che è stato interrotto nel 2014, prima col governo Renzi e di seguito col governo Gentiloni, con l’istituzione di #Italiasicura, la struttura di Missione presso la presidenza del Consiglio interamente dedicata alla prevenzione del rischio idrogeologico. Cioè una struttura al centro dell’organizzazione dello Stato, e quindi politicamente e amministrativamente legittimata a coordinare e indirizzare i diversi soggetti statali, regionali e locali che, qualche titolo e spesso in maniera frammentaria e completamente isolata, avevano una qualche competenza in termini di lotta al dissesto idrogeologico. Si parla di Comuni, Province, Regioni, Provveditorati delle opere pubbliche, Geni civili, Consorzi di Bonifica, Ministeri dell’Ambiente, delle Infrastrutture e anche dell’Interno, Dipartimento e Agenzia della Coesione, Invitalia e Sogesid, solo per citare i più importanti. Della struttura di Missione, azzerata nel 2018 dal governo gialloverde con un ritorno all’indietro che ha riportato all’ordinarietà, e potremmo dire al “solito tran tran”, quella che era stata impostata come politica di straordinarietà in un paese fragile e per troppo tempo lasciato all’incuria e all’eccessivo consumo di suolo, rimane l’idea di Piano. Il Piano è l’idea della prevenzione come cosa seria, continua e programmata per anni e anni e non come risposta impulsiva e, spesso inefficace, agli eventi disastrosi. Occorre sempre diffidare dei piani e pianetti, decreti e interventi lanciati sulla stampa a pochi giorni da un evento calamitoso. Quasi a ricordare una presenza dello Stato che si ricorda di esistere solo in seguito alla rabbia delle comunità colpite. E all’indignazione per solidarietà dell’opinione pubblica. Il Piano di #Italiasicura era, è ancora, uno strumento di lunga lena. Occorrono 31 miliardi per mettere in sicurezza il Paese. Certo non la sicurezza a rischio zero, che non esiste, ma la sicurezza di chi sa di aver fatto il fattibile per evitare i rischi maggiormente ricorrenti. E per fare in modo che il Piano venga realizzato in una ventina di anni occorre passare da una spesa di 300 milioni all’anno a una di 1 miliardo e mezzo l’anno. Una vera sfida che parte da una forte capacità progettuale, rinsecchita ahinoi negli anni di incuria, da un forte impegno finanziario e da una attenzione spasmodica a far diventare cantieri le risorse appostate. Questi tre obiettivi, la crescita progettuale, l’impegno finanziario e la spinta all’apertura dei cantieri, sono i pilastri di una seria politica contro il dissesto idrogeologico. E, prima dello scioglimento, #Italiasicura ha cercato di spingere in questa direzione. È stato realizzato un Fondo per la progettazione di 100 milioni, che si è incagliato per troppo tempo nelle maglie burocratiche del ministero dell’Ambiente, ed è stato prodotto un Piano finanziario di circa 7 miliardi in 7 anni che, sommati alle risorse già prima esistenti ma non spese, ha portato la disponibilità a circa 9 miliardi e mezzo. Insomma risorse adeguate per arrivare, con la spinta all’apertura più tempestiva dei cantieri, a quel miliardo e oltre di spesa annuale che è la base per una seria opera di prevenzione in Italia. Ma a fronte delle criticità sempre presenti nel Paese #Italiasicura aveva lanciato col supporto della Bei un ulteriore intervento direttamente indirizzato alle aree del Centro Nord che erano state meno interessate dalle risorse provenienti dai Fondi di coesione che vanno per la maggioranza nelle aree del Sud. Il Piano finanziato dalla Bei prevedeva 1 miliardo e 200 milioni con un prestito ventennale, facilmente sopportabile dalla finanza pubblica, e un tasso di interesse al di sotto dell’1%. Quindi con un costo inferiore a quello per l’approvvigionamento dei titoli di Stato. Con lo scioglimento di #Italiasicura anche il piano Bei è stato azzerato. Anche se mancava soltanto una firma. Il motivo esplicito del ministro dell’Ambiente è stato che “i soldi non mancano”. Una risposta giusta se si vuole restare nel solco dei 300 milioni o poco più all’anno invece completamente sbagliata se si vuole arrivare al miliardo e oltre l’anno che è l’unica garanzia di un Piano effettivamente realizzabile nei prossimi vent’anni. C’è chi ha tempo da aspettare. Le popolazioni martoriate ogni anno da alluvioni e frane hanno forse una diversa fretta.

·        Vivere sotto il vulcano.

Vivere sotto il vulcano. Quei 700 mila prigionieri della lobby del mattone che sfida l’ira del Vesuvio. Da Pozzuoli ai Campi Flegrei il livello di allerta è passato dal 2012 da verde a giallo. Con un piano di evacuazione insostenibile. Ora gli scienziati propongono al governo un nuovo piano: trasferimento preventivo e volontario (e incentivato) degli abitanti della zona rossa. Fabrizio Gatti il 25 ottobre 2019 su L'Espresso. Questa è la storia di un pezzo d’Italia che, nonostante la scienza e il buon senso, persevera nell’errore. È la geografia di una costellazione di Comuni che, 1940 anni dopo l’eruzione più famosa al mondo che distrusse Ercolano e Pompei, ancora lasciano costruire palazzi dove non si dovrebbe. Ma è anche la battaglia culturale di un gruppo di scienziati italiani che non si arrende alla cattiva gestione del territorio e continua a studiare la soluzione meno traumatica per milioni di abitanti. Dimentichiamo per un momento il Vesuvio che, dopo tre secoli di eruzioni, da settantacinque anni riposa senza sintomi di risveglio. L’attenzione è oggi rivolta ai Campi Flegrei, tra Napoli e Pozzuoli: un complesso sistema di crateri su cui è cresciuta e continua a crescere una delle aree più popolose d’Italia e d’Europa. Qui il livello di allerta della Protezione civile dal 2012 è passato da verde a giallo, valore che indica lo stato di potenziale disequilibrio del vulcano, su una scala che comprende anche i colori arancione e rosso. Nel caso in cui tremori, gas emessi e temperature rivelassero l’imminenza di un’esplosione, lo Stato dovrebbe ordinare l’evacuazione di intere città. In appena settantadue ore, seicentomila persone dovrebbero andare a vivere in altre regioni d’Italia, probabilmente per lunghissimi periodi o per sempre. L’ultima esercitazione si è svolta pochi giorni fa: ma davvero non esiste alternativa a questi provvedimenti shock? Un gruppo di esperti sostiene il contrario. Tra i promotori di un diverso approccio al rischio vulcanico c’è l’ex direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe De Natale, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e uno dei massimi studiosi dei Campi Flegrei: «L’alto rischio, che dipende principalmente da uno sviluppo eccessivo e caotico dell’edilizia residenziale», spiega De Natale, «non deve farci dimenticare che l’area napoletana è sempre stata, da diversi millenni, tra le più attrattive e popolate al mondo. Questo perché proprio l’impronta vulcanica del territorio le conferisce grandi vantaggi naturali. La gestione del rischio vulcanico, quindi, non deve mirare all’abbandono di questi territori. Al contrario, condotta con intelligenza e lungimiranza, può diventare un importante fattore di sviluppo per questa zona e per il Mezzogiorno. Può rendere in particolare queste aree urbane, liberate da un eccessivo peso residenziale, meno caotiche e più razionali e resilienti, in favore di centri limitrofi ben collegati da un’opportuna rete di trasporti. Restituendole così a una naturale vocazione turistica, culturale e di attività ad alto valore aggiunto». In altre parole, i piani di evacuazione andrebbero trasformati in progetti di allontanamento volontario e incentivato degli abitanti, verso paesi interni della Campania svuotati dal crollo demografico e comunque collegati alla città da nuove infrastrutture, come la ferrovia ad alta velocità Napoli-Bari. Così nel caso l’allerta passasse al livello rosso, resterebbero molte meno persone da evacuare e tutti gli sfollati potrebbero comunque essere accolti nella regione. «La nostra è una visione multidisciplinare del problema», aggiunge De Natale, «molto più ampia di quella sottesa dai piani di Protezione civile oggi adottati, che non intendiamo criticare, ma semmai integrare con nuove idee e proposte». Dal 16 dicembre 1631 al 7 aprile 1944 il Vesuvio è sempre stato attivo, con numerosi fenomeni esplosivi. L’ultima eruzione del complesso dei Campi Flegrei risale invece al 1538, con la formazione del Monte Nuovo. Ma in tutti questi secoli Napoli e la sua provincia non sono mai state abbandonate. L’allerta gialla a ovest del capoluogo è stata dichiarata sette anni fa, a fronte di una nuova fase di rigonfiamento del suolo cominciata nel 2005 e tuttora in corso, con un sollevamento medio di 5-8 centimetri l’anno. Dal 1969 al 1984 il porto di Pozzuoli si è alzato di tre metri e mezzo e oggi le vecchie banchine sono molto al di sopra del livello del mare. Non è detto che tutto questo sia l’avvisaglia di una nuova eruzione. Nemmeno è chiaro se e in quanto tempo la grande caldera si risveglierà. Comunque dopo un lungo periodo quiescente, i vulcani non entrano in attività dall’oggi al domani: gli scienziati si aspettano una fase premonitrice, che a volte dura decenni, caratterizzata da frequenti terremoti, aumento delle temperature superficiali e variazione nella composizione dei gas emessi. Proprio per questo, Vesuvio e Campi Flegrei sono abbondantemente monitorati. Non può insomma succedere quanto è accaduto il 3 luglio scorso sullo Stromboli, quando un’esplosione ha scatenato il panico tra i turisti sull’isola e ucciso un escursionista. «Lo Stromboli è un vulcano a condotto aperto caratterizzato da un’attività persistente ai suoi crateri sommitali», dice Eugenio Privitera, fino a settembre direttore dell’Osservatorio Etneo: «Ne consegue che questo vulcano non mostra transizioni tra periodi di quiete e periodi eruttivi, ma passa da eruzioni con un modesto livello energetico a eruzioni con un livello energetico più alto, proprio perché è sempre attivo e il suo condotto è sempre aperto». Molto diverse sono le condizioni attuali del Vesuvio e dei Campi Flegrei: «Questi sono vulcani a condotto chiuso, ovvero il passaggio di risalita del magma attraverso la crosta è ostruito», spiega Francesca Bianco, direttore dell’Osservatorio Vesuviano. «Il Vesuvio è uno strato-vulcano con la sua tipica forma a cono», continua Francesca Bianco, «mentre i Campi Flegrei sono una caldera, ovvero un sistema vulcanico caratterizzato da decine di crateri distribuiti su una regione estesa e anche da rare grandi eruzioni, che hanno prodotto il collasso della struttura. Le nostre reti di monitoraggio e sorveglianza su ciascun vulcano devono intercettare la risalita del magma e l’apertura di un nuovo condotto, nelle fasi più precoci possibili di un’eventuale eruzione». Si tratta comunque di vulcani di tipo esplosivo, molto pericolosi non tanto per la fuoriuscita di lava, ma per altri due prodotti delle loro eruzioni. Una è la formazione di “flussi piroclastici”, le nubi ardenti che nel 79 dopo Cristo hanno sommerso Ercolano: «Rappresentano il collasso, lungo le pendici del vulcano, del magma frammentato per l’esplosione, mescolato ad aria, che prima viene lanciato fino ad alcune decine di chilometri di altezza e poi ricade», spiega il professor De Natale: «Sono il prodotto più pericoloso delle eruzioni esplosive, poiché possono avere velocità di propagazione al suolo di centinaia di chilometri orari e temperature di centinaia di gradi centigradi». L’area esposta ai flussi piroclastici coincide con la zona rossa dei piani di evacuazione: 700 mila abitanti per il Vesuvio, compreso il nuovo Ospedale del Mare che quindi non potrà accogliere eventuali feriti; 600 mila per i Campi Flegrei; 70 mila per l’isola di Ischia, il terzo vulcano napoletano quiescente dal 1302, per il quale però non è stato preparato nessun piano di sgombero. L’altro prodotto dei vulcani esplosivi è la ricaduta di cenere, spinta dal vento fino a grandi distanze: ben tre milioni di napoletani abitano entro i venti chilometri da un cratere. Bastano 30 centimetri di cenere accumulata sui tetti per provocare crolli. Con 50 centimetri collassa praticamente qualunque edificio, anche il più resistente. A inizio ottobre scienziati dell’Ingv hanno condiviso con Adriano Giannola, presidente dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), Salvatore Villani, economista dell’Università Federico II di Napoli, e altri ricercatori, tra cui Massimo Buscema, professore all’Università di Denver (Colorado) e direttore del Centro ricerche di intelligenza artificiale “Semeion”, la prima bozza del progetto da presentare al governo per un’analisi di fattibilità: «Speriamo che il nostro contributo venga valutato senza preconcetti, per ciò che è: un’analisi ragionata e multidisciplinare di un problema gigantesco, con la proposta di soluzioni efficaci, o efficaci per quanto possibile», osserva De Natale. Lo studio dimostra che l’eventuale evacuazione forzata in altre regioni dell’1 per cento della popolazione italiana (600 mila persone che rappresentano grossolanamente l’1 per cento del Pil) provocherebbe danni economici indiretti e costi di assistenza, completamente a carico dello Stato, per una spesa totale insostenibile di almeno trenta miliardi l’anno. «Per questi motivi», è scritto nella proposta, «l’unica soluzione razionale per la mitigazione dell’estremo rischio vulcanico in queste aree è una pianificazione accurata, preventiva, della ri-sistemazione delle popolazioni delle zone rosse in cui si preveda la ricollocazione residenziale, lavorativa, sociale e con i relativi servizi... accompagnata da opportuni incentivi ad abbandonare anche prima di un’emergenza le zone rosse e disincentivi a chi vuole entrarvi». Il piano, che avrà bisogno del necessario sostegno dell’Unione Europea, dovrà però convincere le amministrazioni locali. Da loro dipenderà il lieto fine di questa storia. E non è detto che sindaci, consigli comunali e Regione correggano i loro errori. In Campania si parla di mitigazione del rischio vulcanico dal 1988, con la prima commissione tecnico-scientifica. Ma lo sviluppo urbanistico è andato nella direzione opposta. Ai piedi del Vesuvio, da San Giorgio a Cremano fino a Pompei, si è costruito fin a ridosso degli alvei dei pochi corsi d’acqua. E pensare all’evacuazione via terra di settecentomila persone in meno di tre giorni fa sorridere, se si osservano le code immobili che qualsiasi temporale, un giorno di pioggia forte o un incidente provocano lungo le strade a Sud di Napoli. Dentro la caldera attiva dei Campi Flegrei, il sovraffollamento non è da meno. Cementificazione ed espansione edilizia oggi circondano addirittura i crateri e le fumarole. I sei comuni della zona rossa, che una settimana fa hanno partecipato con Napoli all’ultima esercitazione nazionale “Flegrei 2019”, non hanno mai smesso di crescere. Mentre la Protezione civile da anni studia come sgomberarli in caso di allarme, costruttori (e amministratori) li hanno riempiti di abitanti. Ecco i numeri dei primi tre centri metropolitani. Quarto: 18 mila residenti nel 1981, 30mila nel 1991, 41mila oggi. Pozzuoli: 69mila nel 1981, 75mila nel 1991, 81mila oggi. Giugliano: 44mila nel 1981, 60mila nel 1991, 123mila oggi. Tutti prigionieri di una lobby edilizia che sfida i vulcani. Ma anche la scienza. E il buon senso.

·        Macerie e borghi spopolati.

Norcia, lo sfogo dei terremotati cattolici: “Per la messa paghiamo 650 euro al mese”.  Davide Ventola sabato 24 agosto 209 su Il Secolo d'Italia. San Pellegrino, alle porte di Norcia, uno dei centri devastati dal terremoto tre anni fa, è un luogo fantasma, dimenticato dagli uomini e dalla Dio. O perlomeno dalla Chiesa. I terremotati cattolici chiedono, invano, che sia dato loro un luogo di culto provvisorio e la ricostruzione della chiesa del luogo. Dopo diverse istanze, tra Curia di Spoleto e Norcia, Protezione Civile e altre autorità competenti, i terremotati non hanno avuto risposte. Il risultato? È drammatico. Nel servizio al Tg2 delle 13, uno dei terremotati racconta. «Paghiamo 650 euro al mese per un modulo abitativo usato come cappella per dire messa». Circa ottomila euro l’anno pagati dai sopravvissuti del piccolo centro umbro. Una vergogna infinita. Possibile che le tanti associazioni benefiche che fanno riferimento alla Chiesa Cattolica, al Vaticano, alla Caritas e alla Cei, non possano trovare le risorse necessarie? Più di uno, sui Social, ha ricordato il gesto dell’elemosiniere del Papa, che riattaccò la luce agli occupanti abusivi (tra di loro pregiudicati e immigrati irregolari) di un palazzo romano. Che cosa hanno in meno i terremotati cattolici rispetto ai fratelli migranti musulmani? È uno dei tanti misteri della Chiesa di Bergoglio.

Come i terremotati di Castelluccio di Norcia. Analogo problema ha la Comunità di Castelluccio di Norcia, che sulla mancanza di un luogo di culto ha diffuso una nota per la stampa. Raccolta da pochissimi media, distratti dalle vicende dei migranti e dalla crisi politica. «Il senso di sconforto e di abbandono – si legge nella nota – dilaga fra la comunità. E noi, che rappresentiamo la frazione e ci interfacciamo con le istituzioni, che mai abbiamo visto così insensibili e indifferenti nei riguardi della collettività – scrive la Comunanza Agraria – non sappiamo nemmeno offrire una soluzione all’unica richiesta che la comunità, dopo ben tre anni, ci ripete a gran voce: una chiesa, un luogo di culto, una struttura che permetta, anche solo per qualche minuto, di sollevare gli animi di fronte a cotanto strazio e distruzione che imperano sul borgo di Castelluccio, esanime».

A tre anni dal terremoto nel Centro Italia ecco i numeri della ricostruzione. Pubblicato sabato, 24 agosto 2019 da Corriere.it. Il 24 agosto del 2016 alle 3.36 della notte una forte scossa di terremoto colpisce i territori di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria. Il sisma è di magnitudo 6.0 e ha come epicentro la valle del Tronto, tra i comuni di Accumoli (provincia di Rieti) e Arquata del Tronto (provincia di Ascoli Piceno). Il bilancio è terribile: 299 morti, 365 feriti e decina di migliaia di sfollati. I Paesi più colpiti sono Amatrice nel Lazio (237 morti), Arquata del Tronto nelle Marche (51 morti) e Accumoli nel Lazio (11 morti). Due mesi dopo, il 30 ottobre una nuova e violenta scossa, con epicentro tra i comuni di Norcia e Preci, in provincia di Perugia, colpisce di nuovo il Centro Italia. Non ci sono vittime, ma il sisma di magnitudo 6.5 devasta abitazioni e costruzioni come la Basilica di San Benedetto a Norcia. 

AMATRICE NON C’E’ PIU’ MA C’E’ ANCORA. Francesco Tortora per corriere.it il 24 agosto 2019.

La ricostruzione e le macerie da smaltire. Il 5 ottobre 2018 Piero Farabollini, geologo e professore universitario a Camerino, è nominato dal governo Conte nuovo Commissario Straordinario alla ricostruzione per le zone del terremoto e subentra ai due predecessori politici Vasco Errani e Pala De Micheli. A tre anni dal terremoto la ricostruzione procede in maniera molto lenta e la burocrazia non aiuta. Secondo i dati presentati dalle regioni per quanto riguarda la rimozione e smaltimento delle macerie su 2 milioni e 509 mila tonnellate di macerie calcolate ne sono state rimosse 1,7 milioni mentre ne restano da smaltire ancora 797 mila tonnellate, di cui ben 463 mila nelle sole Marche.

Gli sfollati. Il numero degli sfollati ad agosto 2019 raggiunge 49.285 residenti di cui ben 30 mila nelle sole Marche.

Soluzioni abitative d’emergenza. A tre anni dal terremoto sono state ordinate 3.901 soluzioni abitative d’emergenza, ma ne sono state consegnate 3.853 nelle quali vivono circa 8.100 persone. Inoltre ci sono circa 1.300 persone che ancora vivono in hotel, 700 nei moduli abitativi prefabbricati rurali d’emergenza (Mapre), 480 in container e 470 in strutture comunali.

I fondi stanziati e il finanziamento agli sfollati. Dal 2016 sono stati stanziati per la ricostruzione circa 22 miliardi di euro. Tuttavia sono stati spesi solo 200 milioni di euro. La maggior parte degli sfollati (oltre 38 mila persone) percepiscono il contributo di autonoma sistemazione (Cas), un finanziamento mensile che va da 600 a 1000 euro.

Immobili danneggiati o distrutti. In totale gli immobili privati danneggiati o distrutti dal terremoto sono circa 80 mila e 10 mila devono essere ancora periziati. Si attendono 79.320 richieste di contributo potenziali per la ricostruzione di abitazioni private (quasi il 50% nelle Marche).

Richieste di fondi pubblici e finanziamenti. Finora sono state presentate dai privati 8.500 pratiche per ottenere finanziamenti pubblici di cui solo 1.500 sono state approvate. In tutto sono stati erogati ai beneficiari 41 milioni di euro.

Virginia Piccolillo per corriere.it il 24 agosto 2019. È stato duro il richiamo del vescovo di Rieti, Domenico Pompili, in apertura della messa dedicata alle vittime del terremoto del 24 agosto 2016. Di fronte al commissario alla ricostruzione Vito Crimi, al presidente della regione Nicola Zingaretti, ai sindaci e alle altre autorità, ha chiesto «perdono a Dio per le false promesse pronunciate». «Giacché - ha aggiunto Pompili - come ognuno può constatare qui siamo ben lungi dalla ricostruzione». Forte, caloroso, commosso, è scattato l’applauso da parte dei familiari delle vittime e degli altri abitanti di Amatrice, il borgo distrutto dal sisma è ancora totalmente raso al suolo.

 Pompili: «Nessuna visione, solo punti di vista». «Serve una visione» è il monito del vescovo di fronte alle autorità. «Invece in questi tre anni si è fatta strada una certa confusione. E senza uno sguardo condiviso viene meno anche l’entusiasmo, quando si spegne l’adrenalina dei primi momenti». È quello che è successo ad Amatrice e in tutti gli altri borghi del centro Italia. Prima le passerelle del dopo sisma, e poi l’assenza di risposte concrete. Lo dice chiaro il vescovo: «Più che una visione sono prevalsi punti di vista anche a motivo dell’alternarsi dei governi, responsabilità personali e la tendenza è stata quella di ricominciare ogni volta daccapo. Facendo il contrario di quello che era venuto prima», constata amaro. «Ma senza respiro lungo non si va da nessuna parte -avverte Pompili - come si vede in questi giorni in cui l’Italia stessa boccheggia e non certo per il caldo».

Pirozzi: «Servono poteri speciali come a Genova». Al termine dell’omelia il vescovo Pompili ha ricevuto un altro lungo, irrituale, applauso come quello iniziale, spento da lui stesso con un richiamo: «Ciascuno si concentri sulle proprie mancanze». Un chiaro segno della stanchezza e dell’indignazione che circolava tra le fila dei fedeli e fuori del nuovo palazzetto dello sport, sede della celebrazione. «Ha fatto bene. Ma che ci stanno a prendere in giro?», era il commento più diffuso tra quelli riferibili. Entusiasta anche l’ex sindaco di Amatrice, ora consigliere regionale alla ricostruzione, Sergio Pirozzi: «Deo Gratias. Il vescovo ha fatto il commento giusto: tre governi, tre commissari, siamo solo al 4% della ricostruzione privata compiuta, è sbagliato il metodo. Lo dicevo 25 mesi fa, serve un commissario straordinario con poteri speciali in deroga per i comuni più distrutti. Come a Genova».

Visso, a tre anni dal terremoto un paese spettrale. Dimenticato pure da Dio. Siamo andati a Visso, in provincia di Macerata. Un paese distrutto dal terremoto di tre anni fa. Una realtà spettrale che mette i brividi. Serenella Bettin, Venerdì 23/08/2019 su Il Giornale. Adagiato in una conca dell’alta valle di Nera, in provincia di Macerata, tra Camerino e Foligno, se ne sta uno dei Borghi più belli d’Italia. Visso distrutto dal terremoto. Situato nel centro del nostro Paese, nel cuore di quell’Italia che pulsa, Visso è dimenticato da tutti. Dimenticato da Dio. Dagli uomini. Dallo Stato. Dal Governo. Gli unici che sopravvivono sono alcuni abitanti, chi a Visso ci sono nati e cresciuti e che sanno che moriranno in una branda data dallo Stato. Perché Visso è uno dei paesi più colpiti dal terremoto di tre anni fa. Insieme ai vicini Ussita e Castelsantangelo sul Nera, ancora, dopo tre anni, le cose non sono cambiate. Il terremoto che sembra sia stato ieri, ha distrutto tutto. Un paesino di 1061 anime che sta lentamente sparendo. La gente accatastata ancora dentro alle casette se ne sta andando. Chi ha la fortuna cerca riparo altrove, va al Nord, va a studiare in città e poi si trasferisce là. Ma chi non ha più niente, chi non ha più una casa, più un lavoro, più una piazza, chi non ha più le proprie abitudini e non ricorda nemmeno quanti anni ha, fa fatica a prendere e andarsene. Le persone alcune, hanno gli occhi fermi. Spenti. Infreddoliti. Vivono in perenne attesa. Nella speranza che cambi qualcosa. Che quel piccolo paesello crocevia verso la strada che porta a Roma possa ripartire. Ma senza l’aiuto di qualcuno, Visso non riparte. Visso è un piccolo borgo dalla storia ricca e antica e a 607 metri sul livello del mare, se ne sta attorniato dai verdi Monti Sibillini. Inserito tra le bandiere arancioni del Touring Club Italiano, ora Visso è un paese spettrale. Un paesaggio lunare. Sembra uno di quei paesi dove è appena finita la guerra. Tutto fermo. Immobile. Un silenzio angosciante regna nel centro. Accediamo alla Zona Rossa accompagnati dall’unico vigile urbano del comune, Ernesto Martini. Il giro dura un paio d’ore, e ogni volta rivedere quelle immagini fa un male cane. Tutt’intorno ci stanno solo macerie. Nient’altro che macerie. Detriti. Calcinacci. Case sventrate. Porte aperte. Vetri infranti. Ancora dentro le abitazioni squarciate dalla furia del terremoto - la più violenta scossa il 26 ottobre di tre anni fa - ci stanno gli oggetti personali delle persone. Mobili ribaltati, gettati in mezzo ai calcinacci, tovaglie a quadri, abat- jour che pendono nel vuoto, cassettoni di biancheria, coperte, lenzuola. Ancora si vede la gente, dopo tre anni andare a prendere la propria roba, caricarla dentro a dei sacchi o a delle cassette e portarla fino alle casette. Quelle casette che lo Stato ha dato a questa povera gente che sa che lì dentro ci morirà. Incontriamo il sindaco del paese, Gian Luigi Spiganti Maurizi. Attualmente gli sfollati sono ancora oltre 800 e la ricostruzione ci spiega “è ferma al 2016, 2017”. A tre anni dal terremoto ancora sono presi così. Non c’è più niente. Tutto distrutto. Solo macerie. Il 92 per cento degli edifici è inagibile. Il turismo non riprende. Alberghi. Hotel e ristoranti chiusi. Le case, hanno detto le persone, saranno ricostruite tra 20 anni. Anna Rita Mocci, una donna che incontriamo durante il nostro reportage, di anni ne ha 67. Lei chiede che venga messa una chiesetta dove ci stanno le casette. E lei è una di quelle che si sveglia tutte le mattine e vede queste case completamente distrutte.

Macerie e borghi spopolati, a piedi per i sentieri del sisma. Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Lorenzo Cremonesi, inviato ad Amatrice, su Corriere.it. Che camminare aiuti a riflettere più profondamente è ribadito da tutti i filosofi e intellettuali appassionati di questa che è una della più semplici e immediate attività che la razza umana possa intraprendere. Un esercizio alla stesso tempo fisico e meditativo, che certamente non può non essere ispirato in modo particolarmente forte dal paesaggio di rovine e macerie che s’incontra tra i vecchi borghi devastati dal terremoto in centro Italia tre anni fa. Caducità delle cose: comunità svanite; edifici, chiese, torri e monumenti millenari ridotti in pietrame; affreschi medioevali, croci e testimonianze di antiche culture persi per sempre. Jean Jacques Rousseau nelle sue «Confessioni» ci racconta che la prima ispirazione del suo celeberrimo quanto controverso saggio contro il progresso nelle scienze e nelle arti gli venne nell’estate del 1749 percorrendo la dozzina di chilometri da casa sua nel centro di Parigi al carcere di Chateau de Vincennes. Vi era stato rinchiuso il suo amico scrittore ed enciclopedista Denis Diderot per aver reso pubblico un suo saggio in cui dubitava della bontà di Dio. Rousseau, marciando piano lungo i canali e i campi tagliati di fresco della ricca campagna francese appena alle porte della zona metropolitana, si ritrovò a idealizzare il mito del «buon selvaggio» e la felicità semplice della beata ignoranza contro la corruzione dettata dalla civiltà. Percorrendo i sentieri appena riaperti del Cammina Italia Cai tra i Sibillini e i Monti della Laga nell’Alto Lazio vengono però quasi spontaneamente considerazioni che sono per molti aspetti agli antipodi di quelle di Rousseau. Non la glorificazione dello stato di natura, non l’ode sperticata alla semplicità primitiva nei rigori delle catene dell’Appennino, bensì la nostalgia dolorosa per le incalcolabili ricchezze perdute nella brutalità cieca delle scosse del terremoto. Qui noi comprendiamo immediatamente l’importanza delle strade di accesso. Con i ponti chiusi siamo costretti a lunghe deviazioni che ritardano il viaggio. I villaggi non possono essere attraversati, quasi sempre il loro centro è transennato e bloccato da barriere color arancione-violento. Si temono ulteriori crolli, ma anche i ladri. Erba e arbusti intaccano già le rovine, sfiorano porte e persiane sbarrate. Dominano vuoto e silenzio. Si cammina senza quasi toccare cime, di luogo in luogo, una transumanza di mezza costa, su altopiani, fondovalle, lungo i fiumi, tra vestigia sgraziate e rottami polverosi di interi nuclei umani distrutti, viuzze medioevali in abbandono, comunità spazzate via, come le rovine di Accumoli, di Torrita, gli alberghi fantasma di Forca Canapine (apparentemente intatti fuori, ma crollati all’interno). Le ferite evidenti non sono nella natura, quasi mai si scorgono lungo i sentieri trincee o fenditure da smottamento, le frane sono rare. Le foreste appaiono intatte e così i prati degli alpeggi. Ma quasi tutte le stalle sono cadute o segnate da profonde fenditure nei muri, tanto da renderle inagibili. Come la chiesetta all’Eremo della Croce, una balconata con la vista totale sulle rovine di Amatrice (passata da 30.000 abitanti agli attuali 2.500) e primo punto sosta nelle circa otto ore di marcia previste nella tappa per Cittareale, dove le crepe scendono dal tetto a indebolire le linee portanti della facciata. «Già da decenni questi nuclei urbani erano in abbandono. La gente ci veniva solo per trascorrere le vacanze d’estate. Ora sulla carta paradossalmente gli abitanti fissi sono persino aumentati. Come a Castelluccio, dove sono in tanti adesso a dichiarare la residenza per approfittare degli aiuti statali della ricostruzione dopo il terremoto. In verità, però, qui per gran parte dell’anno imperano silenzio e abbandono», ammettono i pochi gestori delle strutture di accoglienza locali assieme ai dirigenti regionali del Cai. Un aiuto sostanziale potrebbe così arrivare dall’«industria del trekking». «Da una quindicina d’anni l’Appennino laziale aveva visto la crescita esponenziale dei sentieri ben segnati, di posti tappa organizzati con hotel, rifugi e agriturismo. Venivano da tutta Europa. Il terremoto ha segnato un arresto. Ma adesso si cerca di ripartire», sostiene Marco Salvetta, 53 anni, del Cai di Amatrice. Ci crede il 75enne Giuseppe Bacicalupo, che armato di vernice e pennello ha contribuito fortemente a migliorare i segnavia sugli oltre 350 chilometri di tracciati locali. «Questa è la patria di chi ama camminare. E d’inverno il territorio si presta alle racchette da neve e lo sci-alpinismo», dice. Ma ripartire non è semplice. Nella regione i posti dove pernottare sono ridotti a una decina. In molti casi le tappe sono state allungate per mancanza di luoghi dove mangiare e dormire. E’ il caso della stupenda tappa tra Accumoli e Castelluccio: tra le otto e dieci ore di marcia, oltre 1.200 metri di dislivello. Un vecchio bivacco di cemento è stato danneggiato dalle scosse, vicino la sorgente è asciutta. Si procede seguendola cartina del Cai di Amatrice, i segnavia sono sempre evidenti, ma resta un vago senso di scoperta. La fatica è però compensata dai panorami struggenti sulle cime dei Monti della Laga, che sfiorano i 2.500 metri d’altezza, e soprattutto dal piacere di percorrere altopiani erbosi, dolci, ricchi di torbiere, per la gioia delle mandrie di cavalli al pascolo.

·        Rigopiano, la tragedia dell'hotel si poteva evitare?

Depistaggio a Rigopiano, il ministero della Giustizia si costituisce parte civile. Le Iene il 13 dicembre 2019. Il ministero guidato da Alfonso Bonafede si è costituito parte civile nei confronti degli imputati nel procedimento per il presunto depistaggio sul disastro all’hotel Rigopiano. Il 18 gennaio 2017 ventinove persone morirono travolti da una valanga. La promessa è finalmente mantenuta: il ministero della Giustizia si è costituito parte civile nei confronti dell'ex prefetto di Pescara e altri 7 dirigenti pubblici nel procedimento per il presunto depistaggio sul disastro dell'hotel Rigopiano di Farindola. La richiesta è stata presentata dall'avvocatura dello Stato de L'Aquila nell'udienza preliminare a Pescara. Secondo quanto scritto nella richiesta, il ministero ritiene che la condotta dei dirigenti della Prefettura avrebbe leso l'immagine e il prestigio della giustizia. Secondo i capi d'accusa "hanno pesantemente pregiudicato il funzionale e organico svolgimento dell'attività investigativa propria dell'Autorità procedente", si legge sull'atto. Il lavoro della magistratura sarebbe stato ostacolato, secondo l’atto, "costringendo uomini e mezzi messi a disposizione dallo Stato a un non previsto aggravio di impegno e sforzo che ha inciso gravemente sul raggiungimento da parte della pubblica amministrazione degli altri obiettivi istituzionalmente curati". Da oltre un mese il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva promesso la costituzione in parte civile del ministero e finalmente la sua promessa è stata rispettata. Noi de Le Iene vi stiamo raccontando con Roberta Rei e Marco Fubini cos’è accaduto il 18 gennaio del 2017, quando una valanga travolse l’hotel Rigopiano causando la morte di 29 persone. Nei servizi che potete rivedere qui sopra e cliccando qui, vi abbiamo raccontato di cosa sembra non aver funzionato nella catena di comando dei soccorsi e in particolare di una telefonata d’aiuto, arrivata ore prima del disastro e che sarebbe stata ignorata, che sarebbe poi stata nascosta durante le indagini. Dopo le 22 archiviazioni nel processo principale e mentre prosegue l’indagine sul presunto depistaggio, dopo i nostri servizi è stata aperta una nuova indagine.

Da corriere.it il 3 dicembre 2019. Il gip del tribunale di Pescara, Nicola Colantonio, ha disposto l’archiviazione di 22 indagati nell’inchiesta madre sul disastro dell’Hotel Rigopiano di Farindola (Pescara), avvenuto il 18 gennaio 2017, quando una valanga travolse il resort provocando la morte di 29 persone. Escono definitivamente dall’inchiesta tra gli altri gli ex presidenti della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso, Ottaviano Del Turco e Gianni Chiodi, l’ex sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli e la funzionaria della Protezione Civile Tiziana Caputi. I tre governatori erano finiti sotto inchiesta per la mancata predisposizione della mappa del rischio valanghe, omissione che, secondo l’iniziale formulazione dell’accusa avrebbe contribuito alla tragedia che il 18 gennaio del 2017 provocò la morte di 29 persone.

Da ilmessaggero.it il 4 dicembre 2019. «Alla fine la colpa sarà di chi stava in hotel, di chi lavorava a Rigopiano e di chi c'è andato in vacanza. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione nei confronti dei funzionari della Regione e dei personaggi che ci hanno fatto credere che Stefano era vivo, uccidendolo due volte. L'archiviazione è un colpo che fa molto male. Per quanto riguarda me e la mia famiglia non ho parole, mi sento preso in giro dalla giustizia». Così Alessio Feniello, padre di Stefano, una delle 29 vittime dell'hotel Rigopiano di Farindola.

Rigopiano, archiviate le accuse per tre ex governatori dell’Abruzzo e altri 19 indagati. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Nella tragedia morirono 29 persone. Esce di scena anche la funzionaria della prefettura che al telefono disse: «La madre degli imbecilli è sempre incinta». Il gip del tribunale di Pescara, Nicola Colantonio, ha disposto l’archiviazione di 22 indagati nell’inchiesta madre sul disastro dell’Hotel Rigopiano di Farindola (Pescara), avvenuto il 18 gennaio 2017, quando una valanga travolse il resort provocando la morte di 29 persone. Escono definitivamente dall’inchiesta tra gli altri gli ex presidenti della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso, Ottaviano Del Turco e Gianni Chiodi, l’ex sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli e la funzionaria della Protezione Civile Tiziana Caputi. I tre governatori erano finiti sotto inchiesta per la mancata predisposizione della mappa del rischio valanghe, omissione che, secondo l’iniziale formulazione dell’accusa avrebbe contribuito alla tragedia che il 18 gennaio del 2017 provocò la morte di 29 persone. Nell’elenco degli indagati per cui non ci sarà processo figura anche Daniela Acquaviva, la funzionaria della prefettura di Pescara salita alla ribalta delle cronache, perché nella telefonata del ristoratore Quintino Marcella - che per primo la sera della tragedia lanciò l’allarme - pronunciò la frase: «La madre degli imbecilli è sempre incinta». Con lei anche Andrea Marrone, consulente incaricato per adempiere le prescrizioni in materia di prevenzione infortuni; Bruno Di Tommaso, legale responsabile della Gran Sasso Resort & Spa; Carlo Giovani, dirigente della Protezione civile. Per Provolo, Di Tommaso, Marrone e Giovani, l’archiviazione riguarda solo ad alcune ipotesi di reato. Ai quattro sono contestati altri capi di imputazione. Stesso discorso per Daniela Acquaviva: il gip ha disposto l’archiviazione per un aspetto, ma è imputata nel procedimento Rigopiano bis sul presunto depistaggio. A chiedere l’archiviazione erano stati il procuratore capo Massimiliano Serpi e il sostituto Andrea Papalia. Alla richiesta si erano opposti alcuni legali dei familiari delle vittime, ma il gip ha respinto le opposizioni e oggi ha disposto l’archiviazione, che riguarda anche gli assessori che si sono succeduti alla Protezione civile, Tommaso Ginoble, Daniela Stati, Mahmoud Srour, Gianfranco Giuliante e Mario Mazzocca; dell’ex sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, della funzionaria della Protezione Civile, Tiziana Caputi; dell’ex vice presidente della Regione Abruzzo, Enrico Paolini; dell’ex direttore generale della Regione Abruzzo, Cristina Gerardis; e dell’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo. Archiviazione anche per Giovanni Savini (direttore del dipartimento di protezione civile per tre mesi nel 2014); Silvio Liberatore, responsabile della sala operativa della Protezione civile; Antonio Iovino; dirigente del servizio di Programmazione di attività della protezione civile; Vittorio Di Biase, direttore Dipartimento opere pubbliche fino al 2015; Vincenzino Lupi, responsabile del 118.

Rigopiano, archiviate le accuse per ventidue indagati. Il padre di una vittima: "Traditi dalla giustizia". Escono dal processo gli ex presidenti della Regione Abruzzo Luciano D'Alfonso, Ottaviano Del Turco e Gianni Chiodi. Per la funzionaria che non credette all'allarme rimane solo il depistaggio. Restano sotto processo figure pubbliche minori e il titolare del resort. Familiari delle vittime: "Un colpo che fa molto male, daranno la colpa a chi era in vacanza in hotel" La Repubblica il 03 dicembre 2019. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pescara, Nicola Colantonio, ha disposto l'archiviazione di 22 indagati nell'inchiesta madre sul disastro dell'Hotel Rigopiano di Farindola (Pescara), avvenuto il 18 gennaio 2017, quando una valanga travolse il resort provocando la morte di 29 persone. Escono definitivamente dall'inchiesta, tra gli altri, gli ex presidenti della Regione Abruzzo Luciano D'Alfonso, Ottaviano Del Turco e Gianni Chiodi, l'ex sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli e la funzionaria della Protezione Civile, Tiziana Caputi. Sono fuori dal processo anche gli assessori che si sono succeduti alla Protezione civile: Tommaso Ginoble, Daniela Stati, Mahmoud Srour, Gianfranco Giuliante e Mario Mazzocca, quindi l'ex vicepresidente della Regione Abruzzo Enrico Paolini, l'ex direttore generale Cristina Gerardis e Giovanni Savini, direttore del Dipartimento di protezione civile per tre mesi nel 2014. Archiviati, poi, Silvio Liberatore, responsabile della sala operativa della Protezione civile; Antonio Iovino, dirigente del servizio di Programmazione di attività della Protezione; Vittorio Di Biase, direttore del Dipartimento opere pubbliche fino al 2015; Vincenzino Lupi, responsabile del 118. E' stata archiviata anche la posizione di Daniela Acquaviva, funzionaria della Prefettura di Pescara nota per avere risposto con sufficienza ("la madre degli imbecilli è sempre incinta") al primo allarme lanciato dal ristoratore Quintino Marcella: resta, tuttavia, imputata nel procedimento bis per depistaggio. Nella decisione sulla posizione di Luciano D'Alfonso è uno dei nodi della pronuncia del Gip: "Risulta accertato che D'Alfonso - scrive il giudice nel provvedimento di archiviazione - , effettivamente, partecipava alle attività del Core coordinando le attività presso la Sala della Giunta della Provincia di Pescara nella riunione che veniva attivata dalle ore 15.30 del 18 gennaio 2017. In sostanza, può affermarsi che nessun inadempimento, o ritardo, può rivelarsi nella valutazione della tempistica di attivazione del CORE, da parte dei soggetti responsabili, in conseguenza del verificarsi degli eventi sismici del 18 gennaio 2017". Tra l'altro, secondo il giudice, la giunta regionale aveva già autorizzato implicitamente il dirigente del servizio ad attivare il Comitato operativo per le emergenze (Core) quando aveva dichiarato lo stato di emergenza con la delibera del 12 gennaio 2017, cinque giorni prima della tragedia. Rimangono a processo, ma soltanto per alcune ipotesi di reato, anche l'ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, quindi Andrea Marrone, consulente incaricato per adempiere le prescrizioni in materia di prevenzione infortuni, Bruno Di Tommaso, legale responsabile della Gran Sasso Resort & Spa, e Carlo Giovani, dirigente della Protezione civile. A chiedere l'archiviazione erano stati il procuratore capo Massimiliano Serpi e il sostituto Andrea Papalia. Alla richiesta si erano opposti alcuni legali dei familiari delle vittime, ma il gip ha respinto le opposizioni e oggi ha disposto, appunto, l'archiviazione. La reazione dei genitori delle vittime è stata immediata. "Comincio a pensare che alla fine la colpa sarà di chi stava in hotel, di chi lavorava a Rigopiano e di chi c'è andato in vacanza", ha scritto su Facebook Alessio Feniello, padre di Stefano, una delle vittime. Ho appena saputo che il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione nei confronti di tutti i funzionari della regione, della Acquaviva, e anche dei tre personaggi che ci hanno fatto credere che Stefano era vivo, uccidendolo due volte. Questa archiviazione è un colpo che fa molto male, mi sento preso in giro dalla giustizia. Se non fosse per la promessa che ho fatto a mio figlio, avrei già lasciato tutto".

Strage di Rigopiano: archiviazione per 22 indagati. Nel corso della tragica valanga avvenuta a gennaio 2017 venne travolto un intero albergo, il bilancio fu di 29 vittime: tra gli indagati vi erano anche 3 ex governatori. Marco Della Corte, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. Archiviazione per 22 indagati nell'inchiesta per la tragedia di Rigopiano. A deciderlo il gip del tribunale di Pescara Nicola Colantonio. Come si legge dall'agenzia Adnkronos, tra gli indagati, è stata disposta l'archiviazione per gli ex governatori della regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, Gianni Chiodi e Luciano D'Alfonso. Il 18 gennaio 2017 una valanga travolse a Farindola, provincia di Pescara, un albergo, provocando la morte di 29 persone all'interno della struttura. Il gip del tribunale di Pescara, Nicola Colantonio, ha disposto l'archiviazione per 22 indagati nell'inchiesta madre della strage di Rigopiano avvenuta il 18 gennaio 2017. Nel corso del drammatico episodio, una valanga travolse una struttura alberghiera provocando la morte di 29 persone. Usciti definitivamente dall'inchiesta anche gli ex presidenti della regione Abruzzo Luciano D'Alfonso, Gianni Chiodi e Ottaviano Del Turco, la funzionaria della protezione civile Tiziana Caputi e e l'ex sottosegretario alla giustizia Federica Chiavaroli. Riguardo i tre governatori regionali, questi erano finiti sotto inchiesta a causa della mancata predisposizione della mappa del rischio valanghe. Secondo una prima versione dell'accusa, tale omissione avrebbe contribuito alla tragedia. Tra gli ex indagati figura anche il nome di Daniela Acquaviva, funzionaria della prefettura di Pescara. Acquaviva salì agli onori della cronaca, in quanto durante la telefonata con Quintino Marcella (il primo ad aver lanciato l'allarme per quanto stava accadendo) dichiarò: "La madre degli imbecilli è sempre incinta". Tra gli archiviati anche Andrea Marrone, consulente incaricato per adempiere le prescrizioni in materia di prevenzione infortuni; Carlo Giovani, dirigente della protezione civile; Bruno Di Tommaso, legale responsabile della società Gran Sasso Resort & Spa. Ai 4 ora menzionati sono tuttavia contestate ulteriori accuse. È infatti bene precisare come l'archiviazione riguardi solo alcune ipotesi di reato. Lo stesso discorso vale anche per Daniela Acquaviva: il gip ha archiviato, nel suo caso, un solo aspetto del caso, ma l'imputazione del procedimento Rigopiano bis sul presunto depistaggio permane ancora. La richiesta di archviazione era stata disposta dal procuratore capo Massimiliano Serpi e dal sostituto Andrea Papalia. A ciò si erano opposti alcuni legali dei familiari delle vittime di Rigopiano, ma tale opposizione è stata infine respinta dal dal gip. Di conseguenza in data 3 dicembre 2019 è stata disposto l'archiviazione nei confronti dei 22 indagati. Tra questi figurano i nomi degli assessori succedotisi alla protezione civile: Daniela Stati, Tommaso Ginoble, Mahmoud Srour, Mario Mazzocca e Gianfranco Giuliante. Nel registro degli indagati vi erano, inoltre, Tiziana Caputi (funzionaria della protezione civile), Federica Chiavaroli (ex sottosegretario alla giustizia), Francesco Provolo (ex prefetto di Pescara), Cristina Gerardis (ex direttore generale della regione Abruzzo) ed Enrico Paolini (ex vicepresidente della regione Abruzzo). L'archiviazione ha riguardato anche i seguenti: Vincenzino Lupi (responsabile 118), Vittorio Di Biase (che ha assurto al ruolo del dipartimento di opere pubbliche fino al 2015), Giovanni Savini (direttore del dipartimento di protezione civile nel 2014), Silvio Liberatore (responsabile della sala operativa della protezione civile) e Antonio Iovino (dirigente del servizio di Programmazione di attività della protezione civile).

Rigopiano, i familiari delle vittime: "Dispiaciuti per archiviazione, ma inchiesta continua". Il comitato commenta su Facebook la decisione del gip su 22 indagati: "Le motivazioni confermano che le nostre idee sui fatti erano fondate". La Repubblica il 04 dicembre 2019. I familiari delle vittime di Rigopiano pubblicano su Facebook il dispiacere per le decisioni del Gip, che ieri ha disposto l'archiviazione di 22 indagati nell'inchiesta madre sul disastro dell'Hotel Rigopiano di Farindola (Pescara), avvenuto il 18 gennaio 2017, quando una valanga travolse il resort provocando la morte di 29 persone. "Apprendiamo con sommo dispiacere delle decisioni del gip Colantonio. Pur rispettando e accettando tale dispositivo, ci sentiamo in dovere di continuare la nostra battaglia a sostegno dei familiari che ci hanno creduto e che si sono opposti alle richieste di archiviazione", scrivono sul profilo Facebook "Rigopiano, in attesa del Fiore", gestito dal Comitato vittime di Rigopiano. "Per noi - si legge ancora nel post - non è una sconfitta, perché leggendo bene le motivazioni, ci sono ottimi spunti giurisprudenziali per ritenere che le nostre idee sui fatti erano fondate". "Il problema non è rappresentato dall'archiviazione in sé, - continuano - ma dalle tesi utilizzate dal giudice che sicuramente rispetteranno il codice penale e la procedura penale, ma non sono coerenti con la realtà dei fatti inoppugnabili. Nei giorni culminati poi nella tragedia di Rigopiano - si legge ancora - la regione era sommersa dalla neve sin dal 5 gennaio. Ben tre allerte meteo una peggio dell'altra fino a quella del 15 gennaio. Tre province su quattro erano in ginocchio, trecentomila utenze senza elettricità per giorni. E il gip scrive che il Core è stato convocato tempestivamente il 18 gennaio alle 15 nel giorno della tragedia. Il giorno dopo rispunta il sole su tutto l'Abruzzo. C'è coerenza in tutto questo?". "E oggi dopo 29 morti la Regione Abruzzo agisce in prevenzione, convoca riunioni operative e dall'8 dicembre saprà su quanti uomini e mezzi potrà contare per affrontare una emergenza neve. Prima dei responsabili di quella tragedia - scrive il Comitato - ci interessa la verità, ci interessa l'accertamento di tutti i fatti. Rigopiano sembra una storia infinita, c'è sempre un pezzo di verità che viene a galla, siamo sicuri che non ci sia da aspettarsi qualche altro tassello? Su tutto e su tutti il caso D'Angelo. Qualcuno o qualcosa ha limitato l'orizzonte dell'accertamento di tutta la verità attraverso le indagini? La battaglia continua per onorare i nostri 29 Angeli". Nel procedimento principale ci sono 25 imputati (24 persone e una società), mentre nel procedimento riguardante il presunto depistaggio si contano sette imputati. Sulla riunione di questi due procedimenti si pronuncerà il gup del Tribunale di Pescara, Gianluca Sarandrea, nell'udienza del prossimo 13 dicembre.

Paolo Mastri per “il Messaggero” il 6 dicembre 2019. Ventinove morti, due processi in attesa di riunificazione, l'archiviazione degli ex governatori che riaccende la rabbia di sopravvissuti e familiari delle vittime. E una nuova inchiesta, la quarta, che mira a far luce sulla corretta gestione di un'informazione decisiva per ricostruire dinamiche e responsabilità della sciagura di Rigopiano e del successivo tentativo di depistaggio delle indagini, la famosa riunione carbonara svoltasi il 24 gennaio 2019 in un magazzino del campo base di soccorsi. È toccato alla guardia di finanza, per evidenti ragioni di opportunità, passare al setaccio nei giorni corsi computer e archivi della squadra mobile e dei carabinieri forestali di Pescara. Obiettivo: fare luce una volta per tutte sulla cosiddetta telefonata fantasma del cameriere Gabriele D'Angelo, scoperta da un'agente di polizia una settimana dopo la tragedia eppure entrata nel radar dei pubblici ministeri soltanto 18 mesi più tardi, a indagini praticamente chiuse. Alle 11,38 del 18 gennaio 2017 il Centro di coordinamento dei soccorsi di Penne, già attivo per via di nevicate e terremoto, annota una chiamata del cameriere D'Angelo, che chiede l'evacuazione dell'Hotel Rigopiano. A tragedia avvenuta è l'elemento in grado di anticipare addirittura a cinque ore prima della valanga - caduta alle 16,30 - il ritardo nell'attivazione dei soccorsi: a scoprirlo, il giorno 25 gennaio, è un agente di polizia, Clementino Costa, distaccato al Coc di Penne. La sua annotazione, accompagnata da un'informativa del capo della squadra mobile Pierfancesco Muriana, viene trasmessa due giorni dopo ai carabinieri forestali, titolari della delega a indagare. Comincia da questo momento la storia parallela della telefonata fantasma, che riemerge dall'ombra soltanto a fine 2018, in un paio di verbali con i quali i forestali prima sostengono di non averne avuto diretta notizia, poi ammettono l'errore scrivendo: «L'annotazione dell'agente Crosta veniva correttamente trasmessa alla Procura della Repubblica in data 12/11/2018».

Non è l'unico mistero. Anche il riscontro fornito dagli screenshot del telefonino di Gabriele D'Angelo, estratti dal Ris a marzo del 2018, finisce nel fascicolo soltanto il 17 novembre del 2018, dopo una serie di disguidi telematici. È molto più che una baruffa tra polizia e carabinieri, e la scelta di un organo di polizia giudiziaria terzo misura la delicatezza del caso. Alla vigilia della riunificazione dei due processi aperti, il pasticcio della telefonata fantasma rischia di pesare come un'ipoteca su un dibattimento complicato, che le difese affronteranno con l'obiettivo dichiarato della prescrizione. Non è soltanto un'informativa dell'ex capo della mobile pescarese, rivelata da un verbale di indagini difensive, a mettere in moto l'inchiesta quater su Rigopiano. Autonomamente, sulla base di recenti indagini televisive, la Procura ha deciso di tornare su tutti i coni d'ombra della vicenda. Compresa la riunione carbonara del 24 gennaio, sulla quale ieri è stato ascoltato dai Pm Papalia e Serpi il vice comandante dei vigili del fuoco Luca Verna. Protagonista, secondo dichiarazioni a scoppio ritardato, di uno scontro verbale con l'allora prefetto Pescara a proposito della famosa telefonata del cameriere D'Angelo. Un altro mistero di cui non c'è traccia nel verbale ufficiale della riunione.

Tragedia di Rigopiano: le nuove indagini e quella riunione segreta. Le Iene il 9 dicembre 2019.  Una nuova indagine della procura è stata aperta su Rigopiano dopo i servizi di Marco Fubini e Roberta Rei sulle telefonate di Gabriele D’Angelo che sarebbero state nascoste. Noi vi proponiamo una nuova testimonianza che getta ulteriori ombre sul caso. Il 18 gennaio 2017 una valanga di 40mila tonnellate ha spazzato via l’hotel Rigopiano dov’erano presenti 40 persone. Solo undici di loro sopravviveranno, 29 moriranno. Questa settimana sono state archiviate le posizioni di 22 indagati. A oggi l’unico condannato è Alessio Feniello, padre di una delle vittime, per violazione dei sigilli: è colpevole di aver portato dei fiori nel luogo dove il figlio Stefano è morto. Al di là dell’apparente assurdità di questa condanna, quello che ai parenti delle vittime non va giù è proprio l’archiviazione di quei 22 indagati. “Ho provato subito rabbia, sgomento, dolore” ha detto Gianluca Tanda, fratello di una delle vittime, a Roberta Rei. Dopo la messa in onda dell’ultimo servizio di Marco Fubini e Roberta Rei, in cui si raccontava di una telefonata d’aiuto che sarebbe stata nascosta durante le indagini, qualcosa si è mosso: tre carabinieri forestali sarebbero finiti sotto indagine per falso materiale e falso ideologico. Partiamo dall’inizio: c’è sempre stato raccontato che le prime richieste di aiuto sarebbero arrivate dopo la valanga delle 16.47 e che quindi ci sarebbe stato ben poco da fare. La verità però sembra essere differente: le prime telefonate, quelle che sarebbero sparite, sono arrivate molto prima della tragedia. Gabriele D’Angelo, volontario della Croce Rossa e cameriere dell’hotel Rigopiano, ha cominciato a chiamare già dalla mattina, cinque ore prima della valanga in cui anche lui ha perso la vita. Parliamo della telefonata delle 11.38, di cui esisterebbe uno screenshot del telefono fatto dei Ros e che sarebbe stata ignorata. Quella mattina l’hotel era circondato da due metri di neve e 40 persone erano intrappolate nella struttura: le strade infatti erano completamente bloccate. La situazione diventa tragica alle 10.25, quando la terra ha cominciato a tremare per una serie di scosse di terremoto. Gabriele chiama la Prefettura, dove c’era il centro di coordinamento dei soccorsi. Non solo i soccorsi non partono, ma durante le indagini quella telefonata sarebbe sparita. Nell’inchiesta bis sul presunto depistaggio non ci sono solo coloro che avrebbero nascosta la telefonata ma anche quelli che dovevano indagare. Nei nostri servizi vi avevamo raccontato anche di un’altra telefonata, fatta anche questa da Gabriele quella mattina e che sarebbe a sua volta sparita: quella dei suoi amici della Croce Rossa, che loro hanno annotato sul registro del centro soccorsi. I suoi compagni della Croce Rossa avrebbero avvertito i loro superiori, ma nulla sarebbe stato fatto. Per due lunghi anni anche questa telefonata non viene messa agli atti. Sei giorno dopo la tragedia, ci sarebbe stata una riunione tra il Prefetto e le massime autorità in gioco. “Ci siamo incontrati in uno sgabuzzino con un tavolo”, ci ha detto uno dei funzionari che sarebbe stato presente a quella riunione. “È chiaro che tutto veniva coordinato dal Prefetto”. Questo incontro sarebbe avvenuto mentre i soccorritori stavano ancora scavando tra le macerie di Rigopiano. “Ricordo che ci fu un battibecco, il Prefetto diceva che probabilmente si sapeva che era arrivata una telefona al centro di coordinamento dove c’era la Croce Rossa”, ci dice il funzionario. “Una telefonata sul fatto che avevano chiesto l’evacuazione di Rigopiano”. Quella di Gabriele D’Angelo? “Sì”. A questo punto Roberta Rei gli chiede chi ne stesse parlando: “Il prefetto Provolo e Verna”. L’ingegner Verna era il coordinatore del Posto di coordinamento avanzato presso la sede della Croce Rossa, voluto dalla Prefettura, di cui vi abbiamo parlato nel precedente servizio. “Il Prefetto voleva scrivere qualcosa e Verna disse con toni accesi: ‘No no, io non sapevo niente”, continua il funzionario. Secondo lui Verna avrebbe avuto paura che gli dessero la responsabilità per quella telefonata che era arrivata. “Verna coordinava gli interventi su quel territorio, era competente per Farindola”, ricorda. L’ingegnere aveva risposto in modo evasivo alle domande di Roberta Rei. Da quella riunione sembra che la telefonata di Gabriele D’Angelo non sia mai emersa. In quella riunione “il Prefetto voleva rimettere tutto un po’ in ordine”, continua il funzionario. Da quello che ci racconta già sei giorni dopo la tragedia quella telefonata era nota alle autorità, ma da lì non sarebbe mai emersa. Un mese fa il premier Conte e il ministro della Giustizia Bonafede hanno promesso di costituirsi parte civile nel processo Rigopiano, ma a oggi non è ancora successo. Roberta Rei è andata a parlare con Bonafede, che ha assicurato che l’avvocatura dello Stato ha ricevuto mandato di costituirsi parte civile e ha ribadito le sue assicurazioni ai familiari delle vittime. Nelle prossime puntate dell’inchiesta torneremo a parlarvi di molte altre cose che sembrano non tornare in questa vicenda. 

Rigopiano, la tragedia dell'hotel si poteva evitare? Le Iene il 9 novembre 2019. È possibile che qualcuno avesse avvertito la prefettura del pericolo ore prima che la valanga travolgesse l’hotel Rigopiano, causando la morte di 29 persone? Roberta Rei e Marco Fubini hanno indagato su quanto accaduto, nel servizio che potrete vedere domenica dalle 21.15 su Italia 1. “I vigili del fuoco hanno fatto le verifiche e non c’è nessun crollo all’hotel Rigopiano”. Queste incredibili parole sono state pronunciate da una funzionaria della prefettura, rispondendo a una delle prime persone che chiamarono per dare l’allarme subito dopo il crollo dell’Hotel Rigopiano. La struttura è stata travolta da una valanga alle 16 e 47 del 18 gennaio 2017. Nella tragedia morirono 29 delle 40 persone presenti in quel momento: ci sono volute ore prima che l’allarme fosse creduto e la macchina dei soccorsi si mettesse in moto. Nelle varie ricostruzioni della vicenda si è parlato di una tragedia inevitabile, causata da una combinazione di nevicata eccezionale e scosse di terremoto che hanno interessato l’area dell’hotel. Ma se le cose non fossero davvero andate così? Se fosse stato possibile evitare quella tragedia, ascoltando un grido d’allarme arrivato già ore prima che la valanga travolgesse la struttura e le persone che si trovavano lì in quel momento? Roberta Rei e Marco Fubini hanno indagato su quanto è successo in quelle ore e sull’esistenza di una telefonata con una richiesta di soccorsi arrivata in prefettura la mattina di quel terribile 18 gennaio. Quella telefonata è però sparita dagli atti delle indagini? E se sì, perché? Non perdetevi il servizio domenica dalle 21.15 su Italia 1.

Tragedia di Rigopiano: tutti sapevano ma nessuno ha fatto niente? Le Iene il 23 novembre 2019. L’inchiesta di Roberta Rei e Marco Fubini sulla tragedia dell’hotel Rigopiano si arricchisce della testimonianza di due nuovi sopravvissuti. Sono Adriana e Giampiero Parete rimasti sotto la neve e le macerie con la figlia. Lui è stato tra i primi a dare l’allarme. Non perdetevi il servizio completo, domenica a Le Iene dalle 21.15 su Italia1. “Io ero contenta di uscire da lì, ma allo stesso tempo la mia mente era alla bambina. Ogni volta che passavo di vigile in vigile ricordavo che là sotto c’era mia figlia”. L’inchiesta di Roberta Rei e Marco Fubini sulla tragedia dell’hotel Rigopiano prosegue con il racconto di Adriana Parete. Qui sopra vi proponiamo un’anticipazione del servizio che andrà in onda a Le Iene, domenica dalle 21.15 su Italia1. La scena dei Vigili del Fuoco che estraggono la donna dalle macerie e dalla neve è ancora stampata negli occhi di tutti. Il suo primo pensiero è andato alla figlia: “Lei è ancora là sotto. Andate a prenderla”, ha detto ai pompieri. Roberta Rei e Marco Fubini hanno incontrato Adriana assieme al marito Giampiero. Loro sono due degli 11 sopravvissuti alla valanga di 40mila tonnellate che ha sotterrato vive 40 persone. Erano le 16.47 del 18 gennaio 2017, 29 persone sono morte sotto le macerie. Si poteva evitare tutto questo? È sicuro che molte cose non hanno funzionato e alcune sono state addirittura nascoste. Nel primo servizio vi abbiamo parlato delle richieste d’aiuto ignorate e le telefonate sparite (clicca qui per vederlo). Gabriele D’Angelo, cameriere a Rigopiano poi tra le vittime della valanga, già dalla mattina – cinque ore prima della tragedia - aveva chiamato in Prefettura per chiedere aiuto. “Aveva capito che stava succedendo qualcosa di brutto”, racconta il fratello gemello di Gabriele. Alcuni dei sopravvissuti raccontano quelle drammatiche ore e giorni passati sotto le macerie in attesa che qualcuno li portasse in salvo: “Sono rimasto bloccato con solo un braccio libero, avevo la faccia schiacciata contro una persona morta”, ricorda uno dei sopravvissuti. Solo due persone restano incolumi: Giampiero Parete, che darà per primo l’allarme, e Fabio Salzetta, un dipendente che in quel momento si trovava nel locale caldaia esterno all’hotel. Gabriele D’Angelo chiamava dalla mattina per chiedere soccorso, le autorità erano state informate, eppure i soccorsi sono partiti solo dopo la tragedia. Il procedimento per il presunto depistaggio sarà riunito al processo principale sul disastro: se verranno accolte le richieste di rinvio a giudizio saranno in totale 29 le persone accusate a vario titolo di disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni plurime colpose, falso ideologico, abuso edilizio, abuso d'ufficio, omissione di atti d'ufficio e altri reati minori.

Hotel Rigopiano, tutti sapevano e nessuno ha fatto nulla? Le Iene il 25 novembre 2019. Roberta Rei e Marco Fubini tornano a indagare sulla tragedia dell’hotel Rigopiano, in cui hanno perso la vita 29 persone. C’erano vari funzionari che erano a conoscenza delle telefonate di D’Angelo e del pericolo per gli ospiti della struttura prima della valanga e non hanno fatto nulla per evitare la tragedia? “Ero contenta di uscire, ma nello stesso momento la mia mente era alla mia bambina” che era ancora sepolta sotto le macerie dell’hotel. A parlare è Adriana Parente, una dei superstiti della tragedia di Rigopiano in cui hanno perso la vita 29 persone. Il 18 gennaio 2017 una valanga di 40mila tonnellate ha spazzato via quell’hotel dov’erano presenti 40 persone. Solo undici di loro sopravviveranno. Roberta Rei e Marco Fubini tornano a indagare sulla tragedia di Rigopiano. Nel primo servizio, che potete vedere cliccando qui, vi abbiamo parlato delle richieste d’aiuto ignorate e le telefonate sparite. Gabriele D’Angelo, cameriere dell’hotel e poi tra le vittime della valanga, già dalla mattina – cinque ore prima della tragedia - aveva chiamato in Prefettura per chiedere aiuto. “Aveva capito che stava succedendo qualcosa di brutto”, racconta il fratello gemello di Gabriele. Gabriele, anche a seguito di alcune scosse di terremoto che colpiscono la zona, chiama in prefettura dove c’era il Centro coordinamento soccorsi: da lì non solo non partono gli aiuti, ma durante le indagini condotte dal capo della Mobile su quanto accaduto quella chiamata sembra sparire nel nulla. Su questo si basa l’inchiesta bis della magistratura, ancora in corso. Esiste però un’altra telefonata, fatta da Gabriele ai volontari della Croce rossa di cui il tenente colonnello Annamaria Angelozzi, che ha diretto il secondo filone di indagini, sembra avesse già notizia già dal 27 gennaio ma non l’ha messa agli atti. Dopo il servizio ci sono arrivate delle nuove carte che sembrano rendere ancora più gravi quelle dimenticanze. Sembra che Angelozzi avesse in mano i tabulati con tutte le telefonate fatte da D’Angelo quella mattina e sembra siano stati i Ris a inviarle, sottolineando numerosi contenuti di potenziale interesse investigativo. Queste telefonate sarebbero fondamentali per capire se ci sono state delle responsabilità nei ritardi ai soccorsi all’hotel Rigopiano. È possibile che il tenente colonnello Angelozzi fosse a conoscenza di queste telefonate e non le abbia messe agli atti? Dopo che la notizia della telefonata di D’Angelo alla Croce rossa viene divulgata dai giornali e telegiornali, comincia a emergere che forse anche altri erano a conoscenza di quella chiamata. Con Roberta Rei e Marco Fubini siamo riusciti a parlare con Roberto Valentini, il volontario della Croce rossa che rispose alla telefonata di D’Angelo: “Mi ha chiamato sul numero di servizio, era molto preoccupato”, ci dice. Secondo il racconto del volontario, D’Angelo chiese di chiamare la provincia per avere qualche mezzo che potesse liberare la strada. “Ha chiamato diverse volte”, ci dice. A una telefonata successiva risponde Matteo Di Domenico, un altro volontario della Croce rossa: “Sono andato dal delegato del comune, che mi ha indicato di telefonare alla prefettura. Alla prima chiamata nessuno ha risposto. Dopo 25 minuti hanno risposto che non se ne occupavano loro, e mi hanno passato la provincia”. In prefettura però in quel momento era attivo il centro di coordinamento dei soccorsi: era loro il compito di intervenire su quella richiesta. “Gabriele non era il tipo da fare tutte quelle chiamate”, continua Di Domenico. “Avrà visto la situazione di terrore e ha iniziato a insistere”. A quel punto il volontario racconta di aver chiesto all’ingegner Verna, il coordinatore del Posto di coordinamento avanzato presso la sede della Croce rossa voluto dalla prefettura, come muoversi. C’è dunque un altro funzionario pubblico che era a conoscenza della telefonata e non ha fatto nulla? Roberta Rei è andata a quel punto a parlare con l’ingegner Verna: “Abbiamo cercato di gestire tutte le emergenze che abbiamo incontrato. Io mi sono messo a disposizione, mi è stato ordinato dal mio comandante di andare sul posto. Sono arrivato alla Croce rossa di Penne e ci siamo organizzati per fare al meglio il nostro lavoro”. Alla domanda sui brogliacci dov’erano scritte le telefonate di D’Angelo però l’ingegnere se ne va senza rispondere. Sembra dunque che per 22 mesi le telefonate con le richieste d’aiuto di D’Angelo siano scomparse, sebbene fossero in molti a conoscerle. Telefonate che, ricordiamo, avvennero ore prima della tragedia che causò la morte di 29 persone. Nelle ore e nei giorni successivi i soccorsi, arrivati nel luogo del disastro, hanno lavorato eroicamente per salvare chi ancora era vivo sotto le macerie dell’hotel. La figlia di Adriana Parente è stata recuperata viva, ma per 29 degli ospiti della struttura purtroppo non ce l’hanno fatta. Nel servizio di Roberta Rei e Marco Fubini potete sentire lo straziante ricordo di alcuni dei superstiti che in quella tragedia hanno perso la vita. Ci sono volute fino a 60 ore per tirare fuori tutti i sopravvissuti, 60 ore passate al buio e al freddo tra le macerie dell’hotel. Un tempo lunghissimo dovuto non solo alle telefonate di D’Angelo a cui sembra non si sia dato ascolto, ma anche all’iniziale incredulità dei primi a ricevere le chiamate d’aiuto subito dopo la tragedia. Sono passati quasi tre anni dal 18 gennaio del 2017, il processo su quanto sembra non aver funzionato è appena iniziato e le persone deputate a gestire i soccorsi sono ancora tutte ai loro posti. Giampaolo, uno dei superstiti che nella tragedia ha perso la moglie, è andato a confrontarsi con la funzionaria della prefettura che alle prime richieste d’aiuto ha risposto che i Vigili del fuoco avevano fatto le verifiche e non c’era nessun crollo all’hotel Rigopiano. Ma la struttura era isolata fin dall’alba, e non è chiaro quindi come fosse possibile fare una tale affermazione. A ogni modo, sarà la magistratura a stabilire se e chi abbia responsabilità nella gestione dei soccorsi.

Tragedia di Rigopiano: richieste d'aiuto ignorate e telefonate sparite. Le Iene l'11 novembre 2019. Ventinove persone sono morte sotto le macerie dell’hotel Rigopiano, travolto da una valanga il 18 gennaio 2017. Roberta Rei e Marco Fubini indagano su tutto quello che non ha funzionato in quella giornata: era possibile evitare questa tragedia? Alle 16 e 47 del 18 gennaio 2017 una valanga ha travolto l’hotel Rigopiano, nel comune di Farindola in Abruzzo. Gli ospiti della struttura erano quaranta: ventinove sono morti, solo undici sono sopravvissuti. L’allarme viene lanciato poco dopo da Giampiero Parete, tramite il suo datore di lavoro Quintino Marcella. Inizialmente la prefettura sembra non credere alla tragedia e questo causerà un ritardo nella partenza delle operazioni di salvataggio. Non è però solo quel ritardo a destare perplessità: era possibile prevenire quella tragedia? C’è qualcosa di grave che non ha funzionato nella catena di soccorso? Roberta Rei e Marco Fubini hanno indagato su quanto è successo fin dal mattino di quel tragico giorno e sono davvero tante le cose che sembrano non tornare. Ma andiamo con ordine: nei minuti successivi alla tragedia, a lanciare il primo allarme è appunto Giampiero Parete. L’uomo, ospite della struttura, è fuori vicino alla sua auto e viene risparmiato dalla valanga: “C’erano le macchine che erano come spade conficcate nella neve, sembrava fosse scoppiata una bomba”. In quel momento l’hotel di Rigopiano è seppellito sotto 40mila tonnellate di neve. Dopo la prima telefonata al 118, Giampiero continua a chiamare: “Questi numeri di soccorso erano sempre occupati. A quel punto chiamo il professore, è del posto e magari ci aiuta”. Il professore è Quintino Marcella, che riceve la telefonata e chiama subito i numeri d’emergenza, ma non viene creduto. “Questa storia va avanti da stamattina”, gli rispondono dalla Prefettura. “I vigili del fuoco hanno fatto la verifica e non c’è nessun crollo all’hotel Rigopiano”. Di fronte all’insistenza di Marcella la risposta è incredibile: “Purtroppo la mamma degli imbecilli è sempre incinta”. Pensano che si tratti di uno scherzo, ma in quel momento ci sono decine di persone sepolte sotto la valanga. Ventinove moriranno. Quintino Marcella continua a insistere e viene messo in contatto con un volontario della Protezione civile. È lui il primo a credere al crollo dell’hotel Rigopiano e solo dopo un ora e venti la macchina dei soccorsi si mette in moto. Le operazioni d’emergenza raggiungeranno la zona solamente all’alba del giorno dopo a causa non solo dei ritardi ma anche dell’impraticabilità della strada che conduceva all’hotel. Si è sempre sostenuto che si fosse saputo troppo tardi dell’isolamento in cui si trovava l’hotel e del pericolo imminente. Eppure sembra che le cose non stiano proprio così: Gabriele D’Angelo, cameriere a Rigopiano poi tra le vittime della valanga, già dalla mattina – cinque ore prima della tragedia - aveva chiamato in Prefettura per chiedere aiuto. “Aveva capito che stava succedendo qualcosa di brutto”, racconta il fratello gemello di Gabriele. Quel giorno la terra ha tremato varie volte e gli ospiti della struttura erano spaventati. Durante le prime indagini sul crollo, quella telefonata non è emersa. Perché? “Nel momento in cui c’è una situazione di allerta esistono dei piani di emergenza che il Prefetto deve adottare, delle procedure”, sostiene l’avvocato Camillo Graziano. “In quella situazione non è stato fatto nulla di tutto ciò”. Anche a causa di questo le telefonate con le richieste di soccorso sembra non siano state appuntate correttamente: le indagini su quanto accaduto quel giorno partono così dal presupposto che nessuno sapesse dello stato di isolamento dell’hotel, che invece sembra fosse stato denunciato da d’Angelo. Ci vorranno due anni perché la telefonata emerga. “Se i soccorsi si fossero attivati con la telefonata di Gabriele, quante persone si potevano salvare?”, si chiede il fratello. Per capire l’importanza di quella chiamata, è necessario tornare al giorno prima la tragedia: il 17 gennaio. Secondo il racconto di alcuni sopravvissuti la sera prima la strada che portava all’hotel era già ridotta a una corsia e per salire era necessario il lavoro degli spazzaneve. La polizia provinciale, raccontano, lavorava per organizzare il traffico e permettere agli ospiti di raggiungere la struttura. Anche il sindaco sembra sapesse delle condizioni difficili della strada. E allora perché si continuava a permettere ai turisti di recarsi all’hotel? “Il sindaco aveva chiuso le scuole: perché quelle sì e l’hotel no?”.

La mattina dopo, quella della tragedia, c’è chi vuole lasciare l'hotel ma la strada è completamente bloccata. La terra incomincia a tremare forte ed è in quel momento che Gabriele d’Angelo chiama per chiedere aiuto, ma la sua richiesta sembra cadere nel vuoto. Alle 15 Gabriele telefona alla sua fidanzata, chiedendole di andare in Comune per far intervenire uno spazzaneve che permettesse loro di lasciare l’hotel: “La situazione è insostenibile, i clienti sono nel panico e se ne vogliono andare”, racconta la fidanzata. “Mi sono recata subito al Centro operativo del Comune, ma non c’era nessuno”.  Mentre tutto rimane ancora fermo, alle 16 e 47 si stacca la valanga che travolge la struttura. Nel servizio di Roberta Rei e Marco Fubini, che potete vedere qui sopra, alcuni dei sopravvissuti raccontano quelle drammatiche ore e giorni passati sotto le macerie in attesa che qualcuno li portasse in salvo: “Sono rimasto bloccato con solo un braccio libero, avevo la faccia schiacciata contro una persona morta”, ricorda uno dei sopravvissuti. Solo due persone restano incolumi: Giampiero Parete, che darà per primo l’allarme, e Fabio Salzetta, un dipendente che in quel momento si trovava nel locale caldaia esterno all’hotel. Per due anni si è parlato della tragedia di Rigopiano partendo dalla telefonata di Quintino Marcella, avvenuta poco dopo l’impatto della valanga contro l’hotel. Solo dopo si scopre che Gabriele d’Angelo aveva chiesto l’intervento dei soccorsi ben 5 ore prima del disastro, con chiamate ricevute sia in Prefettura sia dal Centro operativo del comune di Penne. Il processo su quanto accaduto quel giorno è partito senza che le telefonate di D’Angelo emergessero. Sembra, però, che quelle chiamate fossero note: il 27 gennaio 2017, nove giorni dopo la tragedia, una email certificata inviata dal capo della Squadra mobile al tenente colonnello dei Carabinieri Anna Maria Angelozzi, incaricata delle indagini, dà notizia di una telefonata di d’Angelo. Lei però non lo mette subito agli atti: succederà solo due anni dopo. “Io non le posso dire nulla”, ha risposto Anna Maria Angelozzi a Roberta Rei. Le prime indagini sulla prefettura di Pescara, il luogo dove sarebbe scomparsa la telefonata di Gabriele D’Angelo, le ha fatte la Squadra mobile di cui Pierfrancesco Muriana era il capo. A telecamere spente Muriana ci dice: “Ho avuto l’impressione di aver fatto una scoperta importante, perché spostava l’orologio della richiesta dei soccorsi. Sarà il processo a dire se cambiava o meno l’esito, però sicuramente era un elemento che andava messo nel patrimonio informativo”. Si sapeva, insomma, già dal mattino delle difficoltà all’hotel Rigopiano. “Se la telefonata al coc fosse stata nascosta... sarebbe grave”, sostiene poi Muriana. Gabriele D’Angelo chiamava dalla mattina per chiedere soccorso, le autorità erano state informate, eppure i soccorsi partirono solo dopo la tragedia. Il procedimento per il presunto depistaggio sarà riunito al processo principale sul disastro: se verranno accolte le richieste di rinvio a giudizio saranno in totale 29 le persone accusate a vario titolo di disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni plurime colpose, falso ideologico, abuso edilizio, abuso d'ufficio, omissione di atti d'ufficio e altri reati minori.

Paolo G. Brera per la Repubblica il 10 novembre 2019. Venghino signori, quanto offrite per il biliardo di Rigopiano, quello «in legno in stile vintage , con sacchette raccogli palle in cuoio e piano in ardesia» intorno a cui i soccorritori trovarono i bimbi scampati alla valanga? Quanto per lo «spazzaneve marca Alpina in condizioni 5/10», troppo piccolo per salvare le 29 vittime? Non importa, lo spazzaneve è già stato aggiudicato. A tre anni dalla tragedia del 18 gennaio 2017, tutto quello che non è stato completamente distrutto è finito in vendita in un' asta giudiziaria per il fallimento - nel 2010 - di una società del gioco di scatole cinesi che gestiva l' albergo. Centinaia di bottiglie di vino, i quadri che apparivano nelle fotografie dei soccorritori; il gruppo elettrogeno che illuminava l' albergo assediato dalla neve e tagliato fuori dal mondo, prima che la valanga lo spazzasse via; i lettini per massaggi, le vasche idromassaggio, le bike della Spa «il cui allargamento illegittimo è per la procura uno dei motivi del disastro», dice uno degli avvocati dei familiari delle vittime, Romolo Reboa; la «caldaia a pellet ideale per l' autonomia di uno stabile di medie dimensioni» che Alessandro Giancaterino cercava di rimpinguare, quando la neve lo travolse: il suo corpo stringeva tra le mani un sacco di pellet. Quindici lotti, base d' asta totale di 29.670 euro. Un tesoretto? «Sono tutti oggetti in pessime condizioni, non capisco a chi possano interessare se non ai collezionisti di oggetti macabri. Abbiamo combattuto chi si faceva i selfie, figuriamoci se accetteremo tutto questo», dice il presidente del Comitato vittime Rigopiano, Gianluca Tanda. L'incanto si è tenuto il 30 ottobre a Pescara nello studio del curatore fallimentare, l' avvocato Sergio Iannucci. Due lotti sono stati aggiudicati al minimo: ceramiche, sculture e quadri per 1.800 euro, il «dipinto comprensivo di cornice» con due figure femminili che campeggiava su un mobile nella sala biliardo (1.230 euro). Un terzo lotto è andato a ruba: l' acquirente ha vinto «una macabra gara al rialzo», dice Tanda, arrivando a offrire 1.800 euro dai 700 iniziali. Si è portato a casa tutte le bottiglie trovate nelle cantine dell' albergo, centinaia di pezzi compresi «N.4 champagne Dom Perignon e N.2 champagne Cristal» che lasciano «sconvolti» i familiari e i sopravvissuti: «Chi può pensare di brindare con quelle bottiglie alla faccia dei nostri 29 angeli?», si indigna Tanda. Il corpo di suo fratello Marco fu trovato accanto alla «casetta in legno da esterno per gioco bambini, interamente realizzata artigianalmente», pezzo forte del lotto numero 20: asta deserta, per i dodici lotti invenduti ne sarà fissata una nuova ribassata. «Il compendio fallimentare - spiega il geometra Edoardo Peluzzi nella perizia - è costituito da beni mobili rinvenuti nell' Hotel Rigopiano, ubicati nella cantina interrata e nelle residue parti ancora esistenti». In cantina sono stati trovati «vini, ceramiche, quadri, accessori ed oggetti d' arredo». E giù un elenco che fa male al cuore, con le foto scattate nell' area sotto sequestro «in cui noi parenti non riuscivamo a entrare nemmeno per un fiore». Oggetti che ancora oggi sono lì tra le macerie. Il geometra Peluzzi il «18 gennaio 2018 riceveva incarico dal curatore Iannucci» di fare stima e inventario dei beni «di pertinenza del fallimento e ad oggi ancora giacenti presso la parte residua dell' Hotel Rigopiano di Farindola». Per «identificare i cespiti e il loro più probabile valore di vendita», il geometra effettua vari sopralluoghi, talvolta accompagnato dal curatore Iannucci, a partire dal 20 novembre 2018, con «attento rilievo fotografico di ogni elemento reperito». I parenti delle vittime non ne sapevano nulla. «Come in una giallo alla Maigret - dice l' avvocato Reboa - sulla scena del delitto spunta un soggetto nuovo: il Fallimento Del Rosso srl, creditore della Gran Sasso Resort & Spa e proprietario dei mobili dell' Hotel Rigopiano messi in vendita con l' autorizzazione del giudice. Il curatore fallimentare mai ascoltato nell' inchiesta penale potrebbe rivelare informazioni preziose su luoghi e autorizzazioni ». «Sono beni della società che gestiva l' albergo - replica Iannucci - che era debitore della procedura fallimentare, ceduti a pagamento di parte del debito. Con l' autorizzazione del giudice, li sto mettendo in vendita. Non c' è collegamento con la valanga, così come non c' entrano le vittime. Il fallimento è estraneo alle vicende dell' albergo perché proprietà di terzi». Ma entrambe le società - Del Rosso e Gran Sasso - sono riconducibili alla famiglia Del Rosso che gestiva l' hotel: uno dei due fratelli morì nella tragedia, l' altro è tra i 26 indagati per omicidio plurimo e disastro colposo. Il processo è appena iniziato.

·        Il Terremoto delle Istituzioni.

Il terremoto dopo il terremoto, scrivono Attilio Bolzoni e Sara Carbonini il 9 aprile 2019 su La Repubblica. Sono passati dieci anni e il terremoto è ancora lì, dentro il dolore di una città che non è più rinata. Dieci anni dopo e in diecimila che vivono ancora in quelle "new town” che avrebbero dovute ospitare "temporaneamente” gli abitanti dell'Aquila senza più un tetto, i paesi abbandonati intorno al cratere, una ricostruzione lenta e segnata da commemorazioni e scandali, processioni e fiaccolate per i 309 morti, gli avvoltoi che si sono aggirati sulle macerie, i ragazzi della Casa dello Studente che non ci sono più, gli appalti sospetti, corone di fiori e grandi affari, i processi destinati alla prescrizione, aprile 2009 e aprile 2019, anniversario dopo anniversario e promessa dopo promessa. Dedichiamo questa serie del Blog Mafie a quei lunghissimi 142 secondi che hanno devastato l'Abruzzo e a ciò che è accaduto (o non è accaduto) dopo, la sofferenza dei sopravvissuti e lo spopolamento, gli appetiti criminali, le esibizioni di Berlusconi e di Bertolaso nei mesi successivi al terremoto, i controlli antimafia e gli "allentamenti” degli stessi controlli, l'abuso delle misure speciali in deroga alle leggi ordinarie, l'emergenza nell'emergenza che ha provocato un altro terremoto dopo il terremoto. Gli autori degli articoli che leggerete hanno seguito fin dalla notte del 6 aprile del 2009 tutte le vicende che riguardano la distruzione e la ricostruzione dell'Abruzzo, ciascuno di loro - (Claudio Abruzzo, Franco Massimo Botticchio, Mattia Fonzi e Angelo Venti) ha "visto” ed esplorato un angolo della tragedia e l'annunciato assalto all'albero della cuccagna. Alcuni di loro scrivono su "Site,it”, un giornale online che per tutto il 2019 ripubblicherà i “pezzi” usciti dieci anni fa sul web e sulla carta stampata sull'Aquila sepolta dalle scosse. Uno "speciale” per non dimenticare.

Terremoto, e l'Italia ancora sotto le macerie. A tre anni dalla scossa il tempo sembra essersi fermato. Ecco cosa blocca la ricostruzione mentre i paesi muoiono. Laura Della Pasqua il 14 agosto 2019 su Panorama. Sono passati tre anni. Nessuno si azzarda più a fare pronostici su quanti ancora ne serviranno per ricostruire quel pezzo d’Italia centrale andata in frantumi con il terremoto del 24 agosto 2016. Gli abitanti delle Sae, le famose casette di legno consegnate dopo due anni di attesa e con mille problemi, sono convinti che non torneranno più nelle vecchie abitazioni ma resteranno in quei pochi metri quadrati di «emergenza» fino alla fine dei loro giorni. Nessun politico osa più promettere che i 138 Comuni distrutti verranno ricostruiti come erano e dove erano. E a dire il vero, i politici da quelle parti non si fanno neanche più vedere. A parte qualche missione lampo del capo dello Stato, Sergio Mattarella, per i partiti, quel pezzo d’Italia, è come se fosse scomparso dalla carta geografica. «Qui ci sono pochi voti da pescare» è il refrain che ripete la gente del posto. Anche i riflettori della stampa si sono spenti. La ricostruzione post terremoto non fa più notizia. D’altronde non ci sono progressi e si tratterebbe di sciorinare sempre le stesse cifre. Le demolizioni continuano con lentezza estenuante. Secondo le ultime rilevazioni, resta da smaltire quasi il 40 per cento dei detriti. Cambiano governi e commissari straordinari, le ordinanze si moltiplicano ma tutto resta bloccato. Le zone rosse sono ancora transennate e nulla si muove in attesa delle pianificazioni urbanistiche. Visso, Ussita e Amatrice sono nel mezzo di parchi naturalistici dove anche per spostare un sasso occorrono mille autorizzazioni. Prima di mettere la firma su una delibera, prima di decretare un lavoro, il funzionario di turno e il sindaco vogliono essere sicuri al cento per cento di non incorrere in qualche illecito. La paura di trovarsi, magari tra qualche anno, sotto il faro della Corte dei conti o della magistratura, paralizza. E allora meglio tirarla per le lunghe, nascondersi dietro i cavilli. Ecco il vero ostacolo che nemmeno il nuovo commissario straordinario alla ricostruzione, Piero Farabollini, è riuscito a rimuovere. La normativa, nonostante le 82 ordinanze, ognuna a correzione di quelle precedenti, contiene ancora talmente tanti temi che si prestano a differenti interpretazioni, da scoraggiare l’assunzione delle responsabilità. I progettisti lamentano che ogni ufficio speciale per la ricostruzione, legge le norme in modo differente e si sbizzarrisce a chiedere più documenti possibili per mettersi al riparo da possibili contestazioni. I numeri del bilancio di tre anni parlano chiaro. La ricostruzione pubblica non è mai iniziata e quella privata conta una manciata di cantieri, su una realtà di circa 76 mila immobili colpiti in modo più o meno grave. Eppure i soldi ci sono, ben 22 miliardi stanziati, ma non si riescono a spendere. Il quadro degli interventi sull’edilizia privata è sconfortante. Secondo gli ultimi dati del commissario straordinario, sono pervenuti 8.168 progetti cioè il 10 per cento degli immobili danneggiati. Questo significa che in tre anni la stragrande maggioranza dei proprietari non si è preoccupata di avviare le procedure per la ricostruzione. Alla lentezza dei terremotati, si sommano i tempi lunghissimi per l’esame delle pratiche. Di 8.168 richieste di fondi pubblici presentate, ne sono state approvate 2.420, cioè una su tre. Se consideriamo tutti i danni del terremoto sul tessuto urbano (cioè i 76 mila immobili lesionati) a oggi, sono formalmente autorizzati ad essere riparati solo tre edifici su cento. Ben 5.511 pratiche sono impantanate nell’istruttoria mentre 237 sono state respinte, probabilmente perché contenevano errori. Va sottolineato che la decretazione di un progetto non significa l’apertura automatica di un cantiere. Il proprietario deve scegliere una ditta e avviare la procedura di affidamento dei lavori. Finora sono stati spesi per l’edilizia privata, solo 200 milioni. Esaminando la situazione delle singole Regioni, nelle Marche, la più danneggiata, su circa 45 mila progetti attesi, ne sono stati presentati 4.958 e approvati 1.668, mentre 3.238 sono ancora sotto esame. In Umbria su 11.882 potenziali richieste di fondi per aprire i cantieri, ne sono arrivate 1.218 e approvate 461. È in corso l’istruttoria per 712. Procede con gran lentezza anche l’Abruzzo. Sono stati approvati 62 progetti su 1.316 presentati a fronte di 10.711 attesi mentre 1.221 stanno completando l’iter. Nel Lazio, con 7.800 immobili lesionati, sono arrivate 676 richieste di finanziamento e approvate 229. Al palo ne restano 340. Continuando con questo ritmo sarà impossibile rispettare la scadenza di fine anno, fissata dal commissario Farabollini, per depositare tutti i progetti. Come si spiega tanta lentezza sia da parte dei proprietari delle case danneggiate sia da parte degli uffici tecnici? Innanzitutto in alcune zone c’è un buon 70 per cento di seconde abitazioni e quindi nessuno ha fretta di effettuare i lavori. In più molti temono che la copertura finanziaria statale non basti e quindi di doverci rimettere di tasca propria. È anche vero che i sopralluoghi sui danni non sono ancora ultimati. Nelle Marche gli uffici tecnici stanno sbrigando le ultime 7 mila schede, le cosiddette Fast, che indicano se un edificio è agibile. Erano state introdotte proprio per accorciare i tempi. Amatrice stima che la ricostruzione del centro storico potrebbe partire tra un paio di anni. Intanto, la comunità si è ridotta del 40 per cento e anche il popolo delle seconde case che, tradizionalmente animava l’estate, è meno presente. L’ostacolo maggiore alla ricostruzione è rappresentato dalle macerie. Deve essere smaltito circa il 30 per cento dei detriti, con punte del 40 in alcune zone. Il sindaco di Norcia, Nicola Alemanno, a La Verità ha denunciato un paradossale intoppo burocratico che sta bloccando qualsiasi iniziativa. «La legge impedisce di portare le macerie private nel sito che raccoglie quelle pubbliche perché sono catalogate in modo diverso. Inoltre, abbiamo dovuto attendere un anno prima che venisse rinnovato il contratto con la ditta incaricata dello smaltimento dei detriti pubblici». Poi lancia il sasso: «Inutile rivolgersi a Regione, commissario alla ricostruzione e Protezione civile: ognuno ha i suoi motivi per non intervenire ma intanto noi siamo bloccati». Il sindaco di Arquata del Tronto Aleandro Petrucci, paese completamente raso al suolo, solleva un’altra questione. «Nei comuni perimetrati, dove gli edifici vanno tutti demoliti, bisogna fare una gara europea per individuare i tecnici che dovranno dire se e dove si ricostruirà». E rivela che Pescara del Tronto andrà «delocalizzata» cioè, di fatto, sarà cancellata dalla carta geografica. A Campotosto, in provincia de L’Aquila, c’è un altro caso di follia burocratica. La normativa sulla ricostruzione varata dopo il sisma del 2009 è in contrasto con i provvedimenti introdotti per quello del 2016. Tra gli ostacoli all’approvazione dei progetti, c’è la presenza dei piccoli abusi edilizi non sanati: sono in grado di bloccare per mesi l’istruttoria della pratica, finché la situazione non viene regolarizzata. Nei borghi dell’Italia centrale non troviamo casi di grande speculazione. Piuttosto difformità lievi, come il bagno ricavato chiudendo un terrazzo (gli edifici storici spesso erano sprovvisti di sanitari), un tramezzo spostato per ricavare una stanza in più, un lavatoio trasformato in un ripostiglio. Inoltre nelle località più danneggiate, gli archivi sono stati sepolti dalle macerie ed è difficile ricostruire la storia degli edifici. Più grave lo stato della ricostruzione del patrimonio edilizio scolastico. Il primo piano di interventi risale a gennaio 2017. L’allora commissario Vasco Errani aveva fatto un elenco di 21 scuole da riaprire con la massima urgenza, entro nove mesi. A distanza di quasi tre anni solo tre strutture sono state ultimate (a Sarnano, Caldarola e Crognaleto). E con donazioni private. In altri tre edifici i lavori procedono a rilento per problemi vari. A San Severino è stata scoperta una necropoli neolitica, mentre a San Ginesio è emerso un vincolo archeologico. Camerino è fermo alla fase di affidamento dei lavori. Le altre 15 scuole dovrebbero essere ultimate per fine anno. All’elenco fatto da Errani, negli anni si sono aggiunte altre 218 strutture scolastiche per le quali non è stato avviata alcuna procedura. Quindi su un totale di 239 scuole solo tre sono state ultimate e consegnate. C’è infine un altro fattore che frena la ricostruzione. A novembre si vota per il rinnovo del Consiglio regionale in Umbria, mentre le Marche sono chiamate ai seggi a maggio 2020. E nell’attesa meglio non prendere decisioni. 

Il terremoto nelle Istituzioni, scrive di Angelo Venti il 9 aprile 2019 su La Repubblica. I terremoti sono tutti uguali, eppure ognuno ha i suoi caratteri distintivi. Quello dell’Aquila – per gli effetti costituzionali, istituzionali, economici, sociali e di legalità prodotti dal modello di intervento messo in atto dal Dipartimento di Protezione civile – è una tragedia inedita nella storia dell’Italia repubblicana. Una lunga emergenza che, per noi che l’abbiamo vissuta in prima persona, ha rappresentato un osservatorio privilegiato da cui si è visto, in anticipo sul resto d’Italia, le moderne forme di illegalità e anche i pericoli per la democrazia derivanti dalla istituzionalizzazione dello stato di eccezione. Una particolarità, questa, che può essere apprezzata nella sua drammaticità solo se ricordiamo e mettiamo a fuoco alcuni passaggi principali.

Lo sciame e l’attesa. Quella aquilana è la prima vera emergenza che, dal 2001, si trova ad affrontare la Protezione civile targata Bertolaso, modellata per la gestione degli affari legati ai Grandi eventi. Ma è un dramma che inizia diversi mesi prima del 6 aprile 2009: da dicembre l’Abruzzo interno è scosso da uno sciame sismico di potenza crescente, mentre il grosso del Dipartimento di Protezione civile è invece impegnato nella preparazione del G8 alla Maddalena: un affare di dimensioni colossali. A L’Aquila l’inquietudine aumenta giorno dopo giorno e dalle istituzioni non arriva alla popolazione nessuna indicazione su come comportarsi, dove concentrarsi in caso di sisma. Non solo: l’organico dei Vigili del fuoco rimane quello ordinario (la notte della tragedia sono presenti solo in 11); il Pronto soccorso del San Salvatore, privo di un piano di evacuazione, addirittura è senza le scorte d’acqua per reidratare le centinaia di feriti. Persino la sede della Prefettura – che nei piani di emergenza è indicata come il Centro di coordinamento dei soccorsi - non viene spostata nemmeno in via precauzionale nonostante risulti inserita nell’elenco degli edifici a rischio: la scossa delle 3.32 la raderà al suolo. La macchina della Protezione civile, la cui mission istitutiva è composta solo da quattro punti (Previsione, Prevenzione, Soccorso e Ripristino), fallisce così i primi due clamorosamente.

La scossa. La scossa del 6 aprile colpisce quindi una città disarmata. In 23 secondi uccide 309 persone, ne ferisce 1.600 e provoca oltre 70mila sfollati. Sono 57 i comuni di un cratere che abbraccia le 3 province di L’Aquila, Teramo e Pescara: è la prima volta, dopo Messina nel 1908, che ad essere colpita direttamente è una città Capoluogo di regione. Si contano oltre 34mila edifici privati inagibili e 1.033 pubblici. Distrutti o inagibili anche molti dei centri decisionali, strategici e di servizio: Prefettura, Uffici giudiziari, Tar Corte d’appello, Corte dei conti, Municipi, Regione, Ospedale, Caserme di esercito e forze dell’ordine, scuole e Università.

I soccorsi. Le colonne mobili delle varie regioni arrivano relativamente in fretta e, anche se si nota l’assenza di coordinamento e difficoltà nella dislocazione sul territorio, nel complesso la fase del Soccorso funziona. Alla fine si conteranno 171 tendopoli ufficiali che daranno ospitalità a 32mila sfollati, oltre a decine di accampamenti spontanei.

Stato d’emergenza. La mattina del 6 aprile il Presidente Berlusconi dichiara lo Stato d’emergenza e, nel pomeriggio, il Consiglio dei ministri nomina Commissario per il terremoto Guido Bertolaso e, come nuovo prefetto dell’Aquila, Franco Gabrielli. Segue subito un terzo e importante passaggio: al Commissario si consegnano il Potere di ordinanza (scriversi cioè le leggi da solo, senza passaggi parlamentari), il Potere di deroga (decidere autonomamente a quali leggi ordinarie si intende derogare, anche quelle sugli appalti) e infine il Potere di spesa (si eliminano i controlli sulle spese). Sulle Ordinanze, in pratica, i due organismi di controllo dello Stato – Corte dei conti e Corte costituzionale – non possono intervenire: un sistema di poteri straordinari molto utili in una emergenza ma che, se posti nelle mani sbagliate, possono portare al libero arbitrio e produrre il disastro.

Di.Coma.C. Mentre i Vigili del fuoco estraggono morti e feriti dalle macerie e i volontari ricoverano migliaia di persone, succede che il Dipartimento nazionale di protezione civile dalla sede di Roma trasferisce nel cratere i suoi uomini più fidati. E per la prima volta nella storia delle catastrofi, a L’Aquila si registra un ulteriore ed inedito passaggio, non di poco conto. Con una semplice Ordinanza viene creata la Di.Coma.C. acronimo di Direzione di Comando e Controllo. Si tratta di una struttura di cui non vi è traccia nella nostra storia dei disastri, non si ha notizia di un quadro normativo che ne regoli composizione, poteri e competenze ma che eserciterà per quasi un anno il suo potere assoluto nella gestione dell’emergenza sull’intero cratere. Si tratta di una nuova entità con una serie sconfinata di funzioni e competenze - a cui si aggiungono anche infrastrutture e strutture post-emergenziali - che consentirà alla Protezione civile, per la prima volta nella storia delle catastrofi italiane, di occuparsi anche di ricostruzione. La nuova struttura può contare anche su una task force già collaudata dal Dipartimento nella gestione dei Grandi eventi, in particolare un potente Ufficio giuridico per la stesura delle ordinanze e un efficiente Ufficio stampa che all’Aquila verrà ulteriormente potenziato, a cui si aggiungono due altre strutture che avranno un ruolo di rilievo negli avvenimenti successivi: il centro di ricerca Eucentre e la Reluis. La Dicomac nel pomeriggio del 6 aprile si insedierà alle porte della città nella Scuola della Guardia di Finanza. Si tratta di una vera e propria cittadella militare: 45 ettari racchiusi da oltre 2 km di cinta muraria, uffici di comando, piazza d’armi, auditorium, impianti sportivi, alloggi, aule didattiche, mensa, infermeria, autoparco, centrali tecnologiche, eliporto con decollo sia diurno che notturno, 4mila metri di parcheggio. Il Dipartimento la chiama “Cittadella delle istituzioni”, in realtà durante l’emergenza – e soprattutto dopo il trasferimento a L’Aquila del G8 della Maddalena - è stata percepita dagli aquilani come le cittadelle medievali, con i potenti chiusi dentro mura fortificate per difendersi dai sudditi che anche per raggiungere un ufficio pubblico, erano costretti a subire pesanti controlli ai cancelli e, una volta autorizzato l’ingresso, ad essere accompagnati all’interno. In questa struttura vengono trasferite tutte le sedi istituzionali, amministrative e politiche e qui vengono ospitati, per tutta la fase dell’emergenza, gli inviati delle più grandi Tv e testate giornalistiche.

Militarizzazione, spopolamento, esautoramento, disarticolazione. Di fatto le strutture decisionali e i centri di gestione della spesa sono, anche fisicamente, saldamente sotto il controllo del Dipartimento. Gli enti locali democraticamente eletti vengono progressivamente esautorati dei loro poteri e le forze dell’ordine disarticolate nel loro funzionamento. Contemporaneamente, con la creazione di centinaia di zone rosse e Checkpoint, il Dipartimento completa la militarizzazione del territorio e con lo slogan «Tutti al mare a spese dello Stato», avvia lo spopolamento del cratere: 35mila sfollati sono trasferiti sulla costa e quasi altrettanti chiusi in 171 tendopoli. La Protezione civile viene così meno anche all’ultimo dei suoi compiti istitutivi: il Ripristino della normalità per le comunità e l’economia locale.

Modello Bagdad e Progetto C.a.s.e. In un territorio militarizzato, svuotato dei suoi abitanti e con gli enti locali esautorati dei loro poteri parte, come si trattasse di un Grande evento, anche la gestione mediatica del terremoto: per la prima volta si assiste all’applicazione del Modello Bagdad dell’informazione in Italia, con giornalisti accreditati che si muovono solo al seguito delle truppe, anche se della Protezione civile. In questo quadro Berlusconi e Bertolaso iniziano a parlare di New Town, poi il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi lancia lo slogan “dalle tende alle case”. Appena due settimane dopo il terremoto, il 23 aprile 2009, un decreto del consiglio dei ministri approva ufficialmente il Progetto C.A.S.E., dove l’acronimo sta per Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili. Sarà definito “Il cantiere più grande d’Europa”: 19 localizzazioni per realizzare in appena 6 mesi circa 4.500 alloggi destinati a ospitare quasi 16mila sfollati. Un investimento colossale che va ad aggiungersi a tutti gli altri interventi milionari previsti nel cratere.

Le ordinanze che cancellano i reati, scrive Angelo Venti il 10 aprile 2019 su La Repubblica. Per L’Aquila, quella del 6 aprile, è certamente un’alba tragica, e non solo per i lutti e le macerie. Come si è scritto già nel precedente articolo, la scossa delle 3.32 colpisce una città disarmata e causa 309 morti, ma nel giro di pochi giorni nel cratere si istaura uno Stato di eccezione con la sospensione dello Stato di diritto, almeno per come finora conosciuto. Al Dipartimento sono bastati pochi giorni e poche mosse per dispiegare la sua geometrica potenza: Stato d’emergenza; nomina Commissario con Poteri speciali (Ordinanza, Deroga e Spesa); Di.Coma.C. che assorbe enti e istituzioni locali esautorandoli dei loro poteri; disarticolazione delle forze dell’’ordine, spopolamento e militarizzazione del territorio. Una situazione inedita, a cui la seconda settimana la DNA guidata da Pietro Grasso risponde con il pool di magistrati per il terremoto: è chiaro che le chance di ricostruzione si basano sulla capacità di contrasto a corruzione e mafie, e anche che la partita è tutta interna ai gangli vitali delle istituzioni. I primi problemi di legalità si manifestano già nella gestione delle spese per le tendopoli, gli appalti dei bagni chimici, lo smaltimento macerie e infine i puntellamenti. Con il varo del Decreto Abruzzo, è già chiaro che si stanno creando i presupposti per una speculazione edilizia senza precedenti che segnerà per sempre il futuro ambientale, economico, sociale - e criminale – del cratere e dell’Abruzzo intero. Sono 31 i cantieri dei Map (Moduli abitativi provvisori), 53 quelli dei Musp (Moduli uso scolastico provvisorio) e ci sono persino i Mep (Moduli ecclesiastici provvisori). Si aggiunge il Progetto C.A.S.E. con i suoi 4.450 alloggi per 18mila sfollati distribuiti in 19 insediamenti e infine i consistenti appalti legati al G8. Si tratta di miliardi di euro che suscitano gli appetiti di cricche nazionali, comitati d’affari e consorterie locali, criminalità organizzata e mafie, con tutto il contorno di corruzione, clientele, illegalità diffuse e relazioni pericolose tra poteri forti, politici, funzionari, professionisti e imprenditori. Nell’estate aquilana è quasi impossibile tenere sotto controllo quanto gira vorticosamente nel cratere, complice lo spopolamento e la militarizzazione del territorio e l’assenza quasi completa di trasparenza del Dipartimento, restio se non reticente nel fornire informazioni, in particolare dati e nomi delle ditte subappaltatrici. Per il G8 tutto si risolve con l’apposizione del Segreto di Stato sui lavori in corso nell’aeroporto e nella Scuola della finanza, scelta come sede del vertice. Ma i cantieri legati all’emergenza sono moltissimi ed è difficilissimo tenere tutto sotto controllo: a fronte di decine di imprese che si aggiudicheranno gli appalti, saranno invece migliaia le subappaltatrici.

Gli strumenti di contrasto. Con il decreto Abruzzo n. 39 del 28 aprile 2009 si innalza il limite delle opere subappaltabili dal 30% al 50%. E si prevedono anche « permeanti controlli antimafia sui contratti pubblici e sui successivi subappalti e subcontratti aventi a oggetto lavori, servizi e forniture », e la fornitura di alcuni strumenti: decreto sulla « Tracciabilità dei flussi finanziari »; «White list» delle imprese oneste; «Sezione specializzata» del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere; « Gruppo interforze centrale per l’emergenza e ricostruzione » (cosiddetto Gicer). Questo si decretava ad aprile. Evidentemente non tutto è filato se otto mesi dopo, a dicembre, data in cui il Progetto Case doveva essere già finito, fu proprio SITe.it a dare notizia che: del decreto sulla tracciabilità dei flussi finanziari non vi era traccia; il decreto che stabiliva composizioni e compiti della “Sezione specializzata” e del “Gicer” a fine 2009 non risultava ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale; la prima riunione della « Sezione specializzata » si sarebbe invece tenuta solo l’11 novembre. L’intera fase del soccorso e della ricostruzione leggera nel corso della quale si è proceduto in deroga a ogni norma gestendo oltre un miliardo di euro di fondi pubblici, è stata quindi condotta così senza attivare strumenti essenziali previsti già aprile. E a testimoniare il fallimento sono proprio gli scarsi risultati conseguiti.

L’Ordinanza cancella reati. Ma quello messo in piedi in Abruzzo appare come un sistema opaco che permette non solo di aggirare le regole e i controlli ma anche, all’occorrenza, cancellare le prove raccolte eliminando retroattivamente i reati. Un assaggio si era già avuto a maggio, quando con una ordinanza il Dipartimento cancellò retroattivamente l’uso dei formulari, impedendo così i controlli sul reale espurgo dei bagni chimici, la replica si ha con l’ordinanza n. 3820 del 12 novembre 2009. Il bubbone scoppia per caso, quando a luglio le forze di polizia arrestano un latitante che lavora per un’impresa non autorizzata ai subappalti. Sorge il dubbio che il fenomeno sia molto più esteso, così da settembre si eseguono accessi in due cantieri del Progetto Case, Bazzano e Cese di Preturo. Decine di uomini in divisa identificano oltre 1.500 persone e controllano centinaia di mezzi: nella rete ben 132 ditte sospettate del reato di subappalto non autorizzato. La previsione di altri accessi rischia di far crollare tutto il castello di appalti e subappalti. Così a metà novembre il Dipartimento corre ai ripari e inserisce nell’ordinanza 3820 un semplice comma che recita: «Le autorizzazioni rilasciate dal Dipartimento della Protezione civile per il subappalto dei lavori relativi alle strutture abitative e scolastiche realizzate o in corso di realizzazione […], hanno efficacia dalla data di presentazione delle relative domande […]». L’ordinanza cancella così uno dei capisaldi della normativa antimafia che regola il settore dove più spesso si annidano le imprese dalla dubbia origine, quello dei subappalti. E agli inquirenti si sottraggono sotto il naso anche le prove già raccolte. Per dare la misura della posta in gioco, basta ricordare che il 30 dicembre - grazie all’esplodere delle clamorose inchieste di Firenze - viene sventato un colpo di mano ancora più devastante: lo scudo giudiziario per i Commissari delle emergenze, insieme alla Protezione civile spa, viene stralciato. Nella bozza del decreto legge per le emergenze Campania e Abruzzo, si leggeva nell’ultimo comma dell’art. 3: «Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al gennaio 2011 non possono essere intraprese azioni giudiziarie ed arbitrali nei confronti delle strutture commissariali e delle unità stralcio e quelle pendenti sono sospese». Un tentativo di assicurarsi l’impunità bloccato in extremis, ma che dà la misura della posta in gioco tra le macerie dell’Aquila.

Bilancio di un fallimento. Sono comunque tante le inchieste, partite con molta fatica, su infiltrazioni e corruzione negli appalti assegnati nell’emergenza per i lavori sui Map, Musp, Progetto Case, bagni chimici, appalti G8 e Progetto case, puntellamenti, scuole della provincia, infrastrutture pubbliche, beni artistici, chiese: si è indagato persino sul numero di bare pagate per i solenni funerali di stato per le vittime del sisma. Una lunga lista di processi che stanno concludendosi però quasi tutti con lo stesso timbro: prescrizione. Si è omesso di trattare in questo articolo della ricostruzione privata dove, se possibile, il quadro è anche peggiore a causa di un quadro normativo volutamente molto carente. In sintesi: la scelta di trasformare il Contributo dello Stato in Indennizzo al proprietario, consente a quest’ultimo di scegliersi la ditta che esegue i lavori e il tecnico di fiducia che progetta l’intervento, segue i lavori …e certifica anche il danno subìto. Se i tre soggetti si mettono d’accordo per una truffa, per il truffato – cioè lo Stato che è quello che ci mette i soldi - non esistono adeguati strumenti di controllo e verifica.

Rigopiano, ecco le prove che «il prefetto depistò le indagini». Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Virginia Piccolillo su Corriere.it.  «Depistavano le indagini, omettendo» di riferire di quella telefonata di aiuto ricevuta dal cameriere dell’Hotel Rigopiano, Gabriele D’Angelo, alla quale non credettero. Per questo si va verso la richiesta di rinvio a giudizio per l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo e altri sei in servizio quel giorno. Compresa la funzionaria Daniela Acquaviva che sottovalutò la situazione, pensò che fosse uno scherzo e disse la famosa frase: «La mamma dei cretini è sempre incinta». Nell’avviso di chiusura indagini, firmato dal comandante dei carabinieri forestali di Pescara, Anna Maria Angelozzi, è ricostruita tutta la vicenda. Nelle 49 pagine dell’atto vengono messe nero su bianco le bugie che il prefetto e il suo staff dissero alla Squadra mobile di Pescara per nascondere quella telefonata imbarazzante. Gabriele D’Angelo alle 11. 38 del 18 gennaio 2017, telefonò alla sala operativa della prefettura chiedendo aiuto per le «45 persone» intrappolate a Rigopiano. E invocando di sgomberare la strada. Invano. Fu tra i primi ad essere ritrovato senza vita sotto la neve. Ma alla sua telefonata nessuno accennò. Accusati di Depistaggio anche Ida De Cesaris (accusata anche di falso), capo della sala operativa; Gianfranco Verzella; Giulia Pontrandolfo; Sergio Mazzia; Salvatore Angieri.

Rigopiano, telefonata shock: "Non mi frega niente, l'emergenza è altro". Dalle carte dell'inchiesta bis spunta una telefonata choc: "Più importante cercare una turbina per liberare le strade, non chi mi dice di aver paura", scrive Luca Sablone, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale.  Prefettura particolarmente ansiosa ed egoista al momento dei primi segnali riguardo le indagini sulla gestione del post Rigopiano: il quadro restituito in seguito all'informativa dei carabinieri forestali è davvero crudele. L'ipotesi è che l'elenco delle segnalazioni ricevute il giorno della tragedia sia stato occultato dai sette indagati (l' ex prefetto Provolo, i due viceprefetti distaccati Angieri e Mazzia e i dirigenti Verzella, Pontrandolfo, Acquaviva e De Cesaris): in particolare l'obiettivo sarebbe stato far perdere traccia della chiamata del resort ricevuta alle 11.38 del 18 gennaio ed effettuata dal cameriere Gabriele D'Angelo. Dopo diversi mesi fu ritrovato un bigliettino con degli appunti che però presentava una parte tagliata e che - a giudizio degli inquirenti - conteneva proprio la telefonata di D'Angelo.

L'orrore continua. Angieri, una volta avviate le indagini per depistaggio, scaricò le inadempienze a Provolo e al Questore mediante una chiamata con Mazzia: "A noi ci hanno detto di raccogliere tutti questi documenti e poi glieli abbiamo mandati e l'abbiamo firmata noi su indicazione del Prefetto, perché il Questore gliel'ha detto cosi, stava lì il Questore, in stanza con lui". In una successiva conversazione, si legge su Il Messaggero, Angieri tirò in ballo anche Pierfrancesco Muriana, ex capo della squadra mobile: "Cioè, noi siamo arrivati dopo, quello che abbiamo trovato abbiamo messo lì dentro. Lì il Prefetto ci ha detto di firmarla, noi veramente non eravamo molto contenti, però disse: io vi metto a disposizione il dirigente della mobile. E quindi con il dirigente della Mobile abbiamo preparato questa cosa cioè con quello a cui doveva andare la relazione". Angieri poi confessò sempre a Mazzia: "Questa è un po' la nostra ancora di salvezza. Secondo me eh, per come stanno impostando l' indagine, è un fatto nuovo che gli dà fastidio, li intralcia capito, per cui a tenerci lì dentro diventa un po' complicato". In altre telefonate intercettate è stata rinvenuta l'ammissione da parte di Provolo circa il malfunzionamento della prefettura avente un "capo di gabinetto di m****" e una "dirigente sfaticata". Infine vi è stata anche una rivendicazione relativa alle richieste di aiuto da Rigopiano. Verzella in una chiamata disse: "Io dovevo segnalare altre situazioni, io dovevo tenere presente altre cose. Cioè per me era più importante cercare una turbina per liberare le strade che non uno che mi telefona e dice c' ho paura, sto all' albergo di Rigopiano, cioè non me ne frega un cazzo di niente di quello lì, cioè con tutto il rispetto per me l' emergenza è un' altra".

Rigopiano, il prefetto e il caos dopo la valanga: "Qui c'erano solo incapaci e sfaticati". Provolo (che rischia il processo nell'inchiesta sul presunto depistaggio delle indagini) parla così dei dirigenti della sala operativa che gestirono l'emergenza. E le richieste di intervento venivano scarabocchiati su foglietti volanti, come testimonia il brogliaccio riapparso solo nello scorso novembre, scrive Fabio Tonacci il 18 aprile 2019 su La Repubblica. Nello strappo di un brogliaccio tenuto nascosto per quasi due anni, precipita l'intera prefettura di Pescara. Qualcuno ha provato a cancellare le tracce dell'unica telefonata che, forse, avrebbe potuto cambiare la storia della strage dell'Hotel Rigopiano. O, per lo meno, creare le condizioni per un intervento di soccorso più tempestivo. E leggendo le intercettazioni allegate all'inchiesta della procura di Pescara sul presunto depistaggio delle indagini (in sette rischiano il processo, tra cui l'allora prefetto di Pescara Francesco Provolo, i viceprefetti Salvatore Angieri e Sergio Mazzia), non è difficile intuirne il motivo: quell'articolazione periferica dello Stato, chiamata a gestire l'emergenza neve e terremoto del 18 gennaio 2017, era nelle mani di "incapaci" e "sfaticati", per usare le parole dello stesso Provolo. Dove le richieste di intervento dei cittadini venivano scarabocchiate su foglietti volanti, prima di perdersi nel caos.

"La dirigente è una sfaticata". La telefonata al centro dell'indagine dei Carabinieri Forestali è quella del cameriere dell'Hotel Rigopiano, Gabriele D'Angelo, fatta alla sala operativa della Prefettura di Pescara alle 11.38 del 18 gennaio. Sei ore prima della valanga. La chiamata (la cui esistenza è stata svelata dal Tgr Abruzzo nel novembre scorso, quando saltò fuori fuori il brogliaccio da cui era stato strappato l'appunto) venne presa dalla funzionaria Giulia Potrandolfo: segnalava l'isolamento dell'albergo e la richiesta dell'invio di un mezzo spazzaneve, ma non risulta in nessuna delle relazioni che la prefettura consegnò agli investigatori. Il brogliaccio della sala operativa della prefettura di Pescara, riapparso lo scorso novembre, con gli appunti scritti a mano sulle richieste di soccorso: la parte scura è quella che conteneva la telefonata del cameriere Gabriele D'Angelo, strappata per non lasciare tracce. Provolo, che ora è al Dipartimento dei Vigili del Fuoco, è stato intercettato. Al telefono è una furia. "Guarda tu non hai idea - si sfoga con la prefetta Gerardina Basilicata, che lo ha sostituito a Pescara - stavo senza vicario, un capo di gabinetto di merda... la dirigente sta sfaticata... Figurati io il 18 gennaio non sono riuscito nemmeno a scendere giù in sala operativa per vedere i casini che stavano facendo. (...) Che quella era una cretina che non sapeva gestire la sala operativa lo sapeva tutto il mondo!". 

"A Rigopiano stavano al caldo". Insomma, la sala operativa quel 18 gennaio di due anni fa era un suk di carte volanti, da cui, guarda caso, sparisce proprio l'appunto della telefonata di Gabriele D'Angelo. Coordinatrice della Sala operativa, e probabile oggetto dell'ira di Provolo, è la dirigente Ida De Cesaris, anch'essa innervosita dalla notizia dell'apertura di un filone d'indagine sul depistaggio. "Ma poi uno che mi telefona la mattina - si legge in un'intercettazione di De Cesaris - sei ore prima della valanga, io avevo richieste (...) boh, quello mi dice "abbiamo paura", e se avete paura state lì al caldo belli belli, qualcosa facciamo". De Cesaris è indagata anche per falso, perché secondo la procura ha mentito dichiarando di essersi prontamente attivata per una mail di allarme inviata dall'Hotel Rigopiano alle 13.48, quando invece se ne occupò alle 17. 

"Messi in mezzo dal prefetto". Rischiano il processo anche due viceprefetti, Sergio Mazzia e Salvatore Angieri, inviati dal ministero dell'Interno a Pescara, dopo la valanga. Furono loro a firmare la relazione contenente i documenti della prefettura consegnata poi alla polizia (nelle intercettazioni fanno più volte il nome del capo della Squadra Mobile, Pierfrancesco Muriana, con il quale dicono di aver interloquito prima della firma). Provolo - a detta loro - si rifiutò, su consiglio del questore di Pescara Francesco Misiti. "L'abbiamo fatto noi su indicazione del prefetto perché il questore gli ha detto cosi, stava lì il questore in stanza con lui, ecco pensa te! - rivela in una conversazione Angieri - dovevamo dirgli, guardate, noi ce ne torniamo a casa, non la firmiamo (...) Con Provolo, non voglio avere niente a che fare. Per me è un delinquente, ci ha messo in mezzo ad arte".

Lo scandalo dei bagni chimici, scrive Claudio Abruzzo l'11 aprile 2019 su La Repubblica. La puzza che si avverte è ancora forte quando si rimescolano le carte dell’Affaire bagni chimici. Non nascondiamo che ripercorrere dopo dieci anni le varie tappe di quello che è stato lo scandalo più clamoroso dell’emergenza aquilana provoca a noi abruzzesi ancora molto fastidio e tanta rabbia. Ed è una parola, impressa a fuoco quasi come un marchio sui faldoni del processo, che brucia più di altre e suona come una ulteriore beffa: prescrizione. Così l’opinione pubblica e gli sfollati aquilani nemmeno dopo dieci anni sapranno – anzi, non lo sapranno mai più - chi sono i colpevoli per lo scandalo dei 34 milioni di euro spesi per i bagni chimici, fondi pubblici sperperati per pagare un servizio per cui ogni ospite delle tendopoli poteva produrre fino a 100 litri al giorno di pipì e popò. Eppure non doveva finire così, perché le indagini – eseguite dalla Squadra mobile dell’Aquila guidata da Salvatore Gava - partirono nell’estate 2009 con i presunti reati in corso d’opera. Il processo, Pm Antonietta Picardi, si è concluso invece 7 anni dopo con la prescrizione, dopo aver celebrato una sola udienza utile in primo grado. Una vergogna senza se e senza ma. Per gli sfollati e per chi la vicenda l’ha seguita dall’inizio, compresi gli agenti della Squadra mobile che indagarono, più forte della puzza è quindi lo sconcerto e l’avvilimento nel vedere come l’inchiesta “i soldi nel cesso” si è progressivamente trasformata, nel disinteresse delle istituzioni, in “il Processo nel cesso”.

L’oro dei bagni chimici. Ogni post sisma ha le sue regole. Chiunque ha vissuto una simile esperienza sa che le prime necessità dell’emergenza sono dettate dai bisogni primari dei sopravvissuti: dopo l’acqua c’è necessità di vestiario e coperte, seguono il cibo e le medicine, infine il ricovero in tenda e …i bagni. E a L’Aquila, i cessi, arrivarono già dalle prime ore dopo la scossa: un affare di dimensioni colossali. Nel culmine dell’emergenza aquilana si conteranno 32mila sfollati ospitati nelle 171 tendopoli censite dalla Protezione civile e 4mila bagni chimici, scesi poi a 3.200: secondo un report pubblicato sul sito della Protezione civile (e poi rimosso), la spesa per i soli bagni sfiora i 34 milioni di euro. Fu la redazione di SITe.it a raccogliere già nei primissimi giorni delle segnalazioni – acquisite subito dalla Squadra mobile dell’Aquila guidata da Salvatore Gava – che parlano di liquami smaltiti illegalmente, bolle di trasporto falsificate, fatture gonfiate, ditte subappaltatrici che si sabotano i mezzi per contendersi la gestione di più bagni possibili… Una serie di irregolarità e reati gravi e una posta in gioco molto alta: l’appalto è da decine di milioni di euro. Il contratto firmato in tempo di pace tra il Dipartimento nazionale di Protezione civile e la ditta aggiudicataria Sebach prevede per ogni bagno un costo giornaliero di noleggio di 23,40 euro comprensivo di una pulizia e un espurgo, mentre per ogni eventuale espurgo aggiuntivo la spesa giornaliera è di altri 18,60 euro. E succede che a L’Aquila il Dipartimento di Protezione civile decide di strafare: richiede ben 3 espurghi aggiuntivi e fa così lievitare il costo di ogni singolo bagno a quasi 80 euro al giorno. Un servizio decisamente eccessivo – e che secondo i calcoli più prudenti risulterebbe di almeno 4 volte superiore al necessario - per il quale ogni ospite delle tendopoli aquilane può produrre fino a 100 litri al giorno di pipì e popò. La cosa puzza e le forze dell’ordine si mettono subito al lavoro: il sospetto è che i 4 espurghi non siano in realtà effettuati dalle ditte subappaltatrici e che i liquami non siano smaltiti correttamente.

Gli ostacoli istituzionali. I primi bastoni a infilarsi tra le ruote degli inquirenti non arrivano dalle ditte, ma dalle istituzioni: il 13 maggio 2009, il Dipartimento di protezione civile emana – in nome dell’emergenza e in deroga a a leggi ordinarie - la ordinanza n. 3767 mentre la Commissione territorio, ambiente e beni ambientali del Senato il giorno prima aveva accolto l’emendamento n 9100. Con i due provvedimenti, di fatto, si abolisce l’obbligo di tracciabilità dei rifiuti e dei liquami dei bagni chimici: per gli inquirenti diventa quindi impossibile riscontrare il numero effettivo degli espurghi, mentre anche gli sversamenti illeciti diventano impossibili da accertare. Un regalo enorme alle ditte subappaltatrici e una mazzata per gli inquirenti.

La Mobile va avanti. Azzoppati dall’ordinanza che li priva di uno strumento fondamentale di controllo, gli uomini della mobile non si scoraggiano e, tra mille difficoltà, proseguono comunque le indagini. Effettuano controlli, pedinamenti, cronometrano i tempi di pulizia dei bagni, acquisiscono documenti. Accertano che le 4 pulizie al giorno richieste (e pagate) dal Dipartimento non sono effettuate, scoprono palesi violazioni contrattuali e della legge sul subappalto, verificano che molti documenti sono contraffatti e che funzionari e tanti capi campo non avrebbero controllato e vigilato sul servizio. Una informativa della Mobile ipotizza dei reati nell’assegnazione dell’appalto da parte del Dipartimento: “Le condotte potrebbero essere indicative della tendenza, da parte della stazione appaltante, a favorire l’Ati Sebach nell’aggiudicazione del bando”. Ma è nell’esecuzione dell’appalto, che si materializzerebbe l’ipotesi di truffa e di una serie di altri reati, consumati quasi tutti a L’Aquila, nel corso dell’emergenza. “L’Ati Sebach – continua l’informativa – servendosi di ditte affiliate, ha fatto risultare un numero di operazioni di pulizia dei bagni chimici maggiore di quelle effettivamente compiute nei diversi campi nel periodo post sisma, in relazione ai tempi minimi calcolati per lo svolgimento di tali operazioni». E nella relazione si avanza anche un altro terribile sospetto: “è di gran lunga più probabile che i veicoli impegnati nello smaltimento liquami trasportassero sostanze differenti da quelle per il quale il servizio era stato disposto”. Ad avvalorarlo è la procuratrice della Sebach Cristina Galieni, che riferisce di aver appreso dai loro controllori che “tutta Italia veniva a scaricare a L’Aquila sostanze non meglio specificate”. Dalla lettura dell’informativa, anche il panorama dei rapporti tra ditte appaltatrici e Dipartimento è da far tremare i polsi: “Tutta la documentazione acquisita è stata prelevata a Roma presso il Dipartimento ove era custodita in modo non catalogato, alla rinfusa dentro alcuni scatoloni. […] Numerosi rapporti sono privi di nominativo, delle indicazioni sui servizi svolti, degli orari, dei campi e delle sottoscrizioni. Almeno in due rapporti d’intervento risultano contraffatte le firme del responsabile dell’area di accoglienza”. Cristina Galieni, procuratrice Sebach, riferiva agli agenti che “il pagamento del servizio reso sarebbe stato retribuito da parte del Dipartimento come da contratto, senza verifica delle operazioni effettivamente svolte”. Per i rapporti tra Dipartimento e Sebach, gli agenti mettono nero su bianco: “E’ evidente che a monte, oltre ad un accordo preordinato e finalizzato a rendere non intelligibili quei dati, vi è stata una scarsa (per non dire totale assenza) vigilanza da parte di quel personale preposto al controllo delle operazioni, proprio a fronte della spesa presunta che quel Dipartimento avrebbe dovuto sostenere giacché si aveva la consapevolezza sia del quantitativo dei bagni installati sia delle operazioni di pulizia che venivano indicate (ma non effettuate)”.

Parte il processo: anzi, due. Nel 2012 si chiudono le indagini e parte il processo, che si sdoppia però in due tronconi: il primo finisce a Roma. Riguarda soprattutto gli aspetti legati a contratto e gara d’appalto e vede tra gli indagati per abuso d’ufficio anche Guido Bertolaso: questa tranche si conclude velocemente, dopo una richiesta di archiviazione, con dei proscioglimenti. Il secondo troncone rimane a L’Aquila ed è relativo all’ipotesi di “falso materiale commesso da privato e frode nelle pubbliche forniture”. Nel maggio 2012 il pm Antonietta Picardi chiude le indagini preliminari: indagate solo l’ex amministratrice e altre due dipendenti della Sebach.

“Il Processo nel cesso”. A L’Aquila la prescrizione arriva già nell’ottobre 2016, ma è l’iter del processo a gridare vendetta. Nel tribunale del capoluogo abruzzese si sono tenute in totale 7 udienze: le prime 4 sono state tutte rinviate o per difetti di notifica o perché lo stesso Pm non si è presentato in aula. Nella quinta udienza, come nel gioco dell’oca, si ricomincia d’accapo: il giudice rinvia gli atti alla procura con l’invito al pm Antonietta Picardi a “riformulare i capi d’imputazione”. La sesta udienza è praticamente da considerare come la prima e unica udienza utile: il giudice dichiara il “non luogo a procedere perché il fatto non sussiste” per le due dipendenti e rinvia a giudizio solo l’amministratrice della società concessionaria per “frode nelle pubbliche forniture”. La settima udienza è la più rapida: al giudice non resta che prende atto della intervenuta prescrizione. Amen.

Sisma all’Aquila 10 anni dopo: Letta e Gabrielli in difesa di Bertolaso. Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Virginia Picolillo su Corriere.it. «In questi giorni ci si è ostinati a dare una rilettura che non è la verità. Bertolaso è stato ingiustamente massacrato». Perde il suo consueto aplomb istituzionale, Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Berlusconi all’epoca del sisma del 6 aprile 2009. E in occasione della celebrazione del decimo anniversario del terremoto, nella Scuola ispettori della Guardia di Finanza, divenuta in quei giorni quartier generale dell’accoglienza, dei soccorsi e della reazione operativa alla tragedia, di fronte al comandante generale della Gdf, Toschi; al capo della protezione civile Angelo Borrelli; e del capo della polizia Franco Gabrielli, si lancia in una difesa appassionata dell’operato della Protezione civile e dell’ex numero uno, Guido Bertolaso, finito sotto inchiesta, ma poi scagionato, nell’ambito dell’inchiesta sulle false rassicurazioni della commissione Grandi Rischi alla popolazione (per le quali venne condannato il suo numero due Bernardo De Bernardinis). Uno sfogo, contro le ricostruzioni di questi giorni: «Non sapete quanto mi hanno addolorato». A giudizio di Letta lontane dalla realtà: «Lo stato dell’arte è assolutamente positivo, basta vedere la parte ricostruita e la parte in costruzione e i cantieri che ancora ci sono: palazzi meravigliosi che sono tornati a vivere». Ingiuste nei confronti dell’operato della Protezione Civile :«un sistema che ha mostrato una reattività straordinaria. Preso a modello a livello internazionale. Quando lo hanno smantellato hanno visto cosa hanno fatto e hanno dovuto fare passi indietro». E soprattutto del capo dipartimento: «Bertolaso è stato un modello di organizzazione, di efficienza, generosità e deduzione, ingiustamente massacrato». Anche Gabrielli, ex capo del Sisde, nominato all’indomani del terremoto prefetto dell’Aquila, ha approfittato della commemorazione per togliersi qualche sassolino. «C’è una sorta di dannazione all’Aquila di letture contrapposte», ha detto il capo della polizia, ricordando che questa vicenda «affonda nel dolore delle famiglie colpite». «Bertolaso non è San Gennaro», ha aggiunto, riconoscendo le doti «straordinarie» del capo dell’emergenza al quale è poi succeduto. Ma, ricordando gli allarmi di chi aveva previsto in quei giorni l’arrivo della grande scossa, inascoltato e denunciato, e le rassicurazioni di quei giorni, ha concluso: «Dovremmo fare tutti un mea culpa». Anche perché, ha evidenziato, «un uso reale (o interpretato tale) in maniera propagandistica di fatti straordinari, ha prodotto come conseguenza una contropropaganda che ha negato l’esistenza dei fatti straordinari».

Rigopiano, violò i sigilli per portare fiori dove suo figlio morì: ora sarà processato. Giudizio immediato per Alessio Feniello, padre di Stefano, morto nell’hotel travolto dalla valanga. Multato per 4.550 euro, si era rifiutato di pagare, scrive il 22 febbraio 2019 La Repubblica. Verrà processato per aver portato i fiori dove morì suo figlio, travolto dalla valanga che il 18 gennaio 2017 distrusse l'hotel Rigopiano di Farindola (Pescara), provocando 29 vittime. Alessio Feniello, 57enne di Salerno, quel giorno ha avuto l'esistenza spezzata, e tornare sul luogo dove il suo ragazzo, Stefano, ha vissuto gli ultimi momenti con la sua fidanzata Francesca in quella che era la loro prima vacanza assieme, era un modo per ricordarlo, sentirlo vicino ancora una volta. E così ha fatto anche il 21 maggio dell'anno scorso, ma per portare i fiori sulla "tomba" del suo ragazzo ha violato i sigilli giudiziari messi dalla magistratura per delimitare l'area.  E per questo era stato condannato, nei mesi scorsi, a pagare una multa di 4.550 euro. Lui l'ha detto subito: "Non pagherò per aver portato fiori a mio figlio, piuttosto vado in galera. La cosa che mi dispiace è che sono stato il primo ad essere stato condannato per la tragedia di Rigopiano". E lo ha ripetuto su Facebook quando è arrivato il decreto di "giudizio immediato" firmato dal gip del tribunale di Pescara Elio Bongrazio. Mentre l'inchiesta sui responsabili della tragedia va avanti, per Feniello la prima udienza davanti al giudice monocratico è fissata al prossimo 26 settembre. "Ho sempre sostenuto che avrei affrontato il processo - dice Feniello - e io non mi tiro indietro come fanno molti politici".

·        I furbetti del finanziamento per la ricostruzione.

Terremoto in Emilia: i furbetti dei finanziamenti per la ricostruzione. Le Iene il 16 dicembre 2019. Alessandro De Giuseppe ci mostra alcuni casi di fienili e stalle diventati ville signorili pagati con soldi pubblici. Tutto questo dopo il terremoto che nel 2012 ha causato 28 vittime in Emilia-Romagna. Per la cui ricostruzione lo Stato ha stanziato 5 miliardi di euro ma alcuni funzionari pubblici, che dovevano verificare i reali requisiti, avrebbero preferito dare soldi a tutti. “Sapete qual è il segreto perché nessuno rompa i maroni? Dare i soldi a tutti. Ho erogato 160 milioni di euro di contributi pubblici con la mia firma e oggi rispondo personalmente di queste somme”. Sono le parole di un architetto del comune di Terre del Reno. Siamo in provincia di Ferrara uno dei paesi colpiti dal terremoto del 2012. Quel sisma ha abbattuto centinaia di edifici uccidendo 28 persone e mettendo in ginocchio moltissime attività produttive. Per la ricostruzione sono stati stanziati quasi 5 miliardi di euro. Alessandro De Giuseppe ci mostra come questa disgrazia per qualcuno sia diventato un modo per arricchirsi. Perché i progetti sarebbero stati gonfiati, così le percentuali per privati e tecnici sarebbero aumentate di conseguenza. Tutti ci hanno guadagnato, tranne lo Stato. “Abbiamo visto ruderi diventare palazzi dopo il terremoto. Stimiamo in circa un miliardo l’erogato non dovuto”, sostiene Marco Mattarelli del Comitato di cittadini che si occupa del caso. Ci sarebbero stati fienili che sono diventati ville di campagna grazie a contributi pubblici anche di 800mila euro. Chi doveva controllare se le richieste erano lecite dovevano essere i tecnici comunali. “Ho sempre controllato le istruttorie che mi sottoponevano. È palese che chi ha ricevuto danni da terremoto ne ha tratto un vantaggio”, ci dice un architetto di Terre del Reno. “Sicuramente avrò fatto degli errori, spero che l’assicurazione mi aiuti a coprirli. Le regole sono cambiate 16 volte e le persone tiravano tutte a fregare”, spiega. E le perizie dei tecnici privati che a quanto pare avevano cifre gonfiate? “Sono documenti che certificano cose, non sono il documento di un ladro”, dice, poi però continua: “In realtà molto spesso queste perizie si sono rivelate documenti di ladri”. Ma i sindaci che firmavano le ordinanze di finanziamento possibile che non si siano accorti di nulla? “È chiaro che non tutto è funzionato perfettamente”, spiega Fabrizio Toselli sindaco di Cento, in provincia di Ferrara. “Abbiamo fatto diverse decine di revoche per persone che hanno fatto i furbi”.

·        L’Aquila non vola.

"I signori dei Terremoti", breve viaggio intorno al terremoto dell'Aquila. Un saggio di Sonia Topazio racconta, in modo originale, i giorni del sisma del 2009, tra le persone che vissero quel dramma e la scienza che finì sotto accusa. Daniela Mattalia il 19 novembre 2019 su Il Dubbio. Questo è un libro singolare,  né romanzo né saggio, qualcosa di sperimentale che affronta, e forse non è un caso la sua cifra stilistica, un fenomeno altrettanto imprevedibile  e inafferrabile come lo sono i terremoti; che, soprattutto in un’Italia vulnerabile e malgestita, fanno troppi danni e troppe vittime. A scrivere I signori dei terremoti (Doppiavoce edizioni, 76 pagine, 10 euro) è Sonia Topazio, che per 12 anni è stata l’ufficio stampa dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e si è trovata a gestire, a ogni calamità, la comunicazione post-sisma, comunicazione sempre difficile, spesso oggetto di polemiche e controversie. Per trasmettere l’idea dei drammi, dei dolori, delle vite distrutte, del ruolo degli esperti, degli interventi della Protezione civile, dei pareri degli scienziati, e della violenza della natura (che di tutto ciò se ne frega), Topazio sceglie una formula originale, composta di testimonianze, interviste, rievocazioni, appunti annotati nel diario di Sara, la protagonista-giornalista (il personaggio è di fiction, ma non troppo) che, dopo essere sopravvissuta a un terremoto da bambina, ne diventa l’infaticabile cronista. Così, in modo volutamente frammentario (si può iniziare la lettura da qualsiasi pagina), scopriamo come è nata la Commissione Grandi Rischi, che cosa successe nel famoso terremoto dell’Aquila, nel 2009, quando «la scienza» e i suoi rappresentanti furono accusati di aver sottovalutato il pericolo e di non aver avvertito la popolazione del rischio che correva (ricordate il processo-farsa agli esperti della Commissione e alla Protezione civile di cui parlò tutto il mondo?). Ascoltiamo le voci delle  persone che quel mattino del 6 aprile erano lì, e alla giornalista raccontano con poche frasi i loro attimi di vita. L’autrice li chiama in modo insolito e affettuoso: la signora IO, il signor ANCHE IO, il signor TU, la signora SECONDO ME, la signora ANCORA TU. Un fiume di parole e di dolore, di vita e di speranza. C‘è anche Enzo Boschi in questo libro, «il signore dei terremoti», il presidente dell’Ingv, finito nell’occhio del ciclone delle accuse. Il processo finirà  poi in un’assoluzione di tutti gli imputati, si stabilì che la Commissione Grandi rischi (di cui Boschi faceva parte) non era colpevole. Infine, Sara va in cerca di tutto ciò che di quel maledetto terremoto è stato detto, raccontato, inventato, ripetuto, frainteso, strumentalizzato: le bufale, le informazioni sbagliate, i titoli approssimativi, l’enfasi fuori luogo. Di chi è la colpa, si chiede alla fine. Delle autorità, dei costruttori, degli esperti, dei giornali? La domanda resta sena risposta. Ma soprattutto nessuno, nessun giudice, nessuno scienziato, è la sua riflessione finale, «si è messo nei panni e nelle sensazioni dei terremotati. Per quelle ci sarà una giustizia non terrena».

L’AQUILA NON E’ TORNATA A VOLARE. Mauro Evangelisti per il Messaggero il 6 aprile 2019. Dieci anni dopo il sisma metà del centro storico dell'Aquila è ancora un cantiere; le frazioni, a partire da Onna, aspettano la fine del lungo percorso della ricostruzione. Dieci anni dopo circa 9.000 cittadini dell'Aquila vivono nei palazzi delle new town, i quartieri costruiti a tempo di record dopo il terremoto, che dovevano essere liberati una volta completata la ricostruzione. All'Aquila non c'è stato né il presto, né il bene; la burocrazia, che non è per forza il male perché è anche necessità di regole e rispetto delle procedure, non ha però funzionato di fronte alla catastrofe e questo è un campanello d'allarme per le cittadine che hanno subito il sisma del decennio successivo, da Amatrice ad Arquata. Guido Bertolaso, allora capo della Protezione civile, scuote la testa: «Serviranno almeno altri cinque anni, come minimo. Io nel 2009 lo dissi: vedrete, per ricostruire L'Aquila, sarà necessario aspettare almeno un decennio. Mi presero per matto, ma i risultati li vediamo oggi. Si è avuta troppa fretta di uscire dalle gestione commissariale, gli enti locali volevano controllare la fase di ricostruzione. E tutto si è arenato. Un rischio analogo si vede anche nei paesi danneggiati dai terremoti del 2016 e del 2017: temo che alcuni centri storici non saranno mai ricostruiti». Cosa è successo all'Aquila? Perché si è passati dalla velocità di realizzazione dei quartieri delle new town - che sono lontani dalla perfezione, ma hanno evitato che L'Aquila morisse - alla lentezza esasperante del recupero del centro storico? In parte c'entra il desiderio, anche legittimo, della classe dirigente locale di gestire la ricostruzione, in parte anche l'ordine di grandezza della distruzione con cui si aveva a che fare. Tra inchieste giudiziarie, intercettazioni, veleni, accuse per una guida da monarca assoluto, la gestione commissariale di Bertolaso termina il 29 gennaio 2010, gli amministratori locali vogliono contare e si punta anche a fare lavorare le imprese del posto. Tutto giusto in teoria, ma la rete di regole, per quanto necessarie, diventa una zavorra quando si tratta di ricostruire un centro storico in cui vivevano 7.500 residenti e 9.000 studenti; e l'obiettivo di ricostruire il centro esattamente com'era prima del sisma del 6 aprile 2009 appare giusto e comprensibile, ma forse inutilmente ambizioso, perché vi erano alcuni edifici pubblici degli anni Sessanta e Settanta che si poteva ripensare. Il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio (FdI): «Sono convinto che una gestione commissariale più lunga sarebbe stata più utile, avrebbe messo sul binario giusto l'operazione. Oggi invece si combatte ancora con procedure troppo complicate: penso ad esempio al fatto che anche i privati debbano fare gare per assegnare i lavori in caso di utilizzo dei fondi pubblici; e poi manca il personale negli uffici, in una fase straordinaria come quella della ricostruzione dopo un terremoto di quelle proporzioni servono uomini e risorse, servono assunzioni e professionalità». Chissà, forse a metà degli anni Venti le new town si saranno svuotate e bisognerà pensare a un utilizzo diverso, come le residenze degli studenti.

L'Aquila, Berlusconi e le casette. La verità che a sinistra è un tabù. A dieci anni dal terremoto, scrive Giacomo Susca, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Il guaio dell'Italia è che superata la fase dell'emergenza si torna alla anormalità. Sono passati 10 anni dal 6 aprile 2009, ore 3.32, quando sotto L'Aquila si accese un mostruoso frullatore. Si ricordano le 309 vite perse, assieme a quelle interrotte di 80mila persone rimaste senza un tetto sulla testa. Dieci anni dopo la città è una via crucis di cantieri, le transenne mettono sempre in guardia dai crolli, le ferite sono diventate cicatrici. In tutto questo tempo pubblico e privato hanno speso 17 miliardi di euro, eppure la ricostruzione è cristallizzata e sospesa in una promessa mancata. Ma sulle macerie del capoluogo abruzzese si consuma il dramma di un Paese che non è capace di guardare ai fatti con distacco, di abbandonare le visioni di parte per perseguire l'interesse comune. E qui torniamo al principio, perché la storia del post-sisma va divisa tra il momento in cui bisognava dare una risposta immediata, ovvero restituire un'abitazione a chi l'aveva persa, e in un momento successivo, quando dall'emergenza si sarebbe dovuto passare alla pianificazione e al consolidamento di quanto iniziato. Inutile girarci intorno: quello che sui giornali e in tv si fa ancora fatica a riconoscere, come un tabù, è il lavoro svolto dal governo Berlusconi all'indomani della tragedia. Basterebbe darne conto con i numeri, dicono più di molte analisi: 5.600 abitazioni per 25mila sfollati, le cosiddette «casette» di cui 4.500 in muratura, arredate e corredate persino di elettrodomestici, realizzate con criteri antisismici e consegnate in cento-centoventi giorni, nacquero 19 nuovi quartieri (le «new town») con centri d'aggregazione per uscire dalla logica dei container-ghetto o dell'immobilismo, come si era sempre fatto e si è continuato a fare (male) di recente, da Amatrice a Ischia. A due settimane dal terremoto il Consiglio dei ministri, convocato non solo per ragioni simboliche a L'Aquila, stanziò 8 miliardi per far fronte all'emergenza e porre le basi della ricostruzione; tra le misure-tampone furono sospese le tasse e previsti bonus fiscali per riaprire negozi e seconde case. Pochi giorni più tardi, con il discorso del 25 aprile a Onna il Cavaliere raggiunse l'apice del consenso, invocando uno spirito di coesione nazionale al di là dell'appartenenza politica. Quanto è accaduto dopo dimostra che quell'appello è rimasto inascoltato. Sparare sulla Protezione civile è stato a lungo lo sport nazionale a mezzo stampa, talk show e addirittura film... ricordate Draquila di Sabina Guzzanti? L'esempio virtuoso del Friuli è lontano. L'emergenza ha lasciato il posto alla gestione ordinaria paralizzata da vincoli infiniti, burocrazia persecutoria, sprechi e inchieste giudiziarie, risate immonde di faccendieri senza scrupoli. Se oggi una casetta su dieci non sta più in piedi, è perché sono mancate la manutenzione e una visione che andasse oltre l'ottica del qui-e-ora. Otto anni di amministrazione di centrosinistra, due di centrodestra e sei diversi governi nazionali più tardi, il coraggio della ricostruzione sta sui volti dei cittadini che resistono. E che sfilano orgogliosi nella lunga notte aquilana con una fiaccola accesa tra le mani.

Terremoto L’Aquila, dieci anni dopo l’Italia ancora record per aiuti europei. Dal 2009 a oggi abbiamo incassato oltre 2 miliardi di euro da Bruxelles. Un anno fa la protesta dei terremotati contro l'UE che voleva le tasse, scrive Anna Migliorati il 5 aprile 2019 su Panorama. Fu un’Europa per una volta unita e solidale quella che si mostrò dopo il terremoto de L’Aquila del 6 aprile 2009 e che segnò a suo modo un precedente. Tra i molti dolori di quei giorni Bruxelles imparò una lezione che non ha dimenticato. Dal 2002 esisteva il Fondo di solidarietà europeo ma fu proprio di fronte alle 309 vittime del sisma abruzzese che fu veramente compreso e utilizzato.
Quello deciso allora fu il maggior intervento in quel momento mai attuato: 493,8 milioni di euro erogati subito per l’Italia, anche se solo una goccia nel mare dei danni. Un primato che il nostro paese ha, purtroppo,  mantenuto: negli anni successivi 563 milioni furono spesi per un altro sisma, quello in Emilia; a far alzare la cifra record è stata la somma  andata ancora al centro Italia di 1,3 miliardi da spartire tra Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo. Il Fondo di solidarietà europeo dal 2002 è stato utilizzato ben 80 volte in risposta a diversi tipi di catastrofi, tra cui inondazioni, incendi forestali, terremoti, tempeste e siccità. Finora sono stati erogati oltre 5 miliardi di euro a favore di 24 paesi europei. Di questi oltre 2 miliardi all’Italia. Altri fondi dall’Europa a L’Aquila sono arrivati in questi anni anche per le prevenzioni delle catastrofi naturali: 1,3 miliardi condivisi con l’Emilia e altri 40 milioni lo scorso anno condivisi con le Marche. Un’Europa madre e matrigna per L’Aquila, dove solo un anno fa nel nono anniversario si sfilava, però, protestando per la richiesta di Bruxelles di restituire le tasse sospese negli anni del sisma, con imprenditori e commercianti a sbanderiare le cartelle elettorali.
L’Italia dei paesi, sempre in fondo al cratere della ricostruzione. Le aree distrutte dai terremoti, già votate all'abbandono, rischiano di rimanere isolate. Non solo l'Abruzzo  ma anche il Centro Italia devastato nel 2016. Lo confermano i dati sull'avanzamento dei cantieri, scrive Francesca Sironi il 3 aprile 2019 su L'Espresso. Un paese è dove c’è «qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», scriveva Pavese in una delle sue più celebri lune. I paesi sono fra le macerie civili più ingombranti dei dopo-terremoti. La storia delle ricostruzioni potrebbe essere divisa in due, in Italia: da una parte gli interventi che sono riusciti a rispettare le comunità. Dall’altra quelli che le hanno svilite. Nel lento, troppo lento, risollevarsi dalle scosse dell’Aquila, così come dalle scosse che hanno attraversato l’Appennino nel 2016, uccidendo trecento persone e distruggendo Visso, Arquata del Tronto, Amatrice, ci si muove oggi sulla soglia di questa sfida per l’identità. I dati sull’avanzamento dei cantieri e gli obiettivi per i quali vengono spesi i fondi destinati al futuro di queste terre lo confermano. Negli ultimi dieci anni, mostra un dossier pubblicato nel 2018 dal Senato, l’Italia ha stanziato 40 miliardi e mezzo di euro per rispondere ai terremoti: Abruzzo - 17,4 miliardi; Pianura Padana, sisma del 2012 - 8,4 miliardi; Centro Italia - 14,7 miliardi. Dentro ci sono voci che vanno dagli sgravi fiscali (che pesano molto sui conti finali) al primo soccorso, dagli incentivi al supporto delle amministrazioni locali. Fino agli aiuti per rialzare gli edifici. Ed è qui che cade il primo buio sui paesi. Se all’Aquila infatti i lavori sono iniziati tardi, nei comuni più piccoli il silenzio è rimasto proprio intatto.

Terremoto L'Aquila, dieci anni di beffe. Ponteggi arrugginiti, quartieri sprangati, prefabbricati cadenti. E affari poco limpidi. La città distrutta dal terremoto è oggi più di ieri il simbolo di un'Italia mai ricostruita, scrive Fabrizio Gatti il 3 aprile 2019 su L'Espresso. Aquila oggi è il trionfo del cemento. Ti secca la gola con le sue polveri sottili, ogni volta che il vento soffia sul deserto ancora pericolante dietro la chiesa di San Domenico. Oppure ti sbarra la vista ovunque cammini in periferia: come tra i nuovi palazzi del quartiere Pettino lungo la faglia sismica che lì è sempre attiva, o davanti ai sei piani di calcestruzzo tirati su con vista panoramica sulla Conca di Fossa e su qualche cumulo di macerie mai rimosso. Ma non c’è da stupirsi, in una terra ricca di muratori. Non solo nel senso degli operai dell’edilizia che incontri dappertutto nei cantieri, ma anche nell’altro significato massonico: qualche nome dei committenti e dei tecnici pubblicati sui cartelli delle imprese li ritrovi poi negli elenchi delle logge locali dove urbanistica, progetti e alleanze hanno spesso la stessa voce impastata dai comuni interessi. È forse per questo che nel decimo anniversario del terremoto del 6 aprile 2009, nessuno trova strano che si facciano affari sulla ricostruzione: così gli appartamenti realizzati con soldi pubblici vengono rimessi in vendita da costruttori e padroni privati senza che il Comune, la Regione, lo Stato (e gli italiani che li hanno finanziati con le tasse) abbiano alcun rimborso.

Terremoto L'Aquila, quante promesse e bufale dei politici. Da Silvio Berlusconi ai due Mattei. «Nuove case prima dell’inverno». «Le case distrutte saranno tutte rialzate». Piani di prevenzione smantellati. E contributi europei. Ma la ricostruzione, nonostante gli show sul territorio, è stata azzoppata, scrive Francesca Sironi il 3 aprile 2019 su L'Espresso. Visitando una tendopoli il 7 aprile 2009 invitò i terremotati a andare al mare «andate lì, sulla costa, è Pasqua, prendetevi un periodo che paghiamo noi». La settimana dopo promise una ricostruzione lampo: «Ci saranno tempi rapidi, precisi e certi». Poi sancì il modello “new town”: «nuove case prima dell’inverno». «Le case distrutte saranno tutte rialzate, così come beni artistici. L’impegno è quello di concludere tutto entro la legislatura». «Per le singole case» aggiunse, «i tempi saranno solo di mesi». A dieci anni dal sisma la ricostruzione privata non è ancora terminata: il 73 per cento delle risorse richieste è stato trasferito, 8.262 cantieri sono conclusi, altri 1.500 restano da allestire. Quella pubblica è molto più indietro. L’obiettivo dichiarato nell’ultima relazione sul post-terremoto presentata in Parlamento è il completamento dei lavori, solo per il capoluogo, nel 2022. Più in là per i paesi. Solo per costruite le “C.a.s.e” e i moduli abitativi provvisori sono stati spesi 1 miliardo e 52 milioni di euro. Da allora la manutenzione delle abitazioni provvisorie è costata altri 6 milioni di euro. Oltre agli espropri che sono costati 72 milioni di euro. Dopo i morti per le esondazioni nel novembre scorso, l’ex premier Matteo Renzi scrisse: «L’Italia piange decine di morti. Salvini dà la colpa all’ambientalismo da salotto, io all’abusivismo edilizio. Chiedo al Governo di recuperare il progetto #CasaItalia di Renzo Piano. È stata la prima cosa cancellata da Lega e 5S: ripensateci. No ai condoni, sì a #CasaItalia». “Casa Italia” era il piano per la prevenzione varato dal governo dopo il terremoto del 2016. Nel progetto erano previste mappature, coordinamenti, oltre 10 cantieri “pilota” affidati al gruppo di Renzo Piano, finanziati con 25 milioni di euro. Solo per l’incremento dei dirigenti necessari a mandare avanti Casa Italia erano stati stanziati 76,6 milioni di euro, di cui 1,3 il primo anno, il 2017, che è stato anche l’unico di durata dell’ente. La struttura è stata smantellata dal nuovo governo. «Se ci sono vincoli europei che ci impediscono di spendere soldi per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade su cui viaggiano i nostri lavoratori, metteremo davanti a tutto e a tutti la sicurezza degli Italiani» (Tweet del vicepremier ad agosto dopo la tragedia del ponte Morandi di Genova). Parlando di ricostruzione e Europa, bisogna ricordare alcune cifre. Come gli 1,2 miliardi di euro trasferiti in Italia dopo il sisma del 2016, uno dei maggiori contributi mai stanziati in emergenza. Un altro miliardo e 600 milioni verranno versati per lo sviluppo delle aree colpite entro il 2020. A cui vanno aggiunti prestiti per 350 milioni di euro. Senza dimenticare gli aiuti mandati a novembre 2009 per l’Abruzzo: 493,7 milioni.

Terremoto L'Aquila, chi ha pagato e chi si è salvato in tribunale. Quattro ingegneri condannati per il crollo della Casa dello Studente, il vicecapo della Protezione civile per le sue frasi rassicuranti pochi giorni prima del disastro. E il rischio prescrizione sui balconi delle case prefabbricate. Ecco le decisioni della giustizia, scrive Fabrizio Gatti il 2 aprile 2019 su L'Espresso. Accanto alla Casa dello Studente in via XX Settembre, luogo della strage simbolo del terremoto a L’Aquila in cui la notte del 6 aprile 2009 morirono il custode e sette ragazzi, hanno demolito e ricostruito un palazzo di cinque piani. Al piano terra, i cartelli sulle vetrine spente indicano ora il cellulare da chiamare per affittare negozi e uffici. Il processo per il crollo si è concluso nel 2016 in Cassazione con le condanne a quattro anni degli ingegneri Bernardino Pace, Pietro Centofanti e Tancredi Rosicone e a due anni e sei mesi per il presidente della commissione collaudo dell’Azienda per il diritto agli studi universitari, Pietro Sebastiani. Secondo i giudici il palazzo «era destinato a crollare in quanto ancora prima dei lavori di ristrutturazione eseguiti nel 2000, era stato totalmente e pericolosamente modificato rispetto al progetto originario e alla iniziale destinazione d’uso». E i tecnici condannati «avrebbero dovuto controllare i nuovi carichi di peso che gravavano sull’edificio e la tenuta statica, prima di eseguire gli interventi che avevano progettato». Una sentenza “moderna”: perché stabilisce che un terremoto di magnitudo 6.3, con le conoscenze scientifiche e tecniche di oggi, non può più essere giustificato come evento eccezionale.

·        Addio Tommy. Il Cane eroe.

Morto Tommy, il cane eroe del sisma di L'Aquila premiato da Napolitano. Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Corriere.it. Alla vigilia del decennale del terremoto che il 6 aprile 2009 distrusse L'Aquila, è morto Tommy, uno dei cani-eroi dei soccorritori. Il labrador nero, 13 anni, primo cane da ricerca e soccorso dei Vigili del fuoco di Lecce, aveva contribuito a salvare tre persone, sepolte sotto le macerie nel crollo delle loro abitazioni. Insieme al suo conduttore, Giampiero Pepe, aveva poi partecipato alle operazioni di soccorso a seguito delle scosse successive nel Centro-Italia. Per le doti straordinarie di salvataggio dimostrate a L'Aquila era stato insignito nel 2010 del Premio Nazionale «Cani con le stellette» dall'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «per le vite salvata dalle macerie post terremoto nel Centro Italia». Tommy era entrato al comando provinciale dei Vigili del fuoco di Lecce a due anni ed era andato in pensione otto mesi fa, dopo dieci anni. Partecipò anche all'intervento nel cratere di Arquata del Tronto (Ascoli Piceno) nel 2016. «Purtroppo, Tommy, il primo cane da ricerca e soccorso del Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Lecce ci ha lasciato. Abbiamo perso un valido e coraggioso collega», è stato il messaggio di cordoglio pubblicato su Facebook da Conapo, il sindacato autonomo vigili del fuoco.

È morto Tommy, cane eroe del terremoto dell'Aquila: il videosaluto dei vigili del fuoco, scrive Natale Cassano il 6 aprile 2019 su Repubblica Tv. Un videosaluto a chi per anni ha salvato vite, dimostrando che non solo gli uomini possono essere eroi. Già, perché Tommy è un cane, e insieme al suo conduttore Giampiero Pepe è stato protagonista di tante azioni di salvataggio al pari dei suoi compagni vigili del fuoco del Comando provinciale di Lecce, dove era diventato una colonna portante dell'Unità cinofila. A cominciare dal terremoto dell'Aquila, di cui ricorre il decennale. E proprio dopo 10 anni di servizio era andato in pensione e giovedì 4 aprile, all'età di 13 anni, e si è spento nell'abitazione del suo conduttore. Lo hanno voluto ricordare così i suoi compagni, con le foto delle tante azioni di soccorso in cui Tommy ha accompagnato i vigili del fuoco, tra cui quello dell'Abruzzo distrutto dal terremoto nel 2009. Impegni che gli valsero nel 2010 anche una menzione d'onore da parte dell'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell'ambito della cerimonia "Cani con le stellette".

·        Le tragedie italiane.

San Giuliano di Puglia, la bimba sopravvissuta nella scuola crollata ora fa la maestra. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Peppe Aquaro. Veronica D’Ascenzo aveva 7 anni quando il terremoto distrusse la scuola «Jovine» uccidendo 27 bambini e la maestra. «Didattica e pedagogia al servizio dei bambini con disturbo post-traumatico da stress: l’esperienza di San Giuliano». Ma potrebbe esserci un altro sottotitolo, stampato nel cuore e nella mente di Veronica D’Ascenzo, autrice della tesi di 130 pagine discussa poche settimane fa all’università romana della Lumsa: «Perché non accada mai più». Veronica ha 25 anni, uno in più della classe del ’96, completamente seppellita sotto le macerie della scuola molisana «Jovine» a San Giuliano di Puglia, in provincia di Campobasso. Alle 11,30 del 31 ottobre del 2002, una violentissima scossa, 6.0, fermò la vita di 27 bambini e della maestra Carmela Ciniglio. «Il rumore fortissimo, un boato, i vetri delle finestre in frantumi, il muro alle nostre spalle che ci crollava addosso. E di fronte a me la maestra con le mani sul volto. Poi, niente: otto ore di buio, prima di essere salvata. E rivedere la luce: la mia seconda vita», ricorda Veronica, la quale molto presto racconterà la sua storia in un libro, e che da settembre insegna all’istituto romano San Giuseppe al Trionfale-Opera don Guanella. «Ho tredici alunni di tre anni: mi coccolano e dicono che sono una maestra bellissima». E magari, Veronica, mentre glielo dicono, pensa spesso alla sua maestra, che non ce l’ha fatta a vederla crescere e realizzarsi. «Certo, alla dolcissima maestra, così come alla mia compagna Martina, alla quale ho stretto la mano in tutto quel tempo: fino a quando ho avvertito che le sue dita erano fredde. La chiamavo e non rispondeva». Cosa pensa una bambina di sette anni in quel momento? «Io e Rachele, che per tenerci sveglie pregavamo, abbiano pensato che Martina stesse semplicemente dormendo». Rachele, come Veronica, ce l’ha fatta. «È rimasta in Molise, lavora in un’azienda di famiglia: quelle poche volte che scendo a trovare i miei, se incontro Rachele è sufficiente guardarci negli occhi. Senza parlare». La mattina del 31 ottobre, alla seconda ora, quando i bambini della II elementare, la classe di Veronica, sono stati divisi e accompagnati in altre classi, perché mancava una insegnante, D’Ascenzo si trova con Martina e Rachele nella classe di suo cugino Luigi, in prima elementare. «Quell’aula era vicinissima alla scala che portava al piano superiore, costruito un paio di mesi prima, d’estate, e ultimato senza un collaudo finale», racconta la ragazza. «La mia tesi è un modo per non dimenticare Luigi, e ricordare a tutti quanto sia importante la prevenzione: prima di quel giorno, da noi, a scuola, non era mai venuto nessuno a dirci cosa fare in caso di terremoto», osserva Veronica, la quale si è salvata mettendo la testa sotto un grande tavolo di legno. Un tavolaccio che si trovava lì, quasi per caso: «Ricordo di essermi pure lamentata perché era troppo alto e non riuscivo a poggiarci i gomiti». Piccola cosa rispetto alle emergenze successive, sopportate e superate con grinta: «Non c’era un posto libero in ospedale, e le prime cuciture le ho subite senza anestesia, seduta su una semplice sedia. Piangevo, ma sentivo di dover andare avanti, pensando a mio cugino Luigi, al quale inviavo ogni giorno un piccolo ovetto di cioccolato». Le è stato raccontato tutto dopo. E, nel corso degli anni, ha conosciuto la determinazione di zia Nunziatina, mamma di Luigi, la quale oggi si occupa di sicurezza scolastica. Che non è un parolone: «Poche settimane fa, sono stata invitata ad un convegno sulla sicurezza scolastica: tutti sanno quanto sia importante, soprattutto la prevenzione, ma poi si finisce per chiudere un occhio. Non ci sono fondi, o magari si preferisce investirli nel verde». Nessuna amarezza in Veronica. Piuttosto, tanta determinazione. «Appena ho iniziato ad insegnare al San Giuseppe al Trionfale, mi è capitata una seconda elementare, con bambini di 7 anni, la mia età nel 2002». Un momento di commozione. Tutto qui. «Lì dentro io ero l’insegnante dei bambini, ai quali sono tenuta a dare il massimo. La mia storia deve restare fuori della classe: voglio soltanto vederli crescere in aule sicure. Senza tende o prefabbricati», risponde Veronica, la quale ha scritto sulla sua tesi: «A mio cugino Luigi: vivo sarà il suo ricordo nei miei passi».

Diga di Pontesei: 60 anni fa l'incidente che anticipò il Vajont. Il 22 marzo 1959 si staccò una frana molto simile a quella del vicino Vajont, ma il monito fu ignorato dai responsabili SADE. Paesi isolati e un morto, scrive Edoardo Frittoli il 22 marzo 2019 su Panorama. Nel marzo del 1959 la diga di Pontesei, nel comune di Zoldo Alto (Belluno), era in fase di completamento a poca distanza da quella del Vajont e faceva parte dello stesso sistema idroelettrico che collegava gli impianti degli affluenti del Piave (sistema Piave-Boite-Maè-Vajont). Concepita nel progetto iniziale della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) del 1939, sarà realizzata soltanto dopo la metà degli anni '50, quando la crescente domanda di energia elettrica nell'Italia del boom economico determinò l'accelerazione dei lavori al sistema che collegava gli affluenti del Piave al confine tra Veneto e Friuli. Lo sbarramento del lago di Pontesei, alimentato dal torrente Maè, fu completato nel 1960 ed alimentava le turbine della centrale omonima con un salto idraulico di circa 90 metri alla quota di 735 m/slm lungo la strada che collega Longarone con Forno di Zoldo, lungo la vallata prospiciente a quella dove era cominciata la costruzione della diga del Vajont. La distanza tra il lago di Pontesei e il centro di Longarone è di appena 13 chilometri.

Mattina del 22 marzo 1959, Domenica delle Palme. L'anno prima dell'entrata in funzione della centrale idroelettrica, il 22 marzo 1959, l'incidente. Durante le prove d'invaso precedenti il collaudo, con il livello del bacino mantenuto a 13 metri sotto la portata massima, i tecnici della S.A.D.E. iniziarono a notare chiazze di acqua giallastra nelle acque del lago di Pontesei, seguite poco dopo da inquietanti brontolii provenienti dal ventre della montagna. Per precauzione iniziarono le operazioni di svuotamento dell'invaso mentre veniva monitorato il movimento dello smottamento del fronte della montagna ormai fradicio d'acqua infiltrata dalle acque del lago. Mentre si svolgevano ancora le operazioni di messa in sicurezza, la frana accelerò e in meno di un minuto circa 3 milioni di metri cubi di detriti piombarono nelle acque gelide del bacino, generando un'onda di piena alta oltre 20 metri. Per la medesima causa che determinerà la tragedia alla vicina diga del Vajont appena 4 anni più tardi, soltanto per un caso vi fu una sola vittima. La massa d'acqua e fango generata dal fianco del Fagarè (sponda sinistra del lago) investì il custode dell'impianto Arcangelo Tiziani, il cui corpo non verrà mai ritrovato. A causa della frana e della massa di fango rimasero isolati i tre comuni di Zoldo Alto, Forno di Zoldo e Zoppé (6.500 abitanti complessivamente).

Il silenzio dei responsabili su una tragedia che anticipò il Vajont. Nonostante le similitudini geomorfologiche tra le due dighe dello stesso sistema, dopo l'incidente di Pontesei i responsabili della Società Adriatica (che poco dopo sarebbe stata nazionalizzata nell'Enel) non fecero tesoro dell'esperienza dell'incidente del 1959. Le omissioni su quella frana che anticipò il disastro del 1963 emersero durante l'iter giudiziario sulla strage del Vajont, quando nel 1969 fu ascoltata la deposizione dell'Ing. Camillo Linari, responsabile dell'impianto di Pontesei. Scampato egli stesso alla morte in occasione della frana del 1959 dopo essersi arrampicato sul fianco della montagna inseguito dalla furia delle acque, Linari dichiarò di non aver mai accennato ad uno studio comparativo tra Pontesei e il vicino Vajont, e neppure di averne ricevuto richiesta dai vertici S.A.D.E. Dalle parole di Linari emerse anche il disinteresse di alcuni dei personaggi chiave della tragedia del 1963, come il geologo Edoardo Semenza (figlio del progettista del Vajont e responsabile dei rilievi al monte Toc). Altrettanto silenzio opposero altri responsabili della società elettrica e del Genio Civile, tra cui il più assordante fu quello dell'Ing. Alberico Biadene, uno dei condannati nella sentenza del 1971 per il disastro che cancellò la vita a Longarone. Anche lui all'incidente di Pontesei non farà mai cenno.

La tragedia della diga del Gleno: storia e foto di un "Vajont" dimenticato. 40 anni prima della tragedia del Vajont cedeva una grande diga appena inaugurata sulle alture della Val Camonica. I morti saranno circa 500, scrive Edoardo Frittoli il 12 ottobre 2018 su Panorama. In occasione dei 55 anni dalla tragedia del Vajont ricordiamo la storia di un altro disastro causato dal cedimento di una diga, quella del Gleno, che si consumò 95 anni fa sulle alture tra le province di Bergamo e Brescia.

La tragedia del Gleno. E'la fine di novembre del 1923. Piove da giorni sulla Val Camonica, senza interruzione. A poca distanza da Schilpario, c'è una valle laterale: la Val di Scalve, stretta tra i fianchi delle montagne a cavallo tra le province di Bergamo e Brescia. La pioggia incessante fa crescere il livello dell'acqua di un grande bacino idroelettrico situato a quota 1,524 metri sotto il ghiacciaio del Gleno (m.2830). Il grande serbatoio era contenuto da una nuovissima diga di sbarramento, terminata nell'ottobre di quell'anno e celebrata come orgoglio di una nazione stremata dalla guerra e dai difficilissimi anni della ricostruzione. La diga del Gleno, dal nome del torrente affluente dell'Oglio che percorreva la valle, fu realizzata per soddisfare la crescente domanda delle fabbriche del fondovalle alimentate dalla centrale idroelettrica di Mazzunno: il Cotonificio della Val Seriana, i cotonifici Zoppi e Pesenti, le Ferriere Voltri a Darfo. L'idea della grande diga era nata all'inizio del XX secolo, interrotta dalla Grande Guerra. Alla fine degli anni '10 il progetto prese nuovamente forma, affidato per la progettazione all'Ingegner Gmur che morì in corso d'opera, sostituito dall'ingegnere palermitano Giovan Battista Santangelo. Le carpenterie furono invece affidate alla Galeazzo Viganò di Ponte di Albiate (MB). Dopo due anni di lavori, che videro l'impiego di un gran numero di uomini e donne della zona, fu pronta un'imponente diga ad archi multipli di 260 metri di fronte per 17 metri di altezza, in grado di contenere circa 7 milioni di metri cubi d'acqua. Inaugurata il 23 ottobre 1923, la diga entrò in funzione subito dopo, ma la sua vita sarà brevissima.

Val di Scalve, ore 07:15 del 1 dicembre 1923. E' ancora buio sulla valle e sulla sua grande diga quando un boato atterrisce la popolazione dei piccoli borghi montani. E' questione di pochi secondi, resi eterni dal devastante spostamento d'aria che strappò i vestiti dai corpi, simile ad una bomba atomica. La diga, riempita all'orlo dalle pesanti precipitazioni dei giorni precedenti, aveva ceduto. Dallo squarcio largo 80 metri la diga riversò milioni di metri cubi d'acqua che in pochi secondi spazzarono via uomini, case, strade, ponti e animali per oltre 10 km. Dopo l'acqua, seguì una spessa coltre di fango e detriti che coprì quel poco che restava dei paesi di Bueggio, Dezzo, Angolo, Corna, Darfo. Il parroco di Azzone sopravvisse e raccontò di aver visto una gigantesca cascata esplodere dalla valle del Gleno e rimbalzare sui fianchi delle montagne della stretta valle, divorando tutto ciò che incontrava sul suo cammino. L'onda della morte arrivò a danneggiare ed allagare il territorio sino alla confluenza con il fiume Oglio. La marea di acqua e fango spazzò via anche le centrali alimentate dalla diga del Gleno, riducendole ad un cumulo di macerie. I primi ad arrivare sul posto dopo la tragedia furono gli Alpini dei Battaglione Edolo, assieme alle camicie nere della neonata Milizia fascista. La scena che si presentò ai soccorritori era apocalittica. Arrancando faticosamente nella melma che aveva cancellato ponti e strade affioravano i cadaveri dei valligiani. Molti corpi saranno trovati anche 20 km più a valle, trascinati fino al fiume Oglio assieme alle masserizie e alle carcasse degli animali. Mentre gli Alpini scavavano disperatamente, da Lovere partivano i Vigili del Fuoco, raggiunti poco più tardi dai Prefetti di Brescia e Bergamo con i pompieri e alcuni treni speciali per i soccorsi. Dalle prime sommarie stime, si delineò l'entità della catastrofe: nel solo abitato di Darfo mancavano all'appello 200 persone, mentre i superstiti vagavano alienati tra i resti delle loro case. Alla fine il bilancio sarà catastrofico. Sotto la coltre di fango o trascinati a valle dalla corrente rimarranno dalle 356 accertate alla 500 vittime stimate.

Le cause della tragedia, i colpevoli impuniti. La grande diga che si sbriciolò quella tragica mattina di 95 anni fa non era nata come diga ad archi multipli, bensì a gravità. Il progetto originario cambiò totalmente mentre le opere di costruzione erano già in corso. Ne conseguì che la diga del Gleno diventò di fatto una struttura "ibrida", senza riscontri con le opere già realizzate in passato. Questo cambio di rotta si tradusse nella pratica nello sfruttamento di parte della struttura del progetto iniziale a gravità, il cosiddetto "tampone", cioè la superficie di appoggio della struttura della diga. Quando furono progettati gli archi multipli l'ingegner Santangelo scelse di adattarli alla parte già costruita, lasciando che la parte centrale della diga (quella che infatti cedette) appoggiasse soltanto ai tamponi e non alla roccia come il resto dello sbarramento. Inoltre tali modifiche furono notificate soltanto con estremo ritardo alle autorità competenti, quando ormai la costruzione della diga poteva considerarsi completata. Riguardo alla debolezza della struttura nella parte centrale vi furono numerose testimonianze raccolte nell'unico mese di funzionamento della diga, che indicarono la presenza di evidenti infiltrazioni d'acqua dagli archi nei giorni in cui le precipitazioni avevano fatto crescere il livello dell'acqua nel serbatoio. Inutile puntualizzare che l'allarme della popolazione rimase del tutto inascoltato. La seconda e non meno grave causa alla base del crollo è imputabile con tutta probabilità all'inadeguatezza dei materiali utilizzati per la struttura degli archi. Successive ispezioni riscontreranno un' eccessiva percentuale di sabbia a scapito del cemento, materiale prezioso nei primi anni del dopoguerra. Nelle immediate circostanze dell'incidente altri testimoni affermarono di avere assistito ad un commercio illegale di sacchi di cemento destinati alle maestranze della ditta Viganò, fatti sparire e sostituiti con la sabbia. La pressione idrica dovuta all'aumento di livello del bacino idroelettrico avrebbe fatto scivolare in avanti la porzione di archi semplicemente appoggiati al tampone. La debolezza del cemento con cui furono costruiti gli archi non resse alle forti sollecitazioni e provocò la falla lunga 80 metri dalla quale uscirono di colpo milioni di metri cubi d'acqua, generando la gigantesca onda della morte. Oltre ai difetti nati dal progetto ibrido e dalla povertà dei materiali impiegati, già di per sé elementi determinanti per il destino tragico della diga del Gleno, bisogna tenere presente della pressoché inesistente normativa sulla sicurezza degli impianti negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra. In un periodo segnato anche da un'altissima conflittualità sociale (biennio rosso e ascesa del fascismo) la fretta di tornare a produrre dopo la paralisi bellica, la fame di lavoro e di energia subito disponibile permisero ai progettisti e ai costruttori di modificare in maniera sostanziale progetti e modalità costruttive senza essere bloccati da alcun intervento da parte degli organi di controllo. Basti pensare che dopo l'inaugurazione la diga del Gleno entrò in esercizio senza aver passato alcun tipo di collaudo.

Tutto messo a tacere. La stampa nazionale, che aveva riportato la tragedia con titoli a più colonne nei giorni successivi e aveva lanciato sottoscrizioni e appelli alle amministrazioni locali affinché portassero aiuti alla popolazione superstite della Val di Scalve, smetterà presto di occuparsi del caso della diga del Gleno. Le autorità fasciste, concentrate agli albori del ventennio nella difesa dei primi tormentati anni del regime, non desideravano certamente alimentare il senso di un così grave fallimento nella rinascita del settore dell'energia e dell'industria nazionale. Le indagini si concluderanno con il processo che nel 1928 condannerà a pene risibili i vertici delle imprese che realizzarono l'opera, lasciando che il tempo e un'altra guerra cancellassero la tragedia del Gleno dalla memoria collettiva degli Italiani.

Ricordando il Vajont: 9 ottobre 1963, ore 22.39. Una gigantesca frana nel bacino della diga del Vajont causò una devastante onda che cancellò Longarone. E 1917 vite umane, scrive Edoardo Frittoli il 23 gennaio 2017 su Panorama. Effetto Vajont sulle dighe d'Abruzzo? Ecco, dopo il terremoto e la valanga arriva l'allarme per gli invasi. In particolare per quello di Campotosto, nell'Aquilano, il secondo bacino più grande d'Europa con tre dighe. È stato il presidente della Commissione Grandi rischi a parlare di un pericolo simile al Vajont. In attesa di chiarire l'entità vera del pericolo, ecco, in questo post pubblicato il 9 ottobre del 2015, cosa avvenne alla diga del Vajont. A Longarone sono le 22,39 del 9 ottobre 1963 quando la natura si ribella violentemente all'opera dell'uomo, reo di averne trascurati gli avvertimenti dopo la costruzione della diga più alta del mondo. Una enorme frana si stacca dal Monte Toc, scivolando rapidamente nell'invaso della diga del Vajont. I numeri del disastro sono impressionanti: il corpo franoso ha una superficie di 2 km/q, per un volume di 260 milioni di metri cubi. La massa di terra e detriti si getta nel bacino artificiale alla velocità compresa tra i 72 e i 90 km/h. Il risultante dell'impatto con l'acqua è ancora più impressionante. La frana generò un'onda gigantesca di 50 milioni di metri cubi che si riversò rapidamente verso la valle del Piave investendo pochi minuti dopo l'abitato di Longarone, cancellandolo. Il bilancio delle vittime toglie il respiro. I morti a valle sono 1.917, di cui quasi 500 bambini e ragazzi. La macchina dei soccorsi si muove immediatamente, l'impressione a livello mondiale è enorme. Fino alla fine dell'anno continueranno le operazioni di assistenza ai sopravvissuti, di sgombero e di ripristino del territorio. Che per sempre rimarrà segnato dalla catastrofe del 9 ottobre 1963.

55 anni fa la tragedia del Vajont: storia e foto della costruzione della diga. Nel 1963 la diga a doppio arco più alta del mondo faceva parte di un grande sistema idraulico. Costruita tra il 1958 e il 1961, non entrerà mai in funzione, scrive Edoardo Frittoli il 9 ottobre 2018 su Panorama. Quando fu costruita tra il 1958 e il 1961 la diga del Vajont era la più alta del mondo (261,60 m.). Faceva parte di una sistema idraulico complesso, noto come le "dighe del Piave", sistema idraulico concepito per rispondere alla sempre crescente domanda di energia elettrica a partire dal dopoguerra.

Il sistema Piave-Boite-Maè-Vajont. Quest'ultimo funzionava attingendo alle acque del Piave e dei torrenti Maè, Vajont e Boite attraverso una complessa rete di condotte in caverna. La diga del Vajont avrebbe permesso il funzionamento delle centrali idroelettriche della zona durante tutto l'anno, grazie all'impressionante bacino di oltre 50 milioni di metri cubi d'acqua. Il livello massimo dell'invaso fu stabilito a quota 722,5 metri slm, mentre ai piedi della diga fu costruita la nuova centrale di Colomber (in caverna) che sfruttava il salto tra il bacino del Vajont e il livello piezometrico della diga stessa. Il progetto della diga più grande del mondo fu preceduto dagli studi geologici tra le del Professor Giorgio dal Piaz, Fu l'accademico amico di Benedetto Croce ad insistere sulla collocazione dell'opera a valle del ponte del Colomber, posizione a cui si contrappose il Professor Hug di Zurigo che avrebbe preferito costruirla nella stretta del ponte di Casso.

Nascita di un colosso. Durante la fase progettuale fu considerato maggiormente l'aspetto relativo alla impermeabilizzazione delle pareti dell'invaso a causa della natura fortemente calcarea del Vajont, trascurando di fatto i movimenti franosi che già risultavano evidenti sul fianco del monte Toc, quello che causò la tragedia del 1963. Nel 1939 l'Ingegner Carlo Semenza concepì il sistema idraulico Piave-Boite-Maè-Vajont. La rete idraulica era basata sul principio dei vasi comunicanti e comprendeva 5 serbatoi (Pieve di Cadore, Valle di Cadore, Pontesei, Val Gallina, Vajont) e 4 centrali idroelettriche (Gardona, Soverzene, Piave-S.Croce, Vajont-Colomber). I collegamenti tra serbatoi riempiti dal Piave e dai suoi affluenti erano garantiti da una serie di condotte in galleria e ponti-sifone spesso della lunghezza superiore ai 20 km. La rete idraulica, completata dalla grandiosa diga dominante la valle di Longarone, collegava una serie di serbatoi e centrali preesistenti potenziandone notevolmente la resa a prescindere dalla stagionalità delle portate. Dopo un decennio di stallo dovuto alle conseguenze della guerra, il progetto della diga a doppio arco più alta del mondo riprese all'inizio del 1957, gestito dalla SADE (Società Adriatica Di Elettricità) e affidato per i lavori di carpenteria alla ditta costruttrice Torno di Milano. Il primo getto di calcestruzzo avvenne nell'agosto dell'anno successivo, il 1958.  Per il trasporto dei materiali inerti in quota fu realizzata un complesso sistema di teleferiche della lunghezza di circa 1,500 metri in grado di trasportare dalla cava a 420m. slm. circa 175 tonnellate di materiali all'ora. Per le gettate di calcestruzzo fu utilizzato un grande "blondin", in pratica un silos su fune dove due gigantesche benne sospese sopra l'invaso del Vajont scaricavano il calcestruzzo per la costruzione in cemento armato delle pareti dell'invaso. In quota furono realizzati alloggi separati per impiegati ed operai, sia della SADE che della Torno.

Il cantiere (1958-1961). Il grande cantiere aperto nel 1958 fu una manna dal cielo per una popolazione locale interessata da un fortissimo flusso migratorio, beneficio rafforzato anche dal fatto che gli operai della zona erano già altamente specializzati nella costruzione di dighe, spesso realizzate all'estero. La realizzazione della diga del Vajont procedette speditamente con l'ultima modifica al progetto originario, che innalzò ulteriormente la quota dell'invaso ai 722,50 metri finali. L'anno successivo, nel pieno dei lavori di costruzione, si verificò una frana nel serbatoio di Pontesei, parte del "sistema Vajont". Era il 22 marzo 1959 quando circa tre milioni di metri cubi di roccia e detriti si riversarono nel bacino idrico, fortunatamente senza gravi conseguenze. L'allarme era scattato.

I collaudi e la tragedia. Nel 1960 fu testato l'invaso sperimentale, che raggiunse la quota 650m mentre erano ancora in atto i lavori di costruzione della parte sommitale del doppio arco. Fu in questa occasione che si accentuarono gli smottamenti franosi, più volte minimizzati dal Professor Dal Piaz. Il 9 novembre 1960 una frana di circa 800.000 metri cubi rovinava dal fianco del monte Toc (da cui si staccherà la grande frana alla base della tragedia del 1963) nel bacino del Vajont, fortunatamente ancora ad un livello che permise alla struttura di contenere l'onda di piena. Dopo l'episodio gli ingegneri Edoardo Semenza (figlio di Carlo) ed il collega austriaco Leopold Muller si mossero abbassando il livello di invaso in via precauzionale, iniziando parallelamente a studiare piani strategici per poter rallentare o arrestare la frana, purtroppo mai messi in atto. Nel frattempo il colossale lavoro di centinaia di operai terminò nell'ottobre 1961. La diga a doppio arco più alta del mondo era pronta per il ciclo di collaudi previsti dalla legge. Sarà proprio durante le successive prove di invaso che il fronte di frana riprenderà a muoversi alla rilevante velocità di 2 m/s. Durante i collaudi, fu approvato lo riempimento dell'invaso fino ai715 metri, quota mai raggiunta in quanto lo smottamento originatosi dal monte Toc stava accelerando progressivamente. Le operazioni di svuotamento del Vajont subirono rallentamenti dovuti anche all'intricato passaggio di testimone tra la SADE e l'ENEL, conseguenza della nazionalizzazione del mercato dell'energia elettrica del 1962. Mentre procedevano le operazioni di svuotamento del bacino, alla23:39 del 9 ottobre 1963 la storia della diga del Vajont si interrompeva bruscamente quando 270 milioni di metri cubi di terra e roccia si staccarono dal monte Toc sollevando un onda di 200 metri di fronte che, superando il coronamento della diga, provocò una frana che alla velocità di circa 100 km/h investì l'abitato di Longarone, spegnendo oltre 2.000 vite. E senza mai aver acceso una sola lampadina, perché l'opera orgoglio dell'energia nazionale non entrò mai in funzione.

·        Gli sprechi sul terremoto.

"I sindaci del sisma sono pronti a dimettersi". Il primo cittadino di Amatrice al governo che pensa solo agli immigrati: non c'è più tempo, scrive Carmelo Caruso, Martedì 29/01/2019, su "Il Giornale". Stanno provando a governare ma hanno dimenticato di ricostruire. «E dove non lo hanno dimenticato devono ancora imparare come fare». Lo dice il sindaco di Amatrice, Filippo Palombini, e si riferisce agli uomini del governo, accusati fra l'altro di occuparsi solo degli immigrati e di trascurare i terremotati. «Il sisma ha rischiato di farci scomparire come comunità ma le istituzioni ci lasciano smarrire tra le leggi». Dal maggio del 2018, Palombini ha preso il posto di Sergio Pirozzi eletto consigliere regionale del Lazio. Da sindaco ha detto che non avrebbe ricevuto più nessun rappresentante dello Stato che non fosse disposto a sottoporsi allo streaming pubblico: «Da allora non si è più visto nessuno».

Nel salotto di Barbara D'Urso, Alessandro Di Battista ha suggerito: «Se fossi un abitante di Amatrice sarei incazzato». Vuole rispondergli?

«Siamo incazzati più di quanto immagina. Se non si avranno risposte sulla ricostruzione, tutti i sindaci del cratere marceranno presto uniti e rimetteranno il mandato».

Dall'agenda del governo sembra che il sisma sia stato rimosso.

«Siamo rimasti senza interlocutori e senza guida. Ad Amatrice non c'è più tempo. Subito dopo i terremoti la vera emergenza è convincere gli abitanti a rimanere».

Sulle rovine di Amatrice si sono edificate leggi e decreti e in nome dell'emergenza è stato promesso di tutto ma realizzato pochissimo.

«Le leggi ci sono ma mancano i decreti per renderle operative. Faccio l'esempio del dl 55 del luglio scorso. Il denaro è rimasto bloccato. Lo stesso commissario per la ricostruzione ignorava che servisse un ulteriore passaggio».

I commissari si sono succeduti e di alcuni si è dimenticato pure il nome.

«Il governo Renzi aveva nominato Paola De Micheli, ma era una nomina di fine mandato. L'ha sostituita Piero Farabollini che più volte ha ammesso le difficoltà a districarsi tra le norme. La tendenza è rimanere in ufficio anziché venire a osservare i territori. Oggi il sottosegretario che ha la delega ai terremoti è Vito Crimi».

Che ha anche la delega all'editoria. I giornali li vuole chiudere. Si spera almeno che i cantieri li riesca ad aprire.

«Ha visitato le zone terremotate ma gli servirà tempo per comprendere le ansie e le domande di queste comunità».

Quanto tempo serve per un permesso di ricostruzione ad Amatrice?

«Circa un anno. La gente si scoraggia. Ad Amatrice sono previsti 80 interventi sulle strade comunali ma bisogna attendere il sopralluogo dell'Anas. Costa più il sopralluogo che l'intervento».

L'ultima immagine di Amatrice è quella prima di Natale. Coperta dalla neve e malinconica.

«Per la prima volta dopo il sisma ho avvertito che ad Amatrice sta per spegnersi la speranza».

Schiaffo delle Marche ai suoi terremotati: "10 milioni per le bici". La Regione: "Nuove piste ciclabili coi fondi del sisma". L'ira degli sfollati: "Vergognoso", scrive Paolo Bracalini, Lunedì 28/01/2019, su "Il Giornale". Cosa c'entrano le piste ciclabili con la ricostruzione post-terremoto? A prima vista nulla. Eppure un nesso dev'esserci visto che la Regione Marche ha appena deliberato di destinare 5.016.000,00 euro «a valere sui fondi Eventi Sismici Por Fesr Marche 2014/202010», per la costruzione di una nuova rete di piste ciclabili. Cifra che sarebbe poi versata in due tranche, per un costo complessivo quindi del doppio, circa 10 milioni di euro. Il tutto è motivato nella delibera numero 36 del 22 gennaio scorso, dove si legge: «Nell'ambito del processo di ricostruzione post sisma si ritiene prioritario promuovere interventi volti a migliorare la qualità di vita nelle aree urbane tramite la riduzione delle emissioni di carbonio. Al fine di incentivare l'utilizzo di mezzi a basso impatto ambientale e così concorrere alla riduzione delle emissioni e dell'assorbimento di carbonio, è necessario cofinanziare interventi per lo sviluppo e la messa in sicurezza di itinerari e percorsi ciclabili e per l'incentivazione di trasporti urbani puliti». Le piste ciclabili appunto. Le quali, però, non vengono percepite come una priorità dalle vittime del terremoto del 2016 nelle Marche. Protesta infatti il coordinamento dei comitati Terremoto Centro Italia, per voce del suo responsabile Francesco Pastorella: «È una vergogna. La giunta della Regione Marche assegna 10 milioni di fondi sisma europei alle piste ciclabili. Si tratta del doppio della cifra che la stessa Regione Marche aveva avuto il coraggio di stanziare per le piste ciclabili attingendo ai proventi degli sms solidali, manovra sventata grazie ad una coordinata azione di protesta nel giugno 2017!». Già quell'anno infatti la Regione fu costretta a fare dietrofront al progetto di finanziare con 5,5 milioni presi dai fondi per il terremoto la pista ciclabile CivitanovaSarnano. Altro progetto sempre con i soldi degli sms solidali, quello di riaprire la grotta sudatoria di Acquasanta Terme, una struttura termale chiusa da decenni. La protesta nel 2017 fermò l'operazione, secondo la Regione a guida Pd un investimento per rilanciare il turismo. Messa in soffitta per un po', rieccola spuntare. «Questa decisione arriva come uno schiaffo alla nostra situazione, uno schiaffo alla dignità di chi ha sempre lavorato senza mai chiedere niente - accusa il coordinatore del comitato Terremoto Centro Italia - Hanno fatto solo danni, si mettono a litigare col governo per dettagli sulla pelle dei terremotati, ritardano ulteriormente la ricostruzione e adesso hanno la faccia tosta di utilizzare fondi destinati al sisma per le loro passeggiate in bicicletta. Ci appelleremo in tutte le sedi e parleremo con il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani per bloccare quest'ennesimo affronto alle drammatiche condizioni dei terremotati. Questa non passerà!». La reazione va inquadrata nella situazione generale della ricostruzione nelle Marche a oltre due anni dal sisma. Un disastro: 31.675 persone sfollate (solo a Tolentino 247 persone vivono tuttora nei container), oltre 45mila edifici ancora non agibili, pratiche burocratiche che procedono a rilento mentre non ci sono più fondi per pagare il Contributo mensile di autonoma sistemazione che molti sfollati attendono da mesi, cinquecento imprese sparite e 1.500 posti di lavoro persi. Un territorio ancora in ginocchio. Ma con le piste ciclabili.

·        Terremoto in Albania.

Terremoto in Albania, l’esempio della Puglia contro chi ha paura dell’immigrazione. Natale Cassano il 28/11/2019 su Notizie.it. Dalla nave Vlora al terremoto in Albania: la lezione di solidarietà della Puglia, da cui può ripartire l'Italia intera. Arriva dalla Puglia una lezione di solidarietà che rischia di far cadere in depressione Salvini e compagni (mi perdoneranno i leghisti l’accostamento filo comunista). È proprio dal ‘Tacco d’Italia’ che centinaia di volontari della Protezione civile e di enti sociali come Croce Rossa e Confederazione della Misericordia – supportati anche da mezzi e uomini dell’Esercito – sono partiti in nave per andare a soccorrere la comunità albanese, ancora ferita dal tremendo terremoto che alle 4.30 del 26 novembre ha sconvolto la loro quotidianità. In pochi secondi sono crollati interi palazzi e decine di vite sono state spazzate via dalla furia della terra, ma hanno trovato tanti pugliesi a tendere loro una mano: a Durazzo sono stati portati viveri, medicinali e installato un campo d’accoglienza. “L’aiuto dell’Italia è stato fondamentale” le parole del console generale della Repubblica di Albania, Adrian Haskaj, davanti alle navi dei soccorsi in partenza dal porto di Bari.

La politica che gioca sulle paure. Ecco, è da quelle lacrime che dovrebbe ripartire non solo la politica, ma tutta la popolazione italiana. Nell’era dei discorsi populisti, della retorica dei ‘porti chiusi’ e del ‘business dei migranti’, della politica leghista che ottiene consensi elettorali giocando sulle paure del diverso, bisogna tornare a essere umani. Perché una mano tesa in cerca di aiuto non è meno importante se sulla carta d’identità ha scritta una nazionalità diversa dalla nostra. Non esistono morti di seria A e di serie B, come invece ci vorrebbe far credere chi si bea nel lasciare un gommone affondare nel Mediterraneo, esclamando felice sui social che “l’Italia non si è piegata e ha alzato la testa”. Già, ma mentre questo accadeva, per ogni parola proferita dal nostro ex ministro dell’Interno, una vita si stava spegnendo circondata dall’azzurro cristallino dell’acqua. Per ogni migrante che viene redistribuito a un altro Paese europeo, ce ne sono decine, centinaia che non hanno avuto modo di essere salvate. Ma alla politica populista serviva un capro espiatorio, dove vomitare tutto l’odio derivato dalla crisi economica e dalle problematiche quotidiane. E chi meglio del migrante, dipinto improvvisamente come l’invasore menzognero?

L’insegnamento della Vlora. Per questo assume ancora più forza il gesto della popolazione pugliese, ma anche degli altri volontari pugliesi che hanno raggiunto l’Albania per provare a dar loro una mano. Lo fanno oggi, come lo fecero 28 anni fa, quando la nave Vlora carica di persone in fuga dalla fame e dalla guerra attraccò a Bari, chiedendo aiuto a persone estranee. Che quell’aiuto non l’hanno negato, allestendo un campo di soccorso d’emergenza all’interno dello stadio della Vittoria. Da allora cosa è cambiato? Bastano davvero due decenni per trasformare il fratello buono in cattivo? Il bisogno di aiuto in paura per la propria sicurezza? Dobbiamo cambiare rotta, altrimenti il monito del pastore Martin Niemöller non ci avrà insegnato niente: “Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Rimasti da soli, solo perché sul cellulare, in piazza e nei salotti televisivi un politico ci ha raccontato che il problema erano i migranti. E noi non siamo riusciti a guardarci indietro, quando l’umanità non era un concetto legato al colore della pelle. Ora invece bisogna trovare la forza di spegnerlo quell’apparecchio televisivo e iniziare a capire che il problema, in realtà, è il nostro modo di guardare la realtà.

Terremoto Albania: Marjeta, la donna morta con i tre figli in braccio e Rami, unico superstite della sua famiglia. L'unico sopravvissuto della famiglia Lala ha commosso tutto il Paese. Rami è stato salvato dopo 14 ore. Paolo Brera il 29 novembre 2019 su La Repubblica. Marjeta aveva tre figli tra le braccia, quando i vigili del fuoco italiani l’hanno trovata sotto i calcinacci. Dormiva con loro nel lettone, ha provato inutilmente a coprire col suo corpo il piccolo Emilio, che aveva 6 anni, e i due cuccioli di casa, Dionisa ed Enis, due gemellini di due anni. Amelia, la sua bambina di dieci, era qualche metro più avanti: era stata trovata morta ore prima. Dalle due di ieri mattina non c’è più nessuno da salvare, nella catasta di macerie che fu una palazzina familiare di cinque piani costruita a palafitta - edificata senza regole, come tutte le villette del quartiere nato alla fine del comunismo - sul terreno instabile di una ex palude a Durazzo in cui negli anni Novanta sguattavano le rane. I Lala sono tutti morti a parte il 16enne Rami - tirato fuori dopo 14 ore di scavi a mani nude - i suoi genitori e lo zio Berti, il marito di Marjeta, che erano in Italia a lavorare. La loro storia ha commosso l’Albania: è diventata l’epitome di una tragedia nazionale che finora conta 49 morti (per la prima volta il bilancio non è peggiorato, ma non è ancora definitivo) presentando il conto dell’incuria edile drammatica quando alla caduta del regime di Enver Hoxha mezzo Paese si costruì casa tirando su muri con quattro mattonelle recuperate, qualche sacco di sabbia e uno zio muratore. E quando, soprattutto, per i nuovi imprenditori senza scrupoli e senza controlli divenne un gioco da ragazzi far soldi con il cemento costruendo colossi senza fondamenta su una faglia sismicamente instabile. Nonna Sahadete, 79 anni, è morta accanto al figlio Ilir, 52 anni. L’avevano trovata subito, prima ancora che intervenissero in forze le squadre speciali kosovare con la ruspa e la gru da cui pendeva un enorme ragno d’acciaio. “Dalle macerie si sentiva solo la voce di Rami”, racconta Zani Rustani, un vicino di casa 26enne che da vent’anni vive in Italia (fa il barman a Brescia) ma era tornato per assistere il padre malato. E’ lui che lo ha trovato, è lui che lo ha raggiunto ed è riuscito a fargli bere un sorso d’acqua infilandosi tra i calcinacci, sotto gli strati della palazzina schiantata. Rami era rannicchiato accanto alla lavatrice, che lo ha salvato facendogli da scudo. Era in posizione quasi fetale, ma storto su un fianco e immobilizzato, con i piedi schiacciati dal cemento. “Ho sentito mia sorella, è viva, salvatela”, ha implorato. Ma anche il corpo di Grisilda, che aveva 19 anni, uscirà senza vita dalla palazzina. Mercoledì, quando i quaranta uomini della “Usar medium” dei vigili del fuoco italiani - gli stessi che hanno salvato vite a Rigopiano e Amatrice - hanno rilevato il soccorso dalla squadra kosovara, la tecnica è cambiata radicalmente nella speranza di trovare ancora qualcuno vivo. Hanno fatto subito tacere i mezzi pesanti e si sono concentrati sul “lavoro di precisione” con le telecamere “snake” e i cani molecolari. Tutto inutile, dalle macerie non arrivava alcun segnale: “Mai perdere le speranze”, dicevano mentre il Paese intero trepidava per quella grande famiglia musulmana sterminata dal sisma. Ma non c’era più nulla da fare.

Terremoto in Albania, chi era Kristi Peci: la fidanzata del figlio del premier morta sotto le macerie. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Corriere.it. È la prima cosa che si nota, purtroppo, quando scompare una ragazza. Molto bella e giovanissima, come Kristi Peci. La fidanzata del figlio del premier albanese Edi Rama, morta nel corso del terribile terremoto di poco più due giorni fa, a Durazzo, sepolta, insieme alla madre, al padre e a suo fratello. Sotto un palazzo di sei piani, sbriciolatosi completamente su 34 persone. La prima cosa che si fa, è notare quanto vita ci fosse negli occhi scuri, intensi, di questa ragazza di 24 anni, laureatasi in Dermatologia all’università di Tirana. E poi, ecco Kristi mentre scherza, in un selfie, presentandosi con occhiali enormi, orecchie da cagnolino ed un puntino sul naso. Ci sono anche due cuoricini rosa. È facile pensare, adesso, che fossero indirizzati al suo Gregor, il fidanzato «poco politico» di Kristi. In pochi sapevano del loro amore, in piedi già da qualche anno. Però, che strano, a volte i ragazzi sanno fare le cose che ai grandi, quando sono celebri, non riescono: cercare di vivere una vita normale. Lontano dai riflettori. Gregor, figlio dell’uomo più importante d’Albania, ma che cerca di ripercorrere solo un aspetto della vita del padre — celebre pittore, prima di dedicarsi alla vita politica —, laureandosi all’Accademia di Belle Arti di Tirana. La città dove molto probabilmente si saranno conosciuti i due ragazzi. Innamoratisi senza guardie del corpo e paparazzi. I social c’entrano poco in questa storia d’amore. Solo nel tragico epilogo rientrano Kristi dalla finestra dei fatti. Delle cose da dire. Per forza. Nella pagina face book della ragazza, non ci sono capricci della volontà. I soliti sogni dei ventenni. Gli appuntamenti ai quali giungere col ritardo di un sorriso. E soprattutto non ci sono riferimenti alle vicende politiche del suo Paese. Sembra quasi che Kristi abbia studiato inconsapevolmente da futura first lady: nessun eccesso, molto composta nelle foto che la ritraggono. Come quella sul suo profilo sociale, con un sorriso tenero e rassicurante, la mano sinistra tra i lunghi capelli neri, mentre è seduta al tavolo di un ristorante. Chi avrà immortalato quel momento? Probabilmente lui, il suo Gregor, all’insaputa di tutto e di tutti. Anche se volessimo trovare delle imperfezioni intorno a questa vicenda, sarebbe difficile riuscirci. Una brava dermatologa sa come e cosa fare, in ogni circostanza. Stessa cosa vale per Gregor, il pittore trentenne, più grande di qualche anno della sua ragazza, che avrà trovato la morte nel sonno, si spera, quando il mondo le è caduto addosso con l’intensità di 6,2 gradi della scala Richter. È stata ricordata da Gregor con la stessa discrezione con la quale avevano vissuto la storia d’amore. Perché spiattellarla a tutti. Una bella lezione per i social attraverso gli stessi social: «Voglio esprimere tutto il mio dolore per la perdita di una persona a me vicina, morta insieme al fratello, la madre e il padre». Più che un post d’addio su Instagram, sembrano le parole di un commiato solenne. Da premier per caso. Ma con la tavolozza dei colori macchiata di nero.

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Farmaci: da una parte ci curano, dall’altra ammalano pesci, animali e piante.

Farmaci: da una parte ci curano, dall’altra ammalano pesci, animali e piante. Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Milena Gabanelli su Corriere.it. La Commissione europea a marzo ha inviato un’analisi all’Europarlamento, specificando che la diffusione dei farmaci avviene principalmente attraverso:

1) lo scarico degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, contenenti anche farmaci inutilizzati gettati nei lavandini e nei servizi igienici;

2) lo spargimento di liquami animali nei campi;

3) l’acquacoltura;

4) lo scarico degli effluenti provenienti da impianti di produzione;

5) il bestiame da pascolo;

6) la cura degli animali domestici;

7) lo smaltimento improprio dei farmaci in discarica.

Il primo allarme è stato pubblicato a febbraio 2015 dal Pharmaceutical Journal: nelle acque del Lago Michigan è presente la metformina, un farmaco per il diabete, e non solo vicino all’impianto di trattamento delle acque reflue, ma anche a miglia di distanza. Questo farmaco, ha spiegato la ricercatrice dell’Università del Wisconsin Rebecca Klaper, ha provocato cambiamenti ormonali nei pesci maschi e ne ha compromesso le capacità riproduttive.L’Organizzazione mondiale della Sanità ritiene che quelli presenti nell’acqua potabile non possano rappresentare un rischio per la salute umana «alle basse concentrazioni rilevate», ma puntualizza che «la questione dei residui farmaceutici – che possono diffondersi in fase di produzione, utilizzo e smaltimento – non può essere ignorata». Diversi farmaci antimicrobici per uso umano e veterinario, sono stati rinvenuti nelle acque e nel suolo, e potrebbero contribuire ad accelerare la diffusione di batteri e funghi resistenti, pericolosi per l’uomo. Tracce di Voltaren sono state rinvenute in circa 50 Paesi, Carbamazepina, Cotrimossazolo e ibuprofene in oltre 45. Nonostante le quantità rilasciate siano spesso molto basse, numerosi prodotti farmaceutici persistono a lungo nell’ambiente, e si diffondono nell’acqua e nel suolo accumulandosi nelle piante o nella fauna selvatica, provocando negli animali problemi fisici o comportamentali.Oltre ai pesci che hanno subito cambiamenti ormonali (non solo nel Lago Michigan), diversi studi hanno evidenziato lo stesso problema per quelli che sono stati esposti al principio attivo dei contraccettivi, mentre quelli esposti a basse concentrazioni di antidepressivi hanno cambiato comportamento e sono a rischio sopravvivenza. Poi c’è l’effetto cocktail: se i medici suggeriscono ai loro pazienti di non mischiare per esempio ibuprofene e betabloccanti, i pesci che se li ritrovano nell’acqua non possono evitarli. Una concausa dell’avvio verso l’estinzione dello scarabeo stercorario potrebbe essere attribuita a residui di antiparassitari come l’Ivermectin per il bestiame.Questi sono solo alcuni esempi, che hanno spinto le istituzioni europee ad effettuare ulteriori studi sull’impatto ambientale dei farmaci e a prendere provvedimenti: la direttiva 2008/105/CE (modificata dalla direttiva 2013/39/UE) dispone che la Commissione europea definisca interventi strategici riguardanti l’inquinamento delle acque provocato dalle sostanze farmaceutiche. Per ora il piano prevede un aumento delle attività di sensibilizzazione, sostegno di farmaci meno impattanti per l’ambiente, e promozione di processi di fabbricazione più «sostenibili». Inoltre, fornisce indicazioni su come ampliare la valutazione e il monitoraggio del rischio ambientale, ridurre la produzione di rifiuti e migliorarne la gestione. Le Nazioni Unite hanno invitato tutti i governi ad affrontare il problema. Soltanto tre Paesi si sono attivati. In Olanda, il governo ha preparato un piano programmatico 2018-2022 dedicato alla riduzione dell’inquinamento ambientale da farmaci che coinvolge il ministero della Salute, del Welfare e dello Sport, quello dell’Agricoltura, Natura e Qualità del cibo, le autorità regionali, rappresentanti dell’industria farmaceutica e del settore dell’acqua. Oltre a migliorare lo smaltimento dei rifiuti farmaceutici da parte di ospedali e cittadini, stanno studiando medicine con un minore impatto ambientale. In Svezia, l’Agenzia per la gestione marina e dell’acqua ha finanziato otto progetti dedicati alla riduzione delle contaminazioni nell’acqua attraverso nuove tecniche di trattamento. La Svizzera, patria dell’industria farmaceutica, ha emanato una legge: gli impianti di trattamento delle acque reflue devono dotarsi di sistemi in grado di rimuovere completamente i residui da farmaci.Le direttive non fanno riferimento all’immenso problema degli allevamenti intensivi, dove l’uso degli antibiotici è sistematico, e delle enormi quantità di liquami che finiscono nei campi come concime. Altro nodo intoccato: anche l’uso di droghe (eroina e cocaina) viene smaltito dal corpo. Qui la produzione (essendo illegale, come pure il consumo) non considera l’impatto ambientale, ma al contrario sono sempre più potenti e «pure». Rientrano nella categoria «residui da farmaci», e quindi da contemplare come residui da abbattere negli impianti di trattamento? 

·        Sabbia d’oro.

Stefania Di Lellis per “la Repubblica” il 20 luglio 2019. Quando in spiaggia sbuffate scuotendo via per l' ennesima volta la sabbia dall' asciugamano, fermatevi a pensare. Avete tra i piedi una delle risorse più importanti della nostra civiltà. Su quei granellini si fondano le nostre città, le nostre case, i ponti, le finestre, le creme che ci spalmiamo sulla faccia, gli schermi dei telefonini, perfino l' elastico delle mutande. La sabbia è la risorsa naturale più usata dopo l' aria e l' acqua. E per questa risorsa si uccide e si rischiano guerre. Bande criminali si arricchiscono scavandola via dai letti dei fiumi, Paesi la spostano da un angolo all' altro del pianeta ridisegnando le carte geografiche. Ogni anno vengono usati nel mondo, soprattutto per fare cemento, 50 miliardi di tonnellate di sabbia e ghiaia, il volume più rilevante di materiali solidi presi dalla terra. E l' aumento delle attività estrattive è esponenziale. Nel 1950 solo 750 milioni di persone vivevano in città, ora sono 4,7 miliardi, con conseguente incremento edilizio. Il boom dell' Asia è tra le principali ragioni dell' aumento della richiesta di sabbia nel mondo. La Cina ha impiegato negli ultimi quattro anni più cemento di quanto ne abbiano utilizzato gli Stati Uniti nel XX secolo. Che problema c' è, direte, prendiamo la sabbia dai deserti. No, impossibile: la forma dei granelli è troppo arrotondata e non funziona bene per produrre il cemento. Quella del mare viene usata, ma va prima depurata dal sale che altrimenti divorerebbe ciò che viene costruito. La sabbia migliore è quella dei fiumi e dei laghi. Il problema è che la stiamo usando al ritmo doppio rispetto a quello geologico con cui si forma. Le nostre capacità tecniche di estrazione sono diventate fenomenali. Alcune navi dragatrici cinesi messe in piedi sarebbero alte come palazzi di 60 piani. Scavano, cambiano il corso dei fiumi, alterano gli equilibri di delicatissimi ecosistemi. Estrarre la sabbia intorbidisce le acque (i granelli troppo fini vengono rilasciati della navi dragatrici), ne altera il Ph, stravolge il paesaggio. E può addirittura cambiare le dimensioni di un Paese: in Indonesia proprio a causa dell' estrazione di sabbia diretta verso Cina, Thailandia, Hong Kong e Singapore dal 2005 sono sparite almeno 24 piccole isole. Giacarta nel 2007 ha proibito l' esportazione di sabbia, ma le mafie hanno continuato a fare il proprio lavoro. Così come lo fanno in India. Vince Beiser (premio Pulitzer che alla sabbia ha dedicato il libro The World in a Grain , il mondo in un granello di sabbia) ha raccolto le testimonianze degli attivisti che cercano difendere i fiumi: intimiditi, picchiati, uccisi dai predatori di sabbia, spesso con l' omertosa protezione delle autorità. La sabbia è una questione di Stato. Proprio in questi giorni è stato annunciato lo stop alle esportazioni di sabbia dalla Malaysia verso Singapore. Un colpo alle ambizioni territoriali della città Stato che negli ultimi 40 anni ha aumentato del 20% il proprio territorio proprio importando sabbia e ghiaia (517 milioni di tonnellate in 20 anni) e "reclamando" così terra dal mare. Con l' inizio delle regolamentazioni internazionali il valore di mercato della sabbia è aumentato. Scrive Pascal Peduzzi in un report per l' Università di Ginevra: il prezzo medio di una tonnellata di sabbia importata da Singapore tra il 1995 e il 2001 era di 3 dollari. Tra il 2003 e il 2005 è lievitato a 190 dollari. Man mano che i luoghi di approvvigionamento si restringono, il danno ambientale del cemento sale anche perché aumentano i chilometri che i carichi di sabbia e ghiaia devono percorrere: il 5% delle emissioni di gas serra nel mondo sono dovute alla produzione di cemento. La caccia alle fonti di sabbia è aperta. Paradossalmente una si sta schiudendo proprio grazie al riscaldamento globale. Un team statunitense sta studiando lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia. L' idea è capire se questa possa diventare un nuovo luogo di estrazione su vasta scala dei preziosi granellini che alimentano la nostra civiltà. Le autorità locali sono interessate. Attualmente le esportazioni dell' isola sono costituite al 90% da prodotti ittici e metà del bilancio è nutrito dai sussidi erogati dalla Danimarca, da cui la Groenlandia ambirebbe a divorziare. Un fiorente commercio di sabbia potrebbe dare un contributo alle ambizioni indipendentiste. Ma a che prezzo? Le attività estrattive potrebbero cambiare il volto della zona. Da qualche anno le Nazioni Unite fanno pressioni per una governance a livello globale sul mercato della sabbia che è opaco quasi ovunque. L' Onu auspica poi che venga cambiata la formazione di ingegneri e architetti e si cerchino strade alternative al cemento. Come per l' acqua, però, la strada maestra è consumare meno e rispettare le risorse. Anche la sabbia. Fateci un pensierino quando scuotete l' asciugamano.

·        Tossico…ma non per tutti.

Alluminio, l'allarme del ministero della Salute: con quali cibi non deve mai entrare a contatto. Libero Quotidiano l'11 Dicembre 2019. L'alluminio è un materiale estremamente invalso in cucina, specialmente nella cottura dei cibi in forno oppure nella conservazione di panini, sandwich e simili. Ma presenta alcune criticità. Lo afferma un parere del Comitato sulla sicurezza alimentare sulla base di studi condotti dall'Istituto superiore di sanità. In particolare, l'alluminio potrebbe mischiarsi con i cibi durante il periodo di cottura o conservazione. Ciò potrebbe arrecare un grave pericolo alla salute delle fasce più deboli, come bambini e donne incinte. A scopo informativo e di sensibilizzazione, il Ministero della salute ha diffuso un video in cui solleva i rischi alla salute derivanti dall'utilizzo di alluminio in cucina, soprattutto in presenza di cibi acidi come il limone. Scorrendo il parere, il Comitato sulla sicurezza alimentare consiglia di utilizzare materiali alternativi e invita le autorità competenti a "elaborare sia un piano di monitoraggio relativo alla presenza e rilascio di alluminio dai materiali a contatto, sia idonee modalità di informazione del rischio rivolte ai cittadini e alle imprese".

Da repubblica.it il 13 dicembre 2019. L'alluminio della carta stagnola, presente in quasi tutte le cucine italiane, messo a contatto con determinati cibi e in determinate condizioni può "migrare" e rimanere sulle pietanze che poi consumiamo, diventando potenzialmente pericoloso. L'allerta arriva dal ministero della Salute con un post che chiarisce qual è l'uso corretto dei contenitori di alluminio in cucina, a contatto con gli alimenti. A fare la differenza prima di tutto sono il tempo di conservazione, la temperatura e la composizione dell'alimento. I contenitori devono obbligatoriamente riportare una serie di avvertimenti sulla confezione relativi alluso: ad esempio, "non idoneo al contatto con alimenti fortemente acidi o fortemente salati", oppure "destinato al contatto con alimenti a temperature refrigerate" o anche "destinato al contatto con alimenti a temperature non refrigerate per tempi non superiori alle 24 ore". Quindi è importante leggere attentamente le etichette dei contenitori prima di usarli per cucinare o conservare gli alimenti. Si tratta ovviamente di indicazioni valide per l'alluminio a diretto contatto con i cibi, e non in caso ci fosse una barriera (ad esempio, un rivestimento) che impedisce la migrazione del metallo. Tutte accortezze solitamente poco considerate.

A temperatura ambiente. Ci sono poi degli alimenti che possono restare a contatto con il cibo anche a temperatura ambiente: prodotti di cacao e cioccolato, caffè, spezie ed erbe infusionali, zucchero, cereali e prodotti derivati, paste alimentari non fresche, prodotti della panetteria, legumi secchi e prodotti derivati, frutta secca, funghi secchi, ortaggi essiccati, prodotti della confetteria e prodotti da forno fini a condizione che la farcitura non sia a diretto contatto con l'alluminio. Insomma, non vuol dire che non possiamo avvolgere un panino con l'alluminio, ma che è il caso di farlo per un tempo non prolungato e non a diretto contatto con cibi acidi (ad esempio, limone o pomodoro).

Le istruzioni per l'uso: cosa evitare. E' bene invece evitare l'uso di contenitori o figli in alluminio per conservare o cuocere cibi fortemente acidi o salati, come succo di limone, aceto, alici salate, capperi sotto sale, ecc. Un'altra indicazione utile è relativa al tempo di conservazione: si possono superare le 24 ore solo a temperatura di refrigerazione o congelamento. E' poi consigliabile non riutilizzare i contenitori monouso (teglie e vaschette) e non graffiare pentole o padelle in alluminio durante il loro utilizzo, evitando di pulirle con prodotti abrasivi. Le vasche in alluminio monouso andrebbero lavate prima dell'uso e mai messe a contatto diretto con parti elettriche o fiamme dirette. Meglio anche evitare di coprire cibi umidi conservati in recipienti di metallo.

Soggetti a rischio. La campagna del ministero mette in guardia soprattutto per quanto riguarda le fasce più a rischio: anziani, bambini sotto i 3 anni, soggetti con malattie renali e donne in gravidanza. "Nei soggetti sani - specifica la nota del ministero - il rischio tossicologico dell'alluminio è limitato per via dello scarso assorbimento e della rapida escrezione". L'effettiva entità del fenomeno della cosiddetta "migrazione nel cibo" (la reazione chimica che si verifica nel passaggio di particelle dal metallo agli alimenti) è spiegata dai risultati del recente rapporto dell'Istituto Superiore di Sanità e intitolato "Studio dell’esposizione del consumatore all’alluminio derivante dal contatto alimentare". L'analisi su 48 tipologie di alimenti ha dimostrato come la conservazione e la cottura in fogli o vaschette d’alluminio monouso non rappresenti un rischio per la salute poiché, anche nell’uso intensivo e quotidiano, l'incidenza della migrazione è ben lontana dalle prudenziali soglie di sicurezza stabilite a livello scientifico dall'European Food Safety Authority. A chiarire ulteriormente la questione, fugando ogni dubbio, il Rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità fornisce un dettagliato riepilogo degli studi finora pubblicati che analizzano gli effetti generati da contatto tra alluminio e alimenti, ribadendo l’assenza di risultati rilevanti tossicità: anzi, conferma che anche somministrando dosi molto alte di alluminio - 100-300mg/kg - non sono stati riscontrati effetti negativi. Ma quanto è pericoloso l'alluminio per la nostra salute? La dose massima di alluminio che possiamo assumere senza subire gli effetti neurotossici sono da calcolare in base al peso corporeo. Ad esempio, una persona che pesa 70 kg può assumerne un massimo di 140 mg a settimana, cioè 2 milligrammi per ogni chilogrammo di peso (limiti stabiliti dall'Oms), basandosi su un modello di assunzione di 30mg/kg, che non ha comunque portato a effetti avversi osservabili. Va considerato anche il fatto che i cibi cotti in alluminio (ad esempio lasagne, pesce, carne, ecc, fatti in casa o industriali) nel forno ad alte temperature, specie se a contatto con condimenti acidi o sale, se assunti ogni giorno possono portare al superamento della soglia. Cosa che potrebbe accadere anche senza che ce ne accorgiamo, visto che molti degli alimenti di consumo contengono già alluminio, compresi frutta e verdura che lo assorbono in natura. Buona parte dei prodotti che acquistiamo al supermercato ne contiene tracce, in varie quantità: se ne possono trovare tracce nei cereali, nel pane, negli spinaci, nel caffè, nel cioccolato, nel sugo concentrato e nel tè. L'alluminio è tra l'altro autorizzato in coloranti e altri additivi, correttori di acidità e antiagglomeranti. Insomma, le fonti di alluminio nella nostra alimentazione sono tante e non tutte monitorate. Per questo, secondo gli esperti, è consigliabile limitare l'assunzione di cibi "trasformati" (precotti e in busta) cercando di privilegiare quelli freschi da preparare in casa. L'uso corretto dell'alluminio in cucina non vuol dire bandirlo del tutto, ma seguire le indicazioni ormai note.

La Sardegna litiga sulla posidonia. «Va tolta dalle spiagge». «No, è risorsa». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Molti ancora le chiamano «alghe» e i gestori degli stabilimenti in riva al mare da anni chiedono la rimozione: i cumuli mettono in fuga i turisti. Ma per i biologi marini senza la Posidonia oceanica sarebbe la fine per molti litorali. La Sardegna — 2 mila chilometri di coste, 1500 spiagge — potrebbe essere la prima regione italiana a dotarsi di una legge che disciplini la materia, se il testo proposto da Franco Mula (Partito Sardo d’Azione) riuscirà a superare gli ostacoli dell’esame nella commissione del consiglio regionale che da qualche mese la discute. La proposta prevede che la Posidonia sia rimossa ogni anno prima dell’inizio della stagione estiva e stoccata nello stesso arenile (o in siti idonei indicati dal Comune nel cui territorio ricade il litorale) e che al termine dell’estate sia ricollocata nella stessa spiaggia o in una vicina. Nel caso non sia possibile sarà smaltita in discarica. Sul testo di Mula, c’è più di una perplessità dell’opposizione di centrosinistra. Proprio questo è il punto: la Posidonia è risorsa o rifiuto? Scientificamente non ci sono dubbi: le praterie di Posidonia sono preziose, smorzano l’impatto delle onde, sono un efficace bioindicatore della buona qualità del mare. Una direttiva dell’Unione europea definisce le praterie «fabbriche» di ossigeno e le tutela in quanto habitat prioritario. Il problema è sulla Posidonia spiaggiata; manca una normativa di riferimento. I gestori degli stabilimenti balneari, che hanno interessi concreti, vogliono che i cumuli vengano rimossi per tempo; la scorsa estate ad Alghero per i ritardi sulla spiaggia di San Giovanni ci fu quasi una rivolta: «Questo è inquinamento». Biologi e ambientalisti contestarono i danni causati all’arenile dai mezzi pesanti utilizzati per l’asporto. «C’è il rischio di un’accelerazione dell’erosione — ha rilevato Sandro Denuro (Università di Cagliari) — e occorre molta attenzione: le spiagge sono diverse una dall’altra». La proposta del Partito Sardo d’Azione vieta l’uso di mezzi cingolati e prevede che siamo i comuni a gestire le risorse — 2 milioni di euro all’anno — e gli interventi. «Bisogna evitare che ogni comune faccia a modo suo — obietta Vincenzo Tiana di Legambiente — ed è necessario un piano a tutela dei siti di particolare pregio». La commissione del consiglio regionale ha un altro problema: la deputata 5Stelle Paola Deiana, di Alghero, ha presentato la scorsa primavera una proposta di legge, ha per riferimento il ministro dell’ambiente Sergio Costa ed è chiaro che normativa nazionale e regionale non possono essere in contrasto. Nei primi mesi del 2020 — quindi in tempo per la prossima stagione estiva — potrebbe esserci un’accelerazione. Anche perché fra poche settimane saranno disponibili i risultati del progetto pilota (partecipazione europea, con Interreg) dell’Area marina protetta di Tavolara Punta Coda Cavallo: «Nel nostro rapporto ci saranno — annuncia il direttore Augusto Navone — dati sull’erosione, sulle modalità di asporto e ricollocazione, utili per evitare che la legge ora in discussione si limiti all’ambito amministrativo o, peggio, preveda soluzioni nocive per l’ambiente, ispirate a metodologie e prassi superate da più di 40 anni».

MILENA GABANELLI - SOSTANZE CHIMICHE VIETATE IN EUROPA MA LEGALI NEGLI USA. Andrea Marinelli per “Dataroom – Corriere della Sera” Il 17 luglio 2019. Una sostanza è definita tossica quando gli studi, che ne osservano in laboratorio gli effetti per anni, lo dimostrano. A questo punto intervengono le agenzie sanitarie che ne vietano o ne regolamentano l’uso. E se un agente chimico è classificato «tossico» per un europeo, dovrebbe esserlo per tutti. Non è così. Emerge chiaramente da un confronto fra agenti chimici vietati in Europa e negli Stati Uniti. L’amianto, per esempio, in Italia è vietato dal 1992 e in Europa dal 1999, ma negli Stati Uniti non è mai stato messo completamente fuori legge e, da aprile 2019, è di nuovo possibile usarlo in edilizia nonostante — soltanto in America — uccida 10 mila persone all’anno per mesotelioma. L’amianto è solo una delle circa 1.600 sostanze chimiche che in Europa sono vietate e negli Stati Uniti invece legali, al punto che a gennaio la senatrice del Connecticut, Alex Bergstein, ha presentato una proposta di legge per dare una stretta sui prodotti chimici contenuti nei cosmetici: quelli venduti nel suo Stato, ha scritto, dovranno rispettare gli standard stabiliti dall’Unione europea invece che quelli americani. La proposta di legge probabilmente non passerà, ma è un segnale della preoccupazione sempre più forte negli Stati Uniti e della considerazione di cui godono gli standard europei.

Cosa contengono i cosmetici. Nei cosmetici americani, secondo quanto riporta l’organizzazione no profit Campaign for Safe Cosmetics, si possono trovare le seguenti sostanze chimiche il cui uso in Europa è proibito o limitato:

Parabeni: presenti nei prodotti per pelle e capelli. Alcune tipologie (isopropilparabene, isobutilparabene, fenilparabene, benzilparabene e pentilparabene) sono invece vietate in Europa dal regolamento n. 358/2014 della Commissione europea, a causa della loro «potenziale attività endocrina»;

Alcune tipologie di ftalati: presenti nei prodotti per la pelle, le unghie e i capelli. L’uso di dibutilftalato e bis(2-etilesil)ftalato in Europa è limitato dalla normativa Reach perché può alterare la normale funzionalità ormonale dell’apparato endocrino e impattare sulla fertilità. L’unico ftalato impiegato nei cosmetici venduti in Europa è il dietilftalato (DEP), aggiunto in piccole quantità ai prodotti, con lo scopo di rendere amaro, e quindi imbevibile, l’alcool etilico eventualmente presente nella composizione del cosmetico;

Formaldeide: presente negli smalti, nei balsami per capelli, negli shampoo per bambini. In Europa l’uso nei prodotti per la cura personale è ristretto dal regolamento 2019/831 della commissione che si affianca al Reach, e la presenza (con una concentrazione massima del 2,2%) deve essere segnalata sull’etichetta perché è cancerogena e può causare irritazione della pelle;

Idrochinone: utilizzato nei prodotti per la pelle, per i capelli e per le unghie. In Europa l’uso è ristretto ad alcuni balsami e sottoposto ogni volta a specifica autorizzazione perché può provocare il cancro o disturbi respiratori.

La chimica nei prodotti alimentari. Nei prodotti da forno americani come dolci, biscotti o pane si può utilizzare il bromato di potassio o l’azodicarbonammide (in etichetta E927), entrambi soggetti a severe restrizioni in Europa perché cancerogeni. Anche i conservanti ed esaltatori di sapidità butilidrossianisolo (E320 o BHA in etichetta) e butilidrossitoluene (E321 o BHT in etichetta) sono soggetti a severe restrizioni in Europa. Negli Stati Uniti sono limitati dall’Fda, ma vengono comunque usati nei prodotti alimentari, nonostante il primo sia cancerogeno e il secondo pericoloso per il fegato. Il consumo della carne agli ormoni, permessa negli Stati Uniti, è vietato in Europa da una serie di direttive emanate fra il 1981 e il 1996 sulla base di studi che hanno considerato cancerogeni alcuni ormoni della crescita somministrati ai bovini.

Usa: su 40.000 sostanze chimiche , testato solo l’1%. Secondo l’Epa, l’agenzia per la protezione ambientale americana, meno dell’1 per cento dei 40 mila agenti chimici presenti nei prodotti destinati ai consumatori è stato rigorosamente testato sulla sicurezza per gli esseri umani. Come è possibile? Il sistema regolatorio americano è gestito da quattro enti federali, divisi per settori di riferimento: Environmental Protection Agency per l’ambiente (che ha 11 normative), Food & Drug Administration per cibo, tabacco e medicine (1 normativa), Trademark Status & Documental Retrieval per i brevetti (1 normativa) e il dipartimento per la Sicurezza interna (1 normativa). La prassi utilizzata per l’immissione nel mercato di nuove sostanze chimiche prevede che i produttori forniscano all’autorità competente un dossier che ne elenchi le caratteristiche e gli usi. Secondo il Toxic Substances Control Act, sono poi le autorità stesse a dover dimostrare, entro 90 giorni, se una sostanza è pericolosa per l’uomo, gli animali, l’ambiente. Se non arrivano contestazioni entro 3 mesi, si procede con la commercializzazione del prodotto. Per quel che riguarda le sostanze già in commercio da anni, sono invece considerate approvate perché prive di rischi irragionevoli. È quindi «ragionevole» l’utilizzo dell’atrazina, un erbicida diffusissimo negli Stati Uniti, considerato però da moltissimi studi internazionali un potente inquinante delle falde e un distruttore endocrino negli animali: per questo è vietato in molti Paesi europei e in Italia dal 1992. In sostanza l’approccio americano alla commercializzazione di sostanze chimiche ha meno vincoli, le aziende produttrici hanno meno costi e questo le rende enormemente competitive sul mercato internazionale.

In Europa vale il principio di precauzione. L’approccio europeo si basa sul principio di precauzione ed è ben descritto dalla normativa Reach, un acronimo che si può tradurre con «registrazione, valutazione, autorizzazione, e restrizione degli agenti chimici per uso industriale»: richiede insomma che i produttori dimostrino, attraverso studi che costano anche milioni di euro (poiché è necessaria l’osservazione degli effetti negli anni), che tutte le sostanze chimiche fabbricate, importate e utilizzate in Europa siano sicure prima di poterle usare. Il Reach impone dunque all’industria chimica europea costi elevati per garantire la sicurezza dei prodotti. C’è forse un eccesso di burocrazia, ma il principio di precauzione è sacrosanto visto che in ballo c’è la salute delle persone e dell’ambiente. I tumori sono in crescita in tutto il mondo, l’invito alla prevenzione è oggetto di infinite schiere di convegni e studi. Ma cosa significa «prevenzione» se alla fine si scatenano le lobby (che su quel prodotto fanno affari) per allungare il periodo di vita di una sostanza considerata potenzialmente cancerogena? E la politica spesso soccombe alle loro pressioni. Secondo le statistiche del Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro, gli Stati Uniti, pur essendo il Paese in cui la cura dei tumori e più avanzata, sono il quinto Paese al mondo in cui ci si ammala di più: i casi di tumore sono 353,2 ogni 100 mila abitanti. L’Italia è 24esima, con 290,6 casi ogni 100 mila abitanti. Sono sempre troppi, e quindi non solo non dovremmo avere dubbi sul valore del principio di precauzione secondo lo standard europeo, ma andrebbe rafforzato.

·        Gli ultimi scalatori di Uluru.

Gli ultimi scalatori di Uluru,  la montagna sacra agli aborigeni: da oggi torna a essere proibita. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Michele Farina. Vietata l’ascensione a un luogo simbolo dell’Australia. La corsa dei turisti, la gioia del popolo Anangu: «Facciamo pace con i nostri antenati». C’è il piacere degli ultimi: «Che panorama, che batticuore» ha detto Tomoyasu Kato, 32 anni, arrivato da Tokyo per l’ascensione finale. E c’è la felicità di chi si è sempre limitato a guardarla con venerazione dal basso. Minja Jean Uluru-Reid ha i capelli grigi: «Quando ero bambina ci venivo con i miei genitori — ricorda al Sidney Morning Herald —. E non c’era nessuno. Questa è la nostra casa, la nostra memoria. Sono contenta che adesso non salirà più nessuno». Minja ha quella montagna nel cuore e nel nome: Uluru, nella lingua degli aborigeni, vuole dire più o meno Grande Sassolino. È una cima sacra, uno scoglio rosso che placidamente svetta 345 metri sopra il livello del deserto. I bianchi lo chiamarono Ayers Rock, in onore di un certo politico. Per il popolo Anangu, che ci vive intorno, il sentiero verso la sommità è qualcosa che precede il tempo: è «il cammino della creazione» che percorsero gli antenati, i Mala, e che non va percorso in senso contrario. Invece per tanti turisti, australiani e non, è un’espressione di libertà, un ricordo unico e legittimo da serbare nella memoria del telefonino. Negli ultimi anni, chi ci è salito l’ha fatto senza curarsi di un cartello posto alla base della roccia, in cui gli Anangu invitavano (in inglese) i viandanti a non salire. «Please don’t climb». Sono almeno 35 anni, dai tempi del premier Bob Hawke, che i politici di Sydney promettono di rendere legge quell’invito degli Anangu (che dal 1985 hanno ottenuto formale controllo del luogo sacro). Finalmente è arrivato il giorno della «chiusura permanente», come recita un altro cartello intorno al quale gli anziani hanno posato per i reporter. Ieri il piacere degli ultimi salitori ha rischiato di trasformarsi in beffa: alle sette del mattino i ranger hanno chiuso il passaggio, a causa del vento forte (40 nodi sulla cima). Alle 10 il desiderato via libera: il vento era calato, il caldo non era eccessivo, e così una striscia di formiche umane si è snodata dalla base alla groppa del monolite, manco fosse l’Everest in alta stagione. Nessuno si è sentito male. Cosa non scontata: almeno 37 persone sono morte sulla montagna sacra da quando i turisti hanno cominciato a salirci. Chi scivolando, chi per il mal di cuore. Ora anche la piccola ferrata sommitale sarà smantellata. La prospettiva che il divieto allontani i turisti è remota (fino a oggi solo il 15% dei viaggiatori ha sfidato la volontà del popolo Anangu). «Uluru continuerà a essere un luogo straordinario», ha raccontato la guida Rick Peterson, ex soldato delle forze speciali australiane che collabora con gli aborigeni. Domani alla base della montagna sacra si terrà una cerimonia. Ci saranno gli anziani come Minja Jean Uluru-Reid, Barbara Nipper, Johnny Dingo. E ci saranno i turisti che vivranno il brivido di essere i primi non-salitori della nuova era. Nel mondo ci sono luoghi off-limits (e non solo per il pericolo di non uscirne vivi). In Bhutan è proibito scalare montagne sopra i seimila metri in ossequio a determinate credenze religiose. E chi non crede, non ha il diritto di salire? Il laicismo dell’alpinismo (e del turismo) vorrebbe così. Ma Uluru non è di tutti. È dei discendenti dei Mala. C’è il rispetto che si deve alle persone come Minja. C’è da riscoprire il piacere e il mistero del limite. E poi chi l’ha detto che non basti guardare una montagna per sentirsi in cima?

Australia. L'ultimo giorno sopra Uluru: da domani non si potrà più scalare. Gli aborigeni hanno vinto. Da domani il divieto sul monolito che i nativi ritengono sacro e inviolabile. Votato due anni fa, il bando ha scatenato, da inizio estate, la corsa all'ultima chance. I turisti si sono letteralmente accalcati. Ora però è finita davvero. Arturo Cocchi il 25 ottobre 2019 su La Repubblica. Uluru, ultimo giorno. Centinaia, migliaia di "scalatori" (ma le virgolette sono d'obbligo) si stanno accalcando in queste ore sotto - e sopra - il monolito sacro. Da domani (fra pochissime ore, in realtà, dato il fuso orario del Northern Territory Australiano, che in questo momento è 7 ore e mezza avanti all'Italia) scatterà il bando fortissimamente voluto dalla popolazione Anangu, gli aborigeni che considerano la "pietra" più grande del pianeta un luogo sacro e inviolabile. Un provvedimento, caldeggiato da anni dai discendenti della popolazione nativa australiana, che è diventato definitivo poco meno di due anni fa. Il giorno scelto, 26 ottobre, rievoca la data - era il 1985 - in cui la montagna e l'annesso parco che comprende anche i vicini Kata Tjuta sono stati ufficialmente restituiti agli aborigeni. Nel frattempo, i due splendidi siti hanno cambiato - ma sarebbe più giusto dire ricambiato - nome: via Ayers Rock e Monti Olgas, per recuperare gli originali, dove Uluru significa "grande ciottolo, grande pietra". Dalla mattina di domani ora australiana, chiunque proverà a scalare l'iconica pietra rossa sarà punito con una multa di 6.300 dollari australiani, poco meno di 4mila euro. Nell'ultimo giorno di arrampicata libera i turisti - con i giapponesi a contendere agli australiani il primato numerico - hanno rischiato la beffa. I forti venti delle prime ore del mattino hanno indotto le autorità del parco a chiudere l'accesso. Poi è arrivato il via libera . Come e più del solito è cominciata l'ascesa che si snoda attraverso un passaggio obbligato - molto più ripido di quanto la forma della pietra lasci intuire, soprattutto in fotografia - dove gli "esploratori" devono inerpicarsi su una pietra glabra, senza appigli, con l'unico appoggio di poggiamani di corda ancorati al suolo ad un'altezza molto bassa. Si procede letteralmente su una lastra liscia, per svariate decine di metri senza alcuna chance di rifiatare in un qualche anfratto pianeggiante, men che meno all'ombra. Si va avanti così per circa 200 metri di dislivello, prima che comincino quelle che dal basso sembrano fessure, ma che di fatto sono gobbe di 3-4-5 metri per oltrepassare le quali bisogna spesso usare mani e piedi, o prendere la rincorsa. Arrivati in cima, dopo circa un'ora e tanta fatica, c'è poi una ripida discesa da affrontare. Per i trekker improvvisati - che sono la maggioranza dei frequentatori del sito - una fatica inusuale. Se al tutto si aggiungono i 40-45 gradi e oltre che si incontrano facilmente in estate, e l'attrezzatura poco consona scelta dai cosiddetti escursionisti, molti dei quali salgono con scarpe da città o ciabatte da bagno, le dozzine di morti tra i turisti che hanno osato sfidare la montagna sacra trovano facile spiegazione. La cifra ufficiale cita 37 decessi dal 1948, da quando cioè fu aperta la "via" ufficiale. Uluru è sin dal primo avvento del turismo intercontinentale uno dei must che nessun visitatore di Australia e Oceania vuole mancare. Ad oggi è l'icona continentale più conosciuta, assieme al koala, all'Opera House di Sydney, alla scogliera degli Apostoli, e, ovviamente alla Barriera Corallina, che è però difficile da sintetizzare in una singola immagine. Sin dalle prime visite, l'idea dell'arrampicata è stata una delle preferite dagli ospiti. Le esigenze dei nativi, inizialmente ignorate, hanno cominciato a trovare ascolto negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, quando è cominciata una politica di dissuasione soft. Cartelli, insegne ai piedi del monolito e negli alberghi della vicina Yulara - di fatto il campo base di un sito circondato dal nulla del deserto rosso per un raggio di 4-500 chilometri - hanno cominciato a raccontare la montagna per quello che è stata da millenni, un luogo sacro per le popolazioni native. E mentre i gift shop degli alberghi cominciavano a vendere magliette con lo stampo di slogan che recitavano "per favore, non scalate Uluru", o, ancora; "Io non arrampico Uluru, ma le faccio il giro attorno", ricordando la facile passeggiata di 11 chilometri che costeggia il Grande Ciottolo, i ranger del parco nazionale, sempre più scelti tra i nativi, spiegavano il significato religioso del sito, ribadito dalle diverse pitture rupestri che si possono ammirare alla base. Il tutto ha portato ad una graduale disaffezione del turista all'idea dell'arrampicata, tanto che al momento in cui il bando è diventato legge, si stimava che solo il 20 per cento dei visitatori del parco optasse per l'arrampicata. Inevitabilmente, l'idea dell'ultima chance ha scatenato un'inversione di tendenza negli ultimi mesi: si stima che da giugno 400mila turisti si siano alternati ai piedi del monolito, e che una buona quota abbia deciso di salire. Ora però tutto finisce, e per i nativi è un grande giorno, che ha scatenato un misto di gioia e di desiderio di rivalsa tra i nativi. "Una maledizione cadrà su tutti loro - ha twittato l'accademica Marcia Langton, riferendosi agli ultimi arrampicatori - "Non dimenticheranno mai questa profanazione, e il loro disprezzo verrà immortalato dalla storia". "Il sentimento che prevale in questo momento è la felicità - ha invece raccontato Tijiangu Thomas, uno dei ranger dell'Uluru-Kata Tjuta National Park -, la felicità di chi non vede più bistrattare la sua cultura e la sua storia. ma anche di chi sa che gli ospiti che arriveranno non correranno più pericoli". "Non siamo contro il turismo - ha detto Sammy WIlson, che ha amministrato il parco - I turisti sono i benvenuti, qui. Quello che non ci piace è quella arrampicata, ha aggiunto ricordando come "Se io visito un altro Paese, e c'è un luogo sacro dove non si può entrare, io non entro". Scoperta dai "bianchi" nel 1873, Uluru fu battezzata Ayers Rock dal suo primo visitatore britannico, William Gosse, che la battezzò in onore di Sir Henry Ayers, allora governatore del South Australia, lo stato di Adelaide che oggi confina a Sud-Sud Est con il Northern Territory. Nel 1993 è diventato il primo sito a nome doppio - Ayers Rock-Uluru - del suo stato. Una decina d'anni dopo il nome venne invertito, e, benché a tutt'oggi il vicino resort abbia mantenuto il nome anglofono, si può dire che ora (fra pochissimo), il processo di restituzione della montagna sacra ai legittimi proprietari è - almeno simbolicamente - compiuto.

·        «Mondo ambientalista inquinato come le fogne».

Spiagge piene, lo scontro con Messner e gli ambientalisti contro: cosa ci lascerà il Jova Beach Party. Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Corriere.it. Doveva essere soltanto una grande festa collettiva, che avrebbe attraversato alcune tra le più belle spiagge di tutta Italia e alcuni luoghi di grande fascino come Plan de Corones a oltre duemila metri di altezza. Nella stragrande maggioranza dei casi il grande progetto di Jovanotti è filato liscio, ma in altri il Jova Beach Party si è dovuto scontrare con burocrazia, date cancellate per problemi di sicurezza e accese polemiche, soprattutto da parte degli ambientalisti. Un percorso ad ostacoli che ha lasciato il cantautore parecchio amareggiato: «Il mondo dell’ambientalismo è più inquinato della scarico della fogna di Nuova Delhi!» ha tuonato dal suo profilo Facebook.

Jovanotti, il tour è poco "green": siepi tagliate e bottiglie al sole. Continua la rovente polemica tra il cantante e le associazioni ambientaliste. Per il concerto di Montesilvano, in Abruzzo, alcuni residenti lamentano il taglio delle siepi del lungomare. Inoltre, lasciate al sole migliaia di bottiglie d'acqua. Roberto Bordi, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. Il "Jova beach tour" di Lorenzo Cherubini, meglio conosciuto come Jovanotti, è il caso musicale - e non solo - dell'estate 2019. Da qualche tempo, infatti, il cantautore toscano è finito nel mirino delle associazioni ambientaliste, per le quali l'organizzazione della tournée dell'artista sarebbe poco rispettosa dell'ambiente. Polemiche a non finire che hanno indotto Jovanotti a rispondere con un duro post su Facebook, dove ha scritto che "il mondo dell'ambientalismo è più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi". "Hanno detto che abbiamo abbattuto alberi, sterminato colonie di uccelli, spianato dune incontaminate, costruito eliporti (eliporti!!), disorientato fenicotteri, prosciugato stagni, gettato napalm sulle piantagioni di canna da zucchero del sud-est asiatico, trivellato il mare", lo sfogo dell'autore de "L'ombelico del mondo". Ma lo scontro tra Jovanotti e gli ecologisti non accenna proprio a placarsi. Al contrario, viene alimentato dalle accuse lanciate dai Verdi abruzzesi. Infatti, in vista della prossima tappa del Jova Beach Tour, in programma il 7 settembre a Montesilvano (Pescara), gli ambientalisti denunciano da parte dell'organizzazione della tournée il taglio delle siepi del lungomare, definite dall'assessore comunale al demanio "un ammasso e ricettacolo di sterpaglie, siringhe e immondizia". Allo stesso tempo, come riporta Greenme, un utente di Facebook ha scritto che "gli operai hanno tagliato tutto il verde dalla spiaggia dove ci sarà il concerto di Jovanotti il tutto in una maniera davvero insensata. Avete consigli su come bloccare subito questo scempio?". Ma le nuove critiche al cantante non si limitano alle operazioni di sfoltimento del verde attorno all'area dove troveranno posto gli spettatori. Infatti, in un video girato da Cityrumors Abruzzo a ridosso dello spazio "liberato" per lo spettacolo di Jovanotti, si vedono alcuni cassoni di bottigliette d'acqua - da distribuite al concerto - tenute sotto al sole. Pratica vietata, come ribadito da una sentenza del 2018 della Corte di Cassazione, dato che la plastica può rilasciare sostanze nocive se esposta a fonti di calore. Un altro guaio per l'autore di "Per te", che difficilmente dimenticherà - nel bene e nel male - la tournée estiva di quest'anno.

La leader del Wwf: “Capisco lo sfogo di Jova. Noi ambientalisti divisi”. Intervista a Donatella Bianchi dopo la polemica del cantante sui social. "Non siamo cialtroni litigiosi, ma le sue parole ci hanno messo davanti ad uno specchio, a domandarci chi siamo veramente e come vogliamo lottare per salvare il mondo". Caterina Pasolini il 4 settembre 2019 su La Repubblica.

"Il mondo dell'ambientalismo non è una cloaca di cialtroni litigiosi, come ha detto Jovanotti giustamente esasperato. Ma una cosa è certa: le sue parole ci hanno messo davanti ad uno specchio, a domandarci chi siamo veramente e come vogliamo lottare per salvare il mondo". Donatella Bianchi, 55 anni, presidente del Wwf (World wild life found Italia), parla all'indomani dello sfogo del cantante sui social.

Parole vere e dure quelle di Lorenzo?

"Comprensibili. Sono stati mesi di attacchi assurdi a lui e al Wwf per i concerti sulle spiagge. Un processo alle buone intenzioni celebrato sui social. Siamo stati tempestati da accuse false, mosse da chi cercava 15 minuti di celebrità. Ma almeno ora si parla di spiagge derubate della sabbia, di lidi da proteggere".

Donatella Bianchi, 55 anni, presidente di Wwf Italia. Di cosa vi hanno accusato?

"Di esserci venduti, quando invece abbiamo lavorato gratuitamente, e di aver svenduto la natura. Di aver approvato l'abbattimento di dune e messo in pericolo colonie di volatili. Bugie, un assurdo frutto di un malinteso, un po' di invidia e malafede".

Qual è l'assurdo?

"Ritrovarsi accusati di reati ambientali quando il nostro obiettivo era raggiungere il maggior numero di persone che normalmente non si occupa di natura. Per lanciare un messaggio di tutela del mare e contro l'abbandono della plastica. Jovanotti, che è sensibile al problema e parla al cuore della gente, lo ha fatto con entusiasmo".

Dov'è il grande malinteso?

"L'idea che il Wwf rilasciasse le autorizzazioni, quelle spettano agli organi competenti. Noi abbiamo solo dato la nostra esperienza per fare in modo che gli eventi non incidessero su aree protette, siti di interesse comunitari e spiagge con presenza di specie a rischio".

Chi vi ha attaccato?

"Con le grandi organizzazioni nazionali lavoriamo benissimo, collaboriamo, certo ognuno ha i suoi obiettivi ma non ci sono problemi. Le accuse sono arrivate soprattutto via social da privati che si nascondevano dietro nomignoli, o piccole associazioni locali che magari cercavano visibilità. E l'effetto rete ha moltiplicato gli insulti. Se i primi sono stati querelati, con le associazioni alla fine abbiamo chiuso con una stretta di mano. Come con Messner".

Errori sulle spiagge?

"Tra le 20 date, nei luoghi dove c'erano problematicità, come Vasto dove alla fine il concerto non si è svolto per questioni di sicurezza, siamo stati noi i primi a segnalare problemi. In altri posti come a Rimini per proteggere la nidificazione del Fratino è stata creata un'area di tutela di due ettari".

Cosa divide gli ambientalisti?

"Un tempo si facevano le battaglie sul lupo, sull'orso, ora la sfida è globale, sul cambiamento climatico. Io credo che non bisogna chiudersi a riccio in microbattaglie ma diventare movimento di massa".

Il dubbio è tra élite e massa?

"Non bisogna stare nella torre d'avorio, essere solo avanguardia, credo si debba lavorare per un green new deal che cambi le regole del quotidiano e trovi nella politica gli strumenti per diffondersi. Se vogliamo essere efficaci dobbiamo riuscire a raggiungere e convincere chi ambientalista non lo è. Ancora".

Per questo la scelta pop?

"Sì, l'anno scorso testimonial era Fiorello. Quest'anno Jovanotti è stata una nuova mossa vincente. Nei suoi concerti con 30mila spettatori parlava anche di un mondo migliore nel rispetto dell'ambiente: così ci ha consentito di raggiungere persone che della natura, della plastica, forse prima non si erano mai occupate. E che dopo la musica hanno raccolto le loro bottiglie".

"La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".

Jovanotti e le polemiche sul “Jova Beach Tour”: «Mondo ambientalista inquinato come le fogne». Pubblicato lunedì, 02 settembre 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. Lo avevano accusato di danneggiare le montagne, abbattere alberi, «strerminare» colonie di uccelli, spianare dune incontaminate, costruire eliporti, disorientare i fenicotteri, prosciugare stagni, trivellare il mare, erodere le coste. Ora Jovanotti si scaglia con violenza contro il mondo ambientalista, colpevole a suo dire di aver sabotato il suo tour nelle spiagge: «Non mi sarei mai aspettato, nonostante non sia un ingenuo rispetto a questo genere di cose, che il mondo dell’associazionismo ambientalista fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo, narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false, approfittando della poca abitudine al “fact checking” di molte testate. Il mondo dell’ambientalismo è più inquinato della scarico della fogna di Nuova Delhi!», ha scritto il cantante in un post su Facebook. Quando il musicista aveva iniziato a progettare il «Jova Beach Tour», ricorda, « la primissima cosa che abbiamo fatto è stato contattare il Wwf per poterli incontrare per raccontare l’idea e chiedere a loro un parere, e sono stato io personalmente a metterla come condizione di partenza. Il Wwf perché è una grande organizzazione storica che non cerca visibilità ad ogni costo ma opera sul campo, la visibilità serve a promuovere attività di difesa e cura dell’ambiente, ha competenze specifiche, è radicata nei territori, ha un vero comitato scientifico e una rete vera e diffusa di operatori ed osservatori». «Jova Beach Party» è stato contrassegnato da continue polemiche da parte di alcune associazioni ambientaliste. Al Plan De Corones il contrasto era stato con Reinhold Messner, ma alla fine il concerto si era tenuto. A Rimini, invece, era stato attaccato dagli esposti alla magistratura di Italia Nostra e diverse associazioni animaliste per la questione dei nidi dei fratini. A Ladispoli sempre per via della nidificazione di volatili il concerto è stato spostato sulla spiaggia di Cerveteri. E poi, in Calabria, dove c’era chi temeva l’impatto sulla «primula di palinuro (Primula palinuri Petagna)» e a Rimini gli ambientalisti lo avevano accusato di mettere a rischio la migrazione dei pulcini. Addirittura — entra nel merito il cantante — Legambiente e Ente Nazionale Protezione Animali (Enpa) recentemente «sono cascate in una trappola tesa loro dai mitomani che se non fossero pericolosi farebbero anche ridere (sono emerse storie che superano sceneggiature di commedie grottesche)». «Hanno detto che abbiamo abbattuto alberi, sterminato colonie di uccelli, spianato dune incontaminate, costruito eliporti (eliporti!!!!!), disorientato fenicotteri, prosciugato stagni, gettato napalm sulle piantagioni di canna da zucchero del sud-est asiatico, trivellato il mare, assoldato mercenari ... sudato troppo, goduto troppo, ballato troppo, cantato troppo, disturbando — ironizza — sia Don Camillo che Peppone». La conclusione, per Jovanotti, è chiara: «Jova Beach Party parla di comportamenti da adottare con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale a centinaia di migliaia di persone intelligenti, aperte, evolute, e non lo fa via Twitter ma sul posto», senza puntare il dito per darsi delle arie». Immediata la replica delle associazioni, come Italia Nostra: «Esterrefatti da linguaggio usato. La sua è una caduta di stile che ci ha lasciato amareggiati». ha chiarito all’Adnkronos la presidente di Italia Nostra Mariarita Signorini in merito al post pubblicato da Jovanotti sul suo profilo.

Giacomo Talignani per Repubblica.it il 2 settembre 2019. Quando l'hanno attaccato perfino sui fenicotteri rosa, Lorenzo Cherubini ha perso definitivamente la pazienza. Così, con un lungo post pubblicato sulla sua pagina Facebook, Jovanotti ha deciso di sfogarsi una volta per tutte contro alcune associazioni e quelli che lui ritiene  "pseudo ambientalisti", sedicenti ecologisti e decine di altre figure che continuano ad attaccare - soprattutto dal punto di vista ambientale - il "Jova Beach Tour" sulle spiagge e l'impatto che il mega concerto potrebbe avere nei confronti della natura. Quando fu annunciato il mega tour di Jovanotti a fine 2018 il cantante si presentò sul palco affiancato dalla presidente del Wwf Italia Donatella Bianchi, con tanto di panda peluche: spiegò che la sua grande festa sarebbe stata fatta solo a condizione di rispettare la natura, a partire dalle attenzioni necessarie per portare a più di 40 mila persone su una spiaggia e fare sì che il giorno dopo risultasse pulita. Così spiegò di iniziative plastic-free per evitare la dispersione dei rifiuti e di attenzioni precise tutte rivolte all'ambiente. Poi però arrivò il fratino e subito dopo Reinhold Messner (che dopo il concerto di Plan de Corones ha stretto la mano all'artista). Nel primo caso, per via della nidificazione degli uccelli vicino alle spiagge, lo stesso Jova decise di spostare di qualche chilometro la tappa prevista a Ladispoli, portandola sulla spiaggia di Marina di Cerveteri. Il famoso alpinista invece polemizzò con il cantante per "disturbare la quiete della montagna", ma il concerto a Plan de Corones è comunque andato in scena. Sempre dalla Romagna è poi arrivata recentemente l'accusa a mezzo stampa, da parte di ornitologi e associazioni, sul fatto che lo spettacolo potesse disturbare i fenicotteri rosa presenti nelle vicine lagune. In mezzo, mesi di polemiche da Rimini a Cerveteri, da Vasto a Roccella Jonica o all'Isola Dino, in Calabria, dove la tappa del tour è stata messa nel mirino da chi temeva l'impatto sulla " primula di palinuro (Primula palinuri Petagna)". Accusa dopo accusa e concerto dopo concerto Jovanotti ha reagito a più riprese, prima decidendo di annullare o spostare alcune tappe, poi replicando alle polemiche come quella con Messner e infine chiosando sulle critiche più futili. Ora però, furioso per altrettante critiche al suo show estivo, ha deciso di sfogarsi, ricordando che "quando abbiamo iniziato a progettare JBP la primissima cosa che abbiamo fatto è stato contattare il Wwf per poterli incontrare per raccontare l'idea e chiedere a loro un parere, e sono stato io personalmente a metterla come condizione di partenza". Loda il Wwf come punto di riferimento che ha "un vero comitato scientifico e una rete vera e diffusa di operatori ed osservatori" in grado di consigliarlo al meglio. Nonostante ciò, a sua sorpresa, spiega che "non mi sarei mai aspettato, nonostante non sia un ingenuo rispetto a questo genere di cose, che il mondo dell'associazionismo ambientalista fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo, narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false, approfittando della poca abitudine al "fact checking " di molte testate. Il mondo dell'ambientalismo è più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi!". Poi prosegue togliendosi qualche sassolino, indirizzato anche a Legambiente ed Enpa. "Pensavo e penso ancora che la collaborazione con il WWF sia garanzia di rispetto delle aree. Invece un delirio nei social, una miriade di cazzate sparate a vanvera da chiunque, una corsa al like facile da parte di sigle e siglette che hanno approfittato ogni giorno della visibilità offerta da un nome popolare e da un grande evento per cavalcare l'onda, mettersi in mostra, inventare palle, produrre prove false che nessuno mai verificherà perché la rete è così. Addirittura "Lega ambiente" e "Ente Nazionale Protezione Animali" recentemente sono cascate in una trappola tesa loro dai mitomani che se non fossero pericolosi farebbero anche ridere (sono emerse storie che superano sceneggiature di commedie grottesche). Hanno detto che abbiamo abbattuto alberi, sterminato colonie di uccelli, spianato dune incontaminate, costruito eliporti (eliporti!!!!!), disorientato fenicotteri, prosciugato stagni, gettato napalm sulle piantagioni di canna da zucchero del sud-est asiatico, trivellato il mare, assoldato mercenari, mostrato ascelle a gente che non gradisce certe sconcerie (soprattutto non gradisce la ascelle), sudato troppo, goduto troppo, ballato troppo, cantato troppo, disturbando sia Don Camillo che Peppone". Davanti alle accuse ricevute Jovanotti racconta di essersi sempre confrontato con il Wwf e di aver ottenuto risposte per andare avanti. "C'era una criticità (non accertata pienamente, diciamo un rischio di criticità) sulla spiaggia di Ladispoli e ci siamo spostati. Le altre spiagge dove JOVA BEACH Party ha portato gioia, messaggi seri sui comportanti adottabili da subito per ridurre il proprio impatto ambientale, amore, cultura, economia, goduria, coraggio, spirito avventuroso e originalità sono tutte spiagge dove ci vanno le persone per tutto l'anno e tutta l'estate, luoghi popolari, spesso affollati. Ci siamo presi cura di ogni aspetto legato alla tutela dell'ambiente investendo più delle risorse disponibili, e ci siamo sottratti alla spocchia pelosa di molti farabutti che dietro alla maschera dell'ambientalismo nascondono ansia di protagonismo quando non disonesta ricerca di incarichi ben pagati con denaro pubblico o donazioni di gente raggirata con false immagini a effetto, ripeto: false, taroccate, inventate, decontestualizzate, drammatizzate ad arte. Pensate che in una spiaggia una delle tante denunce preventive che abbiamo avuto sosteneva che avremmo danneggiato una specie floreale e allegava foto specifiche che poi si sono rivelate essere fiori che crescono nel sud del Pacifico, fiori che nel mediterraneo non esistono neanche dal fioraio. Hanno detto bugie a raffica, ogni giorno taggando me per sbracciarsi nella folla dei social per un follower in più". Infine, chiosa ricordando che l'ecologia non è fatta per i faziosi. "Il JBP  non si mette maschere, è tutto alla luce del sole, siamo stati costantemente controllati, monitorati dalle autorità che giustamente verificano ogni singolo dettaglio. Jova Beach Party parla di comportamenti da adottare con l'obiettivo di ridurre l'impatto ambientale a centinaia di migliaia di persone intelligenti, aperte, evolute, e non lo fa via Twitter ma sul posto, e lo fa senza puntare il dito per darsi delle arie, lo fa senza infondere assurdi sensi di colpa a una generazione che deve trovare entusiasmo nell'idea di cambiamento e di progresso e non imbattersi in cupi pseudo amanti della natura buoni sono ad inquinare il web con le loro cazzate e anatemi. L'ecologia è una scienza, se si trasforma in terreno di scontro di tifoserie è un danno per tutti, non si tratta di giocare a discutere se la terra è piatta o se l'aglio scaccia i vampiri ma di scienza, comportamenti, tecnologia, obiettivi a breve e lungo termine, politiche locali, nazionali e internazionali, studio, ricerca, ispirazione, competenza, risorse, investimenti, impegno, analisi seria dello stato delle cose, senza panico e con voglia di collaborare. Ciao a tutti".

·        Bruxelles, la rete delle lobby "green" del clima.

Bruxelles, la rete delle lobby "green" del clima. In cima alla lista c'è l'influente Ong European federation for transport and environment (T&E), che ha ricevuto 3,04 milioni di euro da soggetti istituzionali e 6,27 milioni da fondazioni. Roberto Vivaldelli, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Il lobbismo è un'industria da miliardi di euro a Bruxelles. Secondo il Corporate Europe Observatory, un "watchdog" che fa campagne per una maggiore trasparenza, ci sono almeno 30mila lobbisti a Bruxelles, quasi corrispondenti ai 31mila dipendenti impiegati dalla Commissione europea e secondi solo a quelli presenti a Washington Dc. I lobbisti firmano un registro per la trasparenza gestito dal parlamento e dalla commissione, sebbene non sia obbligatorio. L'energia, il lavoro e la crescita, l'economia digitale, i mercati finanziari, i trasporti ma sopratutto il clima sono i settori che attraggono di più i lobbisti di Bruxelles. Multinazioni, industrie, Ong, gruppi di interesse: anche i cambiamenti climatici possono diventare un affare particolarmente redditizio. In cima alla lista di questa fitta rete di lobby c'è, come nota La Verità, l'influente Ong European federation for transport and environment (T&E). Di che cosa si occupa? Basta cliccare sul sito: "I trasporti rappresentano il principale problema climatico dell'Europa, rappresentando il 27% delle emissioni di gas serra dell'Unione. I trasporti sono l'unico settore principale in cui le emissioni sono aumentate dal 1990, determinando un aumento delle emissioni complessive dell'UE nel 2017. Se l'Ue vuole mantenere gli impegni climatici assunti con l'accordo di Parigi, l'Europa ha bisogno di politiche dei trasporti più intelligenti e più ambiziose". E ancora: "Riteniamo che l'Europa dovrebbe avere i livelli più bassi di emissioni di gas serra e di inquinamento atmosferico e acustico dei trasporti". Parliamo di una Ong ricchissima, finanziata dalla stessa Commissione europea. Dal 2016 a oggi, T&E ha ricevuto inoltre 3,04 milioni di euro da soggetti istituzionali e 6,27 milioni da fondazioni e altre associazioni. Tra i maggiori finanziatori, superiori a 750.000 euro, troviamo, oltre alla Commissione europea, la European climate foundation e la Norwegian agency for development cooperation. Fra i "supporter" della Ong c'è poi La Fondazione per lo sviluppo sostenibile: in generale, T&E è supportata da 60 organizzazioni (49 membri e 11 sostenitori) che lavorano "per promuovere trasporti più intelligenti e puliti in 25 paesi in tutta Europa". Particolarmente interessante, però, è la già citata Europe climate Foundation il cui presidente è il milionario Stephen Brenninkmeijer, appartenente alla quinta generazione della famiglia che ha fondato e detiene ancora la catena internazionale olandese di negozi di abbigliamento al dettaglio C&A. I Brenninkmeijer sono una famiglia olandese cattolica di origine tedesca che ha mantenuto la proprietà e la gestione del marchio C&A, che conta circa 2.000 negozi in Brasile, Cina, Messico e 19 paesi europei. La società è uno dei primi cinque rivenditori di moda al dettaglio n Europa, ma raramente rivela cifre sui ricavi. Nel 2017 C&A ha rivelato che avrebbe ridisegnato il suo modello di business con capi "eco-sostenibili". Tornando alla T&E, particolarmente interessante è il supporto della Fondazione ClimateWorks, a sua volta partner di altre organizzazioni, attraverso donazioni singole e sponsorizzazioni continue. Ad esempio, la Oak Foundation ha finanziato la fondazione ClimateWorks con 75 milioni di euro per lo sviluppo di "meccanismi di governance locale e globale responsabili, che avranno importanti ramificazioni sia a livello sociale che ambientale". Nel board della ClimateWorks, finanziata perlopiù dalla Hewlett & Packard Foundation, troviamo Caio Koch-Weser, ex vicepresidente di Deutsche Bank ed ex viceministro tedesco delle Finanze tedesco, e John Podesta, responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016. Caio Koch-Weser è inoltre presidente del Consiglio consultivo della Europe Climate Foundation e dal 2013 al 2018 è stato presidente del cda. L'Europe Climate Foundation è finanziata dal Nationale Postcode Loterij, The Arcadia Fund, Children's Investment Fund Foundation, The McCall MacBain Foundation, Oak Foundation and The William, Flora Hewlett Foundation e, guarda un po', dalla ClimateWorks. Gira e rigira, si tratta di un complesso sistema di "scatole cinesi" dove troviamo sempre gli stessi business man, studiosi, ex politici, banchieri, "filantropi", che intonano tutti la stessa canzone, adottando gli slogan apocalittici del momento. Sarà anche tutto "no-profit" e spassionata filantropia, ma a Bruxelles di verde sembra esserci solamente il colore dei soldi.

·        L’ambientalismo? È il nuovo socialismo.

Che diritto abbiamo di abbattere gli abeti per festeggiare il Natale? Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Frondolino su Corriere.it. Per una volta non parliamo di animali, ma di alberi: anzi, dell’Albero per eccellezza, quello di Natale. A Roma, seguendo una barbara usanza in uso ormai da decenni, ne sono stati eretti addirittura due: uno comunale a piazza Venezia e un altro vaticano a piazza san Pietro. Il primo, quello comunale, era – bisogna usare il verbo al passato, perché parliamo di una creatura vivente che è stata uccisa – un abete del Caucaso (Abies nordmanniana) di quarant’anni alto quasi 23 metri: è stato abbattuto a Cittiglio, in provincia di Varese, e per trasportarlo i rami più grandi sono stati tagliati, numerati e impacchettati per essere poi rimontati a Roma. Viene invece dall’Altipiano di Asiago e ha qualche anno in più l’abete rosso (Picea abies) eretto in Vaticano: era alto 26 metri e aveva un diametro di 70 centrimetri e, prima di essere abbattuto, viveva felice nei boschi del comune di Rotzo in compagnia di abeti bianchi, larici e faggi. Che diritto abbiamo noi di togliere la vita a piante così maestose, così straordinarie, così imponenti? Che diritto abbiamo di sradicare un albero dalla sua foresta, trasportarlo al centro di una città, addobbarlo di lucine sceme (quello di piazza Venezia, informa con orgoglio un comunicato stampa, «sarà illuminato con 80mila luci led accese ventiquattr’ore al giorno e decorato con mille addobbi tra sfere e cristalli di neve») e poi buttarlo in una discarica il giorno dopo la Befana? E che divertimento proviamo nel vedere il cadavere di un albero un tempo libero e rigoglioso reggersi artificialmente in una piazza impazzita di traffico? Le piante sono esseri senzienti, proprio come noi: ma siccome, diversamente dagli animali, non si muovono e non parlano, nella nostra sovrana e arrogante ignoranza pensiamo siano pietre. Senza di noi gli alberi vivrebbero senz’altro meglio: senza di loro, moriremmo in pochi mesi. E, soprattutto, sono esseri intelligenti: se non ci credete, leggete «Verde brillante», un entusiasmante saggio sulla sensibilità e sull’intelligenza del mondo vegetale scritto da uno dei maggiori esperti mondiali, il professor Stefano Mancuso, che all’Università di Firenze ha fondato e dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale. Le piante, spiega e dimostra Mancuso, hanno una personalità, possiedono i nostri cinque sensi ma ne hanno molti altri in più, si scambiano informazioni e interagiscono con gli animali. Per sopravvivere adottano strategie mirate, hanno una vera e propria vita sociale, sfruttano al meglio le risorse energetiche e alimentari di cui dispongono. Sono capaci di scegliere, imparare e ricordare, e sentono perfino la forza di gravità. Le radici sono in grado di decidere dove dirigersi in base alla presenza di acqua e nutrienti, e tuttavia non hanno occhi né nasi né radar. Le piante non hanno un cervello così come lo intendiamo noi, e neppure un sistema nervoso centrale, e tuttavia sono in grado di acquisire informazioni, elaborarle e scegliere di conseguenza grazie ad un sistema modulare che somiglia molto alla nostra internet: ogni «nodo» è indipendente dagli altri e sa fare (quasi) tutto, di modo che la pianta è in grado di funzionare, cioè di sopravvivere, anche se una sua parte significativa viene amputata. Certo, di fronte ad una motosega gli alberi non possono nulla, sono del tutto indifesi e cadono morti a terra. Intendiamoci: non sto dicendo che abbattere un albero per farci un tavolo o un armadio sia riprorevole o immorale. Così come mangiamo molti animali e molte piante, possiamo anche servirci di loro per ripararci dal freddo o abbellire la nostra casa. Naturalmente il taglio del bosco dev’essere regolamentato per evitare il disboscamento selvaggio, che in Italia è fra le cause principali delle frane e delle inondazioni sempre più rovinose, e per ogni albero tagliato sarebbe utile piantarne almeno un altro. Ma qui non parliamo di legname o di arboricoltura industriale: qui ci sono due abeti che hanno impiegato la bellezza di quarant’anni per crescere più alti di una casa sfidando il vento e la neve, il sole e la tempesta, che hanno vissuto per quasi mezzo secolo in un bosco, indisturbati dall’uomo e, per quanto ne sappiamo, felici di esserlo, che hanno respirato l’aria cristallina delle montagne assorbendo anidride carbonica e donandole nuovo ossigeno, e che improvvisamente, per un capriccio sciocco, vengono abbattuti ed esibiti come trofei in una città lontana che in un attimo si è già dimenticata di loro.

Scoperto il più antico inquinamento dell’universo. L'Arno-ilgiornale.it il 16 dicembre 2019. Nello spazio sono state trovate le tracce dell’inquinamento ambientale più antico di tutto l’universo, con gigantesche nuvole di carbonio gassoso intorno a galassie distanti circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra. Una distanza talmente grande che è difficile da immaginare. La scoperta, di straordinaria importanza, è stata fatta da un team internazionale di ricercatori guidato dal gruppo di cosmologia della Scuola Normale di Pisa, diretto dal professor Andrea Ferrara. Sono stati utilizzati i dati raccolti da 66 antenne che si trovano sulle Ande (Cile), collegate tra loro per formare uno dei più grandi radiotelescopi al mondo, Alma (Atacama Large Millimeter Array), costato circa un miliardo di dollari. Si è scoperto, tra le altre cose, che gli atomi di carbonio prodotti all’interno delle stelle primordiali sono stati trasportati a enormi distanze dai venti galattici: tutto ciò, ovviamente, ha prodotto un grande inquinamento nello spazio, sporcando lo spazio tra le galassie.

“La quantità e l’estensione del gas ricco di carbonio espulso da queste galassie – spiega Ferrara, ordinario di cosmologia – supera di gran lunga le nostre aspettative. I modelli teorici non sono al momento in grado di spiegare questa evidenza. È necessario quindi incorporare qualche nuovo processo fisico nelle simulazioni cosmologiche che stiamo conducendo. Con il team della Normale ed i nostri colleghi stiamo freneticamente lavorando per interpretare questa sorprendente scoperta”. Affascinante lo studio dell’universo. Difficili da capire, certe teorie, per i “comuni mortali”. Tra le cose che sappiamo c’è che gli elementi pesanti, come il carbonio e l’ossigeno, non sono stati prodotti dal Big Bang ma si sono formati dopo, dalla fusione nucleare nelle stelle. Non si sa ancora, però, come questi elementi si siano diffusi nell’Universo. “Le esplosioni di supernova nella fase finale della vita stellare espellono gli elementi pesanti formatisi in precedenza”, spiega il professor Rob Ivison, direttore scientifico dello European Southern Observatory  (Eso). “Getti energetici e radiazioni provenienti da buchi neri supermassicci nei centri delle galassie potrebbero anche aiutare a trasportare il carbonio fuori dalle galassie e infine in tutto l’Universo. Stiamo assistendo a questo processo di diffusione, il primo inquinamento ambientale nell’Universo”. Questa frase ci colpisce più di altre: stiamo parlando del primo inquinamento ambientale della storia. Su questo di sicuro l’uomo non c’entra nulla. Non vuol dire che dobbiamo fregarcene dell’ambiente e di “salvare il pianeta”, però ci fa capire, forse, quanto siamo piccoli e insignificanti di fronte all’Universo. Un’altra cosa importante ce la spiega uno scienziato giapponese, il professor Masami Ouchi, dell’università di Tokyo: “Incrociando i dati Alma con quelli del telescopio spaziale Hubble abbiamo capito che le nubi di carbonio osservate sono quasi cinque volte più estese delle galassie da cui sono state espulse”.

Rilevato il più antico “inquinamento” ambientale nell’universo. Bozzoli di carbonio circondano le galassie primordiali. La scoperta di un team di ricercatori internazionale, tra cui il gruppo di Cosmologia della Scuola Normale di Pisa guidato dal prof. Andrea Ferrara. I dati sono stati raccolti da Alma, il potentissimo radiotelescopio da qualche anno attivo sulle Ande cilene. Normalenews.sns.it Pisa, 16 dicembre 2019. Un team internazionale di ricercatori, tra cui il gruppo di cosmologia della Scuola Normale di Pisa  guidato da Andrea Ferrara, ha scoperto gigantesche nuvole di carbonio gassoso che si estendono per oltre un raggio di 30.000 anni luce attorno a galassie primordiali distanti circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra. Il team ha usato dati raccolti da Alma (Atacama Large Millimeter Array), il più potente radiotelescopio al mondo, costituito da 66 antenne collocate sulle Ande del Cile. I dati mostrano per la prima volta che gli atomi di carbonio prodotti all’interno delle stelle primordiali sono stati trasportati a grandi distanze da potentissimi venti galattici, “inquinando” lo spazio tra le galassie. Poiché nessuno studio teorico aveva previsto l’esistenza di questi enormi “bozzoli” di carbonio attorno alle prime galassie, la scoperta potrebbe richiedere una sostanziale revisione della nostra comprensione dell’evoluzione cosmica. “La quantità e l’estensione del gas ricco di carbonio espulso da queste galassie supera di gran lunga le nostre aspettative – spiega Andrea Ferrara, professore ordinario di cosmologia-. I modelli teorici non sono al momento in grado di spiegare questa evidenza. È necessario quindi incorporare qualche nuovo processo fisico nelle simulazioni cosmologiche che stiamo conducendo. Con il team della Normale ed i nostri colleghi stiamo freneticamente lavorando per interpretare questa sorprendente scoperta”. “Abbiamo esaminato a fondo l’archivio scientifico di ALMA e raccolto tutti i dati che contengono segnali radio dagli ioni di carbonio nelle galassie più remote che conosciamo”, afferma Seiji Fujimoto, astronomo all’Università di Copenaghen e Ph.D. all’Università di Tokyo, autore principale dell’articolo scientifico pubblicato quest’oggi dalla rivista internazionale Astrophysical Journal. “Combinando tutti i dati, abbiamo ottenuto le informazioni più accurate a disposizione al momento. Ottenere un set di dati della stessa qualità con una osservazione singola richiederebbe 20 volte più tempo di quanto tipicamente disponibile con ALMA. Questa tecnica ci ha permesso quindi di ottenere un risultato unico ed eccezionale per le sue implicazioni”. Elementi pesanti come il carbonio e l’ossigeno non sono stati prodotti dal Big Bang. Essi furono formati più tardi dalla fusione nucleare nelle stelle. Tuttavia, non è ancora chiaro come questi elementi si diffondano poi nell’Universo. “Le esplosioni di supernova nella fase finale della vita stellare espellono gli elementi pesanti formatisi in precedenza”, afferma il professor Rob Ivison, Direttore scientifico dello European Southern Observatory  (ESO). “Getti energetici e radiazioni provenienti da buchi neri supermassicci nei centri delle galassie potrebbero anche aiutare a trasportare il carbonio fuori dalle galassie e infine in tutto l’Universo. Stiamo assistendo a questo processo di diffusione, il primo inquinamento ambientale nell’Universo”. “Incrociando i dati ALMA con quelli del telescopio spaziale Hubble abbiamo capito che  le nubi di carbonio osservate sono quasi cinque volte più estese delle galassie da cui sono state espulse”  spiega Masami Ouchi, professore all’Università di Tokyo e all’Osservatorio Astronomico azionale del Giappone.  Il team internazionale sta ora utilizzando ALMA e altri telescopi in tutto il mondo per esplorare ulteriormente le implicazioni della scoperta.

La dittatura delle emozioni. Creare allarmi sociali, ambientali, sollecitare paure, lacrime. E' la strategia dell'emergenza usata da politici ed ecologisti per frenare posizioni indipendenti. Francesco Borgonovo l'11 dicembre 2019 su Panorama. Non voglio la vostra speranza. Voglio che proviate la paura che io provo ogni giorno. Voglio che agiate come fareste in un’emergenza. Come se la vostra casa fosse in fiamme» grida Greta Thunberg dalle pagine del suo libro. «L’ambientalismo deve terrorizzare» insiste il meteorologo Luca Mercalli. E in effetti il metodo d’azione è proprio questo: spaventare, terrorizzare, creare emergenza. Anne-Cécile Robert, firma di Le Monde Diplomatique, docente universitaria e attivista di sinistra, la chiama «la strategia dell’emozione», e ne definisce le modalità in un urticante pamphlet appena pubblicato da Elèuthera. La saggista francese si rifà a un celebre e battagliero volume di Naomi Klein intitolato Shock Politics, in cui la teorica del «no logo» se la prendeva proprio con la logica emergenziale che è funzionale al sistema neoliberista: creare l’allarme serve a impedire ogni dibattito razionale, la furia sterilizza le argomentazioni. Allo stesso modo, aggiunge Robert, l’emozione vanifica il ragionamento. Ed è per questo che oggi la gran parte dei leader politici ne fa largo uso. Il primo a notare il fenomeno, alcuni anni fa, è stato Alain De Benoist, in un capolavoro intitolato I demoni del bene (Controcorrente edizioni). Mostrava quanto i capi di partito facessero leva sull’emotività, sulle lacrime, sulla patetica esposizione del privato per catturare l’attenzione e garantirsi maggiore vicinanza ai cittadini. Non c’è leader al mondo - chiosa Robert - che non abbia fatto ricorso alle lacrime in pubblico, e pure noi italiani ne sappiamo qualcosa, avendo ancora stampati in mente i lacrimoni sul viso di Elsa Fornero. La «strategia dell’emotività», tuttavia, è qualcosa di più raffinato, meno elementare. «Il potere delle emozioni sta trasformando le democrazie in modi che non si possono ignorare e su cui non si può tornare indietro» scrive il sociologo inglese William Davies in Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo, pubblicato di recente da Einaudi. L’analisi di Davies, come molte altre di questo genere, riguarda soprattutto i partiti cosiddetti «populisti», che sfrutterebbero la rabbia e la frustrazione dei cittadini per guadagnare consensi, alimentando la diffidenza nei confronti degli «esperti» e dei «competenti». In effetti di argomentazioni simili se ne sono sentite parecchie, negli ultimi anni. Si dice che i sovranisti giochino sulle paure, che le alimentino scientemente per bassi fini di consenso. Il timore degli immigrati, per esempio, sarebbe assolutamente irrazionale, ma molto utile alla causa delle destre. In realtà, non solo la diffidenza nei confronti del «diverso» è un istinto auto-conservativo che caratterizza l’essere umano, ma pure l’analisi razionale del fenomeno migratorio conduce a pensare che - in certe condizioni - la paura degli stranieri sia più che giustificata. Ci sono altri timori, però, che vengono analizzati molto meno, in particolare quelli che portano acqua al mulino progressista o alle «buone cause» civili, ambientali, umanitarie... Il caso di Greta è emblematico. La teoria del riscaldamento globale è discutibile e discussa, e il tipo di ambientalismo che la giovane propone - del tutto funzionale al sistema vigente - è tutt’altro che incriticabile. Eppure l’emotività sotterra ogni ragionamento. «La nostra casa è in fiamme» ringhia la piccola attivista, e ogni obiezione è vanificata dalle sue lacrime di rabbia. «Nelle società contemporanee» scrive Anne-Cécile Robert «le emozioni invadono a tal punto lo spazio sociale da escluderne progressivamente le altre modalità di conoscenza, in particolare la ragione». La strategia dell’emozione funziona così: si fa leva sui sentimenti più dirompenti dei cittadini che, di fronte all’emergenza, al pianto, al dolore e al terrore divengono come bambini. Invocare l’affettività, dice la saggista francese, porta a «depoliticizzare i dibattiti, mantenendo i cittadini in una posizione di subalternità infantile che li rende non solo incapaci di gestirsi da sé ma anche disposti a cedere il loro libero arbitrio a una dittatura benevola, sempre pronta a dare ascolto alle loro emozioni. Con il fazzoletto in mano, l’individuo si ritrae in se stesso, quasi in posizione fetale, mentre “coloro che sanno”, gli “adulti” che detengono il potere, si occupano di mandare avanti il mondo». Pensandoci, è l’esatto contrario di ciò che viene imputato ai sovranisti. Paure ed emotività non servono ad alimentare diffidenza verso «gli esperti», ma a garantirne l’ascesa. Il mondo si sta distruggendo? Largo al «green new deal» e alle nuove tasse per il nostro bene. La senatrice a vita Liliana Segre riceve 200 insulti al giorno? Non è vero, ma la falsa notizia fa salire la tensione e di fronte alla vittima dolente ogni giudizio va sospeso: si approvino subito norme per contrastare l’odio irrazionale, le discussioni e le obiezioni non sono ammesse. C’è una «epidemia di morbillo»? Affermazione molto discutibile, ma non importa: ogni posizione sui vaccini che non contempli il sostegno totale e incondizionato è bandita in quanto «no vax». Tacciano gli ignoranti del popolino, spazio ai competenti. E gli immigrati? Altro che paura: sono tutte vittime, subiscono persecuzioni atroci che non possono durare un momento di più, facciamoli entrare. E chi non è d’accordo è disumano, senza cuore. No, i sentimenti non sono l’arma dei sovranisti, ma quella degli «esperti», degli «illuminati», dei «demoni della bontà». Sempre pronti a edificare il regime, per il vostro bene ovviamente.

Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 10 dicembre 2019. Contro il marketing della catastrofe inaugurato dai savonarola del riscaldamento globale di genere antropica c' è ben poco da fare. Hai voglia a dire che forse sarebbe il caso di approfondire, di capire meglio (non lo chiediamo noi ma fior di scienziati) quando dall' altra parte sostengono che mentre ne parliamo, se non interveniamo, ci giochiamo il pianeta. A Madrid si sono riuniti proprio per quello, leader mondiali e cervelloni del calientamento, che tra un summit e una cena, una conferenza con Greta e un aperitivo ci diranno come salveranno il mondo e di che morte dovremo morire.

UN PO' DI REALISMO. Nel frattempo un gruppo di investitori che fanno capo all' Onu, un po' allarmati dai target fantascientifici che si stanno palesando a Madrid, hanno fatto sapere un po' timidamente che le normative più restrittive sul clima potrebbero far perdere alle aziende che si occupano di combustibili fossili, agricoltura e automobili, qualcosa come 2,3 trilioni di dollari entro il 2025, che nel mondo anglosassone equivalgono a 2300 miliardi di dollari. In pratica si avvisa che le aziende in questione sono riuscite a mettersi a malapena in riga secondo gli accordi di Parigi del 2015, ma qualsiasi altra sterzata per una riduzione ancora più drastica delle emissioni significa mettere in ginocchio interi settori con tutto ciò che ne consegue. L' allarme arriva dal "Principles for Responsible Investment" (Pri), network di investitori supportati dall' Onu che si preoccupano di «integrare problematiche ambientali, sociali e di governo nelle pratiche di investimento in tutte le classi di attività» e che rappresentano investimenti in oltre 50 Paesi per 86 trilioni di dollari.

CAMBIAMENTI CLIMATICI. Secondo il Pri dunque man mano che la finestra in cui agire si restringerà e che le fonti di energia alternativa diventeranno più economiche i governi agiranno di conseguenza provocando enormi e ineluttabili cambiamenti per tutto il sistema attuale. I combustibili fossili rappresentano circa i due terzi delle emissioni globali di gas serra e i produttori di tali combustibili saranno ovviamente i primi a subire le conseguenze delle politiche dei governi, con una perdita di circa un terzo del loro valore attuale. Le imprese che si occupano di carbone potrebbero perdere fino al 44% del loro valore, mentre le principali compagnie petrolifere e del gas rischiano di perdere fino al 31% della loro attuale quota di mercato. L' analisi del Pri è una roba per addetti ai lavori, ipotizza che i fondi di settore come l' iShares MSCI ACWI ETF, potrebbero appunto perdere fino a 2,3 trilioni di valore totale, se non oltre.

DISASTRO SOCIALE. Numeri e sigle ai più incomprensibili, ai quali però corrisponde il lavoro di quanti sono impegnati nei settori interessati. Perdite economiche corrispondono a licenziamenti, scioperi, cassa integrazioni, migrazioni. Scossoni sociali capaci di cambiare non solo le sorti di singoli individui e famiglie, ma anche di intere nazioni. Ne abbiamo avuto un piccolo assaggio recentemente in Francia con la rivolta dei Gilet Gialli che è stata innescata dall' aumento del prezzo del carburante giustificato da questioni ambientali. Alle proteste sul carburante si sono poi aggiunte altre rivendicazioni, comprese quelle degli agricoltori che è una delle categorie più colpite dalle politiche ambientaliste e per le quali gli investitori di cui sopra hanno lanciato l' allarme. Le proteste degli agricoltori si sono fatte sentire anche in Germania e soprattutto in Olanda dove qualche settimana fa migliaia di trattori hanno provocato il più grande congestionamento di traffico che si ricordi nel Paese. Agricoltori, lavoratori che usano l' automobile per spostarsi giornalmente, solo per fare due esempi, sono solo l' ultima ruota del carro e come tali sono quelli che rischiano di pagare il prezzo più alto della follia del clima. Ma immaginatevi che cosa potrà succedere in quei Paesi che traggono gran parte delle loro ricchezze dal petrolio, dal gas e dal carbon fossile, come la Russia. E cosa potrà succedere di conseguenza a noi.

Come salvare la nostra Terra. Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Il messaggio è semplice, quasi puerile nella sua essenzialità. Ed è proprio per questo che dilaga in ogni angolo del globo. «La nostra casa è in fiamme», dice e scrive Greta Thunberg. E a milioni la seguono nella protesta. Ma cosa vuole questa generazione in gran parte under 18, quindi ancora senza diritto di voto, che sciopera per difendere il pianeta? Oggi, come ieri, gli studenti si ribellano al mondo degli adulti e a una società che ritengono ingiusta. Se in passato la lotta aveva i colori della politica di partito, però, ai giorni nostri è rivolta proprio contro quei padri e quelle madri che hanno continuato, imperturbabili, a seguire un modello di sviluppo economico altamente inquinante, nonostante gli allarmi della scienza. Le parole d’ordine che accomunano i teen-ager di #FridaysForFuture sono: de-carbonizzare, ovvero abbandonare tutte le fonti fossili di energia e raggiungere lo 0 netto di emissioni a livello globale entro il 2050 (2030 in Italia); giustizia climatica per i popoli, ovvero la transizione energetica deve essere attuata su scala mondiale; e «Ascoltate la scienza», che per i giovani del Climate Strike significa seguire le indicazioni dell’Intergovernmental panel for climate change dell’Onu (Ipcc). «Continueremo a spingere affinché si rispettino gli accordi di Parigi e si limiti l’aumento medio globale della temperatura terrestre al di sotto di 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali» ha ribadito ieri al Corriere Federica Gasbarro, una dei portavoce di FridaysForFuture e unica italiana invitata al Youth Climate Summit dell’Onu che oggi riunirà a New York cento giovani per «suggerire» nuove ricette al vertice dei Grandi, due giorni dopo. «Bisogna decarbonizzare l’economia, investire in nuove tecnologie, soprattutto le banche, e cambiare il modo di trasportare persone e cose. Il trasporto pubblico va incentivato e migliorato». La stragrande maggioranza degli scienziati, oggi, si allinea all’Ipcc, il cui ultimo rapporto ha stabilito che superare la fatidica soglia dell’1,5° equivale a corteggiare una catastrofe. Per evitarlo, le emissioni dovrebbero ridursi del 45 per cento entro i prossimi dodici anni, con trasformazioni «senza precedenti» in quasi ogni settore dell’economia. Si tratta di un salto ulteriore rispetto all’Accordo di Parigi del 2015, con cui i governi del mondo si impegnavano a limitare l’aumento delle temperature al di sotto dei 2° attraverso i cosiddetti Nationally Determined Contributions (Ndc), alias impegni nazionali volontari. Ndc da rivedere ogni cinque anni per aumentare progressivamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni: prima scadenza, il 2020. Le emissioni di CO2 hanno toccato nel 2018 il record di 27,1 miliardi di tonnellate. Secondo le proiezioni del Climate Action Tracker, anche se i governi effettivamente raggiungeranno i tagli alle emissioni preannunciati finora l’aumento delle temperature toccherà i +2,9° entro la fine del secolo. Finora solo 12 Paesi hanno comunicato i loro Lts (Long Term Strategies) o piani a lungo termine, ma circa una novantina di altri, fra cui l’Italia, li stanno preparando. Il recente rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite «The Heat is on» sottolinea come ben 14 nazioni, che rappresentano il 26% delle emissioni globali di gas serra, hanno dichiarato che non intendono rivedere gli attuali Ndc. Il segretario dell’Onu Antonio Guterres sta sollecitando i governi a fermare i sussidi per i combustibili fossili, smettere di costruire centrali a carbone dopo il 2020, tassare le emissioni di carbonio. A livello europeo, fanno ben sperare le parole della neo-presidente della Commissione Ursula von der Leyen che ha promesso un «Green Deal for Europe». L’attuale target dei 28 Paesi Ue è di tagliare le emissioni di gas serra di almeno il 40% entro il 2030, che il Parlamento europeo e alcuni membri vogliono però portare fino al 55 per cento.

Clima, dopo l'Australia e l'Europa scendono in campo gli Stati Uniti per la giornata dello sciopero globale. Il Pacifico e il sud-est asiatico hanno dato inizio alla storica giornata. Poi la risposta di Berlino e Parigi. Da Londra Jeremy Corbyn arringa: "Cambiare le politiche dei governi per preservare il futuro". Poi in piazza gli Stati Uniti: Greta guida i giovani a New York. La Repubblica il 20 settembre 2019. Milioni di studenti in marcia in tutto il pianeta per lo sciopero mondiale per il clima. Greta ha guidato a New York il raduno più atteso della giornata. Oltre 15mila persone hanno partecipato a Bruxelles, 100 mila persone a Westminster, Londra, nel più grande raduno britannico della giornata. "Cambiare le politiche dei governi per preservare il futuro", ha arringato la folla il leader laburista Jeremy Corbyn. In Germania sono scese in piazza complessivamente almeno 1,4 milioni di persone, secondo gli organizzatori, con grandi eventi a Berlino, dove era presente anche la capitana della Sea Watch Carola Rackete, Francoforte e Amburgo. Manifestazioni anche a Parigi, nella piazza centrale di Praga, e a Varsavia. A Helsinki un dimostrante vestito da Babbo Natale portava un cartello con la scritta “my house is on fire”, cioè 'la mia casa è in fiamme'. Le manifestazioni hanno contagiato anche l'Africa, con eventi in Kenya, Uganda e Sudafrica.

La giornata per il clima inizia a est. La giornata di proteste è iniziata però a est, in particolare alle Vanuatu, alle Isole Salomone e a Kiribati, quando il sole si levava sul Pacifico. Migliaia di studenti sono scesi poi in strada in Australia, Thailandia, Indonesia ed India, dando inizio allo 'sciopero globale', in vista del summit Onu sul clima, in programma da lunedì a New York. Manifestazioni e cortei anche in Giappone, Filippine e Birmania: sono 150 i Paesi coinvolti in tutto il mondo.

Le manifestazioni negli Stati Uniti. Gli studenti di New York, esentati dalla lezione di scuola su ordine del sindaco Bill de Blasio, stanno marciando partendo da Lower Manhattan per contrastare il "cambiamento climatico". Le manifestazioni sono iniziate in molte città degli Stati Uniti, come Washington, Boston e Philadelphia, riporta live la Cnn. Il clou è però a New York, dove Greta Thunberg, guida le manifestazioni. Greta spera che questa iniziativa "sia il punto di svolta sociale", ha dichiarato in un'intervista ad Afp. Questo è il secondo sciopero globale per il clima, dopo quello di metà marzo quando scesero in piazza i cittadini di 40 Paesi. In tutto erano 1,6 milioni di persone. Non sono solo i giovani a partecipare questa volta. A loro si sono uniti gruppi sindacali e umanitari, organizzazioni ambientaliste e impiegati di alcuni dei più grandi marchi del mondo. Oltre 1.500 dipendenti Amazon hanno annunciato la loro partecipazione allo sciopero, insieme ai lavoratori di Microsoft, che a inizio mese hanno twittato: "I lavoratori Microsoft si uniranno ai milioni di persone in tutto il mondo partecipando allo sciopero globale del clima guidato dai giovani il 20 settembre, per chiedere la fine dell'era dei combustibili fossili". Patagonia, il noto marchio di abbigliamento outdoor, chiuderà tutti i suoi negozi del mondo per qualche ora dal 20 al 27 settembre, a sostegno del Movimento. "Nel momento in cui la leadership sul clima è inesistente, devono farsi avanti le aziende responsabili", ha sottolineato Patagonia in una nota.

Da La Repubblica il 20 settembre 2019. In Germania il governo ha trovato un accordo sul maxi-piano di investimenti “green” col quale Angela Merkel intende ridurre drasticamente le emissioni inquinanti e produrre il 65% della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2030. "Oggi non viviamo in modo sostenibile", ha detto la cancelliera aprendo la presentazione delle misure che sono state concordate dopo una lunga maratona negoziale nella maggioranza. La notizia dell'accordo era inizialmente filtrata da fonti governative e, dopo indiscrezioni rimbalzate dalla Seuddeutsche Zeitung sulla dimensione economica del programma, il ministro Olaf Scholz ha indicato in 54 miliardi la potenza di fuoco per i prossimi quattro anni (fino al 2023). Se si estende però lo sguardo del piano al 2030, la cifra che Berlino intende giocare sul clima raggiunge i cento miliardi. Merkel ha proseguito dicendo che non sono stati raggiunti gli obiettivi dichiarati nel 2007 che prevedevano una riduzione del 40% delle emissioni entro il 2020, ma nonostante ciò si intende perseguire l'obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e diventare neutrali entro il 2059. Dopo 18 ore di trattativa è stato messo a punto un "pacchetto solido e ben calibrato", hanno rimarcato dal governo. Riporta Dpa che la Grosse Koalition assicura che non farà nuovi debiti e manterrà il pareggio di bilancio anche nel varare il pacchetto di misure per il clima. Nel piano per il clima è prevista - tra l'altro - l'introduzione dal 2021 del sistema del commercio dei certificati di emissione, come nel resto della Ue. Dal 2021, inoltre, la benzina e il diesel saranno più cari di 3 centesimi mentre dal 2026 di 10 centesimi al litro. Una misura che si annuncia proprio mentre l'Ocse rileva come la tassazione dei carburanti inquinanti sia "troppo bassa" per pesare efficacemente sui cambiamenti climatici. I vertici della coalizione di governo hanno anche trovato un accordo sul divieto di installazione del riscaldamento a gasolio a partire dal 2025: chiunque sostituisca un vecchio impianto a gasolio con un modello più eco-compatibile avrà un sostegno per coprire il 40% dei costi. Tra i provvedimenti, in vista ci sono aumenti dell'Iva sui biglietti aerei e diminuzione sulle tariffe ferroviarie a partire dal primo gennaio 2020. A fronte degli aumenti sui carburanti, poi, è previsto un aumento le detrazioni fiscali a favore dei pendolari per compensarli. L'aumento delle detrazioni sarà di 5 centesimi per chilometro dal 2021. In futuro, 35 centesimi invece di 30 centesimi per chilometro saranno deducibili dalle tasse.

L'ESPERANTO DEI RAGAZZI. Marino Niola per ''la Repubblica'' il 28 settembre 2019. Un' onda verde si è riversata nelle strade del mondo. Solo in Italia più di un milione di ragazzi hanno sfilato pacificamente, festosamente, ironicamente. Sorprendendo tutti con la forza di una protesta mite, che rivendica il diritto dei giovani al futuro. Ma non odia nessuno, non brucia le foto di Bolsonaro, né quelle di Trump. Non incendia bandiere, non spacca vetrine. Piuttosto gioca con le parole, perché sa che nella società della comunicazione chi lancia i messaggi giusti vince e convince. Così mostrano di aver imparato la lezione, molto prima di noi adulti che pensavamo di insegnargliela. E così, sulle ali di Twitter e sulle pagine Instagram volano slogan come un galileiano "Vi siete goduti le stelle, ci avete lasciato il cielo a pecorelle". O un neo-hippy, "We want a hot girl, no a hot climate", cioè vogliamo una ragazza caliente, non un clima bollente. Che, fatte le debite trasposizioni è un po' come il "Fate l' amore non fate la guerra" del pacifismo anni Sessanta. Mentre il lennoniano "Give peace a chance" oggi, tradotto nel vocabolario dei Fridays4Future, diventerebbe "Give Earth a Chance". Anche l' uso generalizzato dell' inglese ha qualcosa di incoraggiante, di speranzoso. Anzi di "esperantoso". È la lingua franca che permette a tutti i millennials di ritrovare una koinè, un fondo comune di valori e di aspettative. È la faccia buona della globalizzazione. La stessa Greta Thunberg, nei sui primi discorsi pubblici in inglese ha chiesto venia per il suo accento scandinavo e per eventuali errori, sdoganando di fatto l' idea che anche chi non ha studiato a Oxford, ma ha un cuore verde, ha diritto di essere ascoltato. Ed è solo l' inizio. Perché l' ecologismo di oggi, ormai si è capito, non è un capriccio da ragazzini viziati o da sdraiati annoiati. È un' obiezione di coscienza che sta cambiando gli usi e i consumi di una generazione che spreca decisamente meno della precedente. E cerca di vivere con poco, senza per questo sentirsi sfigata. Ha bisogno solo di un telefonino. Ma anche su questo sta cambiando. Perché uno dei tam tam che ieri hanno attraversato le piazze delle nostre città era "Usciamo dai social". Che esprime il bisogno di relazioni fisiche, occhi che si guardano e corpi che si toccano. Come dire che la realtà dell' umano è il "face to face" e non quella sua protesi digitale che è il "Face to Facebook". Perché il web è molto, ma non può essere tutto. Così, in assoluta controtendenza rispetto a una società che trasforma le persone in cose, in merci, in microchip, questi ragazzi trasformano il Pianeta in una persona. Non a caso i nostri figli sono nati negli stessi anni delle tecnologie che hanno messo la Terra a portata di click. Come Google Earth, l' applicazione del colosso informatico californiano che ha la stessa età di Greta e che offre gratuitamente la possibilità di esplorare a volo d' uccello mari, monti e deserti. Il motto dell' app è da sempre "Lasciati trasportare nel globo, il mondo è tuo". Tutto questo ha avvicinato il pianeta all' orizzonte dei millennials, lo ha reso una presenza familiare, monitorabile nel più piccolo dettaglio. Ne ha fatto la moderna incarnazione di Gaia, l' antica dea della terra. Il cui destino è legato a doppio filo al nostro. E i ragazzi ce lo stanno insegnando.

Sciopero per il clima, “Daje Greta salviamo sto pianeta” – Gli striscioni più creativi fatti dai ragazzi al corteo di Roma. 

Il corteo è partito da Piazza Venezia, gremita già alle 9 di mattina. Gli studenti di politica non sanno, né voglio sapere, quasi nulla, ma sono angosciati dal fatto che del tema si parli poco e che gli adulti non lo considerino nella sua urgenza. Elisabetta Ambrosi il 27 settembre 2019 su Il Fatto Quotidiano. Alle nove di mattina Piazza della Repubblica, luogo di inizio dello sciopero dei ragazzi romani, era già gremita all’inverosimile. Una folla di ragazzini e ragazzi, pochi gli adulti, arrivati a gruppetti quasi tutti con i mezzi pubblici. Alcuni giustificati dalla scuola, altri no: dai racconti si capisce che la circolare del ministro Fioramonti è stata recepita a macchia di leopardo; ma non importa, loro sono lì. Il fiume di studenti percorre via Cavour per arrivare a piazza Venezia. Il clima è allegro, gruppi di ragazzini saltano al grido di “Siamo più felici, prendiamo la bici”, ma anche “Più benzina, la fine si avvicina”. Nei cartelli si scatena l’ilarità, declinata in romanesco: “Vacce te su Marte”, “Daje Greta”, “Ahò, ma lo volemo salvà ‘sto pianeta?”, “Sta a schiumà”, “Stò a fa la colla”, “Sciopero dei taxi, annamo a fette”. Altri giocano con ironia sul sesso: “I want a hot boyfriend not a hot planet”, ma anche “Più sesso orale meno riscaldamento globale” , “Fuck me, not the planet”. A intervistarli, in realtà, si scopre che sono spaventati, anche se spesso non sanno dire esattamente di cosa o quali siano le conseguenze del riscaldamento globale che più temono. Avvertono una minaccia vicina, e insieme, quasi tutti, sono angosciati dal fatto che del tema si parli poco e che gli adulti non lo considerino nella sua urgenza. Difendono Greta da ogni critica con parole semplici – “Ha detto cose ovvie, sensate, come si fa a criticarla?” e di politica non sanno, né voglio sapere, quasi nulla. Qui, almeno a Roma, in piazza c’è la sensazione che il problema del riscaldamento globale sia enorme ma che serva ancora urlare per cambiare la testa dei legislatori. Eppure il cambiamento è già qui e ora: fine settembre, trenta gradi, stare al sole è temerario. Ma come dice una giovane ragazza: “Io non posso votare, posso solo sfilare”.

Greta, dai suoi cartelli nasce un nuovo carattere di stampa. «Ora tutti potranno scrivere come lei». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Lasciamo stare che in Italia c'è pure chi ha pensato bene di appendere da un ponte il manichino con il suo fantoccio (è accaduto l'altra notte a Roma). La verità è che Greta Thunberg, l'attivista svedese di 16 anni sui cambiamenti climatici, si può ormai unanimemente considerare l'ispiratrice di un'intera generazione di persone. Specie ragazzi. Milioni di persone in tutto il mondo che hanno deciso di prendere posizione per la salute del pianeta. Ebbene ora — stando a quanto riporta il sito Adage.com — non saranno solo le idee della ragazza ad essere prese ad esempio, ma anche la sua scrittura. Chiunque, cioè, potrà protestare utilizzando la vera calligrafia della paladina dell'ambiente. Ciò sarà possibile grazie all'intuizione del team dalla startup «Uno», che, studiando lettera per lettera il celeberrimo cartello di protesta utilizzato da Greta per i suoi scioperi per l'ambiente, ha sviluppato un intero alfabeto, scaricabile gratuitamente a questo indirizzo. «Per costruire il carattere tipografico — riporta Adage — il team ha analizzato i segni di Greta e convertito le lettere in immagini vettoriali. Per le lettere con più opzioni tra cui scegliere, come la "T" che compare due volte in "Klimatet", hanno scelto quella che si adattava meglio agli altri caratteri». «È un semplice insieme di caratteri — hanno detto i designer — lettere maiuscole, numeri e alcuni segni di punteggiatura, ma è sufficiente per trasmettere la giusta dose di indignazione».

Volgare 2.0, la nuova lingua dei giovani che non si può non conoscere. Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 da Corriere.it. Piccolo test dedicato al popolo milanese (doc o acquisito). Alzi la mano chi sa tradurre, in inglese, le parole «alùra», «zanza», «sciura», «rebelòt», «danè», «ghisa». O le espressioni «fa balla l’oeucc», «andà in vaca», «disciules». Se avete figli, probabilmente loro rispondono più velocemente di voi. Il dialetto sta vivendo un revival inaspettato tra i giovani di oggi, che conoscono e usano termini che la generazione dei «baby boomer» non sapeva (o non voleva) utilizzare, perché considerati troppo volgari. A spingere la moda — in realtà, uno slang che mescola dialetto, italiano e termini nuovi — è ancora una volta lo strumento principe della comunicazione under 30: i social network. L’ultimo arrivato viaggia su Instagram e gioca la carta dell’ironia per ribadire quant’è bello vivere sotto la «Madunina»: creato da giovani e destinato ai giovani, Milano.says traduce e spiega in inglese una lunga serie di termini, vecchi e nuovi. Ci sono espressioni puramente dialettali, come «va a ciapà i ratt», tradotta con il corrispettivo di un «vaffa». E ci sono neologismi coniati ad hoc dai giovani come «tazzare», alias «verbo regionale che indica il bere pesantemente, con l’intenzione di ubriacarsi». Vero o reinventato che sia, il neo-dialetto è sempre più in voga tra i meneghini juniores, al punto che molti genitori non riescono (come è giusto che sia) a seguire i discorsi dei rampolli. Il trend non è solo milanese, ovviamente. Nello slang giovanile si sono diffuse in tutta Italia parole come «pirla» (lombardo); «sgamare» o «arrapare» (romanesco), «scialla» (genovese). L’aspetto ludico del dialetto si mescola all’italiano e perfino all’inglese con espressioni nuove che riempiono il web e spesso diventano fenomeni virali. Online spopolano youtuber, influencer e pagine Facebook e Instagram dedicate al «localismo», ovvero ai vezzi e ai modi di dire regionali, dal veneto al napoletano, dal milanese al romano. Fra i più seguiti, Inchiostro di Puglia, Il terrone imbruttito, Il Milanese imbruttito, Casa Surace... (e chissà quanti ne dimentico). Nati in genere come esperimenti di comunicazione tra amici ora sono colossi social da migliaia di clic, a volte con tanto di merchandising. Da ricordare. Nell’Italia dell’Alto Medioevo il latino fu relegato a lingua scritta mentre nel parlato si svilupparono una pluralità di idiomi locali, i volgari italiani. Solo quando il volgare fiorentino si affermò come lingua nazionale, tutti gli altri retrocessero alla condizione di dialetti. 

Paolo Giordano per “il Giornale” il 30 settembre 2019. Per carità, il post è rimasto online soltanto poche ore, ma sono bastate per farlo notare. E molto. Giornata di venerdì, ossia il Friday for Future con le scuole vuote e gli studenti a manifestare. Mentre in piazza correvano gli osanna a Greta Thunberg, su Facebook Radio Maria la scomunicava. E non con un giro di parole. Leggete qui cos’hanno pubblicato in una sorta di card-preghiera: “Cara Greta, dopo che abbiamo buttato Dio nella pattumiera, vogliamo salvare il pianeta? Dopo che lasciamo sopprimere i feti umani, vogliamo proteggere i cuccioli animali? Dopo che confondiamo i generi, vogliamo salvare la specie? Dopo che aiutiamo gli uomini a morire, vogliamo salvare le foreste? Volto indignato il tuo, o forse manipolato? Giovani, non lasciatevi ingannare”. In pratica, una bastonata. Tra l’altro non è la prima volta che questa emittente (seguita su Facebook da 1milione e seicentomila persone), prende posizioni radicali, scatenando polemiche. In ogni caso, al netto del giudizio di ciascuno sulla ragazzina svedese che fa tremare il mondo, questo j’accuse smentisce sostanzialmente la linea editoriale di Radio Maria, indirizzata più a cercare misericordia che a scatenare odio o reprimende. A ben pensarci, questo sfogo, condivisibile o meno, aveva quei toni aggressivi e retorici tipici proprio delle piazze che si stavano contestando. Non a caso, appena i vertici di Radio Maria se ne sono accorti, il post è sparito lasciando però il ricordo di una caduta di stile ben poco cristiana.

Radio Maria attacca Greta, il sacerdote degli universitari torinesi la difende. Don Peyron: "L'emittente con quel post rischia solo di fare del male alla Chiesa". Jacopo Ricca su La Repubblica il 28 settembre 2019. Radio Maria attacca Greta Thunberg e finisce nel mirino di don Luca Peyron, responsabile della pastorale universitaria della diocesi di Torino. “Con questo post rischia solo di far del male alla Chiesa”, è l'affondo del sacerdote che si dissocia dalla posizione dell'emittente voce del cattolicesimo più conservatore. Nel giorno delle manifestazioni dei giovani del movimento “Friday for Future” infatti la pagina Facebook di Radio Maria ha postato una foto dell'attivista svedese invitando i giovani a “non lasciarsi ingannare”. Il testo dell'immagine si rivolgeva proprio alla sedicenne: “Cara Greta, dopo che abbiamo buttato Dio nella pattumiera, vogliamo salvare il pianeta? Dopo che lasciamo sopprimere i feti umani, vogliamo proteggere i cuccioli animali? Dopo che confondiamo i generi, vogliamo salvare la specie? Dopo che aiutiamo gli uomini a morire, vogliamo salvare le foreste? Volto indignato il tuo, o forse manipolato? Giovani, non lasciatevi ingannare”. Parole che non sono piaciute a don Luca, che ogni giorno lavora fianco a fianco con i giovani, molti dei quali ieri sono scesi in piazza per manifestare contro il cambiamento climatico e per l'ambiente, che ha lanciato l'hashtag #notinmyname: “Apprezzo Radio Maria per il servizio che fa sotto tanti profili, ma non posso condividere questo post sprezzante e inutile, così poco cattolico, così poco intelligente – scrive Peyron - Essere cattolici significa et et e mai aut aut, lottare per il pianeta non esclude difendere la vita nascente. Chi sostiene una causa giusta non è un nemico se non ne sostiene altre”. Il responsabile degli universitari cattolici di Torino ammette le critiche alla giovane, ma precisa: “Greta è forse manipolata e tutto il molto altro che si può dire, ma non capire i segni dei tempi, non essere accanto ai giovani per sostenerli e se necessario aiutarli a non diventare vittime ingenue di lupi rapaci è esattamente quello che la Vergine Maria ci ha insegnato". Aggiunge il sacerdote "No, questo post non è in mio nome, e del resto Radio Maria non è la voce della Chiesa, e così facendo ahimé, fa solo del male alla Chiesa, a chi giorno per giorno, metro per metro, tenta di annunciare Gesù in un mondo ostile che va capito ed amato con la stessa misericordia con cui Maria ha voluto bene a Pietro e, sono certo, avrebbe voluto bene anche a Giuda”.

Da Ansa il 7 ottobre 2019.  Un fantoccio che rappresenta la nota attivista Greta Thunberg è stato stamattina appeso con una corda sotto al ponte in via Isacco Newton, a Roma. Alla sagoma, con treccine e mantellina anti-pioggia, era attaccato un cartello con su scritto: "Greta is your God". Sul posto la polizia. "Abbiamo impiccato Greta Thunberg a Roma. Il manichino ha la sua faccia e perfino le sue trecce. Seguiranno altre azioni". Così su Facebook e su Twitter un gruppo chiamato 'Gli svegli' ha rivendicato la paternità del fantoccio impiccato oggi a Roma. La rivendicazione è corredata anche dalla foto del fantoccio. "Il #fantoccio trovato appeso a un ponte di #Roma offende e ingiuria @GretaThunberg. Ognuno di noi, ogni cittadino impegnato per il #clima e il #Pianeta, e non solo, deve sentirsi colpito. È un atto inaccettabile e criminale, che ci vedrà ancora più compatti sullo stesso fronte". Così il ministro dell'Ambiente Sergio Costa in un tweet.  "Vergognoso il manichino di @GretaThunberg ritrovato appeso a un ponte nella nostra città. A lei e alla sua famiglia la mia solidarietà e quella di tutta @Roma. Il nostro impegno sul clima non si ferma", scrive su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi postando l'immagine del manichino con le trecce appeso da un ponte. Minacce aggravate. E' il reato per cui indaga la Procura di Roma in relazione al fantoccio impiccato con le fattezze dell'attivista Greta Thunberg appeso questa mattina sotto ad un cavalcavia nella zona di via Isacco Newton. Il procedimento, al momento contro ignoti, è coordinato dal procuratore aggiunto Francesco Caporale che attende una informativa della polizia. "Contro Greta Thunberg anche violenza macabra! Condanniamo con forza questo gesto di chi non rispetta le idee quando non le condivide". Lo scrive il segretario del Pd Nicola Zingaretti, commentando la notizia che il fantoccio della giovane attivista svedese sia stato appeso sotto un ponte a Roma. "L'immagine del manichino che rappresenta Greta Thunberg appeso per il collo sotto il ponte in Via Newton è agghiacciante. Questo gesto di un'ignoranza e bestialità senza pari, non può e non deve far crollare le nostre certezze e macchiare le nostre battaglie. Nella speranza che si possano trovare i responsabili, posso solo esprimere la mia vicinanza a Greta e alla sua famiglia". Così in una nota la presidente della commissione ambiente al Senato, Vilma Moronese (M5S). "E' vergognoso l'atto compiuto a Roma contro chi si impegna in prima persona per una causa rivolta alla salvaguardia dell'intero Pianeta. A Greta Thunberg e alla sua famiglia va la nostra solidarietà personale e quella di tutti gli attivisti di Europa Verde. A lei promettiamo che, nonostante le intimidazioni il nostro impegno non verrà mai meno". Così, in una nota, Elena Grandi, co-portavoce nazionale dei Verdi e Nando Bonessio co-portavoce dei Verdi Lazio, entrambi esponenti di Europa Verde, commentano "l'impiccagione di un fantoccio con le fattezze della giovane attivista svedese". "Quanto avvenuto, - proseguono i due ambientalisti - rappresenta una vera istigazione alla violenza che può essere stata organizzata solo da chi rifiuta il confronto democratico, dimostrando grande ignoranza e incapacità di reggere confronti basati su conoscenze scientifiche. Greta, con un grande e instancabile impegno personale, ha avuto il merito di denunciare in tutto Mondo 'il sonno della ragione', mettendo sotto accusa tutte le istituzioni e tutti coloro che girano la testa dall'altra parte provando a disconoscere il problema dei cambiamenti climatici e dell'imminente collasso del nostro Pianeta. Questo attacco vile e vigliacco ci dà ancora più forza e ci conferma che siamo nel giusto: solo il raggiungimento di una vera "giustizia ambientale" può dare le basi garantire a tutti una piena "giustizia sociale", in particolare per i più deboli. E' proprio la consapevolezza di questa verità - concludono Grandi e Bonessio - che rappresenta la base della strumentale alleanza tra le forze della destra antidemocratica e le lobby delle multinazionali che si frappongono a qualsiasi riconversione ecologica e sostenibile dei modelli produttivi su scala planetaria". Il manichino raffigurante Greta appeso ad un cavalcavia a Roma "è una incitazione all'odio" commenta il Wwf aggiungendo che "non solo è una visione macabra e volgare ma dimostra ancora una volta che chi non riesce a contrastare con dati e argomenti il movimento di giovani che si impegnano nella battaglia contro la crisi climatica ricorre alla violenza e all'intimidazione". Violenza "tanto più odiosa - prosegue l'associazione in una nota - perché nei confronti di una ragazza di sedici anni e di tutte le ragazze e i ragazzi che come lei e con lei si stanno impegnando per smuovere l'immobilismo dei governi, dell'economia e della società tutta nei confronti di una minaccia di enorme portata per il futuro della civilizzazione umana, delle nuove generazioni ma anche di quelle attuali". L'ong chiede di "indagare seriamente e fermare subito i responsabili di questo bruttissimo gesto di incitazione all'odio verso le ragazze e i ragazzi che pensano e agiscono per il bene comune. Siamo certi che né Greta, né il milione di giovani scesi in piazza venerdì scorso in Italia si lasceranno influenzare da questi gesti intimidatori che manifestano la pochezza e la debolezza degli argomenti di chi non condivide le loro motivazioni". "Il fantoccio di Greta appeso da un cavalcavia è la conferma del fatto che chi identifica Greta come 'il nostro Dio' è gente inconsistente e violenta, pronta solo ad attaccare a vuoto, senza fermarsi sul confronto e i contenuti. Noi non abbiamo alcun culto di questa ragazza, Greta dà la parola semplicemente agli scienziati e cita i dati di studi scientifici inconfutabili, gli stessi ignorati dalla politica". Così in una nota i giovani di Fridays for future Roma aggiungendo che "noi in questa battaglia ci mettiamo la faccia, mentre questa gente si nasconde dietro minacce e aggressività. Dopo questo gesto siamo ancora più forti di ieri, ancora più vicini a Greta e a tutte le ragazze e i ragazzi che scendono in strada a difendere il nostro futuro".

Alla generazione Greta mancano (solo) i voti. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Federico Fubini. Nell’Europa di oggi i giovani «pesano» nelle urne quasi dieci volte meno degli adulti. Non si può fare a meno di notare la reazione, quando Greta Thunberg prende la parola all’incontro delle Nazioni Unite sul clima. Fateci caso, in sala corre una risatina. Succede non appena la sedicenne pronuncia le prime parole: «We’ll be watching you, vi terremo d’occhio». E mentre quella continua si sente che la sala non sa bene quanto prenderla sul serio, anche se applaude. Lei dice: «Mancate alle promesse, ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Vi rivolgete a noi per trovare speranza: come osate?». «How dare you?». Si potrebbe girarle la domanda: come osa lei? Greta avrà ispirato milioni di ragazzi a scendere in piazza per l’ambiente, da Milano a Sidney, ma i leader mondiali ai quali riserva tanto astio hanno dietro di sé centinaia di milioni di persone di ogni età. Sono stati votati, hanno vinto, rappresentano le maggioranze delle loro democrazie. Invece non è chiaro chi abbia delegato Greta a trattarli come fossero peccatori da redimere. Perché questa in fondo è la domanda che quella risata dalla platea di New York le rimanda indietro: chi ha titolo a decidere sul futuro remoto, chi ne ha più diritto? Poche volte nella storia i Paesi ricchi sono stati assillati da tante scelte delle quali si sa già che le conseguenze dureranno decenni, se non secoli. Che sia così per l’ambiente è ovvio: i costi da affrontare per salvare il pianeta sono alti e immediati, i benefici li vedrà (forse) chi oggi è un bambino. Per il debito, la finanza e le nostre pensioni in fondo non è diverso: si vive al di sopra dei nostri mezzi facendo debito, lasciando spazio alle bolle speculative o alle promesse insostenibili, benché sia già chiaro che qualcuno domani dovrà subire i costi dei nostri comportamenti. Anche la rivoluzione tecnologica impone la stessa scelta tra il subito e il dopo: più si investe nell’intelligenza artificiale o nei robot, più in fretta il potere passerà da una generazione adulta a disagio nel controllare quelle macchine a una giovane che è cresciuta con loro; date i mezzi ai nativi digitali, e quelli vi spazzeranno via. Anche qui bisogna decidere chi si fa carico dei costi immediati, in vista di benefici futuri che non sono per tutti. Questo è il senso dei quei quattro minuti di lacrime e rancore di Greta alle Nazioni Unite, una narrazione fatta di voi contro di noi, l’oggi contro il domani. Viene da pensare che la rivolta dei #FridaysForFuture si spieghi esattamente con questo conflitto. Non solo una guerra fra idee o fra generazioni. Anche fra tempi e fra numeri diversi. Prendiamo l’Unione europea, che ha espresso Greta e va fiera di essere all’avanguardia nella lotta al cambio climatico. Nel blocco dei 28 Paesi vivono 512 milioni di persone, ma le diverse generazioni non hanno dimensioni paragonabili l’una all’altra. Ci sono i figli del baby boom di mezzo secolo fa e quelli del baby bust degli ultimi decenni, quando si è smesso di fare bambini in numero sufficiente a garantire la stabilità della popolazione. Ci sono 7,5 milioni di elettori cinquantenni e 5,4 milioni di elettori diciottenni: in un referendum sul clima o sul debito o sul ritmo della trasformazione tecnologica fra questi due gruppi, i cinquantenni vincerebbero senza sforzo se si votasse su base generazionale. E il problema è che spesso lo si fa. Noi che abbiamo una cinquantina d’anni vinceremmo con quasi il 60% contro di loro, i diciottenni. Siamo di più, ed è normale che in democrazia prevalgano la nostra visione e i nostri interessi. Se si allarga lo sguardo, lo squilibrio si presenta ancora più profondo. Nell’Unione europea la generazione fino ai 25 anni di età conta 137 milioni di teste e appena 39 milioni di elettori; persino se votassero anche i bebè, questa generazione sarebbe più piccola e più irrilevante nelle urne del gruppo fra i 26 e i 50 di età — che sono 171 milioni, tutti con il voto — o di quella fra 51 e 75 anni (153 milioni). Nelle urne i giovani perdono sempre e ora più che mai, perché non sono mai stati così pochi. Si sono diradati. Per trovare in Europa un’annata demograficamente tanto scarsa come quella che oggi ha meno di un anno, bisogna risalire ai settantunenni. Naturale dunque che divampino i #FridaysForFuture e che Greta si emozioni fino a piangere di astio. Lei e i suoi scelgono questo terreno asimmetrico di lotta — le piazze, i social network, le parole taglienti negli eventi pubblici — perché se invece si decidesse del futuro democraticamente le cose andrebbero in modo diverso: i giovani in Europa hanno dieci volte meno voti degli altri, e poco importa che le conseguenze delle scelte tocchino di più a loro domani e dopodomani. Perché questo è l’altro aspetto. Se si smette di pensare ai cittadini come votati delle prossime elezioni, ma li si guarda per il patrimonio di vita futura che contengono, allora tutto appare diverso. I rapporti di forza fra generazioni cambiano, quando si pensa che l’aspettativa di vita in Europa è di circa ottant’anni e per i più piccoli sarà anche più lunga. La generazione europea che oggi è fra zero e i venticinque anni di età racchiude un patrimonio di vita futura di 9,3 miliardi di anni: da sola ha da vivere più di tutte le generazioni seguenti messe insieme, fino ai 75enni compresi. In altri termini Greta e i suoi coetanei hanno meno teste e meno voti; ma pesano molto più di tutto il resto della popolazione se si pensa allo stock di anni da vivere che portano in sé. Di fronte a dilemmi come quelli sul clima, sulla finanza o sulla rivoluzione tecnologica, Greta e i suoi stanno ponendo una questione diversa: chiedono quanto deve contare un singolo voto in democrazia. Per loro, uno non vale uno. Non perché i più giovani pensino di essere (solo) più competenti, ma perché il loro patrimonio di vita è più vasto e dovrebbe contare di conseguenza. Dovrebbe contare di più. Può sfuggirci una risatina, a quella domanda polemica, #HowDareYou. Ma va dritta al cuore dei nostri sistemi politici messi di fronte ai grandi temi del secolo.

I ragazzini ci salveranno, spiegatelo ai parrucconi. Lanfranco Caminiti il 28 Settembre 2019 su Il Dubbio. La giovane Greta, tanto criticata oggi da adulti rancorosi, sarebbe piaciuta a Elsa Morante e a Don Milani. A Massimo Cacciari non piacciono, Greta, lo sciopero, i ragazzi, e pure il ministro che “li autorizza” a scioperare. Dice – in una breve intervista al «Corriere della sera» : «Se continuiamo ad affrontare i problemi alla Greta siamo fritti. Siamo all’ideologia dell’incompetenza». Dice che era meglio se i ragazzi restavano a scuola a studiare e dice ancora, che ben prima di Greta avevano parlato “fior di scienziati” purtroppo inascoltati e che «i problemi non si affrontano in termini ideologico- sentimental- patetico». Fa tenerezza Cacciari, quando dice queste cose. Come non sapesse che i grandi movimenti sociali sono sempre animati da passione e dal contagio dell’entusiasmo che quella passione genera, piuttosto che dai sapientoni, dai parrucconi delle accademie scientifiche – tutti presi peraltro a confutarsi le tesi gli uni con gli altri e sovra ogni cosa a queste infinite battaglie dedicarsi in corpo e spirito. Quanti anni aveva Giovanna d’Arco – adesso, non fate: boom – quando fu bruciata sul rogo nel 1431? Solo diciannove, e nei due precedenti aveva scombussolato la Francia e l’Inghilterra. Guidava eserciti, a quell’età. Fa incavolare, invece, tutta quella sinistra variamente declinata ( della destra, da Trump a Bolsonaro giù giù, non val la pena spendere parole) da social che contro Greta ha scatenato un putiferio di critiche, di supponenza, di maldicenza – che sembra poi il vero venticello dei social, con la tiritera del solito Soros di turno ( «chi la paga, questa ragazzina?» ) Fa incavolare perché l’argomentazione è che questa di Greta e le altre sarebbe una battaglia “di sovrastruttura” che non va a scalfire la contraddizione principale del pianeta, ovvero il conflitto capitale/ lavoro. Sul momento non capisci se ci sono o ci fanno, poi capisci che non è quello che importa. Vorresti dire: quale conflitto rimarrà, quando schiatteremo per il cambiamento climatico? Quando le nostre risorse si limiteranno al punto che la nostra vita sarà la lotta per la sopravvivenza? Quale lavoro ci sarà? Quale capitale? A Elsa Morante invece, sarebbero piaciuti eccome. Sta tutto lì in quel suo straordinario “lavoro” che è Il mondo salvato dai ragazzini, uno strano libro, fatto di cose che aveva già scritto e cose che scrisse apposta, dove c’è poesia, racconto, teatro, canzone, saggio, disegni, scritto un po’ in verticale, un po’ in orizzontale, che uscì nel 1968. Un manifesto, una commedia, una tragedia, un romanzo, un documentario a colori – così lei stessa definiva il libro. Un poema, ha detto Goffredo Fofi, forse azzeccandola. E che cosa dice il nucleo di questo libro straordinario che uscì proprio nell’anno – l’anno del pensiero magico – in cui il mondo fu messo sottosopra dalla gioventù che scendeva in piazza e voleva essere ascoltata, voleva essere “soggetto politico” che decidesse il proprio futuro, immaginandone uno completamente diversa da quello a cui erano stati “destinati” dalle famiglie, dalle scuole, dalle università, dalle caserme, da chi gestiva il potere? Diceva, la Morante, che al mondo ci sono i Felici Pochi e gli Infelici Molti, e che i Felici Pochi, spesso vittime della Storia, sono quelli che vivono la vita con generosità, e che gli Infelici Molti sono quelli che stanno in attesa della fine. E diceva, Elsa, ai giovani che dovrebbero essere allegri, curiosi nei confronti del mondo, dell’altro, che dovrebbero avere rispetto della natura, che dovrebbero stare dentro l’unità del cosmo. I Felici Pochi sono giovani – non importa che età abbiano davvero. «Sappiàtelo, o padri meschini I( nfelici) M( olti) d’ogni paese: / se ancora il corpo offeso dei viventi resiste / ? in questo vostro mondo di sangue e di denti/ è perché passano sempre quelle poche voci illese / con le loro allegre notizie./ Contro le vostre milizie sevizie immondizie / imprese spese carriere polveriere bandiere / istanze finanze glorie vittorie sciarpe littorie e sedie gestatorie contro la vostra sana ideologia la vostra brava polizia / ghepeù ghestapò fbi min- cul- pop ovra rapp & compagnia / e tutta la vostra mortuaria litania / ci vale solo quell’unica eterna scaramanzia: l’allegria… Aria, aria, a questa prigione infetta». C’è già tutta la ventata libertaria del Sessantotto: «Come vanno i Vostri Reali E i Presidenti E i Generali / E i Rendimenti gli Emolumenti? Siete contenti dei Vostri Affari? / In Famiglia tutto bene? La Signora si mantiene? / E la Bomba come va? La più bella chi ce l’ha? / La Mammà dei Capitali o il Papà dei Proletari?? / Bravi bravi complimenti. Siete sempre Regolari./ Troppo uguali. Troppo uguali. Troppo tristi e troppo uguali/ troppo uguali e troppo tristi. Troppo tristi troppo tristi». Per molti versi, la distinzione, la frattura che Morante fa tra i Felici Pochi e gli Infelici Molti mi ricorda quella di don Milani, nella Lettera a una professoressa, 1967, tra i piccoli Gianni, che parlano la lingua del padre fatta di lavoro, di stalla ( «La scuola sarà sempre meglio della merda» ) e i Pierini, il figlio del dottore che quando arriva alle elementari sa già leggere e scrivere e ha davanti una carriera “protetta”. Sono testi – quello della Morante e di don Milani – “morali”, testi come prediche. Potenti. Ecco, Greta magari non sarà competente come un professorone del MIT di Boston e di certo non ha il potere politico dei potenti riuniti all’ONU, ma quanta forza in quel «Come osate?» Greta è una figura morale. Ogni tanto succede che arrivino. Fu il periodo delle speranze, quello del Sessantotto. Anche delle paure. La paura della bomba atomica, della guerra nucleare fra superpotenze. Fu proprio Elsa Morante a tenere nel febbraio 1965 una serie di conferenze a Torino, Milano e Roma. Disse: «Non c’e` dubbio che il fatto piu` importante che oggi accade, e che nessuno può ignorare, e` questo: noi, abitanti delle nazioni civili nel secolo Ventesimo, viviamo nell’era atomica… si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi». Oggi la bomba atomica è il climate change. Non ho le competenze – di cui abbisogna il professor Cacciari – per spiegare dettagliatamente l’aumento della temperatura della Terra e le conseguenze. Quello che so è che il mondo è avvelenato, che la nostra vita è avvelenata, che si percepisce con mano che «l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi». Di estinguersi. Nel Sessantotto, ragazzi di venti-ventidue anni in tutto il mondo si sollevarono. Erano ragazzini. Aria, aria. Non riuscirono a salvare il mondo. Magari possono provarci di nuovo, riuscirci Greta e i suoi ragazzini. 

PURE SALVINI SI È RINGRETINITO. Da Il Tempo il 28 settembre 2019. «Greta ha l’età di mio figlio, i ragazzi che si impegnano per un ideale hanno tutta la mia stima. Poi, le proposte che ne derivano possono essere più o meno condivisibili, però mi piacciono i sedicenni che ci mettono la faccia. Mi piacciono meno dei ministri che, nel nome dell’ambiente, dicono sciocchezze». Lo ha detto il segretario della Lega, Matteo Salvini, parlando di Greta Thunberg con i giornalisti, a margine della Zena Fest, la festa del partito in corso a Genova. Dal palco, parlando dello sciopero per il clima previsto domani, il leader del Carroccio ha detto: «Vedo qui tanti ragazzi: se fate tardi, domani potete dormire fino a mezzogiorno e poi dire che lo avete fatto per salvare il pianeta». Lo scorso marzo Salvini aveva ostato sulla sua pagina Twitter un fotomontaggio che ritraeva il suo volto incorniciato dalle treccine di Greta, la sedicenne svedese diventata simbolo della lotta al cambiamento climatico. «Trovata in rete, un po’ di autoironia non fa mai male!», aveva commentato l'ex vice premier.

“Se continuiamo ad affrontare i problemi alla Greta siamo fritti”, dice Cacciari. Per il filosofo le cose dette dalla giovane ambientalista le avevano “già dette fior fior di scienziati” ma forse “non avevano l’eco di questa bambina”. E poi la invita a tornare a scuola: "Non è così che si formano le coscienze critiche". Alberto Ferrigolo il 27 settembre 2019 su Agi. “Non è dicendo ‘mi avete rubato i sogni’ che si affrontano i problemi”. È critica e fuori dal coro la voce del filosofo Massimo Cacciari sull’azione e il pensiero di Greta Thunberg sul clima, perché “se continuiamo ad affrontare i problemi alla Greta siamo fritti”, meglio “siamo all’ideologia dell’incompetenza”, dice il professore di Estetica all’Università San Raffaele di Milano in una breve intervista al Corriere della Sera. Secondo l’ex sindaco di Venezia, “i problemi non si affrontano in termini ideologico-sentimental-patetico”, bensì “in termini scientifici”. E il ragionamento offre al professore anche l’opportunità di criticare il ministro Fioramonti. Per l’idea di giustificare de facto quegli studenti che intendano partecipare al #Fridayforfuture aderendo alle manifestazioni e marinando la scuola: “Mica il ministro può giustificare i ragazzi. O è diventato un suo potere?”,  ma forse “allora sarà una manifestazione autorizzata, solo che è di un’assurdità pazzesca”. Secondo il filosofo veneziano, le ore di queste manifestazioni dovrebbero essere semmai usate “per fare seminari autogestiti ai quali far partecipare lo scienziato che racconta come va il clima” e “capendo problemini che sfuggono totalmente alla bambina” ponendo, nel caso, “il problema delle risorse disponibili” e se “uno sviluppo economico è compatibile con l’ambiente”. E “non è così che nascono le coscienze critiche” ma si formano “lentamente, faticosamente, con la formazione”. In questo caso Greta “dovrebbe andarci a scuola” dice il professore, perché “forse si renderebbe conto che lei è svedese, i ragazzi che scioperano sono europei, ma in piazza non ci sono né indiani, né cinesi, né brasiliani. Non mi pare un problemino da poco”. Ma c’era bisogno alla fin fine di una Greta per smuovere e sensibilizzare le coscienze? Secondo Cacciari le cose che va ripetendo la ragazzina, le avevano “già dette fior fior di scienziati” ma forse “non avevano l’eco di questa bambina”, conclude.

Federica Pellegrini: "Greta Thunberg? Una ragazzina con le palle". Federica Pellegrini si è mostrata sensibile all'argomento sull'inquinamento globale: "Mi tocca questa cosa, sto seguendo molto Greta Thunberg, sto leggendo il suo libro". Marco Gentile, Sabato 28/09/2019, su Il Giornale. Federica Pellegrini, solo qualche giorno fa, aveva parlato della sua voglia di arrivare fino alle Olimpiadi di Tokyo 2020 per poi dire addio al nuoto e all'attività agonistica dopo anni ricchi di soddisfazioni e qualche amarezza. La fuoriclasse di Mirano, a margine della campagna #LoveLight di Transitions, di cui lei è anche testimonial, ha voluto dare la sua opinione sulla battaglia intresa dalla giovane Greta Thunberg: "In questo momento, sinceramente, mi tocca profondamente il problema dell’inquinamento. Sto seguendo molto Greta Thunberg, sto leggendo il suo libro, è una ragazzina con le palle. È sconcertante come per anni si sia preferito tacere su tutto ciò che stava accadendo al mondo. Sarà che l’acqua è il mio ambiente ma vedere tutti questi fiumi di plastica in mezzo al mare mi provocano una stretta allo stomaco incredibile". La Pellegrini ha poi parlato di un altro argomento a lei molto caro come la violenza sulle donne: "In merito alla violenza sulle donne mi avete visto e mi vedrete sempre in prima linea, non perché a me sia mai accaduto nulla anzi, in questo mi reputo fortunata. Ma può succedere a tante altre donne. Ci ho messo spesso la faccia proprio per portare luce su questo tema". La Pellegrini ha anche affermato come il suo 2019 a livello sportivo sia stato prolifico e ricco di vittorie: "Devo dire che stato un 2019 spettacolare. In questo mese di settembre mi sto veramente godendo quello che è successo quest’estate. Mi sto allenando poco adesso, ho voluto concentrare gli svaghi, i divertimenti, gli impegni, le nuove esperienze. Poi da inizio ottobre mi concentrerò solo sul nuoto pensando esclusivamente a Tokyo 2020”.

Ma quanto inquinano questi gretini. Migliaia in piazza, ma anche manifestare rovina l'ambiente. Alessandro Sallusti, Sabato 28/09/2019, su Il Giornale. Ho visto ieri migliaia di ragazzi sfilare felici e pacifici per le vie di Milano per protestare contro la modernità che a loro dire provoca i cambiamenti climatici. Poi li ho rivisti sfiniti bivaccare attorno ai locali fast food del centro, quelli per intenderci gestiti dalle multinazionali, abbuffarsi con pizze e panini imbottiti di quantità industriali di schifezze prodotte in serie e attrezzati con forchette, bottiglie e bicchieri di plastica che ore dopo giacevano ancora abbandonati nei pressi. Infine li ho visti sfollare imbufaliti perché il contemporaneo sciopero dei mezzi pubblici, più o meno inquinanti, impediva loro di tornare a casa nel modo più comodo e veloce. Mi è venuta voglia di abbracciarli per la loro manifesta ingenuità e contraddizione, siamo stati tutti ragazzi e oggi lo dico con una certa invidia tocca a loro. Sempre ieri ho visto delegazioni di questi ragazzi essere ricevute e riverite da alcuni dei loro nemici del «potere costituito» che sta avvelenando il mondo. A Milano dal sindaco Beppe Sala, il fan di Greta che ha inaugurato quell' Expo che attirò milioni di visitatori giunti in aereo da tutte le parti del mondo, colui che ha incentivato (per fortuna, diciamo noi) l' innalzamento di nuovi grattacieli e l' espansione di moderni quartieri grazie ai quali Milano sta nel Gotha mondiale delle città più commerciali, tecnologiche, lussuose e ricche del mondo. A Roma invece ho visto l' abbraccio dei gretini con il ministro della Scuola, Lorenzo Fioramonti, il cui partito ha dato via libera alla Tav, al Tap, all' Ilva di Taranto e a tante altre cose per noi utili ma che fanno inorridire gli ambientalisti. Lui dice di poter salvare il mondo anche se nell' ultimo anno (nel precedente governo era viceministro) non è riuscito a salvare, impresa almeno all' apparenza più a portata di mano, settanta edifici scolastici che sono miseramente crollati lui regnante. I politici più che la terra vogliono salvare sé stessi, nel senso di garantirsi il voto dei neo e futuri diciottenni affascinati da Greta. E questi ci cascano, ignorando che la terra, comunque vadano le cose, sopravviverà come ha fatto fin dall' origine a qualsiasi cambiamento climatico. A rischiare siamo solo noi e non sarà una tassa sulle merendine o il car sharing a garantirci la salvezza. Semmai, oltre che piantare un alberello, dovremmo costruire qualche bunker. Così, tanto per non fare la fine dei dinosauri che, pur non inquinando, furono spazzati via in men che non si dica da una catastrofe climatica, non attribuibile all' uomo che era di lì da venire.

Giacomo Talignani per “la Repubblica” il 30 settembre 2019. La prima risposta alla domanda «chi c'è dietro Greta?» è banale quanto vera: i suoi genitori. Mentre milioni di ragazzi ieri sono scesi in strada ancora una volta per chiedere la garanzia di un futuro, i detrattori di Greta Thunberg continuano a confabulare sulla possibilità che alle spalle del fenomeno della giovane paladina ci sia un' enorme operazione di marketing. È stato detto di tutto: da una macchinazione guidata da George Soros passando per un guadagno personale della famiglia Thunberg sino a una strategica campagna pubblicitaria avviata dall' imprenditore svedese Ingmar Rentzhog per sfruttare l' immagine della sedicenne. Eppure, sostiene lei stessa, nel cerchio magico di Greta ci sono oggi pochissime persone che la aiutano a condurre le sue battaglie. In primo luogo i suoi genitori. Quando a gennaio alcuni giornali scandinavi avanzarono l'ipotesi che dietro alla sedicenne ci fossero gli interessi della società "We Don't Have Time" guidata da Rentzhog, con la consueta determinazione Greta rispose su Facebook alle campagne d'odio. Per la prima volta spiegò punto per punto la sua storia, negando qualunque coinvolgimento commerciale. Si parte dall'idea dello sciopero davanti al Parlamento svedese, il 20 agosto 2018, nato dopo una chiacchierata con Bo Thorén di Fossil Free Dalsland. Greta era una 15enne sconosciuta «e i miei genitori non erano d'accordo». Conobbe davvero Rentzhog, ma non concesse alcun diritto d'immagine. Poi, complici media e social, la sua storia diventò virale e salì sul palco del Cop24 in Polonia. Parlò di «futuro rubato» e lanciò le fondamenta di Fridays for future. Fu costretta ad attrezzarsi: i suoi discorsi li scriveva e li scrive da sola (anche quello all'Onu) ma ha affidato parte della comunicazione al Gscc, il network Global strategic communications council che affronta la crisi climatica. Per i numerosi viaggi paga la famiglia. Si sposta in treno, mai in aereo per evitare alte emissioni di CO2. A finanziarla sono la madre Malena Ernman, cantante d' opera famosa, il padre Svante, attore e regista e i fondi del nonno paterno, Olof, in passato attore di teatro: la famiglia Thunberg è più che benestante, pagare biglietti, spese mediche e alloggi non è un problema. Nel frattempo Svante, un po' come aveva fatto prima Malena, rinunciando a viaggiare per stare vicino alla figlia con la malattia di Asperger, ha abbandonato gradualmente il lavoro per diventare una sorta di manager della figlia, da guardaspalle a pr, e soprattutto padre che vuole proteggerla. I soldi non c'entrano, sostiene Greta, nessun attivista incassa: «Lo facciamo per la Terra». Il denaro che entra arriva dai proventi del suo libro "La nostra casa è in fiamme": ma andranno «in beneficenza ad 8 Ong e associazioni» scelte da lei e alla sorella minore Beata che ora la affianca nelle battaglie. Tracciare questo denaro può apparire complesso e bisogna ancora sapere esattamente dove finiranno i proventi del film di Nathan Grossman, ma i Thunberg assicurano trasparenza. Questo regista, della scandinava B-Reel Films, segue sempre la 16enne ed era con lei anche sulla Malizia II, la barca messa a disposizione dal Team Malizia con Pierre Casiraghi per la traversata dell' Atlantico. Anche qui polemiche per le spese di viaggio: parte dei fondi è stata messa a disposizione da Team e Fondazione Alberto II di Monaco e la famiglia Thunberg sostiene di aver «contribuito» ai costi. Per rispondere agli odiatori, Svante ripete che nessun incasso vaalla famiglia. È però innegabile che ci siano spese importanti, dalla logistica al cibo. «Sono sostenute da più gruppi», dicono i Thunberg, realtà che agiscono gratuitamente. Per la logistica, soprattutto in America, hanno alle spalle organizzazioni come Climate Nexus, Every Breath Matters o 350.org. Greenpeace Sweden fornisce il cibo a Greta e altri attivisti. Un gruppo di scienziati, come Johan Rockstrom, Stefan Rahmstorf, Kevin Anderson o Glen Peters, offre a lei e al padre consulenze sui dati scientifici. Ma soprattutto ci sono i ragazzi, i suoi amici e compagni di scioperi. Con Xiye Bastida, Alexandra Villasenor o Luisa Neubauer Greta ha costruito una rete che segue dai social alle manifestazioni. «È un movimento orizzontale e trasparente - commenta Claudio Magliulo di 350.org - . È più facile attaccarli con le fake news che confrontarsi sui dati scientifici. A volte penso che gli unici veri adulti, oggi, siano i ragazzi».

Alessia Grossi per “il Fatto Quotidiano” il 10 dicembre 2019. Se a tutte le ragazze venisse insegnato come amarsi ferocemente invece di competere tra loro e odiare i propri corpi, in quale mondo diverso e bello vivremmo. ("If all girls were taught how to love each other fiercely instead of how to compete with each other and hate their own bodies, what a different and beautiful world we would live in"). Firmato Nikita Gill. Non ci sarebbe bisogno di altre presentazioni che questi pochi versi della poetessa femminista britannica che divulga le sue elegie su Instagram per rappresentare lei, che i versi li fa suoi sul suo personale account. Eppure Bea Ernman per gli amici, all' anagrafe Beata Mona Lisa Thunberg, che posta foto di "serate a ridere con le amiche", concerti con lei protagonista sul palcoscenico, è nota per ben altre ragioni. Sorella dell' attivista svedese per il clima che ieri ha strigliato di nuovo i "grandi" presentando i suoi coetanei del Sud del mondo al Vertice per il clima di Madrid, 13 anni, trucco e capelli da rockstar, Beata finora è stata sempre la seconda della foto, con il volto coperto da pixel sulla copertina de La nostra casa è in fiamme, il libro di famiglia in cui sua madre, l' ex cantante lirica Malena Ernman che ha abbandonato la carriera dopo una breve e fallace interpretazione pop a Eurovision, ha scritto per raccontare come è "nata" Greta. Se non fosse che anche lei, Beata, da cantante agli esordi ai concerti materni di strada ne sta facendo già molta, anche se lontana dalla sorella, e non soltanto per via del livello di CO² che consumerebbe seguendo le orme della primogenita in giro per il mondo. Ma, a proposito di seguaci, su Instagram di follower ne ha già più di 14 mila e ha da poco inciso un nuovo disco, dal titolo emblematico Bar du vill "Basta volerlo". Ma la sua cifra non starebbe né dietro alla visibilità della sorella, né dietro ai tour di sua madre: il suo obiettivo è la lotta femminista. Affetta anche lei da sindrome di Asperger sommata a quella del deficit d' attenzione e iperattività, Beata Mona Lisa nel perseguire il suo scopo è del tutto simile a sua sorella Greta, anche se pare che la sua situazione sia più grave. "La sua patologia è più disordinata - scrive sua madre, di cui lei porta il cognome nel libro - difficile da inquadrare e da gestire". "Le patologie psichiche in ragazze e ragazzi tra i 10 e i 17 anni sono aumentate del 100% in 10 anni", racconta Malena, aggiungendo che "l' oppressione delle donne e delle persone con disabilità derivano dal cambiamento climatico e da una vita insostenibile. Se fossi cresciuta in questi anni, anche io come le mie figlie mi sentirei persa", conclude Malena, teorizzando un legame tra crisi globale e crisi familiare. Fatto sta che, anche per la sua patologia, si diceva, come già accaduto a sua sorella maggiore, anche la piccola della famiglia Thunberg si è data uno scopo che tutto pervade: rendere il mondo migliore. "Non capisce perché le cose siano differenti per una donna rispetto a un uomo", afferma ancora la madre. E a breve potrebbe intraprendere il cammino dell' attivismo come sua sorella, ma nel femminismo. A questo la starebbero "preparando" i genitori. Tanto papà Svante quanto mamma Malena, infatti, da quando Greta ha iniziato la sua battaglia scioperando per il clima ogni venerdì fuori da scuola, hanno abbandonato le rispettive carriere di cantante e insegnante alla Reale accademia svedese di Musica e di attore e si sono dedicati esclusivamente alla causa della propria figlia. A organizzare la logistica di Greta, infatti, è suo padre, così come a gestire testi e incontri e partecipazioni sarebbe sua madre, i quali ora raddoppierebbero l' impegno seguendo anche la secondogenita. "Nessuna speculazione personale", specifica il padre a ogni piè sospinto, sottolineando - tra l' altro - che per evitare chiacchiericci su un probabile tornaconto familiare dalla causa del clima di Greta, ogni dono o provento proveniente dalla causa, alla causa i Thunberg lo devolvono. Tornando a Beata, ciò che appare chiaro seguendo le sue gesta sui social è che ha intenzione di intraprendere la strada opposta a quella di sua sorella Greta: fatta di luci e riflettori, seppure non facili da gestire. Usando la voce per farsi sentire, laddove la maggiore delle Thunberg ha appena sottolineato che non è la sua di voce quella che conta, ma quella di tutti i giovani che lottano contro il cambiamento climatico. Parafrasando la canzone di Bea: "Decidi tu chi sei".

Greta Thunberg, sconcertante titolo su La Repubblica: o credono proprio a tutto o sono in cattiva fede. Libero Quotidiano il 28 Settembre 2019. Greta Thunberg è al centro delle cronache di questi giorni e La Repubblica, non si capisce se in cattiva fede o per ingenuità, scrive che dietro la baby attivista "non esiste un cerchio magico. A sostenerla nella sua battaglia sono i genitori ma nessun incasso va alla famiglia". Come in una favola, insomma. L'articolo, infatti, riporta il seguente titolo: "Mamma, papà e pochi altri. Viaggio alla scoperta del piccolo mondo di Greta". E nell'attacco del pezzo si legge. "La prima risposta alla domanda «chi c'è dietro Greta?» è banale quanto vera: i suoi genitori. Mentre milioni di ragazzi ieri sono scesi in strada ancora una volta per chiedere la garanzia di un futuro, i detrattori di Greta Thunberg continuano a confabulare sulla possibilità che alle spalle del fenomeno della giovane paladina ci sia un'enorme operazione di marketing. È stato detto di tutto: da una macchinazione guidata da George Soros passando per un guadagno personale della famiglia Thunberg sino a una strategica campagna pubblicitaria avviata dall' imprenditore svedese Ingmar Rentzhog per sfruttare l'immagine della sedicenne". Tutto falso per Repubblica.

I big della Finanza s'inchinano a Greta. E la "sostenibilità" diventa business. Il capitalismo si adegua. In Italia il mercato vale 22 miliardi. Camilla Conti, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. Anche la finanza tifa per Greta. Con una nuova parola d'ordine entrata nell'agenda delle roccaforti del capitalismo mondiale: sostenibilità. Che si traduce sia nell'evitare investimenti in aziende che producono armi o tabacco o che violano i principi stabiliti nel Patto mondiale delle Nazioni Unite, sia nello scommettere su società che nelle loro scelte strategiche incorporano temi come l'energia verde, l'inclusione e la diversità. Anche le banche promettono di contribuire allo sforzo planetario per cambiare rotta seguendo i criteri standard chiamati Esg (ovvero Environmental, social and governance): 130 delle maggiori istituzioni finanziarie mondiali da parte italiana Intesa Sanpaolo e il Monte dei Paschi hanno firmato a New York una convenzione nella quale si impegnano a sostenere i clienti che promuovono la sostenibilità. Ai principi stabiliti dall'Onu per un'attività bancaria responsabile ha aderito l'Abi impegnandosi a diffondere l'iniziativa presso le proprie associate. E martedì scorso Unicredit ha annunciato la costituzione di un Sustainable Finance Advisory Team, una squadra di manager che consentirà di approfondire il dialogo con i clienti su argomenti ambientali, sociali e di governance facilitando l'accesso al mercato europeo dei finanziamenti "green". La rivoluzione sostenibile della finanza è stata però innescata prima ancora che Greta Thunberg facesse scendere in piazza il movimento Fridays For Future. «Per prosperare nel tempo, la performance finanziaria non è sufficiente, ogni azienda deve dimostrare di aver fornito un contributo positivo alla società, a beneficio di tutti i suoi portatori di interesse; azionisti, dipendenti, clienti e comunità di riferimento», scriveva Larry Fink, ceo di BlackRock in una lettera inviata all'inizio del 2018 agli ad delle migliaia di società partecipate da un capo all'altro del pianeta. Blackrock è la più grande società di investimento al mondo che sposta masse di milioni di dollari con un clic. Una sorta di sherpa del mercato che quando suona la carica viene seguito a ruota dagli altri investitori internazionali, ma anche uno dei più ascoltati consiglieri di governi e autorità dei singoli Stati. E il messaggio di Fink è chiaro: «Se volete conservare il nostro appoggio dovete dare un contributo positivo alla società». Nel frattempo, Blackrock forte dei suoi oltre 6mila miliardi di dollari di masse, ha destinato 66 miliardi di dollari al settore Esg. Mentre gli investimenti sostenibili tout court valgono 568 miliardi tra fondi comuni e etf, investimenti alternativi illiquidi, green bond. In Italia ieri è partito un roadshow di un mese che farà tappa in 17 città, partendo da Bergamo. «Secondo alcune stime il mercato italiano degli investimenti Esg vale ora circa 22 miliardi ma la richiesta che arriva dai clienti porta a credere che i margini di crescita siano molto ampi», spiega Luca Giorgi, capo del Business Retail di Blackrock Italia, Grecia e Malta. Un'analisi dei dati degli ultimi anni - aggiunge Amelia Tan, responsabile della Platform Strategy and Innovation per la regione Emea di BlackRock Sustainable Investing - «dimostra che investire in aziende che applicano i principi di sostenibilità ha senso anche da un punto di vista del rendimento finanziario».

L'ecologismo "umano" è frutto del progresso. Oggi pretendiamo di cambiare il clima, per delirio di onnipotenza. Ma è lo sviluppo a tutelare la natura. Riccardo Cascioli, Domenica 29/09/2019, su Il Giornale. I fedeli cattolici di Calci, nella diocesi di Pisa, nei giorni scorsi sono rimasti certamente sorpresi di venire a sapere che oggi sono soppresse le messe delle 10.15 e delle 11.30 perché tutti possano partecipare all'iniziativa di Legambiente «Puliamo il mondo». Secondo il parroco, andare a comando dell'associazione ambientalista a pulire fossi e strade è una bella cosa «in linea con il Vangelo». Sospendere le messe per giocare agli ambientalisti: per quanto possa sembrare strano, non è l'iniziativa di un parroco improvvisamente impazzito; è invece la logica conseguenza di una Chiesa che, ormai da tempo, ha sposato l'ideologia ecologista moderna. Non a caso nell'enciclica «verde» per eccellenza, la Laudato si' (2015), papa Francesco liquida con appena una frase l'esperienza storica che meglio ha realizzato la visione cattolica dell'ambiente, anzi del Creato, ovvero il monachesimo benedettino. Sono stati praticamente ignorati oltre 1500 anni in cui i monasteri hanno fatto rifiorire la natura e l'hanno migliorata, creando anche delle opere di cui godiamo tuttora i frutti. Chiunque abbia visitato un antico monastero, normalmente collocato in altura, non avrà potuto fare a meno di notare la bellezza del posto in cui si trova. Qualcuno avrà anche pensato al buon gusto e alla furbizia dei monaci, che hanno saputo scegliersi delle belle località. È giusto invece riflettere che questi posti paesaggisticamente incantevoli, non erano affatto così quando i monaci vi sono arrivati. Al contrario, erano posti selvaggi e inospitali e, soprattutto nell'Alto Medioevo ai monaci si deve la valorizzazione del lavoro e la bonifica dell'ambiente che ha permesso di ricostruire letteralmente l'Europa, quando tutto sembrava destinato alla distruzione e all'abbandono. «Dobbiamo ai monaci scrive Thomas E. Woods nel libro Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale (Cantagalli, 2007) la ricostruzione agraria di gran parte dell'Europa. Ovunque andassero, i benedettini trasformarono terra desolata in terra coltivata. Intraprendevano la coltivazione del bestiame e della terra, lavoravano con le proprie mani, prosciugavano paludi e abbattevano foreste». E ancora: «Ovunque andassero i monaci portavano raccolti, industrie o metodi di produzione che nessuno aveva mai visto prima. Introducevano qui l'allevamento del bestiame e dei cavalli, lì la fabbricazione della birra, o l'apicoltura, o la frutticoltura». Anche in Italia abbiamo innumerevoli testimonianze di luoghi diventati ospitali e rigogliosi, buoni per l'uomo, grazie alla presenza dei monasteri benedettini. Ma tutto questo non era frutto di un progetto ambientale o di un'analisi sulle condizioni degli ecosistemi. La radice di questo strepitoso successo l'ha descritta molto bene papa Benedetto XVI nel suo famoso discorso al Collège des Bernardins a Parigi il 12 settembre 2008, parlando proprio del «segreto» dei benedettini: «Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio». Il resto la cultura, le università, il canto e anche l'ambiente sono tutte conseguenze. Una grande lezione di storia, la cui ignoranza ha gravi conseguenze, anche in economia. Basti pensare all'esaltazione che oggi si fa delle popolazioni primitive, considerate loro un esempio di equilibrio tra uomo e natura, che noi avremmo perso con lo sviluppo. Si tratta di un mito che non ha riscontro nella realtà, perché proprio la totale dipendenza dalle risorse messe a disposizione dalla natura fa sì che tali risorse siano molto scarse e precarie e porta gli uomini a sfruttare l'ambiente per poter ricavare le risorse necessarie per sopravvivere. Parliamo di società dove non ci sono quelli che oggi paiono a noi standard irrinunciabili, come l'istruzione scolastica, la prevenzione e cura delle malattie, abitazioni sufficienti e pulite, acqua corrente potabile, elettricità. Società fortemente autoritarie, patriarcali e gerontocratiche dove i diritti dipendono dallo status della famiglia, dal sesso e dall'anzianità. Società dove il lavoro viene disprezzato e la scarsezza di risorse disponibili fa sì che le guerre di conquista e a scopo di razzia siano un fattore strutturale. Alla base di tutto c'è un gravissimo errore sul concetto di risorsa: secondo l'ecologismo dominante, che si è inventato non a caso la misura dell'impronta ecologica e il concetto di sviluppo sostenibile, le risorse sono determinate dalla natura. Se la natura ci dà 100 in un anno, 100 è quello che ci dobbiamo far bastare: vale a dire che la popolazione non può crescere oltre certi limiti, e limitati devono essere anche i consumi. L'esempio classico è quello della torta: se ci sono 12 fette al giorno e la razione media giornaliera è di una fetta, va da sé che non potranno esserci più di 12 persone (altrimenti qualcuno morirà di fame) e quelle 12 persone non potranno mangiare più di una fetta a testa. Questo ragionamento è quello che sta alla base non solo dell'esaltazione del mito delle popolazioni primitive ma anche delle politiche ambientali globali che dalla Conferenza Onu di Rio de Janeiro del 1992 si fondano proprio su questi due pilastri: controllo delle nascite nei Paesi poveri e freno alla crescita dei Paesi ricchi (che consumano troppo). Proprio l'esempio dei benedettini ci dimostra invece che le cose stanno ben diversamente: la risorsa principale è infatti l'uomo, capace con la sua creatività di usare e trasformare gli elementi che si trovano in natura per migliorare la natura stessa e le proprie condizioni di vita. Ma questa osservazione elementare è suffragata da tutta la storia umana: le risorse sono sempre andate aumentando e diversificandosi tanto che, sebbene nell'ultimo secolo la popolazione mondiale sia più che quadruplicata, le risorse sono molto più abbondanti oggi che cento anni fa. Così come sono migliorate le condizioni di vita, anche nei Paesi più poveri, al punto che oggi non si verificano praticamente più le gravi carestie che fino agli anni '70 dello scorso secolo falcidiavano intere popolazioni. Le uniche eccezioni sono le carestie provocate da scelte politiche, come si è verificato non molti anni fa nella comunista Corea del Nord. Questo miglioramento è stato possibile grazie allo sviluppo, e contrariamente a quanto ci viene fatto credere - sono proprio i Paesi sviluppati quelli che maggiormente rispettano l'ambiente. Il che è perfettamente ragionevole se consideriamo che la ricerca, lo sviluppo e l'applicazione di nuove tecnologie permette di ridurre fortemente inquinamento e impatto ambientale. La conferma ci viene dall'Organizzazione mondiale della sanità che ha pubblicato nel 2018 la più completa inchiesta sull'inquinamento atmosferico che sia mai stata compiuta, da cui risulta che il 90% delle morti correlate all'inquinamento atmosferico avviene nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto Africa e Asia. Per cucinare e per scaldarsi infatti, ben tre miliardi di persone nel mondo usano legname, carbone e letame sprigionando gas altamente inquinanti, soprattutto nelle abitazioni. D'altra parte nei nostri Paesi lo sviluppo e la disponibilità di nuove tecnologie e nuove risorse fa sì che l'inquinamento si possa diminuire drasticamente. Un solo esempio: un'auto di media cilindrata costruita negli anni '70 del XX secolo, inquinava quanto più di cento auto dello stesso segmento costruite oggi. Ciò ci dice che se davvero ci sta a cuore l'ambiente, lo sviluppo va favorito, e accelerato anche per i Paesi più poveri: prima si compie la transizione dal sottosviluppo e prima si supereranno tanti problemi ambientali. Anche qui un solo esempio: nei Paesi sviluppati la superficie forestale è in continuo aumento. Motivo? Primo perché un'agricoltura più sviluppata, quindi più produttiva, richiede meno terreni per produrre di più; e poi perché laddove gli alberi vengono tagliati vengono anche ripiantati, proprio perché anche le foreste e i boschi sono una risorsa. Al contrario, nei Paesi poveri lo abbiamo visto in questo periodo per l'Amazzonia e il Sud Est asiatico - le foreste vengono incendiate per far spazio a un'agricoltura spesso primitiva e poco produttiva; e i governi, deboli e corrotti, non sono in grado o non hanno alcun interesse a rimpiazzare gli alberi che vengono bruciati o tagliati, quando non partecipano essi stessi al traffico illegale di legname. Ma qui arriva il problema, che è essenzialmente politico. Si è ormai affermata, anche nell'opinione pubblica, una propaganda che parla di «stato di allarme climatico», pianeta che ha pochi anni a disposizione prima di una catastrofe irreversibile, umanità ormai sull'orlo del precipizio. Il tutto è funzionale a spingere per politiche di emergenza che passino anche sopra le volontà dei singoli Stati. Il problema è che a una diagnosi così infausta si intende rispondere con terapie d'urto che non potranno che causare davvero gravi conseguenze. Ci si muove infatti secondo lo schema già citato per fermare l'uomo, il «cancro del pianeta», il colpevole di tutte le catastrofi presenti e future. Proprio quell'uomo che invece, come abbiamo visto, è la vera risorsa in grado di trovare soluzioni ai problemi che si presentano, come è sempre accaduto nella storia. Siamo oggi davanti a pressioni fortissime per scelte politiche che impediscano all'uomo di trovare soluzioni per migliorare la vita di tutti. Ad esempio il pretesto dei cambiamenti climatici antropici (cioè causati dall'uomo) sta spingendo a politiche per l'eliminazione dell'uso dei combustibili fossili con investimenti miliardari sulle energie rinnovabili. Il problema è che allo stato attuale e per il futuro prevedibile, le fonti rinnovabili, enormemente più costose e meno efficienti delle altre fonti energetiche, non potranno mai sostituire i combustibili fossili. Per cui su questa strada stiamo preparando un prossimo futuro dove verrà a mancare o a costare molto più cara l'energia, elemento fondamentale per consentire lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni della popolazione. Allo stesso modo se continuerà la demonizzazione dell'agricoltura intensiva a favore del biologico e, addirittura, del biodinamico (che è più magia che scienza), avrà come effetto una minore produttività dei terreni che, a sua volta, farà aumentare i prezzi dei prodotti agricoli (con conseguenze disastrose per le popolazioni più povere) e strapperà terreni a boschi e foreste. Per millenni l'uomo si è sempre difeso dall'imprevedibilità del clima e dalla durezza della natura, adattandosi e investendo sulla protezione (anche le case sono una forma di protezione dagli eventi climatici). Oggi invece per la prima volta l'uomo, anziché adattarsi, si è messo in testa di cambiare il clima, buttando cifre enormi di denaro su politiche a questo destinate, e che si riveleranno disastrose. È un delirio di onnipotenza dell'uomo, tipico di una società che ha eliminato Dio, e crede di poter determinare tutto. Un altro buon motivo per tornare a guardare all'esperienza dei monaci benedettini che invece avevano «l'obiettivo di cercare Dio». Quaerere Deum.

La deriva ideologica (e gretina) dell’ambientalismo. Francesco Giubilei il 20 settembre 2019 su Nicola Porro.it. Milioni di persone sono scese in piazza oggi in tutto il mondo per partecipare allo sciopero globale per chiedere ai governi misure più consistenti per contrastare il cambiamento climatico. La leader delle manifestazioni di piazza “Fridays for Future” è la sedicenne Greta Thunberg, divenuta un’icona per gli ambientalisti globali. In Italia, così come in Olanda, l’appuntamento è rimandato a venerdì prossimo 27 settembre a causa di motivi organizzativi, ma la sostanza non cambia. Il fatto che ci si mobiliti a favore dell’ambiente, dovrebbe essere una buona notizia, il problema è la deriva ideologica che la lotta ambientale ha assunto. L’ambientalismo, così come il femminismo o il giovanilismo, parte da una giusta domanda, quella di conservare il mondo che ci circonda e diminuire l’inquinamento, ma genera risposte sbagliate. Il motivo è semplice: l’ambientalismo, le battaglie di Greta Thunberg, i “Fridays for future” sono intrisi di ideologia, un tema che dovrebbe stare a cuore a tutti diventa ostaggio di una sola area adottando slogan e modalità ascrivibili a un’area di pensiero liberal e globalista. Gli ambientalisti cercano così di tracciare un solco tra chi, come loro, è portatore delle idee giuste e chi, come i sovranisti, difende gli interessi dei “cattivi” individuati negli imprenditori colpevoli di inquinare e distruggere l’ambiente. Poco importa che le imprese diano lavoro a milioni di persone, che contribuiscano a creare una qualità della vita accettabile, l’ideologia ambientalista troppo spesso coincide con una visione anti imprenditoriale che danneggia in primis le classi sociali più deboli che rischiano di rimanere senza un’occupazione se si dovessero ascoltare gli strali dei seguaci di Greta Thunberg. Lo stesso discorso vale per la sostituzione dei veicoli più vecchi con nuove macchine meno inquinanti: da un punto di vista idealistico è senza dubbio giusto, in pratica si rischia di penalizzare chi non può permettersi di acquistare una nuova autovettura. Inoltre, se proprio volessimo dare un’etichetta alla lotta per la tutela dell’ambiente, si tratterebbe di una battaglia tipica dei conservatori come scritto in più occasioni da Roger Scruton: cosa c’è in fondo di più conservatore di salvaguardare il territorio in cui siamo nati e cresciuti, custode delle nostre radici e tradizioni? Francesco Giubilei, 20 settembre 2019

La tassa verde è rossa. Dopo l'incentivo a rinunciare all'auto, arrivano i divieti per gli imballaggi degli alimenti: la spesa sarà un incubo. E il decreto adesso è in bilico. Nicola Porro, Venerdì 20/09/2019, su Il giornale. Nel 1916 Lenin scrisse un libretto dal titolo che diceva tutto: L'imperialismo fase suprema del capitalismo. Le cose sono andate diversamente. Converrebbe che qualcuno, dopo un secolo, lo parafrasasse così: l'ambientalismo fase suprema del comunismo. L'ambientalismo dispone dei nostri comportamenti in modo ormai assoluto. Non è più disgustoso e inaccettabile comprare un'auto da centomila euro, è sufficiente che essa sia una Tesla elettrica o al massimo una Mercedes con una spruzzata ibrida. Al contrario è diventato socialmente riprovevole possedere una Ritmo diesel. La tassazione per redistribuire il reddito, un vizio che dura a morire certo, sta gradualmente lasciando lo spazio alle tasse verdi. Sull'altare dell'ambientalismo è possibile tassare tutto. Questo governo non si è lasciato sfuggire l'opportunità. Ha scritto un decreto che il nostro Lenin verde avrebbe apprezzato. Citiamo solo tre perle.

Abbiamo reintrodotto la rottamazione delle auto. Ma questa è una vera e propria rottamazione tout court: nel senso che lo Stato fornirà degli incentivi a chi rinuncerà del tutto all'autoveicolo, ma non per sostituirlo con uno nuovo. In cambio darà loro uno sconto fiscale per comprare l'abbonamento ai mezzi pubblici e al cosiddetto car sharing. Si tratta di un «incentivo regressivo»: è destinato a chi ha meno bisogno delle automobili perché vive nelle zone meglio servite dai mezzi pubblici e dalle auto a noleggio. Le signore dotate di bicicletta e cestino a fiori ringraziano e potranno anche rottamare l'auto prestata al loro cameriere. Toccherebbe inoltre capire per quale motivo questo incentivo, per la prima volta nella storia repubblicana, non sia destinato anche all'acquisto di auto, magari considerate più pulite. No, questa è una battaglia ambientale contro il mostro. Che incidentalmente è la prima industria di questo paese, quella che spende più in ricerca e che esporta in tutto il mondo.

Il decreto non si ferma mica qua. Si incentivano i cibi venduti sfusi. Diciamo che viene solo da ridere per questa misura. Siamo il paese dei bar, che ha abolito le zuccheriere perché l'Europa ci ha obbligato alle bustine: più igieniche e costose. Ma se andate al supermercato potrete comprare la pasta sfusa.

La storia delle tax expenditure invece fa piangere. Si tagliano venti miliardi di euro di sconti fiscali concessi a particolari categorie, in una progressione del 10 per cento l'anno. Si tratta, per farla semplice, di un aumento dell'imposizione di due miliardi all'anno. Si potrebbe obiettare che questi quattrini recuperati potrebbero essere usati per finanziare uno sconto generalizzato di un'altra imposta. Alcuni ne soffrirebbero, quelli a cui tolgono lo sconto, molti ne beneficerebbero e cioè coloro che vedrebbero pro quota ridotta la propria tassazione. Ma secondo quanto scriveva ieri Antonio Signorini, metà di queste risorse andrà ad alimentare un nuovo fondo ambientale che avrà certamente obiettivi favolosi. Insomma aumento le imposte per finanziare nuova spesa pubblica.

La nuova religione verde non permette, come il comunismo, deviazioni. Chi è contrario è nemico del popolo e cioè dell'ambiente.

L’ambientalismo? È il nuovo socialismo. Alessandro Gnocchi, 8 settembre 2019 Alessandro Gnocchi su Nicolaporro.it. Il nuovo conformismo è l’ambientalismo. Ma l’ambientalismo è anche il nuovo socialismo. Il socialismo cambia continuamente pelle. Prima vennero gli operai. Andò male al punto che nelle fabbriche del nord passarono tutti a destra. Poi esplose la questione dei diritti con battaglie partite bene e finite male a causa del ridicolo politicamente corretto. Quindi venne l’immigrazione incontrollata: ha messo in fuga gli ultimi elettori. Il sussulto finale è stato per l’Unione europea, istituzione che scalda solo i cuori di chi la maledice. Ora tocca all’ambientalismo apocalittico. Ne volete una piccola ma significativa testimonianza: gli attivisti hanno invaso il red carpet della Mostra del cinema di Venezia per protestare contro la scarsa coscienza ambientalista della Mostra e contro le grandi navi in laguna. Sul secondo punto niente da dire: ha ragione chi protesta, a mio avviso. Il primo è comico: la Mostra fa la Mostra, e piuttosto bene. C’è però una cosa. Le facce sul red carpet sono ancora quelle dei soliti centri sociali, sempre abili a capire cosa “tira” a sinistra e in questo caso utili idioti del mercato che dicono di contestare. Prima di proseguire, due precisazioni indispensabili. 1. Un uomo di destra non può non avere una coscienza ecologista. Si deve conservare, in primo luogo, la natura. 2. Non c’è alcun complotto. L’approccio apocalittico è gradito ad ambienti industriali e politici che agiscono in piena luce. Non è sicuro che gli interessi di questi ambienti coincidano con quelli delle masse in preda alla crisi economica. La teoria è la seguente: ciascuno deve dare il suo contributo ma il riscaldamento globale si vince soltanto con l’intervento della politica. Tocca alla politica ridurre le emissioni, incentivare la green economy, rinunciare alla crescita, scegliere lo sviluppo sostenibile e infine creare una società più giusta fondata sull’uguaglianza, non solo nell’opulento Occidente o in Cina, ma anche e soprattutto nei Paesi che cercano di uscire dalla arretratezza. Voilà, il socialismo in salsa globalista è servito. La politica ovviamente brinda. Toccherà a chi governa chiedere sacrifici e redistribuire la ricchezza agitando lo spauracchio dell’apocalisse imminente. Anche le aziende stappano lo spumante: toccherà a loro rifornirci di nuove automobili, ad esempio, usufruendo magari di incentivi fiscali per convertire la produzione (e i consumi) in senso green. Nelle speranze di politici e capitani d’industria, questo cambiamento fornirà la spinta per uscire dalla grave crisi economica che incombe sul mondo occidentale dal 2008. Le istituzioni sovranazionali esultano e sperano di acquisire finalmente un ruolo incisivo mangiandosi altre fette succulente di sovranità degli Stati tradizionali. Alessandro Gnocchi, 8 settembre 2019

Insulti sessisti a Greta Thunberg, il Grosseto licenzia l'allenatore dei giovanissimi. Aveva scritto "Questa troia, può andare a battere". La squadra lo allontana: "Comportamento non consono alla linea tracciata dalla società che punta sui valori morali prima ancora che sui valori tecnici". La Repubblica il 30 settembre 2019. Un messaggio vergognoso, non commentabile e da denunciare e condannare con forza. Come ha giustamente deciso di fare il Grosseto calcio, che ha cacciato Tommaso Casalini, allenatore della squadra dei giovanissimi, perché su Facebook aveva insultato Greta Thunberg: "Questa troia! 16 anni, può andare a battere. L’età l’ha». Una frase che non ha bisogno di spiegazioni. E l’Unione Sportiva Grosseto 1912 ha preso la sua decisione: "Abbiamo licenziato Casalini per un comportamento non consono alla linea tracciata dalla società che punta sui valori morali prima ancora che sui valori tecnici.Vista la gravità di quanto affermato dal signor Casalini, la società ha provveduto a sollevare lo stesso dall’incarico con effetto immediato, dissociandosi completamente dalle affermazioni lette su Facebook, riservandosi di procedere per vie legali per tutelare la propria immagine nelle sedi opportune". La denuncia delle affermazioni sessiste era stata fatta pubblicamente da Selvaggia Lucarelli. L'allenatore - dopo essere stato esonorato - ha chiesto scusa: "Desidero chiedere pubblicamente scusa a tutti, a cominciare da Greta Thunberg, per il post che ho scritto su Facebook la scorsa settimana. Un’esternazione scritta in un mio momento di rabbia contro la giovane attivista svedese con un linguaggio assolutamente sbagliato e con un contenuto del quale mi pento. Non ho mai pensato né potrei pensare davvero certe cose, a maggior ragione di una minorenne. Tuttavia, quando uno sbaglia è giusto che si assuma la responsabilità dei propri errori, pertanto accetto di buon grado la decisione".

Greta Thunberg, il sondaggio sulle abitudini degli italiani: ambientalisti ma soltanto a parole. Libero Quotidiano i 29 Settembre 2019. Un sondaggio amarissimo, per Greta Thunberg. Già, perché gli italiani sono ambientalisti soltanto a parole. È quanto emerge dalla rivelazione firmata da Antonio Noto e pubblicato su Il Giorno di domenica 29 settembre. Tutti in piazza, soprattutto gli studenti, la maggior parte riconosce l'emergenza climatica ma nessuno ha intenzione di fare nulla. Si parte da un dato: secondo il 63% del campione la questione ambientale è sì un'emergenza. Ma è quando si chiede allo stesso campione se è disposto a fare sacrifici le risposte, per Greta, sono una metaforica mazzata. Il 77% "confessa" di usare plastica monouso; il 64% afferma di non voler ridurre saponi e detersivi; il 59% non ha intenzione di ridurre l'uso dell'automobile; il 58% non intende sacrificare l'aria condizionata; infine solo il 53% afferma di fare sempre la raccolta differenziata. Italiani ambientalisti solo a parole. E una indiretta conferma arriva anche dal fatto che il 58% del campione interpellato da Noto ha un parere "positivo" su Greta, solo i 27% dice di averne uno "negativo". Già, ma dalle parole ai fatti...

FRANCO BATTAGLIA HA DETTO IN TV CHE GRETA È «VITTIMA DEI MERCANTI DI BAMBINI». Gianmichele Laino per Giornalettismo il il 30 settembre 2019. Fermi tutti. C’è un nuovo modo per attaccare Greta Thunberg. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Abbiamo letto post in cui viene accusata di essere pagata da Soros (ma chi non lo è di questi tempi?), abbiamo visto card in cui veniva definita ‘rettiliana’, abbiamo dovuto leggere attacchi sessisti nei suoi confronti, abbiamo persino fatto diventare virale un post di Radio Maria in cui si lanciava un monito nei confronti delle nuove generazioni. Ieri, 28 settembre 2019, a Otto e Mezzo di Lilli Gruber, abbiamo ascoltato anche le opinioni di Franco Battaglia contro Greta. Franco Battaglia insegna Chimica Fisica all’università di Modena. È uno di quegli scienziati italiani che tende a valutare sotto un’altra prospettiva – rispetto a quella proposta dai movimenti per i Fridays For Future – le l’argomento del cambiamento climatico. Tuttavia, ieri non si è limitato a portare avanti le sue teorie in questo senso. Ha condotto un attacco personale nei confronti di Greta Thunberg e degli adulti che la stanno aiutando a gestire le sue comunicazioni con il resto del mondo: «Penso che Greta sia una vittima di mercanti di bambini – ha affermato -. Si sta protestando per una cosa di cui non conoscono i termini, visto che dicono che il clima collassa per la CO2 emessa dall’uomo». Insomma, Franco Battaglia contro Greta sembra stia ricalcando le posizioni della Rivista Tempi, riprese anche da Radio Maria in un suo post su Facebook: «Così la giovane ambientalista svedese viene mandata al massacro per scopi di speculazione economica e politica dagli adulti che dovrebbero proteggerla». Per il professore intervistato da Lilli Gruber ci sarebbe addirittura lo sfruttamento minorile da parte dei mercanti di bambini per costruire il personaggio. Contro la posizione di Franco Battaglia è intervenuta anche la ministra Elena Bonetti, attraverso un tweet che riportava in video le dichiarazioni del professore dell’Università di Modena: "Certo, ognuno è libero di pensare ciò che vuole. Ma parlare di @GretaThunberg, di una sedicenne che ha animato un movimento di giovani in tutto il mondo per la salvaguardia del pianeta, come di una "vittima di mercanti di bambini" è grave". Insomma, una posizione ufficiale del governo contro queste dichiarazioni, arrivata direttamente dal ministro per le Pari Opportunità e per la Famiglia. Del resto, è inevitabile sottolineare la gravità di un’affermazione come questa.

Otto e Mezzo, Maria Giovanna Maglie attacca: "Il ministro Bonetti censure le critiche a Greta Thunberg". Libero Quotidiano il 29 Settembre 2019. A tenere banco oggi, domenica 29 settembre, le parole del climatologo Franco Battaglia a Otto e Mezzo, il programma di Lilli Gruber in onda su La7, la puntata in questione è quella del sabato precedente. Secondo Battaglia, Greta Thunberg è "vittima di mercanti di bambini". Parole che hanno scatenato il ministro Elena Bonetti, che ha attaccato Battaglia su Twitter: "Certo, ognuno è libero di pensare ciò che vuole. Ma parlare di Greta Thunberg, di una sedicenne che ha animato un movimento di giovani in tutto il mondo per la salvaguardia del pianeta, come di una vittima di mercanti di bambini è grave", ha scritto il ministro. Parole che hanno attirato la replica, durissima, di Maria Giovanna Maglie, sempre su Twitter. "Grande Franco Battaglia - premette -. Grave, gravissimo che un ministro censuri la libertà di espressione e opinione, peraltro di uno scienziato. Pari opportunità solo se la pensi come lei?". Una Maglie piuttosto definitiva.

Antonio Socci contro i fan di Greta Thunberg: "Ecco chi stanno servendo". Libero Quotidiano il 29 Settembre 2019.  Ennio Flaiano diceva che «i giovani hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui». Parole che tornano alla mente vedendo le immagini di migliaia di ragazzi - per così dire - «chiamati alle armi» venerdì ed incensati dagli adulti, dai padroni del vapore e del pensiero, da tutto il sistema scolastico e mediatico (compresi giornali di proprietà «automobilistiche» che hanno appena finito di esultare per la doppietta della Ferrari in Formula 1). Scesi in piazza a far finta di protestare contro quegli stessi adulti che li hanno «convocati», contro i padroni del vapore, contro il sistema che li celebra e li esalta. E per una questione su cui nessuno di loro saprebbe fornire un argomento scientifico, dal momento che uno scienziato del clima come Franco Prodi afferma che le circolanti «previsioni allarmistiche non sono credibili» (cita autorevoli documenti scientifici dove si conclude che «la natura, non l' attività dell' uomo, governa il clima»). Questi ragazzi che avrebbero bisogno di padri trovano invece tanti padroni del pensiero che li «imboccano» con la tiritera da ripetere. È stato rubato loro il futuro? Sì. Ma non dalla CO2 a torto confusa con l' inquinamento e con la plastica (per avere «emissioni zero» di CO2 peraltro bisognerebbe non respirare più). A rubare loro il futuro è stata - almeno in Europa e specialmente in Italia - la fallimentare via imboccata quasi 30 fa con Maastricht e tutto il resto, per cui abbiamo accantonato la centralità del lavoro prescritta dalla nostra Costituzione e abbiamo adottato la devastante dottrina renana incentrata sulla lotta all' inflazione e sul rigore dei bilanci. Chi ha rubato il futuro? - Non solo hanno sottratto la sovranità ai popoli (togliendo agli Stati una delle loro principali prerogative: la sovranità monetaria), ma hanno privato questa generazione di giovani della possibilità di trovare un lavoro subito dopo gli studi e di farsi una famiglia e una vita. È una generazione sacrificata sull' altare dell' euro e dei parametri di Maastricht, con un livello di disoccupazione e una precarietà sottopagata mai vista e che prosegue oltre i trent' anni, quando tutte le altre generazioni (a partire dalla mia) avevano già costruito le loro carriere professionali e le loro famiglie. Non sanno, questi sfortunati ragazzi, che il loro «sciopero» servirà solo a imporci delle tasse sedicenti verdi e far fare un po' di affari a quelle multinazionali che investiranno nel green. Del resto se fossero realizzate le idee antisviluppo dei catastrofisti del clima avremmo il collasso dell' economia cosicché il loro futuro lavorativo davvero sparirebbe del tutto. Quindi scioperano contro se stessi. Oltretutto si sostiene pure che per «salvare il pianeta» bisogna fare meno figli. Così si suggerisce a questi ragazzi pure di negare a se stessi il futuro più naturale, quello dei figli. Peraltro in un' Italia e in un' Europa che sono già in crollo demografico e che hanno imboccato la via dell' estinzione. Gli adulti che li hanno «convocati» in piazza o che li applaudono freneticamente appartengono in buona parte a quella generazione che - alla loro età - ha creduto fanaticamente nelle più sanguinarie utopie rivoluzionarie e ha inneggiato a tirannie orrende. Nonostante un tale abbaglio lorsignori hanno continuato tranquillamente a sdottoreggiare: si sono sistemati al potere, senza mai fare vera autocritica su quella loro stagione di cui hanno conservato l' arroganza, l' intolleranza e la propensione a indottrinare. Soprattutto i giovani. Con disinvoltura hanno fatto e fanno le più clamorose capriole ideologiche. Spesso dal comunismo più truce sono passati, anni dopo, ad adorare la nuova divinità planetaria, quella dei Mercati (e l' Europa dei parametri di Maastricht) al cui verdetto sottopongono i governi e i popoli. E dopo aver professato nella loro vita adulta il credo alquanto fanatico della modernità, abbracciano senza problemi un ecologismo catastrofista che di per sé, preso in parola, rappresenterebbe la condanna a morte dello sviluppo e del progresso che finora ci hanno decantato. Alcuni vivono queste metamorfosi con opportunistico disincanto o con furbizia da paraculi, altri continuando a secernere odio ideologico che tracima per chiunque osi contraddirli (magari accusando di odio l' avversario). Si ricorre perfino alla «reductio ad Hitlerum» per criminalizzare chi ha idee diverse. Basta imporre a tutti la nuova religione a cui oggi dobbiamo inchinarci: quella del «politically correct», che comprende in sé il particolare fanatismo ecologista. Salvatevi prima di salvare - I nostri poveri figli non meritano questi padroni del pensiero. Avrebbero diritto semmai ad avere padri, a scoprire perché sono al mondo prima di aver la pretesa di salvare il mondo. Avrebbero diritto - secondo me - di conoscere il Padre che rende liberi. Sono degli Amleto a cui è stato «tolto» anzitutto il padre, cioè la storia, che ti propone e ti fa scoprire il senso della vita. Uno che anni fa è stato un vero padre per migliaia di giovani, don Luigi Giussani, diceva a una precedente generazione: «Se voglio tagliare il rapporto con Dio rimane qualcosa di più grande di me che è solo il potere nel senso materiale del termine. E se aboliamo il rapporto con Cristo ci rendiamo schiavi dell' intellettuale di turno che è servo del potere e a cui il potere dà fama e in base ai cui dettati crea la mentalità della gente, con tutti gli strumenti che ha in mano. Così viviamo in una grande era di schiavi, di alienati mentali. È per questo che la caratteristica della gioventù di questi ultimissimi anni è quella di adottare facilmente, come unico sistema di vita, l' adesione alla propria istintività, la posizione radicale, il suo istinto, la propria reattività». Unica compagna di viaggio: la solitudine. Se il suicidio è la seconda causa di morte - dopo gli incidenti stradali - fra i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, significa che prima di salvare la terra (con teorie e mezzi dubbi) dovremmo salvare i nostri figli. Antonio Socci

“Chi paga Greta” è l’alibi dei dietrologi. Ma il flop delle classi dirigenti è agli atti. Alessandro Costa il 4 ottobre 2019 su Il Dubbio. Cacciari suggerisce agli studenti seminari autogestiti sul clima: soluzione jurassica. Impariamo piuttosto ad ascoltarli. Mi è apparso abbastanza strano che un importante filosofo, un intellettuale come Massimo Cacciari che ho sempre stimato moltissimo, abbia formulato forti critiche a Greta Thumberg e ai fridays for future, che hanno mobilitato milioni di studenti in tutto il mondo nell’obiettivo di difendere il pianeta che stiamo distruggendo, e che è l’unico che abbiamo. I principali argomenti critici non sono soltanto di Cacciari. Anzi molti di essi accomunano stranamente il filosofo ai partiti e movimenti nazionalisti ( a mio avviso sovranisti è una definizione truccata che vorrebbe evitare di spaventare, rievocando orrori passati). Cacciari, e molti altri dietrologi ( in buona o malafede) affermano, o sospettano che dietro la ragazzina svedese ci siano persone o centri di potere che la utilizzano come strumento di loro imprecisati interessi politici o economici. E ovviamente si domandano chi paga. Ma dietro ogni fenomeno o campagna di comunicazione e proselitismo, dietro ogni leader ideologico e politico, c’è sempre qualcuno che lo aiuta, lo sostiene, e paga. I missionari in Africa costruiscono scuole e villaggi, e, ovviamente, qualcuno paga. Le campagne Facebook o Twitter scatenate da poteri politici o ideologici per influenzare le campagne politiche, in Patria o all’estero, sono sostenute da centri di potere, che ne affrontano i costi. Le campagne di comunicazione dei nazionalisti sui migranti o sulla legittima difesa hanno bisogno di sponsor e di soldi, e quindi anche qui ci sono molte dietrologie da sviluppare. Sempre dietro ogni azione umana ci sono attori ed interessi diversi. Mi sembra quindi che, mai come in questo caso, conta il risultato. Chiunque sostenga, in qualunque modo la campagna di Greta è riuscito a parlare a milioni di esseri umani delle sorti del loro pianeta: possiamo solo ringraziarlo, anche se il suo obiettivo fosse aumentare le vendite di prodotti riciclati. La giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione Europea si è fondata per oltre cinquant’anni sulla difesa dell’effetto utile, dei principi e delle regole del diritto europeo : e i fridays for future; sono per l’appunto l’effetto utile del lavoro di Greta e di coloro che la sostengono e la finanziano. Il secondo argomento è ancor più contraddittorio. I ragazzi non dovrebbero marinare la scuola, ma essere informati nelle loro classi da scienziati, politici e professori sul surriscaldamento globale e le sue conseguenze. Ma come possono crederci i ragazzi? Tutte queste persone o non si sono occupate finora di lanciare campagne informative per coinvolgere le comunità, oppure le loro campagne si sono rivelate del tutto inefficaci. Sono proprio questi fallimenti, questa incapacità dei leader e delle classi dirigenti, a mostrarci quanto ci fosse bisogno di Greta e di altri attivisti giovani come lei. Ma, caro Cacciari, è il suggerimento agli studenti di organizzare seminari autogestiti; che mi ha commosso e rattristato di più. Caro professore, siamo nel 2019, quasi cinquant’anni dopo il 1968. Quella era l’epoca dei seminari autogestiti: oggi i giovani non capirebbero neppure di che cosa si parla, e non perché sono più stupidi o più ignoranti di quelli del ’ 68. Loro comunicano con Facebook, con Twitter: non c’è niente da rimproverarsi nell’essere vecchi, ma se non siamo capaci di capirli, questi nostri giovani, possiamo almeno provare ad ascoltarli. Non c’è certo bisogno di confrontarli con quei piccoli intellettuali rivoluzionari, un pò velleitari, che eravamo noi, e che abbiamo conseguito i fantastici risultati dei quali ci rimprovera Greta. Quindi, per carità, non suggeriamo che a parlare con loro siano quelle classi dirigenti insensibili e incapaci, che hanno avuto bisogno di una ragazzina adolescente per fare quello che avrebbero dovuto fare negli ultimi cinquant’anni.

COME SMONTARE GRETA CON NUMERI, SCIENZA E ANALISI POLITICA. (Econopoly.ilsole24ore.com il 21 aprile 2019). L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e vice presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Il fenomeno Greta Thunberg, la giovane attivista svedese finita al centro del dibattito mediatico a causa del suo impegno a favore della lotta al cambiamento climatico, dice molto sulla stagione politica che stanno vivendo le democrazie occidentali. Dopo essere balzata agli onori della cronaca internazionale a seguito della partecipazione alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2018 (COP24) e al Forum economico mondiale di Davos, la sedicenne è finita al centro di un turbinio mediatico fatto di insulti e insinuazioni, che è arrivato a nutrirsi persino della sindrome di Asperger, da cui la giovane è affetta. Rimanere lucidi di fronte a tanta ferocia, reprimere il desiderio di restituire al mittente l’odio riversato sull’adolescente è difficile ma necessario, per interrompere il circolo vizioso che alimenta la violenza e l’inconcludenza del dibattito pubblico. Innanzitutto, bisogna fare una premessa. Il fenomeno Greta Thunberg si compone di due facce. Da una parte un’adolescente fuori dal comune, con un senso di responsabilità e una determinazione sconosciuti a gran parte dei suoi coetanei, con una personalità in corso di sviluppo e dei valori ammirevoli per la sua età. Dall’altra, il mondo degli adulti in ebollizione, alla ricerca di risposte semplici e comode, schiavo della paura e senza speranza, cinico e narcisista, affamato di contenuti ed eroi da manipolare o strumentalizzare. Ovviamente, riuscire a scindere e analizzare separatamente Greta e l’insieme di input – culturali, familiari, relazioni, sociali, politici – che hanno contribuito, direttamente o indirettamente, a strutturare il suo messaggio è impossibile e probabilmente insensato. Anche quest’analisi, quindi, si adeguerà al dibattito pubblico e tratterà Greta come il simbolo del suo messaggio. Nella piena, e quindi colpevole, consapevolezza che una sedicenne non dovrebbe essere caricata di questo peso.

Detto questo, vale la pena soffermarsi un attimo sulla cornice. Cinquanta anni fa, quando a parlare dei rischi del riscaldamento globale di origine antropica era un pugno di scienziati poco meno che eretici per la comunità scientifica, le parole della giovane attivista svedese avrebbero avuto un valore rivoluzionario. Oggi, però, la situazione è diversa. Il tema è entrato stabilmente nel dibattito pubblico; le evidenze scientifiche sull’origine antropogenica del fenomeno appaiono oramai schiaccianti; la comunità scientifica ha elaborato modelli di rischio sempre più dettagliati; le istituzioni hanno elaborato i primi piani di contrasto al fenomeno. Le parole della giovane attivista, perciò, diventano un paravento dietro cui nascondere un groviglio di interessi contrapposti e ipocrisia che è più facile ignorare che dipanare. Le politiche di contenimento della temperatura, tanto per cominciare, hanno un costo: a seconda delle stime e degli scenari, tra 50.000 e 120.000 miliardi di dollari.

Chi paga?

La domanda può essere declinata sotto diverse prospettive.

Pagano gli Stati, che inevitabilmente sono i principali portatori d’interesse, o paga il mercato, accusato da più parti di aver alimentato irresponsabilmente il fenomeno?

Pagano le economie avanzate, che negli ultimi 150 anni hanno prodotto l’80% delle emissioni di natura antropica o pagano le economie in via di sviluppo, che trainano le emissioni attuali?

Pagano i consumatori, che consumano, o pagano le imprese, che producono?

Ciascuna opzione comporta, a cascata, ripercussioni economiche e sociali che ne determinano la sostenibilità politica. Le presidenziali USA del 2016 offrono un interessante caso di studio. Durante i due mandati Obama, gli Stati Uniti sono diventati il capofila della lotta al cambiamento climatico. Le politiche dell’Amministrazione hanno prodotto un taglio strutturale delle emissioni di CO2 di quasi un miliardo di tonnellate l’anno. Il governo federale è riuscito a centrare un obiettivo così ambizioso incentivando la transizione nel settore termoelettrico da un combustibile fossile ad alto contenuto di CO2 (il carbone) a uno con minore contenuto di anidride carbonica (il gas naturale), investendo nella riqualificazione industriale e nelle reti intelligenti. Un approccio progressivo, concettualmente molto distante dai richiami della giovane attivista a “lasciare i combustibili fossili sotto terra” che, però, ha permesso all’Amministrazione di far convergere sulle sue posizioni il mondo accademico, l’industria high-tech, i mezzi d’informazione; poli di attrazione che hanno permesso a Obama di superare l’ostilità dei Repubblicani. Tuttavia, i paletti imposti dall’Enviromental Protection Agency (EPA) hanno accentuato la deindustrializzazione del tessuto produttivo americano, in particolare in quelle regioni in cui l’industria pesante è il perno dell’economia locale. La chiusura degli impianti ha provocato un’emorragia di posti di lavoro, particolarmente marcata nel settore minerario, in quello siderurgico e nella manifattura energy-intensive, che a sua volta ha alimentato lo spopolamento e il degrado sociale. Dietro alle statistiche sbandierate dall’Amministrazione – che fotografano un saldo positivo in termini di reddito e posti di lavoro nel percorso di riduzione delle emissioni e di riconversione industriale – si nasconde un quadro più complesso e frastagliato, fatto di vincitori e vinti. Nelle elezioni presidenziali del 2016 il malcontento degli sconfitti, cementato dall’attività di lobbying degli operatori del settore, ha consegnato a Trump le chiavi della Rust Belt, il cuore industriale degli USA e quindi di sei stati cruciali per la corsa alla presidenza: Pennsylvania, Ohio, Michigan, Indiana, Wisconsin e Iowa. Gli elettori non hanno premiato il tycoon perché ne condividono necessariamente le posizioni sul cambiamento climatico (i sondaggi registrano, infatti, una crescente consapevolezza dei rischi nell’elettorato repubblicano) ma perché nella loro scala personale c’erano priorità più urgenti della lotta al riscaldamento globale, che i Democratici non sono riusciti a intercettare. Se il caso americano è già di per sé eloquente, quello francese è illuminante. Il Movimento dei Gilet Gialli, infatti, è nato come reazione all’aumento del costo dei carburanti, deciso dalle autorità francesi nel quadro della decarbonizzazione dell’economia nazionale. Anche in questo caso, la reazione popolare non è stata innescata da un rifiuto ideologico nei confronti del cambiamento climatico ma dalle ricadute economiche e sociali delle misure adottate dalle autorità francesi per combatterlo. Nel corso del 2018 il prezzo del diesel in Francia è aumentato del 18% e nuovi aumenti sono previsti per il 2019, a dispetto delle fluttuazioni del prezzo del barile. I rincari hanno colpito in particolare i pendolari e l’economia agricola che, a causa della crescente meccanizzazione, è sempre più dipendente dal gasolio agricolo. Quindi, ancora una volta, un’onda che monta dal basso. Nelle piazze francesi, però, al contrario che nei distretti industriali americani, il tema dell’aumento delle accise si è immediatamente fuso con altri temi: il contrasto alle disuguaglianze economiche, la riaffermazione della sovranità popolare, l’aumento dei salari minimi. Tematiche che, al netto di semplificazioni populiste o di eventuali influenze esterne, hanno una chiara matrice socialista. Il caso americano, e ancor più quello francese, dimostrano perciò come la lotta al cambiamento climatico rischi di venire assimilata a quell’attacco concentrico alle classi subalterne di cui, quantomeno nell’immaginario popolare, già fanno parte la globalizzazione, la gestione di fenomeni migratori, l’economia della conoscenza. E che, quindi, precipiti al centro del dibattito politico, quando sarebbe opportuno che ne rimanesse al di sopra. Tutto questo a Greta non interessa. La sedicenne preferisce concentrarsi su “cosa deve essere fatto anziché su cosa sia politicamente meglio fare”. Quella per il consenso, però, non è una partita sporca come lascia intendere la giovane attivista ma un passaggio fondamentale nel processo di decision making all’interno di una società democratica. Non temere l’impopolarità vuol dire non essere disposti a mettere in discussione il proprio punto di vista per raggiungere un fine superiore. Significa mettere in cima alla scala delle priorità sé stessi, le proprie idee e convinzioni, piuttosto che la soluzione al problema. Questo aspetto aggiunge una sfumatura sgradevole all’intransigenza di Greta. La sedicenne – troppo giovane per aver acquisito una piena consapevolezza della propria identità sociale – è nata in uno dei Paesi più ricchi del mondo ed è figlia della grande borghesia svedese: la madre è una cantante lirica e il padre, attore, proviene da una famiglia di attori e registi. Difficile, quindi, non interpretare il distacco dell’adolescente come una reale distanza dai bisogni e dalle priorità delle classi popolari. Al di là delle intenzioni e della retorica, Greta si fa portatrice di un’ideologia reazionaria e paternalistica che trasforma prospettive universali come la solidarietà, l’equità o la giustizia in patenti che i migliori attribuiscono di volta in volta agli argomenti che ritengono degni. Questa non è l’unica distorsione inquietante nel messaggio di Greta. La giovane, infatti, non affronta mai il tema della giustizia sociale nei suoi interventi ma fa frequenti riferimenti alla distribuzione delle risorse su scala globale, rilanciando un tema caro agli intellettuali europei: il terzomondismo. Tuttavia, quando l’adolescente ricorda che una piccola minoranza della popolazione mondiale consuma la larga maggioranza delle risorse, dimentica che oramai più del 60% delle emissioni di gas climalteranti (a effetto serra, che aumentano il riscaldamento globale) di natura antropica proviene da economie emergenti. Tralascia che, mentre UE e USA tagliano le emissioni di CO2 da almeno un decennio, la Cina raggiungerà, auspicabilmente, il picco entro il 2030 e l’India, presumibilmente, durante il decennio successivo. Sovrapporre il tema dello sfruttamento delle risorse a quello del riscaldamento globale permette a Greta di evitare un nodo fondamentale ma al contempo sdrucciolevole del problema: il ruolo dei Paesi in via di sviluppo. Se è indiscutibile che, in prospettiva storica, i Paesi in via di sviluppo sono responsabili di una quota limitata delle emissioni di natura antropica, è altrettanto indiscutibile che oggi sono il motore del riscaldamento globale. Di conseguenza, anche se le economie avanzate azzerassero le loro emissioni entro il 2030 – come auspica Greta, incurante o ignara delle ripercussioni sociali – i target per il contenimento dell’aumento della temperatura entro i 2° non sarebbero raggiunti. Auspicare che le economie emergenti taglino le emissioni di gas climalteranti, però, vuol dire auspicare che si blocchi il meccanismo attraverso cui centinaia di milioni di persone stanno fuggendo dalla povertà. Con conseguenze umanitarie, sociali e politiche potenzialmente catastrofiche. Meglio aggirare il problema rifugiandosi in uno stereotipo che da cinquant’anni ha una grande influenza sul mondo intellettuale occidentale: “La razza bianca è il cancro della storia umana; è la razza bianca ed essa sola – con le sue ideologie e le sue invenzioni – che sradica civiltà autonome ovunque proliferino, che ha sconvolto l’equilibrio ambientale del pianeta, e adesso minaccia l’esistenza stessa della vita.” (Susan Sontag). Ancora una volta, perciò, l’ideologia ha la meglio sulla realtà, la ricerca della purificazione sulla ricerca di una soluzione. Una volta scomposto e analizzato, il messaggio di Greta si inquadra perfettamente in quella visione religiosa del Capitalismo, descritta da Walter Benjamin (Il Capitalismo come religione, 1921) e profondamente radicata nella cultura protestante; si trasforma in una dottrina volta alla mera colpevolizzazione piuttosto che alla riparazione del danno e quindi all’espiazione della colpa. Questo sentimento bigotto, che attraversa ampi settori del mondo intellettuale europeo, ha già condannato i programmi di contenimento delle emissioni al fallimento. La battaglia che combatte Greta Thunberg è già persa. Non per le difficoltà finanziarie dell’impresa ma perché i pochi anni che rimangono prima del cosiddetto punto di non ritorno sono troppo pochi per elaborare una sintesi politica, un sistema di pesi e contrappesi adeguato a sostenere lo sforzo culturale, economico, sociale.

L’umanità, quindi, è spacciata?

No. Anche sotto questo aspetto, infatti, la retorica della giovane attivista è fuorviante. Il riscaldamento globale, infatti, non è solamente un fenomeno graduale ma anche reversibile. Un mese prima che Greta Thunberg pronunciasse la sua invettiva infuocata al TED Talk di Stoccolma, in un altro TED Talk (We the Future), Chad Frischmann illustrava un altro approccio al problema, rigenerativo: invertire il ciclo alla base del cambiamento climatico, catturare la CO2 dall’atmosfera e stoccarla nuovamente nelle viscere del pianeta o nell’ecosistema. Chad Frischmann, esperto di fama mondiale, non è una voce isolata nella comunità scientifica: figure molto autorevoli, come il glaciologo di Cambridge Peter Wadhams, Bill Gates, filantropo e innovatore, o David Keith, eminente professore di fisica applicata a Harvard, hanno scommesso sulla cattura diretta in atmosfera della CO2; centinaia di ricercatori stanno producendo letteratura scientifica e studi di fattibilità su tecnologie (chimica avanzata, nanotecnologia, biotecnologie) e infrastrutture; decine di imprese, dipartimenti universitari, startup e organizzazioni no-profit hanno sviluppato soluzioni sperimentali e impianti pilota. La cattura diretta della CO2 (Direct Air Capture) non è una panacea, non può comunque prescindere da un piano di contenimento delle emissioni, deve essere alimentata con fonti rinnovabili e, almeno per il momento, è un’opzione costosa. Però, dimostra che c’è un’alternativa all’oltranzismo di Greta, un nuovo approccio diventato rapidamente egemone tra gli esperti di settore. Oramai, quantomeno in ambito specialistico, ci si è convinti che un problema con così tanti ordini di complessità possa essere affrontato solo con una strategia integrata, mettendo a sistema tutti gli strumenti disponibili. Quindi, attraverso un graduale potenziamento della capacità nucleare globale, agevolando la transizione dal carbone al gas naturale, investendo sull’idrogeno, catturando la CO2 al momento dell’emissione o direttamente in atmosfera, riprogettando le reti di trasmissione e distribuzione, aumentando la capacità di assorbimento della biosfera, esplorando le opportunità che offrono l’ingegneria climatica e la geoingegneria. E, ovviamente, grazie a un programma di contenimento delle emissioni che, però, prenderà la forma di un percorso di efficientamento – economico, energetico e tecnologico – piuttosto che di rinunce. Una nuova Rivoluzione Industriale, perciò, sospinta dall’opportunità piuttosto che dal bisogno. Questo nuovo approccio, plasmato dall’urgenza e quindi improntato al pragmatismo ha, però, una grave pecca agli occhi dell’ambientalismo radicale: non è educativo. Non indirizza necessariamente i consumatori verso modelli di consumo più sostenibili, non implica uno sfruttamento più oculato delle risorse, non favorisce lo sviluppo di un’economia circolare, non riduce l’impatto ambientale umano. Non racchiude in sé un’ideologia ma semplicemente una soluzione al problema. E per questo è un compromesso inaccettabile.

Sulla testa di chi, però, si combatte questa battaglia?

Sulla testa dei contadini e degli allevatori ciadiani e nigerini, che vedono il lago Chad scomparire rapidamente e lasciare il posto ai conflitti armati; sulla testa di milioni di bengalesi, indiani, indonesiani, laotiani, cambogiani, thailandesi, cingalesi costretti a fronteggiare monsoni sempre più violenti e distruttivi; sulla testa delle comunità artiche, che assistono impotenti alla fine del loro mondo. Individui che, almeno nel breve/medio periodo, difficilmente farebbero in tempo a sperimentare i benefici di modelli di consumo più sostenibili o di un’economia circolare, ma che rischiano di vedere le loro vite spazzate via entro pochi anni dalla siccità, dalla desertificazione, dalle alluvioni, dall’innalzamento del livello del mare, dallo scioglimento dei ghiacci. Inquadrato con precisione, quindi, il fenomeno Greta Thunberg trascende la lotta al cambiamento climatico e si inserisce perfettamente nel contesto sociopolitico del momento. Si trasforma in un ennesimo fattore di polarizzazione, nell’ennesima narrativa emozionale destinata a impastare sentimenti ingenui ma genuini con cinismo e ipocrisia. E dimostra chiaramente che, lungi dall’essere un virus populista, il tribalismo è “lo Zeitgeist di questi tempi” (Walter Quattrociocchi, Il mondo di Internet diviso in tribù, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019).

Nicola Porro e il riscaldamento climatico: "Ecco il libro che smonta tutte le balle". Libero Quotidiano l'8 Settembre 2019. Nella sua rubrica su Il Giornale Nicola Porro tesse le lodi di un libro che fa a pezzi tutte le teorie ambientaliste e le leggende metropolitane. E' scritto dal prof. Ernesto Pedrocchi, professore emerito di Termodinamica Applicata e di Energetica al Politecnico di Milano. Da diversi anni il professore milanese studia il problema dei cambiamenti climatici e ha recentemente pubblicato un volumetto sul tema: Il Clima Globale Cambia. Quanta Colpa ha l’Uomo? (2019, Esculapio Editore, pp. 122, €18). La risposta è: poco o nulla. Porro nota che Pedrocchi era uno degli otto scienziati promotori che lo scorso giugno hanno inviato ai Presidenti della Repubblica, della Camera dei Deputati, del Senato e del Consiglio dei Ministri, una Petizione che sostiene che quella del riscaldamento globale antropico (Rga) è, per farla breve, una leggenda metropolitana.  Anche se in Italia quel documento è stato ignorato, sono stati altri cento gli scienziati che in tutto il mondo hanno aderito. 

Lo scorso giugno, promotori otto scienziati italiani di prim’ordine, fu inviata ai Presidenti della Repubblica, della Camera dei Deputati, del Senato e del Consiglio dei Ministri, una Petizione che sostiene che quella del riscaldamento globale antropico (Rga) è, per farla breve, una leggenda metropolitana. La Petizione fu inviata sottoscritta da altri quasi 100 scienziati, tutti o di eccellenza a cui si sono aggiunti altri 100 scienziati in tutto il mondo. In Italia è stata totalmente ignorata. Uno dei 200 sottoscrittori la Petizione è il prof. Ernesto Pedrocchi, professore [...]

IL CLIMA GLOBALE CAMBIA. QUANTA COLPA HA L'UOMO? Autore: Ernesto Pedrocchi

Presentazione. Lo scopo di questo libro sul problema dei cambiamenti del clima globale è quello di far parlare i dati sperimentali sul clima del passato remoto, storico e recente e farli conoscere agli interessati. Oggi si parla molto di clima senza che ci sia stata sufficiente diffusione di dati empirici facilmente reperibili in bibliografia che permettono di sviluppare un approccio essenzialmente descrittivo che può aiutare a meglio conoscere la complessa e ancora poco conosciuta scienza del clima. A livello di divulgazione è invece in atto una specie di censura per avvalorare l’ipotesi della natura antropica del riscaldamento globale (“Antropogenic Global Warming” – AGW) come verità ufficiale non concedendo spazio ai tanti dubbi che pure ci sono e connotando un problema scientifico come un mito ideologico. Sono invece proprio i dubbi elementi essenziali per il progresso scientifico.

Autore. ERNESTO PEDROCCHI è stato professore di Termodinamica applicata e di Energetica al Politecnico di Milano per più di 50 anni. È stato promotore a livello nazionale della Laurea in Ingegneria Energetica. Ha ricoperto diverse cariche in varie istituzioni (Politecnico di Milano, Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero dell’ambiente, CNR, UE, Enea, Ansaldo Nucleare). Nel 2010 è stato nominato Professore Emerito. È autore dei seguenti libri: “Termodinamica tecnica” ed Città Studi (con M. Silvestri), “Introduzione alla trasmissione del calore” ed Città Studi (con M. Silvestri), “L’isolamento termico degli edifici“ ed. CLUP (con C. Bianchi e U. Bielli), Esercizi di trasmissione del calore” ed CUSL, “Introduzione all’energia nucleare” ed. PoliPress (con C. Lombardi), “Analisi exergetica” ed. PoliPress (con A. Galliani), “Energia, Sviluppo, Ambiente” ed Esculapio (con G. Alimonti).

La più grande menzogna dei nostri tempi ansiosi

Come ti smonto in 5 mosse il mito del riscaldamento globale. Nicola Porro il 18 settembre 2019. Lo scorso giugno, promotori otto scienziati italiani di prim’ordine, fu inviata ai Presidenti della Repubblica, della Camera dei Deputati, del Senato, del Consiglio dei Ministri, una Petizione che sostiene che quella del riscaldamento globale antropico (Rga) è, per farla breve, una leggenda metropolitana. La petizione fu inviata sottoscritta da altri quasi 100 scienziati, tutti o di eccellenza a cui si sono aggiunti altri 100 scienziati in tutto il mondo. In Italia è stata totalmente ignorata. Uno dei 200 sottoscrittori la Petizione è il prof. Ernesto Pedrocchi, professore emerito di Termodinamica Applicata e di Energetica al Politecnico di Milano. Da diversi anni il professore milanese studia il problema dei cambiamenti climatici e ha recentemente pubblicato un volumetto sul tema: Il Clima Globale Cambia. Quanta Colpa ha l’Uomo (2019, Esculapio Editore, pp. 122, 18€). Il saggio è diviso in due parti. Nella prima sono esposti i fatti nudi e crudi sul tema del clima, tutti supportati da rigoroso riferimento bibliografico. Nella seconda parte l’Autore divaga con proprie considerazioni personali. I fatti nudi e crudi sono i seguenti.

1. Il riscaldamento globale osservato negli anni 1950-2000 non è un caso anomalo, ma ci sono stati nel passato periodi anche più caldi e con variazioni anche più brusche.

2. La concentrazione atmosferica di CO2 ha cominciato a crescere prima che ci fossero significative emissioni antropiche e cioè in concomitanza col riscaldamento che è seguito al 1700.

3. Viceversa, gli aumenti di concentrazione di CO2 oltre i 300 ppm pre-industriali hanno irrilevante effetto sulla temperatura media globale: quella tra concentrazione di CO2 e temperatura, infatti, non è una relazione proporzionale ma, detta in gergo, va “a saturazione”.

4. Invece, l’aumento di CO2 ha avuto benefiche conseguenze sull’aumento della vegetazione globale, inclusa l’aumentata produttività agricola.

5. È vero che i ghiacciai si sono ritirati e il livello dei mari sta salendo al ritmo di 3 mm/anno, ma entrambi i fenomeni hanno cominciato dopo il 1700.

Forte di questi fatti – e altri che scoprirete leggendo il libro – l’Autore conclude che le emissioni antropiche di CO2 non hanno nulla a che vedere col clima del pianeta, che è governato da fenomeni naturali estranei al nostro controllo.

Delle numerose considerazioni personali dell’Autore da ricordare quella di Richard Lindzen, professore emerito di Fisica dell’Atmosfera al MIT e membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze Americana: “Le generazioni future si meraviglieranno attonite come agli inizi del XXI secolo il mondo sviluppato sia stato colpito dal panico isterico per un inesistente Rga”. Conclude, amareggiato Pedrocchi: “Il grave rischio di legare la lotta alla povertà alla lotta all’inesistente problema del Rga, comprometterà seriamente la lotta alla povertà”. Che Papa Francesco lo ascolti. Nicola Porro, Il Giornale 8 settembre 2019

L'aumento delle temperature indotto dall'uomo è un falso: non c'è nesso con le emissioni di Co2. Franco Battaglia, Martedì 01/12/2015, su Il Giornale. Quella del riscaldamento globale indotto dalle attività umane è la più grande menzogna del secolo scorso. Ripetuta tante di quelle volte che alla fine i più si sono convinti che è vera. Perfino Papa Bergoglio, che con la Sua ultima Enciclica ha dato prova di essere stato insidiato dal Diavolo. Non sarebbe la prima volta: chi sennò insidiò Urbano VIII quando costrinse Galileo a sottoscrivere l'atto di abiura? Bergoglio oggi come Urbano allora si appella al consenso scientifico. Il fatto è che mai ci si può appellare al consenso scientifico per sostenere l'attendibilità di qualsivoglia affermazione. Anzi, a dire il vero, è contro il consenso che la scienza fa progressi. Quel che conta sono i fatti. L'acqua è H2O non perché v'è un consenso scientifico, ma perché non v'è alcun fatto che contraddice la formula H2O. Il consenso scientifico ai tempi di Galileo era che la Terra fosse ferma al centro dell'universo e quello ai tempi di Einstein era che l'etere esiste. Come oggi si dice ma non è vero il consenso scientifico è che il caldo di cui gode il pianeta è conseguenza delle attività umane. Il fatto è che il pianeta vive da milioni d'anni in una sorta di perenne stato glaciale, interrotto, ogni centomila anni, da diecimila anni di, detta in gergo, optimum climatico. Orbene, questa nostra umanità sta vivendo nell'ultimo di questi favorevoli periodi. Ed è da ventimila anni, cioè da quando il pianeta cominciò a uscire dall'ultima era glaciale, che i livelli dei mari si sono elevati: di oltre cento metri rispetto ad allora. Né l'attuale optimum climatico ha raggiunto ancora i massimi di temperatura che si raggiunsero, in assenza di attività umane, negli optimum climatici precedenti. Una volta usciti da un'era glaciale, il clima del pianeta non resta immobile in un ideale plateau termico. Per esempio, durante l'ultimo optimum climatico, vi sono stati periodi caldi (olocenico, romano e medievale), intervallati da cosiddette piccole ere glaciali, l'ultima delle quali durò qualche secolo ed ebbe il suo minimo 400 anni fa, quando il clima riprese a riscaldarsi, e sta continuando a farlo fino ad oggi. Ma 400 anni fa, quando cominciò il processo, le attività umane erano assenti, e tali rimasero per almeno 3 secoli. Viviamo in un secolo di monotòno crescente riscaldamento, corrispondente all'inconfutabile monotòna, crescente immissione di gas serra? La risposta è no. Nel periodo 1945-1970, in pieno boom di emissioni, il clima visse un periodo d'arresto, ed è da almeno 14 anni che sta accadendo la stessa cosa: a dispetto di una crescita senza sosta delle emissioni di CO2, la temperatura media del pianeta è al momento stabilizzata ai livelli di 14 anni fa. Abbiamo così fatti a sufficienza per smentire ciò che viene spacciato come consenso scientifico. Nella Sua Enciclica il Papa ha proposto che i Paesi ricchi del mondo costruiscano in quelli poveri gli impianti cosiddetti alternativi di produzione energetica. Non si rende conto, Sua Santità, che questo significa, di fatto, negare ai poveri l'unico bene materiale l'energia abbondante e a buon mercato che solleverebbe la misera condizione in cui essi vivono. Quegli impianti «alternativi», infatti, non funzionano (è un fatto tecnico). Ci s'immagini, per un attimo, che con un miracolo spariscano in un istante tutti gli impianti nucleari, a carbone e a gas dell'Europa e, sempre con lo stesso miracolo, fossero sostituiti da impianti eolici e fotovoltaici di pari potenza a quelli spariti. Si fermerebbero, sì, i climatizzatori contro cui Bergoglio ha sollevato l'indice (che pur tanto sollievo portano alle sofferenze dal caldo e dall'umidità), ma si spegnerebbero anche gli impianti degli ospedali, le fabbriche e tutte le luci. Per farla breve: si smetterebbe di essere Paesi ricchi. Proporre che i Paesi poveri usino solo quegli impianti per il proprio fabbisogno energetico, significa negare loro l'energia, cioè significa condannarli alla povertà. Proporre, poi, che siano i Paesi ricchi a sostenere l'enorme, quanto inutile, sacrificio economico, significa impoverire le popolazioni di questi Paesi a vantaggio di quella ristretta minoranza che, unica, si avvantaggerebbe del miserabile affare. La ristretta minoranza che ha assunto le forme del diavolo che, temo, s'è insinuato nei cuori dei consiglieri del Santissimo Padre.

Stefano Filippi per “la Verità” il 7 ottobre 2019. Franco Prodi, 78 anni, è uno dei massimi studiosi italiani di fisica dell'atmosfera. Ha fatto ricerche negli Usa, è stato docente universitario, ha diretto l' Istituto di scienze dell' atmosfera del Cnr, ha coordinato un progetto europeo sulla previsione delle alluvioni. Per decenni autorità indiscussa in campo internazionale, finché non ha messo in discussione i luoghi comuni sui cambiamenti climatici: da allora buona parte del mondo scientifico e mediatico gli ha applicato un marchio di infamia bollandolo come «negazionista».

Perché non si unisce al coro catastrofista?

«Gli allarmi non sono basati su dati scientifici. All' origine della mobilitazione internazionale c' è un organismo creato dall' Onu nel 1988, l' Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico)».

Non è attendibile?

«Ne fanno parte scienziati, ma anche agronomi, economisti e altre figure. I componenti sono oltre 1.500. Molti lo ritengono la sede della ricerca scientifica sul clima».

Non è così?

«È un forum i cui membri non vengono nominati da università o centri di ricerca, ma dai governi. La scienza procede con altri metodi, pubblica su riviste specializzate, ha revisori internazionali, eccetera».

I pronunciamenti Onu non vanno considerati pronunciamenti scientifici: dice questo?

«Esatto. Si parla di proiezioni catastrofiste e si premette: "Lo dice la scienza".

Sbagliato, bisognerebbe precisare: "Lo dice l' Ipcc"».

Lei critica soltanto l' impostazione di metodo o anche i contenuti dei report dell' Onu?

«L'Ipcc, dove comunque sono presenti anche scienziati di valore, ragiona in base a modelli matematici derivati dai Gcm, cioè i Global circulation model, che risalgono agli anni Novanta e nel tempo si sono evoluti. I primi si limitavano a considerare la sola circolazione atmosferica, successivamente sono stati aggiunti fattori come la superficie degli oceani, la vegetazione, le trasformazioni chimiche e molto altro. Da fisico delle nubi, sono andato a verificare come questi modelli simulano le nubi».

E che cosa ha scoperto?

«Che esse vengono trattate in modo molto rozzo. Considerano solo gli strati e non la forma tridimensionale, non c' è l'equazione di trasferimento della radiazione atmosferica dentro le nubi, mancano altri elementi. I risultati di questi modelli vanno valutati con molta cautela».

Conclusioni sbagliate?

«Non sono modelli raffinati al punto da parametrizzare fattori importanti. Parlo dal mio punto di vista di geofisico, gli altri colleghi diranno la loro: la climatologia è fatta dalla convergenza di molte discipline. Ma un trattamento così grossolano riservato alla fisica delle nubi pone molti dubbi».

Perché?

«La climatologia considera gli elementi che vengono dal Sole, quelli che provengono dalla Terra e l' interazione con i gas cosiddetti serra come l' anidride carbonica, ma anche il vapore d' acqua, l' ozono, il metano, e altri. C' è l' interazione con le particelle sospese e poi ci sono le nubi. I fotoni solari arrivano anche sulla sommità delle nubi; alcuni vengono riflessi, altri entrano nelle nubi».

E infine arrivano sulla superficie terrestre.

«La quale a sua volta emette calore, come ogni corpo. Anche i fotoni terrestri interagiscono con i gas e con la base delle nubi; alcuni escono verso lo spazio esterno. Questo complesso di fattori, molto difficile da calcolare, mi induce, da scienziato, a raccomandare cautela sul catastrofismo climatico».

Lei è accusato di essere un negazionista.

«Alcuni miei detrattori non hanno nemmeno una laurea specifica in materia, figuriamoci. Non mi faccia fare nomi».

Parla di Luca Mercalli, climatologo «no Tav»?

«Sono accuse assurde. Io non dico che non ci siano cambiamenti nel clima, e neppure che l' uomo ne sia estraneo. La mia affermazione è un' altra: la scienza non è arrivata a quantificare l' effetto antropico rispetto agli effetti naturali sul clima».

Quali sono gli effetti naturali?

«Fondamentalmente due: la componente astronomica e quella astrofisica. Le radiazioni solari non sono costanti: si potrebbe parlare per ore della variabilità del Sole, delle macchie solari, delle particelle elementari che interagiscono con il campo magnetico terrestre. Questo lo chiamiamo effetto astrofisico. Tra gli elementi astronomici vanno considerati gli effetti gravitazionali dei pianeti del sistema solare, la variazione dell' orbita ellittica, l' inclinazione dell' asse terrestre sul piano dell' eclittica. Senza contare altri fenomeni: nel 1816, per esempio, non ci fu estate in tutto il pianeta a causa delle emissioni nella stratosfera del vulcano indonesiano di Tambora».

E l' intervento umano?

«È avvertibile soprattutto dopo l' invenzione della macchina a vapore, a fine Settecento, quando l'"uomo industriale" comincia a usare i combustibili fossili in modo massiccio: carbone, petrolio, gas naturale, nucleare. Da fisico delle nubi, rilevo la formazione di goccioline e cristalli su particelle originate da processi industriali, riscaldamenti domestici, traffico veicolare che influiscono anche sulla microfisica delle nubi».

Quindi l' uomo ha le sue responsabilità.

«Certo. Ma da qui a dire che l' azione umana rappresenta il 95% delle cause dei cambiamenti climatici, come sostiene l' Ipcc, ce ne corre. C' è un' alterazione, ma l' effetto antropico non è quantificabile rispetto all' aspetto astrofisico e a quello astronomico, che non si vede perché dovrebbero spegnersi».

Bisogna intervenire per proteggere la Terra?

«Certo, senza allarmi inutili sul cambiamento climatico ma insistendo sul fatto che questo pianeta è l' unico che abbiamo».

Come spiega l' enfasi mediatica sul riscaldamento globale? Lobby industriali che devono piazzare nuove tecnologie?

«Sento che vengono fatte tante ipotesi, ma non voglio entrare in campi non miei».

Da scienziato è preoccupato di questa confusione?

«Sono sgomento. Greta va bene, come la sollecitazione sull' ambiente planetario: il degrado degli ecosistemi, la qualità dell' aria e dei terreni, la quantità di metalli pesanti nei mari. Questo lo capisco, non che gli scienziati inseguano una ragazzina di 16 anni. Ne prendo atto, ma mi stupisco che il mondo si faccia influenzare in questo modo».

Non le piace la mobilitazione giovanile?

«È positivo che i giovani si sveglino, ma devono anche svegliarsi capendo che il clima va studiato. Si mettano a studiare, in particolare la geofisica dell' atmosfera, poi ne riparliamo. La vera sfida è quella della conoscenza».

Che dovrebbero fare i governi?

«Finanziare la ricerca invece che rincorrere i luoghi comuni. Ho ricoperto numerosi incarichi ufficiali nella mia attività di studioso: non ho mai avuto accolte le richieste per moltiplicare le cattedre e dare posti da ricercatore mirati. Da una parte si dà importanza al clima, dall' altra non si potenzia la ricerca. È da schizofrenici».

Il ministro Fioramonti invece che giustificare gli studenti in sciopero avrebbe dovuto invitarli a restare in aula a studiare?

«Sarebbe stata una celebrazione migliore: spiegare le basi della scienza del clima e le modalità con cui l' uomo e la natura agiscono. Ho visto molti scendere in piazza senza conoscere le cose».

Anche il mondo scientifico ha responsabilità per l' enfasi esagerata sui cambiamenti climatici?

«Molti pontificano senza possedere le conoscenze specifiche. Bisognerebbe vagliare meglio chi ha credito per parlare. Io ho studiato per tutta la vita la fisica delle nubi e in tutta onestà, da ricercatore, devo dire le incoerenze che vedo. Ognuno dovrebbe stare nell'ambito in cui è sicuro di poter dire qualcosa di autorevole che è riconosciuto internazionalmente».

Quali dati climatici sono oggi incontrovertibili?

«Dall' inizio dell' Ottocento si è registrato un aumento di 7 decimi di grado per secolo. Questo è il dato di fatto. E non è una crescita lenta e costante: si sono verificati fenomeni di raffreddamento che i modelli dell' Ipcc non spiegano».

E prima dell' Ottocento?

«Si va per indizi e approssimazioni, ovviamente con valori meno precisi. Si studiano gli anelli degli alberi, i sedimenti lacustri e marini, i carotaggi nell' Antartide e Groenlandia, e così via».

Lei è tra i presentatori, con altri studiosi, di una petizione al Parlamento in cui chiede la «non adesione a politiche di riduzione acritica della immissione di anidride carbonica in atmosfera».

«Un collega in giugno mi ha sottoposto il testo chiedendo se lo condividevo. Non sono solito firmare manifesti, ma la petizione era scritta bene e diceva ciò che penso anch' io. Circolano troppe cose non corrette».

Che cosa vi proponete?

«Di invitare alla cautela e sottrarre al catastrofismo tutta questa attenzione ingiustificata. Il nostro "caveat" è stato il primo dopo mesi di campagne mediatiche acritiche».

Ha avuto effetti?

«Si è creato un movimento di studiosi. In Italia abbiamo raccolto 200 firme molto autorevoli; nel mondo 500 scienziati hanno scritto all' Onu in vista della conferenza sul clima di settembre. In Europa è stata promossa una petizione che sarà presentata a Oslo il prossimo 18 ottobre, lo stesso giorno in cui ne parliamo in Senato».

Parteciperà anche lei?

«Preferisco di no, voglio evitare controversie in famiglia. So già che succederebbe».

Prodi contro Prodi?

«Con mio fratello Romano va tutto bene, ma meglio sgombrare il campo da strumentalizzazioni. Ci saranno il promotore, il geologo Uberto Crescenti, e il climatologo Nicola Scafetta».

Solleciterete nuove risorse per la ricerca?

«Non mi faccio illusioni. In Italia vedo un' aria che non mi piace. Regna un conformismo che mi fa parlare quasi di regime».

Riscaldamento globale, il grafico che mette in dubbio le teorie di Greta Thunberg. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 28 Settembre 2019. Carlo Rubbia, il premio Nobel per la fisica, non è più solo a confutare il «verbo» del cambiamento climatico. Un gruppo di cinquecento scienziati appartenenti a tredici Paesi diversi ha stilato la «Dichiarazione europea sul clima», in cui ribalta le conclusioni che hanno indotto Greta Thunberg a invocare all' assemblea dell' Onu la mobilitazione mondiale. Secondo i 500 cervelli che hanno sottoscritto la Dichiarazione non c' è alcuna crisi climatica e tantomeno vi è l' urgenza di abbattere drasticamente le emissioni di anidride carbonica, mettendo a rischio le economie globali e la loro capacità di produrre ricchezza condivisa. Reddito, soldi, per dirla semplice.

I 500 SCIENZIATI. Uno dei cinquecento è il professor Alberto Prestininzi, professore ordinario alla Sapienza di Roma e fondatore del Centro di ricerca, previsione e controllo dei rischi geologici che in una lunga intervista rilasciata alla testata Atlanticoquotidiano.it smonta una per una le convinzioni che stanno alla base dell' integralismo climatico. «Da oltre 15 anni», spiega, «è entrata con forza l' idea che lo scompenso climatico sia la causa della profonda modifica della frequenza e dell' intensità di alcuni fenomeni, come la pioggia, che è considerata uno dei parametri fondamentali nella costruzione dei data base» su cui sono stati elaborati i modelli probabilistici che hanno indotto a far scattare l' allarme.

Le conclusioni sono a dir poco inattese. «Le ricerche e il confronto scientifico condotto anche a livello internazionale su questo tema», aggiunge Prestininzi, «hanno evidenziato che le tesi portate sul riscaldamento globale sono infondate e che non esistono variazioni statistiche significative relative alla frequenza e intensità di questi eventi». In particolare «non esiste alcun modello» fra quelli utilizzati dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell' Onu, «che dimostri come l' aumento di anidride carbonica in atmosfera porti ad aumenti di temperatura come quelli ipotizzati», aggiunge il docente della Sapienza. Le proiezioni impiegate per dichiarare l' emergenza climatica vengono smentite dai dati reali rilevati negli ultimi 15 anni. E i modelli «sono incapaci di simulare ciò che è avvenuto negli ultimi 5mila anni», un lasso di tempo molto ampio nel corso del quale si sono verificate forti variazioni della temperatura globale in presenza però di concentrazioni molto basse di anidride carbonica nell' atmosfera.

PERIODI CALDI. I due ultimi periodi di riscaldamento globale si sono verificati uno in epoca romana, circa 2000 anni fa, mentre l' ultimo, noto come «periodo caldo medievale», è iniziato circa 950 anni or sono ed è durato 500 anni. Ebbene, i modelli impiegati dai climatologi dell' Onu, considerati alla stregua del Vangelo, non sono in grado di spiegare questi due riscaldamenti globali. Ma le prove di quanto siano fallaci i modelli utilizzati per dichiarare lo «Sciopero globale per il clima», oltre che nel passato ci sono pure nel presente e smentiscono clamorosamente uno dei pilastri dell' allarme globale. Vale a dire - è ancora il professor Prestininzi a parlare - la «favola che la Nasa fornisca dati che concordano con quelli del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico». Basta dare un' occhiata al grafico sulla copertura dei ghiacci nelle calotte polari, pubblicato proprio dall' Agenzia spaziale americana. Mentre nell' emisfero nord i ghiacci si riducono, in quello sud, in Antartide, continuano ad espandersi. Attilio Barbieri

La bufala dei cambiamenti climatici spiegata dal Nobel Carlo Rubbia. Nicola Porro il 18 marzo 2019. Cambiamenti climatici: l’intervento del premio Nobel per la fisica e senatore a vita Carlo Rubbia, dinanzi alle commissioni riunite Affari esteri e Ambiente-territorio di Camera e Senato il 26 novembre 2014. Sono una persona che ha lavorato almeno un quarto di secolo sulla questione dell’energia nei vari aspetti e, quindi, conosco le cose con grande chiarezza. Vorrei esprimere alcuni concetti rapidamente anche perché i tempi sono brevi. La prima osservazione è che il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo (in un certo senso, probabilmente, in maniera falsa) che se non facciamo nulla e se teniamo la CO2 sotto controllo, il clima della Terra resterebbe invariato. Questo non è assolutamente vero. Vorrei ricordare che durante l’ultimo milione di anni la Terra era dominata da periodi di glaciazione in cui la temperatura era di meno 10 gradi, tranne brevissimi periodi in cui c’ è stata la temperatura che è quella di oggi. L’ ultimo è stato 10.000 anni fa, quando è cominciato il cambiamento climatico che conosciamo con l’agricoltura, lo sviluppo, che è la base di tutta la nostra civilizzazione di oggi. Negli ultimi 2.000 anni, ad esempio, la temperatura della Terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei Romani, ad esempio, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati. C’è stato un periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all’ anno 1000 c’ è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani (ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era un grado e mezzo più alta di quella di oggi). Poi c’è stata una mini-glaciazione durante il periodo 1500-1600 che riguardo il Nord con i vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa mini-glaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali. Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici sostanziali, che sono avvenuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Per esempio, negli anni Quaranta c’è stato un cambiamento sostanziale. Poi c’è stato un cambiamento di temperatura che si collega all’uomo (non dimentichiamo che quando sono nato io, la popolazione della Terra era 3,7 volte inferiore a quella di oggi e che il consumo energetico primario è aumentato 11 volte). Questi cambiamenti hanno avuto effetti molto strani e contraddittori sul comportamento del pianeta. Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di 0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un’esplosione della temperatura. La temperatura è aumentata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti. Il fatto è che la temperatura media della Terra, negli ultimi 15 anni, non è aumentata ma diminuita. Nonostante questo, ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente drammatica: le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale. Tra le varie soluzioni dell’IPCC prevale la soluzione del business as usual. Essa è la soluzione più alta di tutte: indica che, effettivamente, anche grazie allo sviluppo della Cina e degli altri Paesi in via di sviluppo, l’aumento delle emissioni di CO2 sta avvenendo con estrema rapidità. Le emissioni stanno aumentando in maniera tale che, a mio parere, tutte le speranze che abbiamo di ridurre il consumo energetico facendo azioni politiche ed altro, sono contraddette dal fatto che oggi il cambiamento climatico del CO2 ha un aumento esponenziale senza mostrare una inversione di tendenza; sta crescendo liberamente. Vorrei ricordare che l’unico Paese nel mondo riuscito a mantenere e ridurre le emissioni di CO2 sono gli Stati Uniti: non l’Europa, non la Cina, ma gli Stati Uniti. Per quale motivo? C’è stato lo sviluppo del gas naturale, che adesso sta rimpiazzando fondamentalmente le emissioni di CO2 dovute al carbone. Ricordiamo anche che il costo dell’energia elettrica in America è due volte il costo dell’Europa. Perché? Il consumo della chimica fine in Europa è deficitario e in crollo fisso, perché fondamentalmente in America si stanno sviluppando delle tecnologie grazie ad uno sviluppo tecnologico ambientale importantissimo, che ha permesso veramente di cambiare le cose. Questo dà un messaggio chiaro: soltanto attraverso lo sviluppo tecnologico possiamo cercare di entrare in competizione con gli altri Paesi e non attraverso misure come quelle dell’Unione europea, che sono sempre state misure di coercizione e di impegno politico formale, senza una soluzione. Guardiamo la situazione americana (dove c’ è un progresso effettivo nel vantaggio tecnologico che crea business, posti di lavoro) e guardiamo la situazione europea. Secondo me, c’ è una grandissima differenza: anche le soluzioni provenienti dalle energie rinnovabili con gli sviluppi tecnologici nel campo del gas naturale si trovano in situazione estremamente difficile perché oggi il costo del gas naturale in America è un quinto di quello in Europa. In Europa il costo delle energie rinnovabili è superiore a quello del gas naturale. Pertanto, dobbiamo renderci conto che la soluzione tecnologica dipende da quello che vogliamo fare. Sto portando avanti un programma che, a mio parere, potrebbe essere studiato con molta più attenzione anche dal nostro Paese: trasformare il gas naturale ed emetterlo senza emissioni di CO2. Il gas naturale è fatto di CH4, cioè quattro idrogeni e un carbonio. È possibile trasformare questo gas naturale, spontaneamente, in black carbon (grafite) ed idrogeno. Questa grafite, essendo un materiale solido, non rappresenta produzione di CO2. Quindi è oggi possibile utilizzare il gas naturale, di cui ci sono risorse assolutamente incredibili. Non mi riferisco tanto allo shale gas che, a mio parere, è una soluzione discutibile, ma soprattutto a quelli che si chiamano clatrati. Onorevoli, vorrei chiedere quanti di voi sanno cosa è un clatrato. Nessuno? Questo è il problema. È un problema molto serio. Il mio parere personale è che si può portare avanti il programma attraverso l’innovazione tecnologica e lo sviluppo di idee nuove. Il programma è quello di evitare le CO2 emission utilizzando il gas naturale senza emissioni di CO2. Stiamo facendo degli esperimenti che dimostrano che effettivamente la cosa si può fare. Perché nessuno se ne occupa ancora? Mi piacerebbe saperlo.

·        Il catastrofismo ambientale? Una religione!

Albero di Natale: quello vero è «più sostenibile» di quello di plastica. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. L’abete vero, per l’albero di Natale, dal punto di vista della sostenibilità batte quello sintetico. Ad affermarlo è il Pefc, l’ente normatore della certificazione della buona gestione del patrimonio forestale, che evidenzia come (e quanto) le emissioni di produzione e smaltimento come rifiuti degli alberi artificiali pesino addirittura quattro volte di più rispetto a quelli naturali. All’ente fa eco la Coldiretti che afferma che i 5 milioni di abeti in plastica acquistati in media ogni anno emettono gli stessi gas di sei milioni di chilometri percorsi in macchina. Importante, però, per chi acquista l’albero naturale è prediligere quelli locali o che provengono da una filiera corta. L’albero di Natale vero, in sostanza, è meglio di quello di plastica recuperato dalla cantina o dalla soffitta. E anche se oltre la metà degli italiani (55%) quest’anno ha scelto l’albero sintetico, preparato — nella tradizione milanese ieri, a Sant’Ambrogio (patrono di Milano) — nelle piazze di borghi e città, in 3,5 milioni di case l’albero di Natale 2019 è naturale. «L’albero di Natale è irrinunciabile per l’88% delle famiglie italiane» sottolinea Coldiretti nello stimare un costo medio di 42 euro per l’abete naturale. Oltre che per l’altezza, i prezzi variano a seconda delle varietà ma complessivamente, precisa ancora la confederazione agricola, gli abeti più piccoli, che non superano il metro e mezzo, saranno venduti anche quest’anno a prezzi variabili tra i 10 e i 60 euro a seconda della misura, della presenza delle radici ed eventualmente del vaso, mentre per le piante oltre i due metri il prezzo sale anche a 200 euro per varietà particolari. Florovivaisti italiani e operatori dei mercati degli agricoltori concordano su una tendenza d’acquisto: l’albero vero tende a rimpicciolirsi non solo per questioni economiche ma anche per la facilità di trasporto e dei ridotti metri quadrati disponibili per abitazione. «Il risultato -- precisa la Coldiretti — è che negli ultimi quindici anni la dimensione l’albero di Natale si è accorciata in media di quasi mezzo metro, ed oggi la maggioranza degli abeti acquistati dagli italiani hanno una altezza inferiore al metro e mezzo ma in molti casi non superano neanche il metro». Il puntale, dunque, risulta bene in vista e alla portata di tutti. Per l’addobbo, comunque, mai come quest’anno si moltiplicano i tutorial sui social e i consigli salva-rami per voce degli agricoltori professionisti. Uno per tutti: non spruzzare neve sintetica perché l’albero è vivo e respira. Per molti, la soluzione scacciapensieri risulterebbe dunque l’albero finto, con l’associazione dei consumatori Aduc che raccomanda di porre attenzione ai marchi di garanzia di produzione e al materiale utilizzato sia per l’albero della ricorrenza sia per gli addobbi e luminarie. «Possono essere estremamente pericolose — ricorda Associazione per i diritti degli utenti e consumatori — se non hanno il marchio di sicurezza e non sono conformi alle norme del Comitato elettrotecnico italiano. È necessario che le luminarie abbiano il marchio CE (Conformità Europea da non confondere con China Export)». Secondo l’associazione dei Florovivaisti Italiani cresce il fenomeno del noleggio, ma è ancora molto caro. Sette italiani su dieci (70%) frequentano quest’anno i tradizionali mercatini di Natale che si moltiplicano nelle piazze italiane con il weekend dell’Immacolata e che offrono opportunità di acquistare regali per se stessi e per gli altri da mettere sotto l’albero. È quanto emerge da una analisi Coldiretti/Ixè per le festività di fine anno 2019 dalla quale si evidenzia che a partire dal weekend dell’Immacolata si moltiplicano le iniziative, dalla fiera degli Oh bej oh bej a Milano al Trentino fino a quelli a km zero degli agricoltori di Campagna Amica. «Una opportunità che — sottolinea la Coldiretti — unisce il relax con la possibilità di fare acquisti di curiosità e novità ad originalità garantita, per sfuggire alle solite offerte standardizzate. Tra quanti frequenteranno i mercatini solo il 5% infatti non farà alcun acquisto mentre ben il 50% spenderà in prodotti enogastronomici che rappresentano l’acquisto più gettonato anche se molti scelgono decori natalizi, prodotti per la casa, oggetti artigianali, capi di abbigliamento e giocattoli, secondo Coldiretti/Ixe».

Elena Stancanelli per ''La Stampa'' l'8 dicembre 2019. Il colpevolizzatore cieco gira su stesso, ha una benda sugli occhi e un enorme ditone puntato. Ogni tanto si ferma. Hai sbagliato, dice alla persona che capita sulla sua traiettoria. Conosce solo questa frase. Poi riprende a girare. Tu non lo sapevi che era cieco, né che conoscesse solo questa frase, quando l' anno scorso ti ha puntato il ditone contro: hai sbagliato, ha detto riferendosi al tuo albero di Natale vero. Eppure eri andato a comprarlo in un vivaio biologico che avrebbe devoluto il 10% del ricavato di ogni albero per comprare un altro albero da piantare in un paesello africano. Lo avevi annaffiato con parsimonia ma costanza, avevi vietato ai figli di avvicinarsi per evitare che lo scioccassero, avevi addirittura messo i doni da un' altra parte per farlo stare tranquillo. E il giorno dopo la Befana lo avevi caricato in macchina e portato in campagna per ripiantarlo vicino a un platano che gli avrebbe fatto compagnia. Eri persino, inspiegabilmente, sicuro che se la sarebbe cavata. Hai sbagliato! E va bene, avevi pensato, quest' anno lo prendo di plastica. Anche se a nessuno piacciono le piante di plastica, tranne a chi arreda i Pronto soccorso degli ospedali. Ma ormai li fanno bene, sembrano uguali. Oppure lo prendo smaccatamente finto, di un colore bizzarro, lo faccio lilla quest' anno l' albero, e invece delle palle ci metto le mele renette e sulla punta un cornetto vegano. E aprendo il portabagagli della macchina per portare a casa il tuo albero lilla e vedendo fare capolino da sotto la moquette gli aghi dell' anno scorso che nessun lavaggio era riuscito a eliminare avevi sorriso, pensando che qualche volta la cosa giusta e la cosa più comoda coincidono.

Come un allineamento dei pianeti. Ma quando già ti stavi rilassando è arrivato il colpevolizzatore: hai sbagliato anche quest' anno. Che mi è saltato in testa? Non lo sapevo che la plastica campa milioni di anni nella bocca delle balene, che il mio albero in un salotto di Settimo Torinese potrebbe essere fatale a una tartaruga alle Galapagos? Ci manca solo che ogni Natale dobbiamo smaltire tonnellate di roba color lilla con cui i festaioli appagano la loro ambizione di creare un'atmosfera. Ma se la plastica non va bene e l' abete vero neanche, come lo faccio l' albero, vorrei chiedere al colpevolizzatore cieco che però nel frattempo si è rimesso a girare e soprattutto, come sappiamo, l' unica fase che conosce è "hai sbagliato".

Dike, la figlia di Temi, era vergine e bendata. Era lei che amministrava la giustizia, senza guardare, per dovere di imparzialità. Ma come? La giustizia deve sapere, ascoltare, vedere. E soltanto dopo aver messo insieme tutti gli indizi e le prove decidere chi è innocente e chi è colpevole. Così sembrerebbe. E invece è il contrario. La giustizia è arbitraria e proprio per questo infallibile. Siamo noi irresponsabili nel sottoporre al criterio di giustizia la scelta dell' albero di Natale. O di cosa mangiare, quale mezzo di trasporto usare, che partito votare, quale libro leggere. Non è più bella la responsabilità? Non era meglio rispondere a se stessi della propria stupidità, che non a un tribunale?

Emanuele Bompan per “la Stampa” il 5 dicembre 2019. Il dato choc sugli effetti del cambiamento climatico e dei fenomeni estremi in cui si manifesta arriva dal Climate Risk Index 2020, lo studio annuale del think tank Germanwatch che calcola in quale misura i Paesi del mondo sono stati colpiti da tempeste, inondazioni, ondate di calore e altri. L'Italia è al sesto posto nel mondo:19.947 decessi sarebbero riconducibili agli eventi meteorologici estremi, in particolare alluvioni e ondate di calore. Questa cifra, derivata dai database dell' assicuratore MunichRE, considera per lo studio il periodo 1999-2018, durante il quale l' Italia ha perso 32,92 miliardi di euro in danni economici correlati, pari al 2% del Pil. Perdite che ci posizionano al 26° posto su oltre 200 paesi analizzati. Tra gli eventi più devastanti, l' alluvione del Duemila in Piemonte (23 vittime, 11 dispersi) e in Calabria (13 morti e un disperso), l' alluvione nel Messinese nel 2009, con 37 morti; 13 vittime nell' alluvione tra Spezzino e Lunigiana nel 2011. Non vanno meglio i dati del 2018. Siamo al 21° posto nel mondo per impatti da eventi climatici estremi e siamo al l8° posto nel mondo per danni economici. Particolarmente esposta l' agricoltura: secondo Coldiretti nel 2018 ci sarebbero stati danni per oltre 14 miliardi di euro. Rispetto ai decessi, nel 2018 siamo al 28° posto nella classifica. Gli effetti Il Climate Risk Index 2020 rivela come gli effetti nefasti del climate change colpiscano nazioni industrializzate e paesi fragili. In vetta alla classifica di quest' anno, il Giappone, colpito da un' ondata di calore senza precedenti e da un numero di tifoni ben superiore alla media annuale. Un segnale per il governo conservatore di Shinzo Abe, ostile a disinvestire in nuove centrali a carbone. Dopo il Giappone troviamo le Filippine, in questi giorni flagellate dal tifone Kammuni, la Germania devastata da ripetute alluvioni e da ondate di calore estreme; il Madagascar messo in ginocchio dall' uragano Idai, l' India, con la peggior siccità dell' ultimo decennio. Poi Sri Lanka, Kenya, Rwanda, Canada e Fiji al decimo posto. Il report arriva in momento critico del vertice mondiale sul clima "Cop25", in corso a Madrid. Uno degli argomenti centrali è il finanziamento per Loss&Damage, noto anche come Meccanismo internazionale di Varsavia (Wim), una sorta di assicurazione finanziaria per gli stati meno industrializzati colpiti da condizioni meteorologiche estreme, per assisterli in caso di disastri devastanti. «L' indice di rischio climatico mostra che i cambiamenti climatici hanno impatti disastrosi soprattutto per i paesi poveri, dove nessuno è assicurato, ma causa anche danni sempre più gravi in paesi industrializzati come Giappone o Germania, diventando un rischio anche per le compagnie assicurative», afferma uno degli autori del report, David Eckstein. Secondo Piero Pelizzaro, Chief Resilience Officer del Comune di Milano ed esperto internazionale di resilienza, «gli impatti dei cambiamenti climatici diventano ancora più evidenti su scala urbana. I governi delle città, i grandi assenti dei negoziati, devono purtroppo gestire gli impatti quotidianamente. Berlino, Karachi, Milano, Los Angeles, Amsterdam durante hanno vissuto situazioni di emergenza dalle temperature record agli incendi. Adattarsi al nuovo clima è fondamentale per tutelare la salute dei cittadini».

L’astronauta Luca Parmitano «Da quassù vedo gli effetti  del riscaldamento globale». Pubblicato lunedì, 29 luglio 2019 su Corriere.it. «Lo spazio è il luogo ideale per lanciare l’allarme sugli effetti del riscaldamento globale sulla Terra». L’astronauta Luca Parmitano lo ha detto nel primo collegamento con i giornalisti dalla Stazione Spaziale Internazionale, organizzato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa) al Museo Nazionale della Scienza e Tecnica di Milano. «Negli ultimi 6 anni - ha detto - ho visto deserti avanzare e ghiacci sciogliersi, spero che le nostre parole possano allarmare davvero verso il nemico numero uno di oggi». «I dati dell’Esa ci dicono molto sul riscaldamento globale e da qui l’osservazione umana potrà raccontarlo ulteriormente, per fare sì che chi ha in mano le redini possa fare tutto il possibile, se non per invertire questo trend, per rallentarlo e fermarlo», aggiunge Luca Parmitano che nel suo primo collegamento dallo spazio ha raccontato la sua nuova esperienza alla Stazione Spaziale Internazionale: «L’adattamento è stato velocissimo rispetto alla prima volta, mi sono sentito subito a casa. Il mio corpo ha rincominciato subito a comprendere come muoversi e come spostarsi». «La cosa più difficile alla quale è stato necessario riadattarsi - ha detto l’astronauta con ironia - è stato il caffè a bordo». Sarà comandante dell’ISS a partire dal prossimo settembre ma AstroLuca pensa già a nuovi progetti e dice di gradire l’idea di andare sulla Luna e non esclude che un giorno questo sogno possa realizzarsi. «Sognare ci fa stare bene e ci spinge ad avere progetti sempre più grandi». «Tutta la scienza e la tecnologia che stiamo sviluppando è rivolta anche alla Luna e al nostro futuro, e di conseguenza anche al mio», ha detto ancora Luca Parmitano sorridendo e giocando con il microfono mentre rispondeva alle domande dei giornalisti. Se la Luna appartiene al futuro, di futuro parla moltissimo anche la missione Beyond: «Stando qui sulla Stazione Spaziale basta guardarsi intorno: sono circondato da macchine che parlano di futuro e creano il futuro. Ad esempio Nick - ha aggiunto riferendosi al collega Nick Hague della Nasa - in questo momento sta usando una stampante 3D per tessuti biologici: il futuro è il nostro mestiere sulla Stazione Spaziale. “Nelle stelle si vede il futuro” è il mio motto e qui a bordo è quanto mai appropriato».

«Il cambiamento climatico minaccia l’economia. Un milione di specie a rischio estinzione». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it.

Professor Watson, è il mondo in pericolo?

«Non userei la parola pericolo. Il cambiamento climatico indotto dall’uomo e la perdita di biodiversità minano però l’economia e minacciano il benessere umano. Lo fanno sul fronte della sicurezza alimentare e idrica e della salute umana, creano le condizioni per conflitti e migrazioni di popoli». Sir Robert Watson è uno dei massimi esperti di clima a livello mondiale: è presidente uscente dell’Ipbes, la piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e gli ecosistemi, ed è stato numero uno dell’Ipcc, l’organizzazione scientifica dell’Onu che si occupa di cambiamento climatico. Oggi sarà protagonista alla Camera dei deputati della Peccei Lecture, promossa dalla omonima fondazione e da Wwf e Club di Roma. E il messaggio che lancerà a ministri, rappresentanti istituzionali e associazioni sarà tutt’altro che rassicurante: i governi non stanno facendo abbastanza per raggiungere gli obiettivi del contenimento del riscaldamento globale. E il disimpegno degli Stati Uniti, annunciato nei giorni scorsi da Trump, rischia di affondare un piano di salvataggio che già in partenza si annuncia disperato.

Partiamo dagli obiettivi dell’agenda di Parigi. Lei non è ottimista sulla possibilità di centrarli…

«Tecnicamente potrebbero essere raggiunti, ma gli impegni presi dalla comunità internazionale sono inadeguati e non vedo la volontà politica di rafforzarli. Solo i 28 Stati membri dell’Ue e altri sette Paesi del mondo hanno assunto impegni coerenti con l’obiettivo di ridurre a 1,5 gradi l’incremento della temperatura. Siamo però proiettati verso un mondo che sarà 3-4 gradi più caldo. Detto in altri termini, entro il 2030 le emissioni globali dovrebbero essere inferiori del 50% rispetto alle attuali».

E poi c’è Trump che ha annunciato il dietrofront di Washington. La battaglia per il pianeta può essere combattuta senza gli Usa?

«No. Senza di loro potrebbero essere fatti progressi significativi per ridurre le emissioni, ma per vincere è necessario che gli Usa, che sono un importante produttore di gas serra, si impegnino in prima persona. Il ritiro di Washington potrebbe inoltre scoraggiare altri Paesi».

Le posizioni negazioniste sui cambiamenti climatici stanno aumentando. C’è chi dice che l’allarmismo sia esagerato.

«L’Ipcc ha certificato che le attività umane stanno aumentando i gas serra in atmosfera, che a loro volta stanno riscaldando il pianeta, modificando le precipitazioni, sciogliendo i ghiacciai in montagna e le calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide, aumentando i livelli del mare. Le relazioni dell’Ipcc sono curate dai migliori scienziati e analizzate da esperti e governi del mondo. Quelle dei negazionisti no».

Passiamo al fronte opposto. Molti attivisti ambientalisti insistono nel sottolineare che siamo vicini alla sesta estinzione di massa. Condivide questo giudizio?

«No, ma dovremmo essere seriamente preoccupati. Rischiamo di causare una perdita inaccettabile di specie e di ambienti. L’Ipbes ha calcolato che, se non interveniamo per cambiare la tendenza, un milione di specie (500.000 piante e animali e 500.000 insetti) su un totale di 8,1 milioni di specie sono a rischio di estinzione. Nel corso degli ultimi secoli di anni, però, abbiamo perso meno del 2% della maggior parte delle specie di animali e piante. In ciascuna delle precedenti estinzioni di massa, il 75% delle specie è andato perso. Pertanto, anche se perdessimo tutto il milione di specie attualmente minacciate, sarebbe inferiore al 15% delle specie».

Lei sostiene anche che il cambiamento climatico non è stato finora il principale fattore di perdita di biodiversità, ma che lo sarà da ora in avanti. Ci può spiegare perché?

«I principali fattori della perdita di biodiversità fino ad oggi sono stati il cambiamento degli ambienti naturali e lo sfruttamento eccessivo dell’uso della terra e del mare. Abbiamo convertito le nostre foreste, praterie e zone umide in sistemi agricoli e piantagioni, nonché in strade e città. La maggior parte degli oceani del mondo è stata oggetto di una pesca sovradimensionata. Però oggi facciamo i conti con un aumento della temperatura media a livello globale di circa un grado Celsius. Probabilmente aumenterà di circa due gradi entro il 2060 e fi tre gradi entro il 2100. L’aumento di un grado ha già causato cambiamenti nella biodiversità in tutto il mondo. L’impatto di ulteriori cambiamenti climatici probabilmente supererà gli impatti degli altri fattori».

Facciamo insomma i conti con una situazione di forte declino. Cosa possono fare i governi per fermarlo?

«Dovrebbero cambiare innanzitutto i sistemi finanziari ed economici: eliminando o reindirizzando i sussidi agricoli, energetici e dei trasporti; lavorando ad un’economia circolare; considerando il capitale naturale nei bilanci nazionali; predisponendo incentivi per la produzione e il consumo sostenibili».

Il tema ambientale è recentemente passato alle prime pagine dei giornali grazie anche ai giovani di tutto il mondo (occidentale) che hanno trovato la loro eroina a Greta Thumberg. Lo considera un movimento sincero e motivato o solo la tendenza del momento?

«È chiaramente un movimento sincero. I giovani di oggi saranno i più colpiti dalle azioni o dalla mancanza di azioni dell’attuale generazione. La vera domanda è se i governi e il settore privato stanno veramente ascoltando le loro preoccupazioni e se sono disposti ad agire per limitare il cambiamento climatico indotto dall’uomo e la perdita di biodiversità».

Le piace Greta?

«Non l’ho mai incontrata, ma certamente sostengo ciò che sta cercando di realizzare. Sembra sincera e impegnata». Lei sostiene che il cambiamento climatico non è solo una questione ambientale ma anche - e soprattutto - una questione economica e sociale. Perché?

«I cambiamenti climatici indotti dall’uomo causano danni economici significativi, influenzando negativamente i settori socioeconomici, la salute umana e i sistemi ecologici. Hanno implicazioni sociali, ostacolano la riduzione della povertà, minano la salute umana, rendono meno sicura la disponibilità di cibo e acqua. Gli studi confermano che i costi dell’inazione sono maggiori dei costi che dovremo sostenere per invertire l’attuale tendenza. I cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità sono le principali minacce per il benessere umano e minano la crescita economica. Devono essere affrontati insieme e ora. Non c’è tempo da perdere».

Irene Soave per il “Corriere della sera” il 3 novembre 2019. La prima città a trasferirsi sarà stata Giacarta: il governo dell' Indonesia ha già annunciato in questi mesi che sposterà di 100 km la megalopoli capitale, che per le continue inondazioni e allagamenti affonda di 15 centimetri l' anno, entro il 2050. Arriverà preparata, quindi, all' anno che si prevede il più apocalittico della crisi climatica: quel 2050 cioè che secondo gli scienziati del centro di ricerca no-profit statunitense Climate Central vedrà sommerse dagli oceani le case di 300 milioni di persone in tutto il pianeta, e soprattutto in Asia, dov' è il 70% degli insediamenti umani più a rischio. Lo sostengono in uno studio pubblicato ieri dalla rivista Nature , e ripreso dai media di tutto il mondo. Se i ghiacciai continuano a sciogliersi a questo ritmo, e non si vede come la rotta possa invertirsi, 300 milioni di persone vivono in aree che saranno sommerse dall' oceano almeno una volta l' anno. Anche se le barriere fisiche - dighe, sbarramenti, marine - che erigono contro il mare saranno potenziate; anche se i governi riuscissero a rallentare il riscaldamento del pianeta, spiegano gli scienziati. Quello verso un 2050 sommerso è cioè un processo già avviato. Per la fine del secolo riguarderà 630 mila persone. Un «Intergovernmental Panel on Climate Change» patrocinato dall' Onu ha stabilito che gli oceani saliranno di un metro entro il 2100 se l' inquinamento non si arresta.

Dunque ecco la mappa. Mumbai: 18 milioni di abitanti oggi, nei prossimi 30 anni finirà completamente sommersa. Il Sud del Vietnam, secondo le mappe disegnate dall' algoritmo di Climate Central, sparirà. Dacca; Calcutta; Hoh-Chi-Minh City: inghiottite dall' Oceano Indiano. Un terzo di New York allagato almeno una volta l' anno. Sott' acqua Alessandria d' Egitto, Bassora, parti di New Orleans. E in Europa Amsterdam, Anversa, Gent, Londra, dove 3,5 milioni di persone vivono in zone «vulnerabili»; Venezia, Rovigo, Jesolo, Caorle, verranno ricoperte dall' Adriatico che arriverà a lambire Padova e Treviso. Un miliardo di persone in tutto il pianeta, spiega lo studio, vive a meno di 10 metri sul livello del mare; 250 milioni di persone vivono a meno di uno. «È qui che si vede in modo plastico come il c limate change ci riguardi», ha commentato ieri Scott Kulp, il primo firmatario dello studio: «ci costringerà a riprogettare città, economie, infrastrutture e l'assetto di intere regioni». Per la Banca Mondiale la minaccia degli oceani costerà mille miliardi di dollari l' anno in tutto il mondo. Il rapporto pubblicato ieri fa ancora più scalpore perché rivede al rialzo previsioni precedenti: secondo dati raccolti dalla Nasa in uno studio già definito «pessimista» erano a rischio «solo» 80 milioni di persone. Ma il nuovo modello matematico degli scienziati di Climate Central, con l' aiuto dell' intelligenza artificiale, elimina un errore di metodo e calcola che «la minaccia è più di tre volte tanto», riassume il direttore del centro Benjamin Strauss. Rivedono al rialzo le già nere previsioni Paesi come il Bangladesh, dove l' emergenza supererà quella già prevista di 8 volte; la Cina, 3 volte; la Tailandia, 12 volte; l' India, 7 volte. Insomma, tragedia annunciata. Salvo una minima inversione di tendenza possibile, indicata da Strauss nella politica: «Se i governi riuscissero a ridurre l' inquinamento climatico, anche i benefici sarebbero maggiori e più rapidi di quanto si pensava finora».

Alaska e Siberia a fuoco: in cenere una superficie grande come 100mila campi di calcio. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 su Corriere.it. È da oltre un mese, ormai, che gli incendi stanno devastando vaste aree della Siberia e dell’Alaska, oltre il circolo polare artico. Coinvolta anche, in misura minore, la Groenlandia. Sono almeno cento, secondo il Copernicus Atmosphere Monitoring Service (Cams), i roghi di durata e intensità significativa che si sono verificati a nord del circolo polare artico a partire da giugno. Le foreste di questi territori sono da sempre interessate da incendi, ma questa volta il fenomeno è «senza precedenti». A definirlo così sono sia il Cams (che dipende dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine) sia l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm). Gli incendi di quest’anno, oltre ad essere iniziati un mese prima del solito, sono straordinari sia per la loro durata, sia per la loro estensione territoriale. E stanno immettendo nell’atmosfera quantità enormi di anidride carbonica: secondo l’Omm, nel solo mese di giugno questi roghi hanno prodotto la stessa quantità di Co2 emessa in un anno dalla Svezia. E non è che una stima parziale, che alcuni scienziati ritengono già superata. Le aree più coinvolte sono Alaska e Siberia, dove i roghi sono stati così estesi da coprire una superficie pari a quella di 100mila campi da calcio. Sia nello Stato americano, sia nella regione settentrionale della Russia quest’anno sono state registrate temperature insolitamente alte, che contribuiscono a rendere gli incendi più probabili e più estesi, perché fanno crescere più arbusti che poi, una volta seccati, bruciano facilmente, ad esempio se vengono colpiti da un fulmine. Il caldo, inoltre, asciuga terreni che normalmente sono ricchi di acqua e per questo immuni alle fiamme. È il caso, ad esempio, dei depositi naturale di torba, che già nel 2010, in alcune regioni nord-orientali della Russia, hanno alimentato un incendio durato settimane che costrinse le autorità a dichiarare lo stato di emergenza. Oppure del devastante incendio della tundra artica che ha interessato l’Alaska nel 2007, che ridusse in cenere un’area di oltre 1000 kmq: poco meno dell’estensione dell’intera provincia di Imperia. Gli incendi di quest’anno sono così estesi da essere visibili dallo spazio. Alcune immagini satellitari della Nasa mostrano i roghi siberiani che si sono scatenati nelle regioni di Irkutsk, Krasnoyarsk e Buryatia, e che si ritiene siano stati causati dai fulmini: a destra si vedono i punti da cui si propaga il fumo, al centro la spirale di cenere che hanno generato: Il fenomeno non è nuovo, ma è molto peggiorato, complice il cambiamento climatico che, secondo l’Omm, « amplifica il rischio» che incendi simili si verifichino per via delle «temperature in aumento» e degli «slittamenti nell’andamento delle precipitazioni». È da anni che ricercatori e scienziati spiegano i rischi dell’alzamento delle temperature nelle aree subpolari, quelle della tundra: uno studio di Nature del 2011 spiegava, ad esempio, che con lo scongelamento della parte superficiale del terreno permanentemente ghiacciato — il permafrost — si potrebbero rilasciare nell’atmosfera enormi quantità di carbonio e di metano. E, in caso di incendi, il fenomeno diventa esplosivo: una vera e propria bomba ecologica.

L'Etiopia batte il record: pianta 350 milioni di alberi in 12 ore. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 su Corriere.it. Oltre 350 milioni di alberi piantati in 12 ore. Un primato — quello stabilito dall'Etiopia, battendo il record detenuto dall'India — nato per contrastare i cambiamenti climatici, la deforestazione e la siccità. L’iniziativa, come spiega il Guardian, rientra nella campagna «Green legacy» lanciata dal governo di Addis Abeba, che per questo ha concesso la chiusura di alcuni uffici per permettere ai dipendenti di partecipare alle attività per la riforestazione nell’Africa orientale. Come ricorda l'associazione Farm Africa, meno del 4 per cento del territorio etiope, ormai, è coperto da foreste, mentre alla fine del XIX secolo era il 30 per cento. Nel 2017, l'Etiopia si è unita a oltre 20 altre nazioni africane impegnandosi a ripristinare 100 milioni di ettari di terra nell'ambito dell'Iniziativa per il ripristino del paesaggio forestale africano. « Possiamo contrastare gli effetti della deforestazione e dei cambiamenti climatici. Ognuna delle nostre azioni, grandi e piccole, conta per le persone e per il pianeta»», ha scritto Amina J Mohammed, ex ministra nigeriana dell'ambiente e ora deputata delle Nazioni Unite. Al termine delle 12 ore dell’iniziativa, sono state piantati in totale 353 milioni, 633mila e 660 alberi, ha scritto su Twitter il ministro etiope per l'innovazione e la tecnologia, Getahun Mekuria. Un numero che permette all’Etiopia di superare il record stabilito dall’India nel 2017, con 66 milioni di alberi piantati in 12 ore, come riporta la Cnn. In Etiopia dipende dall’agricoltura come mezzo di sostentamento, ma il 35 per cento degli etiopi non ha abbastanza cibo. «Quello che è successo oggi è la testimonianza che l’unità è potere», ha twittato il primo ministro etiope Abiy Ahmed, promotore dell’iniziativa: «Gli etiopi hanno di nuovo scritto la storia».

L'errore dei negazionisti del clima. Una ricerca prova che il riscaldamento globale delle ultime decadi non ha paragoni negli ultimi duemila anni. Cade così l'argomento che vi erano stati periodi climatici simili nel passato. Luca Sciortino il 30 luglio 2019 su Panorama. Una ricerca appena pubblicata su Nature fa cadere una delle obiezioni chiave dei negazionisti, quelli che sostengono che il riscaldamento globale non è imputabile all'uomo. Secondo loro, il fatto che vi sono stati periodi estremamente caldi o freddi negli ultimi 2000 anni, per esempio quello caldo tra il 950 e il 1250 dopo Cristo o quello glaciale tra la metà del XIV secolo fino alla metà del XIX, è una prova che forti oscillazioni climatiche avvengono per cause naturali, come per esempio una variazione dell'attività solare. La ricerca su Nature mostra invece che questi periodi non riguardavano l'intero pianeta Terra ma soltanto una percentuale della sua superficie inferiore al 50 per cento, contro la quasi totalità delle regioni del pianeta coinvolte dall'attuale riscaldamento "globale", per l'appunto. Inoltre, sulla base dei dati ricavati dagli endoscheletri dei coralli e dei sedimenti marini e lacustri, nonché gli anelli di crescita degli alberi in diverse aree, emerge che il periodo più caldo degli ultimi duemila anni è quello attuale. Sia le densità all'interno dei tronchi sia la composizione chimica dei coralli riflettono le variazioni delle temperature e della composizione atmosferica anno per anno. Quindi esaminando alberi e coralli in diverse zone del globo si possono trarre conclusioni su quanto l'atmosfera sia più o meno calda in una certa regione e in un certo anno. Come ha dichiarato il climatologo Scott George su Nature "la massima a tutti familiare che il clima cambia continuamente è vera. Ma anche se ci spingiamo fino al periodo dell'Impero Romano non troviamo niente di equivalente, né per intensità né per estensione al riscaldamento globale nelle ultime decadi". Intanto un altro articolo su Science calcola che sul nostro pianeta si potrebbero piantare almeno 500 miliardi di alberi ottenendo in massimo 100 anni un assorbimento del 25 per cento della CO2. Significa che ogni essere umano dovrebbe piantare circa 65 alberi a testa. Tuttavia, il riscaldamento globale creerà, specialmente in certe zone, condizioni idriche e climatiche problematiche per la vita dei boschi. L'unico vero rimedio resta quindi quello di ridurre le nostre emissioni.

Il catastrofismo ambientale? Una religione, scrive Nicola Porro, Il Giornale 10 marzo 2019. Ritornano in grande voga gli allarmi catastrofisti sull’ambiente. Ieri su la Stampa abbiamo letto l’ultimo rapporto dell’Icct, l’organizzazione internazionale che con sicurezza scientifica ci dice che in Italia ci sono state nel 2015, 7800 morti premature per inquinamento, di cui una buona parte deriverebbe dalle polveri delle auto diesel. Ci fidiamo di queste statistiche dal contenuto incerto (come si possa falsificare o verificare la morte prematura, posto che non abbiamo, noi esseri umani una data di scadenza certificata è un mistero) come se fossero dogmi religiosi. Mi è così venuto alla mente uno stupendo passaggio di un libro del grandissimo Francesco Forte, A Onor del vero, Un’autobiografia politica e civile (Rubettino editore). Forte si scontra con il mondo accademico della sua generazione: “Avevo scoperto inoltre che il principale punto debole dei comunisti era il calcolo matematico, per il quale non sembravano avere attitudine. Anche quelli del Partito d’Azione erano deboli nel calcolo matematico. Ma in un altro modo. Loro potevano mettere insieme un sistema di equazioni elegante che io non riuscivo a maneggiare. Ma i numeretti, questa cosa banale che a me interessava molto, non li frequentavano. Così ignoravano che se 2×2 fa quattro, 2,5×2,5 fa 6,25, mentre basta togliere un 1 in coda a 2,5 e farlo diventare 2,4 e fare lo stesso per il moltiplicando 2,5 trasformato in 2,4 per ottenere solo 5,76, ossia 0,49 di differenza, un multiplo di 0,2 derivante dalla somma di 0,1+0,1”. Cosa intende Forte? Semplice: basta cambiare di pochissimo una moltiplicazione (togliere uno 0,1) per avere risultati molto diversi da quanto ci si potesse aspettare. Ma leggiamo ancora: “Chiesi allora a Garegnani di darmi la possibilità di sostenere che il determinismo avesse il 2-3 per cento di errore. Così arrivai da lui con un manualetto di matematica attuariale in cui c’era il calcolo di quanto aumenta una lira con gli interessi composti e gli chiesi: «Mi dai un interesse composto fra il 3 per cento e il 2 per cento che non è molto alto come margine di errore?» Patteggiato l’interesse composto come margine di errore della perfetta previsione, dimostrai che la probabilità composta di una incertezza annua di 3 su 100 avrebbe portato in 156 anni alla indeterminazione del 100 per cento. Patteggiato il 2 per cento di indeterminazione si arrivava al 51,8 per cento di indeterminazione dopo 200 anni: un tempo molto lungo. Ma ne sarebbero bastati altri 38 per arrivare al 100 per cento”. Il ragionamento adesso diventa ancora più chiaro. E Forte dunque ci aiuta nella conclusione “il tuo determinismo, avendo questo buchettino, è diventato indeterminato… La discussione andò avanti per molto tempo senza concludere nulla. Così mi convinsi che le leggi deterministiche del comunismo nelle menti confuse dei filosofi-economisti comunisti erano non un ragionamento scientifico ma una religione”. Come è appunto diventato il catastrofismo ambientale che non si può discutere, e i cui sacerdoti sono intoccabili. Nicola Porro, Il Giornale 10 marzo 2019

·        Ecologia. Il climate-change tra religione e politica.

Vaticano, Papa Francesco e i dettami di Ratzinger: "Bisogna occuparsi di ecologia e giustizia sociale". Libero Quotidiano il 5 Ottobre 2019. Molte sono state le critiche mosse dagli ultraconservatori nei confronti di Papa Francesco, reo di occuparsi di tematiche quali ecologia e giustizia sociale che non dovrebbero essere di suo interesse, polemiche che si sono poi acuite dopo che questi ha indetto un Sinodo sull'Amazzonia. Eppure, come rende noto l'Huffington Post, anche tali temi rientrano tra gli interessi della Chiesa e il fautore di questa linea di pensiero è niente poco di meno che il predecessore di Bergoglio al soglio pontificio: Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger. L'ex pontefice tedesco, nella sua enciclica Caritas in Veritate del 7 luglio 2009, scriveva che giustizia sociale ed ecologia sono temi centrali nel magistero della Chiesa e lo fece in risposta a delle obiezioni sollevate in merito da alcuni membri della Dottrina della Fede, il dicastero che Bergoglio presiedeva prima di divenire il nuovo Papa. La Congregazione provò addirittura a redigere un testo alternativo per correggere quanto vergato da Benedetto XVI, ritardando la promulgazione dell'enciclica stessa, dato che il testo doveva essere molto più elevato a livello teologico per essere collegato alle verità della fede, ma alla fine, Ratzinger riuscì a prevalere. La stessa cosa potrebbe accadere anche con l'enciclica attualmente redatta da Francesco Laudato Sì, che non è ben vista dall'ala tradizionale della Chiesa, anche se il pontefice argentino non ha fatto altro che seguire i dettami del suo predecessore e dare seguito al Vaticano II, come da lui stesso dichiarato a più riprese.

Il rosario contro la Chiesa di Greta: "Tesi eretiche al sinodo amazzonico". L'iniziativa del fronte tradizionalista per denunciare le "eresie" che si discuteranno nel sinodo per l'Amazzonia. I manifestanti: "I riti degli sciamani non hanno nulla a che fare con la Chiesa". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. "Dire che la Chiesa deve imparare dagli sciamani o assimiliare i loro riti sacri è totalmente eretico". Non ha dubbi Alessandro, uno dei partecipanti all'iniziativa di preghiera organizzata a Roma da un gruppo di laici alla vigilia dell'apertura dei lavori del sinodo sull'Amazzonia. L'assemblea dei vescovi voluta dal Papa per discutere di "Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale" è l'ennesimo motivo di scontro con l'ala conservatrice. Cardinali, monsignori, ma anche tanti fedeli che contestano il documento di lavoro preparatorio. "Contiene dichiarazioni inaccettabili dal punto di vista della dottrina e della fede che i nostri padri ci hanno trasmesso", spiega Aldo Maria Valli, vaticanista, che incontriamo in piazza. Le questioni dibattute sono tante, e vanno dal "radicalismo ecologista", alla proposta di inglobare i riti delle popolazioni indigene, passando per la possibilità di conferire l'ordinazione sacerdotale agli anziani sposati e "ministeri ufficiali" alle donne. "Abbiamo visto anche ieri una cerimonia sconcertante nei giardini vaticani, all'insegna del paganesimo, situazioni che non hanno nulla di cattolico", denuncia il giornalista. La preoccupazione è che si vada a scalfire la dottrina, questa volta in nome dell'ecologismo. Tra le opzioni che si discuteranno, infatti, c'è anche quella di evangelizzare le popolazioni locali con l'ordinazione dei cosiddetti "viri probati", anziani indigeni "rispettati dalla comunità", che potrebbero amministrare i sacramenti pur avendo già "una famiglia costituita e stabile". Affermazioni che, secondo i critici del documento, potrebbero portare verso l'abolizione del celibato per i sacerdoti. Dure critiche in questo senso sono state espresse nei giorni scorsi da cardinali conservatori come Gherard Mueller, Raymond Leo Burke e Walter Brandmueller, ma anche da porporati sinora allineati al pontificato di Francesco. È il caso del canadese Marc Ouellet: "Per avere un viso amazzonico, la Chiesa non ha bisogno di un sacerdozio uxorato", ha detto in una recente conferenza stampa. Le trecento persone arrivate da tutta Italia per sgranare il rosario all'ombra di San Pietro si oppongono al "tentativo di modernizzare la Chiesa reinterpretando le sacre scritture". Mentre i cattolici tradizionalisti chiedono chiarezza sui "valori non negoziabili", come vita e famiglia, e denunciano un senso di "smarrimento", dall'altro lato c'è chi preme per le riforme. Il Papa è "assediato" da una parte dalla conferenza episcopale tedesca che lavora per l'abolizione del celibato e l'introduzione del diaconato femminile e dai conservatori, che invece gli chiedono di tenere la barra dritta, minacciando addirittura lo scisma, come nel caso dei vescovi americani. A tenere banco c'è la questione dell'ecologia, al centro del pontificato di Bergoglio. "Bisogna ricordare però che la creazione è stata fatta per l'uomo e quindi, prima di tutto c'è da difendere la vita umana", spiega un altro manifestante che contesta il dogmatismo di movimenti come quello di Greta Thunberg. Secondo Valli ultimamente "l'ecologismo ha preso il posto del Vangelo". "Ma non tutti i cattolici – avverte - sono disposti ad essere a farsi manipolare in questo modo". Lo slancio verde di parte della Curia romana non convince neppure il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, preoccupato che in nome dell'ambientalismo l'Amazzonia venga posta sotto un protettorato transnazionale. Michael Czerny, neo cardinale e segretario speciale del Sinodo ha ribattuto come: "La migliore risposta della Chiesa è l'ascolto degli indigeni, cosa che, forse, gli altri non fanno". Ma dall'altra parte dell'Oceano i fedeli promettono battaglia per arginare quella che chiamano "deriva modernista". "I nemici della Chiesa consapevoli o meno che siano – avverte Valli - sono proprio al suo interno e ai suoi vertici, e questo ci preoccupa molto". 

Unione europea "gretina": pioggia di miliardi per il clima. L’accordo raggiunto ieri tra Parlamento e Consiglio prevede lo stanziamento di 168,69 miliardi di euro in impegni e 153,57 miliardi di euro in crediti di pagamento: 30 miliardi per clima e ambiente. Roberto Vivaldelli, Mercoledì 20/11/2019 su Il Giornale. L'Unione europea diventa "gretina". Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto ieri l'accordo sul bilancio dell'Ue per il 2020 che prevede di investire il 20% delle spese a favore dell'ambiente e al contrasto ai cambiamenti climatici. Greta Thunberg può dunque esultare, perché come spiega il sito web dell'Ue, il parlamento e il Consiglio hanno deciso "di concentrarsi maggiormente sulle azioni legate al clima in diversi settori come la ricerca e lo sviluppo (Orizzonte 2020)", le "infrastrutture dei trasporti e dell'energia (meccanismo per collegare l'Europa) e l'azione esterna dell'Ue". Ulteriori fondi, si legge, "sono stati inoltre assegnati al programma Life dell'Ue, che riceverà 590 milioni di euro, e all'Agenzia europea dell'ambiente per l'assunzione di nuovo personale (+6) per sostenere la lotta ai cambiamenti climatici". Il bilancio totale dell'Unione europea sarà di 168,7 miliardi di euro, in aumento dell' 1,5% sul budget 2019, dei quali 153,6 miliardi di euro di spesa effettiva (+ 3,4% sul 2019). 30 miliardi di euro circa - cioè il 20% delle spese - saranno dedicati al clima e alla tutela dell'ambiente. Le cifre concordate si basano sul presupposto che il Regno Unito continuerà a partecipare pienamente al finanziamento e all'esecuzione del bilancio dell'Ue per il 2020. Kimmo Tiilikainen, Sottosegretario di Stato, ministero delle Finanze della Finlandia, capo negoziatore del Consiglio per il bilancio dell'Ue, osserva che "il bilancio del prossimo anno rafforza il sostegno alle aree prioritarie dell'Ue e ai programmi più efficaci. Garantisce inoltre un approccio realistico, tenendo conto degli interessi dei contribuenti e della necessità di far fronte alle nuove sfide che potrebbero sorgere nel 2020. Vorrei sottolineare, in particolare, il passaggio a un bilancio ulteriormente verde, che garantisce funzioni a sostegno dell'agenda dell'Ue clima". Chi beneficerà maggiormente del bilancio "green" dell'Unione europea, dunque, è l'Agenzia europea dell'ambiente (Eea), organismo dell'Unione europea che si dedica alla fondazione di una rete di monitoraggio per controllare le condizioni ambientali europee e ha sede a Copenaghen, oltre al Programma Life (2014-2020), che ha come obiettivo quello "di contribuire all'implementazione, all'aggiornamento e allo sviluppo della politica e della legislazione ambientale dell'UE cofinanziando progetti pilota o dimostrativi con valore aggiunto a livello europeo". Un bilancio talmente "verde" che, tuttavia, pensa a tagliare su un settore strategico come quello dell'agricoltura. Come sottolinea Libero, la sola agricoltura italiana soffrirà nel 2020 di un sensibile calo dei finanziamenti europei, valutato in ben 370 milioni di euro. Per i pagamenti diretti le nostre aziende agricole potranno avere dalla Ue non più di 3,56 miliardi, cioè 140 milioni meno che nel 2019, mentre per i contributi allo sviluppo rurale 1,27 miliardi, con un taglio in tal caso di 230 milioni sull' anno che sta finendo. Briciole anche per fronteggiare la disoccupazione giovanile, che nella zona euro si attesta sul 15,7%, con picchi nei Paesi del sud Europa: le risorse si aggirano sui 145 milioni di euro. Nulla in confronto ai soldi spesi per clima e ambiente. È evidente, inoltre, che l'accordo raggiunto ieri rappresenta una vittoria delle lobby "green". Secondo il Corporate Europe Observatory, un "watchdog" che fa campagne per una maggiore trasparenza, ci sono almeno 30mila lobbisti a Bruxelles, quasi corrispondenti ai 31mila dipendenti impiegati dalla Commissione europea e secondi solo a quelli presenti a Washington Dc. In cima alla lista di questa fitta rete di lobby c'è l'influente Ong European federation for transport and environment. Parliamo di una Ong ricchissima, finanziata dalla stessa Commissione europea. Dal 2016 a oggi, T&E ha ricevuto inoltre 3,04 milioni di euro da soggetti istituzionali e 6,27 milioni da fondazioni e altre associazioni. Tra i maggiori finanziatori, superiori a 750.000 euro, troviamo, oltre alla Commissione europea, la European climate foundation e la Norwegian agency for development cooperation. Fra i "supporter" della Ong c'è poi La Fondazione per lo sviluppo sostenibile: in generale, T&E è supportata da 60 organizzazioni (49 membri e 11 sostenitori) che lavorano "per promuovere trasporti più intelligenti e puliti in 25 paesi in tutta Europa".

Greta Thunberg, l'Unione Europea la fa contenta: lotta allo smog, pioggia di milioni e di assunzioni. Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Sarà per la crescente propaganda di Greta Thunberg e dei suoi seguaci, talvolta battezzati con ironia "gretini", ma anche il nuovo bilancio dell' Unione Europea per il 2020 prende per oro colato le teorie sul riscaldamento globale e sul cambiamento climatico, ancora discusse da gran parte della stessa comunità scientifica, assegnando ancor più soldi al contrasto del "global warming". E limitando il sostegno agli agricoltori del continente. Il compromesso raggiunto ieri fra il Consiglio dell' Unione Europea e il Parlamento Europeo prevede che ben il 21% dell' intero budget del prossimo anno sia destinato a clima e programmi "verdi", in particolare l' assunzione di più personale presso la European Environment Agency, l' agenzia ambientale UE, nonchè il finanziamento di progetti di sostenibilità ambientale del programma LIFE, la cui sigla viene dal francese per "L' Instrument Financier pour l' Environnement".

I NUMERI. L'impegno totale di Bruxelles sarà di 168,7 miliardi di euro, in aumento dell' 1,5% sul budget 2019, dei quali 153,6 miliardi di euro di spesa effettiva (+ 3,4% sul 2019). Ben il 21%, ovvero 32 miliardi di euro, andrà alla tutela ambientale. Cifra che era già cospicua l' anno precedente, sul 20% del bilancio, e che è stata ulteriormente aumentata di 500 milioni. Ben 700 milioni di euro nel solo 2020 andranno al citato programma LIFE, che nei sei anni dal 2014 al 2020 aveva avuto 3,4 miliardi in totale, una media di 560 milioni l' anno. Tutto studiare progetti per limitare l' emissione di anidride carbonica nell' aria. Poichè è la Finlandia ad avere la presidenza di turno dell' unione, non stupisca che il ministro delle Finanze finnico Kimmo Tiilikainen abbia commentato: «Sottolineo l' evoluzione verso una UE più verde e il fatto che coincida con l' agenda UE sul clima».

LE SPIEGAZIONI. Dal canto suo, il tedesco Gunther Oettinger, commissario europeo per il bilancio e le risorse umane, osserva sul budget: «Convoglierà le risorse verso i settori in cui sono necessarie. Contribuirà a creare posti di lavoro, ad affrontare i cambiamenti climatici e a stimolare gli investimenti in tutta Europa. Investirà nei giovani e per rendere l' Europa più sicura». Nonostante i 59,7 miliardi di euro ancora assegnati agli agricoltori, si capisce che tale settore non viene più considerato strategico dagli euroburocrati, nonostante sia il più concretamente importante di tutti, potendo assicurare agli europei una autosufficienza alimentare che li metta al riparo da pericolose abdicazioni a crescenti importazioni da realtà esterne, che si tratti degli Ogm americani o della salsa di pomodoro cinese. La sola agricoltura italiana soffrirà nel 2020 di un sensibile calo dei finanziamenti europei, valutato in ben 370 milioni di euro. Per i pagamenti diretti le nostre aziende agricole potranno avere dalla UE non più di 3,56 miliardi, cioè 140 milioni meno che nel 2019, mentre per i contributi allo sviluppo rurale 1,27 miliardi, con un taglio in tal caso di 230 milioni sull' anno che sta finendo. Peraltro, nelle scorse ore l' Ufficio Economico della Coldiretti ha anche stilato una classifica delle regioni italiane i cui coltivatori subiranno i maggiori tagli nella redistribuzione delle risorse europee. Ebbene pare che ala Puglia spetteranno i tagli maggiori, con una diminuzione di 38,6 milioni, seguita, per limitarci solo ad alcune regioni, dalla Sicilia con 37,7 milioni, dalla Lombardia con un calo di 32,3 milioni e dalla Campania con 28,5 milioni.

GLI AGRICOLTORI. L'agricoltura comunitaria, in genere, deve stringere la cinghia per varie altre priorità individuate a Bruxelles, sia di tipo ambientale, sia relative all' occupazione giovanile. Senza però probabilmentre riflettere a sufficienza sul fatto che proprio il settore agricolo potrebbe diventare uno dei maggiori fattori di sviluppo di nuove competenze, quindi offrendo un notevole sbocco alla disoccupazione. Fra le maggiori voci del bilancio 2020 figurano ben 58,5 miliardi, cioè quasi quanto il sostegno all' agricoltura, "per ridurre le differenze sociali ed economiche fra le regioni europee", con una formula fumosa che, data l' esperienza italiana, si spera non abbia il sapore di un corrispettivo europeo di una "cassa del Mezzogiorno". Se non altro paiono positivi quei 24,5 miliardi destinati in modo aggregato al sostegno alla ricerca scientifica, all' educazione dei giovani, per far sì che l' Europa continui a essere scientificamente all' avanguardia, e specialmente allo sviluppo del sistema di posizionamento satellitare Galileo, concorrente dell' americano GPS, importante a livello economico, ma anche strategico-militare per non dipendere troppo dagli USA per la propria difesa. Mirko Molteni

Tutti i flop della moda eco-friendly. Roberto Vivaldelli il 21 novembre 2019 su it.insideover.com. Non c’è amministrazione pubblica, azienda o ente che, sulla scia del climaticamente corretto e dell’esplosione del fenomeno Greta Thunberg, non gareggi ad essere la più “green” ed eco-friendly di tutte. Ben venga, diranno i più: se una campagna mediatica come quella di Greta sprona le amministrazioni e le aziende di tutto il globo ad essere più (eco)sostenibili, a inquinare meno, a rispettare l’ambiente che ci circonda, allora significa che funziona, che l’obiettivo è stato raggiunto. Verissimo in alcuni casi, altrettanto falso in altri. Perché le zone grigie o d’ombra in questa estasi ecologica non mancano di certo. A volte, pur di far bella figura, pare quasi che si vada contro il semplice buon senso. Come riporta La Verità, la Toscana ha distribuito a 850 scuole in più di 150 Comuni 55.000 bottigliette in alluminio. Confservizi Cispel Toscana parlava entusiasta di “un risparmio di 130 tonnellate di plastica e per le famiglie di oltre un milione di euro”. Cifre, spiegava, “che per le tasche degli studenti – e dunque delle famiglie – si traducono in oltre un milione di euro di risparmio, con conseguenze fondamentali per l’ambiente, ormai soffocato da produzione e smaltimento di plastica”. Peccato che le borracce fossero difettose. “A seguito di segnalazioni ricevute da parte di alcune famiglie di alunni, riguardanti problemi riscontrati sulle borracce distribuite nelle scuole cittadine con iniziative pubbliche, il Comune ha scritto alle Dirigenze scolastiche per invitarle a far sospendere in via cautelativa l’utilizzo dei recipienti”, si legge in una nota del Comune di Scandicci.

Tutti i flop delle eco-mode. Come riporta Greenme, queste borracce non convincono e si prospetta il dubbio siano di cattiva produzione e se ne invoca addirittura il ritiro. “Dal un lato pare che siano made in Cina, dall’altro, almeno tra quelle regalate da Publiacqua Spa, hanno perso scaglie di rivestimento proprio nel punto dove i bimbi poggiano la bocca per bere, e le famiglie sono preoccupate per cosa abbiano potuto ingerire insieme all’acqua. Segnalazioni mi arrivano, ad esempio, da San Casciano, ma anche da Scandicci dove addirittura il Comune si è mosso per invitare i dirigenti scolastici a sospendere l’utilizzo delle borracce”, spiega il consigliere regionale Maurizio Marchetti, che si appella alla Regione affinché si proceda al ritiro e divieto d’uso di tutti quei recipienti. Con il risultato che si tornerò alle care, vecchie, bottigliette di plastica. Altra favola green, ricorda La Verità, è quella delle auto elettriche. A parte i costi esagerati e la scarsità di centraline per la ricarica, il tema principale è sempre lo smaltimento delle batterie al litio. E in Paesi come la Norvegia, la disaffezione comincia a emergere, come scrive l’Ansa. “In Norvegia abbiamo sovvenzionato le auto elettriche perché i loro livelli di emissioni di CO2 sono inferiori rispetto a quelle convenzionali – ha osservato Bjart Holtsmark, ricercatore presso il Norwegian Institute of Statistics -. Ma ci sono molti altri costi sociali di cui tenere conto, come ingorghi e incidenti, indipendentemente dal tipo di auto”. Secondo Gjensidige, il più grande assicuratore norvegese, infatti, le auto elettriche sono coinvolte in incidenti il 20% in più rispetto ai modelli diesel o benzina, a causa della loro capacità di accelerare da fermo molto più rapidamente.

I flop del bike sharing. Tra i “flop” fragorosi dell’epopea green c’è poi il bike sharing, che in molte cittadine italiane non riesce proprio a prendere piede. Nel 2012 a Napoli, come racconta Napoli Today, l’associazione Cleanap ha realizzato un progetto di sperimentazione con fondi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Dopo tre anni il servizio è stato abbandonato e il bando del Comune di Napoli è andato deserto. In città sono rimasti solo gli stalli delle biciclette, abbandonati e trasformati in panchine o porta-bicchieri. E a Roma non va tanto meglio. Come racconta ad AffariItaliani Fausto Bonafaccia, presidente dell’associazione BiciRoma, “il sistema di bike sharing a flusso libero non ha funzionato e non lo riproporrei. Nel Prip, il Piano regolatore degli impianti pubblicitari votato nel 2014 e modificato dalla Giunta Raggi nel 2017, erano stati stanziati dei fondi per finanziare un sistema di bike sharing a postazioni fisse. Ora però il Comune ha fatto un passo indietro e l’assessore Cafarotti ha fatto sapere che il bike sharing fisso non è più "al passo con i tempi”. Dal 21 ottobre è attivo Jump, il bike sharing di Uber: si parte con 700 bici elettriche a pedalata assistita, che nel giro di qualche settimana dovrebbero arrivare a 2.800. Chissà se sarà la volta buona per il bike sharing nella Capitale o se sarà l’ennesimo flop.

Il climate-change come arma di distrazione e distruzione di massa. Piccole Note su Il Giornale il 5 ottobre 2019. Il climate-change come arma di distrazione di massa. Questo il senso di un articolo di Anshel Pfeffer su Haaretz, che commenta una dichiarazione sull’ultima assemblea generale dell’Onu di Danny Danon, ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite. Il climate-change, ha dichiarato Danon, “è importante e dovremmo discuterne di più, ma dal nostro punto di vista, un grande risultato è che Israele non sia stato messo discussione” in tale sede. Vero, in genere alle assemblee dell’Onu c’era sempre posto per dibattere della crisi israelo-palestinese, cosa non avvenuta nell’ultima sessione plenaria. Il fatto è che “in un mondo ideale – scrive Pfeffer – dovrebbe essere possibile combattere per due cause contemporaneamente; chiedere un’azione urgente sul clima e allo stesso tempo giustizia per i palestinesi”.

Climate-change o dark climate. “Ma la triste verità è che, indipendentemente da ciò che dicono i teorici dell’intersezionalità [la capacità di attendere a differenti ingiustizie contemporaneamente ndr.], l’intervallo di attenzione umana è limitato e non tutte le ingiustizie possono essere combattute nello stesso tempo”. Non solo, “il livello di attenzione e di energia speso per determinate questioni raramente sono commisurati alla loro reale importanza e rilevanza nello schema generale delle cose”.  Da qui, la possibilità, anzi la triste realtà, che la causa del climate-change oscuri questioni umanitarie ben più tragiche. E ancora, sempre riferendosi al quadro della criticità israelo-palestinese, Pfeffer rileva che, al contrario dei nazionalisti Usa, che con Trump relativizzano fin troppo la questione ambientale, i nazionalisti israeliani potranno invece usare questa “causa” per presentarsi come salvatori del mondo. Così Pfeffer: “Preparati, dunque, per future campagne di pubbliche relazioni che reclamizzano i metodi rivoluzionari [israeliani] della gestione delle risorse idriche e delle reti di energia solare all’avanguardia”, tecnologie che peraltro Tel Aviv possiede, annota Pfeffer, il quale fa però rilevare all’opposto l’inquinamento ad opera di alcune imprese israeliane, che sarà ovviamente tacitato.Ancora più interessante il cenno successivo, nel quale il cronista israeliano scrive: “Non sorprenderti se, tra un paio d’anni, la soluzione per i guai di Gaza sarà ‘mascherata’ in termini ambientali, piuttosto che politici, e se Hamas sarà accusato di provocare un disastro ecologico”. Rilievi intelligenti quelli di Pfeffer, che hanno un orizzonte ben più ampio della criticità israelo-palestinese, per la quale, peraltro, va specificato – come fa il cronista – che il suo oscuramento non va addebitato solo all’emergenza climatica. Tante e diversificate le cause dell’oblio. Ma resta vero che il climate-change può e sarà usato per distrarre da emergenze umanitarie ben più gravi. E anzi, chi gestisce l’agenda della protesta, che non è certo l’adolescente Greta Thumberg, potrà usarlo contro suoi nemici o percepiti tali.

L’emergenza ambientale strumento di pressioni politiche. Al futuro Gheddafi di turno – cioè un Capo di Stato che non risponde a certo potere –  non saranno addossate solo mancanze sul piano dei diritti umani, ma anche sul piano ambientale. Non solo i crimini contro il suo popolo, come avvenuto in maniera strumentale per il Colonnello libico (vedi National Interest), ma anche contro l’ambiente, per rappresentare il reprobo come una minaccia per la sopravvivenza stessa del pianeta. Un po’ quel che è avvenuto di recente, in termini minori, per il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, additato come un criminale globale per l’incendio divampato in Amazzonia. Accuse utili a mettere in crisi figure e Paesi invisi al potere globale, quello che agita lo spettro del pericolo ambientale, anche solo per costringerli a fare certe scelte piuttosto che altre. Ad esempio per spingerli a spendere i soldi pubblici per rendere le proprie imprese meno inquinanti piuttosto che per produrre sviluppo per i suoi cittadini, per creare in tal modo malcontento nel Paese stesso, utile per un eventuale cambio di regime (soft o hard che sia). L’emergenza ambientale può essere usata anche in altro modo: non è certo casuale che gli attivisti del climate-change abbiano annunciato una manifestazione volta a chiudere il centro di Londra, protesta che segue il tentativo di spruzzare della vernice rossa sul ministero del Tesoro. Il blocco di Londra servirà a disturbare il conducente, ovvero Boris Johnson: ne assorbirà attenzione ed energie, sottratte così alla sua azione politica in un momento tanto decisivo per la Brexit. Si tenga presente che quanti remano contro la Brexit finora hanno usato tattiche dilatorie. Più il tempo passa senza che il referendum venga attuato, più i suoi fautori, logorati, potrebbero essere tentati di rinunciarvi, data l’impossibilità di concretizzarlo. Né sfugge che un movimento che dovrebbe essere apolitico sia diventato invece un attore politico: basta vedere le recenti elezioni austriache, dove lo spettro del cosiddetto populismo è stato esorcizzato dall’avanzata dei Verdi. Insomma, il climate-change può essere usato, e sarà usato, in vari modi. Non si butta niente, come il maiale. Ps. Sottrarre i temi ambientalisti a certo potere sarà compito ingrato, ma necessario dato che sono drammaticamente reali.

·        L’utopia delle emissioni-zero. 

La politica insiste con l’utopia delle emissioni-zero. Franco Battaglia, 11 ottobre 2019 su Nicolaporro.it.  Ma perché i politici, si ostinano a non esercitare l’aritmetica? Perché, perché, perché? Leggo di Fico, Gualtieri, Conte e Gentiloni. Il primo accusa chi nega l’emergenza climatica di essere “irresponsabile”. Osservazione molto profonda: come se io dicessi che è un cretino Fico che l’afferma. Gualtieri dichiara che il governa s’impegnerà a realizzare il “cambio di passo” verso l’energia verde. Un po’ poco, visto che da un ministro dell’economia uno s’attenderebbe qualche cifra. Ma ai numeri, come abbiamo esordito, questi sono allergici. Conte vuole addirittura scorporare il denaro che prevede spendere per le riduzioni delle emissioni di CO2 dal calcolo del deficit: ma è proprio quella spesa a creare deficit, Conte mio! Per fortuna c’è Gentiloni che finalmente ci consola comunicandoci l’entità auspicabile di quella spesa: 1 trilione d’euri. Avendo Gentiloni parlato da neo Commissario europeo, immagino intendesse il trilione a carico della Ue (cioè che non riguardi solo dell’Italia). La cifra profferita da Gentiloni per l’Ue è in linea con altri suggerimenti internazionali che, per raggiungere le emissioni-zero, sussurrano un impegno planetario, nei prossimi 10 anni, dell’ordine di 3 trilioni (secondo alcuni) o (secondo altri) dell’ordine del 2% del Pil mondiale, che a far cifra tonda, ammonta a 100 trilioni di dollari. Non sapendo né leggere né scrivere, teniamoci alti e vediamo cosa comporterebbe in termini di riduzione di CO2 la spesa planetaria di 3 trilioni di dollari. Vediamo se con essa si pervenga o, almeno, ci si avvicini, all’agognato obiettivo di emissioni-zero per il 2050. Dobbiamo solo esercitare aritmetica da terza elementare. I dettagli li lasciamo alle teste d’uovo che sciorinano illeggibili e prolissi rapporti, osannati poi dai media come “gli esperti dicono…”. Portate pazienza, ma dobbiamo premettere un lemma: la tecnologia carbon-free più efficiente è quella elettronucleare. Per convincersene, basta considerare che in Italia abbiamo installato 20 GW (gigawatt) fotovoltaici, i cui soli impianti sono costati 100 miliardi. Essi producono 2 GW elettrici, perché il sole non brilla sempre. Ma per produrre 2 GW elettrici sarebbero bastati 2 reattori nucleari con un impegno economico inferiore a 10 miliardi, dieci volte di meno del fotovoltaico. L’eolico costa molto meno del fotovoltaico ma, a parità di produzione e quindi di riduzione della CO2, almeno il doppio del nucleare. Quindi, al di là del fatto che il nuke piaccia o no, esso sarebbe la cosa più furba da fare per evitare la CO2. Orbene, al costo di 3 miliardi per reattore nucleare, con 3 trilioni s’installano 1000 reattori nucleari, quadruplicando così la dotazione mondiale. Questa, attualmente, evita il 6% delle emissioni, cosicché quando sarà quadruplicata si sarà evitato neanche il 25% delle emissioni: il mondo che oggi emette 100, quando avrà speso 3 trilioni emetterà 75. Purché i 3 trilioni siano impegnati tutti sul nucleare, perché se entrano in gioco le altre tecnologie questo 25% si riduce a pochi punti percentuali. Sempreché 1) la popolazione mondiale non cresca e 2) i Paesi in via di sviluppo la smetteranno di ostinarsi a perseguire il deprecabile obiettivo di avvicinare il proprio tenore di vita a quello di Greta. Naturalmente nessuna di queste ultime due cose accadrà, cosicché dopo che il mondo avrà speso 3 trilioni scopriremo che al 2050 le emissioni saranno superiori alle odierne. Si dirà che non si era fatto abbastanza e che bisognerà fare di più. Questi sono i miei pronostici per il 2050. Io non ci sarò per allora, ma da qualche parte in internet questo articolo ci sarà. Come ci sono oggi gli articoli di vent’anni fa coi pronostici, miei e di qualcun altro che s’ostina ad esercitare l’aritmetica, sussurrati in un deserto sovrabbondante di Fichi, Gualtieri, Conti e Gentiloni. Franco Battaglia, 11 ottobre 2019

·        L'uomo ha cominciato a modificare il clima ben 10.000 anni fa.

L'uomo ha cominciato a modificare il clima ben 10.000 anni fa. Molto prima di quanto si pensasse, molto prima dell'agricoltura intensiva. Le conclusioni di uno studio che parla anche italiano. La Repubblica il 29 agosto 2019. L'uomo ha cominciato a modificare ambiente e clima molto prima di quanto si pensasse: è accaduto a partire da 10.000 anni fa, molto prima dell'agricoltura intensiva. Lo indicano i Big Data relativi al periodo compreso fra 10.000 e 170 anni fa, raccolti grazie al progetto ArchaeoGLOBE con il contributo di 255 ricercatori in tutto il mondo tra cui anche 5 italiani. Pubblicata sulla rivista Science, la ricerca è coordinata da Lucas Stephens dell'università americana della Pennsylvania. Vi hanno partecipato Gilberto Artioli, dell'università di Padova, Mauro Cremaschi e Andrea Zerboni, dell'università di Milano, Savino di Lernia dell'università Sapienza di Roma, Elena Garcea, dell'università di Cassino. "I risultati sono impressionanti", rileva in un commento Neil Roberts delle università britanniche di Plymouth e Oxford. Ci dicono, aggiunge, "che la trasformazione della Terra da parte dell'uomo è iniziata molto prima dell'invenzione del motore a vapore, del primo test della bomba atomica, o di altri marcatori proposti per l'inizio dell'Antropocene", ossia l'epoca geologica attuale, in cui l'ambiente terrestre viene fortemente condizionato dagli effetti dell'azione umana. Obiettivo della ricerca era valutare l'impatto dell'uomo sul paesaggio, tuttavia, dice all'Ansa di Lernia, i dati confermano anche che l'impatto delle azioni umane sul clima è antichissimo: "il processo inizia 10.000 anni fa. E' in quel periodo che il paesaggio inizia a cambiare e comincia a innescarsi uno squilibrio nell'ambiente che inizialmente è modesto, ma poi cresce, con un picco che comincia 6.000 fa" fino all'impennata degli ultimi 150 anni, quando "l'impatto diventa molto più intenso e rapido". I dati archeologici raccolti in tutto il mondo hanno permesso di ricostruire questi cambiamenti che cominciano quando alla fine dell'epoca glaciale, il clima diventa più umido e piovoso e in molte parti del mondo l'uomo inizia a produrre cibo: per coltivare piante e allevare animali brucia pezzi di foresta, immettendo CO2 in atmosfera. Lo studio, osserva Roberts, aiuta ad avere una visione a lungo termine sul rilascio di carbonio e il cambiamento nell'uso di terra che è importante per gestire meglio il territorio, al fine di combattere il riscaldamento climatico.

·        Come moriremo? Prevedere il futuro, ricordando il passato.

VOLETE SAPERE DI CHE MORTE MORIREMO? Sergio Carli per Blitzquotidiano il 30 maggio 2019. Clima, dalla storia di duemila anni fa, riletta con gli strumenti della scienza di oggi, viene un terribile monito. Il ruolo del clima è stato decisivo per fare e disfare gli imperi, da quello romano a quello cinese.  Leggete il libro di Kyle Harper, Il destino di Roma, clima epidemie e la fine di un impero (Einaudi) e poi cominciate a tremare. Sono cinquecento pagine, appendici incluse, che si leggono come un thriller. Non c’è molto da scherzare. Guardiamoci attorno. Siamo in piena turbolenza climatica, tipico della fine di un ciclo. Se ne sentono di tutti i colori, dalle colpe dell’uomo nel riscaldamento globale all’imminente arrivo di una nuova era glaciale. La polemica infuria, succedono le cose più assurde come il Papa che prende sul serio una ragazzina saccente. Lo spirito luddista e antindustriale della decrescita felice trova alimento nelle teorie di scienziati in cerca di visibilità e di gloria. Le due superpotenze, Usa e Cina, le più coinvolte nell’inquinamento man-made, per reazione negano l’evidenza. Forse è vero che l’umanità può farci poco, che siamo in balia delle leggi della natura, che quelle leggi hanno plasmato la nostra storia fin da quando i nostri più antichi antenati sono scesi dagli alberi. Però è anche vero che gli strumenti tecnologici e scientifici a nostra disposizione sono ben superiori a quelli a disposizione di Marco Aurelio, Antonino, Giustiniano e anche Papa Gregorio con le sue processioni. Forse invece di perdere tempo in polemiche, sit-in e negazionismi, sarebbe il caso che i governo del mondo e l’inutile Onu studiassero come applicare conoscenze e soldi al tentativo di anticipare e contrastare quegli effetti.  Non saranno le domeniche a piedi a salvarci.  Quando gli inglesi si sono decisi di affrontare l’incubo dello smog, ci sono riusciti. Guardate i vecchi film e vi renderete conto. Allora non c’erano tante auto eppure la nebbia, anzi lo smog, fumo e nebbia combinati, avvolgeva Londra e le grandi città. Proibirono l’uso del carbone per il riscaldamento. Oggi a Londra c’è meno nebbia che a Bergamo o a Fiumicino. Harper non è il primo a leggere la storia nell’ottica dell’impatto delle malattie. Nel 1997 Jared Diamond pubblicò Armi, acciaio e malattie sul tema. Però la forza del libro di Harper è la sua applicazione a un fatto concreto, la storia dell’impero romano. Dal clima è dipesa la fase trionfale di Roma. Harper la chiama Optimum climatico romano. Durò dal 200 a. C. al 150 dc...Dal clima è dipesa anche la fine di Roma: altro che corruzione e cattivi costumi, eccessiva pressione fiscale, esercito di mercenari, invasioni barbariche e cristianesimo, islam. Tutto ha contribuito, ma all’origine di ogni fattore di crisi ci fu sempre il clima. Piogge, inondazioni, eruzioni vulcaniche, maree e rotte dei venti hanno minato le basi dell’impero romano, come in Cina quello degli Han. E il colpo di grazia non lo ha dato Attila, ma la peste, portata dai topi che hanno portato le pulci che hanno portato il vaiolo. Anzi, in questo caso, fu la paura del contagio della peste, piuttosto che le preghiere di Papa Alessandro, che indusse Attila a tornare nelle sue steppe. Fu il periodo detto di transizione, tre secoli dove successe di tutto, culminato nella caduta di Roma e nel suo saccheggio da parte dei vandali (455 d.C.). Poi altri 250 anni di depressione, dal 450 al 700. Coincise con un periodo di glaciazione. Furono i secoli bui. La crisi della cultura non ne fu causa, ne fu conseguenza. Anche l’ascesa del Cristianesimo è dipesa dal caos causato dal clima. E così è stato per l’Islam e in Cina per il Buddismo. Ad ogni attacco di epidemia, un nuovo credo si affermava. La gente non sapeva letteralmente più a che santo votarsi. Gli dei di Roma non erano stati all’altezza. Neanche il cristianesimo è servito come profilassi, ma almeno dava una speranza per l’aldilà. E inoltre, la solidarietà dei cristiani, estesa anche ai pagani, dava un sollievo concreto in termini di assistenza e anche di cure che certo non offrivano altari, sacrifici e incensi pagani. Tre sono state le grandi epidemie che hanno messo in ginocchio Roma: 165, peste antonina (vaiolo?); 250, peste di Cipriano; 541, peste bubbonica, durò 2 secoli. Nella recensione del giornale inglese Guardian c’è una sintesi impressionante: “Opera di notevole erudizione e sintesi, lo studio di Harper è di grande attualità e offre un allarmante avvertimento tratto dalla storia sull'”impressionante e misterioso potere della natura”. A Roma, nel 400 d. C. vivevano più di 700.000 persone, era una città con 28 biblioteche, 856 bagni pubblici e 47.000 palazzine. Era la più bella del mondo, il gioiello di un impero che comandava su un quarto della popolazione del pianeta. Eppure, nel giro di pochi decenni il grande impero era crollato e Roma contava solo 20.000 abitanti. Per lungo tempo gli storici si sono appassionati all'”unico e il più grande arretramento nella storia dell’uomo”. Utilizzando i dati di “archivi naturali” come le tracce di genoma e carote di ghiaccio, Kyle Harper offre una nuova interessante versione sul destino di Roma, sostenendo che è stato “il trionfo della Natura sulle ambizioni umane”. A far arretrare l’Italia sono state le pandemie e i cambiamenti climatici causati dalle eruzioni vulcaniche. Malattie infettive come il vaiolo si diffondevano rapidamente nell’impero urbanizzato grazie anche alle sue famose strade. Il 536-45 d.C. è considerato “il decennio più freddo degli ultimi 2000 anni”, che aveva provocato carenza di cibo. La peste, i cambiamenti climatici e la guerra avevano annullato un millennio di rilevanti progressi. Quello che deve meravigliare è la capacità di tenuta dell’Impero romano. Dalla prima grande crisi al sacco di Roma di Alarico passarono 300 anni, altri due secoli trascorsero prima che le armate del Profeta privassero Costantinopoli delle ricchezze del Medio Oriente. Per non dire che ci vollero altri 800 anni prima che Costantinopoli cedesse al sultano. La peste non fu la sola e unica causa. I suoi effetti misero in moto le altre cause. Fanno eccezione le guerre, scatenate non dal clima dall’avidità, decisiva quella fra impero romano e impero persiano. Ma gli effetti delle epidemie dimezzarono la popolazione e in pari misura la base di reclutamento dell’esercito, di qui l’aumento della pressione fiscale per reperire il denaro per pagare i soldati, mentre l’economia boccheggiava perché i capricci del clima avevano messo in ginocchio l’agricoltura. Quando arrivarono i barbari, non c’erano truppe sufficienti per fermarli. E quando arrivarono gli arabi, l’esercito di Costantinopoli, stremato, era stato appena mandato a casa. Dopo avere letto il libro di Harper, pochi dovrebbero avere la forza di ridere dell’allarme lanciato a Los Angeles che il cambiamento climatico potrebbe provocare un massiccio aumento di topi e dei loro parassiti, tra cui le pulci, che possono essere pericolosi per la salute, e causare la peste bubbonica.  L’allarme è lanciato n un nuovo libro, “Black Death at the Golden Gate: The Race to Save America from the Bubonic Plague”, da Davis K. Randall. Il clima in rapida evoluzione, sostiene, sta mettendo Los Angeles, la seconda città più grande degli Stati Uniti, a rischio di un’epidemia mortale di peste bubbonica causata da pulci trasportate dai topi. I topi, nei secoli, sono stati il mezzo di trasporto delle pulci in giro per il mondo. Si imboscavano sulle navi e diffondevano la peste. Genova è stata in più di una occasione il punto di partenza in Europa. La peggiore epidemia di peste nella storia fu quella conosciuta come “peste nera“, che nel Quattordicesimo secolo causò la morte di circa 50 milioni di persone soltanto in Europa. La portarono i genovesi, in fuga da una loro base sul Mar Nero assediata dai tartari. Fra gli assedianti era scoppiata l’epidemia e i cadaveri vennero usati come proiettili, lanciati oltre le mura. Terrorizzati, i genovesi fuggirono con le loro navi. A bordo c’era una nutrita colonia di topi, che durante il viaggio e allo sbarco, si moltiplicò velocemente (pare siano fra e specie a più alta capacità riproduttiva). Citando Robert Corrigan, una delle principali autorità mondiali sullo studio dei ratti, Randall afferma che a livello mondiale le popolazioni di topi urbani sono aumentate dal 15 al 20%; oltre a un clima più favorevole, in città trovano delle scorte di cibo, in particolare nella spazzatura. Secondo le Nazioni Unite, entro il 2050 si prevede che il 68% degli esseri umani in tutto il mondo vivrà in ambienti urbani. Quei topi, spiega Randall, potrebbero essere il fulcro di una potenziale situazione pericolosa, poiché tendono a ospitare pulci contenenti i batteri della peste bubbonica. “Qualsiasi cambiamento climatico che aumenti il numero di pulci aumenta anche la diffusione della peste”, afferma Janet Foley, docente di medicina ed epidemiologia alla UC Davis. Senza pensare alla California, basta concentrarsi sull’Italia. Il sottosuolo delle nostre città è dominato dai topi. Non solo Roma ma Milano,  Savona, Como e chissà quante altre. Decine di pagine del libro di Harper sono dedicate alle pulci e al loro ruolo di diffusore della peste. Le pulci vivono del sangue dei topi, ma quando i topi non soddisfano più i loro appetiti, si rifanno sull’uomo. La lista delle epidemie è molto lunga, un libro del 1976 di William H. McNeill, Plagues and Peoples, fa la storia delle epidemie dalla preistoria a oggi. In appendice c’è la lista delle epidemie che hanno colpito la Cina dal 243 avanti Cristo al 1911. Lettura desolante. Gli effetti del clima furono positivi per un lungo periodo, fu il già citato Optimum climatico. Quando iniziò a girare storto, furono 600 anni di tormenti. Non fu solo Roma a esserne travolta, ma anche l’altra metà dell’impero, da Costantinopoli fino all’Egitto, tutto andò a pezzi. Intanto, scriveva nel 536 Cassiodoro, ministro imperiale del sesto secolo, noto ai romani per una strada di Prati: “Il sole sembra avere perso la luce, ha assunto un colore bluastro. Le nostre ombre non si vedono nemmeno a mezzogiorno, come una eclisse che dura da un anno”. Fu un periodo di eruzioni vulcaniche a catena. Poi arrivò Maometto.

·        La natura batte i catastrofisti.

La natura batte i catastrofisti. Tornano farfalle e uccelli: la natura batte i catastrofisti. Molte specie animali che gli ambientalisti davano per spacciate sono tornate a godere di ottima salute. Anna Muzio, Domenica 02/06/2019, su Il Giornale. Chiamatele buone notizie, anche se piccole, o il segnale della potenza della Natura con la n maiuscola. Ma in un periodo storico in cui si sta assistendo alla scomparsa a ritmo accelerato di migliaia di specie, con un recente rapporto delle Nazioni Unite che stabilisce in un milione le specie a rischio, tanto che si parla di sesta estinzione di massa, qualche buona notizia ogni tanto c'è. La perdita di biodiversità può non essere definitiva, ma ciò che l'uomo ha distrutto va da lui rimediato. Due casi recenti lo dimostrano e arrivano dalla Gran Bretagna in panico da Brexit. Dove però almeno alcune specie date per disperse sono ritornate con l'arrivo della primavera. Un primavera vera, con tanto sole e quel po' di pioggia, beati loro. Che è piaciuta assai a specie ad altissimo rischio come alcune farfalle e lepidotteri. Tanto da riportare nella incantevole campagna inglese a maggio una aristocratica residente che non si vedeva da tempo, un po' come in un episodio di svolta della serie tv cult Downton Abbey: la variopinta Duca di Borgogna. Ritornata in forze (per modo di dire, ne sono state avvistate 216 tra lo Yorkshire e il Sussex) insieme a un'altra grande assente degli anni passati, la farfalla della fritillaria della palude. Un po' presto per stappare bottiglie di champagne però perché in realtà le 59 specie native del Paese sono tutte in declino, e a rischio. Certo non è saggio però basarsi sul bel tempo, oggi più che mai volubile, e l'uomo deve metterci una pezza. Cosa fattibile se specie nelle piccole isole. Prendiamo il caso di Lundy, che si trova davanti alla costa del Devon, la più grande delle isole del canale di Bristol (ma è lunga meno di cinque chilometri). Quindici anni fa fu liberata dai ratti, arrivati sulle navi dell'uomo, e da allora la popolazione di pulcinelle di mare è «esplosa», passando dai 13 esemplari del 2001 agli attuali 375. Mentre gli uccelli marini nelle varie specie tra cui le berte dell'isola di Man ma anche urie e gazze marine hanno raggiunto il ragguardevole traguardo di 21mila esemplari. Il motivo è semplice: i ratti razziavano le uova degli uccelli che nidificavano sul terreno e uccidevano i pulcini. Uno studio recente pubblicato a marzo su Plos One stabilisce come quasi il 10 per cento della popolazione di uccelli, mammiferi, anfibi e rettili a rischio di estinzione potrebbe essere salvata abbattendo selettivamente mammiferi invasivi e introdotti dall'uomo come ratti e gatti, in 169 isole. E 107 di queste sarebbero «tecnicamente e socio-politicamente» pronte all'avvio di uno sradicamento entro il 2020. Si trovano in 34 Paesi, in particolare in Messico, Polinesia francese, Marianne settentrionali e nella regione dei Caraibi. Queste eradicazioni potrebbero potenzialmente avvantaggiare 151 popolazioni di 80 specie di vertebrati autoctoni altamente minacciati. C'è da dire che non tutti sono d'accordo: già nel caso di Lundy alcuni animalisti erano insorti giudicano assai opinabile la scelta di uccidere sgraditi ratti per salvare uccelli «carini e coccolosi» e amati dai turisti. Una scelta di mercato, insomma. Un caso nostrano del come l'assenza dell'uomo faccia molto bene al resto della natura ce l'abbiamo anche in Italia. È Montecristo isola appartenente al Parco Nazionale Arcipelago Toscano, Riserva Naturale Statale Integrale e Riserva Naturale Biogenetica. Abitata solo da alcuni agenti del Corpo Forestale dello Stato, è sotto stretta tutela e non può sopportare la visita strettamente guidata di più di 2000 visitatori l'anno (erano mille fino all'anno scorso). Il tutto per tutelare la sua macchia mediterranea ma anche il discoglasso sardo, una specie di rana, il gabbiano corso e la berta minore, il gheppio, l'aquila reale e il corvo imperiale da un perniciosissimo predatore, l'homo turisticus.

·        Disastri Ambientali. «Pago i faggi a prezzo pieno per far partire la rinascita dei boschi».

Dal cuore delle Dolomiti, la risposta alla tempesta Vaia. Il progetto della Casa armonica è solo la prima tappa di un progetto di rinascita della Val Visdende. Tutto incentrato sul legno di risonanza. Elisabetta Burba l'8 novembre 2019 su Panorama. «Con la Casa armonica abbiamo voluto trasformare un evento distruttivo, la tempesta Vaia, in un evento di rinascita». L'ingegnere Samuele Giacometti descrive il progetto presentato il primo novembre al museo Algudnei di Dosoledo, una frazione del comune di Comelico superiore, nel cuore delle Dolomiti bellunesi. Accompagnato dalle note di un clavicembalo, il gruppo di lavoro Ri-Ambientiamoci ha illustrato il prospetto della Casa armonica, un edificio di legno che verrà costruito in Val Visdende, incastrata fra Veneto e Friuli, utilizzando gli alberi abbattuti un anno fa dalla tempesta Vaia. Fra il 26 e il 30 ottobre 2018, la fortissima perturbazione aveva colpito le Alpi del Nord-Est, distruggendo decine di migliaia di ettari di foreste. A subire i maggiori danni era stata la Val Visdende, dove in poche ore la devastazione aveva fatto crollare il costo del legname da 120 a 18 euro al metro cubo. Ma le ferite aperte dalla tempesta nei boschi di abeti rossi sotto il monte Peralba sono diventate un’occasione per riqualificare l'intero territorio. Grazie al progetto Ri-Ambientiamoci, nato nell'Area interna del Comelico con il finanziamento del Caaf Cgil Nordest, le piante abbattute dalla tempesta si trasformeranno in uno spazio per la musica e in una sala di registrazione di strumenti musicali antichi. «L'edificio sorgerà fra il fiume e il bosco annientato da Vaia» spiega l'architetto Daniela Zambelli, presidente della cooperativa Lassù, che ha ideato Ri-Ambientiamoci. «L'iniziativa risponde a una necessità del territorio: in tutto il Cadore non esiste uno spazio del genere». Ma che cosa c'entra la musica con la val Visdende? Risponde l'ingegnere Giacometti: «Il “bel suono” viene prodotto grazie all'abilità di musicisti che suonano strumenti di qualità altissima. Qualità che il produttore ottiene dando forma alla cassa armonica (il cuore dello strumento), con il cosiddetto legno di risonanza, che viene prodotto solo da alcuni abeti rossi. Per esempio, quelli della val Visdende». Storia nient'affatto banale, quella di Samuele Giacometti. Ingegnere marchigiano, ha avuto la fulminazione quando si è trasferito in Val Pesarina per lavoro. Rimasto abbagliato dalla bellezza dei boschi carnici, ha deciso di costruire una casa di legno per la sua famiglia usando il legname prodotto nei boschi circostanti, all'interno di un anello con il raggio di 12 chilometri (per questo detta casa a km 12). Dalla premiatissima esperienza sono nati due libri e un'impresa: SaDiLegno. Grazie a un cofinanziamento della regione Friuli-Venezia Giulia, Giacometti ha poi dato vita alla rete d'impresa 12 to-Many, che opera nell'Alta Carnia collegando il bosco al mercato, attraverso un network fra boscaioli, segherie, falegnami, carpentieri e anche produttori di strumenti musicali. Ora l'innovativa realtà carnica si è alleata con i dirimpettai del Cadore per realizzare la Casa armonica, un luogo dove acquisire, mixare ed editare il «bel suono». Ispirato al modello di sviluppo alternativo per la montagna, l'edificio sarà conforme agli standard di CasaClima Nature, che ne certificherà la qualità dal punto di vista energetico. Il legname utilizzato sarà invece certificato Pefc, lo standard di gestione forestale sostenibile. Per rendere operativa la struttura, sarà fondamentale l'apporto dell'impresa FratelliLeita, un laboratorio artigiano di Prato Carnico (Udine) che fa manutenzione, riparazione e restauro di strumenti musicali antichi, come pianoforti, fortepiani, clavicembali e harmonium. Ma è solo l'inizio. La realizzazione della Casa armonica sarà solo l'inizio di un percorso dedicato ai boschi che un tempo producevano legname per le navi della Serenissima o i pali di fondazione delle case veneziane. Spiega l'architetto Zambelli: «Attraverso un'operazione che impegnerà proprietari dei boschi, artigiani, architetti e costruttori di strumenti musicali, verrà attivato un circolo virtuoso che promuoverà nuove attività lavorative». Già, il lavoro. «La Casa armonica è un'operazione di carattere simbolico, perché alla distruzione rispondiamo con la ricostruzione. Ma si tratta solo di una prima tappa: la nostra idea è costruire una piccola filiera corta» conclude Zambelli. «In questo territorio non è mai esistita una filiera vera e propria dedicata al legno di risonanza. L'idea è di crearla, attribuendo al legno un valore diverso da quello che ha avuto negli ultimi anni. Leitmotiv del progetto sarà la qualità, finalizzata alla costruzione di strumenti musicali e alla produzione di mobili di design».   

Dolomiti, la vita dopo la tempesta: a un anno da Vaja il legno degli schianti finisce in Cina. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. La tempesta ha preso la rincorsa dalla Liguria. Una mareggiata di scirocco come non se ne ricordano ha frustato rabbiosamente la costa. A Rapallo duecento imbarcazioni sono state sbattute con violenza sui frangiflutti, sollevate da onde alte anche 10 metri. Decine di scafi sono finiti in mezzo alla strada, come arenati nella bassa marea. In quel momento Massimo Maugeri, manager di 58 anni con un passato in Legambiente, cercava di tornare a casa. Ha dovuto fermare l’auto e mettersi al riparo. Era il 29 ottobre del 2018, esattamente un anno fa. La pioggia martellava da tre giorni. Ma il 29 è montato un vento furioso, con raffiche vicine ai 200 orari. La tempesta che avrebbe preso il nome di Vaia, dal mare è balzata sul Piemonte, ha preso velocità, ed è andata a sbattere sui boschi alpini, facendo strage di alberi: una scia di devastazione dalla Val di Fiemme alle Dolomiti, dall’Agordino alla Marmolada, fino al Cadore. Ma è sull’altopiano di Asiago che ha causato i danni maggiori. Ed è lì che ritroviamo Maugeri: lavora per la Duferco, un’azienda che, tra le altre cose, ricava energie rinnovabili dai cippati, i residui della lavorazione del legno da bruciare nelle centrali a biomasse. «Quando si è capito che Vaia aveva steso sul terreno qualcosa come 14 milioni di alberi», spiega Maugeri, «ci siamo fatti avanti». La Duferco è una delle oltre trecento aziende, piccole, medie o grandi, che hanno vinto gare indette dai proprietari dei terreni devastati. Si è aggiudicata uno dei lotti più grandi, 360 mila metri cubi di legname in un’area compresa tra i comuni di Enego, in provincia di Vicenza, e Grigno, in Trentino. «Un anno dopo la tempesta siamo ancora qui, e abbiamo rimosso appena il 15% del materiale disponibile». Nel piazzale allestito nella spianata, pinze monumentali afferrano dai rimorchi tronchi lunghi 3 metri e li ripongono in piramidi alte anche venti. Rami e radici, ridotti in granaglia, diventano combustibile. Il fusto degli alberi, la parte pregiata, viaggia lontano: «In gran parte vanno in Asia», aggiunge il manager. «Abbiamo capito che il mercato interno si sarebbe saturato subito. E abbiamo trovato dei compratori dall’altra parte del mondo. Ogni giorno i tir partono da qui e scaricano a Marghera, da dove il nostro legno viene imbarcato per la Cina».

Attraverso la piana di Marcesina, un’ondulata successione di pascoli e malghe scorre alle nostre spalle. Ed ecco la foresta spezzata, caterve di abeti buttati giù alla rinfusa, tronchi maestosi piegati e scheggiati, imponenti radici esposte all’aria. Quelli che un anno fa erano boschi di un verde eterno, marciscono ora nel grigio del fango. Strada facendo il paesaggio cambia: dove sono arrivati gli imponenti trattori tritaalberi, il terreno ripulito dal caos di schegge e detriti appare ordinato in una scacchiera di ceppaie. Sono i piedi degli alberi, ciò che resta ancorato alla terra dopo il lavoro dei processori che rimuovono, segano, impilano cataste di legno. L’anima di questo braccio meccanico dotato di pinze e lame rotanti si chiama invece Mor Mbay, un boscaiolo 2.0 originario del Senegal, con esperienze in Svizzera e Francia: «Oggi c’è qualche problema», spiega contrariato. «La macchina non fila come dovrebbe. Qualcosa rallenta la catena di trasmissione». Poi inforca la visiera e ricomincia a macinare tronchi. Il post-Vaia è un teatro catastrofico che ricopre oltre 41 mila ettari di vallate, un territorio pari a 80 mila campi di calcio. Il legno che il vento ha strappato ai boschi è superiore anche venti volte alla dotazione annua che ciascun comune destina alle segherie, per complessivi 8,5 milioni di metri cubi. Ad ogni appalto corrispondono subappalti a piccole e a volte piccolissime ditte di boscaioli. Operatori specializzati da ogni parte d’Europa, da Slovenia, Austria, Germania, Francia, persino dalla Lituania, si sono ritrovate nelle vallate italiane, a lavorare fianco a fianco. «Un’internalizzazione senza precedenti», spiega Raffaele Cavalli, docente di Agraria a Padova. «E una grande occasione per confrontare tecniche e tradizioni diverse». I finlandesi, ad esempio, lavorano solo di notte, preferendo le quarzine elettriche alla luce per loro accecante del sole alpino. In questa Babele boschiva non sono mancati problemi di comunicazione. Quando un operaio serbo si è infortunato, le guardie boschive sono dovute correre in paese per recuperare una badante croata che facesse da interprete. «Si tratta di un lavoro molto pericoloso», continua Cavalli. «Gli alberi schiantati sono carichi di energia cinetica, è come lavorare in un campo di molle caricate al massimo. Ogni taglio può farli scattare». In un anno si sono registrati 6 morti sul lavoro, innumerevoli gli infortuni. Dodici mesi dopo si contano ancora i danni, e si tratta di una stima delicata, perché in ballo ci sono risarcimenti concessi dalle Regioni, che a loro volta attingeranno a fondi governativi ed europei. La tempesta ha falciato alberi in Lombardia (44 milioni di euro di danni stimati), Friuli Venezia Giulia (615 milioni), Trentino Alto Adige (400 milioni), e Veneto, che con 1,6 miliardi di euro di danni è la regione più colpita. I proprietari si sono già messi in fila, ma tra la richiesta e il saldo ci sono analisi e valutazioni tecniche in uno scenario complesso. «Noi abbiamo affrontato il problema creando una piattaforma ad hoc. Nello stesso database ci sono le località, i proprietari, lo stato prima e dopo», spiega Fabrizio Stella, direttore di Avepa, l’Agenzia veneta per i pagamenti in agricoltura: «Abbiamo tracciato anche i sentieri, le zone valanghive con le immagini a infrarossi». Gli alberi danneggiati sono quasi tutti abeti rossi, legno pregiatissimo. Il loro valore dopo il disastro è precipitato. «Si tratta di materiale della migliore qualità», conclude Stella. «Se un anno fa si vendeva a 90 euro la tonnellata, oggi è difficile superare i 30. Eppure, viste le condizioni estreme e la necessità impellente di rimuovere il legno prima che marcisca, mi sembra che siamo riusciti a contenere i danni».

«Pago i faggi a prezzo pieno per far partire la rinascita dei boschi». Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Bonet. Un anno dopo Vaia, la tempesta che ha colpito le regioni del Nordest. Patrizio Dei Tos produce pavimenti in legno: «Non ho voluto speculare sulla tragedia. È una questione di cuore: in questi boschi vengo fin da quand’ero bambino». «Ricordo bene quella sera: stavo rientrando a casa dal lavoro e c’era molto vento. Tutt’intorno la luce delle case e dei lampioni andava e veniva. Avevo paura, la sensazione di una catastrofe imminente. E così è stato. L’indomani era tutto distrutto, un dolore immenso».

E poi?

«Poi ci siamo rimboccati le maniche».

Patrizio Dei Tos è il fondatore e amministratore delegato di Itlas, azienda di Cordignano, nel Trevigiano, che produce pavimenti in legno. In questi giorni, anniversario di Vaia, la tempesta che ha devastato i boschi del Bellunese, di Asiago, del Trentino Alto-Adige e della Carnia con venti a 200 chilometri orari che a Reinhold Messner hanno ricordato quelli dell’Everest, sta finendo di ripulire insieme a una decina di ditte boschive locali la foresta del Cansiglio, tra le province di Treviso e di Belluno.

«Per la fine dell’anno dovremmo aver finito, ma è stata dura. Vaia ha abbattuto soltanto in questa zona 30 mila metri cubi di legname, ai quali le nevicate della primavera ne hanno aggiunti altri 10 mila. Solitamente se ne raccolgono 10-12 mila metri cubi all’anno».

Il prezzo del legno, a causa dell’improvvisa ed enorme disponibilità immessa sul mercato, è crollato, al punto da richiamare l’interesse perfino dei cinesi...

«Non per noi. Non abbiamo voluto speculare sulla tragedia, per questo ci siamo accordati con Veneto Agricoltura, la società della Regione proprietaria della foresta, per pagare i faggi allo stesso prezzo antecedente alla catastrofe».

E cioè?

«Circa 130 euro al metro cubo contro i 30-40 euro che si pagano oggi, dalla Francia alla Bulgaria».

Perché?

«Innanzitutto è una questione di cuore: in questi boschi vengo fin da quand’ero bambino, i miei nonni portavano qui gli animali a pascolare. Il Cansiglio è parte della nostra storia: come avrei potuto lucrare su Vaia? Poi non le nascondo che c’è pure una ragione di marketing».

Quale?

«La mia azienda è strettamente legata al territorio, il nostro futuro dipende dalla foresta, e noi vogliamo contribuire a creare un brand “Cansiglio” che non funzioni soltanto per la filiera certificata del legname ma anche per il turismo, la ristorazione, lo sport. Mettiamola così: alcuni imprenditori sponsorizzano la squadra di calcio o di ciclismo, io sponsorizzo la foresta».

Ne parla, in effetti, con la stessa passione con cui un parlerebbe del suo numero 10.

«Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta importavo il legno dall’Africa. Così voleva il mercato e noi lì andavamo a prenderlo. Ma poi mi sono detto: perché non valorizzare il nostro? Affonda le radici nella storia, è bellissimo, riusciremo a farlo apprezzare anche ai nostri clienti».

Che invece prima lo snobbavano.

«I faggi del Cansiglio venivano utilizzati dai maestri d’ascia della Serenissima per ricavarne i remi della flotta della Repubblica. E non era un caso. Crescono a mille metri di quota, su un terreno carsico, quindi povero di acqua. Sono straordinariamente resistenti, ma anche molto flessibili, alti ma con diametri piuttosto ridotti. Insomma, erano ideali. Per lo stesso motivo sono stati utilizzati per anni per le sedie prodotte nel distretto di Udine. Poi, nel Dopoguerra, è iniziato il declino e i faggi sono diventati la legna da buttare nei forni delle pizzerie, da sminuzzare in stecchi gelato e stuzzicadenti».

Proprio a degli stuzzicadenti sono stati paragonati dopo il passaggio di Vaia che li ha rasi al suolo...

«Già, le fotografie ricordavano proprio stuzzicadenti. Ma ora inizia il Rinascimento».

·        Gli animali di Chernobyl ci svelano quanto noi umani siamo insignificanti.

«Chernobyl», serie corale tra documentario e slancio emotivo. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 su Corriere.it. All’1:23 ora locale del 26 aprile 1986 la rottura di un reattore della centrale nucleare «V.I. Lenin» in Ucraina, a pochi km dai centri abitati di Pripyat e Cernobyl, provocò una delle catastrofi più conosciute della storia, tanto radicata nell’immaginario quanto ancora avvolta dal mistero nelle sue cause e conseguenze. Un’ambiziosa miniserie in cinque puntate firmata da HBO cerca di riavvolgere il filo degli eventi, con uno sguardo di rara intensità e di pietosa umanità (Sky Atlantic). «Chernobyl» è una serie corale, anche il personaggio più laterale finisce con l’assumere progressiva centralità; dalle piccole storie dei tecnici di turno quella maledetta notte, la narrazione chiama in causa via via i ruoli più alti in una commistione inestricabile e fatale tra livelli industriali e politici che traccia uno spaccato drammatico del comunismo sovietico al capolinea. E i personaggi principali, dallo scienziato Legasov (Jared Harris) all’influente vicepresidente del consiglio dei ministri Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), entrano in scena a disastro avvenuto, riflettendo errori, ritardi, assurdità di una catena di comando complessa e infingarda. Ciò che la serie diretta da Johan Renck (già regista di alcuni episodi di «Breaking Bad») sembra voler evidenziare, è soprattutto l’impermeabilità del sistema sovietico alle critiche, il suo incrollabile tentativo di resistere alle evidenze, l’omissione della verità come passaggio obbligato per non mostrare al mondo le proprie responsabilità. Sin dalla prima puntata si intuisce che la straordinarietà di «Chernobyl» sta nel riuscire a bilanciare la lucidità documentaristica con lo slancio emotivo, la ricostruzione minuziosa degli eventi con i tormenti personali dei protagonisti, quegli addetti ai lavori chiamati a sacrificarsi per scongiurare una devastazione ancora più grande, attingendo alternativamente alla tragedia classica e al thriller più spietato.

Chernobyl, il giallo dei tre sub scomparsi nel 1986 Ma sono vivi: chi mentì? Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 su Corriere.it da Micol Sarfatti. I tre sommozzatori che hanno evitato nuove esplosioni nel tragico incidente nucleare del 1986 erano stati dati per morti. In realtà sono vivi. La serie tv e un libro-inchiesta stanno ricostruendo verità scomode «Chernobyl», serie corale tra documentario e slancio emotivo di Aldo Grasso. C’è un fatto della storia mondiale recente entrato nell’immaginario di tutti, il più grande disastro nucleare mai accaduto. Il 26 aprile 1986, intorno all’una di notte, durante un test di sicurezza, l’ingegnere Aleksandr Akimov preme l’interruttore per l’arresto di emergenza del quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl, nell’allora Unione Sovietica, oggi Ucraina. Segue una fortissima esplosione, il reattore si scoperchia, le fiamme divampano. Una nube radioattiva si alza minacciosa, contamina tutta la zona, che deve essere evacuata. Un vento gelido spinge le radiazioni nei cieli di mezza Europa. I morti accertati saranno 66, ma la stima, ad oggi, è ancora incerta. Oltre 4.000 persone, secondo un rapporto dell’Onu, si ammalano di cancro. Poi c’è un giovane scozzese curioso, all’epoca del dramma non era nato. Vorrebbe capire di più di quell’incidente. Le cause che hanno portato all’esplosione. Cosa è successo davvero? Come funziona l’energia nucleare? Cosa hanno provato le persone che erano lì? Si informa, legge, ma tutti i racconti gli sembrano contraddittori: il governo dell’URSS ha taciuto molte cose. Prima si è parlato di errore umano, poi di inadeguatezza della struttura. Il ragazzo vorrebbe vedere con i suoi occhi «Quella città reale, ma disabitata, quel luogo familiare e allo stesso tempo abbandonato». Nel 2011, appena 24enne, scova in rete un tour guidato a Pripyat, la città più vicina alla centrale. Per parteciparvi vende la sua chitarra elettrica. Prende un treno notturno da Aberdeen a Londra, poi un aereo per Borispol, vicino Kiev. E ancora treni e pullman che tagliano lo spettrale paesaggio sovietico. Il viaggio è l’inizio di una inchiesta che gli cambierà la vita. Questo incrocio potrebbe essere la trama di una serie tv (paragone non casuale), invece è realtà. Andrew Leatherbarrow, professione grafico, oggi 32enne, è autore di Chernobyl 01:23:40 (Salani), un reportage dettagliato su quello che accadde nella centrale nucleare e su come è oggi il paese cristallizzato. Un resoconto accessibile e completo, che ha richiesto cinque anni di lavoro e illumina nuovi angoli di quella notte terribile. Il volume è diventato un punto di riferimento per la sceneggiatura della serie tv Chernobyl creata da Craig Mazin e trasmessa da Hbo/Sky Atlantic, un successo internazionale di pubblico e di critica. Leatherbarrow racconta la genesi del saggio dall’ ufficio di Londra. Lavora ancora come graphic designer per una casa editrice, ma la scrittura occupa gran parte del suo tempo libero.

Perché ha deciso di studiare e scrivere su Chernobyl?

«Sin da bambino avevo una fascinazione per quella città abbandonata. L’immagine della ciminiera fumante era scolpita nella mia mente. Poi, nel 2011 sono rimasto scioccato, come tutti, dall’esplosione della centrale nucleare di Fukushima, in Giappone. Leggevo i giornali, i siti, seguivo i notiziari in tv, avevo la sensazione che non ci fosse davvero chiarezza su quello che stava succedendo: le riflessioni degli esperti si accavallavano, erano in contraddizione. Gli ambientalisti imponevano una versione, i sostenitori dell’energia nucleare un’altra. Allora mi sono rimesso a studiare i fatti di Chernobyl. Ancora non trovavo risposte soddisfacenti, soprattutto sul funzionamento dell’energia nucleare. C’erano tante versioni divergenti. Pochi mesi dopo l’incidente in Giappone sono partito per un tour nella zona di esclusione di Pripyat, l’area contaminata in cui, dal 1986, è vietato vivere e praticare attività civili e commerciali. Quel viaggio ha avuto un forte impatto su di me e ho continuato a studiare l’incidente. Ho raccolto così tanto materiale che, a un certo punto, mi sono convito di doverne parlare io stesso».

Come ha organizzato le ricerche?

«Sono onesto, il mio lavoro, all’inizio, è stato molto disordinato. Come detto non pensavo di ritrovarmi a scrivere di Chernobyl. Durante il viaggio a Pripyat ho fatto molte fotografie ( oggi pubblicate nel volume, ndr) e preso pochi appunti. Quando ho deciso di pubblicare il mio libro li ho integrati con tutto il materiale possibile e immaginabile e confrontati con fonti attendibili e verificate. Sono stato aiutato da ingegneri nucleari, storici, professori universitari».

La sua inchiesta ha svelato dettagli dell’incidente fino ad oggi mai raccontati. In particolare, lei dà una nuova versione della vicenda dei cosiddetti “sommozzatori di Chernobyl”.

«Sì,unadellepiùgrandileggende legate al disastro. Il 6 maggio 1986 Alexei Ananenko, Valeriy Bezpalov e Boris Baranov si immersero nelle vasche di sicurezza, ormai colme di acqua radioattiva, e aprirono le valvole che favorirono il deflusso di liquidi contaminati, riuscendo così a impedire un’altra esplosione. In ogni articolo, libro o documentario si dice che i tre volontari morirono poco dopo aver compiuto il nobile gesto. Io non ne ho mai trovato conferma in nessuno dei testi analizzati. Per questo ho continuato a cercare. Mi sono imbattuto in un annuncio di morte per infarto di Boris Baranov datato 2005, poi ho scoperto che gli altri due erano ancora vivi. Nel marzo 2016 sono riuscito a contattare Alexei Ananenko. Non era molto turbato dall’essere ritenuto morto ormai da trent’anni. Ho deciso di raccontare la loro vera storia: era troppo importante. Dopo l’uscita delle serie tv Ananenko ha rilasciato qualche intervista. Dice di non essere un eroe. Nel 2018 tutti e tre hanno ricevuto una medaglia al valore per il loro coraggio».

Il suo libro è stato uno dei riferimenti per la sceneggiatura della fiction Hbo Chernobyl . L’autore Craig Mazin lo ha definito “imprescindibile: una favolosa combinazione tra cronaca di viaggio, racconto storico e documento scientifico”. È vero che, inizialmente, non era riuscito a pubblicarlo nemmeno con il crowdfunding?

«Confermo. Nel 2015 avevo avviato una campagna sulla piattaforma Kickstarter, ma il tentativo è fallito e ho abbandonato il progetto. Poi ho caricato una gallery delle foto di Pripyat con didascalie sul sito Reddit e l’accoglienza è stata sorprendente. Ho deciso di autopubblicare una prima versione del libro tramite un sito e in 48 ore ho venduto più di 700 copie. Ho capito che il tema interessava e mi sono rimesso a lavorare, un anno dopo, nel 2016, ho autopubblicato la stesura definitiva. Una giovane editor e vari esperti mi hanno offerto consulenze gratuite».

L’altro libro che ha ispirato la serie tv è Preghiera per Chernobyl , della scrittrice bielorussa Nobel Svetlana Aleksievic. Lo ha letto?

«Certo, è un testo meraviglioso, fondamentale per chiunque sia interessato a questa vicenda. È stato una fonte di ispirazione per me: racconta l’incidente attraverso le storie delle persone comuni, dimenticate in altre ricostruzioni».

Oggi si torna a parlare di tanti episodi storici o di attualità grazie alle serie tv. Pensa sia una narrativa che, in un certo senso, sta sostituendo la saggistica o il giornalismo?

«No. I film, e oggi ancor di più le serie tv, hanno il merito di riaccendere i riflettori su eventi dimenticati o ancora da indagare, ma non potranno mai e poi mai sovrapporsi all’approfondimento scritto. Le fiction danno spunti, ma per conoscere davvero la Storia, i fatti, bisogna leggere, approfondire».

Dopo l’inchiesta la sua opinione su Chernobyl è cambiata?

«Non ne ho mai avuta una. Ho affrontato lo studio senza alcun pregiudizio. Volevo solo saperne di più. Mi sono però fatto un’idea precisa sull’energia nucleare».

Ovvero?

«C’è molta poca conoscenza sul tema. Forse manca un’informazione accurata e poco sensazionalistica. Basta pronunciare la parola “radiazione” per innescare il terrore. Personalmente sono favorevole all’utilizzo del nucleare nelle nazioni sviluppate. A patto che vengano adottate misure rigorose per la salute, la sicurezza e l’ambiente».

Le piacerebbe scrivere un nuovo libro ?

«Lo sto già facendo! Da qualche anno sto lavorando a un saggio sulla storia dell’industria nucleare in Giappone e sulla catastrofe di Fukushima, dovrei finirlo nel 2020. Anche questa volta vorrei riuscire a scrivere un testo dettagliato, ma chiaro e accessibile a tutti»·

Quei documenti segreti che svelano un altro disastro di Chernobyl. Federico Giuliani su it.insideover.com il 25 agosto 2019. A distanza di 33 anni dal disastro nucleare di Chernobyl spuntano nuove rivelazioni che fanno ulteriore luce su quanto accadde nella centrale nucleare Vladimir Ilic Lenin in Ucraina, nella notte del 26 aprile 1986. Secondo quanto dimostrato dai centinaia di documenti segreti sovietici pubblicati per la prima volta in assoluto dai National Security Archives americani, in realtà dovremmo parlare di due disastri di Chernobyl. Perché due furono i cataclismi che sconvolsero l’esistenza a centinaia di migliaia di persone. Il primo è quello che avvenne proprio la notte dell’incidente, all’interno dei reattori della centrale posizionata a pochi passi dalla Bielorussia: l’esplosione causò migliaia di tumori, decine di migliaia di sfollati e generò una nube radioattiva che si estese su varie porzioni d’Europa, Balcani in primis. C’è però un altro incidente, ed è quello avvenuto nei mesi successivi all’esplosione.

Nuovi documenti sull’incidente di Chernobyl. Le direttive dell’Unione Sovietica, scandite da una assurda trafila burocratica, provocarono un altro incidente: il meltdown della centrale, ovvero la fusione del nocciolo e il suo rilascio nell’atmosfera di materiale altamente radioattivo. Adesso arrivano nuovi documenti che consentono di analizzare ancor più dettagliatamente la catastrofe di Chernobyl, paragonabile soltanto a quella giapponese di Fukushima del 2011. I fascicoli contengono note, resoconti e protocolli pubblicati dal Politburo e dai più alti organi sovietici nei giorni immediatamente successivi all’incidente. Come era già stato ipotizzato, le autorità dell’Unione Sovietica cercarono di nascondere le conseguenze dell’esplosione, sottomettendo la realtà a narrazione delirante che provocò un impatto diretto sulla salute degli stessi cittadini sovietici.

Come le autorità sovietiche hanno falsificato la realtà. In un documento datato 8 maggio 1986, cioè poche settimane dopo il disastro, si legge che “il ministero della Salute dell’Unione Sovietica ha approvato nuovi livelli accettabili di radiazione ai quali il pubblico può essere esposto, e che sono dieci volte superiori ai livelli precedenti”. Una risoluzione, invece, fa presente che “la carne di maiale può essere consumata lavando gli stomaci degli animali con acqua”, nonostante il livello radioattivo non permettesse assolutamente azioni simili. Un altro rapporto, sempre inerente al cibo, consiglia alla popolazione come maneggiare la carne contaminata: mescolandola con carne normale. Queste e altre affermazioni su 47.500 tonnellate di cibo e 2 milioni di tonnellate di latte prodotti nelle zone contaminate avrebbero messo in pericolo, solo nel 1989, un totale di 75 milioni di persone.

Il secondo disastro di Chernobyl. Gli effetti furono disastrosi, ed è proprio questo il secondo disastro cui si fa riferimento. Le disposizioni dell’epoca crearono le condizioni per una accresciuta mortalità e incidenza di deformazioni. Si calcola che le tiroidi di 1,5 milioni di persone, fra cui 160 mila bambini al di sotto dei 7 anni, siano stati esposte a dosi radioattive di 30 mila millirem nell’87% degli adulti e nel 48% dei più piccoli. Le autorità sovietiche, inoltre, cambiarono i limiti dell’esposizione a radiazioni nucleari, provocando un’impennata del numero degli ammalati. Queste e molte altre informazioni sono state portate alla luce dalla giornalista Alla Yaroshinskaya, che ha sottolineato come nessuno dei responsabili della gestione dell’emergenza abbia pagato. La rappresentazione dei fatti di Chernobyl sta tutta nel primo rapporto ufficiale del disastro inviato al Politburo dal ministero dell’Energia sovietico, redatto proprio il giorno dell’apocalisse: “Non si ritiene necessario adottare misure speciali, fra cui l’evacuazione della popolazione”.

Quei bimbi di Chernobyl accolti (senza paura) nelle nostre case. Pubblicato martedì, 27 agosto 2019 da Ermete Realacci su Corriere.it. Il 16 aprile 1986, a Chernobyl, l’energia nucleare ha mostrato tutta la sua pericolosità, non solo immediata ma a lungo termine, per la sicurezza, la salute dei cittadini, l’ambiente. Il ricordo collettivo di quella terribile tragedia è stato, di recente, portato sullo schermo da Sky con una serie televisiva di successo e di grande intensità drammatica. In quei frangenti l’Italia diede il meglio di sé sia nella risposta politica che nell’azione di solidarietà, anche se questo è poco noto. Un primato di cui essere orgogliosi che ha influenzato le politiche, la società, l’economia. Ricordo che, da subito, reagimmo con maggiore forza e determinazione rispetto ad altri Paesi. Allora ero segretario generale di Legambiente e promuovemmo, in poco tempo, una grande manifestazione nazionale, l’unica in Europa, che si tenne a Roma il 10 maggio 1986: la apriva uno striscione «Stop al nucleare». Eravamo 150mila, forse di più. Sempre Legambiente organizzò il blocco pacifico, il 10 ottobre di quell’anno, di tutti gli impianti nucleari. Anche in questo caso unici in Europa. Un percorso di tante iniziative e confronti che portò alla vittoria del referendum antinucleare l’8 e 9 novembre del 1987. Successo poi ribadito, a fronte di un nuovo piano nucleare del governo Berlusconi, nel referendum del 12 e 13 giugno 2011. Questi risultati, insieme all’emergere della crisi climatica, hanno prodotto, seppure in forma non lineare, un cambio sostanziale di rotta nel settore energetico e una spinta verso le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica, l’apertura di nuovi campi di ricerca e di azione. È grazie a questo e a una nuova dirigenza orientata al futuro che l’Enel è oggi l’utility elettrica più avanzata al mondo. È leader nelle fonti rinnovabili e ha assunto l’impegno di azzerare le emissioni di Co2 entro il 2050. Un impegno che ancora non è stato preso dal governo italiano e dall’Europa nel suo insieme. Per molti aspetti, non meno importante è il grande movimento di solidarietà che da Chernobyl ha preso le mosse. La contaminazione fu enorme e particolarmente pericolosa, soprattutto per i bambini. Per questo negli anni successivi furono organizzati i «soggiorni di risanamento» in molti Paesi del mondo: mangiare per almeno un mese cibi non contaminati, bere acqua e respirare aria non contaminate, aveva un effetto molto positivo per la salute dei bimbi. È stata un’onda di solidarietà di enormi dimensioni e pochi sanno che l’Italia è stata di gran lunga il Paese più attivo. Il grosso della contaminazione di Chernobyl, circa il 70%, aveva colpito la Bielorussia. E proprio dalla Bielorussia ci arrivano i dati più attendibili. Negli anni che vanno dal 1986 al 2005 sono stati ospitati, in diversi Paesi del mondo, 550 mila bambini, dei quali 257 mila in Italia. Dal 2005 ad oggi i bambini bielorussi ospitati sono stati 380 mila, dei quali 200 mila in Italia. Ancora nel 2018 sono stati accolti 13.490 bambini, di cui 7.950 in Italia. Il nostro Paese, da solo, ha sostenuto la metà di questa imponente azione di solidarietà che ha coinvolto decine di migliaia di famiglie, parrocchie, associazioni, tante istituzioni locali. Un movimento che fa onore al nostro Paese. La sola Legambiente, unica associazione ambientalista attiva su questo fronte perché di stampo più umanistico, ne ha accolti 25 mila. Viene da chiedersi, di fronte ad una società che appare spesso spaventata, rancorosa, incattivita, se quel tessuto civile si sia oggi irrimediabilmente impoverito. Non lo credo. La solidarietà è una parte importante della nostra cultura, di un’Italia che fa l’Italia. E occuparci degli altri non è solo «bontà», perché rafforza la nostra capacità di affrontare insieme, in tutti i campi, le sfide che abbiamo davanti.

Chernobyl, i bambini dimenticati dei soggiorni terapeutici: "Accoglienza ai minimi storici". Andrea Lattanzi su Repubblica tv il 15 luglio 2019. I soggiorni di "risanamento" in Italia non vanno più di moda o quasi. Se alla metà degli anni Novanta, infatti, i programmi di accoglienza temporanea portavano in Italia oltre 30.000 bambini l'anno, oggi si stenta a superare i 10.000 affidi (Ministero delle Politiche Sociali, 2015). Oltre l'85% degli arrivi giungeva da aree bielorusse e ucraine interessate dal disastro nucleare di Chernobyl, datato 26 aprile 1986. "Ma oggi le priorità sono altre", dice amareggiato il presidente di Aubam Antonio Tosi.  "Sappiamo da anni che tanti problemi di salute sarebbero cominciati 10 anni dopo ed oltre", spiega Tetyana Kunitska, sopravvissuta di Pripyat e accompagnatrice di bambini in Italia. E infatti, tra le seconde e terze generazioni, figlie cioè di chi ha subito in prima persona la catastrofe, in molti avrebbero ancora bisogno di soggiornare nel nostro paese per migliorare la loro salute. "Il livello di cesio  - assicura Toni - tende ad abbassarsi del 40% in sole 5 settimane". Il cesio-137 è un isotopo radioatttivo che fu rilasciato nell'ambiente all'epoca delle esplosioni. Gli effetti sulla salute dei bambini riguardano principalmente malfunzionamenti del miocardio e abbassamenti dei livelli di tenuta del sistema immunitario.

«Liquidatore» di Chernobyl vede la serie tv e si suicida: gli avevano sempre negato la casa. Pubblicato lunedì, 15 luglio 2019 da Ferruccio Pinotti su Corriere.it. Molti degli «eroi» di Chernobyl, al di dà delle decorazioni e dei premi dell’epoca, hanno condotto dopo il disastro del 1986 esistenze estremamente modeste. Ma di tra di loro ci sono stati eroi di serie A e di serie B, coraggiosi lavoratori della centrale ucraina che avevano provenienze diverse all’interno del vasto impero sovietico e che, dopo il disastro, vennero trattati con ancora meno riguardo degli altri. Per questa e altre ragioni uno dei «liquidatori» del reattore 4 esploso a Chernobyl si è tolto la vita dopo aver visto in tv - come molti in tutto il mondo - il dramma televisivo Chernobyl della HBO, che ha rievocato quel maledetto 26 aprile aprile ‘86 e il sacrificio di chi è morto o ha minato la propria salute per evitare un dramma ancora maggiore. Il kazako Nagashibay Zhusupov, 61 anni, che nel 1986 a Chernobyl era tra coloro che fecero sforzi immensi per limitare il disastro, si è sciolto in lacrime quando ha visto, nel sapiente ritratto della fiction tv, l’odissea di cui è stato protagonista. Ha rivissuto il suo dramma, passo per passo. E si è fatta più cocente per lui l’umiliazione per essersi visto negare ciò che ad altri «liquidatori» di Chernobyl era stato concesso, ovvero un appartamento dignitoso per sé e i propri cinque figli. Il governo del Kazakistan, all’epoca una «repubblica socialista» marginale e vessata dell’impero sovietico, se n’è invece fregato dei suoi problemi di salute e ha costretto Nagashibay, sua moglie e i loro cinque figli a vivere nel triste e angusto dormitorio di un ostello, rifiutandogli uno degli appartamento dello Stato. La depressione di Zhusupov si è riaccesa vedendo la serie tv Chernobyl. Qualche giorno fa è salito su tetto di un edificio di cinque piani ad Aktobe, in Kazakistan; e si è gettato di sotto. Sua figlia Gaukhar, 25 anni, ha riferito alla stampa locale: «Mio padre ha guardato la serie della HBO con le lacrime agli occhi, perché gli ha riportato alla mente i ricordi dolorosi del suo sacrificio. Il governo ha rifiutato di concederci uno dei suoi alloggi popolari e questo lo ha ferito in maniera irreparabile». Ad aggravare la situazione di Zhusupov è stato il fatto che, dopo il disastro di Chernobyl, l’uomo non è stato congedato con una pensione accettabile, ma ha continuato a lavorare indefessamente in altre centrali nucleari nonostante i crescenti problemi di salute, operando per anni nel sito di test nucleari sovietici a Semipalatinsk, in Kazakistan. Anche gli amici e i conoscenti di Zhusupov - riferisce il britannico Daily Mail — credono che l’uomo si sia ucciso «perché si è sentito ingannato». Uno di loro ha commentato: «Viveva in povertà, senza una vera casa». Bakitzhan Satov, presidente della associazione dei «liquidatori» di Chernobyl, ha spiegato che Zhusupov aveva fatto, come altri veterani di Chernobyl, domanda di assegnazione di un alloggio popolare. «Credeva che fosse suo diritto, un riconoscimento doveroso per il suo sacrificio. Eppure, dopo dieci anni di attesa di una casa, ha scoperto che il suo nome era stato “cancellato” dalla lista. Questo lo ha distrutto. Ha tentato una causa legale, per vedersi riassegnato il suo posto in lista d’attesa. L’ultima volta che l’ho visto, era profondamente rammaricato per non aver potuto ottenere un appartamento. Credo che si sia buttato giù da un palazzo in un momento di disperazione, perché per molti anni non è riuscito a ottenere una casa adeguata». Zhusupov era stato decorato per il suo coraggio durante il disastro, che lo aveva visto tra i primi operai a essere chiamati sul sito per limitare le conseguenze dell’esplosione del reattore 4. Prima di quel lavoro, Nagashibay faceva il contadino in Kazakistan. Dall’Unione Sovietica era giunto imperioso alle «repubbliche» satelliti l’ordine di inviare subito uomini per limitare i danni prodotti dal disastro. Lui era andato, ma poi la sua salute non era stata più la stessa. Nagashibay era tormentato da frequenti mal di testa e da improvvisi collassi. Trascorreva sempre più tempo in ospedale. La sua pensione, inclusa l’indennità di invalidità, era di circa 140 euro al mese . In un’intervista rilasciata poco prima della sua morte, Zhusupov aveva dichiarato: «All’epoca dei fatti nessuno ci disse perché fummo chiamati a lavorare a Chernobyl. In quell’aprile del 1986 ero conducente di trattori ». Eppure Zhusupov fu uno dei primi «liquidatori» del reattore esploso. L’uomo ha raccontato: «Dopo Chernobyl la mia salute è peggiorata. Ma in seguito ho anche prestato servizio nel sito di test nucleari di Semipalatinsk, in Kazakistan». La figlia Gaukhar ha commentato così la morte del padre: «Abbiamo visto tutti la serie di Chernobyl. Papà osservava le scene e ricordava con dolore tutti i momenti che ha dovuto attraversare. C’erano le lacrime nei suoi occhi, mentre guardava Chernobyl».

Su 7 Chernobyl, 33 anni dopo. Le storie dei sopravvissuti,  i «liquidatori» e i «resistenti». Pubblicato domenica, 30 giugno 2019 da Michele Farina su Corriere.it. Questo è l’inizio del racconto che Michele Farina ha scritto per 7, il magazine del Corriere in edicola venerdì 28 giugno, sui sopravvissuti di Chernobyl, 33 anni dopo la tragedia. Tra le singolarità dell’area del disastro — oltre i turisti che si fanno i selfie davanti al lunapark arrugginito o sotto le statue di Lenin — ci sono i superstiti dei primi tecnici inviati al spegnere l’incendio e bonificare il reattore nucleare (i Liquidatori, 28 di loro sono inseriti nella lista delle 65 vittime «ufficiali», ma i morti furono oltre 4 mila) e i residenti abusivi nell’area proibita. I primi recitano ancora la cantilena della retorica sovietica — «Abbiamo fatto il nostro dovere. E sapevamo che lo Stato si sarebbe preso cura di noi» — i secondi sono i testimoni viventi di una follia collettiva. I turisti che si fanno i selfie davanti al lunapark arrugginito o sotto le statue di Lenin non andranno mai a casa di Iakov Mamedov ad ascoltare le sue storie («eravamo in dodici nella stanza dell’ospedale, siamo usciti vivi in quattro») e difficilmente vedranno il soggiorno immacolato di Svetlana Zaharchenko, lei seduta tra ninnoli e bamboline mentre il figlio Jay smanetta in corridoio, telefonino in mano e fegato rovinato dalle radiazioni: quando è esploso il reattore numero 4 lui non era ancora nato, Svetlana era incinta di quattro mesi e la pancia di una madre non necessariamente protegge dalla peggiore catastrofe nucleare della storia. I turisti che si fanno i selfie davanti al lunapark arrugginito o sotto le statue di Lenin non andranno mai a casa di Iakov Mamedov ad ascoltare le sue storie («eravamo in dodici nella stanza dell’ospedale, siamo usciti vivi in quattro») e difficilmente vedranno il soggiorno immacolato di Svetlana Zaharchenko, lei seduta tra ninnoli e bamboline mentre il figlio Jay smanetta in corridoio, telefonino in mano e fegato rovinato dalle radiazioni: quando è esploso il reattore numero 4 lui non era ancora nato, Svetlana era incinta di quattro mesi e la pancia di una madre non necessariamente protegge dalla peggiore catastrofe nucleare della storia. Persone di troppo: gli anonimi sopravvissuti di Chernobyl che Tom Skipp ha ritratto nel suo grande reportage portano addosso i segni visibili del tempo che passa: le rughe e i foulard delle sorelle Zavorotnya, i capelli ossigenati di Svetlana, una tovaglia pulita in cucina, le medaglie lucidate sul petto smargiasso di Markin Nikolaevich («io non avevo paura, erano le radiazioni che avevano paura di me»), lo smartphone di Jay. Sono cose che per i turisti del Ground Zero ucraino (tour organizzato, 400 euro a testa) «rovinano» lo spettacolo del disastro, sgonfiano l’ebbrezza di trovarsi immersi in un luogo disumanizzato, tagliato fuori dal resto del mondo e congelato nel tempo come le insegne sovietiche e le macchinine dell’autoscontro dove nessuno ha mai giocato (mancavano pochi giorni all’inaugurazione quando ci fu l’esplosione). Tutto fermo per sempre sull’una e 23 di sabato 26 aprile 1986: in meno di tre secondi due scoppi spaventosi scoperchiarono il tetto infiammabile del reattore. Un incendio lungo dieci giorni liberò una nuvola di radioattività che andò in giro per l’Europa seminando morte, particelle e paura. Le radiazioni furono 400 volte superiori a quelle della bomba su Hiroshima. L’Oms ha stimato in 4.000 le morti legate al disastro. Difficile quantificare il numero delle vittime disseminate negli anni, perché le radiazioni hanno tempi lunghi. Di certo circa quattrocentomila persone furono costrette a fuggire dalle loro case nei dintorni della centrale atomica, non portando niente con sé, neppure il cane di famiglia... 

SIETE SICURI DI SAPERE TUTTO CIÒ CHE È ACCADUTO A CHERNOBYL? DAGONEWS il 20 giugno 2019.

1. È difficile fare un bilancio definitivo delle persone morte a causa del disastro di Chernobyl, ma il numero varia dai 4mila alle 90mila persone. Tra queste ci sono le due persone morte nell’esplosione, i 29 deceduti poco dopo per sindrome da radiazione acuta e le migliaia di persone che si sono spente per cause correlate alle radiazioni.

2. Vasily Ignatenko, uno dei vigili del fuoco accorso per primo sul luogo del disastro (uno dei personaggi della serie di HBO su Chernobyl, è morto dopo atroci sofferenze a due settimane dall'esposizione alle radiazioni. Ha sputato sangue e muco più di 25 volte al giorno. Alla fine, ogni volta che tossiva, sputava pezzi dei suoi organi interni.

3. Al funerale il corpo di Ignatenko era così gonfio e deformato che le sue scarpe e i suoi vestiti non gli andavano più bene. La vedova Lyudmila ha raccontato nel libro “Voices From Chernobyl”: «Non potevano mettergli le scarpe perché i suoi piedi si erano gonfiati. Hanno anche dovuto tagliare i vestiti perché non sapevano come infilarglieli, non c’era un corpo intero su cui indossare quegli abiti».

4. Da altre testimonianze è emerso come alcune persone «siano diventate grasse come barili» e altre «abbiano assunto un colore nero come il carbone e si siano come rimpicciolite». Molte delle storie di “Voices From Chernobyl” provengono da persone che abitavano nelle vicinanze del disastro e sono dovute fuggite dalle loro case.

5. Ci sono stati circa 100.000-200.000 aborti in Europa dopo Chernobyl a causa della "radiofobia". Secondo Live Science, «molti medici in tutta l'Europa dell'Est e nell'Unione Sovietica consigliavano alle donne incinte di sottoporsi a un aborto per evitare di dare alla luce bambini con malformazioni o altri disturbi, sebbene il livello effettivo di esposizione alle radiazioni di queste donne fosse troppo basso per causare problemi».

6. L'area boschiva intorno a Chernobyl divenne nota come la Foresta Rossa a causa di tutti gli alberi che morirono, assumendo un coloro rosso vivo. Tuttora è l’area più radioattiva.

7. Pripyat, la città che era stata costruita nel 1970 per accogliere i lavoratori della centrale nucleare, era abitata da circa 47mila persone che vennero portate via solo 33 ore dopo il disastro. All’epoca era una città moderna e possedeva due ospedali, di cui uno pediatrico, un centro commerciale, due hotel, numerosi bar e ristoranti, un cinema, un teatro, un centro polifunzionale. La piscina coperta fu lasciata attiva fino al 2000 al servizio del personale che continuava a lavorare presso la centrale. Oggi è una città fantasma ed è illegale viverci.

8. Eppure nelle zone limitrofe, dopo l’evacuazione diverse persone sono tornate nelle loro case: si stima siano 130-150 persone, molte delle quali sono donne anziane che coltivano la terra contaminata, nutrendosi dei suoi frutti.

9. La vita nella zona di esclusione è triste. Non ci sono scuole o assistenza sanitaria e sicuramente non è sicuro viverci perché è considerata un’area ancora radioattiva.

10. Al momento dell’evacuazione i residenti non furono autorizzati a portare i loro animali domestici. Per mesi si sentirono i cani ululare e correre dietro agli autobus nella speranza di essere ripresi dai loro padroni. Come si vede nella serie, furono costituite delle squadre per abbattere gli animali.

11. Ancora oggi ci sono centinaia di cani randagi che sopravvivono nei boschi di Chernobyl e nella zona di esclusione. Sono i discendenti di quelli che sono stati improvvisamente lasciati dalle famiglie.

12. Purtroppo, però, questi cani hanno un'aspettativa di vita ridotta a causa dell’esposizione alle radiazioni. Secondo il Guardian «in pochi vivono oltre i sei anni».

13. Si può visitare la zona di esclusione grazie a dei tour organizzati: da quando è andata in onda la serie tv di HBO le prenotazioni sono aumentate del 40%.

14. Tra le cose che si possono vedere ci sono le centinaia di maschere antigas gettate a terra in una mensa scolastica.

15. Oppure le misteriose bambole che sono ordinate sui letti di un ospedale di Chernobyl. Non è chiaro chi l'abbia sistemate, ma è possibile che siano un omaggio ai bambini che una volta erano lì.

16. Ci sono persino pittoreschi dipinti che sono apparsi su vari edifici.

17. Nessuno ha mai fatto un giro sulla ruota panoramica di Pripjat: il parco divertimenti doveva essere inaugurato il 1 maggio del 1986, ma subito dopo l’esplosione del 26 aprile, la cittadina venne abbandonata il giorno successivo.

18. In Ucraina, nei primi cinque anni dopo il disastro, i casi di cancro tra i bambini aumentarono del 90%. E durante i primi 20 anni dopo l'incidente, circa 5.000 casi di cancro alla tiroide sono stati registrati in Russia, Ucraina e Bielorussia nei minori di 18 anni.

19. Ci sono voluti più di 25 anni per costruire una nuova copertura del reattore danneggiato di Chernobyl. Anche se c'è ancora qualche discussione sull'efficacia di questo container.

20. L'impianto nucleare di Chernobyl ha effettivamente continuato a funzionare fino a dicembre 2000.

21. Infine, l'area intorno a Chernobyl non sarà sicura per gli esseri umani per almeno 20.000 anni.

Chernobyl, i turisti si fanno  i selfie ai piedi del reattore. Pubblicato giovedì, 13 giugno 2019 da Francesco Giambertone su Corriere.it. Salgono quasi tutti a Kiev. Macchine fotografiche al collo, finte maschere antigas in mano. Centoventi chilometri di bus dopo, scendono sul luogo del disastro, pronti a cogliere la «photo opportunity» che non ricapiterà: un selfie dal teatro della tragedia nucleare più famosa della Storia. E scattano foto abbracciati ai piedi del reattore 4, sorridono a bordo dei bus sventrati dall’esplosione, saltano sotto la ruota panoramica scrostata dalle radiazioni di Chernobyl. Trentatré anni e migliaia di morti dopo, il luogo da cui partì l’orrore è diventato un’attrazione per turisti, che si aggirano entusiasti tra le macerie e condividono tutto, forse troppo, sui social. Colpa (e merito) di un’omonima serie tv, nuovissima ma già destinata a entrare nella cultura di massa. Le cinque puntate di Chernobyl dell’americana Hbo, trasmesse per la prima volta a maggio, raccontano proprio cosa accadde dopo l’esplosione atomica: gli errori, le omissioni, le responsabilità, le inchieste. Mezzo mondo ha gridato al capolavoro. Tranne i russi, che hanno accusato gli sceneggiatori Usa di aver stravolto la storia per non ammettere responsabilità della Cia e per questo ne gireranno una loro versione. La miniserie Usa ha riscosso un successo tale che nell’ultimo mese — hanno confermato i tour operator locali che organizzano giri da 100 dollari al giorno — le prenotazioni delle visite guidate sono aumentate «tra il 30 e il 40% rispetto a un anno fa», quando il sito era già stato riaperto da una decina d’anni perché dichiarato sicuro. Con un nuovo effetto collaterale: la caccia al like su sfondo spettrale. Una influencer ha scelto l’ambientazione di un muro scrostato dalle radiazioni nel paese fantasma di Pripyat, a tre chilometri dalla centrale Vladimir Lenin, per scattarsi due foto in mutande a beneficio dei follower. Un’altra, procace modella fondatrice di una linea di bikini, si è dondolata con sguardo sognante su un’altalena dove fino all’aprile del 1986 giocavano i bambini di Chernobyl, chissà quanti dei quali ancora in vita. Post cancellati dopo molti insulti, ma ancora facilmente reperibili sulla Rete che tutto giudica e niente perdona. E poi tutti gli altri, tra chi ha scherzato con il simbolo «pericolo di radiazioni» e chi ha finto di sfrecciare sugli autoscontri abbandonati. Come fossero scenografie. Il fascino dello scenario post apocalittico (su cui tra l’altro è rinata una spettacolare vegetazione) è sfuggito di mano al punto da spingere Craig Mazin, creatore della serie tv, a scrivere un tweet di rimprovero per i fan: «Ho visto le foto in giro: se visitate Chernobyl, per favore ricordate che lì è avvenuta una tragedia terribile. Comportatevi in modo rispettoso per chi ha sofferto e per le vittime». Il turismo social delle serie tv ha già generato mostri più o meno spaventosi: i fan del Trono di Spade invadono Dubrovnik, ma lì nessuno era davvero rimasto ucciso da un drago; e se la mania dei selfie non si arresta nemmeno all’ingresso di Auschwitz, la città di Medellín si affolla di ammiratori del Pablo Escobar di Narcos, el patrón della droga che in Colombia fece uccidere migliaia di persone. Ora la sua tomba è omaggiata da chi lo ha conosciuto (poco e male) su Netflix. Ma a Chernobyl, come in Colombia, la realtà è andata molto oltre il cinema.

Gli influencer stanno invadendo Chernobyl, con selfie e Storie su Instagram, dopo il successo della serie HBO. Se gli influencer stanno invadendo Chernobyl, la "colpa" è del successo della serie HBO? O dell'attrazione che da sempre ha il male? Virginia Dara il 13 giugno 2019 su insidemarketing.it. È il cult del momento e tutti, ma proprio tutti, sembrano intenzionati a cavalcarne l’onda di popolarità. Così, secondo la CNN, anche gli influencer stanno invadendo Chernobyl dopo aver visto la serie e a causa del suo successo e lo fanno continuando a postare selfie, a fare Storie e dirette dai luoghi in cui si è consumato uno dei disastri nucleari più gravi di sempre.

La zona rossa, un’area di circa quattromila chilometri quadri attorno all’impianto nucleare originario (in Ucraina, poco distante dalla cittadina di Pripyat), ormai sicura e bonificata, è da qualche anno visitabile infatti grazie a tour guidatati e autorizzati. Negli ultimi mesi, però, insieme a scolaresche, studiosi e appassionati dell’argomento, gli influencer stanno invadendo Chernobyl alla ricerca di un po’ di popolarità a costo zero, o quasi: come sottolinea ancora CNN, il tour di gruppo da un giorno può arrivare a costare infatti anche intorno a 100 dollari a persona, un prezzo abbordabile per un po’ di like, qualche interazione, dei follower in più? Sono gli stessi tour operator della zona a registrare questo trend: da quando è andato in onda il disaster movie di HBO e Sky Atlantic, infatti, le richieste e le prenotazioni sarebbero aumentate di oltre il 35%. Il cineturismo del resto non è certo una novità e, se ci sono interi tour frequentatissimi –  ispirati ai regni di Westeros –, non ci si poteva immaginare certo che qualcosa di simile non succedesse con “Chernobyl”. Lo sceneggiato si è già guadagnato, infatti, il titolo di prodotto televisivo con miglior indice di gradimento di sempre, scalzando tra l’altro altre serie cult e molto amate come Breaking Bad e Game of Thrones.

E, come sottolinea tra gli altri “Rivista Studio”, basta un’occhiata agli insight di Google Trends per rendersi conto che dopo la sua messa in onda (in versione originale, almeno, poiché in versione italiana infatti la serie è arrivata su Sky solo il 10 giugno 2019), a essere aumentato sembra in generale l’interesse verso l’incidente nucleare in questione, i suoi effetti, le vicende legali a esso collegate.

Come sempre, però, quando un grande tema si impone – di nuovo, in questo caso – all’attenzione pubblica c’è chi prova a cavalcare l’onda della notizia per guadagnare un po’ di visibilità, un po’ di popolarità personale. Se gli influencer stanno invadendo Chernobyl, insomma, è alla ricerca di quel quarto d’ora di celebrità di warholiana memoria. La prova empirica è più facile da ottenere di quanto si possa immaginare. Solo su Instagram i post taggati #Chernobyl superano i 275mila (a giugno 2019) e tra questi, oltre a immagini di scena e foto e selfie scattati mentre si stava guardando la serie a dimostrazione che il second screen è ancora un’abitudine solida tra gli internauti, ce n’è un buon numero con geolocalizzazione e che mostra gli utenti direttamente sul luogo del disastro nucleare. In non pochi casi si tratta di selfie sorridenti, con didascalie che giocano sull’ambivalenza e i significati lati di termini come «nucleare», «radioattivo»: «La solitudine è radiottiva» recita, per esempio, la didascalia della foto che una ragazza ha scattato vicino ai padiglioni dell’ex centrale nucleare, anche se no, le strutture a oggi non sono più radioattive di quanto lo sia un volo intercontinentale, ci tengono a sottolineare i tour operator responsabili dalla zona. Tra gli influencer che stanno invadendo Chernobyl, però, c’è chi si è fatto fotografare in pose provocanti e ammiccanti e chi non ha perso l’occasione per fare battute di dubbio gusto sulle vittime. Tanto che lo stesso Craig Mazin, creatore della serie, ha sentito di dover richiamare con un tweet i fan di “Chernobyl” a comportarsi con rispetto per chi è morto o ha sofferto a causa dell’incidente.

Quello che soprattutto agli utenti più giovani potrebbe essere sfuggito, infatti, è che Chernobyl non è un set cinematografico ma il luogo reale di una tragedia. Qui, insomma, di cineturismo c’è poco, visto che la stessa serie è stata dichiaratamente girata altrove (in Lituania). Quello che stanno facendo gli influencer che hanno invaso Chernobyl, insomma, è poco diverso da quello che facevano tanti turisti in visita ai campi di concentramento: autoscatti sorridenti davanti a recinzioni e capannoni che ospitarono gli internati, foto di gruppo nei pressi dei binari di accesso ai lager avevano generato polemica, dentro e fuori i social, in occasione della Giornata della Memoria, tanto da convincere realtà come l’Auschwitz Memorial a vietare selfie e altre foto irrispettose all’interno del sito. A guardarlo bene, insomma, lo spopolare di foto-ricordo da luoghi in cui si sono consumate tragedie come quella di Chernobyl ricorda quella «pornografia del dolore» che spinge molti a fotografarsi in posti tristemente celebri come il Pont de l’Alma di Parigi dove morì Lady Diana o il garage di Avetrana dove fu uccisa Sarah Scazzi per esempio. Cosa attragga di scene del crimine e luoghi in cui si sono consumate tragedie è oggetto di tanta letteratura: c’è chi ha sottolineato il valore catartico che può avere la propria presenza in posti che hanno visto altri soffrire; chi ha fatto notare che l’empatia per la vittima è largamente superata dal senso di piacere da rilascio di dopamina che deriva dal trovarsi, da sopravvissuto, in posti che hanno dato la morte ad altri. Con ogni probabilità, però, l’abitudine a veder trasformati luoghi come questi in set di talk show, trasmissioni di approfondimento e di infotainment, però, può aver fatto di più e aver contribuito a rendere ancora sottile il limite tra ciò che è finzione e ciò che non lo è.

Gli animali di Chernobyl ci svelano quanto noi umani siamo insignificanti. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 da Fabrizio Rondolino su Corriere.it. Nella quarta puntata di «Chernobyl» (un piccolo capolavoro sulla stupidità criminale della burocrazia totalitaria, in onda da questa settimana su Sky Atlantic) c’è una lunga sequenza dedicata ad una squadra di decontaminazione cui è stato assegnato un compito spaventoso: uccidere e seppellire sotto una colata di cemento tutti gli animali presenti nell’area, perché contaminati dalle radiazioni. Bacho, il caposquadra, è un reduce dell’Afghanistan e conosce l’orrore della guerra, ma ciò nondimeno è sconvolto: Dovete ucciderli con un solo colpo, è un ordine – scandisce ubriaco di vodka –. E vi ammazzo se li fate soffrire». Questo accadeva nel maggio del 1986. E poi? Che cosa è successo negli anni successivi? Ci sono animali a Chernobyl trentatré anni dopo l’esplosione? Chernobyl, per quanto possa suonare impossibile, è oggi una delle oasi naturali più ricche di biodiversità del pianeta: è, letteralmente, un paradiso terrestre. Peter Hayden, un documentarista neozelandese, nel 2007 è entrato nella zona contaminata, dove dal 1986 non vive più un solo umano, e ha raccontato la storia di una gatta di tre anni e dei suoi micetti, di un giovane lupo solitario che finalmente trova la sua compagna, di due cuccioli di orso che esplorano le case abbandonate… e poi cervi e cavalli selvatici, aquile e cinghiali, alci e civette, castori e linci, insetti multicolori e vegetazione lussureggiante. Il documentario si intitola «Chernobyl Reclaimed: An Animal Takeover» e merita davvero di essere visto. Tre anni fa un inviato del National Geographic ha compiuto un viaggio analogo e ha raccontato con uguale meraviglia l’esplosione della vita animale intorno alla centrale che tuttora emette radiazioni. Come è possibile? La scomparsa dell’uomo ha significato la scomparsa dei pesticidi, dei gas di scarico e di ogni altra forma di inquinamento, nonché dei cacciatori e delle automobili, migliorando drasticamente, nel giro di pochi anni, la qualità dell’ambiente e le opportunità di vita. E questo spiega il ripopolamento impetuoso della fauna selvatica, tranne che per un dettaglio: la radioattività. Gli studiosi non hanno una spiegazione certa, ma l’ipotesi più probabile è che l’attesa di vita degli animali sia troppo breve per consentire lo sviluppo di cellule tumorali; in aggiunta, gli animali si riproducono molto più rapidamente di noi e dunque, in assenza della pressione antropica, ristabiliscono senza difficoltà l’equilibrio eventualmente intaccato da morti premature. Infine, non sono state rilevate mutazioni genetiche significative, tranne il piumaggio di un uccello e poco altro. A me pare che questa storia contenga più di un insegnamento. Tanto per cominciare, cancella una volta per tutte le immagini apocalittiche legate al disastro nucleare: anziché un deserto dove sopravvivono giusto i coleotteri, come ci hanno insegnato i film di fantascienza e i rapporti degli esperti, il paesaggio post-atomico è invece una copia del Giardino dell’Eden prima che Dio ci creasse. O, detto in un altro modo: gli umani pacificamente intenti alla loro vita quotidiana sono più pericolosi per la natura dell’esplosione simultanea di 200 bombe di Hiroshima (questa è stata la potenza di Chernobyl). E tuttavia, per un tragico contrappasso, sono anche le sole vittime dell’incidente: siamo noi, infatti, gli unici esseri viventi che non possono vivere a Chernobyl, perché moriremmo di cancro e non riusciremmo a riprodurci abbastanza in fretta per evitare l’estinzione. E anche qui c’è un insegnamento: via via che ci allontaniamo dallo stato naturale migliorano le nostre condizioni individuali (per dire, viviamo il doppio dei nostri cugini scimpanzè), ma peggiorano le nostre probabilità di sopravvivenza al di fuori della sfera tecnologica in cui siamo immersi fin dalla nascita (anzi, dal concepimento). L’apocalissi nucleare, che è poi il rovescio impaurito della nostra sfrenata ambizione prometeica a comandare l’universo, non è affatto un’apocalissi: tutt’al più è l’estinzione di una specie. La nostra. Qui sta secondo me l’ultimo e più importante insegnamento degli animali e delle piante di Chernobyl: noi umani non abbiamo tutto questo potere, non siamo così importanti. Noi umani non siamo i signori della Terra né i padroni della natura, e per quanti disastri possiamo combinare restiamo insignificanti e marginali. Possiamo fare molto male a noi stessi, questo sì: ma neppure l’esplosione di una centrale nucleare riesce a cancellare la natura. Al contrario, la rende infinitamente più ricca e lussureggiante. Smettiamola dunque di voler salvare il pianeta: è noi stessi che potremmo dover salvare.

·        Così si leggono le nuvole. Quali portano pioggia e quali aria fredda?

Quali portano pioggia e quali aria fredda? Così si leggono le nuvole. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Sandro Orlando su Corriere.it. Dice l’adagio: nubi a pecorelle, pioggia a catinelle. Ma non c’è nulla di più sbagliato, perché se le nuvole hanno un aspetto frammentato, a fiocchi, siete in presenza di stratocumuli (fino a 2 mila metri di altitudine), altocumuli (fino ai 7-8 mila metri) o cirrocumuli (anche oltre i 10 mila metri): ammassi di vapore acqueo e cristalli di ghiaccio che si dissolveranno senza dare luogo a precipitazioni. Se invece vedete delle nubi a bassa quota, che si sviluppano in verticale, a forma di cavolfiore, ecco che avete di fronte dei cumuli: diffidate delle loro sembianze di candidi batuffoli, perché più si alzano e più l’imminenza di un temporale si avvicina. Se poi queste formazioni verticali diventano delle torri altissime, superando i 2 mila metri di quota, allora si sta formando un cumulonembo e conviene vi cerchiate subito un riparo: perché queste nubi sono caratterizzate da violenti scrosci, acquazzoni e fulmini. Rovesci localizzati nel tempo e nello spazio, e quindi passeggeri, a differenza delle precipitazioni scaricate dai nembostrati, ammassi di nubi grigio scure, mai bianche (il colore dipende dalla presenza di ghiaccio), che si estendono in orizzontale, ad altezze medie, e si portano dietro piogge intense e prolungate. «Saper leggere le nuvole è fondamentale per prevedere il tempo nelle prossime ore», spiega il professor Vincenzo Levizzani, mentre descrive i diversi gruppi e tipi di nubi presenti nell’atmosfera. Levizzani, 62 anni, insegna Fisica delle nubi all’Università di Bologna, e la sua è l’unica cattedra del genere in Italia. «In realtà avrei voluto laurearmi in Astrofisica — precisa — avevo già il titolo della tesi pronto, ma poi ho incontrato il professor Franco Prodi, fisico del ghiaccio esperto di grandine, che mi ha appassionato al tema delle precipitazioni». In fondo sempre di studiare il cielo si trattava. Un campo all’epoca — erano i primi anni Ottanta — ancora nuovo, che Levizzani ha approfondito in California, a Los Angeles. Con un dottorato che dalla teoria lo ha catapultato nella realtà. Letteralmente. Perché le nubi sì, si possono analizzare con il radar e il satellite, ma quando se ne vogliono capire veramente la composizione e le dinamiche, bisogna entrarci dentro. Con l’aereo. «Un tornado, ad esempio, non è altro che un violento vortice d’aria che scende da un cumulonembo — continua Levizzani — ma per volare dentro queste correnti verticali, che si muovono a velocità di 30 metri al secondo, ci vuole un aereo supersonico. Oltre a un pilota da caccia capace di tirarsi fuori da ogni imprevisto in una frazione di secondo». 

Il professore tradisce una certa nostalgia per quando faceva il «cacciatore di tornado» sopra le pianure americane. Oggi gli esperimenti in quota con il Cessna li fa ancora, ma per le sue misurazioni è più probabile che carichi il radar sul furgone per andare in montagna, appena si profila una perturbazione. Eppure a distanza di 30 anni Levizzani è ancora in Italia l’unico studioso di nubi, e ha intenzione ora di scrivere un manuale per insegnarci a interpretarle. «Alte, medie o basse; a sviluppo verticale od orizzontale; filamentose o compatte, bianche o grigio-scure: le nubi si riconoscono dall’aspetto, perché a classificarle, all’inizio dell’Ottocento, fu un farmacista, Luke Howard, non un fisico», dice. E alcune possono indicare qualcosa di più del tempo che farà: gli strati, nubi basse, grigio chiare, a sviluppo orizzontale, rivelano che è in arrivo aria fredda. Imparare a leggere il cielo serve: lasciate perdere certi siti di (fake) news sul meteo.

·        Il clima (impazzito) brucia energia.

Il clima (impazzito) brucia energia. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 Stefano Agnoli da Corriere.it. È una delle «frequently asked questions» più cliccate quando si parla di clima: il riscaldamento globale rende più «estremi» i fenomeni meteorologici? Può causare siccità e caldo inusuale, oppure piogge, tempeste di neve e periodi inusualmente freddi? La risposta è sì, può farlo. Ciò che non si può affermare, invece, è che tra il «global warming» e i singoli eventi ci sia una concatenazione automatica. L’incremento delle temperature può accentuare, ad esempio, l’evaporazione dei suoli, causando la siccità. L’accumulo di vapore acqueo nell’atmosfera può tradursi in forti prolungate piogge. L’indebolimento del vortice polare intorno all’Artico, causato dall’oceano più caldo, può aprire imprevedibili corridoi alla «discesa» di aria gelida verso le aree più temperate. Ma il singolo uragano o la singola tempesta di neve non possono essere attribuiti con certezza al cambiamento climatico. Un’altra cosa che si può dire è che si tratta di fenomeni sempre più frequenti. Tanto che — secondo l’ultimo rapporto globale sull’energia della britannica BP — potrebbero addirittura essere le cause principali dell’innalzamento nel 2018 della domanda di energia mondiale (+2,9%) e delle emissioni di gas serra (+2%), l’impennata più forte mai registrata dal 2010-11. Il tutto in presenza di una crescita dell’economia non particolarmente robusta e dopo un paio di anni durante i quali il diossido di carbonio emesso in atmosfera (la famigerata CO2) è risultato in calo. In sintesi, sostiene però la BP, non si può escludere di essere in presenza di una sorta di «circolo vizioso»: per fronteggiare un caldo e un freddo più estremo si fa ricorso a sempre maggiori consumi di energia, in particolare di energia «fossile» come gasolio, carbone e gas naturale, contribuendo così all’amplificazione dell’effetto serra, a un aumento del «global warming» e, a ruota, degli eventi estremi. Altre cifre confermano questo desolante (per l’ambiente) stato di cose: sempre lo scorso anno la produzione e i consumi di gas naturale sono risultati in aumento di più del 5% — uno dei tassi di crescita più elevati degli ultimi trent’anni — e dopo tre anni in discesa anche i consumi (+1,4%) e la produzione (+4,3%) di carbone sono saliti. Il carbone, per inciso, è una fonte particolarmente insidiosa: a parità di potere calorico emette circa il doppio della CO2 del gas naturale. È vero che le fonti rinnovabili sono cresciute considerevolmente (+14,5%) ma il loro incremento è stato solo un terzo di quello complessivo, ancora troppo poco per rovesciare il trend corrente. Ma quanto può incidere sullo stato del pianeta riscaldare oppure raffreddare di più le nostre case o uffici? Se si pensa solo ai condizionatori d’aria, solo qualche anno fa l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) aveva calcolato che nel 2050 l’elettricità necessaria a questo scopo sarebbe stata inferiore solo a quella richiesta per gli usi industriali. Nel mondo si vendono all’incirca 135 milioni di condizionatori l’anno e si è ormai arrivati a quota 1,6 miliardi. Nel 2050 si potrebbe toccare la bella cifra di 5,6 miliardi di apparecchi, ovvero quattro nuovi venduti ogni secondo per i prossimi trent’anni. E se nel periodo 1990-2016 il contributo del raffreddamento degli edifici alle emissioni di CO2 è raddoppiato passando dal 6 al 12%, che cosa potrebbe accadere se nelle zone «calde» del pianeta — dove solo 8 abitanti su 100 possiedono un condizionatore — si arrivasse a tassi di proprietà americani o giapponesi, ovvero molto vicini al 100%?

·        Se gli ambientalisti litigano sui "gas" emessi dalle mucche.

La bistecca inquina (molto) più della plastica. Ma non vogliamo sentircelo dire. Il primo gesto utile per salvare il pianeta dovrebbe essere la riduzione del consumo di carne. Ogni volta che sostituiamo un chilo di carne con un chilo di verdura risparmiamo al pianeta circa 15 mila litri di acqua. Alessandro Gilioli l'11 settembre 2019 su L'Espresso. Sarà colpa di tanti vegani, che con il loro integralismo provocano stizza e quindi servono malissimo la loro stessa causa. Sarà colpa di una subcultura superficiale che considera l’abboffarsi di carne un gesto di ribellione contro il politicamente corretto. O forse è colpa di un increscioso equivoco machista, che scambia l’iperconsumo di bistecche con la virilità. Chissà. Fatto sta che abbiamo tutti imparato a separare la plastica e a non buttare le cicche di sigaretta in mare, ma è pochissimo entrato nella coscienza comune un fatto banale: il primo gesto utile, se si vuol salvare il pianeta, è limitare drasticamente il proprio consumo di carne. Non è questione di animalismo, né tanto meno di “disneyzzazione” di vacche o maiali: è un dato di realtà, già emerso al primo Summit sulla Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992. Nello stesso anno usciva negli Stati Uniti il più completo e deciso atto d’accusa sugli effetti dell’industria massiva della carne: “Beyond Beef”, di Jeremy Rifkin, tradotto poi in italiano con il titolo “Ecocidio” (Mondadori 2001), dove si dimostravano i disastri ambientali e sociali causati dallo sfruttamento di milioni e milioni di ettari per la coltivazione di prodotti vegetali destinati agli allevamenti intensivi di bestiame. Da allora la letteratura scientifica sul tema ha fatto grandi passi avanti, eppure pochi hanno ancora coscienza dell’impatto ambientale determinato da una dieta fortemente carnivora. Anzi: il consumo di carne cresce anche in Italia, fino a sfiorare gli 80 chili annui pro capite. Poco rispetto agli Stati Uniti - per fortuna - ma comunque troppo in un contesto di produzione alimentare che è diventato un’industria devastante: il 70 per cento della produzione globale di cereali finisce nelle mangiatoie degli animali da macello e per ogni chilo di manzo si produce una quota che arriva fino a 60 chili di CO2 equivalente (pari a oltre 20 litri di benzina bruciati da un’automobile di media cilindrata). Senza dire dello spreco di acqua dolce, dato che un terzo delle risorse idriche mondiali viene utilizzato per gli allevamenti: ogni volta che sostituiamo un chilo di carne con un chilo di verdura risparmiamo al pianeta circa 15 mila litri di acqua. Ognuno mangi quello che vuole, naturalmente: ma che ciascuno ne conosca le conseguenze, per decidere in modo informato.

Se gli ambientalisti litigano sui "gas" emessi dalle mucche. Con maiali e pecore producono il 14,5% di emissioni globali: colpa dell'aerofagia che affligge i mammiferi. Anna Muzio, Domenica 05/05/2019 su Il Giornale. Inquinano come una macchina ma non sono meccaniche, non hanno bisogno di benzina ma vivono d'erba. Sono le mucche e i bovini in genere. Secondo la Fao, il bestiame che comprende anche maiali, pecore, capre e altri animali è responsabile per circa il 14,5 per cento delle emissioni globali di gas serra. E i bovini contribuiscono per la gran parte, perché emettono dai 100 ai 140 chilogrammi all'anno di metano. Che per la cronaca è gas perniciosissimo, più dell'anidride carbonica: ha un potenziale inquinante rispetto all'effetto serra di 25 volte superiore e una capacità nel trattenere il calore di 30 volte maggiore, anche se è molto meno presente nell'atmosfera. Se pensiamo che al mondo ci sono da 1,3 a 1,5 milioni di bovini, la situazione si fa per così dire irrespirabile. Non tutti però sono d'accordo, o allarmati. La polemiche tra «flatulentisti» e no-flat(ulenza) dietro la quale si celano due diverse concezioni della società, dell'ambiente e dello stato di salute del Pianeta oltre che dei provvedimenti da prendere a proposito è scoppiata negli Stati Uniti in occasione della presentazione del «Green New Deal» proposto, tra gli altri, dall'astro nascente dei democratici, la senatrice Alexandria Ocasio-Cortez. Un piano per ripensare l'economia americana ponendo l'ambiente al centro e raggiungere in dieci anni il saldo netto di zero emissioni di gas a effetto serra. E non l'eliminazione dei gas tout court perché, come spiegherebbe un abstract della proposta, «non siamo certi di potere eliminare la flatulenza delle mucche e gli aeroplani in così poco tempo». I lazzi dei repubblicani e gli sfottò pare non si siano fatti attendere, tanto che Ocasio-Cortez ha chiarito come il piano sia volto a finanziare energie pulite e lavorare con gli agricoltori e allevatori per ridurre le emissioni il più possibile, anche grazie alla tecnologia, e non eliminare gli allevamenti e fare diventare tutti vegani, mentre la senatrice democratica Debbie Stabenow si è sentita in dovere di puntualizzare che in ogni caso no, le mucche in realtà non scoreggiano, ruttano. E in effetti dal 90 al 95 per cento del metano prodotto dalle simpatiche quadrupedi viene emesso, appunto, dalla bocca perché la formazione del gas, che è un sottoprodotto della digestione, avviene nello stomaco e non nell'intestino. Il tema non è nuovo: in Nuova Zelanda nel 2003 il governo pensò di imporre una «tassa sulla flatulenza» agli allevatori, ma accantonò l'idea a seguito delle proteste. Comunque sia, le mucche possono essere considerate campionesse di emissioni. E gli altri animali? Il tema è così «caldo» che due studiosi, Dani Rabaiotti e Nick Caruso, sulle animalesche flatulenze hanno scritto un libro: Does it fart? (Scoreggia?). Dal quale si scopre che praticamente tutti i mammiferi sono affetti da aerofagia. Solitamente causata da microbi che durante la digestione scompongono il cibo producendo anidride carbonica o metano, i gas serra che ci tolgono il sonno. Qualunque sia la dieta, quella vegetariana dei cavalli o delle zebre, che emettono peti quando si spaventano, o quella a base di pesce delle foche. Epiche paiono essere le flatulenze delle balene. C'è anche chi emette più innocua aria, con uno schiocco a scopo intimidatorio come il serpente corallo occidentale. Le aringhe invece usano i peti per comunicare e rimanere in banco. I bradipi, da par loro, si astengono. La loro digestione è talmente lenta che i gas tenuti nell'intestino per settimane sarebbero dannosi, e quindi vengono disciolti nel sangue. I lamantini usano la flatulenza per spostarsi dalla superficie al fondo del mare mentre le larve di Crisopa, un insetto, usano i peti per uccidere: contengono infatti una sostanza chimica che stordisce le termiti, che poi mangiano. Non proprio un pranzetto gourmet, ma almeno in questo caso non c'è gas serra e l'ambiente è salvo.

ATTILIO BARBIERI per Libero Quotidiano il 30 agosto 2019. L' allevamento di bovini non è fra i maggiori responsabili dell' effetto serra. Per lo meno non in Italia. Anzi: da noi è addirittura in credito per quel che si definisce «impronta di carbonio», traduzione letterale dell' espressione carbon footprint, che sta a indicare la quantità dei gas ad effetto serra emessi nell' atmosfera da una attività umana. Di solito questa quantità viene misurata in chilogrammi o tonnellate di anidride carbonica (CO2) equivalente, dato che si tratta del principale gas responsabile dell' effetto serra. È così, ad esempio, per le automobili, le cui emissioni si quantificano il chilogrammi di CO2 per chilometro percorso. Ebbene, per quel che riguarda l' allevamento di bovini e ovini, la sorpresa è che il bilancio fra le tonnellate di CO2 emesse banalmente attraverso i peti e quelle sequestrate (in pratica assorbite) dai vegetali della filiera zootecnica è in attivo. E chi colpevolizza carne, latte e derivati, come il formaggio, il burro o lo yogurt, sbaglia di grosso. A fare il bilancio del settore è stato il professor Giuseppe Pulina, presidente dell' Associazione carni sostenibili e ordinario di Zootecnica Speciale presso il dipartimento di agraria dell' Università di Sassari. «Il sistema agro-silvo-zootecnico italiano», spiega, «assorbe ogni anno più di 29 milioni di tonnellate di CO2 a fronte di una emissione di 22 milioni di tonnellate. In altre parole, il sistema zootecnico italiano è in credito di circa 7 milioni di tonnellate di anidride carbonica».

IL CALCOLO. Se queste sono le conclusioni i calcoli eseguiti dal professor Pulina sono a dir poco complessi. Il punto di partenza è la stima elaborata dell' Ispra, l' Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, sulle emissioni dei diversi comparti produttivi italiani e in particolare per quello zootecnico. Un dato riconosciuto universalmente: all' insieme degli allevamenti da carne e da latte del Belpaese è attribuibile l' emissione di 22 milioni di tonnellate di anidride carbonica l' anno, che equivalgono al 5% dei 428 milioni di tonnellate riversate nell' atmosfera dal nostro Paese da tutte le attività umane. «Ma questi dati», spiega Pulina, «non tengono conto dell' enorme potenzialità di sequestro del carbonio delle colture foraggere, dei pascoli in particolare e dei sistemi silvopastorali che in Italia sono particolarmente diffusi». Il fieno coltivato per alimentare il bestiame, assieme ai boschi esistenti nei territori dove pascolano bovini e ovini, hanno la caratteristica di assorbire l' anidride carbonica nel processo della fotosintesi clorofilliana con la quale i vegetali trasformano la CO2 e l' acqua in glucosio, utilizzando la luce solare. Un processo durante il quale gli alberi «mangano» l' anidride carbonica che rimane imprigionata nei rami, nelle radici e sotto terra.

MILIONI DI PIANTE. «Si stima che circa il 50% degli oltre 10 milioni di ettari di superfici boscate italiane», scrive il professor Pulina nello studio, «sia sottoposta a pascolo operato principalmente da bovini della linea vacca-vitello. Il sequestro di CO2 avviene a opera degli alberi, che lo accumulano nel legno e del suolo che lo conserva sotto forma di sostanza organica». Il calcolo è lineare. «In Italia i 3,77 milioni di ettari di pascoli assorbono 4,12 milioni di tonnellate di CO2 l' anno», continua l' esperto, «i 494mila ettari di foraggere ne assorbono 600mila tonnellate, mentre il 50% delle superfici silvane, pascolate, ne assorbe a sua volta 23,75 milioni di tonnellate». Dalla differenza fra la quantità di anidride carbonica assorbita dai vegetali appartenenti alla filiera zootecnica, almeno 29 milioni di tonnellate l' anno, e quella emessa dagli animali da allevamento, pari a 22 milioni di tonnellate, si ottiene il saldo che è positivo per circa 7 milioni di tonnellate di CO2. E se si considera l'intera agricoltura tricolore il bilancio complessivo è in credito addirittura di 25 milioni di tonnellate di CO2, come differenza fra i 25 milioni di tonnellate emesse dall' insieme delle attività agricole, e i 55 milioni di tonnellate «mangiate» ogni anno dal sistema agro-forestale. Dunque, prima di puntare acriticamente il dito sulle bistecche o sui formaggi, quando si parla di effetto serra e riscaldamento globale, vale la pena di soffermarsi su questi calcoli. Anche perché nella Penisola come in quasi tutti gli altri Paesi europei, la superficie boschiva è in costante aumento.

·        I sacrifici contro i cambiamenti climatici. Diventare Vegetariani-Vegani. Cambiare la nostra cultura e la nostra natura.

IL CIBO DEL FUTURO? SARÀ CREATO IN LABORATORIO. Ettore Livini per “la Repubblica” il 9 agosto 2019. Uguale ma diverso. Identico (o quasi) nel sapore e al palato, ma più sano. E, soprattutto - per chi lo produce - molto più redditizio dell' originale. Dagli hamburger senza carne al latte senza latte fino alle uova dove di uovo non c' è traccia, l' industria alimentare mondiale - nell' era vegana e del salutismo - è partita all' attacco del nuovo Eldorado di settore: il fake-food, la categoria alimentare a più alto di crescita sugli scaffali dei supermercati. Un mondo dorato dove niente è ciò che appare. La prova? L' ultima stella nascente del comparto: il cappuccino "verde" della Nestlè. Un mix di pregiatissimo caffè arabica e di latte che non ha mai visto una vacca in vita sua, prodotto con mandorle, cocco o orzo. Progenitore del latte alle noci e quello (blu) a base di alga spirulina allo studio dei laboratori scientifici del colosso svizzero. Gli stessi da cui è uscito l'Incredible Burger - copia conforme dell' originale bovino ma confezionata con proteine di soia e glutine di frumento e senza carne - che a pochi mesi dal lancio va a ruba in tutta Europa. Il momento d' oro del cibo-non cibo ha una ragione semplice: il mercato tira. Beyond Meat - la start-up finanziata da Bill Gates e Leonardo di Caprio che produce bistecche e polpette a base di piselli e fattura "solo" 90 milioni - è sbarcata a Wall Street a 25 dollari un paio di mesi fa e oggi ne vale 162 con una capitalizzazione di 10 miliardi. Le vendite di prodotti a base di proteine vegetali sostitutive - certifica Nielsen - sono cresciute negli Usa nel 2018 dell' 11% (contro il 2% del mercato alimentare) a 4,7 miliardi di dollari, ma dovrebbero arrivare a 23 miliardi nel 2025. Il business della carne finta vale oggi 800 milioni, il 2% del totale. Ma il latte orfano delle mucche (fatto con soia o mandorle) rappresenta già il 13% del fatturato di settore. E la francese Danone, per dare un' idea degli interessi in ballo, prevede di realizzare 5 miliardi di ricavi con questo tipo di prodotti nel 2025. L' appetito, ovviamente, vien mangiando. E l' elenco dei fake- food più o meno simili all' originale si sta allungando ogni giorno grazie al lavoro di decine di start-up impegnate a scomporre ogni singola caratteristica organolettica di un prodotto per poi replicarla con ingredienti politicamente corretti. Gli effetti sulla filiera produttiva sono a volte surreali: ultimo esempio il "tutto esaurito" (con tanto di lunghe lista d' attesa) che si registra da un paio di mesi negli impianti che sintetizzano proteine dai piselli, il nuovo oro nell' era dei "sostituti" alimentari. Sul mercato ci sono già un finto tonno a base di semi di zucca (marchio "Tuno"), il pesce crudo per il sushi fatto col pomodoro dalla Ocean Hugger Foods . Mentre Endless West sta preparando addirittura un whisky sintetizzato in laboratorio e le vendite di gelati e yogurt vegetali sono balzate del 40% nel 2018 negli States. Un business fiorente è nato attorno alle uova, ree non solo di ridurre le galline a catene di montaggio alimentari, ma anche di contenere troppo colesterolo. Follow your earth ricrea il mix tuorlo- albume per frittate con i semi di zucca, Just Food con gli onnipresenti piselli. La stessa azienda sta esplorando quella che molti ritengono la nuova frontiera del settore: la carne "vera" ottenuta senza macellare animali ma attraverso la moltiplicazione cellulare. I primi esperimenti - pare di successo - prevedono il prelievo con biopsia indolore di alcune cellule di pollo (si punta a lavorare solo con le piume) da riprodurre poi in vitro e all' infinito grazie a nutrienti vegetali. Lo stesso sta facendo Finless Food con il tonno dalla pinna blu, specie sull' orlo dell' estinzione. Un chilo di carne cresciuta in laboratorio con questo metodo costa ora 16 mila dollari. Tanto, ma la metà di un anno fa. E in un mondo che ha sospeso per tutto il 2019 la pesca dei merluzzo nel Nord del Baltico per evitarne la scomparsa, il pesce senza pesce è una buona notizia.

MEGLIO L’ESTINZIONE. Da Nationalgeographic.it il 6 agosto 2019. Garantire una dieta sana a una popolazione che, nel 2050, potrebbe raggiungere i 10 miliardi di persone migliorando, allo stesso tempo, il mondo in cui queste persone vivono richiederà cambiamenti enormi all'agricoltura e al modo in cui produciamo il cibo. È questa, in sintesi, la conclusione dello studio Creating a sustainable food future: final report. "La strada per raggiungere quest'obiettivo esiste, ma la sfida è persino più grande di quanto pensassimo", dice il co-autore Richard Waite del World Resources Institute (Wri). Oggi l'agricoltura utilizza circa la metà della terra coltivabile nel mondo, consuma il 90 per cento di tutta l'acqua utilizzata dall'uomo e genera un quarto delle emissioni globali annue che causano il riscaldamento climatico. Nonostante ciò, 820 milioni dei 7 miliardi di abitanti attualmente sulla Terra sono malnutriti perché non hanno accesso - o non possono permettersi - una dieta accettabile. "Dobbiamo produrre il 30% del cibo in più usando la stessa superficie arabile, fermare la deforestazione e tagliare le emissioni dovute alla produzione alimentare di due terzi", dice Waite in un'intervista. E non è finita. Tutto ciò dev'essere fatto mentre si riduce la povertà, si ferma la perdita di habitat naturale, si impedisce l'esaurimento delle scorte di acqua potabile e si mette un freno all'inquinamento e ad altri fattori di impatto ambientale dovuti all'agricoltura. "Non esistono soluzioni semplici. Se vogliamo impedire che altra terra venga convertita a scopi agricoli bisogna migliorare molto la qualità dei mangimi e la gestione dei pascoli. Questo significa che dobbiamo trovare il modo di ottenere più di un raccolto all'anno e fare passi avanti nelle tecniche di miglioramento genetico. Ad esempio la tecnologia CRISPR consente di intervenire sui geni con grande precisione per massimizzare le rese. Abbiamo bisogno di tutto questo", continua Waite. Per "tutto questo" Waite intende le 22 soluzioni che il report di 565 pagine illustra nel dettaglio. Ognuna dev'essere implementata in una certa misura a seconda del paese e della regione. Ecco alcune delle soluzioni proposte:

- ridurre drasticamente lo spreco di cibo che oggi si stima essere di un terzo. Sono molti i miglioramenti che possono essere fatti su tutta la filiera: aumentare o ingrandire le unità per la conservazione a freddo alimentate dall'energia solare, utilizzare composti naturali in grado di inibire lo sviluppo dei batteri e trattenere l'acqua nella frutta per allungarne la cosiddetta shelf-life nei negozi, ovvero la permanenza sugli scaffali;

- convertire la dieta dei grandi mangiatori di carne verso cibi di origine vegetale. La carne, in particolare quella bovina, ovina e caprina, drena molte risorse. Per consentire a più persone di avere l'accesso al consumo di carne, altri dovranno consumarne di meno. Oggi, dice lo studio pubblicato da poco, ci sono hamburger composti per il 20-35% da funghi e quelli completamente vegetali hanno lo stesso sapore di quelli di carne (se non migliore). Gli esperti scrivono anche che i sussidi governativi all'agricoltura stimati in 600 miliardi di dollari l'anno - e in particolare quelli che incentivano la produzione di carne e latticini - dovrebbero essere tolti di mezzo;

- per impedire che altri terreni vengano convertiti a uso agricolo serviranno grossi passi avanti nella qualità dei mangimi e nella gestione dei pascoli. Bisognerà trovare il modo di ottenere più di un raccolto all'anno e ciò, a sua volta, presupporrà migliori tecniche per selezionare le piante. La tecnologia CRISPR è, come spiegato prima, una soluzione;

- migliorare sia gli allevamenti ittici selvatici che l'acquacoltura. Il sovrasfruttamento degli stock ittici può essere ridotto eliminando buona parte dei 35 miliardi l'anno che, ogni anno, si spendono globalmente in sussidi al settore. Certificazioni e controlli più severi contro la pesca illegale e non rendicontata possono salvare tra gli 11 e i 26 milioni di tonnellate di pesce. Invece di nutrire grandi pesci - come i salmoni - con piccoli pesci, l'acquacoltura potrebbe utilizzare alghe o cibi a base di olio di semi.

Basterà?

"Non credo che questo report rappresenti esattamente le trasformazioni cui il sistema alimentare globale avrà bisogno di essere sottoposto", dice Hans Herren, presidente del Millennium Institute di Washington e vincitore del World Food Prize per il suo lavoro come entomologo. La Fao e il World Food Security (Cfs), entrambi delle Nazioni Unite, sostengono un approccio cosiddetto agroecologico per la produzione di cibo eppure - sostiene Herren in un'intervista - il rapporto del Wri non lo menziona nemmeno. L'agroecologia imita la natura, sostituendo gli input esterni come i fertilizzanti chimici con una serie di concetti come la consociazione di piante, alberi e animali, che possono migliorare la produttività di un terreno. Il Cfs ha da poco rilasciato un suo report sulla sostenibilità ambientale della produzione alimentare. In queste pagine l'agenzia Onu spiega che l'agroecologia abbraccia tutti i sistemi agricoli e alimentari, dalla produzione al consumo e viene vista sempre di più come la strada per arrivare a sistemi sostenibili. Lo studio riconosce, comunque, che non tutta l'agricoltura è uguale e ciò che funziona in un territorio può non funzionare in un altro. Waite però sostiene che, nonostante il termine "agroecologia" non sia stato utilizzato nel report del Wri, diverse soluzioni proposte ne condividono i principi. "Penso che enfatizzare troppo l'agroecologia distolga l'attenzione dal fatto che c'è un reale bisogno anche di innovazione tecnologica", spiega. Le api e gli altri insetti impollinatori sono un altro grande assente nel report del Wri, che si limita a far presente che l'aumento delle temperature è una probabile causa delle fioriture anticipate a periodi dell'anno in cui gli impollinatori non sono ancora arrivati. E questo è un fattore che porta alla riduzione dei raccolti. C'è molta preoccupazione sul fatto che in agricoltura si sta perdendo diversità, in un settore che è spesso dominato da colture come il mais e la soia. Anche questo rappresenta una minaccia per gli insetti impollinatori, secondo quanto dice un nuovo studio pubblicato su Global Change Biology perché limita fortemente la loro possibilità di nutrirsi. La ricerca suggerisce di coltivare varietà che fioriscano in periodi differenti in modo da costituire una risorsa di cibo stabile e un habitat per gli impollinatori. Secondo Danielle Nierenberg, nel report del Wri non c'è nulla di particolarmente nuovo. Nierenberg è presidente e fondatrice di Food Tank, una non-profit americana che lavora per trovare soluzioni alla fame, l'obesità e la povertà che siano sostenibili per l'ambiente. "Mi piace il fatto che contenga messaggi concreti e tante idee utili per progredire", dice Nierenberg in un'intervista. Molte di queste idee, continua, possiamo già applicarle oggi per rendere la produzione alimentare sempre più sostenibile, creare nuovi posti di lavoro e spingere la crescita economica. Al di là delle soluzioni specifiche il mondo deve agire con fermezza, ha spiegato nella prefazione del rapporto Andrew Steer, presidente del Wri. "Se vogliamo evitare la distruzione del nostro prezioso patrimonio di terra e acqua, produzione di cibo e protezione dell'ecosistema devono procedere di pari passo a ogni livello: politico, finanziario e di pratiche agricole", conclude Steer.

·        Lo Sport inquina?

Quanto inquina lo sport? Scrive il 30 marzo 2019 Antonio Ruzzo su Il Giornale. La sostenibilità sta diventando la parola d’ordine.  Prodotti sostenibili,  città sostenibili, aziende sostenibili tutto più o meno sostenibile tant’è che spesso sorge il sospetto che più che la capacità di  vendere, produrre o agire in maniera sostenibile sia il marketing a dettare le regole del gioco. Lo sport, ad esempio, rispetta l’ambiente? Quasi mai. Basta dare un’occhiata ai bordi delle strade quando si corre o si pedala. Basta vedere cosa succede ai ristori delle gare, della maggior parte delle gare. Poi per fortuna c’è chi raccoglie, c’è chi pulisce, chi rimette tutte le cose a posto. Fa parte della nostra cultura gettare tutto a terra.  Chissà perchè poi. Forse perchè fermarsi a un ristoro, bere e poi gettare il bicchierino di plastica in un bidone ci fa sentire meno campioni? Saranno quei venti secondi a fare la differenza? Non sempre è così va detto. Molto sta cambiando e dalla Maratona dles Dolomites alla Cortina-Dobbiaco alla Milano Marathon, alla Sellaronda Hero, ad altre gare ancora, ad Ecorace nel triathlon  molti sforzi per rendere le corse ecocompatibili si stanno facendo.  Anche se lo sforzo andrebbe fatto all’origine: via la plastica, via scatole, involucri, tanto materiale di cui, con un piccolo sforzo, se ne potrebbe davvero fare a meno. Poi piano piano toccherà provare a rendere ecocompatibili anche runner e ciclisti. E sarà più dura. Intanto però qualcosa si muove.  L’impegno è quello di ridurre il più possibile l’impatto ambientale di una gara ma non a parole. Ridurre al minimo i consumi energetici, stampare tutto il materiale informativo su carta riciclata o non stamparlo affatto,  usare piatti e posate ecologiche, prevedere menu di prodotti gastronomici a «km zero».  E ci sono sigle e parametri che riconoscono agli organizzatori che li rispettano i giusti meriti.  Ma bisogna fare altro ancora. Prevedere in prossimità delle zone di ristoro aree di raccolta di rifiuti in cui gli atleti possano correttamente gettare gel usati, carte di barrette e tutto quanto normalmente consumano durante una gara. E inserire nel regolamento la norma che chi non lo fa viene squalificato. Qualche anno fa il vincitore della Maratona delle Dolomites perse il titolo proprio perchè a pochi chilometri dal traguardo aveva gettato in terra la carta di una barretta. E non si discute se è giusto e sbagliato. E’ così e basta, si sa dall’inizio e la via è quella. Vince chi va più forte ma anche chi è più sostenibile. Così non si fanno solo chiacchiere…

·        Lo Smog uccide.

Lo smog uccide più delle sigarette: 8,8 mln di vittime all'anno. Si registrano tassi di morte più elevati in Europa, Italia compresa. Lo studio dell'Università di Mainz, in Germania, scrive il 12 marzo 2019 La Repubblica. L'inquinamento uccide più del tabacco e fa il doppio delle vittime rispetto a quanto stimato finora (8,8 milioni nel mondo in un anno, pari a 120 morti ogni 100 mila persone; le sigarette uccidono 7,2 milioni di persone in un anno), principalmente contribuendo a causare malattie cardiovascolari. Sono 790.000 le morti stimate per l'intera Europa (133 ogni 120 mila persone) in un anno (dati 2015) e 659.000 decessi per l'Unione europea a 28 (129 ogni 100 mila). Lo dice un vasto studio pubblicato sull'European Heart Journal dal quale emerge che le morti da inquinamento sono nel 40-80% dei casi per malattie cardiovascolari (CVD), il doppio che per malattie respiratorie. Lo studio è stato condotto da Thomas Münzel, dell'Università di Mainz, in Germania: le morti da smog sono più di quelle da tabacco che, sottolinea lo scienziato, peraltro è un pericolo evitabile, diversamente dallo smog. Guardando ai singoli paesi l'Italia si scopre tra quelli con più vittime in Europa occidentale, dopo la Germania che ha un tasso di morte per inquinamento di 154 per 100.000 (pari a una riduzione di aspettativa di vita per la popolazione di 2,4 anni in media), 136 vittime di smog per 100 mila in Italia (1,9 anni di vita persi in media), 150 in Polonia (2,8 anni di vita persi in media), 98 in Gran Bretagna (meno 1,5 anni), 105 in Francia (1,6 anni in meno di aspettativa di vita). Condizioni peggiori si vedono in Europa dell'Est, ma non tanto perché sono più elevati i livelli di inquinamento, quanto perché le condizioni di salute in generale sono peggiori: così ad esempio Bulgaria, Croazia, Romania e Ucraina hanno un tasso di morte da smog di oltre 200 individui per 100.000 persone. Il problema sono soprattutto le particelle inquinanti, che in molti paesi Ue eccedono i limiti fissati dall'Organizzazione Mondiale per la Salute. Passando a forme di energia pulita, concludono gli autori del lavoro, le morti da smog si potrebbero più che dimezzare.

L'inquinamento atmosferico aumenta paranoie e psicosi nei ragazzi. Studio inglese su 2000 adolescenti. Quelli che vivono in aree urbane più inquinate hanno il 70% di probabilità in più di soffrire di disturbi mentali, scrive Giacomo Talignani il 28 marzo 2019 su La Repubblica. Lo Smog non solo uccide, ma fa anche "impazzire", soprattutto i più giovani. Adolescenti e ragazzi che vivono in città con elevati livelli di inquinamento atmosferico, in particolare di biossido di azoto, hanno "più probabilità di avere delle psicosi" racconta un nuovo studio pubblicato sulla rivista Jama Psychiatry. Gli autori della ricerca, fra cui il professor Frank Kelly del King's College di Londra, hanno analizzato le esperienze di oltre 2000 giovani di 17 anni in Gran Bretagna e hanno scoperto che quelli che vivevano in zone con elevati livelli di biossido avevano una probabilità del 70% più alta di avere psicosi, fenomeni di paranoia intensa o, aggiungono gli scienziati, di "sentire delle voci". I danni da inquinamento atmosferico, in particolare  quelli per elevati livelli di materiale particolato, ozono troposferico e biossido di azoto sono noti: uccidono nel mondo 800 persone ogni ora, secondo l'Onu. L'Italia stessa è un Paese con fortissime concentrazioni di inquinamento: nel solo 2015, stima l'Ispra, si è toccata una punta storica di oltre 80mila morti legate alle condizioni dell'aria. Il fatto che persone nate e cresciute in città con elevati livelli di "air pollution" fossero più soggette a psicosi o malattie era noto: il nuovo studio a guida inglese testimonia però che i giovani, in particolare gli adolescenti, sono fra i soggetti più esposti alle sostanze inquinanti. La ricerca non riesce a dimostrare il nesso causale e al contempo non determina come altri fattori, ad esempio il rumore, possano incidere, ma sottolinea un pericoloso collegamento fra stato mentale dei ragazzi e stato della qualità dell'aria. "Dai nostri dati la presenza di biossido d'azoto spiegava da sola circa il 60% dell'associazione tra vita urbana e psicosi", ha detto Joanne Newbury al King's College di Londra, tra gli autori della ricerca. È chiaro, precisano i ricercatori, che nel calcolare le cifre sono state valutate - sui soggetti studiati - le esperienze famigliari passate, l'eventuale uso di fumo, alcool e cannabis, la storia famigliare e quella psichiatrica dei parenti e tanti altri fattori (ma non quelli genetici). Il problema, sottolineano ancora gli scienziati, è che sebbene esperienze psicotiche nei giovani siano più comuni e solo per un determinato periodo di tempo, questi sintomi causati dall'inquinamento potrebbero sviluppare malattie mentali in seguito, in età adulta. Il dito è puntato soprattutto contro l'inquinamento provocato dai veicoli a diesel. La ricerca collega inoltre le condizioni dell'aria anche a vari problemi di salute tra cui depressione e intelligenza ridotta. "Sembra esserci un qualche collegamento tra l'esposizione all'inquinamento atmosferico e gli effetti nel cervello e questa nuova ricerca è forse un altro esempio di questo", ha detto il professor Frank Kelly. "I bambini e i giovani sono i più vulnerabili agli effetti sulla salute dell'inquinamento atmosferico a causa della giovinezza del cervello e del sistema respiratorio". Il 30% dei giovani analizzati ha segnalato almeno un'esperienza psicotica, un tasso considerato normale per gli adolescenti: ma le psicosi erano significativamente più comuni tra gli adolescenti che vivono nel 25% dei posti più inquinati. "Nelle aree con i più alti livelli di biossido c'erano 12 adolescenti che riferivano esperienze psicotiche per ogni 20 adolescenti che non lo facevano. Nelle aree con livelli inferiori c'erano solo sette adolescenti che riferivano esperienze psicotiche per ogni 20 adolescenti che non lo facevano" spiegano ancora i ricercatori. Mentre in questi mesi centinaia di migliaia di adolescenti sfilano in corteo scioperando per il clima e chiedendo ai potenti risposte immediate al problema del cambiamento climatico, delle emissioni e dell'inquinamento, anche secondo gli scienziati del King's College sarebbe importante porre un freno ai livelli elevati di biossido proprio per poter garantirgli un futuro sano. Trovare un modo per diminuire i volumi dell'inquinamento, è fondamentale anche per Stefan Reis, esperto di inquinamento del Center for Ecology & Hydrology, "questo studio apporta infatti un contributo prezioso al crescente numero di prove che l'inquinamento atmosferico può influire non solo sulla salute cardiovascolare e respiratoria ma anche sulla nostra salute mentale".

·        Fermare tutte le auto o aerei? Non ferma il CO2.

La «vergogna di volare»: per salvare il Pianeta, usate i treni. Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 su Corriere.it da Stefano Rodi. Nato in Svezia, cresce il movimento «Flight Shame», che cerca di convincerci a decollare il meno possibile, per ridurre l’inquinamento. Tra i fondatori la mamma di Greta Thunberg. Sono 30 i milioni di passeggeri che possono volare in un giorno, usando oltre 200 mila aerei Il clima sta modificando la faccia della Terra e sta cominciando a cambiare, un po’ a rilento, anche la testa degli uomini. Alcuni sogni stanno perdendo il loro fascino, in un orizzonte offuscato dall’innalzamento delle temperature. Volare è uno di questi; forse il più simbolico. Il traffico sopra le nuvole è a dir poco intasato, con tutto quel che ne consegue, sia di inquinamento sia di sicurezza. È cresciuto ininterrottamente negli ultimi dieci anni e nel 2018, secondo i dati Iata, ha realizzato il record storico di ricavi che ha sfiorato i mille miliardi di dollari, con oltre 4 miliardi di passeggeri. Il sito che traccia gli spostamenti dei velivoli, FlightRadar24, ha registrato il primato, messo a segno in 24 ore, di 202.157 voli che hanno portato per aria 30 milioni di persone. Ma, mentre ci possono essere 2,3 decolli al secondo, sta però crescendo anche il numero di chi suggerisce di tornare il più possibile coi piedi per terra. Non perché ha paura di volare, ma perché si vergogna di ciò che si lasciano alle spalle i reattori. È diventato un movimento, si chiama «Flight Shame» (vergogna del volo, appunto), e invita tutti a prendere meno aerei visto che è ormai certo come viaggiare per aria, a 900 km all’ora, sia un’attività terribilmente inquinante. Non serve inventarsi scie chimiche, bastano e avanzano quelle reali: chi vola da Londra a Mosca, in economy, brucia un quinto del «budget di carbonio» annuale che ogni umano non dovrebbe superare se volesse evitare il riscaldamento globale. Se è seduto in business, molto peggio. Un volo Italia-Sydney butta per aria circa 10 tonnellate di CO2. Se Icaro, per puro caso, tornasse oggi sulla Terra, si butterebbe da un grattacielo, senza ali. O forse prenderebbe un treno che, sulla stessa distanza di un aereo, produce un decimo di CO2. E infatti proprio sulle rotaie punta buona parte della sua battaglia il movimento «Flight Shame». Il decollo È nato un’estate di sette anni fa quando una svedese, Susanna Elfors, per dare consigli di viaggio ecosostenibili, su Facebook coniò l’hashtag #stayontheground (rimani a terra). Dai 5 mila seguaci iniziali si passò in poco tempo a 90 mila. Nel 2017, sempre in Svezia, un altro gruppetto, nel quale c’era anche la cantante lirica Malena Ernman, non casualmente mamma di Greta Thunberg, coniarono il «Flygskam». In poco tempo fu seguito dalla traduzione inglese «Flight Shame», e così l’invito a non volare si è sparso per il mondo. Oggi è in corso la campagna «Flight Free 2020». Il mondo accademico sta dando il suo aiuto: sono già 650 i docenti che hanno firmato un documento nel quale si impegnano a volare il meno possibile. E cominciano anche ad esserci aziende, come la tedesca WeiberWirtschaft, che offrono tre giorni di ferie in più ai propri dipendenti che non prendono l’aereo. O giornali, come il danese Politiken, che ha avviato il piano per sostituire tutti i voli nazionali dei suoi giornalisti con l’uso dei treni. Il sociologo Roger Tyers sostiene che l’effetto sociale delle scelte personali va molto oltre le emissioni risparmiate dal singolo volo. «Non mi aspetto che tutti facciano ciò che faccio io, ma che inizino a riflettere sulla possibilità di sostituire i voli con qualcos’altro». Alice Bows-Larkin, docente di Scienze climatiche e politica energetica all’Università di Manchester, ritiene che sia particolarmente importante che a dare l’esempio di ridurre i propri voli sia chi studia il clima e l’ambiente. «Se vai dal tuo medico di famiglia e lui è lì seduto a fumare, è difficile che riesca a convincere te a smettere». Nell’attesa, non breve, dell’arrivo di biocarburanti o di aeroplani alimentati da batterie elettriche, l’unica strada è quella di ridurre i voli di linea. Non è semplice: per farlo, oltre che una rivoluzione culturale, ne serve un’altra: mettere una tassa sull’ambiente a un settore che, fino ad ora, su questo fronte è rimasto beato tra le nuvole. La Svezia nel 2018 ha introdotto un’imposta «ecologica» che ha reso i voli più costosi e quest’estate Macron ha fatto lo stesso in Francia. Nel frattempo però, sulla terra, qualcosa si sta muovendo: sta crescendo sempre di più il numero di chi decide di viaggiare senza mete prestabilite, senza bagagli pesanti e, rigorosamente, senza aerei. È nato come fenomeno di nicchia, ma lo “slow travel” è tornato a essere, come del resto era in passato, il miglior modo di viaggiare, di vedere e di pensare. In fondo, anche se per una ragione diversa, un indovino oltre 40 anni fa aveva spinto Tiziano Terzani a muoversi nella stessa direzione.

La "vergogna di volare" ultima moda ecologista. Dopo il viaggio in barca a vela in Usa di Greta crollano i voli e aumentano i viaggi in treno. Marzio G. Mian, Domenica 20/10/2019 su Il Giornale. Signori si parte! In effetti in carrozza ci sono solo signori, i poveracci viaggiano in aereo. Nella scorsa estate i giornali scandinavi erano pieni di storie di famiglie che prendevano il treno da Stoccolma o Malmö per raggiungere il Mediterraneo in vagone letto, magari con due o tre cambi, soste confortevoli scendendo in hotel dove potere cenare ovviamente a chilometro zero. Perché bisogna salvare il pianeta. Costa un botto, ma si vede che ne vale la pena. Ne era convinta anche Annika Thomsson, prof a Stoccolma, diretta con la figlia Saga di diciassette anni a Montpellier: l'atmosfera non proprio da Orient Express, ma un treno fine Novecento del gruppo Snälltäget che fino a un anno fa partiva per Berlino (13 ore) quasi vuoto, sedili in finta pelle, aria condizionata a singhiozzo così come l'acqua del lavabo. «Quando ho proposto a Saga questa vacanza mi ha detto che ci veniva solo se non prendevamo l'aereo. E anch'io mi sento in colpa per tutte quelle volte che mi tocca volare per lavoro», ha spiegato mamma Annika. Le aspettava un viaggio di due giorni. «Sarà un'avventura eccitante, come stare in un film, in più la con la sensazione di fare la cosa giusta», diceva Saga. Ferryboat a Trelleborg, quindi attraversamento del Baltico, di nuovo sui binari a Sassnitz in Germania fino a Berlino, e il giorno dopo ciuff-ciuff fino a Parigi, sosta di ristoro, un paio di musei e via al Sud. Costo intorno agli ottocento euro, contro i circa 50 euro a testa se madre e figlia avessero prenotato per tempo un popolare aereo. Si chiama flygskam, è l'ultimo dogma della fede laica-chic svedese. Vuole dire «vergogna di volare», l'abbiamo scoperto quando Greta ha attraversato l'Atlantico in yacht per pronunciare il suo j'accuse all'Onu. La contraerea ambientalista ha messo nel mirino gli aerei, responsabili di produrre tra il due e tre per cento delle emissioni di Co2 nell'atmosfera e il 12 per cento di tutte le emissioni prodotte dai mezzi di trasporto nel mondo. E siccome i dieci milioni di svedesi, grazie ai loro 50mila euro di pil pro capite annuo e al monte ferie più alto d'Europa, fanno (o facevano) un uso smodato dei cieli, si sentono tremendamente in colpa. Metteteci che la Svezia è la grande madre del politicamente corretto, una sorta di Ikea del pensiero conforme, disegnato con quello stile pulito scandinavo che sa di betulla e di moderno, e lo flygskam diventa una nuova sindrome di Stoccolma che ci rende tutti colpevoli in cerca di riscatto etico. Il movimento creato due anni fa da Björn Ferry, un ex atleta, ha dilagato dopo che è stato «omologato» con l'adesione della mezzosoprano Malena Ernman, mamma di Greta e guru del marketing climatico. C'è un sito, tagsemester, che fornisce assistenza per trovare alternative all'aereo, piani di viaggio su rotaia, ma anche via nave, addirittura sui cargo transoceanici. Si prevede che tra pochi mesi saranno centomila gli svedesi che boicotteranno i cieli, ma secondo il Wwf nel corso di quest'anno il 23 per cento della popolazione ha rinunciato all'aereo per non contribuire al riscaldamento globale. I dieci principali aeroporti del Paese segnalano un calo dei biglietti dell'otto per cento in sei mesi, mentre le ferrovie di Stato un aumento del 10 per cento sulle tratte nazionali, tanto che vi sono piani per l'acquisto di nuovi treni a lunga percorrenza, gare per il design di vagoni-letto stile ostelli di lusso. Chi ha fatto il colpaccio è la compagnia privata Snälltäget, che ha acquistato la tratta Malmö-Berlino nel 2011, ma anche la Malmö-Stoccolma e d'inverno gestisce i treni per Åre, località sciistica. «Fino al 2017 non si batteva chiodo», dice Marco Andersson, capo delle vendite, «pensavamo di uscire dal settore. Poi la scorsa estate abbiamo assistito a un'impennata del 20 per cento. Al di là dei viaggi di lavoro, sta cambiando proprio l'idea di vacanza, chi vola in Thailandia non lo dice nemmeno ai parenti stretti». La sindrome ha contagiato gli altri paesi scandinavi, il Regno unito, la Germania e anche la Francia. Un sondaggio della banca d'investimento svizzera Ubs ha stabilito che una persona su cinque in questi paesi (ma anche negli Stati Uniti aereo-dipendenti) nel 2019 ha ridotto il numero dei voli. Stando a Carlo Boselli, general manager di Eurail e Interrrail, «nel 2019 la scelta di utilizzare il treno per ragioni ambientali è stata determinante per oltre il 70 per cento dei passeggeri». La più grande società ferroviaria europea per il trasporto passeggeri, l'austriaca Öbb, ha registrato tra giugno e settembre un aumento del 10 per cento, su alcune tratte come la Vienna-Zurigo e la Monaco-Roma: «In luglio siamo stati costretti ad aggiungere due corse notturne per l'Italia», dice il portavoce Bernhard Reider. Non si può che dare il benvenuto al ritorno di fiamma delle cuccette, rottamate con il boom dei voli lowcost a partire dagli anni Novanta; ma come la stanno prendendo le compagnie aeree? Parlando di fronte a 150 dirigenti il direttore generale della Iata, Alexandre de Juniac, ha detto che «se non si corre ai ripari saremo travolti. Il nemico non è il viaggio in aereo, ma le emissioni». Quindi si punta a ridurle in fretta, soprattutto aumentando l'uso del biocarburante (fa niente che per produrlo si occupano sterminate distese di monoculture). L'olandese Klm ha avviato una campagna per un «volo responsabile», che sembra autolesionista perché invita i passeggeri a prendere l'aereo il meno spesso possibile. Quindi è verosimile quanto previsto dalla Ubs secondo cui gli ordini di Airbus e Boeing crolleranno del 110 per cento l'anno e che i prezzi dei biglietti saranno destinati ad aumentare. Così che i signori saliranno in carrozza o riprenderanno il piroscafo per New York, mentre tutti gli altri si attaccheranno al tram.

Quanto inquina (davvero) un aereo? Ecco tutti i numeri. Pubblicato domenica, 22 settembre 2019 da Leonard Berberi su Corriere.it. La guerra dei cieli è anche una battaglia sui numeri. «Gli aerei inquinano a una velocità maggiore rispetto alle previsioni dell’Onu», denuncia l’ultimo studio dell’International council on clean transportation. Nel 2018, calcola, «i velivoli hanno emesso 918 milioni di tonnellate di anidride carbonica, pari al 2,4% del totale globale». Un numero monstre. Più alto di mezzo punto percentuale di quello del 2016 (913,8 milioni di tonnellate). E di quasi il 70% rispetto al 1990 (542,3 milioni). Questi dati, però, rischiano di travisare la realtà. Perché in parallelo, stando alle elaborazioni del Corriere incrociando una dozzina di pubblicazioni ufficiali, dal 1990 al 2018 i passeggeri sono cresciuti del 327% e le compagnie aeree — un po’ per risparmiare carburante, un po’ per esigenze operative — hanno rinnovato la flotta con velivoli più efficienti. Risultato: nel 1990 ogni viaggiatore imbarcato ha emesso in media 529 chili di diossido di carbonio, scesi a 246,6 nel 2016 e calati a 209,7 nel 2018: -60% in 28 anni. Non è sufficiente. Per questo gli esperti della Commissione europea sostengono che per distanze di 5-600 chilometri i viaggiatori dovrebbero muoversi con il treno che inquina meno (-79% sulla tratta Milano-Roma, -97% sulla Milano-Zurigo) e grazie all’alta velocità quasi pareggia i tempi di percorrenza. L’Icao non replica alle «accuse» dell’Icct. «Ci sono molti studi realizzati e non sappiamo quanto siano accurati i numeri», commenta via e-mail William Raillant-Clark, portavoce dell’agenzia Onu. Per questo «alla fine di ogni triennio un comitato interno valuta i trend sull’impatto dell’aviazione per quanto riguarda i gas serra prodotti, l’inquinamento acustico e le emissioni dei motori». Alexandre de Juniac, direttore generale della Iata (la principale associazione internazionale delle compagnie) non si dà pace. L’«effetto Greta» rischia di avere conseguenze negative sui conti. «La questione ambientale è una delle sfide più grandi da affrontare», ha detto di recente al Corriere. «Ma c’è molta disinformazione sul tema e in parte è anche per colpa nostra: in questi ultimi dieci anni non abbiamo raccontato bene cosa stiamo facendo».

Il lavoro è su più fronti. Su quello degli aeromobili, per esempio, oggi si punta sui moderni Airbus A350 e gli A330neo, i Boeing 787 e 777X per i voli intercontinentali, gli A220, A320neo e i Boeing 737 Max per i voli di corto e medio raggio. Chi si occupa del traffico aereo ragiona su percorsi di decollo e atterraggio che richiedono meno potenza ai motori. Sempre più compagnie rinnovano la flotta e investono sui bio-carburanti. Diventano pure più trasparenti sulle emissioni di CO2 che si attesterebbe — stando ai comunicati ufficiali — sui 67 grammi per passeggero/chilometro per Ryanair, sui 78 grammi per easyJet. Il nuovo fronte di polemica tra Stati e vettori è quello dell’eco-tassa presente sui biglietti aerei in Germania e Svezia, da gennaio anche in Francia e forse in Italia. Per de Juniac — che è stato ad di Air France-Klm — è inutile. Per l’esperto Paul Chiambaretto, docente alla Business School di Montpellier, «l’importante è che ci sia una decisione globale altrimenti si rischiano distorsioni di mercato per cui in Europa si pagano e in Cina, che inquina un bel po’, no», avverte durante un’intervista telefonica. Non solo. «Le imposte devono dipendere dal tipo di aereo: non si può far pagare la stessa cifra — come avverrà in Francia — a un Boeing 777 e a un B787: il secondo è più nuovo e inquina molto meno del primo».

Da simbolo di libertà a capro espiatorio. Pierluigi Bonora, Sabato 21/09/2019, su Il Giornale. Liberi dalla guerra, gli italiani hanno subito voluto conquistare un'altra libertà: quella di muoversi. Negli anni del boom economico, sedersi alla guida di una Fiat 500 era come toccare il cielo con un dito, se poi era una 600, la famiglia poteva viaggiare più comoda sulle strade assolate della villeggiatura. Insomma, l'automobile, come la Tv e il frigorifero, erano i simboli del benessere e della rinascita del Paese. I ragazzini non vedevano l'ora di raggiungere l'età del fatidico foglio rosa per ottenere la patente. La macchina, per i neo diciottenni a cavallo degli anni '70 e '90, era il premio più ambito. E più sofferto. L'auto permetteva tutto, o quasi: andare in vacanza, portare genitori e nonni a spasso, recarsi al lavoro e rifugiarsi con morosa e plaid in camporella (l'importanza dei sedili ribaltabili e del mangiacassette). Qualche anno fa, a bordo di un'Alfa Romeo Giulietta prima serie, al seguito della Mille Miglia dalle parti di San Marino, un nonno ha indicato al nipotino proprio l'auto sulla quale mi trovavo. Era visibilmente emozionato. E per la mente gli sarà passato il film dell'età più bella: quanti ricordi e quanta nostalgia. L'automobile era considerata come un oggetto del desiderio, spesso inarrivabile. Ci si accontentava di un Pandino sognando una Ferrari, ma anche una sportivissima Alfa Romeo. Però le cose belle durano poco: prima l'avvento delle nuove tecnologie (smartphone, tablet, Internet), quindi il dannato Dieselgate, poi il boom dei social, quindi la politicizzazione della macchina, trasformata in capro espiatorio di tutti i mali del pianeta. E soprattutto delle inadempienze da parte delle istituzioni. Tassare e punire gli automobilisti ha preso sempre più piede. La macchina è sempre più vista come il «bancomat» per tappare questa o quella falla nei conti di Comuni e Governo. Il Dieselgate ha dato lo spunto ai detrattori per affossare questo motore, incuranti dei considerevoli tagli alle emissioni. E così i giovani d'oggi sono più preoccupati a chattare che a desiderare l'auto. Oppure a scioperare per il bene dell'ambiente, secondo i dettami della quasi «nobel» Greta, come se a sfilare per le strade costringesse il buon Dio a soffiare via veleni e plastiche varie. Ecco poi gli invasati grillini, che ti pagano pure per non comprare la macchina. La «decrescita felice» lasciamola a loro. W l'automobile. W la passione. Vogliamo essere liberi. E voi, grillini, pedalate pure.

A TUTTO GAS! Luisiana Gaita per Il Fatto Quotidiano l'11 settembre 2019. Nel 2018 il settore automobilistico ha prodotto il 9 per cento delle emissioni globali di gas serra, più di quelle di tutta l’Unione Europea. Volkswagen è l’azienda che produce la maggior quantità di emissioni, seguita da Renault Nissan, Toyota, General Motors e Hyunday-Kia, mentre Fca è quella più inquinante se si tiene conto delle emissioni medie per veicolo.

IL DOSSIER – Alla vigilia del Salone dell’Automobile di Francoforte, Greenpeace pubblica i risultati del report Scontro con il clima: come l’industria automobilistica guida la crisi climatica, nel quale si esamina l’impatto sul clima delle 12 maggiori case automobilistiche mondiali, analizzando la mancanza di progressi in cinque grandi mercati (Stati Uniti, Ue, Cina, Giappone e Corea del Sud). Il dossier fornisce nuovi calcoli che mostrano l’impronta di carbonio di cui sono state responsabili nel 2017 e nel 2018, che rappresenta le emissioni del ciclo di vita delle auto vendute per ogni azienda. Per calcolarla sono stati utilizzati i dati delle vendite globali, delle emissioni delle flotte di veicoli e dei dati delle emissioni legati alla produzione e l’upstream del carburante.

“PRINCIPALI RESPONSABILI” – “Viviamo una grave emergenza climatica e le case automobilistiche sono tra le principali responsabili di quanto sta accadendo al clima”, dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima di Greenpeace Italia, sottolineando che – da quanto emerso nel dossier – “la sola Volkswagen emette più dell’Australia, e non è da meno Fiat Chrysler Automobiles, l’azienda con il più alto livello medio di emissioni per veicolo, che in termini di gas serra inquina di più dell’intera Spagna”. Sono passati quasi quattro anni dalla firma dell’accordo di Parigi e la transizione verso un sistema di trasporti rispettoso del clima oggi è una priorità assoluta. Per raggiungere l’obiettivo fissato di mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi, Greenpeace chiede a tutte le case automobilistiche di fermare la produzione e la vendita di auto diesel e benzina entro il 2028, compresi i modelli ibridi e di impegnarsi a produrre veicoli elettrici più piccoli, leggeri, ed efficienti dal punto di vista energetico.

“IBRIDO NON È SOLUZIONE” – Come dimostra il report, “il miglioramento dell’efficienza dei consumi e il passaggio a veicoli ibridi non sono soluzioni adeguate a contrastare la crisi climatica”, ma piuttosto ritardano il necessario cambiamento. “Una trasformazione che non può verificarsi da un giorno all’altro”, si sottolinea nel rapporto, eppure invece di eliminare gradualmente i motori a combustione interna (ICE) “implementando un piano d’azione che segua un calendario preciso”, le case automobilistiche “si rifiutano di compiere questo passo”, opponendosi “a una solida regolamentazione in fatto di impatti sul clima”.

QUALCHE DATO – Il risultato è che l’intero settore, con 86 milioni di auto vendute nel 2018, è responsabile dell’emissione di 4.8 gigatonnellate di anidride carbonica, 4,3 per quanto riguarda le 12 aziende analizzate nel report. I cinque giganti con le emissioni più elevate sono Volkswagen (582 milioni di tonnellate), Renault Nissan (577 milioni), Toyota (562), General Motors (530) e Hyundai-Kia (401). Il dato della Fiat Chrysler Automobiles è dovuto al fatto che le vendite di questo marchio, soprattutto negli Stati Uniti, sono in gran parte relative a SUV e pick-up.

LA DIFFUSIONE DEI SUV – Dall’analisi effettuata da Greenpeace emerge, infatti, che la rapida diffusione di modelli più grandi e pesanti come i SUV sta causando un ulteriore incremento delle emissioni. La vendita è più che quadruplicata negli ultimi 10 anni, passando in Europa dall’8 per cento del 2008 al 32 per cento del 2018. Negli Stati Uniti i SUV hanno raggiunto addirittura il 69 per cento della quota di mercato. A causa del loro peso più elevato e dell’impostazione meno aereodinamica, le emissioni di CO2 di questa tipologia di auto sono notevolmente più alte di quelle delle altre auto.

I DATI DELL’IBRIDO – “I motori ibridi, sia convenzionali che plug-in, bloccano lo sviluppo rapido di reali alternative – si spiega nel report – e non superano la tecnologia dei motori a combustione interna, che va invece abbandonata per affrontare seriamente la crisi climatica”. I motori ibridi convenzionali fanno affidamento completamente sul motore a combustione interna per la maggiore potenza, ed anche i motori ibridi plug-in, se non utilizzati nella maniera più efficiente e soprattutto per brevi viaggi, possono avere notevoli livelli di emissioni. “Grazie a test svolti in Europa sui motori plug-in – spiega Greenpeace – si è notato che la differenza tra i risultati dei test e l’effettiva performance su strada è addirittura più alta rispetto ai motori termici classici”.

LE RICHIESTE DI GREENPEACE – Dal rapporto emerge che “le aziende automobilistiche stanno fallendo nella transizione energetica, mancano inoltre investimenti in soluzioni ai cambiamenti climatici”. Solamente un’azienda tra le 12 analizzate, ossia Volkswagen, si è posta come obiettivo l’abbandono dei motori a combustione interna a livello globale “peraltro non sufficiente se l’intento è mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5°C”. Per Greenpeace, inoltre, “c’è assoluto bisogno di migliorare la trasparenza dei produttori di auto sui dati relativi alle emissioni”. Un altro nodo riguarda la differenza tra i risultati dei test ufficiali e quelli su strada. “Risultati di test che sovrastimano in maniera significativa l’efficienza del consumo di benzina delle auto e invece sottostimano le emissioni di CO2 sono una mistificazione della realtà verso i consumatori”, spiega Greenpeace, che aspetta di valutare eventuali miglioramenti apportati dalla nuova procedura Wltp (Worldwide Harmonised Light Vehicle Test Procedure). In questi giorni produttori di auto e rappresentanti politici da tutto il mondo parteciperanno a Francoforte al Salone dell’Automobile. Il 14 settembre Greenpeace, insieme ad altri gruppi e a migliaia di persone, manifesterà – muovendosi a piedi o in bicicletta – davanti all’ingresso del Salone per chiedere una rapida transizione verso modelli di trasporto più sostenibili.

Le case automobilistiche più inquinanti secondo GreenPeace: Vw emette più CO2e dell’Australia, Fca più della Spagna. Marco Cimminella il 14/9/2019 su it.businessinsider.com. Veicoli elettrici, car sharing, mezzi pubblici. Gli sforzi per ridurre l’inquinamento atmosferico sono stati tanti, eppure ancora insufficienti. Perché se è vero che alcune città cominciano a dire basta a diesel e benzina, l’impatto ambientale del settore automobilistico è ancora enorme: con 86 milioni di auto vendute nel 2018, è responsabile di 4.8 gigatonnellate di CO2 equivalente, circa il 9 per cento del totale delle emissioni globali di gas serra. Un valore che supera quelle prodotte dall’intera Unione europea e che dipende per la gran parte da 12 case produttrici. Volkswagen, Renault Nissan, Toyota, General Motors e Hyundai-Kia generano il 55 per cento dell’impronta di carbonio dell’intero comparto, si legge in un rapporto pubblicato da GreenPeace International. Che accuse le società costruttrici di investire poco nella transizione verso soluzioni più sostenibili, in modo da rispettare l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi Celsius come stabilito nell’Accordo di Parigi. Più nel dettaglio, secondo l’associazione ambientalista la poca trasparenza dei dati e il divario tra i risultati dei test ufficiali e le emissioni di C02 su strada finisce per ostacolare la corsa a combattere il cambiamento climatico. Un esempio su tutti, gli scarsi progressi nell’efficientamento energetico per le nuove auto vendute negli Stati Uniti, Unione europea, Cina, Giappone e Corea del Sud, che poi rappresentano il 70 per cento del mercato mondiale. Come mostra la tabella, il primo posto di questa triste classifica è occupato da VW Group: l’azienda ha generato 582 milioni di tonnellate di C02eq nel 2018, più di quelle prodotte dall’Australia (535milioni). Inoltre, se si sommano le emissioni delle società tedesche VW, Daimler e BMW, la loro impronta di carbonio tocca quota 878 milioni di tonnellate di C02, superando quelle imputabili alla Germania, pari a 866 milioni. I dati mostrano che anche Fiat Chrysler Automobiles (FCA), le cui emissioni di gas serra superano quelle dell’intera Spagna, detiene un primato negativo: insieme a Ford e General Motors, registrano i valori di emissioni gas serra più alti per veicolo. Una situazione che si spiega anche con il fatto che le vendite, soprattutto negli Stati Uniti, sono state dominate da Suv e pickup, un tipo di veicolo che rende ancora più complessa la già complicata transizione, visto che il peso più elevato e la struttura meno aerodinamica di queste auto determina livelli di Co2 più alti rispetto ad altri veicoli. Come scrivono gli autori del report, “nel 2018, i modelli più gettonati in nord America sono stati Ford F-Series, Chevrolet Silverado (General Motors) e Dodge RAM (Fca), giganteschi pickup che bevono tanto carburante”.

Certo, un piccolo miglioramento c’è. Confrontando le emissioni di gas serra del 2017, è stata registrata una riduzione dell’1 per cento nel 2018. Ma si tratta di un risultato per niente incoraggiante, al punto che l’accusa di GreenPeace è che il comparto automobilistico sta perdendo la sfida con il cambiamento climatico. Le aziende annunciano investimenti nell’auto elettrica, piani per ridurre ed eliminare motori a combustione interna, oltre all’impegno a interrompere la vendita di auto a diesel in alcuni mercati. Ma nei fatti, fanno poco per promuovere dal punto di vista commerciale soluzioni di mobilità alternativa. Come sottolinea il report, solo l’1,5  e l’1,4 per cento del budget destinato alla pubblicità è stato impiegato, rispettivamente, per i modelli a emissioni zero e per l’auto ibrida elettrica plug-in nei più grandi mercati dell’Unione europea: Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna. Al contempo, sono lievitate le cifre investite per spingere le famiglie ad acquistare un Suv. Inoltre, diminuiscono gli sforzi per incrementare l’efficientamento energetico dei veicoli. Negli stati membri dell’Ue, ad esempio, le emissioni medie di CO2 prodotte dalle nuove auto registrate hanno raggiunto i 120,4g/km: 50 g/km in meno rispetto al 2001, ma 2 g/km in più rispetto al 2017. E intanto è cresciuta la discrepanza tra i risultati dei test e le emissioni di CO2 su strada, passando dall’8 per cento del 2001 al 39 per cento del 2017. Ma rallentamenti o battute d’arresto nel taglio delle emissioni inquinanti si sono verificati anche in altri mercati, come quello statunitense, cinese, giapponese e sudcoreano.

Di fronte all’eventualità, sempre più vicina, di un grande sconvolgimento climatico e ambientale, GreenPeace esorta le case automobilistiche a realizzare grandi cambiamenti nelle loro strategie economiche: non solo devono abbandonare i motori a combustione interna entro il 2028, investendo di più su veicoli elettrici piccoli ed efficienti, con una filiera di produzione sostenibile.

Fermare tutte le auto? Non ferma il CO2. Ecco i dati: la natura avvelena più l'aria dell'uomo. E le macchine meno di tutti. Pier Luigi Del Viscovo, Mercoledì 05/06/2019, su Il Giornale. Da noi anche i ragazzini delle medie usano Greta per strappare un sorriso, perché oggettivamente si presta, col suo sorriso inquietante sotto quell'impermeabilino giallo nordico, tipico dei bambini che vanno a scuola a piedi sotto la pioggia (noi ce li portiamo in macchina davanti all'ingresso, in tripla fila, per paura che l'acqua li restringa). È che siamo fatti così, scherziamo su tutto, senza che ciò implichi alcuna volontà di sminuire la gravità del tema ambientale, che merita e riceve tutto il rispetto possibile, a cominciare proprio dai giovanissimi. Appunto perché è una cosa seria e merita rispetto, l'alterazione climatica va affrontata in punto di verità scientifiche, lasciando fuori dalla porta mode e pregiudizi di ogni genere. Le questioni sono essenzialmente due: l'impatto sulle alterazioni climatiche dell'economia dei fossili e, dentro di essa, il peso delle auto europee, visto che è su queste che si sono presi i provvedimenti più incisivi e più costosi, danneggiando la competitività dell'industria e la sua occupazione. Detto diversamente, noi europei stiamo per pagare un prezzo altissimo, da soli, per frenare il riscaldamento del pianeta. La Terra oggi ha un clima più caldo di 0,8 gradi rispetto al 1880, allorché si concluse la «piccola età glaciale», un raffreddamento di uno/due gradi (nel 1870 il porto di New York ghiacciò fino a Staten Island) iniziato nel 1300 dopo il lungo periodo caldo medievale, che invece aveva causato la scomparsa di molti ghiacciai. In quegli anni cominciava pure la rivoluzione industriale con l'energia prodotta dal carbone ad elevate emissioni di CO2 . È su questo che poggia il nesso di causalità. La temperatura globale dipende dal calore che arriva dal Sole e dalla quantità di esso che il pianeta riesce a scambiare nello spazio. Semplificando, alcuni gas serra (principalmente vapore acqueo e CO2 ) trattengono il calore dentro l'atmosfera, provocando il riscaldamento. Per dirla tutta, gli scienziati stanno tuttora studiando per capire quanto i cicli solari (ossia il calore in ingresso) influiscano sulle oscillazioni climatiche. Restando sulla CO2, osservano che è aumentata costantemente, da meno di 300 parti-per-milione di metà Ottocento alle 410 attuali, mentre le variazioni climatiche mostrano un andamento frastagliato, con due cali bruschi all'inizio del secolo scorso e dopo il 1945. Il pianeta produce anidride carbonica nell'ordine di 800 miliardi di tonnellate (Gt) all'anno. Le cifre oscillano da un anno all'altro, ma possiamo affermare che la massima parte derivi dagli oceani (41%), dal suolo (27%) e dalla vegetazione (27%). Le attività umane, inclusa la deforestazione, valgono circa 42 Gt, il 5% del totale, con la Cina al primo posto (27%) seguita dagli Usa (15%) e dall'Europa (10% ma in calo). Metà delle emissioni umane viene dalla combustione di fossili per ottenere elettricità e riscaldare le case. Il sistema dei trasporti terrestri, marittimi e aerei vale 6,6 Gt, pari al 16% della CO2 2 antropogenica, dove le sole auto ne emettono 2 Gt, meno del 5%. Tornando alle politiche industriali europee, che stanno mettendo all'angolo il settore automobilistico con 3,4 milioni di addetti, le emissioni riconducibili al parco circolante in Europa sono 0,7 Gt/anno, un centesimo di quelle antropogeniche. Se per incanto tornassimo in Europa ai carri trainati da animali, le emissioni globali del pianeta diminuirebbero qualcosa meno di un millesimo.

I monopattini elettrici non sono così "amici dell'ambiente". Lo sostiene uno studio Usa sull'impatto ambientale dei veicoli elettrici in sharing. Che dipende anche dai materiali usati per la produzione, ricarica e mezzi (auto e camion) usati per rimetterli in servizio. La Republica il 12 agosto 2019. Ecocompatibili, ecologici, zero emissioni: sono alcune tra le definizioni più utilizzate per descrivere i monopattini elettrici (ad esempio per pubblicizzare i Bird diffusi in varie città, da Los Angeles a Rimini), ma che non risultano poi essere vere al 100%. Questo perché il fatto che i monopattini alimentati a batteria abbiano sostituito del tutto il gas del tubo di scappamento con la batteria non vuol dire che siano del tutto "amici dell'ambiente". Lo sostiene uno studio dell'Università della Carolina del Nord (Usa) basato sul ''ciclo di vita'' del monopattino, perché - spiegano i ricercatori - l'impatto sull'ambiente del mezzo dipende in realtà da come e con quali materiali è stato prodotto, da quali mezzi di locomozione va a sostituire e dalla sua durata. La ricerca, pubblicata su Environmental Research Letters, ha calcolato quindi le emissioni legate a produzione, trasporto, ricarica delle batterie, raccolta e smaltimento del monopattino, così da fornire un quadro il più completo possibile sul potenziale ecologico del mezzo di trasporto che sta prendendo piede in Europa e Usa come nuova promessa della sharing mobility. Il problema dei monopattini in condivisione, fanno notare gli autori dello studio, è legato all'impatto generato da tutto ciò che riguarda le due ruote elettriche, soprattutto per quanto riguarda i sistemi cosiddetti dockless, ovvero che non prevedono la riconsegna a una torretta di ricarica e che di volta in volta devono essere alimentati da operatori in movimento. Sotto accusa sono soprattutto i materiali che compongono i monopattini: dalle batterie al litio alle componenti in alluminio, la gran parte dei veicoli in commercio sono composti da elementi prodotti in Cina, che poi li distribuisce nel resto del mondo. Alla produzione industriale, quindi, sono da aggiungere il trasporto dei mezzi, le continue ricariche e la ridistribuzione periodica sul territorio, come parte del servizio di scooter sharing senza postazione di ricarica. Per gli studiosi, questi elementi presi nel loro insieme pesano sull'impiego dei monopattini elettrici ridimensionando la loro riduzione dei consumi. In conclusione, l'e-scooter è risultato inquinare meno di un'auto elettrica ma più di un autobus diesel in una zona trafficata. "La bicicletta, anche quella elettrica, è quasi sempre più rispettosa dell'ambiente rispetto all'utilizzo di uno e-scooter condiviso, che ha bisogno di auto e camion per essere prelevato e riportato in servizio", ha spiegato il professor Jeremiah Johnson coordinatore dello studio. Inoltre, stando alla ricerca, solo un terzo degli spostamenti in scooter ne rimpiazza uno in automobile. Il sondaggio condotto dagli studiosi dimostra che a fronte del 34% di persone che avrebbero utilizzato un'auto, il 49% sarebbe andato a piedi, l’11% avrebbe preso un autobus e, infine, il 7% avrebbe rinunciato al viaggio. Insomma, l'impatto sull'ambiente dei monopattini elettrici sarebbe più positivo se servisse soprattutto a ridurre la quantità di automobili, non di pedoni. Nei Paesi come gli Stati Uniti che producono circa il 63% della propria energia da combustibili fossili il problema non è legato solo alla ricarica dei mezzi. Lo studio evidenzia che i consumi sono resi più importanti dal materiale utilizzato per la produzione dei veicoli - prevalentemente alluminio - e dal consumo degli operatori incaricati di ricaricare gli scooter ogni giorno. Ma lo studio suggerisce anche alcuni spunti per ridurre ulteriormente le emissioni degli e-scooter: ad esempio l'uso di veicoli elettrici per la raccolta dei monopattini, la riduzione della distanza tra i punti di raccolta e le isole per la riconsegna, e di raccogliere solo i veicoli con la batteria scarica. Oltre all'aumento della percentuale di materiali riciclati, in particolare l'alluminio, per la produzione dei mezzi.

Francesco Malfetano per il Messaggero il 12 agosto 2019. Un 30enne parigino è morto venerdì notte in un incidente stradale che sta facendo discutere la Francia. Il giovane infatti è stato tamponato da una moto mentre guidava il suo monopattino elettrico sulla tangenziale della Capitale transalpina. La notizia ha riaperto le polemiche sui micro-veicoli elettrici che da qualche mese hanno colonizzato le città europee (solo a Parigi sono 20 mila) e causato 3 vittime. Così mentre le autorità tentano di chiarire la dinamica esatta dell'incidente, le poche certezze sull'episodio stanno infiammando il dibattito tra contrari e favorevoli: lo scooterista non solo si trovava in tangenziale (cosa assolutamente vietata) ma era anche senza casco e sfrecciava a grande velocità in corsia di sorpasso.

I PRECEDENTI. A Parigi d'altronde l'11 giugno scorso si era registrato il primo incidente di questo tipo: un uomo di 25 anni era finito contro un camion al quale non aveva dato la precedenza. Uno choc che aveva già portato il sindaco Anne Hidalgo a introdurre delle regole come il limite di velocità a 20 chilometri orari e a 8 nelle aree pedonali, il divieto di circolazione nei parchi e sui marciapiedi e la promessa di ridurre il numero degli operatori. Il fenomeno e le polemiche però non riguardano solo la Francia. Nel Regno Unito ad esempio un incidente simile alla metà di luglio aveva ucciso la 35enne Emily Hartridge, nota youtuber britannica travolta da un tir mentre guidava il suo monopattino elettrico nel quartiere di Battersea a Londra. L'esposizione mediatica della donna (oltre 60mila follower su Instagram e 350mila iscritti su YouTube) aveva letteralmente fatto esplodere la questione sicurezza degli e-scooter non solo in tutto il Vecchio Continente ma anche al di là dell'Oceano Atlantico: la città di New York ad esempio ha deciso di vietare del tutto l'utilizzo dei monopattini. Lo stesso genere di polemiche - insieme a un po' del tradizionale bizantinismo italiano - ha rallentato la diffusione dei mezzi nel nostro Paese. Non è un caso se, dopo mesi di rimandi in attesa del decreto attuativo che avrebbe dovuto sbloccare le sperimentazioni già all'inizio del 2019, il testo è stato firmato dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli solo il 4 giugno scorso. Nonostante il via libera e il forte pressing delle società di sharing mobility che hanno invaso anche le strade delle città italiane, le resistenze da parte delle amministrazioni locali sono però ancora molto forti. A Milano ad esempio dal 27 luglio, data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del testo, il decreto è stato recepito imponendo ulteriori limitazioni: la circolazione dei cosiddetti micro-veicoli di mobilità elettrica (monopattini elettrici, segway e hoverboard, oltre ai classici skateboard) è consentita solo nelle aree pedonali e a patto che la velocità del mezzo non superi i 6 chilometri all'ora. A Roma invece c'è maggiore libertà dal punto di vista amministrativo ma minori possibilità oggettive: i sampietrini delle strade della Capitale, come per qualsiasi altro mezzo che le percorre, non garantiscono un'esperienza d'uso né completamente sicura né del tutto confortevole. Ma questa non è certo una novità.

Gas auto sotto accusa: inquina come benzina e dieselself. Energysystem.it. C'era una volta l'idea che il parco circolante alimentato a gas fosse meno impattante sull'ambiente rispetto agli altri che utilizzano carburanti fossili. Sbagliato. Secondo un nuovo rapporto, l'uso del gas fossile nei trasporti, "è dannoso per il clima quanto quello della benzina, del gasolio o dei carburanti navali convenzionali". Un rapporto cui replica a stretto giro Ngv, l'associazione che rappresenta la filiera del metano per autotrazione, che parla di "pregiudizi nei confronti del gas naturale". Secondo la ricerca della Ong Transport & Enviroment bruciare gas metano (non il gpl) nelle auto produrrebbe "un inquinamento atmosferico uguale a quelle alimentate a benzina, mentre il limitato vantaggio rispetto alle auto diesel si elimina" con le nuove norme previste. Il rapporto mette anche in guardia i legislatori che devono "accettare la realtà che il gas fossile non può contribuire a rendere puliti i trasporti e dovrebbe iniziare a tassarlo con aliquote analoghe a quelle applicate al gasolio e alla benzina". Lo studio prende in esame diversi aspetti dell'utilizzo dei gas per auto e camion. E il risultato boccia il loro uso alternativo a "verde" e gasolio. Anche l'utilizzo nelle giornate di blocco del traffico, quindi potrebbe presto sparire se la ricerca avrà un peso sul settore. "Considerando gli effetti delle perdite di metano - un gas a forte effetto serra - i gas fossili potrebbero aumentare le emissioni di gas serra fino al 9% o ridurle al massimo del 12% a seconda del mezzo di trasporto utilizzato", aggiungono i ricercatori. Che spiegano come nelle automobili, l'impatto in termini di gas ad effetto serra (GHG) del gas fossile compresso (GNC) sia "simile al diesel, mentre per i camion si avvicina a quello dei migliori diesel". Non sfugge all'analisi anche il trasporto marittimo dove l'impatto del gas fossile liquefatto (GNL) è simile a quello del gasolio marino, ma queste cifre dipendono fortemente dalle fuoriuscite di metano nel motore e dalle perdite a monte della filiera. Ma secondo Ngv Italia “lo studio è figlio di un pregiudizio nei confronti del gas naturale per i trasporti ed è già stato confutato da numerose altre analisi indipendenti che invece confermano le caratteristiche di sostenibilità di questa fonte energetica e i suoi impatti ambientali significativamente minori rispetto ai combustibili derivati dal petrolio come diesel e benzina". Infatti, "il ricorso al gas naturale per l’autotrazione riduce le emissioni di gas serra in modo significativo dato che il contenuto di carbonio del metano è estremamente più basso sia di quello di benzina e di gasolio mentre il peso delle emissioni di gas serra dell’industria estrattiva ha un impatto praticamente irrilevante rispetto al totale delle emissioni di gas serra planetarie". Sempre secondo Ngv "a livello di inquinanti il gas naturale abbatte in modo estremo sia le emissioni di PM che di NOx, che sono il vero grande problema per la qualità dell’aria nelle nostre città". Lo studio ammette i benefici del biometano e degli altri gas rinnovabili, ma ne sottovaluta molto le enormi potenzialità. Se il biometano potenzialmente producibile in Italia fosse interamente destinato ai trasporti (come previsto dal recente decreto incentivi biometano) potrebbe alimentare un terzo del parco circolante con energia rinnovabile al 100%. Insomma per Ngv si tratta "di un attacco infondato a una filiera molto importante per l’industria e l’occupazione in Europa, in un momento decisivo per il futuro della mobilità sostenibile nel nostro continente, nonché importantissima tecnologia di transizione che può portare ad un futuro più sostenibile". E nell'Unione Europea, in media, il gas viene tassato il 76% meno del gasolio mentre nei paesi con vendite significative di veicoli a GNC e GNL, il gas fossile beneficia di aliquote d'imposta ancora più basse. Un caso che potrebbe spiazzare gli utenti del nostro Paese visto che "l'Italia consuma il 60% del metano utilizzato nei trasporti europei, rappresentando il 68% delle vendite di auto a metano, con un’accisa sul gas pari solo allo 0,5% di quella applicata al diesel. Se il GNL fosse tassato agli stessi livelli del gasolio, non ci sarebbero motivazioni economiche all’uso di camion a GNL". Il biometano e il metano sintetico possono invece avere emissioni di gas serra significativamente inferiori, si legge nel rapporto, ma le materie prime sostenibili per produrre il biometano (rifiuti e residui) sono limitate e anche al massimo del potenziale questo carburante arriverebbe a coprire meno del 10% del fabbisogno dei trasporti. Jori Sihvonen, responsabile carburanti puliti di T&E, spiega che "le auto, i camion e le navi a gas non portano benefici climatici e distraggono dall’obiettivo reale, il trasporto a zero emissioni. I governi devono resistere alle pressioni della lobby del gas, smettere di sprecare denaro pubblico prezioso per l’infrastruttura e di concedere agevolazioni fiscali per il gas fossile". 

Diesel sotto accusa: 10 ragioni per assolverlo. Costa meno della benzina e permette percorrenze superiori a parità di prestazioni. Oggi produce anche meno CO2 e resta una delle opzioni migliori in concessionaria. Fabio Madaro il 12 agosto 2019 su Il Corriere della Sera. Tempi davvero grami per le auto alimentate a gasolio. Uno scenario impensabile solo fino a pochi anni fa e che oggi assume i contorni di una vera e propria debacle. Perché il gasolio sporca, inquina ed è responsabile di inenarrabili disastri ambientali. Esageriamo? Nemmeno tanto se pensate alle accuse che gli rivolge il mondo della politica il quale, tra l’altro, non fa nulla per affrontare in modo responsabile il problema dell’inquinamento. Accuse che disorientano sempre di più automobilisti e opinione pubblica. Senza dimenticare il fatto che parecchie Case automobilistiche contribuiscono ad alimentare l’incertezza annunciando la fine della produzione dei diesel nei prossimi anni. Fin qui la cronaca. Ma una domanda sorge spontanea anche a chi non è un tecnico del settore. È davvero tutta colpa del diesel? È giusto che il gasolio paghi un conto salatissimo finendo nel dimenticatoio? Secondo noi, e soprattutto stando all’opinione di moltissimi esperti, no: il diesel ha ancora tanta strada da percorrere per diversi motivi. Ebbene per inquadrare meglio la situazione, li abbiamo riassunti in dieci brevi consigli, dieci buone ragioni per offrire una chance in più al diesel.

Motore Euro 6dTemp, poco inquinante. Oggi, una vettura a gasolio Euro 6 dTemp emette il 95% in meno di NOx (ossidi di azoto) rispetto al passato e il 96% in meno di PM (particolato). Percentuali impressionanti che fanno capire quanta strada abbia percorso questa motorizzazione negli ultimi dieci/quindici anni. Casomai il vero problema è lo svecchiamento del parco circolante: in Italia 37 milioni di automobili hanno un’età media di 11 anni. Incentivare e agevolare l’acquisto di vetture nuove gioverebbe quindi all’ambiente in modo significativo.

Senza diesel, più CO2. Nei primi mesi del 2019, nonostante il forte calo delle immatricolazioni diesel, la quantità di CO2 (anidride carbonica) immessa nell’atmosfera è cresciuta in modo esponenziale. Segno evidente che per ridurre le emissioni entro gli obiettivi previsti per il 2030, si dovrà necessariamente riprendere in considerazione lo sviluppo di questi propulsori.

Polveri sottili: dalle auto solo il 3%. Il famigerato PM, appunto le polveri sottili. L’abbiamo appena accennato ai punti 1 e 2: ebbene i nuovi diesel ne emettono quantità bassissime. Secondo gli ultimi studi, le emissioni di PM dagli scarichi delle auto virtuose proviene solo il 3-4% del totale delle polveri. Il 90% e più, forse non lo sapevate, ha molti padri: riscaldamento domestico, rotolamento degli pneumatici, impianti frenanti, attività industriali e così via.

L’auto a benzina consuma di più. I motori a benzina da sempre raggiungono potenze specifiche maggiori, ma richiedono più carburante. In parole povere consumano di più ed emettono quantità superiori di CO2, accentuando effetto serra e riscaldamento globale. Non solo: in virtù dei recenti progressi del diesel, dallo scarico di un benzina escono più PM di un moderno TD. Ecco perché anche i motori a benzina vengono ora equipaggiati con filtro antiparticolato GPF. Un aspetto quest’ultimo che pochi sottolineano.

I limiti di altre fonti. A questo punto il sospetto che la discriminazione del diesel sia motivata soprattutto da faide di carattere politico/economico, prende sempre più corpo. Perché a oggi non esistono soluzioni socialmente sostenibili per utilizzare altre fonti di energia rispetto a quelle convenzionali. Ad esempio, se acquistate una diesel di ultima generazione è certo che la vostra vettura rientra facilmente nei limiti previsti dalle normative europee.

Non ti lascia mai a piedi. Il futuro passa per l’elettricità. È, dicono, il rimedio perfetto per guarire tutti i mali che affliggono il nostro pianeta. Vero ma solo in parte, perché se è incontestabile che un’auto elettrica non inquina, è altrettanto innegabile che la produzione e la distribuzione di questa energia genera inquinamento. Inoltre, specie in Italia, mancano del tutto o quasi le infrastrutture: chi acquista un’auto elettrica dovrebbe essere consapevole del fatto che ogni gita fuori porta, ogni imprevisto sul percorso potrebbe rivelarsi fatale. Lasciandovi senza corrente a 30 chilometri dalla colonnina di rifornimento più vicina. Problemi che con un’auto normale, a gasolio tanto per fare un esempio, non dovreste mai affrontare.

Prezzi più bassi dell’elettrico. Sempre a proposito di auto elettriche. Una vettura a zero emissioni ha costi di acquisto decisamente elevati: problemi di ricarica a parte, sono pochi quelli che possono permettersi un’elettrica oggi in Italia. Molto più economico cercare la soluzione in modelli più convenzionali, magari in una turbodiesel di ultima generazione: costa molto meno. In più il concessionario vi farà ponti d’oro proponendovi incentivi e agevolazioni. E magari vi inviterà anche fuori a cena.

Il miglior compromesso, oggi. La difesa del diesel non deve essere ovviamente una chiusura totale verso le altre soluzioni o motorizzazioni. Semplicemente, allo stato attuale della tecnologia, il gasolio rappresenta un’eccellente alternativa, un valido compromesso che può permetterci di raggiungere gli obiettivi di riduzione della CO2 previsti per il 2030: 40 % in meno (se non 50% secondo le ultime indicazioni del Parlamento Europeo) rispetto ad oggi.

Perfetto per le lunghe percorrenze. Il gasolio costa meno della benzina e permette percorrenze superiori. Due motivi sufficienti per prendere in considerazione questo tipo di alimentazione. Da sempre infatti una delle caratteristiche vincenti del gasolio è la sua relativa economicità: predilige i trasferimenti a lungo raggio dove fa valere le eccellenti doti di passista con consumi inferiori a parità di prestazioni.

Il più affidabile. Affidabilità. Alle soglie del 2020 questa voce assume forse minor importanza rispetto a qualche anno fa. Vero è però che i motori a gasolio tollerano carichi di lavoro gravosi molto meglio di altre motorizzazioni. Se sottoposti a controlli regolari e a normale manutenzione, garantiscono percorrenze straordinarie e una vita senza problemi. Quanto basta per farci almeno un pensierino.

·        La Bufala delle Auto Elettriche per ricchi?

Alberto Annicchiarico per ilsole24ore.com il 18 novembre 2019. Bella l’auto elettrica, silenziosa, potente in accelerazione e, poniamo il caso del suv Mercedes EQC, dotata di circa 400 chilometri di autonomia. Peccato che di colonnine per la ricarica poche, lungo una qualsiasi autostrada italiana. E che la vettura costi 80mila euro. Questo per dire che la rivoluzione dell’auto elettrica in corso pone i grandi costruttori davanti a un dilemma: investire miliardi per cambiare e adattarsi a un nuovo ecosistema disegnato non dal mercato ma dalla politica. Bruxelles ha dettato regole per i limiti alle emissioni che definire sfidanti è poco. Altro piccolo particolare: il mercato che ancora non risponde con volumi adeguati ai costi da affrontare, deprimendo i margini. Anche perché le case automobilistiche hanno cominciato a rinnovare la gamma a partire dai Suv e dai crossover, non dalle piccole. Intendiamoci, la prima utilitaria Volkswagen interamente elettrica, la ID.3, arriverà solo nel 2020 e comunque costerà a partire da circa 30mila euro. Mentre chi cerca un’auto piccola non vuole spenderne più di 10-15mila. E la Tesla Model 3, che dovrebbe essere mass-market? Costa da un minimo di 50mila euro. I prezzi, quindi, saranno alla portata di pochi ancora per un po’. Daimler lo sa e il suo nuovo ceo, il cinquantenne svedese Ola Källenius, presidente del consiglio di amministrazione di Daimler AG e capo di Mercedes-Benz Cars (successore del leggendario Dieter Zetsche) è stato chiaro, durante un incontro con gli analisti a Londra. Il titolo ne ha risentito, perdendo quasi il 4,5%. Daimler ha annunciato un pesante piano di tagli del personale della divisione auto Mercedes Benz per risparmiare 1 miliardo di euro entro la fine del 2022. Il piano prevede ulteriori tagli del personale per risparmiare 400 milioni anche nelle divisioni dei van (100 milioni) e dei camion (300). In una nota il gruppo ha spiegato che Mercedes-Benz ha avviato delle misure per rendere sostenibile la sua struttura dei costi e controbilanciare l'attesa riduzione dei margini, quella che Alix Partners ha definito, estremizzando, «il deserto dei margini» in un celebre report di qualche mese fa. I tagli ai posti di lavoro riguarderanno sia i manager, un migliaio (uno su dieci), che le aree dell'indotto. Previsto anche un contenimento degli investimenti sui livelli di quest'anno e addirittura una loro riduzione nel medio termine. Källenius ha dichiarato che i profitti rimarranno sotto pressione per i prossimi due anni. Non poco. Lo svedese ha elaborato un piano per aumentare gradualmente i margini limitando gli investimenti e riducendo i posti di lavoro. «Per rimanere vincenti in futuro, dobbiamo agire ora e aumentare in modo significativo la nostra forza finanziaria», ha detto Källenius nella sua prima grande presentazione strategica da quando ha assunto l'incarico a maggio. «Sono necessarie misure esaustive per aumentare l'efficienza, in tutti i settori». Va ricordato che Daimler è stata protagonista di ben quattro profit warning in un anno, da giugno 2018 a luglio 2019. La divisione Mercedes-Benz ha ridotto il suo margine di profitto previsto quest'anno tra il 3% e il 5% - ben al di sotto dei rendimenti del rivale francese Psa, per esempio - mentre Daimler ha previsto margini del 4% l'anno prossimo e 6 % nel 2022, escluse le ricadute della guerra commerciale tra Usa e Cina. La divisione camion punterà sui margini di oltre il 5% nel 2020 e del 7% nel 2022. «Daimler ha urgentemente bisogno di allontanarsi dalla sua filosofia di investimento spray and pray e di orientarsi verso un'allocazione materialmente più mirata e più precisa dei suoi fondi», ha commentato Arndt Ellinghorst, analista di Evercore Isi in una nota prima della presentazione. «Altrimenti, il gruppo non sarà semplicemente in grado di autofinanziare le sue aspirazioni di mobilità premium». Se non è questa una bocciatura...

Paolo Lorenzi per “L’Economia - Corriere della Sera” il 31 ottobre 2019. Se ci fosse una rete capillare di ricarica. E se ci fossero maggiori benefici Quanti se, frenano ancora oggi l' ampliamento delle flotte ai veicoli elettrici. Nonostante la spinta dell' industria dell' auto e una legislazione che preme per il passaggio alla mobilità alla spina, la risposta dei fleet manager resta piuttosto tiepida. Il risultato emerge dalla survey di Top Thousand, l' inchiesta realizzata tra i responsabili delle car policy aziendali, condotta per il quarto anno consecutivo dall' osservatorio dei manager di settore. Cresce l'interesse e la disponibilità verso i veicoli puliti, insieme alla voglia di sperimentare, ma rimangono le perplessità di fondo. Prima fra tutte la scarsità dei punti di ricarica, lo scoglio principale secondo i 100 gestori dei parchi auto aziendali intervistati. Stando ai numeri diffusi dall' Unione dei costruttori europei, all' Italia tocca ancora la maglia nera. Sul nostro territorio sono disponibili 3.562 punti di rifornimento per i mezzi a zero emissioni, contro i 5.209 della Spagna, i 19.076 della Gran Bretagna, i 24.850 della Francia e i 27.459 della Germania, tanto per restare ai 5 mercati di riferimento. Ma persino l' Olanda, che ha un territorio decisamente più piccolo del nostro, ci surclassa con ben 37.037 colonnine. La carenza delle infrastrutture non è l'unico freno; anche l' autonomia dei modelli elettrici, per quanto aumentata, non convince ancora. Appurato ciò, e constatata una certa ritrosia a cambiare le abitudini dei guidatori (l' 87,3% delle flotte viaggia ancora a gasolio, con una modesta riduzione del 3,5% rispetto al 2018), qualcosa si muove. Sono cresciute, ma di poco, le motorizzazioni a benzina (da 3,6% a 4,2%), ed è aumentato l' interesse per i modelli ibridi (da 2,3% a 5,5%), il dato più interessante. Al contrario, gli elettrici restano al palo, o tutt'al più sono una frontiera da esplorare (da 1,6% a 1,5%), logica conseguenza del quadro appena descritto. Nell' universo ibrido le auto full-hybrid sono di gran lunga le più gettonate (dal 62% all' 84% delle preferenze) perché non hanno problemi di ricarica in quanto le piccole batterie di cui dispongono vengono alimentate con l' energia recuperata in frenata. Motivo per cui le versioni plug-in, capaci di un range superiore in elettrico grazie alla presenza di accumulatori più grandi, non sfondano (dal 14% al 27%) perché necessitano comunque di una presa di corrente. E inoltre costano di più. La via di mezzo, o se vogliamo la tappa intermedia verso l' elettrico, ad ogni modo è ampiamente preferita, nonostante i progressi tecnici dei modelli elettrici più recenti. Che ne hanno ampliato il campo d' azione (il 53% del campione ha ammesso di usare l' auto a pila anche fuori città). La maggiore flessibilità ha in effetti dato un leggero impulso ai modelli total green, assegnati anche come fringe benefit (dal 17% al 27% delle assegnazioni), ma all' interno dei parchi auto privati prevale l' utilizzo in pool che consente, per esempio, di avvalersi delle colonnine aziendali, anche al di fuori degli orari di lavoro (i punti di ricarica in azienda sono aumentati del 10%) e degli accordi stipulati con le multiutility del settore energetico (cresciuti del 21%). Vecchie abitudini e scarsa conoscenza del mercato sono ulteriori ostacoli sulla strada dell' auspicata rivoluzione verde. È il secondo aspetto che emerge dall' inchiesta, indagando le intenzioni d' acquisto dei prossimi dodici mesi. L'approccio dei fleet manager resta improntato alla razionalità, per non dire alla perplessità: il 63% degli intervistati non ha ancor le idee chiare. Resta un 22% intenzionato all' ampliamento verso l' elettrico (era il 10% nel 2018), e resiste uno zoccolo duro del 15% decisamente contrario. I possibilisti sono per lo più attratti dai vantaggi pratici, pur se in misura minore rispetto al 2018: al primo posto l' ingresso nelle Ztl (72% di preferenze), il risparmio di carburante (63%, in leggero calo), i minori costi di manutenzione (28%, in netta discesa), l' esenzione dal bollo (dal 45% al 35%). Gli aspetti sociali non sono tuttavia secondari. La riduzione delle emissioni (78%, ma in diminuzione) e soprattutto la responsabilità sociale d' impresa (69%, immutata) costituiscono un stimolo in più, ma non sufficiente. Anche sugli ibridi le risposte sono più realistiche che in passato. Il contenimento delle emissioni scende dal 78% al 53%, così come il risparmio di carburante passa dal 42% al 13%. Dubbi e perplessità ancora da superare, nel mercato privato come in quello del business.

Io, autista di auto elettrica «Centomila km, zero emissioni». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. L’auto elettrica? Affascinante. Peccato che al momento di cambiare si rimanga paralizzati dai dubbi. I costi. L’autonomia. La ricarica. La guida. Insomma, al di là della narrazione entusiastica di chi (a ragion veduta) promuove la riconversione della mobilità verso le emissioni zero, com’è la vita quotidiana con l’auto elettrica? Emanuele Sangalli è la persona giusta per rispondere. Professione: autista. Ma detto così non rende abbastanza l’idea, perché ai clienti si presenta in un elegantissimo completo blu e sulla sua Tesla, non meno elegante (ovviamente blu), c’è la targa del Noleggio Con Conducente. Emanuele passa 340 giorni (li ha contati) all’anno al volante della Model X, il suv del marchio californiano specialista in lussuose (il modello parte da circa 95mila euro) auto elettriche. Otto ore al giorno di guida a Milano, con frequenti puntate extraurbane. Prima curiosità: si riesce a fare questo lavoro senza restare a secco con la batteria? «Se ti sai organizzare è impossibile restare a piedi — risponde Emanuele —. La mia auto ha un’autonomia reale di 300-400 chilometri: dipende da come la guido». Organizzarsi, spiega, vuol dire usare le app che localizzano le colonnine. «Io posso usufruire della rete Tesla con i Supercharger. Ma ci sono anche i destination charger di hotel e centri commerciali». Il mitico piacere di guida? «L’auto elettrica ha una risposta molto diversa rispetto a quella di un’auto tradizionale. Il motore è prontissimo e in modalità sportiva è aggressivo. I freni si usano pochissimo: basta mollare l’acceleratore e l’auto frena, ricaricando le batterie. Quindi hai due opzioni: o guidi come uno scellerato godendoti la coppia del motore elettrico o sfrutti le doti di souplesse della trazione elettrica, che non ha bisogno del cambio. Guidare con dolcezza, sfruttando bene l’abbrivio, aiuta inoltre a risparmiare corrente. Alla fine ti abitui ad andature più rilassanti sia per chi guida sia per il passeggero. Anche in autostrada ti abitui a stare sui 110-120, in un silenzio piacevole». Ma le Tesla non sono per tutti. Emanuele non lo nega. «Prima usavo una costosissima Mercedes Serie S — racconta — e avevo anche le spese dei tagliandi, che con la Tesla sono scomparse». Centomila km in due anni e zero tagliandi. «Non sono previsti. In più c’è la garanzia di 8 anni senza limiti chilometrici sul motore e sul pacco batterie. E già qui inizi a marginare nel servizio rispetto alle auto tradizionali. Infine la ricarica costa molto, molto meno di un pieno di benzina o gasolio». Ma quando parla di convenienza Emanuele non penso solo al portafogli. La sua auto è plastic free: ai clienti offre acqua in bottiglie di vetro con vuoto a rendere. Lo spirito elettrico è ecologista. Infatti anche a casa la condotta è green: le batterie dell’auto vengono ricaricate con l’energia stoccata in due Power Wall Tesla e prodotta dall’impianto solare domestico.

Scommettiamo che la «fregatura» sono i viaggi lunghi? Scommessa persa. Emanuele sorride: «Un paio di settimane fa una signora mi ha chiesto di portarla dall’Hotel Manzoni di Milano a un albergo in Val d’Isère. Circa 300 km, con tratti di montagna. Il navigatore mi diceva che ce l’avremmo fatta, ma per essere sicuro ho suggerito di fare una tappa ad Aosta per un caffè. Lì ho collegato l’auto al Supercharger Tesla e in 30 minuti di pausa, giusto il tempo di una colazione, ho aggiunto 150 chilometri di autonomia. A destinazione, altra ricarica alla colonnina. In sintesi: nessuna sorpresa, grande economia di esercizio, estremo relax (la silenziosità di marcia, i sedili-poltrona, la musica dell’impianto) sia per il passeggero sia per me, al volante. Che vuoi di più?».

Danilo Toninelli, anche la Leitner del Tg2 lo ridicolizza: "Cosa mi ha detto subito dopo la gaffe sul diesel", scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Maria Leitner, giornalista del TG2 e conduttrice della rubrica TG2 Motori, intervistata a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha raccontato l'intervista al ministro dell'Infrastrutture, Danilo Toninelli, nel corso della quale il disastroso grillino è incappato nell'ennesima gaffe di cui si sta molto parlando: ha ammesso di aver acquistato una jeep diesel. Lo stesso diesel che il M5s combatte. E lo ha ammesso subito dopo aver tessuto le lodi delle auto elettriche. Si, per la moglie, Toninelli ha acquistato una Jeep Compass Diesel. "Non mi aspettavo tanta sincerità, ecco...”, sottolinea la Leitner. Appena Toninelli ha pronunciato la parola diesel lei ha risposto: "Finiamo su tutti i giornali'...". E la giornalista conferma: "Mi sono sorpresa molto che avesse comprato un'auto diesel dopo aver promosso tanto l'elettrico, mi aspettavo che da Ministro potesse anche aspettare un attimo e comprare una elettrica. Ma io non lo condannerei così tanto, è stato sincero”. Lui ha capito subito di aver fatto una gaffe? "Si, mi ha detto subito dottoressa, so che ho detto una cosa che non andava molto bene. Ma lui è spontaneo - prova a "salvarlo" -: magari siamo abituati ad avere politici più furbi in questo senso, ma lui è stato spontaneo”. Cosa le ha detto a fine intervista? “Se poteva togliere le mani dal volante, visto che io l'avevo ripreso un po' perché doveva tenere più le mani lì”, ha concluso la giornalista a Rai Radio1.

Auto elettrica, tutti la vogliono nessuno la compra. Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Corriere.it. L’Osservatorio italiano dell’istituto di credito Findomestic ha realizzato una ricerca basata su un campione di 16 Paesi che mette in evidenzia punti di forza e di debolezza dell’auto elettrica e del perché ci vorranno circa 5 anni affinché possa inserirsi maggiormente nel mercato. Tra gli aspetti positivi dell’auto elettrica molto apprezzati dall’86% degli italiani c’è la guida fluida data anche dalla silenziosità di marcia. Proprio per questo motivo una disposizione europea ha previsto l’obbligo di un dispositivo sonoro Avas (Audible Vehicle Alert System) che avvisa i pedoni del passaggio dell’auto. Altro punto di forza apprezzato dal campione è la bassa manutenzione e ridotti costi di utilizzo. Ma cos’è che impedisce alla e-car di spiccare il volo? La causa principale per l’86% del campione mondiale e per il 91% di quello italiano è il costo ancora troppo elevato.

Auto elettrica, piace a tutti ma quasi nessuno la compra. Francesco Forni su Quotidiano.net il 10 luglio 2019. Auto elettrica, tutti ne parlano, quasi nessuno la compra. Anche se l’intenzione c’è. L’istantanea è dell’autorevole Osservatorio Auto Findomestic, che ha interrogato automobilisti in 16 Nazioni, Nei prossimi 5 anni il 57% del campione intervistato a livello mondiale dichiara che acquisterà un’auto ibrida, soprattutto in Messico (80%), Italia (76%), Spagna (75%) e Brasile (75%), mentre il 43% risponde che ne comprerà una tutta elettrica, con percentuali che si attestano intorno al 70% in Messico (72%), Brasile e Cina (68%).

Struttura del mercato auto italiano, auto elettriche allo 0,5% nel primo semestre 2019.

L’auto elettrica non è il mezzo di trasporto del nostro presente ma sembra destinata a imporsi nel prossimo futuro. Secondo l’Osservatorio Auto Findomestic, che ha interrogato un panel di automobilisti in 16 Paesi del mondo, nei prossimi 5 anni il 57% del campione intervistato a livello mondiale dichiara che acquisterà un’auto ibrida, soprattutto in Messico (80%), Italia (76%), Spagna (75%) e Brasile (75%), mentre il 43% risponde che ne comprerà una tutta elettrica, con percentuali che si attestano intorno al 70% in Messico (72%), Brasile e Cina (68%).

IN ITALIA SOLO LO 0,4% DELLE AUTO NUOVE SONO 100% ELETTRICHE.

«Secondo i dati di UNRAE – spiega Claudio Bardazzi, responsabile dell’Osservatorio Auto Findomestic – su quasi 1 milione di auto nuove immatricolate in Italia da gennaio a maggio 2019 solo poco più di 3.500 sono 100% elettriche e circa 48.000 ibride, di cui appena 2.000 di tipologia PLUG-IN, cioè capaci di ridurre sensibilmente le emissioni di CO2».

IL “FRENO” DEL COSTO D’ACQUISTO E I SUPERINCENTIVI DI CINA E NORVEGIA.

«Nello scenario globale – sottolinea Bardazzi – il principale freno alla diffusione dell’auto elettrica risulta essere il costo d’acquisto, ancora alto e poco concorrenziale. Oggi l’86% del campione mondiale, il 91% degli italiani, è consapevole che il veicolo elettrico costi più dell’equivalente termico e il 42% (32% degli italiani) non è disposto a sostenere alcuno sforzo supplementare per acquistare un’auto elettrica. Gli unici Paesi in grado di offrire forme efficaci di incentivazione sono la Cina, che ha introdotto esenzioni fiscali comprese fra 5.100 e 8.700 dollari, e la Norvegia, la cui normativa prevede l’esenzione dall’imposta sull’acquisto e dall’IVA, uno sconto sull’acquisto dei veicoli ibridi ricaricabili e l’esenzione dalla tassa di circolazione, dai pedaggi e dalle spese di traghetto».

I “MUST” DELL’E-CAR: GUIDA FLUIDA, ACCELERAZIONE E SILENZIOSITA’.

L’analisi di Findomestic si concentra sui punti di forza e di debolezza dei veicoli elettrici. L’86% degli intervistati (l’83% in Italia) afferma di apprezzare la fluidità della guida grazie anche all’accelerazione bruciante e all’assoluta silenziosità di marcia. Caratteristica, quest’ultima, che ha convinto la UE a rendere obbligatoria la presenza sui veicoli elettrici di un dispositivo sonoro Avas (Audible Vehicle Alert System) che avvisa i pedoni del passaggio dell’auto. Gli automobilisti sono allettati anche dai ridotti costi di utilizzo e di manutenzione. Curioso notare come i norvegesi, molto più avanti nella sperimentazione di modelli di auto elettriche, siano i più scettici (solo il 56% ritiene che la manutenzione di un’auto elettrica sia più economica rispetto alla media mondiale del 68%) su questo aspetto.

L’AUTO ELETTRICA PUO’ ANCHE “INQUINARE”.

Il carattere ecologico delle auto elettriche costituisce un importante valore aggiunto per l’89% dei possessori di auto (il 93% in Italia), convinti che l’utilizzo delle e-car potrà ridurre in maniera significativa l’inquinamento. E tuttavia l’auto elettrica paradossalmente può anche aumentare le emissioni di CO2. Un automobilista su tre è attento a come viene prodotta l’elettricità che alimenta le automobili e a come vengono smaltite le batterie. Se da un lato le auto elettriche francesi e norvegesi riducono notevolmente le emissioni di gas serra, dall’altra quelle degli Stati Uniti e, in misura maggiore, della Cina risultano più inquinanti delle auto equivalenti a motore termico.

AUTONOMIA E COLONNINE I TALLONI D’ACHILLE.

Uno dei talloni d’Achille è senza dubbio l’autonomia: il 54%(46% in Italia) del campione, acquisterebbe un’auto elettrica solo se l’autonomia superasse i 300 km, problema particolarmente sentito in Spagna (71%), Germania (67%) e Francia (62%). Vera nota dolente della mobilità elettrica è la disponibilità delle colonnine di ricarica rapida la cui implementazione lungo la rete stradale e autostradale rassicurerebbe i due terzi degli automobilisti di tutto il mondo (71% in Italia) che reputano le attuali infrastrutture ampiamente insufficienti.

CRISCI (UNRAE): “NEL PROSSIMO FUTURO AUTO ELETTRICA CONNESSA E CONDIVISA”.

«Il futuro dell’auto elettrica – commenta il presidente di UNRAE Michele Crisci – sarà molto legato alla capacità che le infrastrutture avranno di permettere agli utenti una ricarica continua, veloce, diffusa in maniera ampia sia domestica sia pubblica, sia nei luoghi dove lavoriamo. Non dobbiamo dimenticarci che il nostro Paese vive anche di turismo e quindi dobbiamo immaginarci un futuro in cui i turisti dovranno ricaricare le loro vetture. Dovremo adeguare velocemente le infrastrutture per permettere al nostro prodotto interno lordo di essere alimentato dai proventi del turismo». «L’auto del futuro – conclude Crisci – sarà sicuramente un’auto elettrica, connessa e condivisa. È inevitabile un periodo di transizione. Si devono tenere in considerazione i futuri sviluppi tecnologici ma anche la situazione presente, perché in Italia abbiamo 37 milioni di autoveicoli ‘antiquati’ rispetto a queste tecnologie».

L’auto elettrica? È come la sòra Camilla: tutti la vogliono ma nessuno la piglia…. Redazione di stradeeautostrade.it l'11 Luglio 2019. “L’auto elettrica? È come la sòra Camilla, che come recita un antico proverbio in romanesco “tutti vònno ma nissuno la pija” (tradotto: la signora Camilla, tutti la vogliono e nessuno la prende). Se è infatti vero che la donna protagonista del proverbio, Camilla Peretti, potente sorella di papa Sisto V finì sbeffeggiata perché dopo essersi dichiarata promessa sposa di numerosi esponenti membri dell’aristocrazia romana si ritrovò costretta, per mancanza di veri pretendenti, a prendere i voti e farsi suora, è altrettanto certo che la scelta dell’auto elettrica sembra piacere a tutti ma da pochi è davvero “sposata”. Come testimoniano i dati dell’Osservatorio Auto Findomestic che indicano vendite ancora marginali pur segnalando una possibile inversione di tendenza nei prossimi 5 anni. Un’indagine condotta in 16 Paesi, per fotografare punti di forza e di debolezza delle auto elettriche, rileva infatti che in Italia quasi 6 intervistati su 10 dichiarano di essere intenzionati all’acquisto di un’auto ibrida elettrica e più di 4 su 10 all’acquisto di una elettrica al 100%, ma in realtà in pochi la comprano. “Secondo i dati di Unrae su quasi un milione di auto nuove immatricolate in Italia da gennaio a maggio 2019 solo poco più di 3.500 sono 100 elettriche e circa 48mila ibride, di cui appena 2.000 di tipologia plug-in, cioè capaci di ridurre sensibilmente le emissioni di CO2″, ha confermato Claudio Bardazzi, responsabile dell’Osservatorio auto Findomestic, spiegando anche qual è il principale freno alla diffusione dell’auto elettrica: “il costo d’acquisto, ancora alto e poco concorrenziale. Oggi il 91 per cento degli italiani è infatti consapevole che il veicolo elettrico costi più dell’equivalente termico e in molti casi non è disposto a sostenere alcuno sforzo economico supplementare per acquistare un’auto elettrica”. Sforzo economico che altri Paesi hanno “tagliato” con forti incentivi, “come nel caso della Cina, che ha introdotto esenzioni fiscali comprese fra 5.100 e 8.700 dollari, e la Norvegia, la cui normativa prevede l’esenzione dall’imposta sull’acquisto e dall’Iva, uno sconto sull’acquisto dei veicoli ibridi ricaricabili e l’esenzione dalla tassa di circolazione, dai pedaggi e dalle spese di traghetto”.

Ma aspetto economico a parte, quali sono le altre luci e ombre dell’auto elettrica? L’analisi di Findomestic ha evidenziato come 83 per cento degli italiani apprezzi la fluidità della guida grazie anche all’ottima accelerazione e all’assoluta silenziosità di marcia (caratteristica, quest’ultima, che ha peraltro spinto l’Unione europea a rendere obbligatoria la presenza sui veicoli elettrici di un dispositivo sonoro Avas (Audible vehicle alert system) che avvisa i pedoni del passaggio dell’auto). Ma ad attirare l’attenzione dei potenziali acquirenti di una vettura elettrica sono anche i ridotti costi di utilizzo e di manutenzione sui quali dovrebbe invitare a riflettere lo scetticismo dei norvegesi, che sono molto più avanti nella sperimentazione di modelli di auto elettriche, e l’aspetto ecologico con (il 93 per cento di proprietari d’auto italiani convinti che l’utilizzo delle e-car potrà ridurre in maniera significativa l’inquinamento nonostante studi scientifici dimostrino che l’auto elettrica paradossalmente potrebbe invece far aumentare le emissioni di Co2. Pochi automobilisti, probabilmente, sono informati su come viene prodotta l’elettricità che alimenta le automobili e a su come vengono smaltite le batterie. Un “tallone d’Achille” che sembra invece apparire in maniera chiara agli intervistati è quello dell’autonomia: il 46 per cento del campione d’Italiani intervistati acquisterebbe infatti un’auto elettrica solo se l’autonomia superasse i 300 chilometri. Ma la vera nota dolente della mobilità elettrica è la disponibilità delle colonnine di ricarica rapida la cui implementazione lungo la rete stradale e autostradale rassicurerebbe il 71 per cento degli automobilisti italiani che considerano le attuali infrastrutture ampiamente insufficienti. “Il futuro dell’auto elettrica,”, ha commentato il presidente di Unrae, Michele Crisci, “sarà molto legato alla capacità che le infrastrutture avranno di permettere agli utenti una ricarica continua, veloce, diffusa in maniera ampia sia domestica sia pubblica, sia nei luoghi di lavoro. Non dobbiamo dimenticarci che il nostro Paese vive anche di turismo e quindi dobbiamo immaginarci un futuro in cui i turisti dovranno ricaricare le loro vetture. Dovremo adeguare velocemente le infrastrutture per permettere al nostro prodotto interno lordo di essere alimentato dai proventi del turismo”.

Le elettriche, tutti le vogliono nessuno le piglia. Carlo Cavicchi su Quattroruote. Ogni tanto il tema torna di attualità. Ed è di quelli che fanno tremare i polsi a chi, giustamente, guarda avanti con la speranza che qualche cosa possa cambiare. Il soggetto è l’auto elettrica e il problema è che proprio non vuole decollare. I media ne parlano tanto, probabilmente troppo, generando illusioni esagerate, però le vendite restano confinate dentro numeri imbarazzanti. Le cifre, spietate, raccontano di 103 auto vendute (vendute?) in Italia nei primi 6 mesi di quest’anno. Un numero che non è nemmeno un numero, ma uno 0,0 percentuale su un mercato asfittico come non mai, che viaggia a livelli di vendite ai privati inferiori a quelle del 1970, che sono poi 41 anni fa. Se ci consola sapere che in Portogallo, Belgio, Repubblica Ceca, Irlanda e Romania, hanno fatto peggio, ancora allora consoliamoci; ma il panorama è desolante. Anche perché nei pochi mercati dove le auto che danno la scossa hanno tirato di più non c’è nulla da festeggiare: la Germania, che comanda la classifica elaborata da Jato Dynamics, è a quota 1.020 unità, la Francia a 953, poi vengono Norvegia (850) e Inghilterra (599). L’auto elettrica non appassiona? Non è esatto, questa è una convinzione che poggia su basi ancora troppo irrilevanti per avere un senso. Di sicuro non è appetibile per i suoi costi proibitivi che si accompagnano a incentivi statali troppo spesso ridicoli, anche se la vera ragione forse non sta nemmeno qui. Già perché se In Germania per chi sceglie una vettura a zero emissioni l’incentivo statale è soltanto di 380 euro, contro i 1.200 dell’Italia, i 5 mila della Francia e i circa 20 mila, fra sgravi fiscali e deduzioni, della Danimarca cominciano ad essere un bella cifra. Esagerata addirittura nel caso dei danesi. Ma oggi, in tempi di crisi galoppante e di incertezze continue, automobili da città con costi che partono da oltre 35 mila Euro sono indiscutibilmente belle e impossibili e bisognerà trovare una soluzione politica, se no anche il sogno del secondo decennio del 2000 rischia di fare la fine dell’ultimo decennio del secolo scorso, quello delle grandi speranze abortite.

L’utopia dell’auto elettrica.  Franco Battaglia 29 aprile 2019 su Nicolaporro.it. Se mi si chiede come vedo il futuro dell’autotrazione, rispondo che potrebbe anche essere elettrico. Ciò precisato, credo sia importante essere coscienti dei limiti di questo futuro. Non mi riferisco a limiti economici che potrebbero essere superati con la diffusione della tecnologia. Mi riferisco ai limiti insormontabili, o per lo meno che ci appaiono oggi tali, visto che nessuno ha la sfera di cristallo. Credo sia necessario esserne consapevoli per evitare di cullarsi in illusioni che potrebbero farci imboccare una strada sbagliata con rischi di conseguenze dolorose. Innanzitutto: perché l’auto full electric non si è sviluppata? Forse perché l’hanno inibita i petrolieri cattivi? No; semplicemente perché noi non sappiamo come immagazzinare energia elettrica in un contenitore trasportabile da un’automobile che abbia le caratteristiche delle automobili che usiamo. Non fatevi ammaliare da chi vi mostra un’auto apparentemente simile alla vostra, che sarebbe elettrica e con costo che dovrebbe abbattersi con la produzione su larga scala. Non vi stanno raccontando tutta la storia. Perché quell’auto, sostanzialmente priva di bagagliaio a meno di averla enorme, è in realtà una batteria di accumulatori elettrici in movimento. L’energia da essi accumulabile dipende da quel che si chiama potenziale elettrochimico della sostanza attiva ed è inversamente proporzionale alla massa atomica della stessa. La tavola periodica degli elementi è nota, e noto è il potenziale elettrochimico di tutte le possibili sostanze attive, che è dell’ordine di grandezza di 1-10 volt, un valore, questo, che ha una ragione teorica consolidata per essere tale. Detto diversamente, questo valore è un limite naturale, che nessuna ricerca e nessun avanzamento tecnologico potrà superare. Inversamente proporzionale alla massa atomica della sostanza attiva, abbiamo detto. Se si scorre la tavola periodica degli elementi, i primi in ordine di massa sono idrogeno, elio e litio. L’elio è inerte. L’idrogeno ha quattro difetti cruciali: non esiste sulla Terra, è gassoso, è la molecola più piccola che c’è, è esplosivo; circostanze, tutte, che rendono utopica l’autotrazione a idrogeno, elettrica o a combustione che sia. Lo scrivevamo 17 anni fa, quando il presidente americano Bush era ubriacato dalle prospettive che vendeva tale Jeremy Rifkin, tuttologo, dalle idee poche ma sicuramente fisse e confuse sui temi ove si è autonominato esperto. Bush lanciò il programma Freedom car, che avrebbe dovuto liberare il paese dalla sudditanza al petrolio arabo. Pochi anni dopo Obama dovette prendere atto che quel programma era nato morto, e lo ha seppellito. Quanto al litio, le batterie ci sono già, cioè nel settore della propulsione elettrica, siamo già al limite della tecnologia. Una nostra utilitaria richiede una potenza di 50 kW e quindi ha bisogno un accumulo di 200 kWh per avere una autonomia di 4 ore. Il potenziale elettrochimico dell’elettrodo al litio è di 3 volt, cioè, facendo l’aritmetica, per garantire quella autonomia ci vogliono 20 kg di litio attivo, cioè 1000 kg di batterie al litio: la vostra auto, se elettrica, peserebbe almeno il doppio. Scadute le 4 ore, ce ne vogliono altre 4 per fare il pieno: vi invito solo a riflettere al tempo necessario che impiega il vostro telefonino per ricaricarsi (e vi sono ragioni tecniche perché deve essere così). Insomma, se oggi la macchina elettrica costasse la metà di quella a benzina, tutti noi preferiremmo questa a quella. Il futuro dell’auto potrebbe essere elettrico, dicevo, ma finché v’è carburante convenzionale, dimentichiamoci quel futuro. Come programmarlo? Dobbiamo essere consapevoli che se il parco auto italiano fosse elettrico, sarebbe necessaria l’energia di 40 reattori nucleari, dedicati, per alimentarlo. Allora, o ci si impegna, tutti insieme, a sviluppare una potente industria elettronucleare o la larga diffusione dell’auto elettrica rimarrà un’utopia. Per completezza, per chi pensa a eolico e fotovoltaico: per alimentare quelle auto, anziché impegnare €150 miliardi nei 40 reattori nucleari, avremmo la scelta di impegnare €300 miliardi in 300.000 turbine eoliche (fatemelo ripetere: 300.000) o €3000 miliardi in impianti fotovoltaici (fatemelo ripetere: €3000 miliardi). Posto ciò, fate da soli le previsioni. Per ora. L'auto del futuro c'è già, è l'auto ibrida. Non c'è gara fra una Toyota e una Tesla.

L'auto elettrica è una bufala. Si basa su ipotesi che generano leggi e finanziamenti. Riccardo Ruggeri Italia Oggi numero 274 pag. 13 del 21 novembre 2017. Il caso Tesla ha assunto ormai una valenza che va molto al di là della strategia prodotto-mercato di una casa automobilistica di nicchia, inventata da un markettaro (i colti preferiscono visionario) come Elon Musk. Da tempo, la rivista Zero Hedge ha cercato di capire perché Wall Street continui a ignorare le perdite (mostruose) di Tesla. Eccole: nel 2016 ha prodotto 76mila auto e perso 773 milioni di dollari, ora viaggia sui 700 milioni di perdite al trimestre, cioè perde oltre 30mila dollari per auto venduta. Eppure ha una capitalizzazione dell'ordine di 60 miliardi di dollari contro i 50 di Gm, i 45 di Ford. Poiché il mercato ha sempre ragione, «a prescindere» avrebbe detto Totò, cosa dovrà succedere affinché Musk diventi winner-take-all (chi vince prende tutto) dell'intero comparto? Banalmente, costruire un monopolio (ci sta provando), facendo imporre ai singoli governi norme di circolazione automobilistica privata limitata alle sole auto elettriche, se possibile alle sue. La filosofia è quella della smart mobility (nel linguaggio liberal, e pure politicamente corretto: «Muoversi meglio per vivere meglio»). Solito il giochino delle felpe californiane: fissare un obiettivo di grande fascino come «Salvare il pianeta, visto che presto supereremo i 10 miliardi». Come? Con l'auto elettrica a guida autonoma. In che modo? Limitando l'auto a solo quelli che se la possono permettere? Pochi? Ovvio, una percentuale di quel 10 per cento dell'unica classe sociale che avrà un lavoro ben retribuito (il 90 per cento farà lavori o idioti, o insalubri, o part-time, tutti mal pagati: con reddito di cittadinanza integrativo, per sopravvivere da cittadino zombie). Come si vede l'opposto dell'idea di Henry Ford di retribuire i suoi dipendenti più del mercato affinché fossero pure clienti. Come si muoveranno i cittadini zombie? Con mezzi pubblici gestiti da Uber a prezzi prefissati dal loro algoritmo. Ricordate quando ci dicevano: l'automobile privata è libertà? Era una balla. A proposito, tre quarti dei cittadini dichiarano di rifiutare le auto a guida autonoma: tranquilli, essendo tutti o precari o zombie non potrete permettervelo, accontentatevi di passare il tanto tempo libero che avrete sui social e su internet (gratuiti). Tornando a bomba mi chiedo perché i grandi costruttori mondiali dell'auto siano così pigri. Il prodotto del futuro l'hanno, l'ibrido, basta fare un viaggio di 500 chilometri, percorso misto città-autostrada con una Toyota ibrida e con una Tesla S: non c'è partita. La loro potenza condiziona (per ora) i governi più potenti del mondo (Usa, Cina, Giappone, Germania, Uk, Sud Corea, Francia; noi italiani no, ormai siamo ridotti a quattro stabilimenti cacciavite), sono i più grandi datori di lavoro (pregiato) al mondo. Se non fanno nulla sono destinati a diventare i «carrozzieri» delle felpe californiane. È ciò che vogliono? Quand'ero giovane, e lavoravo nell'automotive (componenti) le batterie erano al piombo acido, ora sono al litio-cobalto. Quelle erano inquinanti (noi non lo sapevamo), queste lo sono di più, e lo sappiamo, ma sappiamo pure che sono estratte con metodi inquinanti e vengono da paesi che calpestano i diritti umani. Nel frattempo la speculazione finanziaria si è scatenata, i prezzi sono già scattati verso l'alto: un chilo di carbonato di litio è passato da 7 a 26 dollari, e nessuno scrive che su una Tesla ce ne vogliono almeno 60 chili. Per non parlare del cobalto, per il 60% estratto nella Repubblica del Congo, anche da minatori bambini. I giganti svizzeri (Glencore) e cinesi (China Moly) stanno investendo miliardi di $ in Congo dopo essersi accaparrati i giacimenti più importanti. Ancora prima di cominciare a produrre su scala industriale le batterie Tesla, il prezzo per tonnellata del cobalto è già schizzato a 58 mila dollari. Una chicca. Secondo uno studio dell'Istituto di Ricerca Ambientale svedese una batteria Tesla (una), ancor prima di lasciare lo stabilimento ove viene prodotta, ha già emesso nell'atmosfera 17,5 tonnellate di diossido di carbonio, equivalente a otto anni di emissioni di un'auto di oggi circolante a benzina o diesel. Vivrà e poi dovrà essere smantellata. Il bilancio ecologico lo si deve fare al termine del ciclo, cioè dalla culla alla tomba del prodotto. E poi, mai dimentichiamo che, quando la mettiamo in ricarica, dall'altra parte della spina solo per il 5% sono energie prodotte da vento e sole, il resto è «schifoso» fossile e nucleare. Quindi più produciamo auto elettriche più inquiniamo il pianeta. Ci rendiamo conto di cosa parliamo e delle grandezze in gioco? Abbiamo forse una massa di studi coerente con i problemi posti? No. Eppure governi idioti decidono date cervellotiche di fine corsa di tecnologie sicure senza avere testato quelle nuove, oltretutto nate vecchie, messe a punto da aziende canaglia. Senza analisi scientifiche, economiche, di disponibilità di materie prime, di componenti strategici, di emissioni, di inquinamento, non si può neppure dibattere, figuriamoci decidere. Secondo aspetto, fondamentale, e perfettamente colto dal solo Francesco Paternò (Carblogger): Musk si rifiuta di comunicare al mercato il Ttm, time to market (tempo che trascorre dalla ideazione alla commercializzazione del prodotto). Questo periodo, un tempo era di 5 anni, non è mai sceso sotto i 3. Ricordiamo tutti il disastro industriale avvenuto a cavallo degli anni 2000 quando molti straparlavano di «auto paperless» (auto disegnate dal computer, la carta uccisa dal digitale, si diceva), quindi con un Ttm di 18 mesi. Un flop colossale paragonabile solo a quello della Ford Edsel, anni 60. Per ora il Ttm di Tesla è una fake news. Quando Musk lo ridurrà o lo azzererà (non solo in termini di comunicazione) entrerà nell'Olimpo dell'Auto. Nel ceo capitalism e nel linguaggio dei politici attuali c'è una totale confusione fra i desideri e i fatti, gli obiettivi e l'execution. Il passaggio dalla trazione benzina-diesel-ibrido a quella full electric non ha nulla a che fare con il passaggio dalla carrozza con i cavalli alla Ford T di cui blaterano intellò, sociologi, economisti, politici d'accatto. Finalmente il presidente di Toyota, Takeshi Uchiyamada ha detto ciò che tutti noi, non di regime, sapevano: «Questa tecnologia avrà un futuro, ma prima di andare in produzione ci vorrà tempo, Tesla non è un nostro concorrente, e non è neppure un esempio da seguire». Possibile che nessuno capisca il giochino delle felpe californiane? Vogliono smantellare un business di altissima strategicità (industrial-socio-politica) come quello delle ruote, con una trazione (elettrica) non competitiva con l'attuale (ibrida), solo per impossessarsene e sostituire il loro cuore con una piattaforma digitale e con app idiota. Ma non hanno alcun know how specifico, solo slide di obiettivi e prototipi presentati a media osannanti stile presentazioni Apple e Alibaba. Null'altro che ballon d'essai. Modo elegante per non dire arlecchinate.

Auto elettrica “peggio del diesel”: la bufala di Libero e quel che ci dice la scienza. Redazione QualEnergia.it 24 Giugno 2019. No, non è vero quel che leggiamo oggi sulla prima pagina del quotidiano: l'auto elettrica non emette "più polveri sottili di un diesel euro 6". Spieghiamo perché e vediamo un po' di studi che fanno chiarezza su quanto inquinano le diverse motorizzazioni. Stamattina dopo la consueta rassegna stampa, avendo visto la prima pagina di Libero (immagine sotto), in redazione siamo stati indecisi se intervenire o no. Il quotidiano diretto da Vittorio Feltri sembra infatti perseguire coscientemente la strategia di “spararle grosse”, forse in mala fede, per avere visibilità: replicare è un po’ collaborare involontariamente a questo gioco che inquina il dibattito pubblico. D’altra parte non possiamo neanche tacere di fronte ad affermazioni come quelle riportate nel titolo e nel sottotitolo all’intervista al presidente dell’ACI Angelo Sticchi Damiani. Su QualEnergia.it infatti abbiamo dedicato molto spazio al confronto tra impatto ambientale ed energetico dei veicoli elettrici e di quelli con motorizzazione interna e ci pare giusto dare al lettore qualche riferimento scientifico per capire la questione. Riproponiamo dunque questa inchiesta, realizzata a marzo da Lorenzo Vallecchi, nella quale si spiega perché è fuorviante e scientificamente sbagliata l’idea riproposta dal presidente di ACI su  Libero secondo cui un’auto elettrica “produce più polveri sottili di un diesel euro 6”: Prima alcune indispensabili notazioni preliminari. Per misurare sia gli effetti sul clima che quelli sull’ambiente nel suo complesso, da qualche tempo la ricerca ha preso a studiare l’impatto complessivo dell’intero ciclo di vita, o Life Cycle Assesment (LCA), dei diversi tipi di propulsione. L’analisi del ciclo di vita, però, è una disciplina ancora abbastanza giovane e non esiste un metodo univoco e universalmente accettato di svolgerla. Tale pluralità di vedute si traduce in stime molto diverse della CO2 prodotta dalle batterie al litio. In base al tipo di rilevamento e alle sostanze chimiche presenti nei diversi tipi di accumulatori, le incidenze variano da un minimo di 40 a un massimo di 350 kg CO2/kWh di capacità della batteria, con una media di 110 kg CO2/kWh. Si tratta di ordini di grandezza molto diversi. La disparità di stime prodotte in molteplici studi di LCA in base ai diversi metodi di rilevazione e tipi di batterie è ben visibile in quest’altro grafico. Fra le cause principali di tale molteplicità di risultati ci sono vari fattori:

La scelta di un approccio “top-down” piuttosto che “bottom-up” per i calcoli riguardanti la produzione delle batterie. Gli studi top-down (T-D), cioè dall’alto verso il basso, iniziano con i dati di produzione complessivi, ad esempio di un impianto, e procedono poi ad assegnare il consumo specifico di energia ai singoli processi. Con un approccio dal basso verso l’alto (B-U), invece, si misura il consumo di energie di ogni singolo processo e si arriva al totale sommando tutti gli specifici risultati rilevanti. È possibile che i dati top-down siano più completi, ma è probabile che includano il consumo di energia di processi ausiliari estranei alla manifattura della batteria in sé. Un approccio dall’alto verso il basso finisce, insomma, per imputare un consumo energetico ed emissioni più elevate nell’analisi del ciclo di vita.

La LCA ha bisogno del LCI, cioè di un Life Cycle Inventory, vale a dire di un inventario certo di processi e componenti di cui stimare l’impatto nel ciclo di vita. Ma l’inventario preciso e l’interazione di processi e componenti di un prodotto tecnologico è spesso un’informazione riservata, o un segreto industriale. Poiché non sempre i ricercatori hanno l’identikit preciso di ciò che stanno cercando di analizzare, a volte sono costretti a comporre un “sarchiapone,” un’entità inesistente nella realtà che riunisce componenti note prese da contesti diversi per cercare di formare una rappresentazione più vicina possibile alla cosa che stanno studiando. Per evitare gli errori di misurazione che tale opacità di informazioni potrebbe generare, molti ricercatori cercano di affidarsi ai non molti LCI dettagliati in circolazione. È chiaro però che tale situazione limita la ricerca e fare stime al di fuori di inventari certi può portare a risultati fuorvianti.

Il mix energetico della generazione elettrica preso a riferimento nel soppesare il ciclo di vita dei veicoli elettrici incide moltissimo sul grado di inquinamento rilevato. Maggiore è la generazione elettrica da fonti fossili, maggiore sarà l’inquinamento imputato ai veicoli elettrici, a causa della “sporcizia” dell’elettricità fossile presa dalla rete.

Poiché l’incidenza della emissioni di CO2 delle batterie si manifesta soprattutto nella fase della loro produzione e molto meno nella fase di circolazione e dismissione delle auto elettriche, minore è la percorrenza considerata nel ciclo di vita di un auto elettrica, maggiore sarà il peso della CO2 ad essa imputata, visto che le auto elettriche “incorporano” fin da nuove, ancora prima di essere ritirate dal concessionario, una grossa fetta delle emissioni che emetteranno nell’intero ciclo di vita.

Pure le condizioni di misurazione delle emissioni nocive dei diversi tipi di auto incidono molto sulle stime dei loro impatti ambientali durante l’uso. Come lo scandalo “diesel-gate” ha fatto emergere, le emissioni delle auto a gasolio misurate in laboratorio possono risultare sottodimensionate del 30-40% rispetto a quelle rilevate in condizioni reali di guida. Le “novità” circolate negli ultimi mesi sul presunto maggiore impatto dei veicoli elettrici rispetto a quelli diesel di ultima generazione si basano per lo più su studi fatti dall’alto verso il basso. Nel grafico riportato sopra, le emissioni delle batterie al litio misurate con approccio inverso, cioè dal basso verso l’alto (bottom-up), sono quelle con l’indicazione “B-U” e portano a stime di inquinamento da CO2 delle batterie elettriche spesso 3 o 4 volte inferiori rispetto alle altre. Il confronto elettrico-diesel menzionato da molte testate giornalistiche, inoltre, è quello fra un auto diesel di nuova generazione, Euro 6, e un’auto elettrica alimentata con il mix-energetico tedesco del 2012 – cioè un mix di vecchia generazione, dove l’energia rinnovabile era ancora poco sviluppata e dove i combustibili fossili producevano più elettricità rispetto agli anni successivi (vedi grafici dell’istituto di ricerca tedesco Fraunhofer): le rinnovabili erano al 25,9% nel 2012 e nel 2018 sono arrivate a coprire il 40,3% del totale. Poiché i criteri Euro 6 sono entrati in vigore solo nel settembre 2014, per fare un confronto omogeneo e realistico, sarebbe stato meglio paragonare un’auto elettrica alimentata col mix energetico tedesco del 2012 con un’auto diesel circolante nel 2012, che probabilmente sarebbe stata più una Euro 4 o 5. Il confronto riportato da molti media è quindi fuorviante anche perché addossa un peso eccessivo dei combustibili fossili alla generazione elettrica. Chiarita meglio l’origine della disparità di vedute e della confusione in merito all’impatto dei veicoli elettrici, come detto, nel prossimo articolo cercheremo di spiegare qualcosa sulla situazione recente e le prospettive dei veicoli elettrici e della loro incidenza sia sul surriscaldamento del clima che in termini di impatto ambientale complessivo. Per cercare di ovviare agli inconvenienti sullo stato della ricerca menzionati nella prima patte dell’articolo, oltre a guardare a singoli studi, ci riferiremo ad alcuni meta-studi, in cui si passano al vaglio decine di altri studi, cercando di distillare le conclusioni più affidabili da una mole massiccia di stime e dati. Secondo uno di questi meta-studi, l’impatto di un’auto elettrica in termini di CO2 emessa durante il suo ciclo di vita – con percorrenza di 200.000 km, un mix energetico uguale a quello medio europeo nel 2015 e una batteria da 30 kWh – è meno della metà rispetto ad un auto diesel di pari taglia, come evidenziato nella figura sottostante. Poiché l’intensità fossile e rinnovabile della generazione elettrica giocano un ruolo fondamentale nell’impatto ambientale della mobilità elettrica rispetto a quella tradizionale, è cruciale guardare al mix energetico. Secondo i dati della Commissione Europea, l’impronta energetica di alcune aree del continente nel 2015 è quella disegnata nella mappa. Anche prendendo come riferimento il mix energetico della Polonia o della Germania – i paesi a maggiore intensità fossile – le emissioni delle auto a batteria(Battery Electric Vehicle o BEV) sono comunque inferiori rispettivamente del 25% e del 45% rispetto al veicolo diesel di riferimento. Con il mix energetico italiano del 2015, l’impatto di un auto elettrica risulta inferiore del 55% rispetto a quello di un’auto a gasolio. Anche al livello odierno di 850 gCO2/kWh di emissioni della Cina nella fabbricazione delle batterie al litio, sommandovi le minori emissioni europee generate in fase di uso e dismissione del veicolo nel resto del ciclo di vita, l’impatto climatico di un veicolo elettrico con batterie prodotte in Cina risulta comunque inferiore a quello di un veicolo diesel. Tale quadro è confermato anche da un altro meta-studio, secondo cui i gas serra misurati nel ciclo di vita delle auto elettriche sono in media inferiori del 50% rispetto a quelli delle auto a combustione interna, anche ipotizzando emissioni nocive relativamente alte nella fase di produzione delle batterie e su una percorrenza di 150.000 km. Dunque, il beneficio delle auto elettriche rispetto a quelle endotermiche è variato dal 28 al 72%, a seconda della produzione locale di elettricità, come evidenziato nel grafico. Secondo un meta-studio pubblicato dal Parlamento Europeo nel 2018, per quanto un mix energetico non ancora sufficientemente concentrato sulle energie rinnovabili limiti la sostenibilità incondizionata delle auto elettriche, il bilancio energetico già a fine 2017 fra auto elettriche e a combustione interna era favorevole a quelle alimentate a batterie, come evidenziato nella figura. Secondo una presentazione dell’Università Norvegese della Scienza e della Tecnologia, pubblicata nel 2017 sul sito di Concawe, un’organizzazione che raggruppa la maggioranza delle società petrolifere europee, fra cui ENI, BP e Total, la LCA comparata fra auto elettriche e endotermiche dei vari segmenti, su varie percorrenze e con il mix elettrico medio europeo del 2015, è quella rappresentata in figura, dove in blu sono indicate le auto elettriche e in grigio le auto a combustione interna. Servono percorrenze da circa 45.000 a circa 75.000 km da parte delle auto elettriche per scontare lo sbilanciamento iniziale che la fase produttiva ha sull’impatto ambientale della mobilità elettrica. Dopo quindi un terzo o la metà della loro percorrenza complessiva, per i rimanenti due terzi o metà, le auto elettriche producono vantaggi climatici netti. Riassumendo, già oggi e considerando il loro intero ciclo di vita, le auto elettriche emettono quantità di CO2 almeno il 25-30% inferiori rispetto ai veicoli con motori a combustione, sulla base di un mix energetico medio europeo e percorrenze di 150.000 km. E tale impatto climatico è destinato a diminuire ancora, via via che il rapporto fra fonti fossili e rinnovabili si sposta a favore delle rinnovabili. Attualmente, gli studi sugli impatti non solo climatici, ma anche ambientali complessivi dell’intero ciclo di vita della mobilità elettrica e tradizionale sono però ancora pochi. Secondo una presentazione di Ricerca Sistema Energetico (RSE) del 2017, “i veicoli elettrici hanno prestazioni che vanno nella direzione di ridurre il consumo di risorse e le emissioni di inquinanti atmosferici di interesse per le aree urbane (particolato, ossidanti fotochimici ed acidificazione atmosferica).” D’altro canto, continua la presentazione, “i veicoli elettrici non sono in grado, allo stato attuale, di essere vincenti per aspetti quali l’eutrofizzazione delle acque dolci o la tossicità umana, per i quali gli impatti legati alla produzione e dismissione della batteria del veicolo giocano un ruolo determinante, per la loro consistenza,” come evidenziato nei grafici con stime al 2030, dove EV sta per veicoli elettrici e ICEV per veicoli a combustione interna. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) nota che ci potrebbe essere una correlazione fra la mobilità elettrica e l’immissione di residui metallici nocivi nelle falde acquifere, a causa delle attività per l’estrazione e la raffinazione di rame, nickel, cobalto e altri minerali. Lo stesso rapporto sottolinea però che vari studi circa gli impatti sull’ecosistema giungono a conclusioni contrastanti, con stime pro e contro la maggiore incidenza della mobilità elettrica rispetto a quella tradizionale nell’inquinamento, per esempio delle falde di acqua dolce. Sempre l’Agenzia Internazionale per l’Energia, nell’ambito del suo “Technology Collaboration Programme on Hybrid and Electric Vehicles,” uno studio del 2018, dice che le stime globali dell’impatto medio del ciclo di vita delle auto elettriche o ibride (BEV e PHEV) rispetto a quelle a benzina o diesel sono così riassumibili. Pur con tutte le precauzioni del caso e qualche limitata eccezione, la IEA indica un contributo positivo dei veicoli a batteria non solo per il clima, ma anche per l’ecosistema nel suo complesso. Rimane molto da fare per una mobilità migliore, come per esempio:

rendere più rinnovabile la generazione elettrica;

potenziare l’infrastruttura di ricarica;

potenziare le attività di riciclo delle batterie e lo sviluppo di un’economia circolare;

diversificare i luoghi di origine delle materie prime per assicurare approvvigionamenti più affidabili;

sviluppare carburanti più verdi per ambiti come l’aeronautica, la marina mercantile, l’agricoltura e i trasporti pesanti di lunga lena, che ancora non riescono a sfruttare la propulsione elettrica.

In conclusione, però, i vantaggi climatici e “tutto sommato” anche ambientali dei veicoli elettrici rispetto a quelli a combustione interna paiono evidenti già oggi.

"Le macchine elettriche inquinano come i diesel". Angelo Sticchi Damiani, presidente Aci: "Le macchine elettriche inquinano come i diesel". Intervista di Pietro Senaldi del 26 Giugno 2019 su Libero Quotidiano. «Benedetta auto elettrica, ma occhio a finirci sotto, potrebbe fare molto male». È il grido d' allarme di Angelo Sticchi Damiani, presidente dell'Aci e guidatore felice di una vettura ecologica. «È comodissima, è il futuro, e non voglio essere frainteso» si affretta a precisare, perché sono tempi in cui ogni affermazione di buon senso e documentata, se non alla moda, può procurare grossi guai, specie se va a scalfire un mito ecologista, «però in questo momento sta ammazzando il mercato dell'auto, specie del diesel, e questo significa centinaia di migliaia di posti a rischio, senza peraltro avere nessun vantaggio in cambio, visto che siamo indietro come infrastrutture, costi, tecnologia». E in effetti le elettriche rappresentano solo lo 0,66% del parco auto italiano - 250mila su 39 milioni -, il più vecchio d'Europa, con una media di 13 anni dall'immatricolazione per le vetture circolanti. «Per forza» spiega Sticchi Damiani: «Costano non meno di 30mila euro, ci impieghi ore a ricaricarle, hanno un' autonomia non superiore ai 300 chilometri per le più grandi, ma le utilitarie si fermano a 120, e solo se non accendi l' aria condizionata e non corri. In più non è facile trovare sul territorio stazioni di ricarica».

Perché il mercato delle elettriche stenta a decollare, presidente?

«Sono delle straordinarie vetture da città: non pagano nelle aree a traffico limitato, le parcheggi nelle strisce blu, non inquinano, non fanno rumore, e questo è un gran vantaggio, tranne per i pedoni, che non si accorgono quando arrivano».

E però?

«Sono per ricchi, costano. Quella elettrica è di fatto una seconda auto, perché non risponde alle esigenze di una famiglia, che deve fare lunghi spostamenti o usarla quotidianamente. Anche per i trasporti pubblici non sono ancora veicoli convenienti, tant' è che negli ultimi anni sono diminuiti anziché aumentare».

E poi ci vogliono ore per caricarle?

«Ci sono anche ricariche veloci, le prospettive per il prodotto sono ottime, il problema è che al momento mancano le infrastrutture. Ci sono importanti e seri programmi per realizzarle ma dovranno essere spesi miliardi prima di vedere le auto elettriche circolare numerose sulle nostre strade: miliardi per costruire le infrastrutture e le stazioni d' approvvigionamento, miliardi per riconvertire la produzione dei veicoli, miliardi per investire nella realizzazione delle batterie, miliardi per alimentarle con energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, miliardi per comprarle una volta prodotte».

Nel frattempo?

«Il mercato tradizionale soffre. Il diesel in Europa ha perso il 23%. Nei primi mesi del 2019 le vendite in Italia sono calate del 10%, a maggio è andata meglio ma si è perso lo stesso l' 1,2%, non c' è da stare allegri. Non si tratta solo di Fca, che segna quasi il 20 in meno, lei sa che il 60% della componentistica delle vetture tedesche viene prodotto in Italia?».

Perché nessuno compra più auto?

«Perché c' è incertezza e disinformazione. Fioccano eccessive limitazioni, annunci che terrorizzano. I consumatori pensano che tra due-tre anni sarà vietata la circolazione dei diesel nei centri delle città e così non acquistano. I sindaci sono portati ad una politica ambientalista che produce a volte annunci di provvedimenti catastrofici; in realtà in questo modo si paralizza il mercato e si confondono le idee agli automobilisti».

Ma con l' auto elettrica non staremmo tutti meglio?

«Sì, ma è un percorso molto lungo, e poi il diesel è stato criminalizzato ingiustamente. Per valutare quanto inquina un' auto bisogna calcolarne l' impatto lungo tutta la sua vita, dalla produzione alla rottamazione e le posso assicurare che se lei compara una vettura elettrica a un euro 6 di ultima generazione alimentata con carburanti ecologici, non vi è una sensibile differenza tra le due».

Non ci credo, me lo dimostri.

«Le tanto temute polveri sottili vengono sollevate anche dalle auto elettriche ed esse, pesando molto in quanto hanno le batterie, ne sollevano più dei diesel. Lo stesso discorso vale per i residui delle pastiglie dei freni. Non dico di fermarsi, c' è bisogno di produrre veicoli verdi, ma non si può far fuori dal mercato 39 milioni di vetture tradizionali, la gente non ha neppure i soldi per sostituirle».

Che cosa suggerisce, presidente?

«Dal diesel euro 3 a quello euro 4 è stato fatto un salto epocale in quanto a impatto ambientale. Bisogna favorire con sconti fiscali l' acquisto di usato recente, così che i cittadini rinnovino a basso prezzo il parco auto comprando veicoli meno inquinanti. Il boom dell' elettrico non è ancora maturo, mancano i quattrini».

A che cosa pensa in particolare?

«Le indico una via, ma ce ne potrebbero essere anche altre. Chi viaggia ancora su una euro 3 non lo fa per scelta ma per ragioni economiche, solo che oggi se compri un usato paghi una tassa di circa 800 euro sia che tu faccia un acquisto da 5.000 euro sia che ne spenda invece 40mila. È incoerente e pericoloso, perché dopo dieci anni l' auto è obsoleta, sfruttata, poco sicura. Bisogna incentivare le compravendite e levare certi cassettoni dalle strade. Il governo ha cercato di raggiungere questo obbiettivo inserendo l'ecobonus e l'ecomalus».

Però l'ecotassa colpisce solo i veicoli costosi e che inquinano.

«Ma anche alcuni modelli di Panda sono ecotassati. Tassando il nuovo e scontando il bollo al 50% a tutte le autovetture ventennali, che sono 3 milioni e 800 mila anche se ben conservate, non si va a rinnovare il nostro parco circolante che è il più vecchio d' Europa».

È contro le auto d' epoca?

«Niente affatto, le amo, per questo vorrei difenderle. Invece oggi qualsiasi auto che ha più di vent' anni può diventare vettura d' epoca; per una Punto qualsiasi basta aprire una pratica da circa 150 euro, farsi rilasciare il certificato di rilevanza storica dall' Asi e il gioco è fatto. Senza veri controlli di qualità si godrà di un notevole risparmio sul bollo e si sarà incoraggiati a non cambiare automobili che il più delle volte non hanno un vero valore storico».

Cosa chiede, presidente?

«Una politica chiara. A breve pubblicheremo uno studio che con riscontri scientifici smonta tutte le leggende sull' inquinamento da auto. Il diesel viene criminalizzato dagli Usa, che non lo hanno mai prodotto, e dalla Cina, che partendo da zero, perché priva di un' importante industria auto, ha puntato tutto sulle batterie e sull' elettrico, dove è all' avanguardia, e vuole distruggere il mercato tradizionale. Noi ci stiamo cascando, vittime dei nostri pregiudizi, alimentati da una propaganda a volte straniera».

Ci salveranno le biciclette, ormai nelle città in molti le preferiscono alle quattro ruote. E costano anche poco.

«Ahahahha, la ringrazio per la battuta, mi permette di affrontare un argomento che mi sta molto a cuore, quello del difficile rapporto tra ciclisti e automobilisti».

I primi sono santi e i secondi il diavolo, sbaglio?

«Si tende a dipingere così la situazione, ma non è il caso di scherzarci troppo. In Italia ogni 32 ore muore un ciclista, quasi sempre investito, ma spesso la colpa non è di chi è seduto in macchina».

Presidente, ce l'ha con i ciclisti?

«Al contrario, tengo alle loro vite.

Infatti Aci e Sara Assicurazioni hanno sponsorizzato l'ultimo Giro d'Italia, promuovendo un patto tra automobilisti e ciclisti, con cinque regole tassative da rispettare per gli uni e cinque per gli altri».

Me ne dica qualcuna.

«Mai superare un ciclista se devi svoltare a destra, tenersi sempre a una distanza minima di due metri dalle biciclette, anche se per il codice della strada basta un metro e mezzo. E poi regaliamo adesivi da attaccare allo specchietto retrovisore con la scritta "prima di aprire la portiera, guarda chi sopraggiunge da dietro"».

Lo dica: i ciclisti sono indisciplinati quanto gli automobilisti?

«Se penso a quelli che, pur con la pista ciclabile a fianco, pedalano sulla strada, o a chi gira con le cuffie alle orecchie, mi viene da rispondere di sì. Poi però mi dico: la colpa non è dei ciclisti, ma di chi, fa credere loro che possono fare qualsiasi cosa, perfino infrangere le regole».

Mi spieghi meglio.

«Ma lei sa che in certe strade cittadine, quelle con il limite di velocità a 30 chilometri orari o nelle cosiddette zone 30, a chi è in bicicletta è consentito viaggiare controsenso? Per pedalare non ci vuole la patente, in sella ci sono anche bambini di undici anni. Che insegnamento gli diamo, che le eccezioni arrivano prima delle regole?».

Insomma, ci vorrebbe un giro di vite sui ciclisti?

«Su quelli che infrangono il codice della strada, sì. Anche per loro dovrebbe valere l'infrazione della guida pericolosa. Avrà presente i riders, quelli che portano il cibo a casa, spesso viaggiano la sera a velocità sostenuta, passano con il rosso, tagliano la strada, pedalano controsenso. I vigili dovrebbero iniziare a multarli, per salvargli la vita, ed evitare che un automobilista si rovini la propria investendoli senza colpa». Pietro Senaldi

Auto elettriche, la verità svelata: "Sono un bene per ricchi". Libero Quotidiano il 4 Ottobre 2017. L'auto elettrica è una bufala per ricchi. A sostenerlo è l'economista Giulio Sapelli dichiara al Giornale: "La futura crescita esponenziale delle vendite di auto verdi dovuta al crollo dei prezzi delle batterie interesserà solo un segmento di nicchia del mercato che renderà queste auto accessibili solo alla popolazione ricchissima". Sapelli ne fa anche una questione pratica, oltreché economica e dice: "Come fa a essere di massa un’auto che ha bisogno di colonnine ogni 50 chilometri per essere ricaricata?". Non sono da sottovalutare i fattori inquinanti nella produzione delle auto elettriche infatti secondo l'economista "La produzione di energia elettrica non deriva da fonti rinnovabili, bensì da gas, gasolio o acqua. E per le auto cosiddette ecologiche occorre produrre enormi quantità di energia, anche in ore di punta. Altro problema è quello dello smaltimento delle batterie al litio - aggiunge - è praticamente veleno puro, peggio del mercurio".

Ecotassa, parla il capo dei produttori di componenti per auto: "Un regalo alla Cina". Libero Quotidiano il 20 Dicembre 2018. L'introduzione dell'ecotassa sulle auto per incentivare l'acquisto di veicoli elettrici è una clamorosa mossa suicida da parte del governo Lega-M5s. Il presidente dell'associazione europea dei componentisti, Roberto Vavassori, non ha dubbi sui danni che la nuova tassa riuscirà a portare non solo alle tasche degli italiani, ma anche all'economia nazionale ed europea. La tassa parte da un grande equivoco, cioè che le auto elettriche siano meno inquinanti di quelle a diesel a benzina. Un fatto vero solo in un mondo ideale, dove tutte le fonti energetiche abbiano origine da rinnovabili: "L'auto elettrica non inquina localmente, ma lo fa quando devi attaccarla alla spina per succhiare corrente. Quanto più una vettura elettrica è potente e pesante, tanto più inquina rispetto a una piccola Euro 6D benzina o diesel, motori che hanno risolto i problemi di particolato e ossidi di azoto". A guadagnarci da questa tassa poi saranno fondamentalmente i produttori di componentistica con stabilimenti cinesi: "Alla Cina stiamo facendo un grande dono. Il valore delle celle per le batterie è di circa 5-6mila euro rispetto al prezzo finale dell'automobile".

·        La raccolta e lo smaltimento dei rifiuti.

RACCOLTA E SMALTIMENTO RIFIUTI. 

LA RACCOLTA DIFFERENZIATA, scrive educarsialfuturo.it.

La raccolta differenziata è il modo migliore per preservare e mantenere le risorse naturali, a vantaggio nostro e delle generazioni future: riusare e riutilizzare i rifiuti, dalla carta alla plastica, contribuisce a restituirci e conservare un ambiente "naturalmente" più ricco.  Infatti, ogni nostra azione produce inquinamento, anche la più comune, come per esempio leggere un giornale o bere un'aranciata, non sarebbe nulla, se non considerassimo che ogni giorno nel mondo vengono stampate milioni di pagine, costruite milioni di bottiglie in plastica o lattine in alluminio, assemblati milioni di oggetti e mobilio per le nostre case.  Tradotto in altre parole, milioni di alberi abbattuti, milioni di litri di petrolio consumati, milioni di kg di CO2 immessi nell'atmosfera: con la raccolta differenziata, invece, tutte queste risorse vengono risparmiate. Alcuni esempi:

ognuno di noi produce circa 30 kg di plastica ogni anno: se questa plastica fosse completamente riciclata, in un comune di 100.000 abitanti si risparmierebbero 10.000 tonnellate di petrolio e carbone;

per produrre 1 kg di alluminio, occorrono 15 kwh di energia elettrica; per produrre un kg di alluminio riciclato,  servono invece 0,8 kwh: in Italia, ogni anno, vengono consumate 1 miliardo e 500 mila lattine;

per produrre una tonnellata di carta vergine occorrono 15 alberi, 440.000 litri d'acqua e 7.600 kwh di energia elettrica: per produrre una tonnellata di carta riciclata bastano invece 1.800 litri d'acqua e 2.700 kwh di energia elettrica;

se non differenziati, i farmaci in discarica possono dar luogo ad emanazioni tossiche ed inquinare il percolato; inoltre, la presenza di antibiotici nei rifiuti può favorire la selezione di ceppi batterici resistenti agli stessi antibiotici,

il riciclo del vetro permette un risparmio annuo, in Italia, pari a 400.000 tonnellate di petrolio;

i pneumatici, una volta terminato il loro ciclo, possono essere reimmessi in ciclo per gli utilizzi più svariati: è importante, poichè in Italia ne vengono scartati ogni anno 500.000 tonnellate, per un volume di oltre 3 milioni di metri cubi, l'equivalente di più di 6 stadi di San Siro colmi fino all'orlo;

da 100 kg di olio usato se ne ottengono 68 di olio nuovo: 1 solo kg di olio usato disperso nell'ambiente inquina 1.000 metri cubi d'acqua.  Adesso, provate a fare due calcoli con gli oggetti che vi circondano! 

I RISPARMI DELLA RACCOLTA DIFFERENZIATA

1.  Differenzia la plastica. Con il recupero di 1.000 tonnellate di plastica (ossia la quantità di plastica prodotta da una piccola città) si ottiene il risparmio di circa 3.500 tonnellate di petrolio, cioè l'equivalente dell'energia usata da 20.000 frigoriferi in un anno. 

2.  Differenzia la carta. Per produrre una tonnellata di carta vergine occorrono 15 alberi, 440.000 litri d'acqua e 7.600 kwh di energia elettrica.  Per produrre invece una tonnellata di carta riciclata bastano 1.800 litri d'acqua e 2.700 kwh di energia elettrica. 

3.  Differenzia il vetro. Nella produzione di vetro "nuovo", per ogni 10% di rottame di vetro inserito nei forni si ottiene un risparmio del 2,55%di energia, equivalente ad oltre 130 litri di petrolio risparmiato per ogni tonnellata di vetro riciclato usato.  Si stima che l'industria vetraria registri ogni anno un risparmio energetico, grazie alla raccolta differenziata, pari a 400.000 tonnellate di petrolio. 

4.  Differenzia il rifuto verde (ramaglie). Gli scarti provenienti dalla cura delle aree verdi e dei nostri giardini (foglie, erba, residui floreali, ramaglie,  potature) costituiscono una parte consistente dei rifiuti prodotti e sono fondamentali per il processo di compostaggio industriale.  Ne sono sufficienti 10 tonnellate per fertilizzare un ettaro di terreno. 

5.  Differenzia l'alluminio. Per produrre 1 kg di alluminio, occorrono circa 15 kwh di energia elettrica ed un impianto di estrazione di bauxite.  Per produrre 1 kg di alluminio da materiale riciclato, occorrono invece 0,8 kwh di energia e, soprattutto, nessun impianto di estrazione di bauxite, assente nel nostro paese. 

6.  Differenzia il tuo vecchio frigo. Frigoriferi e congelatori sono costituiti per lo più da acciaio e plastica ma contengono anche sostanze chiamate clorofluorocarburi (CFC), responsabili dei danni all'ozono atmosferico.  Si stima che ogni frigo contenga in media 250 grammi di CFC vari (freon, poliuretano), oltre all'olio minerale altamente dannoso contenuto nel motore dell'impianto refrigerante. 

7.  Differenzia l'olio minerale. L'olio minerale usato (olii lubrificanti nell'artigianato, negli autoveicoli, nell'industria, ecc.) è per la quasi totalità recuperabile.  Da 100 kg di olio usato si ottengono 68 kg di olio nuovo. 

8.  Differenzia i pneumatici. In Italia è stato calcolato che il 65%dei pneumatici finisce nelle discariche.  La gomma è un combustibile e, quando nella discarica avvengono combustioni non controllate, si liberano, soprattutto a causa dei pneumatici, fumi densi molto inquinanti.  Il recupero dei pneumatici usati avviene, per esempio, con la triturazione: alla temperatura di 100° sotto zero raggiunta tramite l'impiego di azoto liquido, la triturazione meccanica diventa semplice e la successiva separazione automatica dei vari componenti assicura un riciclo pressochè totale dei materiali, che vengono utilizzati come sottostrati anti­rumore per strade ed autostrade, piste da corsa e campi sportivi, ecc.

Oggetto di raccolta sono i rifiuti domestici e quelli cosiddetti assimilati ovvero quelli derivanti da attività economiche, artigianali, industriali che possono essere assimilati (con decisione del comune tramite apposita delibera) per qualità a quelli domestici.

Natura della tassa sui rifiuti. Il presupposto della tassa è l'occupazione di uno o più spazi, adibiti a qualsiasi uso e giacenti sul territorio del comune dove il servizio di smaltimento rifiuti è reso in maniera continuativa. Quindi, il presupposto impositivo non è il servizio prestato dal comune, ma la potenziale attitudine a produrre rifiuti da parte dei soggetti detentori degli spazi. Infatti, fatta eccezione per i comuni con popolazione inferiore a 35.000 abitanti, l'importo da corrispondere per questa tassa non è commisurato ai rifiuti prodotti, ma alla quantità di spazi occupati. Tali presupposti danno a questa tassa natura di imposta anziché di tassa, il cui importo viene invece commisurato al servizio prestato. Un altro elemento che lascia propendere verso la natura di tributo è dato dal fatto che la Tassa non è soggetta a IVA, come lo sarebbe invece stato qualunque tipo di servizio.

Più si differenzia, più si paga. Più si conferiva il tal quale indifferenziato, meno si pagava. Che strano ambientalismo!

Prima c’erano i cassonetti dell’indifferenziata. Poche spese e pochi operatori ecologici. In alcune zone scatta l’emergenza dei rifiuti, più per complotti politici e speculazioni economiche per la gestione delle discariche.

Poi ai tradizionali cassonetti si sono aggiunti i contenitori per carta, plastica, vetro, formando le isole ecologiche. Più spese e più operatori ecologici, ma anche più guadagni per la vendita del differenziato. In alcune zone aumenta l’emergenza dei rifiuti, più per complotti politici, ma crescono le speculazioni economiche: per la gestione delle discariche e per gli affari sul differenziato.

La politica si inventa l’ecotassa.

Ecotassa. Tributo speciale per il deposito dei rifiuti solidi in discarica, scrive Maurizio Villani il 27 dicembre 2013. Con i commi da 24 a 41 dell’art. 3, legge n. 549 del 28 dicembre 1995, è stato istituito, a favore delle Regioni, il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (cd. “ecotassa”), così come definiti e disciplinati dall’articolo 2 dell’abrogato D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915. L’istituzione del tributo risponde a finalità ambientali consistenti nel favorire la minore produzione di rifiuti, il recupero dagli stessi di materia prima e di energia, la bonifica di siti contaminati e il recupero di aree degradate. Tale finalità emerge sicuramente dai vincoli di contabilità pubblica dei bilanci delle Regioni, che prescrivono una destinazione del 18% del gettito rinveniente dall’ecotassa a favore di fondi regionali destinati a finanziare il riciclo, smaltimenti alternativi, bonifiche e recuperi. Discenderebbe da detto vincolo di destinazione la denominazione del tributo quale tributo “speciale “. Si vuole in sostanza attenuare la convenienza economica dello smaltimento mediante semplice deposito in discarica od incenerimento senza il recupero di energia. Alle discariche sono assimilati gli impianti di incenerimento senza recupero di energia, le discariche abusive ed i depositi incontrollati, nonché le discariche istituite in via temporanea con ordinanza. La determinazione dell’ammontare di imposta avviene con legge regionale, nell’ambito di limiti statali, succedutisi nel tempo: il D.M. Ambiente 18 luglio 1996, il D.M. Ambiente 13 marzo 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2003, l’art. 26, legge n. 62 del 18 maggio 2005. L’art. 3 al comma 30 stabilisce che il tributo sia versato alla Regione nel cui ambito territoriale è ubicata la discarica, dal gestore della stessa in apposito capitolo di bilancio, entro il mese successivo alla scadenza del trimestre solare in cui sono effettuate le operazioni di deposito. Entro i termini previsti per il versamento relativo all’ultimo trimestre dell’anno, il gestore è tenuto anche a produrre alla Regione competente una dichiarazione contenente, tra l’altro, l’indicazione delle quantità complessive dei rifiuti conferiti nell’anno di riferimento, nonché l’ammontare dei versamenti effettuati. Copia della dichiarazione sarà trasmessa alla Provincia nel cui ambito territoriale è ubicata la discarica.

Poi siamo arrivati all’oggi. Raccolta porta a porta dei rifiuti. Distribuzione dei contenitori per il conferimento dei vari rifiuti, divisi per specie. In alcuni paesi cinque, ad altri solo due. I colori sono differenti da paese a paese.

Ogni bidone (utenze non domestiche) o bidoncino (utenze domestiche) avrà il suo giorno stabilito per essere svuotato.

L’utente ha bisogno di una laurea. Finisce come la parodia di Ficarra e Picone nel film: l’Ora legale. Ficarra si mangia la buccia del melone, non sapendo dove buttarla e chiede: “Voi a Milano i tovaglioli sporchi di sugo dove li buttate?”

OGNI BIDONE UN COLORE, OGNI COLORE UN TIPO DI SPAZZATURA, TU LI SAI?

Cerchiamo di capire quali sono i colori più utilizzati per i bidoni della spazzatura nella raccolta differenziata dei rifiuti, non esiste ancora uno standard, ma in linea di massima queste sono le colorazioni più usate.

Pur non essendo ancora ufficialmente uno standard, si può dire che per la raccolta differenziata i vari colori dei bidoni seguono questo schema:

Bianco: Carta, cartone (riviste, giornali e materiali cellulosici in generale)

Verde: Vetro (bottiglie, barattoli, specchi, etc.)

Rosso o marroncino: Organico (umido)

Giallo: Plastica riciclabile (bottiglie di bevande, detersivi, prodotti per l’igiene, etc.)

Blu: Alluminio (lattine, imballaggi, bombolette spray, etc.)

Va comunque detto che essendo i comuni gli assegnatari dei vari colori in alcune zone potrebbero esserci delle variazioni, infatti ci sono zone in cui i bidoni blu sono destinati a carta e cartone, quelli verdi a vetro e lattine, quelli gialli alla plastica, quelli marroni o rossi ai rifiuti non riciclabili, quelli arancioni all'indifferenziata e quelli neri ai rifiuti organici. Ma non è finita qui, ad ogni sacco un colore, ad ogni colore un tipo di spazzatura, secondo voi vale la stessa regola e lo stesso abbinamento di colori che abbiamo appena visto per i bidoni? 

La raccolta porta a porta parte con difficoltà ad Avetrana. I contenitori a disposizione di ogni unità abitativa sono soltanto due, uno di colore marrone per l’umido e l’altro bianco «multiuso» che..., scrive Nazareno Dinoi martedì 19 febbraio 2019 su La Voce di Manduria. Avviata in forte ritardo rispetto a tutti i comuni della provincia di Taranto, la raccolta differenziata «porta a porta» nel comune di Avetrana soffre un rodaggio difficile e non privo di malesseri da parte degli abitanti convinti che si poteva fare di più. Le critiche maggiori riguardano l’insufficienza dei consumabili a corredo per ogni famiglia come buste e bidoncini per la separazione dei rifiuti, ma anche la modalità di ritiro della spazzatura e l’esclusione di alcune categorie dalla raccolta spinta. I contenitori a disposizione di ogni unità abitativa sono soltanto due, uno di colore marrone per l’umido e l’altro bianco «multiuso» che deve essere utilizzato di volta in volta come raccoglitore vetro, plastica, carta e cartone, alluminio, metalli e indifferenziato. Questo comporta da parte delle famiglie l’uso di altri recipienti personali, uno per ogni tipologia di spazzatura che sarà trasferita in quello multiuso nel giorno stabilito per il ritiro. Un solo giorno settimanale, il martedì, dedicato all’indifferenziato, inoltre, costringe gli utenti a lunghe permanenze in casa della spazzatura prodotta che deve essere contenuta in qualche secchio di fortuna perché quello bianco deve essere impiegato ogni giorno per una differente funzione. Critiche vengono mosse inoltre per la modalità di conferimento di pannoloni sanitari e pannolini per neonati. Il loro smaltimento avviene per tre giorni la settimana all’interno di buste o altri contenitori di fortuna lasciati sul marciapiede di casa con inevitabile imbarazzo per chi ci abita oltre agli ovvi problemi di odori che tale rifiuto produce soprattutto d’estate. Discriminante viene infine considerata l’esclusione degli studi professionali dalla raccolta porta a porta. Il contrato stipulato dal comune con la ditta incaricata, la «Universal Service» di San Marzano di San Giuseppe, non prevede questa inclusione costringendo i liberi professionisti (commercialisti, ingegnerei, architetti, geometri e così via) a portarsi a casa il rifiuto che sarà poi smaltito con quello domestico. Questi problemi, sommati all’impreparazione o alla inevitabile cattiva volontà di alcuni, sta producendo già i suoi effetti peggiori: nelle campagne intorno ad Avetrana fanno la loro comparsa buste di spazzatura lanciate dalle auto in corsa. Un’evenienza presa già in considerazione dall’amministrazione comunale che ha pronto un piano per l’installazione di video trappole. Il comune di Avetrana che vuole scrollarsi di dosso quel 6% della raccolta differenziata ottenuta con il vecchio sistema delle campane e dei cassonetti per le strade, investirà una somma pari a un milione e duecentomila euro l’anno estendendo il servizio anche nelle zone residenziale vicine alla costa. Ai cittadini che storcono il naso per come è stato organizzato il servizio, il vicesindaco Alessandro Scarciglia chiede comprensione e pazienza. «Siamo ancora in una fase iniziale – dice – e con lo sforzo di tutti riusciremo a superare ogni ostacolo».

Sempre che i bidoni rimangano in nostro possesso in comodato d’uso, perché un nuovo sport prende piede: il furto di bidoni e bidoncini. Le denunce presentate posso riempire centinaia di questi bidoni. E la burocrazia anche in questi casi punisce in modo grave. Dopo la denuncia seguono giorni di attesa e di adempimenti per la sostituzione di un bidoncino di pochi euro di valore.

Furbetti della raccolta differenziata non pagano la Tari e rubano i box. Saranno individuati tramite le denunce di chi ha subìto i furti, scrive il 10 Gennaio 2017 La Gazzetta del Mezzogiorno. La regola è che i rifiuti vengano depositati utilizzando gli appositi contenitori a suo tempo consegnati dalla ditta che gestisce il servizio di igiene urbana agli utenti, ma il malcostume di depositare i rifiuti senza utilizzare le betonelle non solo è duro a morire, ma è in continuo aumento. Il numero dei furbetti della differenziata è in continuo aumento tanto che a Palazzo di città nei mesi scorsi hanno dovuto fare ricorso ad un promemoria per rammentare ai cittadini che, in caso di furto delle betonelle, i nuovi contenitori possono essere richiesti gratuitamente alla Tradeco, la società che gestisce il servizio di igiene urbana nel Fasanese. «Nell’eventualità - si legge nella nota dell’Ufficio stampa del Comune - i cittadini avessero la necessità di sostituire (perché rotti o rubati) i contenitori dei rifiuti differenziati bianchi e marroni, si potranno recare, per il ritiro di quelli nuovi, direttamente alla sede della Tradeco, in contrada Sant’Angelo. I cittadini potranno recarvisi, muniti di copia della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con cui si denuncia la scomparsa dei contenitori, ogni giorno, dal lunedì al sabato, dalle ore 8 e 30 alle 13». Un vero e proprio esercito: sono davvero tanti i cittadini che, non avendo pagato le imposte e, non essendo quindi censiti, rubano i kit altrui per smaltire «correttamente» i propri rifiuti. Non si spiega altrimenti l’escalation di furti di contenitori per la raccolta differenziata. Le modalità del furto sono sempre le stesse: i raccoglitori vengono rubati nel corso nella notte, quando i proprietari li depositano all’esterno delle loro abitazioni con la frazione di rifiuti per cui è prevista la raccolta il giorno successivo. Quando hanno iniziato a registrarsi le prime scomparse di contenitori della differenziata si era pensato che dietro i furti ci fossero «bande» di ragazzini in vena di bravate. Quando, però, i colpi hanno iniziato ad aumentare in modo esponenziale è apparso chiaro a tutti che dietro i furti c’era ben altro. Al Comune si sono fatti un’idea ben precisa di quello che sta succedendo: chi non è nelle condizioni - e non lo è semplicemente perché non ha mai pagato la tassa sui rifiuti, la «famigerata» Tari - di ritirare il kit per la differenziata, per evitare di essere scoperto, i contenitori se li procura rubandoli. Più semplice di così. Di qui l’invito del Comune alle vittime di questi strani furti a denunciare l’accaduto. La denuncia serve per sapere chi usa un kit che non è il suo. Va ricordato, infatti, che ogni contenitore è dotato di un microchip e di un codice a barre. Agli addetti al ritiro dei rifiuti basta un semplice click per rendersi conto se il contenitore che hanno tra le mani è provento di furto e, di conseguenza, per scoprire chi lo sta usando indebitamente. Individuare i furbetti della differenziata non è un’impresa di quelle impossibili: basta solo passare sotto un lettore ottico i contenitori usati dagli utenti per conferire i rifiuti.

Ladri di «pattumelle», ne sono sparite 500. Qualche commerciante vuol mettere i carrellati all'interno di gabbie chiuse a chiave, scrive Fabio Casilli il 26 Ottobre 2016 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Tra un po’ sarà necessario un gran bel contenitore per tutte le denunce presentate da chi ha subito il furto di carrellati e mastelli per la raccolta differenziata. Perché negli uffici della «Monteco», società che gestisce il servizio in città, fino a questo momento ne sono state «accatastate», una sull’altra, ben 500. Tante, troppe se si tiene conto che la «differenziata spinta» è partita da appena due anni e l’intera città è stata «coperta» dalla distribuzione dei contenitori «a domicilio» (col preventivo ritiro di tutti i cassonetti stradali, ad esclusione delle campane del vetro) solo qualche mese fa. Un dato enorme, quello dei 500 contenitori sottratti: tra carrellati (i contenitori più grandi, consegnati a condomini e attività commerciali) e mastelli (quelli consegnati alle abitazioni con una sola famiglia). Come se, giusto per fare qualche esempio, gli abitanti di un quartiere come San Lazzaro o di una marina come Frigole restassero tutti, da un giorno all’altro, senza gli strumenti per la raccolta differenziata dei rifiuti. Un dato talmente enorme che qualcuno ipotizza un vero e proprio «mercato illegale» di carrellati e mastelli per organico, residuo secco, carta e plastica. A vantaggio, magari, di quanti - e sono tanti - non sono in regola con i pagamenti della Tari, la tassa comunale sui rifiuti. È bene però precisare che ogni contenitore per la differenziata, nel momento in cui viene consegnato al legittimo assegnatario, è dotato di un codice numerico. E, in quanto tale, non può essere utilizzato da nessun altro. Pare che, nei giorni scorsi siano stati anche individuati dei responsabili denunciati per furto. Ma si ipotizzano anche manovre da parte di qualcuno per «danneggiare Monteco», considerato che il costo dei nuovi carreggiati e mastelli è a carico della ditta. Senza trascurare che, in molti casi, si potrebbe anche trattare di «furti per gioco». Qualunque sia la ragione della «scomparsa» dei contenitori per la differenziata, a farne le spese sono famiglie e commercianti. Ne sa qualcosa, solo a titolo di esempio, Sergio Valentini, titolare del ristorante «Vita», situato alle spalle del cinema Massimo. «A me, nei giorni scorsi, hanno portato via un carrellato - spiega Valentini - E ho perso due giorni a fare la denuncia ai vigili urbani e poi per ottenerne uno nuovo. Pur rischiando la multa, però, il mio ristorante l’ho tenuto aperto. Abbiamo trattenuto i rifiuti all’interno e poi, dopo un paio di giorni, li abbiamo consegnati». Lo stesso Valentini ha partecipato ad una riunione tra i commercianti aderenti a Confcommercio, nel corso della quale è stata fatta la proposta di «ingabbiare» i contenitori della differenziata per scoraggiare eventuali ladri o buontemponi. «Io ho chiesto se potevo fare una gabietta, magari in stile liberty, chiusa a chiave - spiega - Una chiave resta a noi e l’altra agli operatori Monteco. Ma, da quanto sappiamo, non è possibile perché ci sarà un faccia a faccia tra Amministrazione comunale e Sovrintendenza per i dettagli sul Piano del colore e dell’arredo urbano in centro». Da Monteco allargano le braccia e ammettono che il problema esiste, eccome: «Sì, siamo attorno alle 500 denunce finora - spiegano - Perché per ottenere il nuovo contenitore, devono portarci la copia della denuncia sul furto subìto. Noi cerchiamo di consegnare il sostituto, prima possibile, proprio per evitare disagi agli utenti. Ed è utile ricordare che, per i responsabili del furto, scatta la denuncia penale».

E poi c'è la burocrazia.

Ritiro, acquisto e denuncia furto contenitori raccolta differenziata. A ciascuna utenza regolarmente iscritta nel registro TARI del Comune di Sestu (Ca)è consegnato un kit RD (raccolta differenziata) costituito da buste e contenitori dotati di un tag a radiofrequenza. In caso di furto o di rottura non imputabile agli operatori, è possibile acquistare nuovi contenitori per l'effettuazione della raccolta differenziata dei rifiuti al prezzo di € 10 ciascuno. Dato che essi sono dotati del un tag a radiofrequenza è necessario registrare il nuovo acquisto e cancellare il precedente. Per questa ragione, chi ha subito il furto di uno o più contenitori dovrà denunciarlo all’Ufficio Ambiente usando l'apposito modulo (vedi allegato in fondo alla pagina) disponibile anche presso la portineria del Municipio. Il modulo, una volta compilato, con allegata copia del documento di identità del titolare dell’utenza TARI, dovrà essere consegnato al Protocollo del Comune che provvederà al rilascio di una copia timbrata. Con quella copia sarà possibile comprare un nuovo contenitore dello stesso tipo di quello di cui si è denunciato il furto. In caso di rottura, invece, sarà sufficiente riportare il bidone rotto, così che questo venga ritirato e smaltito correttamente, e procedere all’acquisto e alla riassegnazione del tag. In nessun caso sarà possibile vendere bidoni a chi non ne denunci il furto o non ne riconsegni uno rotto della propria dotazione originaria. Il tag permette agli operatori di riconoscere se per strada si trovano dei bidoni che risultano rubati e chi avesse dichiarato un falso furto sarebbe punibile secondo le norme vigenti. Per l’acquisto sarà necessario mostrare il proprio documento di identità – se titolare dell’utenza – o delegare altri usando l'apposito modulo. Il delegato dovrà mostrare il proprio documento di identità agli operatori.

Poi bisogna combattere anche con l’arroganza degli operatori che ti riprendono per ogni errore: smaltire un certo tipo di rifiuti in giorni sbagliati o in orari sbagliati.

Se poi gli operatori minacciano di sanzione in caso di errore, allora l’ansia cresce.

Paradossale è che non puoi evitare lo smaltimento dei rifiuti versati, riciclando le cose utili buttate.

Rimini, senzatetto ruba la spazzatura dai cassonetti: denunciato per furto, scrive il 10 settembre 2018 TGcom 24. A "incastrarlo" una residente della zona. Nei confronti dellʼuomo anche lʼaggravante di aver rubato cose esposte alla pubblica fede. Un senzatetto di 48 anni è stato denunciato per furto dagli agenti della polizia municipale perché sorpreso più volte a frugare nei cassonetti, con l’aggravante di aver rubato cose esposte alla pubblica fede. È accaduto a Rimini. A presentare la denuncia una residente della zona in questione: la donna ha scattato delle fotografie al clochard e le ha portate alla polizia municipale. Lo riporta Il Resto del Carlino. Da quando la donna si è resa conto che il cassonetto della differenziata in cui andava a buttare i suoi rifiuti veniva manomesso da un uomo, ha iniziato a monitorare la situazione e a tenere d’occhio il clochard appostandosi alla finestra e scattando alcune fotografie. Dopo aver visionato le immagini - che immortalano il senzatetto intento a cercare del cibo tra la spazzatura - i vigili si sono rivolti a Hera, la società che si occupa del servizio della gestione dei rifiuti, per sapere se i bidoni fossero stati danneggiati. L’azienda ha confermato il danno e precisato che il clochard aveva portato via cose esposte alla pubblica fede. La polizia municipale, dopo aver tenuto sotto controllo l’area, ha individuato e fermato l'uomo: un 48enne di Rimini con qualche disagio psicologico, che rovista tra i cassonetti per mangiare gli scarti altrui. La denuncia è però partita ugualmente.

Clochard rovista nei cassonetti. La polizia lo denuncia per furto. Un barbone di 48 anni di Rimini è stato denunciato per furto con l'aggravante di essersi appropriato di cose esposte alla pubblica fede, scrive Giovanna Stella, Lunedì 10/09/2018, su Il Giornale. La legge non fa sconti a nessuno e anche un barbone di Rimini è stato denunciato per furto dalla polizia municipale. Il motivo? L'uomo è stato colto sul fatto mentre frugava nella spazzatura. Così è stato denunciato - come scrive il Giorno - con l'aggravante di essersi appropriato di cose esposte alla pubblica fede. Ad incastrare il barbone è stata una residente che vive nella prima periferia di Rimini. La donna ha chiamato i vigili urbani denunciando che uno dei cassonetti della raccolta differenziata del suo quartiere era stato manomesso. Ma non solo. La donna ha spiegato di aver beccato sempre lo stesso uomo a trafugare la spazzatura e così si è improvvisata detective. E con tanto di macchina fotografica alla mano, si è appostata alla finestra per cogliere sul fatto il clochard. E così è stato. Prove alla mano, è andata dritta dalla Polizia municipale denunciando l'uomo. Nelle immagini si vede appunto un uomo di spalle che dopo avere bloccato il coperchio con una sorta di bastone, ci rovista dentro. Ma la questione non si ferma qui. Perché i vigili urbani si sono rivolti a Here per sapere se quei bidoni siano stati danneggiati. E qualche giorno fa l'azienda ha risposto confermando che in quella strada uno dei cassonetti è stato rovinato e che il senzatetto si era portato via roba esposta alla pubblica fede. A quel punto gli agenti non avevano potuto fare altro che andare fino in fondo e cercare di scoprire chi sia il responsabile. E qui la verità. I vigili l'hanno fermato e identificato. È un cittadino riminese, di 48 anni. Un poveraccio che, hanno sottolineato gli agenti nel loro rapporto, soffre anche di evidenti problemi psicologici. Ma la legge vale anche per lui. Ed è scattata la denuncia per furto e violenza sulle cose.

Anche rubare la spazzatura è reato! E se il furto avviene in una piazzola ecologica c'è l'aggravante, scrive Valeria Zeppilli su studiocataldi.it. A chi non è capitato mai di incontrare dei "curiosi" che, in prossimità dei cassonetti dell'immondizia, frugano tra la spazzatura cercando di trovare qualcosa che possa essere utile. Nelle grandi città accade più spesso ma questa "caccia alla spazzatura" è una prassi che i senzatetto e i vagabondi seguono con costanza e che la crisi ha ancora più diffuso. Per il nostro ordinamento si tratta però di attività illecita: nonostante l'oggetto della sottrazione siano rifiuti, infatti, il prelevare indebitamente oggetti dai sacchetti della spazzatura va comunque considerato furto. Il rischio è quello di essere condannati ai sensi dell'articolo 624 del codice penale.

Fondamento del reato. Benché possa sembrare strano c'è una ratio alla base di tutto ciò. I rifiuti collocati nei bidoni, spesso hanno comunque un valore sociale, potendo essere riciclati o essendo necessaria la loro eliminazione dalla circolazione per motivi di salute (si pensi al cibo). Soprattutto essi divengono immediatamente di proprietà del Comune. Diverso è il caso in cui i rifiuti non sono prelevati dai cassonetti ma da terra o da altro luogo nel quale siano stati indebitamente abbandonati. In tal caso, trovare un diritto di proprietà che giustifichi la riconducibilità del comportamento alla fattispecie di furto è più complesso, se non impossibile. Si consideri però che tal volta potrebbe ricorrere in un altro illecito (Vedi: Se si trova un gioiello per la strada... Il ritrovamento di oggetti smarriti e vedi anche: Se trovi un portafogli e non lo restituisci … multa fino a 8mila euro).

Esposto del Codacons. A sostenere a gran voce che sottrarre beni dai cassonetti sia furto, in particolare, è stato il Codacons (Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell'Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori) che nel 2013 ha presentato addirittura un esposto alla Procura di Roma oltre che una diffida per mancato controllo al Comune capitolino. Il degrado inaccettabile che le persone che frugano nei cassonetti rappresentano per il Codacons è, insomma, conseguenza di una chiara ipotesi di reato. Peraltro oltre che un furto, frugare nell'immondizia, a detta dell'avvocato Bassotti che seguiva la questione, era anche un rischio non indifferente per la privacy dei cittadini.

Furto nella piazzola ecologica. Quelle che sembrano solo astratte dissertazioni, in realtà, non lo sono affatto ma, anzi, stanno iniziando a trovare vero e proprio spazio nelle aule di giustizia anche se solo limitatamente a ipotesi peculiari. Ci si riferisce, in particolare, al caso in cui la sottrazione dei rifiuti avvenga all'interno della piazzola ecologica nella quale essi sono smistati. Sostanzialmente: nel passaggio successivo a quello della loro conservazione nei cassonetti. Con la sentenza numero 350 del 23 febbraio 2016, infatti, la sezione penale del Tribunale di Udine ha condannato un uomo per aver rubato dall'area della piazzola due televisori abbandonati. Per il giudice i beni conservano comunque un valore economico, anche se sono dismessi. Oltretutto nel caso di specie non è stato possibile nemmeno applicare la non punibilità del fatto: il furto, infatti, essendo avvenuto in uno stabilimento pubblico è stato reputato aggravato, con conseguente superamento della soglia edittale massima.

Cassazione, è lecito prendere rifiuti dai cassonetti? Scrive su Il Fatto Quotidiano il 29 Luglio 2018 Gianfranco Amendola, Ex magistrato, esperto in normativa ambientale. Sempre più di frequente si vedono persone rovistare nei cassonetti di rifiuti per cercare e asportare, con sacchi e carrelli, quelli che possono essere riutilizzati o venduti. A prescindere dagli aspetti sociali, si tratta di una condotta lecita?

A prima vista, infatti, si può certamente dire che un rifiuto è una cosa che è stata abbandonata dal suo proprietario e, quindi, non ci si può lamentare se qualcun altro se ne appropria; anzi, se la riutilizza, compie un’azione meritoria in quanto contribuisce a evitare un inquinamento da rifiuti. Tuttavia, recentemente sono intervenute due sentenze della Cassazione che vale la pena di esaminare brevemente perché entrambe ipotizzano la presenza di reati.

La prima (sez. 2, pres. Prestipino, n. 14960 del 4 aprile 2018) si è occupata del caso di una donna, la quale, dopo aver trafugato nel 2013 abiti usati da un cassonetto del Comune di Venezia, si era ribellata agli agenti ed era stata condannata per rapina impropria; la Cassazione derubricava il fatto a furto aggravato (trattandosi di cose esposte alla pubblica fede), confermando quindi, comunque, che si trattava di furto (anche se ormai prescritto).

La seconda (sez. 2, pres. Davigo, n. 29018 del 22 giugno 2018) si è, invece, occupata del caso di un uomo che, a Salerno, dopo aver rovistato nelle buste dei rifiuti conferiti in regime di raccolta differenziata, al fine di asportare quanto di suo interesse, rompeva le buste che li contenevano e asportava quanto a lui utile, abbandonando il resto sulla pubblica via, con pregiudizio dell’estetica e della pulizia conseguente, risultando imbrattato il suolo pubblico in modo tale da renderlo sudicio con senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini; e concludeva che, in tal caso, è ravvisabile il delitto di deturpamento aggravato, punibile con la reclusione da tre mesi a un anno e con la multa da mille a 3mila euro.

Diciamo subito che in questa seconda sentenza, in realtà, la Cassazione non era stata interpellata circa la liceità dell’asporto di rifiuti dal cassonetto ma solo per l’imbrattamento del suolo pubblico. Ma è anche innegabile che, a differenza del primo caso, nessun reato risulta essere stato contestato per l’asporto di rifiuti, pur conferiti in regime di raccolta differenziata.

Quanto al primo caso, va sottolineato che si trattava della raccolta di indumenti usati considerati dalla legge veri e propri rifiuti solo in presenza di alcune condizioni. E, per completezza, è bene ricordare che – con sentenza numero 350 del 23 febbraio 2016 – la sezione penale del Tribunale di Udine ha condannato un uomo per aver rubato dall’area della piazzola ecologica del Comune due vecchi televisori ivi conferiti.

In ogni caso – in attesa di chiarimenti definitivi da parte della suprema Corte – mi sembra opportuno evidenziare in proposito che, soprattutto se si tratta di rifiuti riutilizzabili conferiti al Comune tramite raccolta differenziata, essi possono essere considerati proprietà del Comune che da essi può trarre profitto. E, quindi, il loro asporto può essere considerato un vero e proprio furto ai danni del Comune. Nessun dubbio, comunque, esiste quanto alla illiceità di chi imbratta e insudicia il suolo pubblico. Si potrà discutere se è delitto o contravvenzione (articolo 674 c.p.). Ma di certo non può essere una condotta lecita ed è giusto punire lo sporcaccione.

Come Andare a Caccia nei Bidoni dell'Immondizia, scrive wikihow.it. Quiz veloce! La caccia al bidone è:

A) uno sport

B) un hobby popolare tra i risparmiatori

C) un modo di vivere consapevole a livello sociale e ambientale.

Tutte e tre le risposte sono valide. Come implica il nome, la caccia al bidone (nota anche come “rumare" in certe zone) è la ricerca di oggetti preziosi o utili tra gli scarti dei bidoni - non sempre e solo quelli dell'immondizia. Che ci crediate o no però, la caccia al bidone sta diventando una moda di massa in molti paesi. Che tu stia cercando di arredare casa, riempire il frigo o cercare soldi, questa guida ti insegnerà cosa fare e non fare. Ricorda: la robaccia di un uomo può essere un tesoro per altri!

Passaggi:

1. Studia le leggi locali. In molte giurisdizioni l'immondizia è considerata proprietà privata, quindi la caccia al bidone può essere considerata furto. In alcune città ci sono ordinanze che proibiscono di scavare nell'immondizia, specie nel Regno Unito. Le leggi australiane riflettono una sottile intolleranza verso questa pratica. La caccia al bidone può infrangere diverse leggi, come quelle ambientali; può anche rappresentare una violazione della proprietà privata, un disturbo della privacy e in alcuni casi viene anche considerata un furto. In molti stati la polizia ha dei poteri speciali conferiti appositamente per fermare chi fruga nei bidoni. Fai delle ricerche riguardo alla zona in cui vivi.

2. Preparati mentalmente e adatta i tuoi metodi per evitare pratiche che riterresti disgustose. Se ti fa schifo scavare nell'immondizia, prova a rovistare nei bidoni privi di rifiuti umidi, come quelli della plastica o del legno.

3. Collabora con altri cercatori. Praticando la caccia al bidone, probabilmente incontrerai altre persone interessate a questa attività; alcune, ma non tutte, saranno amichevoli e ti aiuteranno. Se possibile, condividi consigli ed esperienze. Individua delle associazioni di cercatori online o locali, per effettuare degli scambi o chiedere agli altri di cercare articoli che ti interessano.

4. Individua i bidoni nella tua zona. Stabilisci quali sono i momenti migliori per effettuare le tue ricerche, tenendo conto degli orari in cui la nettezza urbana svuota i cassonetti. Di solito ci sono degli orari fissi.

5. Progetta la caccia a seconda di cosa cerchi. Se ti interessa soltanto il brivido della sorpresa e ti accontenti di tesori inaspettati, puoi rovistare ovunque, ma se sei a caccia di articoli specifici, devi organizzare bene la ricerca. Ad esempio, cerchi del cibo? Guarda nei bidoni dietro ai supermercati e alle panetterie. La maggior parte dei negozi butta il cibo alla data di scadenza anche se è ancora buono e, magari, solo leggermente ammaccato. Cerchi articoli grandi, come mobili o oggetti di elettronica? Dai un'occhiata al di fuori dei bidoni, perché le cose più grandi solitamente vengono lasciate accanto ai cassonetti. Chiedi consigli online, possibilmente nei forum specializzati.

6. Indossa l'equipaggiamento adatto. Guanti protettivi, maniche lunghe e pantaloni sono fondamentali per proteggersi da tagli e sporcizia. Se entri nel bidone, indossa vestiti pesanti e spessi, come i jeans, e copriti più che puoi. Proteggi i piedi mettendo scarpe chiuse o stivali. Indossa abiti ai quali non tieni.

7. Attrezzati. Porta con te almeno uno sgabello su cui salire per rovistare meglio nei cassonetti. Non dimenticare le buste di plastica in cui metterai i tuoi tesori. Accertati di avere una torcia se vai a caccia di notte. Ricordati che non devi entrare nel bidone subito, ma usa un bastone per scandagliare prima il fondo.

8. Accertati che non ci sia nessuno nei paraggi e guardati intorno. La caccia al bidone è un'attività controversa; spesso, i gestori di locali e i padroni di casa non l'accettano di buon grado, perciò preparati anche ad un confronto verbale. Non è sempre un problema se gestisci bene la situazione, ma dovresti evitarlo. Se vedi persone in giro, aspetta che non ci sia più nessuno prima di procedere.

9. Procedi con attenzione. Stai attento quando tocchi oggetti nel bidone. Vetri rotti e oggetti appuntiti potrebbero ferirti, o rischi di pungerti con un ago usato. Gli abiti protettivi in un certo senso aiutano a evitare questi problemi, ma dovresti comunque essere molto cauto mentre rovisti nei cassonetti.

10. Prendi solo ciò che ti può servire davvero. Evita di prendere articoli che non userai: ci sono altre persone che potrebbero averne un disperato bisogno mentre tu li lasceresti a raccogliere polvere in garage.

11. Ripulisci. Se hai sparso la spazzatura ovunque, raccoglila e rimettila nel bidone. Getta tutto ciò che è rimasto fuori. Lascia la zona pulita o anche più pulita rispetto a come l'hai trovata: non contribuire a peggiorare la reputazione di chi rovista nei bidoni.

12. Pulisci bene gli oggetti. La pulizia è particolarmente importante per il cibo. Controlla le cose impacchettate e lavale in una soluzione blanda di candeggina e acqua. Il cibo che acquisti nei negozi solitamente è trattato così, perciò non è nulla di drastico.

13. Ripulisciti. Fatti una bella doccia con del sapone per toglierti di dosso gli odori e i germi.

14. Impara dalle tue esperienze. Cerca di adattarti alle situazioni, perché c'è sempre da apprendere. Condividi le tue conoscenze con gli altri e aiuta chi ha meno esperienza di te.

15. Ricorda che è una pratica pericolosa! I bidoni sono tra le cose più sporche che ci siano e possono veicolare malattie. Rischi anche di contaminare la tua famiglia. Il camion dell'immondizia passa un paio di volte alla settimana in certi posti. Se resti intrappolato all'interno, potresti essere tritato. Scegli un altro hobby se possibile.

Consigli:

Se affronti un residente, un netturbino o la polizia, sii gentile e spiega ciò che stai facendo. Molte volte daranno per scontato che tu stia facendo qualcosa di illegale e non vorranno sentire ragioni. In ogni caso, mostrati sempre gentile, rispettoso e cerca di capire anche il punto di vista dell'altro: ad esempio, i proprietari di negozi che ti dicono di andartene potrebbero essere preoccupati delle conseguenze legali se ti facessi male.

Condividi questa esperienza con un amico, è più divertente e più sicuro. Un amico può aiutarti se ti fai male o se ti scontri con qualcuno.

Prima di entrare nel cassonetto, batti i lati un paio di volte per avvisare possibili abitanti (opossum, orsetti lavatori, topi, scoiattoli). Attento soprattutto ai procioni e ai topi.

Svuota le tasche e togliti qualsiasi gioiello prima di entrare nel bidone in modo da non perdere nulla.

Vai a caccia di domenica, quando i camion della nettezza urbana non passano e potresti trovare cibo e altra roba buona!

Mentre scavi, metti fuori qualche scatolone formando una pila. Se qualcuno viene a protestare, avrai una scusa pronta dicendo che cerchi delle scatole per via di un trasloco. I negozianti, in particolare, avranno una reazione migliore se non dici che stai cercando roba da rivendere.

Un grembiule bianco ti farà sembrare un impiegato di in un negozio e non verrai seccato da altri cacciatori o dalle forze dell'ordine.

Cerca su internet altri suggerimenti utili. La sezione gratuita di Craigslist è un'ottima risorsa se vivi nelle aree metropolitane americane e molte comunità hanno gruppi di riciclo dove le persone portano quello che non vogliono. Se prendi parte a qualcuna di queste comunità ricordati che dare è importante quanto ricevere.

Se sei preoccupato per la tua sicurezza, parcheggia davanti al bidone in modo che non venga spostato. A volte è illegale, ma nei giorni di raccolta potrebbe salvarti la vita.

Quando scavi in cerca di cibo, rovista nei bidoni dell'umido appena riempiti invece che in quelli molto pieni.

Uno zaino è utile ma può esserti d'intralcio. Le borse della spesa invece si possono piegare e conservare in tasca. Ti daranno meno fastidio!

I guanti di cotone sono un'idea PESSIMA. Assorbono QUALSIASI cosa. Usa il lattice.

Indossa jeans aderenti perché non si impiglieranno. Ma controlla che ti permettano di muoverti agilmente.

Un set economico di pinze da camino funziona perfettamente per trovare oggetti senza dover entrare nel cassonetto. Un cappello da minatore con la luce incorporata o una lampada sono meglio della pila.

Fai sapere al vicinato che cerchi gente disposta a cedere i propri scarti. A molti non interessa chiamare chi si occupa di beneficenza, ma sono contenti se un vicino si prende carico di quella che per loro è robaccia.

Se non ami sporcarti prova i cassonetti della carta. Solitamente sono puliti e spesso ci trovi anche del buon materiale da leggere che ti evita di abbonarti a qualche rivista.

Avvertenze:

Non prendere alcun tipo di melone dal bidone. Assorbono facilmente tutti liquidi con cui vengono a contatto. Potresti morire se ingerissi sostanze nocive.

Mai entrare in un bidone dotato di compattatore.

Non tuffarti nei cassonetti. Dovresti portare una scala ed entrare lentamente.

Impara a capire se un prodotto in scatola è scaduto perché potrebbe aver sviluppato il botulino che è mortale.

NON fumare e non usare alcun tipo di fiamma come fonte di luce mentre cerchi dentro al bidone. Non buttare la sigaretta o la cenere all'interno dei cassonetti, perché potrebbe dar vita ad un incendio molto velocemente. Non hai idea dei materiali infiammabili che possono essere dentro al bidone. E gli incendi in questi luoghi sono difficili di spegnere.

Se vai a caccia nei cassonetti industriali, non sporgerti dal bordo - potresti fratturarti le costole o farti venire un'ernia.

Indossa sempre guanti molto spessi in modo da non tagliarti o ferirti con aghi.

Considera di fare un'antitetanica e un vaccino antiepatite A/B nel caso i tuoi richiami siano scaduti. La pelle lacerata e il contatto con i fluidi potrebbe anche risultare fatale.

Non prendere materassi che potrebbero contenere insetti e pulci.

Nel Regno Unito la caccia al bidone è illegale ed è classificato come furto. Gli articoli presenti nel bidone sono di proprietà della persona che li ha buttati finché non vengono raccolti dal servizio di nettezza urbana, dopodiché diventano proprietà dello stato. La gente viene processata per la caccia al bidone. Se vuoi farlo dovresti avere il permesso del proprietario del bidone. La legge australiana non è più permissiva; spesso il padrone di casa nega il permesso di rovistare nel cassonetto perché ha paura dei risvolti legali in caso di danni alla persona.

Attento ai coperchi che si chiudono a causa del vento o della gravità.

Mai entrare in un cassonetto quando c'è in giro il camion della nettezza urbana; se si avvicina esci subito.

Non esagerare quando hai un confronto con qualcuno. Se ti chiedono di andartene, vattene anche se sai che non stai facendo nulla di illegale.

Mai prendere documenti che contengono informazioni personali e non usare questi dati per scopi illegali.

Mai entrare in cassonetti o altri bidoni protetti da un cancello o da una scritta "non oltrepassare".

Pensa ai giorni di raccolta. Accertati di non essere dentro al cassonetto quando passa il camion delle nettezza urbana.

Cose che ti Serviranno:

Vestiti resistenti e comodi che non ti interessa sporcare.

Pantaloni di pelle o jeans economici con toppe sulle ginocchia per protezione.

Scarponcini chiusi e resistenti o stivali.

Guanti.

Bidone o sgabello.

Buste di plastica.

Un bastone o qualcosa di lungo per scandagliare l'interno del cassonetto.

Lampada o torcia.

Kit di pronto soccorso.

Casco.

Igienizzante per le mani.

Pinze da camino.

Forcone.

Intanto le utenze domestiche diventano bombe ecologiche, con tanti contenitori sparsi per casa che non trovano posto.

Se la “differenziata” in cucina è una bomba batteriologica: ecco come disinnescarla, scrive Paola Guidi il 19 agosto 2017 su Il Sole 24ore. Un’autentica bomba “batteriologica”, questa è oggi diventata la nostra cucina. E nel silenzio di tutti. La raccolta differenziata ha infatti trasformato la cucina –soprattutto per chi abita in condominio- in una maleodorante discarica con rifiuti di ogni tipo in contenitori pieni zeppi di batteri, microbi, salmonelle, virus, lieviti e muffe prodotti dalla putrefazione dei cibi e dal degrado di imballi sporchi. Il fatto è che i sacchetti non vengono mai portati ogni giorno nei bidoni del condominio. E i contenitori in cucina rimangono sporchi e infettati. Raramente vengono lavati, sterilizzati e asciugati (unici rimedi per mantenere un basso livello di microrganismi dannosi), ma quello che più preoccupa è che bidoni, sacchetti e rifiuti raramente trovano posto fuori dalla cucina. Sono ormai in gran parte sistemati sotto il lavello, all'interno dei mobili componibili dove, grazie al buio, all'umidità e al caldo i microrganismi vivono e si moltiplicano di ora in ora banchettando allegramente.

Severissimi con i ristoranti, menefreghisti con le cucine domestiche. L'elenco dei microrganismi non è una nostra fantasia, lo avevamo documentato nell'articolo pubblicato su Food24 del 27 settembre 2016. È infatti il contenuto del rigidissimo protocollo HACCP imposto per l'igiene alimentare nelle cucine dei ristoranti. Ma non nelle nostre cucine dove ci si ammala parecchio tra intossicazioni, infiammazioni e allergie della pelle, disturbi digestivi, malesseri continui, che si accentuano d'estate. Circa il 33% delle malattie di origine alimentare, secondo un rapporto EFSA, l'autorità europea per la sicurezza alimentare, è provocato direttamente dalle scarsissime condizioni igieniche della preparazione e della conservazione domestiche dei cibi. E da errori colossali commessi da chi, nell'imporre la raccolta differenziata peraltro necessaria, meritoria, vantaggiosa (per le aziende private), non ha mai dedicato tempo, consigli e strumenti ai consumatori sulla necessità di tenere fuori dalla cucina almeno la fonte più pericolosa dei problemi, l'umido. Grazie anche agli errori di chi, progettisti e costruttori di mobili, inserisce nelle cucine i contenitori a incasso per la raccolta differenziata, spesso di grandi capacità, che favoriscono prolungati accumuli e che, salvano l'estetica ma non certamente la salubrità. Perché vengono puliti molto molto di rado essendo scomodi da manovrare.

“Cagnotti”, vermi e larve: i rimedi. Non li vediamo perché invisibili, ma ci sono. I bidoni allevano, secondo esperti da noi consultati, colonie fisse di vermi-spazzatura o “cagnotti”, che si nutrono dei rifiuti e si moltiplicano con il calore e l'umidità in particolare d'estate. Il guaio è che tutto -microrganismi pestiferi, cagnotti, bestioline varie- è assolutamente invisibile. Ma molto molto mobile poiché grazie alle mani e agli utensili, alle pentole, agli strofinacci e alle spugnette questi microrganismi si trasferiscono nei cibi. Come abbiamo sottolineato, questo mix tossico provoca un aumento di allergie che spesso vengono trascurate. Ma che possono diventare croniche, soprattutto se esaltate dal caldo e dall'inquinamento. Inoltre, la scienza non conosce ancora bene i danni alle vie respiratorie che possono provenire dagli odori cattivi (sono sostanze chimiche vere e proprie) ma è assodato che sempre più persone accusano allergie, intolleranze, difficoltà respiratorie in presenza di muffe e odori forti e sgradevoli provenienti da rifiuti marci. Che fare?

1-Tenere all'esterno, sul balcone, sul davanzale (ben ancorato) il sacchetto dell'umido e possibilmente anche gli altri contenitori. Se avete poco tempo e poca voglia di seguire le nostre indicazioni sulla pulizia, un rimedio c'è: comprate (costano pochissimo) dei portasacchi per i sacchi differenziati: sono strutture semplicissime che non richiedono nessuna manutenzione; il sacco si appende e poi si toglie. In pochi secondi e con una pulizia assoluta e niente odori.

2-Tenere tutto pulito e disinfestato. Occorre svuotare di frequente ogni contenitore, lavare con acqua e candeggina tutto, quindi cospargere il fondo di sale (tanto). Chiudendo bene il bidone: candeggina e sale sono in grado di eliminare sia pure per poco qualsiasi animaletto. Ottimi la lacca per capelli, l'antizecche dei cani e persino la lavanda, insopportabile per i vermi.

3-Ogni rifiuto alimentare dovrà sempre essere avvolto in carta assorbente o di giornale.

4-Quando c'è lo spazio, tutti i contenitori per i diversi sacchetti dovranno essere posti al di fuori della cucina. In vendita si trovano contenitori per la raccolta differenziata dove sistemare i sacchetti per i differenti rifiuti. Nel 90% dei casi sono difficili e brigosi da pulire. Meglio secchiette e bidoncini separati…

5-Guadagnare con i rifiuti? Si, si cominciano a vedere gli Eco-Point di Garby, si tratta di raccoglitori di alluminio e di tutti i tipi di plastiche compresi i tappi, che compattano questi rifiuti riducendone l'ingombro dell'80%. In cambio si ricevono dei coupon per fare la spesa scontata presso gli esercizi commerciali convenzionati.

6-Compostaggio, conviene-Avete piante, orto, giardino o anche solo qualche vaso? I rifiuti alimentari –con qualche piccola eccezione- sono tutti utilizzabili per fare il concime migliore che ci sia, ovvero il compost che renderà il vostro verde molto resistente a insetti, infestanti, parassiti e persino ai bruschi cambiamenti climatici. Ma per evitare delusioni e puzze è bene acquistare contenitori previsti per questo scopo. Nature Mill è il primo composter domestico che in due settimane e in modo pulito “digerisce”, lavorandoli omogeneamente, i rifiuti e produce dell'ottimo Humus. Così ne guadagneranno in igiene e salubrità la cucina e chi la abita.

7-Tritiamo i rifiuti? Si, se è possibile installare il potente tritarifiuti elettrico da lavello e se abitate in un appartamento che non consente di trattare i rifiuti organici trasformandoli in compost. Vi accorgerete quanti e quali vantaggi derivano da questo elettrodomestico: più spazio sotto il lavello, meno odori, più igiene e meno lavoro.

E che dire delle città e dei paesi che sono delle vere bidonville maleodoranti, ossia strade invase da bidoni perenni posti sui marciapiedi (da 2 a 5 per utenza non domestica, come negozi, ristoranti, attività artigianali e professionali, ecc.).

Dove ci sono loro (i bidoni) è impedito il transito ai pedoni.

Intanto i pseudo ambientalisti osteggiano i termovalorizzatori per meri intenti speculativi.

Tari, nei comuni virtuosi si paga di più. Perché? Testo tratto dal corriere.it del 28 ottobre 2018. Lesmo è un piccolo Comune ai margini del parco della Villa Reale di Monza. Nel 2017 i suoi 8.500 abitanti hanno raggiunto un traguardo quasi danese: sono riusciti a differenziare il 92% dei loro rifiuti. Eppure quest’anno pagheranno il 5,6% di Tari in più. Il Sud differenzia poco (37,6 %) e ha 777 impianti di recupero. Il Nord differenzia molto (64,2) e di impianti ne ha 4.102; eppure continua a subire i maggiori rincari. Il caso più emblematico è quello della Lombardia, con una raccolta differenziata al 68,1%, ben 1.122 impianti, e i continui aumenti della tassa sui rifiuti: a Monza (+1%), a Lodi (+3), a Desenzano del Garda (Brescia) (+ 5%), a Treviglio (+6%), a Lecco (+12%), a Lazzate (Monza) (+25%), solo per citarne alcuni (controlla il tuo comune). Una nuova ondata di rincari è attesa anche per il 2019, a fronte di un servizio rimasto invariato. Ma non ci hanno sempre detto «Più sarai virtuoso e più si abbasseranno le tasse»?

Perché aumentano le tasse sui rifiuti. Secondo il giudizio concorde di operatori e amministratori locali, dipende tutto dall’articolo 35 del decreto Sblocca Italia approvato nel 2014 dal Governo Renzi, con Galletti ministro dell’Ambiente, che impone alle regioni con più inceneritori di smaltire i rifiuti provenienti da territori carenti di impianti e in perenne emergenza. La Lombardia, prima in Italia con 13 termovalorizzatori, seguita dall’Emilia Romagna (8) e dalla Toscana (5), ha quindi aperto le porte ai Tir e ai treni speciali, carichi di eco balle, che arrivano dalla Calabria, ma soprattutto dal Lazio e dalla Campania. Nel 2016, primo anno a pieno regime con le nuove norme, quante tonnellate di rifiuti di importazione sono state trattate negli inceneritori lombardi? Impossibile saperlo con esattezza, l’unico dato è quello fornito da Ispra: 190 mila tonnellate. I numeri del 2017 non sono ancora noti, ma secondo le stime la quantità è aumentata. Sappiamo che dalla Campania sono uscite 1 milione di tonnellate in direzione Nord.

I rifiuti del sud verso gli inceneritori del nord. Siccome quello dei rifiuti è un business che risponde alle leggi del mercato, i gestori degli impianti hanno alzato i prezzi: il costo del «secco» è passato dagli 82 euro a tonnellata di fine 2017 ai 110 euro di oggi; quello degli ingombranti, è passato dagli 85 euro a tonnellata ai 190 euro di oggi (+123% dal 2016). Inoltre la capacità massima degli impianti non è più stabilita dalla quantità di rifiuti trattata, ma dal loro potere calorifico. Tradotto: più basso è il potere calorifico, più rifiuti può trattare l’inceneritore e maggiore è il guadagno per i gestori. I rifiuti con il potere calorifico più basso sono quelli «sporchi», cioè il residuo secco contaminato da altre componenti, proveniente dalle zone in cui la raccolta differenziata è meno spinta o efficace. Visto che in Lombardia la raccolta differenziata è a livelli alti, i gestori preferiscono trattare i rifiuti sporchi che arrivano da regioni come Lazio (raccolta differenziata al 42,4% nel 2016), Campania (51,6%) o Calabria (33,2%). In sostanza, chi è stato più virtuoso viene penalizzato. Con un effetto paradossale: la Lombardia, fra le prime a uscire dalla grande emergenza degli anni ‘90, e dove per ridurre l’impatto ambientale si stava valutando la dismissione di 3 termovalorizzatori (quelli di Sesto San Giovanni, Cremona e Busto Arsizio), adesso è di nuovo al collasso. E il conto lo stanno già pagando i residenti dei Comuni lombardi.

Come guadagna la criminalità? In un contesto difficilmente controllabile si è sviluppata una criminalità «specializzata» che incassa per il trasporto e smaltimento di tonnellate di rifiuti, ma che, una volta riempiti i depositi, li abbandona o li brucia, risparmiando così milioni di euro. I carabinieri del gruppo Noe di Milano, impegnati in tutto il Nord Italia, continuano a scoprire e sigillare capannoni stipati di rifiuti (urbani e speciali). L’ultimo a Pregnana Milanese, con oltre mille metri cubi di residui plastici. Inoltre gli incendi dolosi, solo quest’anno, sono stati 29. Il fumo che ha coperto Corteolona nel Pavese il 3 gennaio scorso, proveniva dalle fiamme di un capannone industriale con dentro 1.850 tonnellate di rifiuti speciali. Il 12 ottobre, sei persone sono state arrestate con l’accusa di attività organizzata finalizzata al traffico illegale. Per alcuni di loro c’è anche l’accusa di aver dato volontariamente alle fiamme il capannone con tutto il suo contenuto nocivo. Altre 5.100 tonnellate di rifiuti industriali erano state abbandonate in un impianto di Corsico; guadagno sul mancato costo di smaltimento: un milione di euro. Uno degli imprenditori arrestati aveva già individuato altri due capannoni, uno a Levate nel Bergamasco, l’altro in provincia di Sondrio. Per gli inquirenti, si preparava a replicare il modello Corteolona.

La plastica «sporca» che la Cina non vuole più. Infine, ad incidere sull’aumento dei costi di smaltimento, c’è l’abitudine, diffusa un po’ ovunque, di buttare nel cassonetto della plastica contenitori sporchi o contaminati. Se fino a ieri non era un problema, perché la plastica di cattiva qualità riuscivamo a venderla ai cinesi, oggi ci rimane in casa. «La Cina ha deciso di smaltire e riciclare solo ciò che produce nel proprio vastissimo territorio» — spiega il docente del Politecnico di Milano Mario Grosso — «e di conseguenza gli scarti del riciclaggio oggi ingolfano il nostro sistema di smaltimento». Una tonnellata di rifiuti in plastica ben selezionati vale tra i 300 e i 400 euro. Circa 200 euro vengono pagati in origine dalle aziende che utilizzano imballaggi in plastica, per finanziare raccolta e riciclo. Il consorzio Corepla versa poi ai Comuni una cifra variabile tra i 200 e i 300 euro, in funzione della qualità del materiale raccolto. «Da ogni centro di selezione escono balle costituite da polimeri di qualità, che può essere venduta per un reimpiego industriale — aggiunge Grosso — ma il materiale scartato non è riciclabile, ed è un costo che il consorzio deve sostenere per lo smaltimento». E sono proprio questi materiali di scarto che sono stati bruciati due settimane fa a Milano, dove i cittadini sono stati costretti a tenere le finestre chiuse per tre giorni. 

Raccolta differenziata, quanto ci guadagnano i Comuni? Scrive Alternativa Sostenibile. L'Accordo quadro Anci - Conai. Il Contributo Conai e l'accordo quadro Anci - Conai, in sintesi, per comprendere il meccanismo raccolta differenziata degli imballaggi e valorizzazione economica per i Comuni. Il sistema CONAI coinvolge le imprese, che producono e utilizzano gli imballaggi, la Pubblica Amministrazione, che stabilisce le regole per la gestione dei rifiuti sul territorio, i cittadini, che con il gesto quotidiano della raccolta differenziata danno inizio ad un processo virtuoso per l’ambiente, fino ad arrivare alle aziende che riciclano.

CONAI è un Consorzio privato senza fini di lucro che costituisce, in Italia, lo strumento attraverso il quale i produttori e gli utilizzatori di imballaggi garantiscono il raggiungimento degli obiettivi di riciclo e recupero dei rifiuti di imballaggio previsti dalla legge. CONAI da 20 anni rappresenta un efficace sistema Consortile a cui aderiscono oltre 900.000 imprese produttrici e utilizzatrici di imballaggi. Nato sulla base del Decreto Ronchi del 1997, il Consorzio ha segnato il passaggio da un sistema di gestione basato sulla discarica ad un sistema integrato, che si basa sulla prevenzione, sul recupero e sul riciclo dei sei materiali da imballaggio: acciaio, alluminio, carta, legno, plastica e vetro. CONAI collabora con i Comuni in base a specifiche convenzioni regolate dall’Accordo quadro nazionale ANCI-CONAI, mentre le aziende produttrici ed utilizzatrici aderiscono al Consorzio e versano un Contributo obbligatorio che rappresenta la forma di finanziamento che permette a CONAI di intervenire a sostegno delle attività di raccolta differenziata e di riciclo dei rifiuti di imballaggi.

Il CONAI coordina a sua volta l'attività di 6 Consorzi, uno per ogni materiale: acciaio (Ricrea), alluminio (Cial), carta/cartone (Comieco), legno (Rilegno), plastica (Corepla), vetro (Coreve), garantendo il necessario raccordo tra questi e la Pubblica Amministrazione.

 Il Sistema CONAI garantisce il rispetto del principio della responsabilità estesa del produttore, ripartendo tra produttori e utilizzatori il Contributo Ambientale CONAI (CAC). Aderendo a CONAI, il produttore/utilizzatore è tenuto a versare il CAC, differenziato per tipologia di imballaggio immesso sul mercato. Come CONAI ne viene trattenuta una minima parte per lo svolgimento delle funzioni, mentre una parte rilevante viene trasferita ai Consorzi di filiera i quali, a loro volta, nel rispetto di quanto previsto dall’Accordo quadro ANCI-CONAI, riconoscono ai Comuni convenzionati i corrispettivi economici per la copertura dei maggiori oneri derivanti dalla raccolta differenziata degli imballaggi.

E i comuni quanto ci guadagnano dalla raccolta differenziata, o meglio quanto è versato loro per ogni tonnellata di materiale raccolto (importi che servono per abbattere il costo della raccolta differenziata)? Va detto che questo guadagno, previa stima in fase di progetto, può essere detratto dal costo industriale del servizio (ne risulta, quindi, il canone netto percepito dagli utenti) se le deleghe ad incassare sono girate all'appaltatore. Questa facoltà varia da Regione a Regione, in funzioni di normative specifiche.

Corrispettivi massimi per la raccolta differenziata dei materiali:

2016 €/ton, 2017 €/ton

Acciaio 112,43 114,48

Alluminio 551,60 551,60

Carta 40,65 40,65

Cartoni 96,78 96,78

Legno 16,75 16,75

Plastica 303,88 303,8

Vetro 51,85 51,85

Raccolta differenziata: nessun risparmio sulle tasse, scrive il 26 Settembre 2015 Temistocle Marasco su laleggepertutti.it. I cittadini fanno la raccolta differenziata ma la tassa sui rifiuti non diminuisce e, anzi, a volte aumenta: le ragioni della mancata riduzione dei costi. La raccolta differenziata è partita un po’ ovunque: il “secchio unico”, vecchio stile, ha ceduto il passo alla famiglia di bidoncini necessari a separare i diversi materiali. Il problema principale era (ed è) riuscire a superare le consolidate abitudini per fare posto ai nuovi e più ingombranti sistemi di raccolta. L’argomento più convincente è il risparmio in bolletta: più ricicli, meno rifiuti sono destinati in discarica, più si abbassano le tasse sulla spazzatura. Il principio è reale, chiaro e codificato. Dal 1996, infatti, è stata istituita la cosiddetta “ecotassa”, un tributo speciale che, in prima battuta, versa il gestore della discarica, ma con obbligo di rivalsa sui soggetti che conferiscono i rifiuti in essa, cioè sui Comuni; questi ultimi, a loro volta, pagheranno l’imposta prelevando il denaro dalle tasche dei contribuenti. A quanto dicono i numeri, nonostante i cittadini abbiano abbracciato – chi più, chi meno – la differenziata, le tasse non si sono abbassate e, anzi, in alcuni casi sono anche aumentate. C’è da capirne il perché. In alcune zone la differenziata è cominciata da poco e sconta la fase di “avviamento” (soprattutto laddove è stato istituito il “porta a porta”, inizialmente i costi possono lievitare); in altre viene fatta poco, in altre viene fatta male, in altre ancora un mix di entrambe. Al di là di queste situazioni, però, in molti Comuni sono state raggiunte buone percentuali. Ciò vuol dire minori conferimenti in discarica e possibilità di vendere ciò che è stato separato. Il 10% della differenziata è inservibile poiché inserita nel contenitore sbagliato o perché il materiale è troppo compromesso (si pensi al cartone della pizza unto di olio o intriso di liquido); un’altra parte non viene pagata ai Comuni a prezzo pieno poiché non è pulita (si pensi al barattolo di marmellata che presenta all’interno dei residui) e le ditte che acquistano devono provvedere da sé a questa operazione. Ma può bastare ciò a giustificare le mancate riduzioni delle tasse e, in alcuni casi, addirittura un loro aumento? Sembra paradossale ma i costi aumentano se il Comune di turno, pur incoraggiando e proponendo la differenziata, non ha poi i mezzi e le strutture necessarie per gestirla: parliamo, ad esempio, dei depositi di stoccaggio temporaneo oppure degli impianti per il trattamento della frazione umida. In caso di loro assenza, l’unica soluzione è il trasporto e lo smaltimento in altri Comuni, se non addirittura in altre regioni, con il concreto pericolo che i costi superino i benefici. Per tali motivi, se l’ambiente ne trae comunque un guadagno, fino a quando gli enti pubblici non riusciranno a dotarsi di un apparato efficiente, i cittadini potrebbero non essere premiati in bolletta per l’impegno profuso.

CONTRIBUTO AMBIENTALE. Il Contributo Ambientale CONAI rappresenta la forma di finanziamento attraverso la quale CONAI ripartisce tra produttori e utilizzatori il costo per i maggiori oneri della raccolta differenziata, per il riciclaggio e per il recupero dei rifiuti di imballaggi. Tali costi, sulla base di quanto previsto dal D.lgs. 152/06, vengono ripartiti “in proporzione alla quantità totale, al peso e alla tipologia del materiale di imballaggio immessi sul mercato nazionale”. A venti anni dalla fondazione del Consorzio, il Contributo Ambientale CONAI, stabilito sin dal 1998 per ciascuna tipologia di materiale di imballaggio, non è più unico per materiale. La finalità è di incentivare l’uso di imballaggi maggiormente riciclabili, collegando il livello contributivo all’impatto ambientale delle fasi di fine vita/nuova vita. CONAI ha scelto di avviare la diversificazione del contributo ambientale a partire dal materiale più complesso per la varietà delle tipologie e per le tecnologie di selezione e di riciclo. In passato erano già state introdotte alcune agevolazioni per gli imballaggi riutilizzabili impiegati all’interno di circuiti controllati e particolarmente virtuosi dal punto di vista ambientale.

Entità del Contributo Ambientale per materiale in vigore:

Acciaio 3,00 €/t dal 1° gennaio 2019

Alluminio 15,00 €/t dal 1° gennaio 2019

Carta 20,00 €/t dal 1° gennaio 2019 40,00 €/t dal 1° gennaio 2019 per gli imballaggi poliaccoppiati a prevalenza carta idonei al contenimento di liquidi

Legno 7,00 €/t 

Plastica Fascia A: 150,00 €/t, Fascia B1: 208,00 €/t, Fascia B2: 263,00, Fascia C: 369,00 €/t dal 1° gennaio 2019

Vetro 24,00 €/t dal 1° gennaio 2019

Le norme consortili prevedono che le somme dovute da tutti i Consorziati, Produttori e Utilizzatori, siano sempre prelevate, sulla base di una specifica indicazione in fattura dell’ammontare dovuto sulla base del peso e della tipologia del materiale di imballaggio oggetto della prima cessione. Per prima cessione si intende il trasferimento, anche temporaneo e a qualunque titolo, nel territorio nazionale:

dell’imballaggio finito effettuato dall’“ultimo produttore” al “primo utilizzatore”;

del materiale di imballaggio effettuato da un “produttore di materia prima (o di semilavorati)” ad un “autoproduttore” che gli risulti o si dichiari tale.

Inoltre le stesse norme prevedono che i materiali di imballaggio e gli imballaggi importati dall’estero siano soggetti al Contributo Ambientale in quanto il loro utilizzo darà luogo a rifiuti sul territorio nazionale.

Aspetti fiscali. Il Contributo Ambientale CONAI esposto nella fattura di vendita rientra nel campo di applicazione IVA e va assoggettato alla medesima aliquota (vigente al momento di effettuazione dell’operazione) degli imballaggi o dei materiali di imballaggio oggetto della cessione. Pertanto, in caso di cessione di imballaggi ai clienti che hanno presentato dichiarazione di intento ex articolo 8, comma 1, lettera c), del Dpr 633/1972, il Contributo Ambientale sarà applicato in esenzione IVA.

IL CONTRIBUTO CONAI.

Contributo CONAI - Cos'è il contributo CONAI? Il contributo CONAI è un importo inserito in fattura che si riferisce ai costi di riciclo e gestione degli imballaggi. Il contributo CONAI prende il nome dal Consorzio Nazionale Imballaggi, ente privato e senza scopo di lucro che si occupa della gestione degli imballaggi. Si tratta di un importo che rientra nell'imponibile IVA di una fattura e che varia per il tipo di materiale utilizzato e che viene utilizzato per coprire i costi di smaltimento. Questo costo viene ripartito tra produttori e utilizzatori di imballaggi che devono pertanto iscriversi al Consorzio sotto un profilo diverso a seconda del ruolo che ricoprono. Il contributo deve essere pagato una sola volta per imballaggio al momento della prima cessione ovvero il momento in cui questo passa dall'ultimo produttore al primo utilizzatore.

Chi deve versare il contributo CONAI? I produttori. Abbiamo già detto che questo contributo ambientale deve essere sostenuto da produttori e utilizzatori di imballaggi.

Quali sono le categorie interessate e come si devono registrare al Consorzio?  Tutti i produttori devono iscriversi come tali e iscriversi ai diversi statuti quando richiesto.

Chi produce elementi che vengono utilizzati imballaggi. Obblighi: applicare il contributo solo quando vende i prodotti agli autoproduttori ovvero coloro che producono i propri imballaggi per vendere la propria merce.

Chi importa materie prime per imballaggi. Categoria di registrazione: registrazione agli statuti consortili per i diversi materiali. Obblighi: applicare il contributo e dichiararlo.

Chi produce semilavorati che possono essere poi usati per imballaggi. Obblighi: L'applicazione del contributo e la relativa dichiarazione devono avvenire nel caso in cui si venda a autoproduttori.

Chi importa semilavorati. Obblighi: applicare il contributo e dichiarare le relative operazioni.

Chi produce imballaggi vuoti. Categoria di registrazione: produttori e adesione agli statuti consortili per i relativi materiali. Obblighi: contributo per ogni materiale degli imballaggi venduti e per quelli creati per utilizzo proprio per le merci da vendere.

Chi importa e rivende imballaggi vuoti. Categoria di registrazione: produttori e statuti consortili. Obblighi: Applicazione del contributo a tutti i materiali e beni e relativa dichiarazione

Chi deve versare il contributo CONAI? Gli utilizzatori. Passiamo ora agli utilizzatori di imballaggi che pur non immettendo direttamente l'imballaggio nel sistema lo utilizzano ed sono responsabili della gestione di questi materiali unitamente ai produttori. Per tutti gli utilizzatori è necessario indicare il settore di appartenenza al momento della registrazione al CONAI.

Chi compra e riempie imballaggi vuoti. Obblighi: Pagare il contributo indicato nelle fatture di acquisto e riportare il riferimento legislativo al contributo al momento della vendita ai clienti. La dichiarazione periodica e il versamento del contributo devono seguire le leggi di importazione nel caso in cui il fornitore sia estero.

Chi importa merci imballate. Obblighi: Pagamento del contributo per tutti gli elementi indicando i singoli materiali se necessario.

Autoproduttori. Si definiscono tali coloro che acquistano degli imballaggi per confezionare le proprie merci. Obblighi: Pagari il contributo indicato nella fattura del fornitore e riportare il riferimento legislativo nelle fatture attive. Inoltre è necessario effettuare la dichiarazione per tutti i casi in cui i materiali acquistati servano per la vendita delle merci.

Chi commercia. Nel caso in cui i fornitori siano italiani, è necessario solo riportare i riferimenti legislativi mentre il pagamento del contributo e la relativa dichiarazione vengono richiesti per fornitori stranieri poichè questo scenario si considera equivalente all'importazione.

Chi commercia in imballaggi vuoti. Si applicano le stesse regole del punto precedente.

I CONSORZI. SISTEMA CONAI.  I 6 Consorzi garantiscono il ritiro dei rifiuti di imballaggio di acciaio, alluminio, carta, legno, plastica e vetro raccolti in modo differenziato, la lavorazione e la consegna al riciclatore finale, che può essere un singolo impianto o un intermediario accreditato. Compito di ciascun Consorzio è dunque quello di coordinare, organizzare e incrementare:

il ritiro dei rifiuti di imballaggi conferiti al servizio pubblico;

la raccolta dei rifiuti di imballaggi delle imprese industriali e commerciali;

il riciclo e il recupero dei rifiuti di imballaggio;

la promozione della ricerca e dell’innovazione tecnologica finalizzata al recupero e riciclaggio.

Ricrea è il Consorzio che dal 1997 si preoccupa di assicurare il riciclo degli imballaggi in acciaio quali barattoli, scatolette, tappi, fusti, lattine e bombolette provenienti dalla raccolta differenziata organizzata dai comuni italiani. Nel 2016 Ricrea ha assicurato il riciclo di 360.294 tonnellate di imballaggi in acciaio, pari al peso di 50 Tour Eiffel. Con le  5.300.000 tonnellate di acciaio riciclate in 20 anni di attività da Ricrea si potrebbero realizzare 53.300 km di binari ferroviari pari ad oltre il doppio dell’intera linea ferroviaria italiana. 

CiAl è un consorzio senza fini di lucro che rappresenta l’impegno assunto dai produttori di alluminio e dai produttori e utilizzatori di imballaggi in alluminio, nella ricerca di soluzioni per ridurre e recuperare gli imballaggi, conciliando le esigenze di mercato con quelle di tutela dell’ambiente. Nell’ultimo anno, attraverso la collaborazione di 53 milioni di cittadini italiani coinvolti nella raccolta differenziata dell’alluminio, attiva in oltre 6.600 Comuni, il Consorzio ha recuperato il 73% degli imballaggi in alluminio immessi sul mercato nazionale.

Comieco è il Consorzio Nazionale che garantisce il recupero e riciclo di carta e cartone raccolti dagli Italiani. I consorziati a Comieco sono i produttori di materia prima per imballaggio e produttori di imballaggio in carta e cartone, importatori di imballaggi vuoti, i recuperatori (piattaforme di selezione del macero) e simpatizzanti. La sua finalità principale è il raggiungimento degli obiettivi di riciclo previsti dalla normativa attraverso una politica di prevenzione, educazione e sviluppo della raccolta differenziata. Dal 1998 al 2016, grazie al lavoro di squadra dell’intera filiera, la percentuale di riciclo degli imballaggi cellulosici in Italia è passata dal 37% all’80%: oggi vengono riciclate 10 tonnellate di macero al minuto. 

Rilegno nato 20 anni fa, ha il compito di organizzare e garantire in tutta Italia la prevenzione, il recupero e il riciclo degli imballaggi in legno. In questi 20 anni la filiera gestita da Rilegno ha recuperato 27,5 milioni di tonnellate di legno diventando così un’eccellenza riconosciuta in tutta Europa. Rilegno ogni anno recupera oltre il 63% degli imballaggi immessi al consumo, pari a 1.785.000 tonnellate, e li trasforma principalmente in pannelli per realizzare mobili. Con i suoi 2.300 consorziati Rilegno promuove la cultura e l’innovazione ponendo l’uomo al centro di un’economia circolare del legno verso un futuro sostenibile. 

Corepla è il Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica, a cui partecipa l’intera filiera industriale: produttori e trasformatori di materie plastiche per la fabbricazione di imballaggi, nonché, su base del tutto volontaria, imprese utilizzatrici e recuperatori/riciclatori di rifiuti di imballaggi in plastica. Grazie a Corepla, nel 2016 sono state avviate a riciclo e recupero oltre 960.000 tonnellate di imballaggi in plastica, provenienti dalla raccolta differenziata di più dell’80% dei Comuni italiani. 

Coreve è il Consorzio nazionale responsabile del riciclo e del recupero dei rifiuti d’imballaggio in vetro prodotti sul territorio nazionale. Vi aderiscono tutti i produttori di imballaggi in vetro e gli importatori, sia imbottigliatori che grossisti.  Il Consorzio razionalizza, organizza, gestisce e promuove il ritiro dei rifiuti d’imballaggio in vetro, provenienti dalla raccolta differenziata effettuata dal servizio pubblico, garantendone l’avvio a riciclo. Nell’ultimo anno, grazie a CoReVe, sono state riciclate quasi 1.700.000 tonnellate di rifiuti d’imballaggio in vetro. 

I sei materiali di imballaggio: Acciaio, Alluminio, Carta e Cartone, Legno, Plastica, Vetro. ,  

Ambiente, che fine fa il nostro frigorifero: viaggio nel mondo del riciclo dei RAEE, scrive il 20 febbraio 2019 Repubblica tv. Ecodom è il principale Consorzio italiano per il recupero e il riciclaggio degli elettrodomestici, una realtà privata e senza scopo di lucro che è costituita dai principali produttori di elettrodomestici, cappe e scalda acqua sul mercato italiano. L'obbiettivo è quello di gestire i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, i così detti RAEE. Dal 2008 Ecodom effettua il ritiro dei RAEE Domestici dai Centri di Raccolta e il loro trattamento presso impianti specializzati, così da evitare la dispersione di sostanze inquinanti nell'ambiente e recuperare i materiali da reinserire nel ciclo produttivo. Solo nel 2018 il consorzio ha gestito più 105mila tonnellate di apparecchiature.

Raccolta differenziata, il consorzio crocevia dei soldi comunali ha tra i suoi consulenti lo studio del delegato Anci. Filippo Bernocchi, avvocato e politico toscano legato ad Altero Matteoli ricopre da anni un ruolo determinante nel fare gli interessi degli enti trattando con il Conai costi e rimborsi per la differenziata. Il suo studio, però, cura da tempo i recuperi crediti del consorzio. L'interessato: "Mai fatto sconti". Resta il fatto che il sistema di raccolta economicamente pesa di più sulle spalle dei contribuenti che su quelle degli produttori di imballaggi. E le anomalie non finiscono qua, scrive Luigi Franco, il 9 Dicembre 2016 su Il Fatto Quotidiano. L’Italia è il Paese dei conflitti di interesse, niente di nuovo. Ma quelli che si possono scovare nel sistema della raccolta differenziata dei rifiuti hanno dell’incredibile. Prendiamo la figura di Filippo Bernocchi, avvocato e politico toscano legato all’ex ministro dell’Ambiente ed ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli. Bernocchi è da anni il delegato a Energia e rifiuti dell’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, e sotto la presidenza di Sergio Chiamparino ne è stato anche il vicepresidente. Da tempo, insomma, ricopre un ruolo determinante nel fare gli interessi dei comuni nella gestione dell’immondizia. Una delle sue controparti è il Conai, il consorzio privato che è al centro del sistema della raccolta differenziata degli imballaggi. Le cose funzionano così: per ogni tonnellata di imballaggi immessa sul mercato i produttori di imballaggi versano un contributo (cac, contributo ambiente Conai) al Conai, controllato dagli stessi produttori. Il sistema Conai, costituito dal Conai e da sette ‘sotto-consorzi’ (ciascuno dedicato a un materiale da riciclare), riconosce poi ai comuni un corrispettivo a tonnellata che dovrebbe compensare gli extra costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi rispetto a quella dei rifiuti generici. Questo corrispettivo viene stabilito ogni cinque anni a seguito di una trattativa tra Anci e Conai, come accaduto nel 2009 e nel 2014 con Bernocchi nel ruolo di responsabile rifiuti per l’Anci. In sostanza, quanto più lui è bravo a fare gli interessi dei comuni, tanti più soldi entrano nelle loro casse per finanziare la raccolta degli imballaggi. E, di conseguenza, tanti più soldi il Conai dove sborsare. Anci e Conai, per questo, sono due controparti. Ma ilfattoquotidiano.itha scoperto che da diversi anni il Conai ha un legame con lo studio legale dello stesso Bernocchi. Lo studio, infatti, attraverso un altro avvocato, cura il recupero crediti del Conai, e cioè i contributi cac evasi dai produttori di imballaggi. Bernocchi: “Mai favorito il Conai”. Ma la raccolta differenziata pesa soprattutto sui comuni – A quanto arrivano gli onorari pagati in questi anni dal Conai allo studio di Bernocchi? “Non glielo so dire, non me lo ricordo”, risponde il direttore generale del consorzio Walter Facciotto. “E’ uno degli studi che noi abbiamo. Fa attività di recupero crediti per noi come la fanno altri studi. Ne abbiamo sette o otto, con tutti abbiamo contratti che prevedono le stesse tariffe”. Beh, ma tra tutti gli studi legali che ci sono in Italia, proprio quello di Bernocchi dovevate scegliere? “Non so neanche quanto lui si occupi di queste cose, noi abbiamo rapporti con un’altra persona, un’avvocatessa”. Se dal Conai non si fanno grossi problemi di opportunità, Bernocchi che dice? “In questa vicenda non c’entro – sostiene il delegato dell’Anci -. Io personalmente, con la mia partita Iva, non curo il recupero crediti per il Conai, né ho conflitti di interessi, né seguo personalmente cause del Conai, né ho redditi che vengono dal recupero crediti del Conai”. Sì, ma ce li ha un avvocato associato al suo studio. E’ opportuno? “Un avvocato che ha la sua partita Iva può fare quello che gli pare, non deve avere pregiudizi per il fatto di conoscere me o collaborare con me – risponde Bernocchi -. Ha il suo lavoro e fa quel cazzo che gli pare”. E ancora: “Se un avvocato che svolge il suo lavoro autonomamente ha fatto una gara e ha vinto un servizio, è bene che lo faccia. Non è corretto che solamente per il fatto di lavorare con me gli vengano pregiudicate delle occasioni di lavoro”. Fino ad arrivare a una domanda che a questo punto è d’obbligo. E Bernocchi se la fa da solo: “Mi vuol chiedere se io, nella mia attività di responsabile dei rapporti con il Conai, abbia mai fatto sconti su qualcosa a causa di qualche interessamento nel settore del recupero crediti o di eventuali aspetti professionali? Mai, mai, mai”. A fronte dei “mai” di Bernocchi, qualche dato è bene riportarlo. Il sistema Conai, prendendo per esempio il 2015, ha incassato 593 milioni di euro grazie al cac e circa 225 dalla vendita dei materiali conferiti dagli enti locali, mentre ai comuni ha versato solo 437 milioni. Numeri che contribuiscono a creare una situazione che lo scorso febbraio è stata descritta così dall’Antitrust: “Il finanziamento da parte dei produttori (attraverso il sistema Conai) dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Il sistema Conai, cioè, è stato creato a fine anni novanta per soddisfare, sulla base delle direttive europee in materia, il principio del “chi inquina paga”. Ma stando al giudizio dell’Antitrust, a pagare sono soprattutto le casse pubbliche dei comuni. Se un unico conflitto di interessi è troppo poco – Quella del recupero crediti del Conai non è l’unica situazione di conflitto di interessi all’interno del sistema di gestione della raccolta differenziata degli imballaggi. E per trovarne altre non occorre tornare indietro all’interrogazione parlamentare di tre anni fa, con cui il M5S chiedeva conto del perché nel 2010 Bernocchi fosse diventato docente della Scuola superiore della pubblica amministrazione locale, proprio quella che, in base all’accordo Anci-Conai, prendeva fondi dal Conai per tenere corsi di formazione sui rifiuti da imballaggio. Di conflitti di interessi se ne trovano diversi anche ai giorni nostri, come già riportato da ilfatto.it . E’ per esempio il caso di Ancitel Energia e Ambiente, la società a maggioranza privata presieduta fino a pochi mesi fa da Bernocchi, che viene pagata dal Conai per gestire la banca dati condentro tutti i numeri della raccolta differenziata dei comuni italiani. O il caso del contributo cac dovuto dai produttori di imballaggi: a stabilirne il valore è il Conai, e quindi in ultima analisi sono i produttori stessi. La situazione è tale da portare l’Antitrust ad auspicare che la gestione degli imballaggi venga aperta al mercato e non sia più appannaggio quasi esclusivo del Conai. Auspicio su cui il consorzio non ha mai nascosto tutta la sua contrarietà. La questione è in parte affrontata da alcune norme contenute nel ddl concorrenza, al momento fermo in seconda lettura al Senato. Ma anche quando si va a vedere chi è coinvolto nel processo di formazione delle leggi che coinvolgono raccolta imballaggi e sistema Conai, saltano fuori i conflitti di interesse, quantomeno potenziali. I legami del Conai con le fondazioni di Realacci e Ronchi – Il Conai e il consorzio del sistema Conai della carta, il Comieco, fanno parte del forum degli associati della fondazione Symbola, con cui collaborano per alcuni progetti, come il Premio Carte, dedicato al settore cartario, e il rapporto annuale di Symbola ‘GreenItaly’. Presidente della fondazione è Ermete Realacci, che oltre a essere un deputato del Pd è anche il presidente della commissione Ambiente della Camera, quella incaricata di discutere ed esprimere pareri sulle norme che riguardano la gestione dei rifiuti. E quindi lo stesso Conai. Al di là della quota associativa (“poche migliaia di euro”), per Facciotto non si può parlare di un finanziamento del Conai a Symbola: “Noifinanziamo un report, come facciamo con alcune università. Visto che svolgiamo anche attività di ricerca e sviluppo, ci avvaliamo di diversi soggetti a cui facciamo fare attività di ricerca che paghiamo regolarmente sulla base di un listino”. Un legame analogo il Conai ce l’ha con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile di Edo Ronchi, l’ex ministro dell’Ambiente a cui si deve il decreto che nel 1997 ha portato alla nascita del consorzio stesso. Tornando ai giorni nostri, il Conai e tutti i sette consorzi di filiera sono soci della fondazione, mentre il direttore generale del Conai Facciotto fa parte del suo comitato di presidenza. La fondazione di Ronchi da un po’ di anni ha un accordo di partenariato con il ministero dell’Ambiente (quello di quest’anno vale 330mila euro, di cui il 60% a carico del ministero) per attività di supporto agli Stati Generali della Green Economy, un processo di elaborazione strategico-programmatica aperto ai principali stakeholder della green economy, tra cui anche il Conai. In pratica la fondazione ha la possibilità di indirizzare le politiche del ministero e, tra le altre cose, nel contesto degli Stati Generali si occupa del recepimento delle nuove direttive in materia di economia circolare e rifiuti. Proprio quelle che, ancora una volta, interessano il Conai. Sponsor del meeting di Comunione e liberazone e dell’Anci – Se alcuni legami del Conai passano attraverso attività di ricerca, altri hanno al centro vere e proprie attività di lobbying. Come nel caso della sponsorizzazione al meeting di Comunione e liberazione di Rimini, dove il Conai, nell’ultima edizione, oltre a essere presente per le sue iniziative di comunicazione, ha dato il nome a una delle sale per i convegni. Tra le sponsorizzazioni c’è poi quella concessa all’assemblea annuale dell’Anci, in occasione della quale lo scorso ottobre sindaci e politici, Matteo Renzi compreso, si sono alternati a parlare dal palco di Bari con il logo del Conai sullo sfondo. Giusto per mischiare il ruolo di controparte dell’Anci con quello di main sponsor del suo evento principale. “Oltre che nostra controparte – spiega Facciotto – l’Anci è anche nostro partner. Ci mancherebbe che non partecipassimo a questo evento. La nostra partecipazione è doverosa, siamo lì per dare informazioni ai comuni sull’accordo Anci–Conai”. E quanto costa la presenza del Conai con uno stand e la sua sponsorizzazione? “Le cifre non mi piace darle, riguardano i rapporti diretti tra noi e loro. Chiedete all’Anci. Se ve le vogliono dare, noi non abbiamo alcun problema”.

Sulle tariffe rifiuti, l’Italia non è unita (e i virtuosi sono pochi). I dati sulle tariffe rifiuti fotografano un Paese iperframmentato: i virtuosi pagano meno e solo al top per raccolta differenziata e tariffazione puntuale, scrive Rosy Battaglia il 14.12.2018 su valori.it. Se il giro d’affari dell’industria del riciclo è stimato in 88 miliardi di fatturato, con ben 22 miliardi di valore aggiunto, ovvero l’1,5% di quello nazionale, come riporta lo studio di Ambiente Italia (promosso da Conai e da Cial, Comieco, Corepla e Ricrea) quanto costano, invece, i rifiuti alle famiglie italiane?

Pochi eletti e molti reietti. Non c’è una risposta certa, se non andando a guardare la nostra bolletta: dipende dal comune e della regione in cui viviamo. Da quanto e come differenziamo, ma pure dai costi che ogni città deve sostenere per la raccolta, il trasporto e il tipo di smaltimento (discarica, trattamento meccanico biologico, inceneritore o differenziata). E se non risiediamo nella ristretta cerchia dei 341 comuni che in Italia applicano, in modo volontario, la tariffazione puntuale – in base alla quale il cittadino paga in base alla “produzione” di rifiuti, la tassa sui rifiuti – la cosiddetta Tari, può essere una sorpresa molto cara.

La conferma arriva dall’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva. Nel 2018 la famiglia tipo, composta da 3 persone e con una casa di proprietà di 100 metri quadri, paga mediamente 302 euro. Con differenze abissali tra nord e sud. Dalla città più economica, Belluno, con 153 euro/anno per famiglia ai 571 euro della città di Trapani, in assoluto la più cara d’Italia. E se la regione più economica è il Trentino Alto Adige con una tariffa media di 188 euro, in diminuzione del 4,5% rispetto al 2017, secondo i dati di Cittadinanzattiva, la Campania si riconferma la regione più costosa con 422 euro di media.

Il dedalo dei costi standard. Come sono giustificabili differenze così abissali? Certo non aiuta la complessità del calcolo dei costi standard per i comuni, quelli che servono per emettere le bollette della tassa rifiuti. Il Ministero delle Finanze è dovuto intervenire ben due volte solo nell’ultimo anno, per definire le linee guida necessarie alle amministrazioni per calcolare la TARI. In secondo luogo, influisce la mancanza di trasparenza negli appalti e nell’intero ciclo di gestione della filiera, non solo al sud. Mancanza di trasparenza che non favorisce un contenimento dei costi. Un esempio tra tutti: il prolungamento del commissariamento prefettizio richiesto dall’Autorità Nazionale Anticorruzione in Toscana, per la Servizi Ecologici Integrati SEI Toscana s.r.l, a causa delle turbative d’asta e gare d’appalto truccate, ormai da più di un anno. E mentre è in corso l’indagine nazionale della nuova Autorità di regolazione per energia e reti e ambiente (Arera) per definire finalmente «un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti» che dovrà promuovere «la tutela degli interessi di utenti e consumatori», a giorni verrà pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’aggiornamento del Codice degli appalti, stilato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, che ha una nuova sezione interamente dedicata alla prevenzione della corruzione nella gestione dei rifiuti.

Intanto, per saperne di più, occorre studiare l’annuale rapporto curato da Ispra, che dedica ben due capitoli al monitoraggio del sistema tariffario e alla valutazione dei costi di gestione dei servizi di igiene urbana in Italia. Il rapporto Rifiuti 2018 appena presentato, ha analizzato, a campione, i piani finanziari di 2.557 comuni, pari a 26.508.421 abitanti. Realizzando così un monitoraggio dei costi annui pro capite di gestione dei rifiuti indifferenziati, dei rifiuti differenziati e del servizio di igiene urbana (che comprende il trasporto e lo spazzamento delle strade, ad esempio), relativi all’anno 2017, per ogni regione e per macroarea geografica. Nel 2017 sono stati spesi mediamente, con la gestione TARI, 175,28 euro pro capite, e ogni kg di rifiuto ci è costato mediamente 36,16 centesimi di euro.

Costi più elevati nel centro Italia. Dobbiamo sfatare qualche mito, però: i costi più elevati della gestione rifiuti sono nel centro Italia, con ben 228,87 euro/abitante per anno condizionato, nella media pesata, dal costo pro capite del comune di Roma, contro i 181,01 del Sud e i 153,57 del Nord. Tra le regioni più care risultano la Liguria (219,53 euro/ab), il Lazio (214,39 euro/ab), la Toscana (212,50 euro/ab), l’Umbria (186,64 euro/ab) e la Campania (185,16 euro/ab). Il meno caro resta il Friuli Venezia Giulia con 115,41 euro/ab. Medie regionali dei costi specifici annui pro capite della gestione rifiuti. FONTE: Rapporto Rifiuti urbani 2018 ISPRA. E sempre i dati di Ispra ci confermano che i costi cambiano anche in base al tipo di smaltimento e alla gestione complessiva, sia nella gestione TARI che a tariffazione puntuale, oltre che al numero degli utenti a cui è dedicato il servizio. Anche se, all’aumentare della percentuale di raccolta differenziata, alla quale è legata una diminuzione importante della quantità di rifiuti pro capite smaltiti in discarica (e all’incenerimento), con l’aumento della percentuale di rifiuti avviati al trattamento meccanico-biologico (TMB), diminuisce il costo totale pro capite annuo.

L’esperienza dei primi della classe. Nei comuni dove viene applicato il sistema a tariffazione puntuale, come Valori aveva già anticipato nei mesi scorsi, si paga meno. La media di spesa nel 2017, rispetto al campione esaminato relativo a 341 comuni che applicano volontariamente la tariffazione puntuale, è stata di 171,39 euro/abitante. Scendendo nel dettaglio regionale, l’analisi dei dati rileva che, in Piemonte, il costo totale nei comuni a Tari puntuale è pari a 147,58 euro/abitante per anno, in Lombardia si riscontrano 119,26 euro /abitante per anno, in Trentino Alto Adige 102,79, in Veneto 110,80 euro/abitante. Diversamente in Liguria dove si sale ai 134,04 euro/abitante per anno, in Emilia Romagna, dove il costo è pari 183,54. Nella regione Toscana il costo risulta essere di 190,59 euro/abitante per anno, mentre nel Lazio, il costo è pari 208,78 euro/abitante per anno.

L’economia circolare fa bene al portafoglio. Il più contenuto resta il Friuli Venezia Giulia, che a tariffazione puntuale scende a 75,33 euro/abitante per anno, sul quale incide notevolmente il risparmio di 15,65 euro/abitante per anno, generato dai ricavi per la vendita di materiali. Segno che l’economia circolare comincia ad attuarsi per davvero, facendo rimanere qualche euro in più nelle tasche dei cittadini. La copertura dei costi di gestione della raccolta differenziata e dei servizi urbani relativi, sostenuta dai comuni, dovrebbe essere ripagata attraverso il conferimento dei materiali nelle piattaforme dei consorzi di riciclo. Ma così non avviene. Secondo l’accordo quadro tra ANCI e CONAI, che scadrà a marzo 2019, nel momento in cui i comuni restituiscono alle piattaforme di riciclo i vari materiali, ricevono un corrispettivo per tonnellata, per «la copertura dei maggiori oneri sostenuti per fare le raccolte differenziate dei rifiuti di imballaggi». Quel corrispettivo varia a seconda della qualità del rifiuto conferito, motivo di contenzioso tra i consorzi e le amministrazioni comunali, come il rapporto annuale dei Comuni Virtuosi –Esper dimostra da qualche anno. Guardando le tabelle dei corrispettivi, è facile anche comprendere perché, visto che le escursioni di prezzo nella stessa categoria, sia essa acciaio, vetro, plastica, carta o legno, possono variare dal 50 al 300%. Nel caso dell’acciaio si va dai 66,78 euro/tonnellata ai 114,48. Per la plastica dagli 80,23 ai 395,14 euro/tonnellata e, a seconda del trasporto dai 2,02 euro ai 30,45 euro per le isole minori. Il vetro dagli 5,82 ai 51,87 euro/tonnellata, la carta dai 40,65 per la “raccolta congiunta” ai 96,78 euro per la raccolta selettiva. L’alluminio dai 150,44 ai 551,60 euro/tonnellata.

L’Antitrust bacchetta il sistema italiano. Nel 2016, la prima indagine conoscitiva sui rifiuti solidi urbani dell’Antitrust aveva già appurato che i cittadini italiani avrebbero potuto risparmiare notevolmente in bolletta con «meno discariche e più raccolta differenziata». Ma per fare ciò, ha ribadito l’Autorità, l’industria dovrebbe sopportare l’intero costo della gestione della parte riferibile agli imballaggi della frazione differenziata dei rifiuti urbani. Mentre, in Italia, secondo l’Antitrust, il rimborso ai comuni varia dal 20 al 35%, diversamente da quanto succede in Austria, Belgio, Germania Repubblica Ceca e Paesi Bassi. E in Francia il contributo dei produttori ammonta al 75%.

I miliardi nel cassonetto: chi vince e chi perde nel grande business dei rifiuti. Un giro d’affari di 11 miliardi: i profitti tutti al Nord e all’estero, dove arrivano centinaia di treni e camion dalle regioni del Centrosud rimaste gravemente indietro, che non possono fare altro che imporre tasse più alte, scrive Daniele Autieri su La Repubblica il 22 maggio 2017.  "Segui i camion". L'indicazione che arriva da un alto dirigente del ministero dell'Ambiente per capire chi fa affari con i rifiuti è semplice: "Segui i camion, e scoprirai uno dei più grandi trasferimenti di ricchezza del nostro Paese". Così, mentre i cassonetti di Roma esplodono e tante regioni convivono da anni con l'emergenza rifiuti, altri hanno saputo trasformare i problemi in opportunità, indirizzando le risorse economiche che si muovono insieme alla "monnezza", vengono idealmente caricate sui camion o sui treni nelle regioni del Centro o del Sud e finiscono lontano. Per la precisione, finiscono nelle casse di aziende private o di municipalizzate pubbliche del Nord, ma anche in Austria dove arrivano da Roma ben tre treni merci ogni notte. A monte il business dei rifiuti urbani: 11 miliardi di euro all'anno, di cui 5 spesi per sostenere i costi del personale dei 100mila lavoratori del settore; 2 miliardi di costi operativi di gestione (camion, officine, attrezzi, ecc.); e 400 milioni di investimenti per la manutenzione e il rinnovo delle flotte. Quello che rimane, oltre 3 miliardi l'anno, è il business puro, ossia il costo sostenuto per smaltire e trattare i rifiuti. Sono questi i denari che prendono la strada del Nord, molto più attrezzato del Centro e del Sud e disposto ad accogliere camion e treni che arrivano dalle grandi città, Roma e Napoli su tutte.

Il viaggio della riciclata. Il futuro è nel riciclo. Lo chiede l'Unione europea e lo certificano gli studi. L'ultimo, realizzato dall'Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) calcola che la quota di raccolta differenziata sul totale ha raggiunto il 47,5%. All'interno della differenziata, l'organico è la parte che è cresciuta maggiormente, passando da 2,7 a 5,7 milioni di tonnellate raccolte ogni anno. Un ricco business per chi ha deciso di investire negli impianti di compostaggio (quelli che trattano l'organico e lo trasformano in concime). In Italia ce ne sono 263, per la maggioranza al Nord. Il Friuli Venezia Giulia ha sviluppato un enorme impianto a Pordenone in grado di gestire 350.000 tonnellate l'anno, una quantità superiore a quella prodotta dall'intera regione. L'impianto non serve per smaltire la produzione regionale, ma per fare business e infatti 150.000 tonnellate di organico arrivano ogni anno dal Lazio, con un costo di 80 euro a tonnellata, più alto rispetto ai 50 euro richiesti per trattare i rifiuti friulani. L'impianto è gestito dalla veneziana Bioman (società controllata da privati) che ha chiuso il 2015 (ultimo bilancio depositato) con un valore della produzione pari a 35 milioni di euro e utili per 4,5 milioni. Nei territori dove opera la Bioman, ossia tra Treviso e Pordenone, la differenziata raggiunge addirittura l'80%. Nello stesso mercato è attiva la Sesa di Padova, collegata alla Bioman attraverso la partecipazione azionaria della Finam spa, ma controllata - in questo caso - al 51% dal Comune di Este. Il suo valore della produzione raggiunge gli 89 milioni di euro, con un utile di 7,8 milioni. La Sesa gestisce l'impianto di Padova (400.000 tonnellate l'anno), dove arrivano 100.000 tonnellate dalla Campania.

La "monnezza" brucia. Il sistema si ripete con i termovalorizzatori, dove vengono inceneriti sia gli indifferenziati che i rifiuti secchi provenienti dai Tmb, gli impianti di trattamento meccanico-biologico che separano e lavorano l'umido mandandolo in discarica dal secco che finisce appunto nei termovalorizzatori. L'Ispra calcola che in Italia nel 2015 sono stati trattati in questi impianti 5,5 milioni di tonnellate di rifiuti. Di questi, 3 milioni sono stati gestiti dagli impianti presenti in due sole regioni: Lombardia ed Emilia Romagna. E il 30% della quantità di rifiuti che arriva nei 13 termovalorizzatori lombardi e negli 8 dell'Emilia proviene dal Lazio e da altre regioni del Sud. Il Lazio, ad esempio, ha un fabbisogno di incenerimento di 773mila tonnellate e una capacità di 480mila. Le 293mila tonnellate che rimangono vengono spedite fuori dalla regione. Ogni anno il costo sostenuto per smaltire al di fuori dei confini regionali i rifiuti prodotti da Lazio e Campania è pari a 120 milioni di euro. E questo nonostante il più grande termovalorizzatore in Italia sia ad Acerra. L'impianto incenerisce 714.000 tonnellate all'anno e garantisce ricavi medi pari a 80 milioni di euro. Denari che finiscono in parte al Nord, perché la gestione dell'impianto è stata affidata dalla Regione Campania ad A2A, la multiutility da 5 miliardi di fatturato controllata al 50% dai comuni di Milano e Brescia.

Fare affari con la plastica. Pochi lo sanno, ma ad ogni bottiglietta d'acqua o ad ogni lattina acquistata si paga un balzello invisibile di nome Cac (Contributo ambientale Conai), istituito nel 1997 dal decreto Ronchi. Questa eco-tassa, che nasce per sostenere i comuni che fanno la raccolta differenziata, viene pagata dai cittadini, incassata dalle imprese produttrici di imballaggi e da queste versata al Conai (il Consorzio nazionale imballaggi), una realtà privata che riunisce circa un milione di operatori del settore. Il giro d'affari, anche in questo caso, è consistente. Ogni anno ballano in media 800 milioni di euro. Rispetto al totale, 300 milioni vengono restituiti ai comuni come contributi alla differenziata, 100 milioni alimentano il funzionamento e attività del Conai e 400 milioni sono destinati alla filiera dei selezionatori e recuperatori del riciclato, per l'80% società private. La soluzione italiana ha scatenato una battaglia in seno all'Unione europea perché il pagamento della tassa da parte dei cittadini tiene salve le imprese che producono imballaggi e per questo viene considerato da molti a Bruxelles una sorta di aiuto di stato al settore. In Germania o in Olanda, ad esempio, sono le aziende private produttrici a pagare i contributi ambientali. Il risultato è che dalla crisi del 2008, quello del packaging è l'unico comparto italiano che ha continuato a crescere con una media annuale del 2,5-3%, trasformando l'Italia in uno dei leader mondiali del settore. Con il contributo prezioso dei cittadini.

Chi paga. Che si passi dagli impianti di compostaggio agli inceneritori, dai Tmb alle discariche, considerate da molti il passato ma ancora capaci di trattare quasi 8 milioni di tonnellate di rifiuti all'anno, il grande business dei rifiuti è tenuto in piedi dai cittadini. La capacità del Nord di attrezzarsi con impianti moderni ed efficienti, in grado di gestire i rifiuti del Centro e del Sud, ha un effetto diretto sulla tassa sui rifiuti applicata dai comuni, chiamati a pagare la gestione dello smaltimento. Questo permette a Brescia di avere l'imposta più bassa d'Italia (inferiore del 35% rispetto alla media nazionale), e più in generale alle regioni attrezzate di tenere alta la forbice. Guardando al costo medio pro capite per la gestione dei rifiuti sostenuto ogni anno dai cittadini, si passa dai 126 euro del Veneto (la regione più virtuosa) ai 286 euro della Sardegna. Nel mezzo, le regioni del Nord occupano le posizioni migliori (154 euro per la Lombardia, 148 per il Trentino, 152 per il Friuli) e quelle del centro-sud le peggiori (251 euro per il Lazio, 271 per la Calabria, 222 per l'Abruzzo). Sono questi i denari che alimentano il business dei rifiuti. Sono tanti, sono sicuri, e seguono le vie indicate dai camion.

Raccolta differenziata, tra conflitti di interesse e dati segreti: “Costi a carico delle casse pubbliche”. Tra opacità e critiche dell'Antitrust, il sistema Conai non garantisce la copertura dei costi di raccolta a carico dei Comuni con i prezzi di fatto definiti dai produttori di imballaggi. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, scrive Luigi Franco l'8 Ottobre 2016 su Il Fatto Quotidiano. Domanda numero uno: quanta plastica, carta o vetro da riciclare ha raccolto il tal comune? Domanda numero due: lo stesso comune quanti contributi che gli spettano per legge ha incassato a fronte dei costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi? Due domande le cui risposte sono contenute nella banca dati Anci–Conai prevista dagli accordi tra l’Associazione nazionale dei comuni italiani e il Conai, ovvero il consorzio privato che è al centro del sistema della raccolta differenziata degli imballaggi. Numeri non diffusi ai cittadini, che possono contare solo su un report annuale con dati aggregati. Ma i dati aggregati non sempre vanno d’accordo con la trasparenza. E soprattutto non rendono conto delle incongruenze di una situazione su cui l’Antitrust di recente ha espresso le sue critiche, mettendo nero su bianco che “il finanziamento da parte dei produttori di imballaggi dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Con la conseguenza che a rimetterci sono le casse pubbliche, visto che tocca ai comuni coprire gran parte di quei costi.

I dati sulla raccolta differenziata? In mano a un privato pagato dal Conai – Il sistema Conai, creato alla fine degli anni novanta per recepire la direttiva europea in materia e per soddisfare il principio del “chi inquina paga”, funziona così: per ogni tonnellata di imballaggi immessa sul mercato i produttori di imballaggi versano un contributo (cac, contributo ambiente Conai) al Conai, che poi distribuisce ai vari consorzi di filiera le quote spettanti. Per gli imballaggi di plastica il consorzio di riferimento è il Corepla, per quelli di carta il Comieco, e così via. Tutti consorzi che fanno capo al Conai e che sono controllati dagli stessi produttori di imballaggi e da chi li immette sul mercato. Il sistema Conai, che tra le sue entrate può contare anche sui ricavi ottenuti con la vendita dei materiali conferiti dai comuni, riconosce a questi un corrispettivo a tonnellata che dovrebbe compensare gli extra costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi rispetto a quella dei rifiuti generici. “Solo che ad oggi – spiega Marco Boschini, coordinatore dell’Associazione dei comuni virtuosi – non esiste ancora uno studio che stabilisca quali sono realmente in media gli extra costi sostenuti dai comuni per ogni tipologia di tonnellata di materiale raccolta”.

E così il corrispettivo dovuto ai comuni viene stabilito da una trattativa effettuata ogni cinque anni nell’ambito del rinnovo dell’accordo tra Anci e Conai, dove finora hanno prevalso gli interessi del sistema Conai. Con un particolare: i dati relativi alla raccolta differenziata sono custoditi nella famosa banca dati, che viene gestita a spese del Conai da Ancitel Energia e Ambiente (Ancitel E&A), a cui è stata affidata in modo diretto da Anci, senza alcun bando di gara. Ancitel E&A è una società che, al di là di una quota del 10 per cento in mano ai comuni attraverso Ancitel spa, è al 90 percento di proprietà di privati. Con un primo conflitto di interessi che salta subito all’occhio, come fa notare Boschini: “Il Conai e i suoi consorzi di filiera pagano ad Ancitel E&A la gestione della banca dati e sono quindi i suoi principali clienti, clienti che hanno garantito finora quasi per intero il fatturato di tale società. Se dall’elaborazione dei dati dovesse emergere, cosa peraltro in linea con quanto rilevato dall’Antitrust, che i sovra costi della raccolta differenziata degli imballaggi sono ben più elevati di quelli riconosciuti attualmente ai comuni, si verrebbe a determinare un aumento di costi a carico proprio dei clienti più importanti e decisivi di Ancitel E&A”.

Le critiche dell’Antitrust: “Il sistema Conai copre solo il 20% dei costi di raccolta” – Quando nel 2013 l’Associazione dei comuni virtuosi ha affidato alla società di ingegneria Esper (Ente di studio per la pianificazione ecosostenibile dei rifiuti) la redazione di un’analisi sugli effetti degli accordi tra Anci e Conai, ecco cosa è saltato fuori: “Analizzando gli ultimi dati disponibili nel 2013 – spiega Ezio Orzes, uno dei curatori della ricerca e assessore all’Ambiente di Ponte alle Alpi, comune più volte premiato da Legambiente per i risultati raggiunti nella raccolta differenziata – si è visto che ai comuni italiani il Conai riconosceva solo il 37% di quanto incassato grazie al cac e alla vendita dei rifiuti raccolti, mentre i corrispettivi per tonnellata raccolta ricevuti dai nostri enti locali erano tra i più bassi in Europa. Così, a fronte dei circa 300 milioni versati dal Conai ai comuni, questi ne spendevano almeno tre volte tanto per la raccolta degli imballaggi”.

Da allora, seppur con qualche miglioramento dovuto anche alle prese di posizione dell’Associazione dei comuni virtuosi, lo sbilanciamento a favore dei privati (sistema Conai) rispetto al pubblico (Anci) è rimasto. Così nel 2015 il sistema Conai ha incassato 593 milioni di euro grazie al cac e circa 225 dalla vendita dei materiali conferiti dagli enti locali. Valore, quest’ultimo, che potrebbe essere ancora più alto visto che, per fare un esempio, il consorzio Comieco vende sul mercato libero solo il 40% della carta recuperata, quota a cui è salito dopo un impegno preso nel 2011 con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che aveva censurato l’“opacità gestionale” determinata dalla pratica di cedere alle cartiere consorziate i materiali raccolti a prezzi inferiori a quelli di mercato. In ogni caso, a fronte delle somme incassate, nel 2015 il Conai ha versato ai comuni, secondo quanto comunicato a ilfattoquotidiano.it, solo 437 milioni. Numeri che contribuiscono a creare la situazione che – come detto – l’Antitrust lo scorso febbraio ha descritto così: “Il finanziamento da parte dei produttori (attraverso il sistema Conai) dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, evidenzia Attilio Tornavacca, direttore generale di Esper: “In Germania e in Austria i costi di raccolta degli imballaggi domestici sono a carico esclusivamente di chi produce e commercializza imballaggi. In Francia, secondo un rapporto del 2015 di Ademe (un’agenzia pubblica di controllo a supporto tecnico del ministero dell’Ambiente, ndr), la percentuale dei costi di gestione degli imballaggi domestici a carico di Ecomballages e Adelphes, consorzi che svolgono una funzione similare a quella del sistema Conai in Italia, nel 2014 è stata pari al 74,8%”.

Un unico sistema, tanti conflitti di interesse – I conflitti di interesse non si limitano alla gestione della banca dati Anci-Conai. “Il cac versato in Italia dai produttori di imballaggi è mediamente tra i più contenuti tra quelli applicati in Europa – spiega Tornavacca -. Ad esempio in Francia per il cartone si pagano 163 euro a tonnellata, mentre in Italia solo 4”. E chi decide a quanto deve ammontare il cac? “Il Conai stesso. E quindi, in definitiva, lo decidono gli stessi produttori di imballaggi che pagano il cac e che nel consorzio detengono l’assoluta maggioranza delle quote”. C’è poi un altro punto. Il corrispettivo versato ai comuni dal sistema Conai dipende dalla percentuale di impurità del materiale raccolto: quante più frazioni estranee sono presenti per esempio in una tonnellata di imballaggi plastici conferiti, come può essere un giocattolo che non è classificato come imballaggio, tanto più bassa è la somma riconosciuta al comune dal consorzio di filiera Corepla. A valutare la qualità del materiale raccolto sono alcune società scelte e pagate dal Conai, che potrebbe quindi decidere di rinnovare o meno il contratto a seconda che siano state soddisfatte o meno le proprie aspettative. Il che basta a spiegare questo altro potenziale conflitto di interessi presente nel sistema all’italiana di gestione della raccolta differenziata. Sebbene infatti l’analisi di qualità possa essere eseguita in contraddittorio tra le parti, una cosa è chiara: un corrispettivo più basso versato al comune in seguito al risultato dell’analisi corrisponde a un esborso inferiore da parte del Conai.

E ancora. Che fine fa la differenza tra quanto incassato dal Conai grazie al cac e alla vendita del materiale raccolto e quanto versato ai comuni? “In parte viene accantonata a riserva per esigenze di anni successivi – spiega Tornavacca – in parte viene utilizzata per finanziare la struttura e tutte le attività promozionali del Conai e dei consorzi di filiera”. E anche qui casca l’asino su un altro bel conflitto di interessi. Perché nelle sue campagne promozionali il Conai si guarda bene dal promuovere pratiche che porterebbero a una riduzione del consumo di imballaggi, come la diffusione delvuoto a rendere, cosa che avrebbe conseguenze negative sui fatturati dei produttori suoi consorziati.

Conai e Anci: “Siamo per la trasparenza”. Ma la banca dati resta chiusa a chiave – Tra conflitti di interesse e costi di raccolta degli imballaggi che pesano soprattutto sulle casse pubbliche, anziché sui produttori, forse un po’ più di trasparenza ci vorrebbe. Magari rendendo visibile a tutti i cittadini il contenuto della banca dati da cui siamo partiti. Che ne pensa il Conai? “La banca dati Anci-Conai – risponde il direttore generale del consorzio Walter Facciotto – è uno strumento introdotto dal precedente accordo quadro Anci-Conai (2009-2013) ed è un sistema gestito direttamente da Anci. Restiamo convinti che sia il primo strumento per trasparenza e completezza nel settore dei rifiuti, a completa disposizione di chi ne ha la proprietà (i comuni) e la gestione (società e/o comune medesimo)”. E siccome la palla viene passata ai comuni, non resta che sentire il parere di Filippo Bernocchi, delegato Anci alle politiche per la gestione dei rifiuti e fino a pochi mesi fa presidente di Ancitel E&A: “Io sono sempre stato per il green open data. Le regole per rendere visibili i dati della banca dati sono definiti dal comitato di coordinamento Anci-Conai, ma ogni singolo comune dovrebbe dare il suo consenso perché possano essere pubblicati i dati che lo riguardano”. In attesa che Anci e Conai chiedano questo consenso, quei numeri continuano a essere chiusi a chiave nella banca dati.

Rifiuti organici, in Italia un giro d'affari da 1,8 miliardi di euro. Aumenta la raccolta nel 2017, a livello nazionale passa da 107 a 108 kg la raccolta annuale procapite. Lombardia in testa per produzione, scrive La Repubblica il 16 Febbraio 2019. Cresce ancora la raccolta dei rifiuti organici in Italia. Un settore che in Italia secondo le proiezioni del Consorzio Italiano Compostatori valeva, nel 2016, un giro d'affari di circa 1,8 miliardi di euro, dando lavoro a 9800 persone. A livello nazionale - rileva l'annuale analisi sulla raccolta differenziata del rifiuto organico e degli impianti italiani - sono 6,6 le tonnellate di rifiuti raccolti, in crescita del 1,6% rispetto all'anno precedente. Quella dell’organico (umido e verde) si conferma la frazione più importante per la Raccolta Differenziata nel Paese rappresentando il 40,3% di tutte le raccolte.  “In generale, si è riscontrato un calo nella produzione dei rifiuti in Italia, scesi a 29,6 milioni di tonnellate (-1,7% rispetto all’anno precedente) e la raccolta differenziata ha raggiunto una percentuale del 55,5%”, spiega Massimo Centemero, direttore del CIC.

Sale a 108 kg il dato procapite. A livello nazionale il dato procapite di rifiuto organico intercettato si mantiene sopra i 100 kg, passando da 107 a 108: i quantitativi maggiori sono quelli delle regioni settentrionali (127 kg/abitante per anno), seguite dal Centro (114 kg/abitante per anno) e dal Sud (83 kg/abitante per anno).

Lombardia in testa. Al primo posto per quantità di frazione organica raccolta si conferma la Lombardia, con 1,2 milioni di tonnellate annue, nonostante una leggera flessione rispetto all’anno precedente quando la raccolta si attestava su 1,3 milioni. In calo, ma stabile al secondo posto, anche il Veneto con 764.000 tonnellate. Al terzo posto l’Emilia Romagna (708.000 t), seguita a breve distanza dalla Campania (678.000 t). Interessanti i dati registrati nel Lazio (532.000 t) e in Sicilia (208.000 t), dove la raccolta della frazione organica è aumentata rispettivamente di 27.000 t e 67.000 t. In crescita anche il numero degli impianti, passati da 326 a 338, che hanno consentito di trattare nel 2017 circa 7,4 milioni di tonnellate (+4%) considerando il trattamento, oltre all’umido e al verde, anche di altri materiali di scarto a matrice organica.

Pochi impianti a Centro-Sud. L’impiantistica in Italia è passata da 326 a 338 strutture ed ha consentito di trattare nel 2017 circa 7,4 milioni di tonnellate (+4%) considerando il trattamento, oltre all’umido e al verde, anche di altri materiali di scarto a matrice organica.

Nella plastica riciclata, Italia a sorpresa fra le migliori d’Europa, scrive Corrado Giustiniani il 27 Giugno 2018 su leurispes.it (Istituto di Ricerca). La felpa è di color carta di zucchero, non sapresti dire se di lana leggera o di morbido cotone. Né l’una, né l’altro. È di plastica riciclata. Ci sono volute 27 bottiglie di acqua minerale per produrla, trasformate prima in scaglie, poi in filato, poi in tessuto. E questo bikini proviene da sei bottiglie, questo costume intero da dieci, questa trapunta matrimoniale da 67. «Sono soltanto alcuni esempi di che cosa si possa fare con la plastica riciclata – sottolinea Antonello Ciotti, (nella foto) presidente del Corepla, il Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica – e l’Italia in questa attività è messa assai bene. Raccogliamo oltre 1 milione di tonnellate e ricicliamo il 43 per cento della plastica sul piano nazionale, un po’ meglio della Svizzera, e con una gamma più vasta di Francia e Germania, che si limitano alle bottiglie. Solo i Paesi del Nord Europa, come Svezia e Norvegia, fanno meglio, perché usano la plastica per il teleriscaldamento, ma da noi i termovalorizzatori sono all’indice». Il Corepla è un consorzio privato, esiste da una ventina d’anni, ha il suo stato maggiore a Milano e una sede più piccola a Roma. Gli “imballaggi in plastica”, di cui si occupa, non sono altro che i contenitori dei prodotti: nella stragrande maggioranza le bottiglie e bottigliette dell’acqua minerale e delle bibite, assieme alle vaschette e alle pellicole che custodiscono gli alimenti. Non fanno parte della sua attività altri tipi di plastica, come ad esempio quella dei giocattoli, che inevitabilmente finisce in discarica. È una direttiva europea a imporre questa attività, recepita in Italia nel 1997 dal cosiddetto “decreto Ronchi” sui rifiuti. Un’attività che può essere assai remunerativa per i Comuni o loro delegati, come vedremo. Il ciclo funziona così: le varie aziende municipalizzate raccolgono la plastica da imballaggi, la fanno selezionare e la cedono al Corepla al prezzo di 300 euro a tonnellata. Il Corepla la riceve, la ricicla e la mette pubblicamente all’asta, con la partecipazione di operatori industriali italiani ed europei. Indumenti soprattutto sportivi e materiali isolanti per l’edilizia sono soltanto alcuni usi, ma quello assolutamente prevalente è il riciclo delle vecchie bottiglie in nuove bottiglie. «In Italia quasi due bottiglie su tre vengono riciclate» assicura il presidente del Corepla, Consorzio a cui debbono versare un contributo tutte le industrie che producono o utilizzano questi prodotti. Nel 2017 la raccolta differenziata degli imballaggi in plastica ha registrato un incremento dell’11 per cento nel nostro Paese, con una media di 17,7 chili per abitante raccolti. Il giro d’affari complessivo del riciclo sfiora il miliardo di euro (per l’esattezza, siamo a 962 milioni, secondo una ricerca di Althesys realizzata per Corepla proprio quest’anno). Gli addetti all’intero settore sono 5.806, il risparmio che il riciclo consente, in termini di consumo energetico, è di 417 milioni di euro. Ma qual è la quota complessiva che i Comuni o loro delegati incassano, per aver consegnato gli imballaggi al Corepla? Secca e immediata la risposta del presidente Ciotti: «310 milioni di euro». Grazie a questo tesoretto, alcuni Comuni sono riusciti a sanare il bilancio delle aziende municipalizzate dei rifiuti. Il vicesindaco di Napoli, Raffaele Del Giudice, ha recentemente confidato al Presidente del Corepla che è così che Asia, l’azienda dei rifiuti partenopea, è tornata con i conti a posto. Oristano ha potuto abbassare recentemente la tassa sui rifiuti (Tari) del 15 per cento, e tanti altri sono gli esempi virtuosi, da Albano Laziale a Molfetta. Ma perché Napoli sì e Roma no? Perché la Capitale manca scandalosamente all’appello? Per una ragione sconsolante: non può fruire nella quantità auspicata di impianti di prima selezione della plastica, operazione necessaria per poter vendere il prodotto al Corepla. C’è un solo impianto, quello di Latina, del tutto insufficiente. Non sono stati concessi permessi di costruzione di altri impianti e, a quanto pare, non si stanno facendo avanti possibili imprenditori in un settore che pure promette di essere remunerativo. Così, una buona parte della plastica raccolta nella Capitale finisce in discarica, un’altra viene lavorata in Regioni diverse dal Lazio.

Assai interessante, infine, è la classifica della raccolta per Regione, perché scalza gerarchie che sono consolidate in tanti altri settori d’impresa e nella gestione dei servizi. In testa, infatti, c’è la Valle d’Aosta con 24,9 chili per abitante, appena una spanna avanti alla Sardegna, con 24,8 chili. V’è però una ragione segreta che spiega il perché queste due Regioni strappino performance pro capite così importanti, di oltre sette chili superiori alla media nazionale: hanno pochi abitanti e molti turisti che, nei loro giorni di vacanza, consumano bottiglie e bottigliette. Questo, senza nulla togliere alla capacità di raccolta differenziata dei valdostani e dei sardi. Al terzo gradino del podio il Veneto, con 24 chili per abitante. L’Emilia Romagna è quinta, la Lombardia appena settima, il Piemonte nono, deludente il Trentino Alto Adige, che pure dovrebbe avvantaggiarsi dei turisti oltreché della sua riconosciuta efficienza: occupa infatti il decimo posto, con 17,6 chili pro capite, dato praticamente pari alla media nazionale. Ma la vera novità positiva è la Campania, sesta, che sfiora i 20 chili per abitante, e che occupa il terzo posto assoluto quanto a tonnellaggio totale di raccolta. Fanalino di coda è invece la Sicilia, come del resto ha denunciato su questo magazine due settimane fa Saverio Romano, responsabile Mezzogiorno dell’Eurispes (La Sicilia, Cenerentola della differenziata…). La raccolta degli imballaggi in plastica è di appena 7 chili e mezzo per abitante, nemmeno la metà della media regionale. «Deve moltiplicare gli sforzi e guardare avanti – è l’esortazione finale di Antonello Ciotti –. In fondo, rispetto al 2016 il tonnellaggio della plastica è aumentato del 50 per cento. E poi anche qui ci sono Comuni virtuosi: Marsala e Aci Castello toccano 22 chilogrammi per abitante, tre volte la media regionale, e Acireale e Capo d’Orlando sono arrivati a 19. Insomma, si può fare».

PARLIAMO DI RACCOLTA DIFFERENZIATA DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI

I rifiuti solidi urbani (umido, carta, vetro, alluminio, ecc.) ed i rifiuti speciali sono una risorsa che può creare lavoro e ricchezza. Il valore del materiale raccolto ed il risparmio sul suo smaltimento porterebbe benefici per tutti:

ai cittadini che pagherebbero meno la tassa sui rifiuti;

ai disoccupati che troverebbero lavoro per la raccolta porta a porta;

alle amministrazione che coniugherebbero lavoro, risparmio, tutela ambientale;

alle imprese specializzate per il riutilizzo che avrebbero una vera raccolta differenziata.

Questo perché spesso non è raccolta differenziata quella che si fa. Tutti gli errori e gli orrori del riciclo spiegato da Anna Tagliacarne.

Differenziare è fondamentale, ma l’errore è sempre in agguato. Gettate i giornali nel cassonetto condominiale per la carta e trovate residui di pizza in un cartone? In quello del vetro adocchiate un piatto di ceramica e una pirofila in frantumi? Sono gli errori più comuni. Come la Barbie in mezzo alle bottiglie dell’acqua. O i vasi sporchi di terra. Ma cosa succede quando ciò che gettiamo in pattumiera non è adatto al riciclo?

VETRO - «Si crea un grosso danno al ciclo produttivo, soprattutto buttando ceramica e pirex in mezzo al vetro. I detector non riconoscono le particelle di ceramica, pur essendo macchine molto sofisticate, e quando il vetro viene triturato e compresso, anche la ceramica, che fonde a una temperatura differente dal vetro, viene inglobata nelle nuove bottiglie», spiega Walter Facciotto, direttore generale del Conai, Consorzio nazionale imballaggi. «Queste bottiglie però, che contengono particelle differenti dal vetro, possono scoppiare, sono a rischio». Quindi dipende da noi la qualità delle nuove bottiglie in circolazione. Riciclando un chilo di vetro si evitano le emissioni di CO2 di una utilitaria che percorre quasi 10 chilometri, secondo i dati del Coreve (Consorzio recupero vetro), mentre grazie al recupero e al riciclo di carta e cartone tra il 1999 al 2011 il Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo imballaggi a base cellulosica) ha evitato la formazione di 222 discariche.

CARTA - «Per quanto riguarda la carta, l’errore più comune è buttare gli scontrini, carta termica che contiene solventi e aumenta lo scarto, oppure cartoni sporchi, con avanzi di cibo, che fermentano», continua Facciotto. Bisogna sottolineare che la raccolta differenziata è strettamente limitata ai soli imballaggi: e in questo senso gli errori più vistosi li registriamo tra i manufatti in plastica: giocattoli, articoli per la casa, articoli di cancelleria, da ferramenta e giardinaggio, piccoli elettrodomestici, qualsiasi oggetto in plastica o con parti in plastica, viene erroneamente buttato nella raccolta differenziata ma, per fare un esempio, una bambola o un gioco in generale, è prodotta con differenti polimeri, non riciclabili.

PLASTICA - Lo stesso vale per il vaso o la penna sfera, anche se privata del refill. Nella fase di selezione i singoli polimeri vengono separati prima del riciclo, e ciò che viene scartato va ai termovalorizzatori e recuperato energeticamente». Se con venti bottiglie di plastica (Pet) si fa una coperta in pile, con sette vaschette portauova si può tenere accesa una lampadina per un’ora e mezza, e le tonnellate di rifiuti in plastica raccolte in Italia lo scorso anno (dati Corepla, Consorzio raccolta recupero riciclaggio rifiuti imballaggi in plastica) sono pari a sette volte il volume della Grande Piramide in Egitto e a due volte il peso dell’Empire State Building. Considerando la mole dei rifiuti prodotti è quanto mai opportuno separare e riciclare al meglio. Anche perché i rifiuti «migliori» hanno più valore. Maggiore è la qualità del materiale che scartiamo, maggiore è il corrispettivo riconosciuto ai Comuni.

METALLI - Per l’acciaio, ad esempio, si va da un minimo di 38,27 euro a tonnellata a un massimo di 83,51 euro, per l’alluminio da un minimo di 173, 96 euro a tonnellata a un massimo di 426,79. L’Italia è al primo posto in Europa per il riciclo dell’alluminio: secondo dati Ciai (Consorzio imballaggi alluminio) nell’ultimo anno è stato recuperato l’80% degli imballaggi in alluminio circolanti nel Paese, mentre in più di dieci anni secondo il Consorzio nazionale acciaio sono state recuperate quasi 3 milioni di tonnellate di acciaio, l’equivalente in peso di 300 torri Eiffel. «Le buone ragioni per differenziare correttamente non mancano: tutto ciò che scartiamo è riutilizzabile come materia prima, se lo buttiamo correttamente», conclude Walter Facciotto. «Per questa ragione, dovremmo andare periodicamente alle isole ecologiche e smaltire là le lampadine, i piccoli elettrodomestici, i cellulari, il legno. È un piccolo gesto che ognuno di noi può fare per l’ambiente senza troppa fatica».

Ci siamo mai chiesti se e quanto convenga al cittadino fare la raccolta differenziata della spazzatura, anziché buttare il “tal quale” nel cassonetto?

La raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ha un costo per la comunità: per le aziende di raccolta e per l’ecotassa di smaltimento alle discariche.

Il riciclaggio è più complesso dello smaltimento in discarica o negli inceneritori, cui non si sostituisce, ma che ne limita comunque l'utilizzo. Si parla di sistema di riciclaggio riferendosi all'intero processo produttivo, e non soltanto alla fase finale; questo comporta la raccolta differenziata dei rifiuti, passaggio fondamentale del processo. Per realizzare una raccolta differenziata efficace è di grande importanza la fase di differenziazione attuata dai singoli utenti. Il riciclaggio apre un nuovo mercato, in cui nuove piccole e medie imprese recuperano i materiali riciclabili per rivenderli come materia prima o semilavorati alle imprese produttrici di beni. Un mercato che si traduce pertanto in nuova occupazione. Se al ricavo effettuato dalla vendita dei materiali riciclati si destinasse anche il risparmio effettuato dalla mancata raccolta e smaltimento dei medesimi materiali, vi sarebbe un incentivo per nuovi posti di lavoro e una raccolta più efficace porta a porta. Invece le amministrazioni comunali, anziché programmare una raccolta intelligente e vantaggiosa dal punto di vista economico, la disincentivano, invitando i cittadini alla raccolta differenziata, senza diminuire, però, (anzi si aumenta), il costo TARSU pro capite. Probabilmente non è solo incompetenza, ma un rapporto losco di affari e corruttela, che non deve essere tranciato tra amministratori ed aziende di raccolta e smaltimento.

Non solo. Ci siamo mai chiesti chi decide gli aumenti e i ribassi delle nostra bolletta della luce?

Si tratta dell’Autorità per l’energia e il gas (AEEG), competente nella determinazione delle tariffe della luce e del gas. Non sono più Eni e neppure Enel a fissare il prezzo e le accise che andiamo a pagare, come spesso erroneamente ci comunicano i diversi call center. La AEEG con scadenza trimestrale pubblica sul suo sito diverse delibere contenenti i valori aggiornati delle componenti che andranno ad imbellettare la nostra bolletta. La bolletta italiana, anche se ai più non piace e non si fa capire, può almeno definirsi democratica, poiché sia a nord sia a sud i suoi costi rimangono invariati: c’è un’unica tariffa nazionale regolata. I costi della bolletta cambiano a seconda dell’utenza: pagherete la tariffa D2 se siete un consumatore residente con fabbisogno casalingo che non supera i 3 kW di potenza. Nel caso invece non siate residenti oppure nel caso i vostri consumi domestici superino una capacità di 3 kW pagherete automaticamente una tariffa più cara, chiamata tariffa D3.

Ma andiamo ad analizzare le voci segrete della bolletta: si parla di costi di trasporto, prezzo energia ed accise, ma in realtà le voci sottintese sono molte di più.

Quando accendiamo la luce, in realtà paghiamo:

una quota potenza, che rappresenta un fisso all’anno da moltiplicare al valore della propria potenza casalinga; il valore di tale quota varia a seconda della tariffa utilizzata;

una quota fissa, un fisso da pagare una volta all’anno;

una quota energia, ancora un fisso da pagare in base ai propri consumi, a copertura dei costi relativi alle infrastrutture dedicate al servizio di trasmissione, di distribuzione e di misura;

un prezzo energia, che è la componente che ci interessa di più, poiché va a coprire i costi di approvvigionamento dell’energia elettrica. Quando i fornitori di energia elettrica ci parlano di sconti si riferiscono solo a questa componente. Questo costo influisce per il 60% sull’intera bolletta della luce. E’ solo su questa voce che si devono fare i calcoli per eventuali sconti derivanti da impianti fotovoltaici domestici;

il prezzo dispacciamento, un piccolo costo che si riferisce alla gestione della trasmissione giornaliera di energia;

la componente Disp.BT, che va a coprire ulteriori costi del dispacciamento;

la componente UC1 che copre i costi dovuti all’acquisto dell’energia elettrica, tale componente non viene pagata se si è già passati al mercato liberalizzato.

Ora seguono le componenti chiamate oneri generali di sistema che incidono per l’8% sulla bolletta:

la componente UC3 è prevista per la perequazione dei costi di trasmissione e di distribuzione;

la UC4 è per le imprese elettriche minori;

la componente MCT è a favore dei siti che ospitano centrali nucleari e impianti del ciclo del combustibile nucleare, fino al definitivo smantellamento degli impianti (anche se in realtà ora non si parla più di smantellare ma di ricostruire centrali nucleari);

la AS è una componente introdotta il 1° ottobre 2008 per compensare le agevolazioni previste per quei clienti che usufruiranno della tariffa sociale;

la A2 è un’ulteriore componente per lo smantellamento delle centrali nucleari;

la A3 è per la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili;

la A4 copre i tariffari speciali, previste per esempio per le Ferrovie dello Stato;

la A5 è per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo;

infine la A6 è dovuta ai costi sostenuti dalle imprese in seguito alla liberalizzazione. Tale componente è al momento uguale a zero.

E ancora le tasse chiamate imposta erariale e accisa comunale che vanno a coprire il 14% dei costi totali della bolletta. E infine c’è l’immancabile l’Iva del 10% - 20%. È stata una lunga apnea, ma ora possiamo leggere con occhi più consapevoli la nostra bolletta della luce, e comunque capire che i costi fissi, rimangono tali, mentre solo i costi variabili, diminuiscono con l’uso del fotovoltaico, salvo che non diventa un onere il suo mancato uso.

Inceneritori, termovalorizzatori e discariche: che impatto hanno sulla salute? Dal pericolo delle discariche ai rischi della presenza di inceneritori, dal collegamento tra rifiuti e malattie alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità: quanto è necessario sapere per capire i danni che può arrecare l’immondizia all’uomo e all’ambiente, scrive Margherita De Bac il 18 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera".

Cosa sono le discariche?

Sono in genere vecchie cave impermeabilizzate dove vengono stipati a vari strati i rifiuti compattati. L’immondizia produce percolato, liquido della decomposizione che se non viene raccolto bene e trattato in impianti di depurazione può inquinare le falde acquifere. Quando la falda si riempie possono essere autorizzati i sopralzi, le montagne di rifiuti che «ornano» alcuni panorami.

E gli inceneritori?

Quelli degli anni 50-70 bruciavano materiali eterogenei, in assenza di filtri, e rilasciavano dai grandi camini emissioni in grande quantità su aree ristrette con formazione e dispersione di diossina, una sostanza cancerogena. Gli inceneritori di seconda generazione (o termovalorizzatori) dovrebbero seguire le Best Available Techiques europee degli anni 90. Dovrebbero essere bruciati, in condizioni ben definite, materiali selezionati in modo da prevenire o ridurre la formazione di una serie di inquinanti. I camini sono alti e le emissioni si diffondono su aree vaste.

Perché la Terra dei fuochi è chiamata così?

È un’espressione degli anni Duemila che indica una vasta area della Campania, a cavallo tra Napoli e Caserta. I comuni all’interno del perimetro sono elencati in una legge del 2014: sono 55, poi estesi a 90. La denominazione si riferisce all’interramento di rifiuti tossici speciali e all’innesco di numerosi fuochi per eliminarli con conseguenze sulla salute della popolazione circostante.

Cosa si sa del rapporto tra rifiuti e malattie?

L’Istituto superiore di sanità con una legge del 2014 è stato incaricato di effettuare un aggiornamento della situazione. I dati, rilevati tra 2010 e 2011, sono stati pubblicati nel 2015 e, secondo quanto ha riferito il sottosegretario alla Salute Bartolazzi rispondendo a un’interrogazione parlamentare, hanno «evidenziato che il profilo di salute della popolazione residente nella Terra dei fuochi è caratterizzato da una serie di eccessi della mortalità, incidenza di tumori e ricoveri in ospedali per diverse patologie. Queste patologie fra i fattori di rischio includono l’esposizione a inquinanti rilasciati da siti di smaltimento illegale di rifiuti o alla combustione incontrollata». Nessuna ulteriore richiesta di approfondimenti è arrivata all’Istituto.

Esistono studi sull’eventuale impatto sulla salute dei termovalorizzatori?

Uno dei più completi è il progetto Moniter (pubblicato nel 2013 sulla rivista Epidemiology) che riguarda gli inceneritori di seconda generazione dell’Emilia-Romagna. Gli impianti moderni e ben controllati hanno un impatto molto minore sulla salute dei residenti, anche se è stato rilevato un eccesso di nascite pretermine.

Il tema del rischio legato ai rifiuti pericolosi come viene affrontato a livello europeo?

Nel giugno 2017 a Ostrava i 53 Paesi della Regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità hanno per la prima volta inserito fra le priorità il tema dei rifiuti pericolosi e dei siti contaminati. L’Oms già nel 2015 ha approvato un documento che insisteva sulla necessità di ridurre il più possibile la produzione di rifiuti e potenziare il riciclo e il riuso.

L’Oms come si è espresso sui rifiuti?

L’agenzia mondiale ha rilevato che resterà sempre una frazione di immondizia da smaltire ed è preferibile che ciò non avvenga nelle discariche ma negli inceneritori di nuova generazione costruiti secondo le Best Available Techniques, capaci di produrre energia. (Hanno risposto alle domande Pietro Comba, direttore del reparto di epidemiologia ambientale e sociale dell’Istituto superiore di sanità e Michele Conversano, direttore dipartimento prevenzione Asl Taranto).

Perché i rifiuti in Italia sono ancora un problema, scrive domenica 18 novembre 2018 "Il Post". Con pochi impianti adeguati e proteste che bloccano quelli nuovi, anche l'aumento della raccolta differenziata finisce per produrre guai: il risultato sono i roghi nei capannoni. Da un paio di settimane si è tornati a discutere della difficile situazione in cui si trova la gestione dei rifiuti in Italia. Il problema è che ci sono pochi impianti adeguati e c’è troppo materiale da smaltire, e la combinazione di questi due fattori – che ha varie cause – sta portando tutto il sistema in una situazione di stallo, non riuscendo più a sostenere lo smaltimento di tutti i rifiuti prodotti in Italia. Non si parla soltanto dei cassonetti stracolmi di alcune città che tante volte hanno fatto parlare di “emergenza rifiuti”, ma di un problema a monte che riguarda tutto il sistema nazionale della gestione dei rifiuti e che ha come conseguenza i sempre più frequenti incendi dolosi nei capannoni, le discariche abusive e gli impianti sovraccarichi di materiale, insieme alle nuove discussioni sugli inceneritori e sui termovalorizzatori.

Dove finiscono i rifiuti in Italia. Per capire da dove arrivino tutti i problemi bisogna prima spiegare rapidamente come funziona la gestione dei rifiuti in Italia. In generale la gestione dei rifiuti si può suddividere in due grandi blocchi distinti: operazioni di recupero e operazioni di trattamento-smaltimento. Delle prime si occupano principalmente gli impianti che gestiscono i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata, mentre delle seconde si occupano discariche, inceneritori, impianti di trattamento meccanico-biologico: lo smaltimento viene definito tale anche se successivamente può avere come risultato secondario il recupero di sostanze o di energia. Per quanto riguarda il recupero dei rifiuti, l’Italia è un paese piuttosto virtuoso: eppure non basta a tenere in piedi tutto il sistema di smaltimento. Ogni anno più del 50 per cento dei rifiuti urbani – quelli prodotti dai singoli cittadini, e non dalle industrie – viene riciclato: un dato sopra la media dell’Unione Europea, dove viene sottoposto a riciclo il 47 per cento dei rifiuti urbani. Il 25 per cento dei rifiuti finisce ancora in discarica, un valore che il Parlamento Europeo ha stabilito debba essere limitato al 10 per cento entro il 2035. Nel 2016, secondo il rapporto del 2017 dell’ISPRA sui rifiuti urbani (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), in Italia sono stati prodotti 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, mentre sono state 135 milioni le tonnellate di rifiuti speciali (cioè i rifiuti industriali), a loro volta divisi in pericolosi e non pericolosi. A occuparsi del riciclo dei rifiuti urbani frutto della raccolta differenziata sono gli impianti di recupero, mentre per i rifiuti indifferenziati ci sono gli impianti di smaltimento. Tra quelli più utilizzati ci sono gli inceneritori (chiamati anche termovalorizzatori quando il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia) dove finiscono anche diverse tipologie di rifiuti speciali, come quelli ospedalieri e industriali.

La raccolta differenziata è un mercato chiuso. La raccolta differenziata è, paradossalmente, uno dei fattori principali che stanno causando questa situazione di stallo nella gestione dei rifiuti. In Italia se ne fa sempre di più – nel giro dieci anni si è passati dal 28,5 per cento del 2006 al 52,5 per cento del 2016 – ma succede che spesso venga fatta male, mischiando rifiuti che non andrebbero messi insieme. Gli impianti di riciclo che ricevono questi rifiuti dividono quelli riciclabili da quelli non riciclabili, e finiscono per riempirsi di materiale di scarto da avviare a smaltimento. C’è poi un altro problema che riguarda la raccolta differenziata, e cioè che se ne fa troppa rispetto alla domanda del mercato. I materiali derivati dal riciclo hanno sempre meno spazio sul mercato, e quello che non si riesce a vendere si prova a mandarlo in discariche o inceneritori. Quando questi ultimi sono pieni, però, può succedere quello che racconta Jacopo Giliberto sul Sole 24 Ore a proposito della plastica: «La plastica che non riesce a finire negli inceneritori viene accumulata dai riciclatori che non trovano acquirenti del prodotto finito, con un rischio grande di incidenti. Oppure finisce in mano alla malavita, che riempie di plastica di capannoni che bruciano».

La questione cinese. Non è l’unica, ma una delle cause principali del sovraccarico degli impianti è la decisione presa dal governo cinese l’estate scorsa di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei: una scelta che ha messo in crisi non solo l’Italia ma tutta l’Europa, che vendeva alla Cina gran parte dei suoi rifiuti differenziati. In Italia questa decisione ha riguardato soprattutto il settore della carta e in particolare quella da macero, cioè i residui impuri della carta riciclata: il blocco delle importazioni da parte della Cina infatti non ha riguardato tutti i materiali plastici e cartacei, ma solo quelli con impurità superiori allo 0,5 per cento. Nel 2016 l’Italia esportava 1,9 milioni di tonnellate di carta e più della metà finiva in Cina, che poi la riconvertiva in carta da imballaggio; ora che le nostre esportazioni di rifiuti sono in calo, il ciclo dei rifiuti ha avuto un improvviso rallentamento e gli impianti italiani si sono trovati con un surplus di carta da macero da smaltire.

“Not in my backyard”. A complicare questa situazione c’è lo stato attuale degli impianti italiani, sia di riciclo che di smaltimento. Per quanto riguarda i primi, alla buona notizia dell’aumento progressivo dei materiali da riciclare non è seguito nel corso degli anni un aumento del numero degli impianti, costringendo l’Italia a esportare sempre più rifiuti all’estero, in particolare verso Austria e Ungheria. Nel rapporto dell’ISPRA si nota infatti come nel 2016 i rifiuti esportati siano stati il doppio di quelli importati: 433mila tonnellate contro 208mila. La soluzione sarebbe la costruzione di più impianti, ma negli anni amministrazioni locali e proteste dei cittadini hanno rallentato l’espansione, chiedendo in molti casi la chiusura degli impianti esistenti. Si tratta del cosiddetto fattore nimby – acronimo per not in my backyard (“non nel mio cortile”) – ovvero l’ostilità della popolazione alla presenza nel proprio territorio di opere pubbliche, come appunto gli impianti di recupero o smaltimento, per la preoccupazione dei loro effetti negativi sulla salute o sul territorio. Questa ostilità ha riguardato trasversalmente tutta l’Italia e amministrazioni di tutti gli schieramenti politici, seppure con intensità e frequenze diverse. Possono succedere quindi cose bizzarre come le proteste per la presenza di un impianto di riciclo TMB (trattamento meccanico-biologico) nel quartiere Salario a Roma, di cui un comitato cittadino appoggiato dal PD chiede la chiusura a causa delle emissioni maleodoranti, e che è invece difeso dal Movimento 5 Stelle; lo stesso Movimento 5 Stelle che ne chiedeva la chiusura prima di governare la Capitale. Quelle per gli impianti di riciclo, però, sono solo una piccola parte delle proteste dei nimby. A creare più divisioni e scontri negli anni sono stati gli inceneritori/termovalorizzatori, le cui emissioni sono state il principale motivo di preoccupazione. Il dibattito sull’utilità o pericolosità degli inceneritori va avanti da anni, e anche in questo caso i partiti politici si sono dichiarati favorevoli o contrari, a seconda della situazione. Lo scontro più recente è avvenuto nei giorni scorsi all’interno del governo, in seguito a una visita del ministro dell’Interno Matteo Salvini in Campania. Salvini ha parlato della necessità di avere più inceneritori per lo smaltimento, sostenendo che «occorre il coraggio di dire che serve un termovalorizzatore per ogni provincia, perché se produci rifiuti li devi smaltire». A Salvini ha risposto il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, secondo cui in Campania «gli inceneritori non c’entrano una beneamata ceppa e tra l’altro non sono nel contratto di governo». Ai due si è aggiunto poi il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, anche lui contrario a nuovi inceneritori, con una risposta piuttosto semplificatoria: «Quando arriva l’inceneritore, o termovalorizzatore, il ciclo dei rifiuti è fallito». Il “contratto di governo” parla di rifiuti solo in modo molto vago, con i soliti richiami a “incentivare la raccolta differenziata”, ma senza essere più precisi: lo ha ricordato ieri Di Maio, aggiungendo che in Campania «non bisogna fare il business degli inceneritori ma bisogna fermare il business dei rifiuti». A proposito degli inceneritori, nel 2014 il governo Renzi inserì nel cosiddetto decreto “Sblocca Italia” un articolo, il 35, che prevedeva la costruzione di 12 nuovi impianti – da aggiungere ai 42 attualmente attivi – e la decisione fu molto contestata dalle opposizioni e dalle associazioni ambientaliste. Lo scorso aprile un ricorso presentato da alcuni comitati è stato accolto dal TAR del Lazio, che ha bloccato l’attuazione del decreto rinviandone la valutazione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea; alcuni giorni fa il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha fatto sapere che ne proporrà la modifica in Parlamento. La proposta di Renzi, però, già all’epoca aveva trovato l’opposizione del suo stesso partito a livello regionale. È il caso del Lazio, dove nel 2016 l’allora ministro dell’Ambiente Galletti chiedeva la costruzione di un nuovo inceneritore per migliorare la gestione dei rifiuti, e a cui si oppose il suo collega di partito, il presidente della regione Nicola Zingaretti, oggi candidato alla segreteria del PD. Non solo alla fine il nuovo inceneritore non si è fatto, ma il 16 ottobre per decisione di Zingaretti è stato chiuso l’inceneritore di Colleferro, che era rimasto fermo per oltre un anno a causa delle proteste dei cittadini.

I roghi nel Nord Italia. E arriviamo così ai molti roghi di rifiuti avvenuti negli ultimi mesi nel Nord Italia, una delle conseguenze più tangibili della grave situazione in cui versa il sistema della gestione dei rifiuti. Per capire la causa di così tanti roghi bisogna fare un passo indietro: con l’articolo 35 del decreto “Sblocca Italia” non si è solo proposta la costruzione di nuovi inceneritori, ma si è anche introdotta una nuova norma sulla gestione dei rifiuti urbani tra le varie regioni. Se prima dello “Sblocca Italia” i rifiuti urbani indifferenziati potevano essere smaltiti solo nelle zone in cui venivano prodotti, ora è possibile portarli in altre regioni. Questo ha aiutato le regioni del Centro e del Sud – con impianti e discariche spesso piccoli e tecnologicamente arretrati, e che rifiutano più delle altre di costruirne di nuovi – a portare i loro rifiuti nei più grandi impianti del Nord, ovviamente pagando, ma ha avuto diverse altre conseguenze. La prima è che gli impianti che si occupano di smaltimento al Nord si sono ritrovati saturi di materiale da gestire, e per poter continuare a ricevere rifiuti hanno dovuto alzare le tariffe; la seconda è che, con gli impianti pieni e i costi aumentati, sono diventati sempre più frequenti, specialmente in Lombardia, i casi di roghi in discariche abusive e capannoni abbandonati. Quello che succede è che alcuni imprenditori, piuttosto che cercare di portare i rifiuti in un impianto di smaltimento a prezzi elevati, preferiscono pagare qualcuno perché stipi i rifiuti in uno dei tanti capannoni vuoti del Nord Italia, a cui poi viene dato fuoco per liberarsi del problema. Ovviamente quello dei roghi non è un fenomeno che riguarda solo il Nord, visto che dal 2014 si sono contati più di 300 casi in tutta Italia, ma – come dice il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – sarebbe ormai «qualcosa di strutturale».

Dalle città d'arte alle metropoli, tutti i volti (e i costi) della raccolta differenziata. L’analisi promossa da Utilitalia e realizzata da Bain, scrive il 16/02/2017 Adnkronos. Porta a porta o stradale con campane e cassonetti, monomateriale o multimateriale. Non c’è un modo unico per fare la raccolta differenziata in Italia dove, complici le caratteristiche geografiche, la gestione dei rifiuti e relativi costi sono influenzati da diverse variabili e ogni città è una storia a sé. Dalla raccolta delle grandi città come Milano o Torino, a Venezia dove i rifiuti si raccolgono con le barche nei canali; dalle città balneari come Rimini che vivono volumi differenti di rifiuti a seconda della stagione turistica, alle città d’arte con la loro viabilità limitata dal patrimonio architettonico; per non parlare di comuni montani e delle isole. La scelta degli enti locali e il lavoro delle aziende di igiene urbana può presentare scenari totalmente differenti, che vengono studiati da alcuni anni e lo scenario è tracciato dai risultati dello studio "Analisi Costi Raccolta Differenziata Multimateriale", promosso da Utilitalia, la federazione delle imprese dei servizi ambientali, idrici ed energetici, e realizzato da Bain, su un campione rappresentativo del Paese, pari al 24% della popolazione italiana. Secondo la ricerca, le imprese che utilizzano almeno una modalità di raccolta multimateriale sono il 94%. I modelli di raccolta sono principalmente cinque divisi in leggero (plastica-metalli e carta-plastica-metalli) e pesante (vetro-metalli, vetro-plastica-metalli, carta-vetro-plastica-metalli). Il modello leggero incide per il 47%, quello pesante per il 53%. In tutti e cinque i modelli è presente la raccolta di metalli. Quelli più diffusi sono: plastica-metalli (42%), vetro-plastica-metalli (25%), vetro-metalli (23%). Guardando alla categoria di rifiuto, per il vetro il modello più diffuso è quello ‘vetro-metalli’ (23%), per la plastica è plastica-metalli (62%), per i metalli è plastica-metalli (36%). Il porta a porta vince, sia pur di poco, con il 51% sulla raccolta stradale (49%). Nello specifico, quando il modello è il multimateriale leggero prevale il porta a porta con il 56%; quando invece il modello è ‘pesante’ la raccolta stradale arriva al 60%. Oltre il 30% dei rifiuti della differenziata sono raccolti con modalità multimateriale: circa 1,9 milioni di tonnellate all’anno (6% della produzione totale di rifiuti urbani) su un totale di oltre 6,3 milioni di tonnellate. Sono oltre 119 mila le tonnellate di carta e cartone (pari al 4% del totale) raccolte; più di 839 mila quelle di vetro (48%); quasi 819 mila di plastica (70%); oltre 132 mila di metalli (51% del totale). La percentuale sale al 56% escludendo dal computo carta e cartone. Perciò considerando soltanto plastica, vetro e metalli sono quasi 1,8 milioni le tonnellate raccolte con modalità multimateriale su un totale di quasi 3,2 milioni di tonnellate. “Non c’è un unico modo di fare le cose – osserva il vicepresidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – ci sono delle variabili che cambiano in base alle caratteristiche del territorio, della popolazione, della stagionalità. Le aziende, in generale, sono attente a tutti i modelli che si stanno sviluppando perché soltanto da un’analisi comparata di dati effettivi, riscontrabili e statisticamente rappresentativi, si riescono a fare scelte di efficienza industriale e di riduzione dei costi di gestione”. Il costo di raccolta del multimateriale in Italia è pari a 185 euro a tonnellata. In generale per la raccolta multimateriale il porta a porta costa di più con una differenza che oscilla tra il 30 e il 40%. Costi maggiori che vengono riassorbiti però dal trattamento industriale successivo, che è naturalmente più basso quando concentrato su un'unica tipologia. Guardando invece alla comparazione dei costi, emerge mediamente una maggiore convenienza della raccolta con il sistema multimateriale rispetto a quello monomateriale. La ricerca rileva anche come, a fronte di una maggiore efficienza, i valori di intercettazione della differenziata pro-capite siano mediamente più bassi.

Rifiuti: costi e modelli della raccolta differenziata in Italia, scrive il 16 febbraio 2017 confservizi.emr.it. Non c’è un modo unico per fare la raccolta differenziata. Raccolta porta a porta o raccolta stradale con campane e cassonetti, ma anche raccolta monomateriale o raccolta multimateriale. In Italia, anche per le sue caratteristiche geografiche, la gestione dei rifiuti è influenzata da diverse variabili e ogni città è una storia a sé. Dalla raccolta delle grandi città come Milano o Torino, si va alle peculiarità di Venezia dove i rifiuti si raccolgono con le barche nei canali; dalle città balneari come Rimini che vivono volumi differenti di rifiuti a seconda della stagione turistica, si passa alle città d’arte con la loro viabilità limitata dal patrimonio architettonico; per non parlare di comuni montani e delle isole. Come è meglio raccogliere il vetro, la plastica, la carta, il metallo e le frazioni umide dei nostri rifiuti? Come cambia il costo del servizio di raccolta se basato su un unico cassonetto stradale, o anche sulle campane per il vetro e sui cassonetti per la carta o il ferro? È più utile la raccolta monomateriale, che segmenta ogni tipologia di rifiuto o quella multimateriale che accorpa nello stesso cassonetto vetro-plastica-metalli oppure carta-vetro-plastica-metalli? Quale è la scelta migliore perché un Comune raggiunga gli obiettivi di raccolta differenziata previsti dalla legge? La scelta degli enti locali e il lavoro delle aziende di igiene urbana può presentare scenari totalmente differenti, che vengono studiati da alcuni anni e lo scenario è tracciato dai risultati dello studio ‘Analisi Costi Raccolta Differenziata Multimateriale’, promosso da UTILITALIA – la federazione delle imprese dei servizi ambientali, idrici ed energetici – e realizzato da BAIN, su un campione molto rappresentativo del Paese, pari al 24% della popolazione italiana. Dopo l’analisi che nel 2013 Utilitalia e Bain hanno presentato sui costi della Raccolta Monomateriale dei rifiuti da imballaggi e quella del 2015 sulla Raccolta Differenziata della frazione organica (con un’appendice sulla raccolta indifferenziata) nel 2017 è la volta di uno studio sui diversi costi sostenuti dalle imprese sulla base delle diverse combinazioni e modalità di raccolta (stradale e/o domiciliare). La fotografia scattata dalla ricerca – presentata il 16 febbraio a Roma – offre alcuni dati su composizione, modelli, sistemi e analisi dei costi della raccolta differenziata, facendo anche una comparazione tra ritiro stradale e domiciliare. Le imprese che utilizzano almeno una modalità di raccolta multimateriale sono il 94%. I modelli di raccolta sono principalmente cinque, divisi in leggero (plastica-metalli e carta-plastica-metalli) e pesante (vetro-metalli, vetro-plastica-metalli, carta-vetro-plastica-metalli). Il modello leggero incide per il 47%, quello pesante per il 53%. In tutti e cinque i modelli è presente la raccolta di metalli. Quelli più diffusi sono: plastica-metalli (42%), vetro-plastica-metalli (25%), vetro-metalli (23%). Guardando alla categoria di rifiuto, per il vetro il modello più diffuso è quello vetro-metalli’ (23%), per la plastica è plastica-metalli (62%), per i metalli è plastica-metalli (36%). Il porta a porta vince, sia pur di poco, con il 51% sulla raccolta stradale (49%).Nello specifico, quando il modello è il multimateriale leggero prevale il porta a porta con il 56%; quando invece il modello è pesante la raccolta stradale arriva al 60%. Oltre il 30% dei rifiuti della differenziata – spiega il documento – sono raccolti con modalità multimateriale: circa 1,9 milioni di tonnellate all’anno (6% della produzione totale di rifiuti urbani) su un totale di oltre 6,3 milioni di tonnellate. Sono oltre 119 mila le tonnellate di carta e cartone (pari al 4% del totale) raccolte; più di 839 mila quelle di vetro (48%); quasi 819 mila di plastica (70%); oltre 132 mila di metalli (51% del totale). La percentuale sale al 56% escludendo dal computo carta e cartone. Perciò considerando soltanto plastica, vetro e metalli sono quasi 1,8 milioni le tonnellate raccolte con modalità multimateriale su un totale di quasi 3,2 milioni di tonnellate. “Non c’è un unico modo di fare le cose – osserva il vicepresidente di Utilitalia, Filippo Brandolini (nella foto) – ci sono delle variabili che cambiano in base alle caratteristiche del territorio, della popolazione, della stagionalità. Le aziende, in generale, sono attente a tutti i modelli che si stanno sviluppando perché soltanto da un’analisi comparata di dati effettivi, riscontrabili e statisticamente rappresentativi, si riescono a fare scelte di efficienza industriale e di riduzione dei costi di gestione”. Il costo di raccolta del multimateriale in Italia è pari a 185 euro a tonnellata. In generale per la raccolta multimateriale il ‘porta a porta’ costa di più con una differenza che oscilla tra il 30 e il 40%. Costi maggiori che vengono riassorbiti però dal trattamento industriale successivo, che è naturalmente più basso quando concentrato su un’unica tipologia. Guardando invece alla comparazione dei costi, emerge mediamente una maggiore convenienza della raccolta con il sistema multimateriale rispetto a quello monomateriale. La ricerca rileva anche come, a fronte di una maggiore efficienza, i valori di intercettazione della differenziata pro-capite siano mediamente più bassi.

Riciclare ma non troppo: ecco i paradossi della differenziata. La ricerca: se si arrivasse al 70% sarebbe insostenibile. Ma gli esperti insistono: “I benefici per l’ambiente non hanno prezzo”, scrive Elena Dusi su "La Repubblica" il 23 ottobre 2015. Ma quanto conviene fare la differenziata? Nel 2001, quando solo il 20% della spazzatura veniva selezionata, il costo di ogni tonnellata era di 12 euro ad abitante. Oggi che il tasso di differenziazione ha superato il 42%, il costo del servizio è quasi quadruplicato: 46 euro per tonnellata ad abitante. Secondo i dati Nomisma Energia del 2014, quella del riciclaggio non sembra un’economia di scala. I costi aumentano con il giro d’attività, mentre i ricavi - che coprono solo un quarto dei costi - sono rimasti fissi, o quasi, negli ultimi anni. L’impennata dei costi è in parte dovuta al porta a porta, sistema adottato per raccogliere il 49% di carta, plastica e vetro. Nel 2007 il dato era solo del 28%, secondo un rapporto di Bain & Company per Federambiente. Il servizio di raccolta a domicilio richiede personale, camion e benzina assai più del singolo compattatore che ingurgita tutto. Uno studio del gruppo Hera sui “Modelli territoriali a confronto” ha calcolato nel 2013 che il porta a porta costa più del triplo rispetto ai cassonetti, anche se garantisce percentuali di differenziazione più alte. Ed è soprattutto grazie a questo metodo che la raccolta di materiali riciclabili è balzata in su nonostante il calo della produzione di spazzatura provocato dalla crisi economica (meno 8% tra il 2007 e il 2012). Oltre ai costi del porta a porta, il problema di una differenziata molto spinta è la qualità dei rifiuti raccolti. Più si seleziona, più nei sacchetti colorati finiscono materiali spuri o scadenti. E i benefici della differenziata finiscano per diluirsi soprattutto nelle grandi città, dove più difficile è controllare la qualità dei rifiuti riciclabili. «Oltre una certa percentuale di differenziazione, i costi aumentano vertiginosamente», conferma Giovanni Fraquelli, economista dell’Università del Piemonte Orientale e del Cnr di Torino, autore nel 2011 di uno studio sui costi del riciclaggio con Graziano Abrate, Fabrizio Erbetta e Davide Vannoni. «Piccole realtà entro i 200-300 mila abitanti possono raggiungere percentuali del 70% senza enormi aggravi» aggiunge Fraquelli. «Ma se si cerca di spingere oltre la differenziata si incappa in costi insostenibili». I dati di Nomisma Energia confermano l’esistenza di un “confine” oltre il quale non è più conveniente andare. «In Emilia Romagna — spiega il presidente Davide Tabarelli — abbiamo fatto dei tentativi di fare una raccolta differenziata molto spinta, ma questo si è tradotto in maggiori costi, e quindi in aumenti per le bollette, anche del 20%». Abrate e i suoi colleghi sono molto schietti nel considerare un’altra componente di costo per alcuni comuni: la corruzione. “Riducendo il loro livello di corruzione a quello medio del campione — scrivono nello studio The costs of corruption in the italian solid waste industry — i due più grandi comuni italiani, Milano e Roma, risparmierebbero rispettivamente 10 e 50 milioni di euro all’anno, pari all’8,8% e 14% della spesa per i rifiuti”. Per Rosanna Laraia, responsabile del servizio rifiuti di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) il riciclaggio resta comunque un impegno imprescindibile: «È vero che i suoi costi aumentano con la crescita della differenziazione, ma il riuso permette di risparmiare sulla voce delle discariche». E i benefici ambientali restano importanti anche quando i prodotti da riciclare sono venduti a paesi dall’altra parte del mondo. Secondo l’Epa (l’Environmental Protection Agency americana), il materiale più proficuo da riutilizzare è l’alluminio: riciclarne 500 tonnellate permette di risparmiare 2mila tonnellate di CO2 equivalente (pari a 1.569 auto), seguito da carta e cartone (700 tonnellate) e dalla plastica di tappi e detersivi (192 tonnellate).

L’Italia esporta 197 mila tonnellate di plastica  (che non sa come smaltire). Pubblicato martedì, 23 aprile 2019 da Alessandro Sala su Corriere.it. I Paesi industrializzati producono e consumano molta più plastica di quanta ne riescano a riciclare e a smaltire. E non sapendo come gestirla, hanno pensato di esportarla altrove. Fino alla fine del 2017 era stata la Cina, la destinazione principale degli scarti plastici di tutto il mondo. Una «discarica» ideale, lontana dagli occhi e quindi anche dal cuore. Poi dal 2018 il governo di Pechino ha chiuso le proprie frontiere a 24 diversi tipi di rifiuti, tra cui appunto la plastica, con il risultato che le nazioni con un surplus di scarto hanno dovuto trovare nuovi canali e nuove destinazioni. Le hanno trovate, in effetti, ma a che prezzo? E perché la raccolta differenziata non riesce a dare risultati? L’export dei rifiuti non è di quelli che fanno bene alla bilancia commerciale. Anzi. E’ un costo piuttosto pesante che tante nazioni, a partire dagli Stati Uniti e dal Giappone che sono i principali esportatori di materie plastiche di scarto (i primi sono responsabili del 16,5% del totale, i secondi del 15,3%) accettano di pagare pur di risolvere un problema che sta via via assumendo proporzioni ingovernabili. Nel 2016 a livello globale erano state delocalizzate 12 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti in plastica; circa 10 milioni nel 2017 e quasi 6 milioni tra il gennaio e il novembre del 2018. Anche l’Italia, come molti altri Paesi Ue, ricorre a questa pratica: in un anno manda a smaltire oltre confine circa 197 mila tonnellate di plastica (questo il dato del 2018, nei due precedenti era anche di più), che corrispondono al 2,25% della quantità esportata globalmente. Una quota che la posiziona all’11esimo posto della classifica mondiale. Sono numeri che emergono dal report sulle nuove rotte dei rifiuti plastici che l’associazione ambientalista Greenpeace diffonde oggi. Uno studio, basato su dati Eurostat, che analizza le dinamiche della circolazione infinita della plastica a a livello globale, prendendo in considerazione i 21 principali Paesi esportatori ed importatori. Collegati tra loro da un numero esagerato di mercantili carichi di container che solcano gli oceani trasportando non beni e prodotti, bensì immondizia. Movimenti formalmente in regola, esportazioni riconducibili al cdice doganale 3915. Ma i numeri sono da brivido e sono ovviamente al netto del sommerso e delle attività delle organizzazioni criminali, sempre più inserite nelle redditizie filiere dello smaltimento. Fino al 2018, come detto, la maggior parte del materiale aveva come destinazione la Cina, con porto di ingresso Hong Kong. Ma dopo che Pechino ha decretato lo stop, le nazioni che non sapevano come gestire altrimenti i propri rifiuti hanno dovuto individuare nuove rotte. E, come racconta il report di Greenpeace, le hanno subito trovate. Prima si è trattato di altri Paesi del Sud Est asiatico, ovvero Vietnam, Malesia e Thailandia. Poi anche in questi Stati, oggi al top della classifica importatori, sono state applicate delle restrizioni ed è stato dunque necessario reperire altre mete per non interrompere i flussi attuali e futuri. Indonesia e Turchia, secondo il report, sono i principali importatori emergenti a livello globale, ma spuntano sempre nuovi canali e oggi anche alcuni Paesi europei hanno iniziato ad accettare i rifiuti plastici altrui. I nostri, per esempio, nel 2018 sono finiti anche in Austria, Germania, Spagna, Slovenia, Romania, Ungheria, Francia e perfino in Svizzera. Il trasporto terrestre in altri stati europei è legato forse alla presenza di impianti in grado di gestire quote maggiori di materiale e quindi di farsi carico anche delle eccedenze italiane. Ma il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Roberto Pennisi, che per conto della Dda redige il capitolo del rapporto annuale dedicato alle ecomafie e ai crimini ambientali, teme che ci sia dell’altro e ipotizza che in alcuni casi, laddove i trasporti avvengono in Stati dell’Est entrati da poco nella Ue e dove i controlli sono meno accurati, il flusso di materiali possa essere gestito anteponendo «l’interesse economico al rispetto della legalità, dell’ambiente e della salute umana». Senza contare che non necessariamente il rifiuto viene poi trattato nei Paesi Ue di destinazione, che possono essere soltanto una tappa di transito prima di un ulteriore passaggio extra-europea. La normativa comunitaria prevede che i rifiuti che escono dalla Ue possano essere esportati solo in Paesi che garantiscano il rispetto degli stessi standard di tutela delle persone e dell’ambiente, ma questo è difficile poi da verificare. Quando ci si affidava alla Cina, per esempio, non c’era sempre modo di verificare che tutti i processi di smaltimento e di riciclo fossero regolari con il rischio di una produzione di nuova plastica contaminata utilizzata per produrre nuovi manufatti a basso costo che, e qui scattava la beffa, tornavano poi ad invadere i mercati europei. Ma perché ci ritroviamo letteralmente sommersi dalla plastica, che inevitabilmente finisce poi con l’inquinare i l’ambiente, i fiumi, i mari uccidendo la fauna marina e creando condizioni di bioaccumulo nei pesci pericolose anche per la salute umana? «Il problema è che in Italia si premia la quantità e non la qualità della raccolta differenziata - spiega nel report Claudia Salvestrini, direttrice di Polieco, il consorzio nazionale per il riciclaggio dei rifiuti e dei beni a base di polietilene -. Possiamo anche raggiungere il 90% di raccolta differenziata ma all’atto pratico si tratta spesso di plastica di bassa qualità, tanto che di quella raccolta può risultare più del 30 per cento di materiali eterogenei di plastica da scartare». Perché non tutta la plastica può essere riciclata e non tutta la plastica è uguale, né per composizione né per provenienza. Prima dello stop di Pechino, negli anni 2016 e 2017, al mercato cinese è stato destinato il 42% degli scarti plastici spediti fuori dall’Europa. Lo stop dello scorso hanno ha dunque creato un’emergenza mondiale e messo gli Stati di fronte alla necessità di trovare alternative. Ma, come spesso accade, anziché affrontare il problema alla radice è stata scelta la scorciatoia, ovvero individuare chi potesse fare il «lavoro sporco» al posto della Cina. La soluzione, per Greenpeace, è invece una riduzione alla fonte della richiesta e produzione di plastica, combattendo per esempio l’usa-e-getta (che oggi rappresenta il 40% dei manufatti in plastica prodotti) e favorendo il riuso. «Con una produzione di plastica in vertiginosa crescita su scala globale, che raddoppierà le quantità del 2015 entro il 2025 e per poi quadruplicarle entro il 2050, il nostro pianeta rischia di essere sommerso da rifiuti in plastica - commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia -. Si stima che ogni anno tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica finiscano nei mari al ritmo di un camion al minuto per ogni giorno dell’anno. Numeri che, complice l’inefficacia del riciclo, sono destinati a peggiorare».

Raccolta differenziata, tra conflitti di interesse e dati segreti: “Costi a carico delle casse pubbliche”. Tra opacità e critiche dell'Antitrust, il sistema Conai non garantisce la copertura dei costi di raccolta a carico dei Comuni con i prezzi di fatto definiti dai produttori di imballaggi. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, scrive Luigi Franco l'8 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Domanda numero uno: quanta plastica, carta o vetro da riciclare ha raccolto il tal comune? Domanda numero due: lo stesso comune quanti contributi che gli spettano per legge ha incassato a fronte dei costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi? Due domande le cui risposte sono contenute nella banca dati Anci–Conai prevista dagli accordi tra l’Associazione nazionale dei comuni italiani e il Conai, ovvero il consorzio privato che è al centro del sistema della raccolta differenziata degli imballaggi. Numeri non diffusi ai cittadini, che possono contare solo su un report annuale con dati aggregati. Ma i dati aggregati non sempre vanno d’accordo con la trasparenza. E soprattutto non rendono conto delle incongruenze di una situazione su cui l’Antitrust di recente ha espresso le sue critiche, mettendo nero su bianco che “il finanziamento da parte dei produttori di imballaggi dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Con la conseguenza che a rimetterci sono le casse pubbliche, visto che tocca ai comuni coprire gran parte di quei costi. I dati sulla raccolta differenziata? In mano a un privato pagato dal Conai – Il sistema Conai, creato alla fine degli anni novanta per recepire la direttiva europea in materia e per soddisfare il principio del “chi inquina paga”, funziona così: per ogni tonnellata di imballaggi immessa sul mercato i produttori di imballaggi versano un contributo (cac, contributo ambiente Conai) al Conai, che poi distribuisce ai vari consorzi di filiera le quote spettanti. Per gli imballaggi di plastica il consorzio di riferimento è il Corepla, per quelli di carta il Comieco, e così via. Tutti consorzi che fanno capo al Conai e che sono controllati dagli stessi produttori di imballaggi e da chi li immette sul mercato. Il sistema Conai, che tra le sue entrate può contare anche sui ricavi ottenuti con la vendita dei materiali conferiti dai comuni, riconosce a questi un corrispettivo a tonnellata che dovrebbe compensare gli extra costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi rispetto a quella dei rifiuti generici. “Solo che ad oggi – spiega Marco Boschini, coordinatore dell’Associazione dei comuni virtuosi – non esiste ancora uno studio che stabilisca quali sono realmente in media gli extra costi sostenuti dai comuni per ogni tipologia di tonnellata di materiale raccolta”. E così il corrispettivo dovuto ai comuni viene stabilito da una trattativa effettuata ogni cinque anni nell’ambito del rinnovo dell’accordo tra Anci e Conai, dove finora hanno prevalso gli interessi del sistema Conai. Con un particolare: i dati relativi alla raccolta differenziata sono custoditi nella famosa banca dati, che viene gestita a spese del Conai da Ancitel Energia e Ambiente (Ancitel E&A), a cui è stata affidata in modo diretto da Anci, senza alcun bando di gara. Ancitel E&A è una società che, al di là di una quota del 10 per cento in mano ai comuni attraverso Ancitel spa, è al 90 percento di proprietà di privati. Con un primo conflitto di interessi che salta subito all’occhio, come fa notare Boschini: “Il Conai e i suoi consorzi di filiera pagano ad Ancitel E&A la gestione della banca dati e sono quindi i suoi principali clienti, clienti che hanno garantito finora quasi per intero il fatturato di tale società. Se dall’elaborazione dei dati dovesse emergere, cosa peraltro in linea con quanto rilevato dall’Antitrust, che i sovra costi della raccolta differenziata degli imballaggi sono ben più elevati di quelli riconosciuti attualmente ai comuni, si verrebbe a determinare un aumento di costi a carico proprio dei clienti più importanti e decisivi di Ancitel E&A”. Le critiche dell’Antitrust: “Il sistema Conai copre solo il 20% dei costi di raccolta” – Quando nel 2013 l’Associazione dei comuni virtuosi ha affidato alla società di ingegneria Esper (Ente di studio per la pianificazione ecosostenibile dei rifiuti) la redazione di un’analisi sugli effetti degli accordi tra Anci e Conai, ecco cosa è saltato fuori: “Analizzando gli ultimi dati disponibili nel 2013 – spiega Ezio Orzes, uno dei curatori della ricerca e assessore all’Ambiente di Ponte alle Alpi, comune più volte premiato da Legambiente per i risultati raggiunti nella raccolta differenziata – si è visto che ai comuni italiani il Conai riconosceva solo il 37% di quanto incassato grazie al cac e alla vendita dei rifiuti raccolti, mentre i corrispettivi per tonnellata raccolta ricevuti dai nostri enti locali erano tra i più bassi in Europa. Così, a fronte dei circa 300 milioni versati dal Conai ai comuni, questi ne spendevano almeno tre volte tanto per la raccolta degli imballaggi”. Da allora, seppur con qualche miglioramento dovuto anche alle prese di posizione dell’Associazione dei comuni virtuosi, lo sbilanciamento a favore dei privati (sistema Conai) rispetto al pubblico (Anci) è rimasto. Così nel 2015 il sistema Conai ha incassato 593 milioni di euro grazie al cac e circa 225 dalla vendita dei materiali conferiti dagli enti locali. Valore, quest’ultimo, che potrebbe essere ancora più alto visto che, per fare un esempio, il consorzio Comieco vende sul mercato libero solo il 40% della carta recuperata, quota a cui è salito dopo un impegno preso nel 2011 con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che aveva censurato l’“opacità gestionale” determinata dalla pratica di cedere alle cartiere consorziate i materiali raccolti a prezzi inferiori a quelli di mercato. In ogni caso, a fronte delle somme incassate, nel 2015 il Conai ha versato ai comuni, secondo quanto comunicato a ilfattoquotidiano.it, solo 437 milioni. Numeri che contribuiscono a creare la situazione che – come detto – l’Antitrust lo scorso febbraio ha descritto così: “Il finanziamento da parte dei produttori (attraverso il sistema Conai) dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, evidenzia Attilio Tornavacca, direttore generale di Esper: “In Germania e in Austria i costi di raccolta degli imballaggi domestici sono a carico esclusivamente di chi produce e commercializza imballaggi. In Francia, secondo un rapporto del 2015 di Ademe (un’agenzia pubblica di controllo a supporto tecnico del ministero dell’Ambiente, ndr), la percentuale dei costi di gestione degli imballaggi domestici a carico di Ecomballages e Adelphes, consorzi che svolgono una funzione similare a quella del sistema Conai in Italia, nel 2014 è stata pari al 74,8%”. Un unico sistema, tanti conflitti di interesse – I conflitti di interesse non si limitano alla gestione della banca dati Anci-Conai. “Il cac versato in Italia dai produttori di imballaggi è mediamente tra i più contenuti tra quelli applicati in Europa – spiega Tornavacca -. Ad esempio in Francia per il cartone si pagano 163 euro a tonnellata, mentre in Italia solo 4”. E chi decide a quanto deve ammontare il cac? “Il Conai stesso. E quindi, in definitiva, lo decidono gli stessi produttori di imballaggi che pagano il cac e che nel consorzio detengono l’assoluta maggioranza delle quote”. C’è poi un altro punto. Il corrispettivo versato ai comuni dal sistema Conai dipende dalla percentuale di impurità del materiale raccolto: quante più frazioni estranee sono presenti per esempio in una tonnellata di imballaggi plastici conferiti, come può essere un giocattolo che non è classificato come imballaggio, tanto più bassa è la somma riconosciuta al comune dal consorzio di filiera Corepla. A valutare la qualità del materiale raccolto sono alcune società scelte e pagate dal Conai, che potrebbe quindi decidere di rinnovare o meno il contratto a seconda che siano state soddisfatte o meno le proprie aspettative. Il che basta a spiegare questo altro potenziale conflitto di interessi presente nel sistema all’italiana di gestione della raccolta differenziata. Sebbene infatti l’analisi di qualità possa essere eseguita in contraddittorio tra le parti, una cosa è chiara: un corrispettivo più basso versato al comune in seguito al risultato dell’analisi corrisponde a un esborso inferiore da parte del Conai. E ancora. Che fine fa la differenza tra quanto incassato dal Conai grazie al cac e alla vendita del materiale raccolto e quanto versato ai comuni? “In parte viene accantonata a riserva per esigenze di anni successivi – spiega Tornavacca – in parte viene utilizzata per finanziare la struttura e tutte le attività promozionali del Conai e dei consorzi di filiera”. E anche qui casca l’asino su un altro bel conflitto di interessi. Perché nelle sue campagne promozionali il Conai si guarda bene dal promuovere pratiche che porterebbero a una riduzione del consumo di imballaggi, come la diffusione delvuoto a rendere, cosa che avrebbe conseguenze negative sui fatturati dei produttori suoi consorziati. Conai e Anci: “Siamo per la trasparenza”. Ma la banca dati resta chiusa a chiave – Tra conflitti di interesse e costi di raccolta degli imballaggi che pesano soprattutto sulle casse pubbliche, anziché sui produttori, forse un po’ più di trasparenzaci vorrebbe. Magari rendendo visibile a tutti i cittadini il contenuto della banca dati da cui siamo partiti. Che ne pensa il Conai? “La banca dati Anci-Conai – risponde il direttore generale del consorzio Walter Facciotto – è uno strumento introdotto dal precedente accordo quadro Anci-Conai (2009-2013) ed è un sistema gestito direttamente da Anci. Restiamo convinti che sia il primo strumento per trasparenza e completezza nel settore dei rifiuti, a completa disposizione di chi ne ha la proprietà (i comuni) e la gestione (società e/o comune medesimo)”. E siccome la palla viene passata ai comuni, non resta che sentire il parere di Filippo Bernocchi, delegato Anci alle politiche per la gestione dei rifiuti e fino a pochi mesi fa presidente di Ancitel E&A: “Io sono sempre stato per il green open data. Le regole per rendere visibili i dati della banca dati sono definiti dal comitato di coordinamento Anci-Conai, ma ogni singolo comune dovrebbe dare il suo consenso perché possano essere pubblicati i dati che lo riguardano”. In attesa che Anci e Conai chiedano questo consenso, quei numeri continuano a essere chiusi a chiave nella banca dati.

Lite fra Salvini e Di Maio sui termovalorizzatori. Salvini, uno per provincia. Di Maio, non c'entrano una ceppa, scrive l'Ansa" il 15 novembre 2018. Salvini, serve un termovalorizzatore per ogni provincia. "Occorre il coraggio di dire che serve un termovalorizzatore per ogni provincia perché se produci rifiuti li devi smaltire". Lo ha detto Matteo Salvini, ministro dell'Interno, a Napoli per il Comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza. "A metà gennaio va in manutenzione l'unico termovalorizzatore della regione - ha affermato - è in pratica una emergenza annunciata". "C'è veramente una incapacità folle - ha aggiunto - dall'emergenza del 2008 siamo tornati indietro, ma nessun miglioramento". Di Maio, gli inceneritori non c'entrano una ceppa. "Quando si viene in Campania e si parla di terra dei fuochi si dovrebbero tener presenti la storia e le difficoltà di questo popolo. La terra dei fuochi è un disastro legato ai rifiuti industriali (provenienti da tutta Italia) non a quelli domestici. Quindi gli inceneritori non c'entrano una beneamata ceppa e tra l'altro non sono nel contratto di Governo". Lo scrive su Facebook il vicepremier Luigi Di Maio che fa riferimento, senza citarlo, a quanto affermato da Matteo Salvini sui rifiuti in Campania. Costa, termovalorizzatore è fallimento del ciclo dei rifiuti. "Quando arriva l'inceneritore, o termovalorizzatore, il ciclo dei rifiuti è fallito". Lo ha detto in una nota il ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, dopo che Salvini ha proposto un impianto per ogni provincia della Campania. "Stiamo lavorando - ha aggiunto - ogni giorno per portare l'Italia, e non solo la Terra dei Fuochi, fuori dall'ormai cronico ritardo nella gestione del ciclo dei rifiuti. Riduzione, riuso, recupero, riciclo, sono le quattro R che devono diventare un mantra per tutti. Chi non è in sintonia con queste direttrici vive in un'epoca passata". M5S, in contratto esclusa costruzione inceneritori. "Sia il Contratto di Governo che punta al superamento degli inceneritori non a costruirne di nuovi, che i numeri della produzione dei rifiuti in Campania e lo stato d'avanzamento della raccolta differenziata nella Regione, escludono industrialmente la realizzazione di nuovi impianti incenerimento". E' quanto si legge in una nota dei parlamentari del Movimento 5 Stelle della Commissione Ambiente della Camera con la capogruppo Ilaria Fontana. De Magistris, Salvini fra i responsabili dell'emergenza. ''Ricorderei a Salvini che ha sostenuto un Governo, quello Berlusconi, che è stato tra i principali responsabili dell'emergenza rifiuti. Credo che si debba lavorare con spirito di leale collaborazione senza fare battaglie di religione o i professorini e credo che realizzare un termovalorizzatore in ogni angolo della Campania non sia la risposta''. Così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha replicato alle parole del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Il sindaco ha inoltre sottolineato che ''di quell'emergenza rifiuti il Comune di Napoli paga anche la calamità finanziaria perché il debito del Comune è così alto anche a causa di quell'emergenza''. Salvini, facciamo gestire rifiuti a camorra? "Io sono per costruire e non per i no, perché con i no non si va da nessuna parte. Questo vale soprattutto per gli enti locali, penso a tutti quei sindaci e alla stessa regione Campania che ha sempre detto no, no, no e i rifiuti cosa facciamo? Li facciamo gestire alla camorra?". Lo ha detto il ministro degli interni Matteo Salvini rispondendo a Napoli ai cronisti che gli chiedevano della replica di Luigi Di Maio alla sua proposta di un termovalorizzatore in ogni provincia in Campania.

Tecnica, paura e fede: lo strabismo dei grillini. Rifiutano la modernità e sognano l’Eden. La contraddizione dei 5 Stelle emerge per esempio nel caso dei rifiuti campani con il no Di Maio ai termovalorizzatori, scrive Antonio Polito il 19 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Una paura irrazionale del futuro e una fede incrollabile nell’avvenire possono convivere. Il comunismo ne fu una grande (e fallimentare) prova. Allo stesso modo il crogiolo di culture che si è fuso nel Movimento Cinquestelle sembra rifiutare la modernità in cui vive proprio mentre sogna un Eden post moderno da venire. È singolare il rapporto che i pentastellati intrattengono con la tecnologia. Ciò che è rimasto del messaggio, insieme visionario e apocalittico, di Gianroberto Casaleggio, li spinge a credere che il progresso della tecnica possa risolvere gran parte dei problemi umani, e questo è un atteggiamento positivo. Ma della tecnica che già esiste oggi e che fa funzionare, anche meglio della nostra, tutte le altre società complesse e moderne, diffidano con tutte le loro forze, al punto da tentare di impedirne l’utilizzo. Il caso dei termovalorizzatori è emblematico. Ci sono in tutta Europa, in grandi metropoli come Parigi, Vienna e Copenaghen; ci sono nelle regioni, come la Lombardia o l’Emilia, che hanno risolto da tempo il problema dei rifiuti. Ma Di Maio dice che non li vuole in Campania perché sono «vintage», e un giorno non saranno più necessari, quando la raccolta differenziata e l’«economia circolare» trionferanno. In effetti nessuno può essere contro il riciclo: è la strada da seguire. Ma anche ammesso che un giorno nei vicoli di Napoli (dove si differenzia oggi solo il 38% dei rifiuti), si possa trattare in casa l’immondizia come non si fa ancora neanche in Svezia, un po’ ne resterebbe sempre da interrare o da bruciare. E intanto, nel frattempo che non entriamo nel futuro, la «monnezza» che non si può né interrare né bruciare finisce all’aperto, per strada, sotto i ponti, accatastata su grandi piattaforme, in siti cosiddetti di stoccaggio, dove il primo che passa può darle fuoco. Così, in attesa dell’Eden, la gente della Terra dei Fuochi vive all’Inferno. E i rifiuti viaggiano vorticosamente in giro per l’Italia in cerca di smaltimento. Dalla sola Roma partono 170 camion al giorno per il Veneto: inquinano di meno? Ieri a Caserta il governo ha promesso di usare anche i droni, oltre ai militari, contro i roghi. Bene (anche perché l’impiego dei soldati è già stato annunciato una volta all’anno da ognuno degli ultimi governi). Ma se, nel frattempo che non arrivano i droni, si rimuovesse la materia prima dell’incendio, e cioè l’immondizia parcheggiata in attesa? Già quattordici anni fa si facevano manifestazioni per impedire la costruzione del termovalorizzatore di Acerra con lo stesso argomento: che era obsoleto e che in breve tempo non sarebbe stato più necessario. Pensate dove sarebbe oggi la Campania senza quell’unico impianto, che oggi smaltisce settecentomila tonnellate di immondizia, più della metà di quella prodotta ogni anno nella regione. E la cosa più singolare è che i Cinquestelle si oppongono spesso anche alle soluzioni alternative da essi stessi proposte. Per esempio a Pomigliano d’Arco, patria di Di Maio, dove dovrebbe andare uno di quegli impianti per il trattamento dell’organico (compostaggio) appena sollecitati dal Presidente Fico. L’immondizia non è però il solo campo di applicazione di questo singolare strabismo. Sono molti i casi in cui l’attesa di un avvenire migliore si trasforma nel rifiuto di gestire il presente. Uno degli argomenti usati contro l’Alta Velocità Torino-Lione è che a breve non ci sarà più bisogno di spostare tutte queste merci, perché — è stato detto — saranno trasportate dalle stampanti a tre D. È possibile: chi può dire che cosa ci riserverà il futuro? Ma se si ha tutta questa fiducia in una tecnologia che non è ancora tra noi, come se ne può avere così poca in un’altra che usiamo da secoli, e cioè la perforazione della montagna per fare un tunnel (il Buco del Viso risale al 1480)? Allo stesso modo si ostenta sfiducia verso le banche che muovono i nostri soldi ma si scommette sulla tecnologia blockchain, forse nella convinzione che rischieremo di meno convertendo i nostri risparmi in una moneta virtuale. Oppure si diffida della democrazia rappresentativa, al punto di immaginare un tempo in cui non ci sarà più bisogno del Parlamento eletto a suffragio universale; ma si affida quella «diretta» a una piattaforma dove possono votare non più di centomila persone e che si è rivelata non esente da rischi di hackeraggio. Cambiare il mondo è l’aspirazione di tutte le rivoluzioni. Ma nel frattempo? In questa domanda si misura il divario tra un movimento utopico e una forza di governo. I Cinquestelle sono ancora lontani dal colmarlo.

Roma, i rifiuti del Sud e una scomoda verità. Il caos immondizia nella capitale e le ricorrenti emergenze nel Mezzogiorno sono causate dalla mancanza di termovalorizzatori. Ma nessuno lo dice. Guido Fontanelli il 10 luglio 2019 su Il Giornale. Siamo alle solite, a Roma e nel Mezzogiorno torna l’emergenza dei rifiuti urbani. A Roma ci sono mille tonnellate di immondizia da collocare da qualche parte in sette giorni mentre si cerca un Paese che se ne prenda un po' (a pagamento' s'intende). Intanto tra Roma e Regione Lazio volano gli stracci. In Campania in settembre si fermeranno per manutenzione tre linee del termovalorizzatore di Acerra (in provincia di Napoli) e i comuni devono attrezzarsi per gestire temporaneamente un’enorme massa di rifiuti: ora capiscono quanto è importante un impianto che nessuno voleva e fu costruito sotto la protezione dei militari. Il presidente della Regione Vincenzo De Luca ha lanciato un appello il 21 giugno alle amministrazioni locali per spingerli ad individuare siti di stoccaggio, visto che 80 mila tonnellate di rifiuti per 40 giorni non potranno essere bruciati nell’impianto. De Luca ha accusato i comuni di essere «distratti» e di muoversi in ritardo: in effetti si sa da mesi che l’impianto di Acerra deve fermarsi per una manutenzione programmata da tempo e sarebbe paradossale che la Campania di trovi impreparata davanti a quella che di fatto non sarebbe un evento straordinario. Inutile dire che di emergenze non si parlerebbe se il Lazio e le regioni del Sud si dotassero di impianti per il trattamento dei rifiuti e per la loro trasformazione in energia: in Lombardia, dove il conferimento dell’immondizia in discarica è pari allo 0,5 per cento, ci sono 13 termovalorizzatori e la raccolta differenzia sfiora il 70 per cento. Nel Lazio, dove Roma soffoca sotto la spazzatura e c’è la più grande discarica d’Europa e c’è un solo termovalorizzatore; in Campania ce n’è uno; in Sicilia, dove il sistema delle discariche ormai è al collasso, non ce n’è neppure uno. In media nel Sud la raccolta differenziata è al 42 per cento. Il risultato è che queste amministrazioni tentano di esportare i loro rifiuti in altre regioni trovando però gli impianti saturi e dovendo sborsare cifre sempre più alte. Che finiscono nella Tari pagata dai cittadini. Forse ai cittadini di Roma, di Napoli o di Palermo bisognerebbe far fare una gita a Milano: mostrargli che per strada non ci sono cassonetti e che è improbabile che un ristoratore butti per strada sacchi di rifiuti come succede a Roma. E questo accade a Milano perché la città ha i suoi inceneritori, come tutte le città europee. Perché Roma no? 

L’ITALIA PIÙ PULITA CON I TERMOVALORIZZATORI, scrive Donato Bonanni il 19 novembre 2018 su L’Opinione. In questi giorni il Movimento 5 Stelle e la Lega (senza sottovalutare gli altri scontri sulle materie importanti per il nostro Paese) stanno litigando sull’utilità o meno dei termovalorizzatori. In particolare, il leader della Lega Matteo Salvini ha detto che tali impianti sono fondamentali per chiudere il ciclo dei rifiuti e necessari per contrastare l’affarismo malavitoso. Sono d’accordissimo. Insomma, il tema rifiuti diventa il detonatore che fa esplodere le contraddizioni della maggioranza parlamentare. I termovalorizzatori (da non confondere con i classici inceneritori che hanno la funzione solamente di bruciare i rifiuti) sono impianti ad alta tecnologia, a impatto zero e rappresentano una parte dell’economia circolare dei rifiuti. Ovvero, i rifiuti non riciclabili vengono utilizzati per la produzione di energia elettrica e calore per le comunità locali. Un vantaggio importante per la collettività. In molte città europee come Vienna, Parigi, Barcellona, Malmoe, Stoccolma, Copenaghen (ma anche nel Nord Italia), i termovalorizzatori sono situati nel pieno centro della città e producono vantaggi ambientali ed economici molto significativi, in grado di soddisfare le comunità locali. In particolare, il nuovo impianto di Copenaghen, Amager Resource Center (nella foto), fornisce energia elettrica a più di 60mila abitazioni e acqua calda ad altre 160mila e mette a disposizione dei cittadini una pista sci realizzata con materiale innovativo prodotto (guarda caso) da una società italiana. Un grande capolavoro di progresso tecnologico e ambientale e un modello di gestione sostenibile dei rifiuti da prendere in considerazione. Perché in Italia, ma soprattutto, nel Centro e nel Sud non è possibile? A Roma l’emergenza rifiuti è oramai sotto gli occhi di tutti ed è causata dalla mancanza di impianti quali quelli di compostaggio, di ammodernamento di Tmb (trattamento meccanico biologico) dell’azienda municipalizzata Ama e soprattutto dei termovalorizzatori. Questi ultimi, sono previsti non solo dal Piano regionale dei rifiuti, ma anche dal Dpcm attuativo dell’articolo 35 del decreto legge n. 133/2014 (il cosiddetto “Sblocca Italia”). La Regione Lazio e il Comune di Roma non hanno voluto assumersi la responsabilità di realizzare e sbloccare i termovalorizzatori. Ad esempio, il termovalorizzatore di Colleferro (Rm) è stato bloccato dalla Regione Lazio (con la complicità del sindaco di quel Comune) e i lavoratori di quell’impianto gestito da Lazio Ambiente, quale società controllata dalla Regione Lazio, sono in forte difficoltà economica. La stessa Regione (e non mi capacito) vuole, invece, incenerire i rifiuti non riciclabili nei cementifici con conseguenze negative per l’ambiente e per la salute dei cittadini e riapre nella stesso Comune di Colleferro una grande discarica. La de-responsabilizzazione politica ha comportato il trasferimento di tante tonnellate di Css (combustibile solido secondario ricavato dal trattamento dei rifiuti indifferenziati da parte dei 4 Tmb presenti a Roma) nei termovalorizzatori di altre Regioni, come in Emilia-Romagna, in Lombardia e persino in Austria con costi notevoli per la collettività, ossia facendo alzare di molto la tariffa rifiuti dei romani che è tra le più alte d’Italia. Gli enti pubblici locali hanno il dovere di investire in un mix equilibrato di trattamento e smaltimento dei rifiuti: i termovalorizzatori sono una soluzione innovativa e ambientale fondamentale per spazzare via le organizzazioni criminali che fanno dei roghi tossici il loro business sporco e dannoso per l’ambiente e la salute dei cittadini.

Termovalorizzatori, perché ha ragione Salvini (e i Cinque Stelle fanno un danno enorme all’ambiente). Prima si eliminano le discariche, poi si può discutere dei termovalorizzatori: questa è la strategia sullo smaltimento di rifiuti di qualunque Paese serio. Evidentemente, noi non lo siamo, scrive il 19 novembre 2018 L’inkiesta. 64-35-1. No, non sono i numeri da giocare al lotto, ma le percentuali di rifiuti che, in Germania, vengono riciclate, termovalorizzate e mandate in discarica. Se c’è un modello da cui partire, nel definire il ciclo dei rifiuti in Europa, è questo. Un modello in cui la totalità (o quasi) degli scarti che produciamo viene reimmesso nel ciclo economico: due volte su tre come materia prima, una volta su tre come energia. Se si vuole parlare di rifiuti, cari Di Maio e Conte, partiremmo da qui. O, se vi sono antipatici i tedeschi, da Paesi come Austria, Olanda, Belgio, Svezia che non sanno più cosa sia una discarica e non sotterrano più nulla di ciò che scartano. Di sicuro, eviteremmo di parlare di quanto sono brutti e cattivi i termovalorizzatori, contro cui i Cinque Stelle hanno messo in piedi una surreale crociata, ancora di più in un Paese come l’Italia in cui in discarica ci finisce ancora il 32% dei rifiuti. O in cui il 7% nemmeno viene trattato e messo su un camion verso il nord Europa.

Se parliamo di malagestione, di costi alle stelle, di pericolo per la salute e di criminalità organizzata è alle discariche e alle emergenze che bisogna guardare, non certo ai termovalorizzatori. Ancora di più eviteremmo di farlo nel Mezzogiorno, dove la gestione dei rifiuti è a livelli bulgari - letteralmente: le percentuali sono quelle - con una percentuale di raccolta differenziata quasi dimezzata rispetto al nord Italia (37% contro 64%), con la totale assenza di impianti di termovalorizzazione e un processo di smaltimento che, se parlassimo di uno Stato sovrano, si fonderebbe quasi interamente sulle discariche e sull’esportazione dei rifiuti all’estero. A cui si aggiunge, ciliegina sulla torta, una gestione carissima rispetto al Nord - la Tari al sud è del 33,6% più alta rispetto alla media nazionale -, lo “spettacolo” dei rifiuti abbandonati in strada e l’enorme business che tutta questa inefficienza genera per la criminalità organizzata. Giova ricordare come dei 26mila crimini ambientali scoperti ogni anno in Italia, quasi seimila riguardano la gestione dei rifiuti. E che dietro questi reati, oltre ai roghi illegali, c’è il pericolosissimo business del giro-bolla per declassare la pericolosità dei rifiuti e consentirne l’impiego in cantieri e opere (pubbliche e private) infrastrutturali. In altre parole: se parliamo di malagestione, di costi alle stelle, di pericolo per la salute e di criminalità organizzata è alle discariche e alle emergenze che bisogna guardare, non certo ai termovalorizzatori. Che forse ne sono l'anello meno pregiato, ma che sono comunque economia circolare, a differenza delle discariche. Non a caso, all’estero non se ne costruiscono più: una volta eliminate le discariche, la strategia di gestione dei rifiuti si fonda sulla riduzione, sul riciclo e sul riuso. Una volta eliminate le discariche, lo ripetiamo. È così che nascono le terre dei cuori dalle terre dei fuochi, non con i proclami a vanvera e con l’esercito che controlla che nessuno bruci le pile di monnezza a cielo aperto. Così dovrebbe affrontare il problema un Paese serio. Evidentemente non lo siamo.

Così la scienza incenerisce i “no termo”. Lo scontro sui termovalorizzatori nel governo Lega-M5s e l'idea (sbagliata) che la raccolta differenziata sia l’alternativa. Stefano Consonni del Politecnico di Milano spiega dati, sistema lombardo e idee del centro studi MatER, scrive Daniele Bonecchi il 22 Novembre 2018 su Il Foglio. Il dubbio resta. Lo scontro sui termovalorizzatori è la nascita dei no termo (un po’ come i no vax e i no tav) o più semplicemente l’iniziativa “vintage” dell’allegra brigata Di Maio-Casaleggio per recuperare il terreno elettorale perduto su un Salvini quotidianamente all’attacco? Il dubbio resta, ma la Lombardia che crede ai fatti più che alle parole va avanti. Coi suoi termovalorizzatori che macinano rifiuti (il 34 per cento di tutta Italia) e distribuiscono calore a Milano e Brescia, con il marchio di efficienza di A2A. E c’è anche chi, come il governatore lombardo Attilio Fontana, dissotterra l’ascia di guerra dell’antica Lega Nord, spiegando a Di Maio che “se dice che gli inceneritori inquinano, io rilancio con questa mezza provocazione e mezza proposta, dicendo che iniziamo a smettere di bruciare rifiuti di altre regioni” (leggi il Sud). E’ così che inizia la caccia alle streghe contro i termovalorizzatori. Anche al Pirellone scattano le mozioni pro e contro, proprio mentre a Brescia il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ostenta le certezze targate Cinque stelle: “Una cosa è aprire termovalorizzatori, una cosa è chiuderne. Aprirne è antieconomico. Se il primo gennaio del 2019 dovessimo mai autorizzare un termovalorizzatore ci vogliono non meno di 7 anni per costruirlo e il businessplan prevede non meno di 20 anni per il recupero economico. Saremmo nel 2046, quando avremo percentuali tra 90 per cento e 95 per cento di differenziata e di riciclo e quindi non ci sarà più nulla da bruciare. Ecco perché dico che è una questione economica, tanto è vero che le gare vanno tutte deserte”. Non succederà, la competenza scientifica non è un punto di riferimento per questo governo, ma se il ministro dovesse mai passare per le aule del Politecnico di Milano gli infilerebbero un bel paio di orecchie d’asino. “Da molto tempo passa il messaggio che la raccolta differenziata sia l’alternativa alla termoutilizzazione e alla discarica, ma non è così”, spiega Stefano Consonni, professore di Sistemi per l’energia e l’ambiente al Politecnico. “Un equilibrato e moderno sistema di gestione dei rifiuti necessita della raccolta differenziata, dei termoutilizzatori, di una piccola quota di discarica (materiale inerte da mettere a riposo al sicuro). Quindi nel sistema integrato ciascuna tecnologia deve fare la sua parte. Se ne togliamo una, tutto il sistema non sta in piedi e va in emergenza”. “La tecnologia della termovalorizzazione – ma possiamo anche chiamarli inceneritori perché il principio di funzionamento è comunque quello di sottoporre a trattamento termico di combustione i rifiuti – è nata 150 anni fa con il primario obiettivo, allora, di sterilizzare, ridurre il volume dei rifiuti e renderli inerti. Nel corso di oltre un secolo e mezzo di storia questa tecnologia si è evoluta cambiando radicalmente le sue caratteristiche. Se potevano essere giustificate le preoccupazioni di oltre un secolo fa per le emissioni in atmosfera e per l’impatto sull’ambiente, queste preoccupazioni non sono più giustificate oggi. Diciamo che i termovalorizzatori di oggi sono molto diversi da quelli che si realizzavano fino a 50 anni fa, hanno anche cambiato nome non a caso perché mentre gli inceneritori di una volta avevano il mero obiettivo di smaltire. I termoutilizzatori di oggi hanno un effetto utile: la produzione di notevoli quantità di elettricità e calore che possono sostituire combustibili fossili e altre fonti da cui tutt’ora dipendiamo in modo massiccio”, spiega paziente e puntuale il professore. Ma come stanno in salute gli impianti italiani? “Gli impianti di termoutilizzazione in Italia sono di buona qualità, non sono per nulla obsoleti, sono buoni. La Lombardia, quasi completamente autonoma nel trattamento dei rifiuti, è un esempio con un sistema integrato ben equilibrato che recupera sia la materia che l’energia. Al Sud situazione assolutamente insoddisfacente. Roma poi è l’unica capitale europea senza un impianto di termoutilizzazione. Ci sono ad Amsterdam, a Parigi, a Stoccolma, a Londra, a Berlino, a Zurigo. Ne hanno tutti. Dove ci sono alte concentrazioni di popolazione è indispensabile provvedere a una civile e ordinata gestione dei rifiuti che consiste nel recupero di materia (riciclaggio, ndr) e recupero di energia”. In questi giorni ha fatto la sua comparsa l’impianto di Copenaghen, con tanto di pista da sci sul tetto “l’ho visitato mentre era in costruzione – spiega Consonni – sostituisce un impianto vecchio di trent’anni. Ma i termovalorizzatori che abbiamo a Milano, Torino e Brescia dal punto di vista tecnologico e delle prestazioni non hanno nulla da invidiare a quello di Copenaghen”. I ricercatori del Poli non si meravigliano della sagra delle bufale promossa da Grillo e soci, che accompagna innovazione e ricerca, soprattutto in campo ambientale. “Mi sembrano paure medioevali, demoniache, ma non hanno nulla a che fare con la tecnologia attuale”, protesta il professore. E poi spiega: “Abbiamo costituito al Politecnico il centro studi MatER (materia ed energia), che da molti anni si occupa di questi temi nell’ottica di individuare tecnologie e pratiche che possano garantire la sostenibilità di tutto il sistema di gestione dei rifiuti”. E’ istruttivo aprire la hompage del sito (mater.Polimi.it) dove campeggia una frase da “Le città invisibili” di Italo Calvino: “Una volta buttata via la roba, nessuno vuole più averci da pensare”. Più avanti c’è una rubrica dal suggestivo titolo: “Rifiutiamo le bufale” e poi “facciamo chiarezza. Grazie all’aiuto di ricercatori e ricercatrici del Centro studi MatER, usiamo la scienza per sfatare i falsi miti sul recupero di materia ed energia dai rifiuti”. Studiare per credere.

Quello che di Maio e Salvini non vi dicono su rifiuti e termovalorizzatori, scrive Marco Esposito il 22 novembre 2018 su nexquotidiano. Diceva il buon Einstein che solo due cose sembravano non avere limiti: l’Universo e la stupidità umana, ma mentre sulla prima questione aveva dei dubbi della seconda asseriva una certezza. Per confermare questa dichiarazione di Einstein (da cui ci dissociamo) in questi giorni hanno parlato di “rifiuti” i due vicepremier che l’Italia ha avuto in dote: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il primo ha parlato, a proposito della Regione Campania e della gestione rifiuti, di “un termovalorizzatore in ogni provincia”, da cui si evince che, essendocene uno solo al momento, la Campania avrebbe bisogno di ben 4 termovalorizzatori, sparando una fesseria immane, il secondo, per non essergli da meno ha detto che “i termovalorizzatori sono una tecnologia superata”. Forse pensava alla Biowash di Beppe Grillo o al “ponte dove si mangia” di Toninelli e non sapeva come superarli in fesserie. Se c’è una cosa su cui il mondo economico-scientifico-tecnologico è abbastanza d’accordo è la gestione del ciclo dei rifiuti, il luogo di discussione è l’ISWA, l’associazione internazionale del “waste management”, e in tutto il globo terracqueo si parla di un ciclo di rifiuti basato su:

1. Biodigestori per l’umido.

2. Recupero metalli, carta, vetro e alcuni tipi di plastica (in particolare PET e PA6).

3. Recupero dell’energia (termovalorizzazione) da tutto il resto.

L’accordo è talmente ampio che anche l’Unione Europea ha emanato una direttiva in tal senso, come anche l’EPA (Ente per la Protezione dell’Ambiente negli USA): all’interno di queste tre aree esistono varie tipologie d’impianto, ma nessuno mette in dubbio che da qui si parte, e in particolare che il punto 3 è fondamentale. Sì, ma quanto e cosa recuperare di energia? Beh, se ci concentriamo sulla Campania, visto che i due vicepremier di quello parlavano, la Campania produce circa 2 mln di tonnellate di rifiuti urbani, di cui il 35% circa di “organico”, ovvero oltre 700.000 tonnellate di umido. La sola Napoli ne produce circa 500.000 tonnellate. Indovinate Napoli quanti biodigestori ha? Ve lo dico io: ZERO. Indovinate chi si oppone alla costruzione di un biodigestore a S. Pietro a Patierno (NA)? Ve lo dico di nuovo io: il Movimento 5 Stelle. Indovinate cosa fanno oggi di quell’umido? Ve lo dico io per la terza volta: viene “stabilizzato” e mandato a incenerimento. Di Maio spara cavolate a raffica, si oppone agli impianti che renderebbero inutili o quasi altri termovalorizzatori (ne servirebbe un altro, ma son calcoli economico-scientifici complessi, oltre a coinvolgere problematiche legislative e di altro tipo che richiederebbero un articolo a parte, per cui credetemi sulla parola). Ma perchè anche Salvini ha detto una fesseria? Perchè i termovalorizzatori si reggono solo se bruciano una quantità X di rifiuti con potere calorifico Y e la Campania non ne produce abbastanza per giustificare simili sforzi economici, ovvero anche Salvini chiacchiera “a vanvera”. Potrei adesso annoiarvi con varie considerazioni, ma ve ne sottopongo una sola: il Movimento 5 Stelle si oppone ai biodigestori “anaerobici” per motivi ideologici, e dice che quelli “aerobici” sono migliori (se volete vedere un biodigestore anaerobico digitate su Google “biodigestore di Augusta” e poi preparate le ghiandole salivari per quando incontrate un pentastellato). Comunque alla conferenza del clima di Parigi si è deciso di chiedere il bando per un tipo di digestori, in quanto “fortemente inquinanti”. Indovinate quale tipo…sì, esatto, quelli che piacciono a Di Maio. Colui che vive in una cabina telefonica a gettoni.

Le fake news (smontate) sui termovalorizzatori, scrive Raffaella Tregua su Quotidiano di Sicilia il 20 novembre 2018. Giuseppe Mancini, docente di Impianti chimici di UniCT spiega i luoghi comuni in cui è facile cadere. Dopo che lo scontro tra i leader del governo Giallo-Verde, i ministri Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ha riacceso il dibattito sui termovalorizzatori, per sfatare le false notizie che impazzano in questi giorni, soprattutto sul web, abbiamo intervistato Giuseppe Mancini, docente di Impianti chimici del Corso di laurea in Chemical engineering for industrial sustainability dell’Università degli studi di Catania. Ecco alcuni luoghi comuni in cui è facile cadere:

La raccolta differenziata risolve tutti i problemi (FALSO). La raccolta differenziata è uno strumento, non il risultato finale da raggiungere. Se per anni hai raccontato alla gente che i termovalorizzatori sono brutti e cattivi e che facendo la RD risolvi completamente il problema dei rifiuti, quando la gente inizia a farla sul serio e con fatica, pretende che il problema sia risolto mentre del tutto risolto non è perché c’è ancora tutto il rifiuto residuale ancora da gestire ed è tantissimo. A meno che non lo si voglia continuare a mandare in discarica o peggio spedire all’estero. E se non si mette in moto, parallelamente e nel lungo periodo, un mercato dei materiali riciclati che assorba veramente tutti i flussi (quindi anche cartiere, vetrerie, impianti per la produzione di prodotti in plastica riciclata) che sia in loco (meglio) o anche all’estero, la sola corsa all’aumento della RD, con o senza qualità, porterà comunque ad un sistema industriale insostenibile e dovremo accumulare il materiale raccolto a caro prezzo in mega depositi come abbiamo fatto per le eco-balle di Napoli. Lo sapete che queste, di sole multe, continuano a costare un caffè all’anno a tutti gli italiani, bambini compresi? Certo mi si dirà: cosa vuoi che sia un caffè all’anno? Ma 60 milioni di caffè all’anno per decine di anni, dico io, non fanno male?

I termovalorizzatori non producono energia (FALSO). Ogni singolo chilogrammo di rifiuto residuale possiede circa 10 Mega Joule di energia che se immessa in discarica andrebbe persa producendo emissioni sul lunghissimo periodo. Se si realizzano impianti di giusta taglia parte di questa energia viene recuperata sia sotto forma elettrica che di calore e non persa. Poca, molta? Moltissima. Anche se l’efficienza è solo un poco più bassa di una centrale a combustibile fossile, non stiamo bruciando un combustibile fossile ma stiamo recuperando l’energia da qualcosa, il rifiuto residuale, che andrebbe altrimenti solo a mangiarsi altre porzioni del nostro bellissimo territorio producendo molte ma molte più emissioni. Recuperando le sue scorie in prodotti certificati, un moderno termovalorizzatore permette di ridurre il fabbisogno di discarica almeno ad un ventesimo. Quindi nei prossimi vent’anni una sola discarica invece che 20. E questo è un guadagno immenso che si somma all’energia recuperata.

I termovalorizzatori inquinano più di altri sistemi (FALSO). Non conosco impianti che funzionando non hanno degli impatti. Ma i termovalorizzatori non sono più quelli di un tempo. L’avanzamento tecnologico e la grande attenzione agli stessi in passato li rende oggi sistemi avanzatissimi in grado di trattare i rifiuti con bassissime emissioni per kg di rifiuto trattato, molto ma molto inferiori a quelle prodotte in discarica dallo stesso chilo di rifiuti. è tutto qui il punto; bisogna fare il confronto quando devi scegliere. Non guardare solo a quello che produce un termovalorizzatore in termini di emissioni ma verificare quelle che evita. è un po' come dire che l’impianto di depurazione dei reflui produce CO2 ed acqua non pulitissima al suo scarico senza tener conto che l’alternativa è mandare la fogna tal quale in mare (cosa che mi pare succeda proprio in Sicilia). Come lo si spiega che moltissimi impianti di trattamento termico dei rifiuti siano stati costruiti proprio nel centro delle capitali europee o nelle più grandi città dell’avanzatissimo Giappone? Asserire che gli inceneritori inquinano senza tener conto che mandare il rifiuto residuale in discarica inquina molto di più i terreni, le falde e l’atmosfera, come tante inchieste sui giornali e della magistratura purtroppo ci ricordano ogni giorno, è una ulteriore balla che vi raccontano.

Il trattamento meccanico biologico “TMB” è utile (FALSO). è un trattamento che non recupera praticamente niente sull’indifferenziato mandandolo tutto in discarica ed è del tutto inutile se si fa a monte una buona raccolta differenziata dell’umido. Pertanto quando si parla con grande fantasia di “piattaforme” o “impianti tecnologici” da realizzare, informatevi se non è semplicemente previsto un impianto TMB che è indissolubilmente (per legge) legato ad una discarica (per quanto chiamata allegramente “di servizio”). Il recupero di materia di un TMB è di pochi punti percentuali (2-4%), quindi state nei fatti ributtando tutto in discarica e continuando a favorire l’indifferenziato.

I termovalorizzatori contrastano la Raccolta differenziata (FALSO). Nei termovalorizzatori non va immesso il rifiuto organico che è composto prevalentemente da acqua e ostacolerebbe la combustione. Quindi asserire che l’inceneritore è in competizione con la digestione anaerobica o il compostaggio nel recupero di questa importante frazione (35%) è una balla. Non va neanche immesso il rifiuto riciclabile, ma solo il rifiuto residuale che non ha altre soluzioni di smaltimento se non la discarica o il trasporto fuori regione o peggio all’estero. In tutti i paesi che hanno termovalorizzatori il riciclo è altissimo ed è la discarica ad essere stata ridotta a zero. è la discarica che si mangia la raccolta differenziata. Asserire che l’inceneritore è in competizione con il recupero di materia e la raccolta differenziata è ancora un’altra delle balle che vi raccontano.

Bisogna fare tantissima raccolta differenziata (FALSO). Aumentare la RD oltre certi limiti ti porta necessariamente ad una sua scarsa qualità perché aumentano le impurezze al suo interno e ti costa molto di più raffinarla. Se non si ammette per tempo che anche nel sistema industriale del recupero dei rifiuti occorre la qualità richiesta dal mercato, puntando su una RD di qualità, si fallirà come sono fallite in passato tante aziende in Sicilia e nel paese che hanno puntato solo sulla quantità e non sulla qualità dei loro prodotti. è chiaro che per ora in Sicilia di arrivare al 65% ce lo sogniamo e quindi occorre ancora spingerla questa raccolta differenziata ma facendola di qualità.

L’energia al Sud non si può recuperare perché fa caldo (FALSO). Se è vero che è difficile ipotizzare di realizzare ormai reti per l’utilizzo del calore a livello domestico nelle città del nostro Sud e collocare i termovalorizzatori al centro della città stesse (riducendo quindi le percorrenze dei compattatori e relative emissioni, quelle sì molto inquinanti) come ha fatto per tempo Parigi o appena ri-fatto Copenaghen, è molto semplice ipotizzare di realizzare le stesse reti nelle nostre aree industriali dove non solo l’elettricità ma anche il calore può essere ampiamente utilizzato in un’ottica di piena simbiosi industriale. Oggi gli avanzamenti tecnologici permettono anche di fare il freddo dal calore quindi l’energia termica viene utilizzata sia d’estate che di inverno. Che l’energia recuperata non possa essere utilizzata anche nelle regioni del Mezzogiorno è un'altra balla che vi raccontano.

Con compostaggio e selezione risolviamo tutto (FALSO). Ci vogliono gli impianti giusto, ma tutti gli impianti, anche quelli che ti fanno perdere voti all’inizio ma guadagnarne tanti dopo. Il compostaggio richiede molta energia, va bene per i piccoli centri ma dobbiamo pensare a soluzioni industriali più sostenibili con grandi impianti a servizio del territorio provinciale che utilizzino la combinazione di processi anaerobici – aerobici e che ci permettano di estrarre l’energia dalla frazione organica sotto forma di biogas ed eventualmente biometano. E lo scarto prodotto anche da questi impianti va a recupero energetico portando la discarica gradualmente a zero come fanno tutti i paesi più civili, ma come fa anche Milano.

E quindi? Qual è la soluzione? Se non iniziamo, e abbiamo perso tanto ma tanto tempo, a programmare soluzioni capaci di chiudere veramente la filiera, come si fa in qualunque comparto industriale, prevedendo una soluzione anche per gli scarti non recuperabili, ci troveremo nei prossimi dieci anni ad affrontare la solita continua e insopportabile emergenza. Perché anche recuperando la metà o poco più dei nostri rifiuti dovremmo sempre gestirne un’altra metà. E metà emergenza sarà comunque una emergenza.

Termovalorizzatori e inceneritori, ecco verità e bufale, scrive Nino Galloni su Starmag il 19 novembre 2018. Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Ha ragione Matteo Salvini, per due ordini di motivi:

1) né le discariche né la differenziata rappresentano la soluzione del problema;

2) il patto o contratto di governo è fondamentale (come rispettare il sabato) ma se ti cade l’asino nel pozzo lo vai a tirar fuori anche se è sabato.

Tuttavia, sia Salvini, sia la stampa e la televisione hanno parlato di termovalorizzatori e di inceneritori. Bene, quarant’anni fa c’erano gli inceneritori e una discreta mafia se ne interessò, ma la loro capacità di inquinare e rilasciare diossina quando gli impianti si raffreddavano era massima. Vent’anni fa arrivarono i termovalorizzatori – dotati di filtri – riducevano l’inquinamento del bruciare, ma non abbastanza, in cambio fornivano energia elettrica da combustione (legno, rifiuti, gasolio, tutto può bruciare). Oggi esistono gli Apparati di Pirolisi; due brevetti italiani, Italgas e Ansaldo. Oggi, dunque, esistono Pirolizzatori di cui un tipo che emette gas combustibile, inerti ed anidride carbonica; ed un altro che non emette l’anidride carbonica perché svolge al chiuso i processi. Perché non si parla di dotare l’Italia di questi apparati attuali? Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Perché la mafia non solo non si è interessata ai Pirolizzatori, ma anzi, li ha osteggiati in tutti i modi entrando nella politica e nell’economia per impedirne la diffusione? Perché a Roma Virginia Raggi ed il suo staff non hanno voluto prendere in considerazione tale proposta? Ci sono anche altre tecniche non aerobiche – in cui, sempre al chiuso, intervengono i batteri – e che consentono di trasformare la risorsa “rifiuti” in concimi, fertilizzanti e gas naturali, combustibili, a impatto ambientale negativo (cioè risolvono più problemi dell’abbandonare i rifiuti – come tali – a sé stessi o cercare di riciclarli in modo non efficiente). Intendiamoci, la differenziata e l’economia circolare sono buonissime idee; ma perché vetro, metalli, plastica eccetera vengano recuperati occorre dotare le città di industrie adeguate, non mandare tali risorse in Svezia o in Germania (che, invece, al pari di alcuni lodevolissimi comuni italiani – ma l’eccezione conferma la regola- sanno approfittare di tali opportunità. Credo che dell’ambiente – e non solo – si debba ragionare in modo non propagandistico, valutando bene, di ogni cosa, l’impatto economico, finanziario e sociale. (Estratto di un articolo tratto da Scenari economici)

Termovalorizzatori o inceneritori: dannosi per la salute? Scrive il 19.11.2018 Eleonora Lorusso su Donna Moderna. Che differenza c’è tra i due tipi di impianti, come funzionano, servono davvero o inquinano? Fanno male alla salute? Ecco le risposte, proprio mentre è di nuovo emergenza rifiuti. Inceneritori sì o no? Che differenza c’è con i termovalorizzatori? Quando e per cosa si usano, ma soprattutto: è vero che inquinano e producono sostanze nocive? In questi giorni di (nuova) emergenza rifiuti si torna a parlare di queste strutture, che rappresentano ad oggi il principale sistema di smaltimento di rifiuti non riciclabili, in alternativa (o insieme) alle discariche. In Italia ci sono 41 impianti, dei quali la maggior parte è di nuova generazione, dunque in grado di produrre energia dalla combustione di rifiuti, riutilizzata sotto forma di elettricità o calore per riscaldare altre strutture, come ospedali o abitazioni. Si trovano, però, quasi tutti in Lombardia.

Inceneritori e termovalorizzatori. Entrambi gli impianti servono a bruciare rifiuti ed esattamente quelli solidi urbani (come piccoli imballaggi, carta non riciclabile perché sporca, piatti e bicchieri di plastica anch’essi non destinati a seconda vita) e gli “speciali”, frutto di attività produttive per lo più industriali. La principale differenza tra inceneritori e termovalorizzatori consiste nel fatto che i secondi sono in grado di sfruttare il calore prodotto dalla combustione, ad esempio per distribuire acqua calda anche alle abitazioni civili, contribuendo al riscaldamento domestico (teleriscaldamento), come nel caso di Brescia, la città più teleriscaldata d’Italia. La possibilità di utilizzare energia elettrica prodotta mediante la combustione dei rifiuti ha anche permesso al comune lombardo di essere quello con le bollette per la luce e la Tari più basse del Paese (in media del 35% in meno). I termovalorizzatori, infatti, hanno più radiatori nei quali portare a ebollizione l’acqua, dispongono di turbine a vapore e alternatori che producono energia.

La polemica sull’inquinamento. Se da un lato i termovalorizzatori sono fondamentali per lo smaltimento di rifiuti che altrimenti finirebbero in discarica, dall’altra gli oppositori sottolineano i possibili effetti negativi sulla salute e l’ambiente. La legge prevede che la temperatura di combustione debba essere superiore agli 850 gradi, per evitare la formazione di diossine. Al di sotto di questo valore, infatti, si attivano bruciatori a metano. Studi del Cnr, il Consiglio nazionale della ricerca, e Ispra hanno mostrato come l’inquinamento prodotto da questi impianti è sostanzialmente inesistente. Per gestire gli scarti di combustione, i termovalorizzatori moderni hanno mediamente 4 livelli di filtraggio per i fumi e sistemi di trattamento e sistemi di riciclo delle ceneri molto sofisticati. Le analisi sulla qualità dell’aria e di tipo epidemiologico sulle popolazioni che si trovano nei pressi di impianti di moderna generazione, come nel nord Europa, non hanno evidenziato un aumento di patologie nelle zone dove sorgono questi termovalorizzatori. Trattandosi di strutture che funzionano a combustione, però, contribuiscono all’effetto serra, al pari degli impianti di riscaldamento o dei veicoli circolanti su strada, perché producono anidride carbonica.

Servono davvero? «Serve davvero un impianto di incenerimento in ogni provincia? Secondo noi no. Questo non vuole dire opporsi a qualsiasi termovalorizzatore» spiega Barbara Meggetto, responsabile di Legambiente Lombardia. «Le realtà sul territorio sono molto differenti tra loro: in alcuni casi, come in Lombardia, la dotazione è sufficiente, in altre no. Servirebbero più impianti, ma questa non è comunque la soluzione definitiva: negli anni ’90, in piena emergenza rifiuti nel milanese, si è messo in moto un meccanismo per cui si sono costruiti impianti di incenerimento, ma si è anche potenziata la raccolta differenziata. È su questo punto che bisogna agire, anche perché per realizzare un termovalorizzatore occorrono anni: nel frattempo? Per questo dobbiamo prima di tutto potenziare la differenziata, poi capire esattamente quanti impianti occorrono per arrivare a chiudere le discariche. In Lombardia i rifiuti che vi finiscono sono meno dell’1%» aggiunge Meggetto. «No rifiuti, sì impianti. Economia circolare per la sostenibilità» sostiene FISE-Assoambiente, che riunisce le imprese che operano nel campo dei servizi ambientali: «Oggi l’attenzione è focalizzata tutta sui termovalorizzatori, ma il discorso è più ampio. L’Europa ci ha indicato alcuni obiettivi importanti: il 65% di raccolta differenziata e non oltre il 10% dei rifiuti da conferire in discarica. Avanza dunque una quota che quindi è logico pensare sia la termovalorizzare. Noi però riteniamo che i passaggi fondamentali siano tre: per prima cosa ridurre i rifiuti; in secondo luogo riciclarli, riportandoli nel mercato sotto forma di materie prime secondarie; in terzo luogo, cercare di portare il meno possibile in discarica, ricorrendo all’incenerimento per la quota residuale di rifiuti che non possono essere destinati a nuova vita, sfruttando l’energia che se ne può ricavare. I termovalorizzatori, dunque, servono ma devono essere parte di un sistema completo, una economia circolare» spiega il direttore della Federazione Imprese di Servizi-Assoambiente.

Come funzione all’estero? In Europa si producono in media 480 chili di rifiuti all’anno a testa. L’Italia è in linea con quasi mezza tonnellata (495 chili) per ciascun abitante. Il record negativo spetta a Danimarca (770 kg), Svizzera e Norvegia (circa 700 kg). Secondo il recente rapporto Eurostat, a fare la differenza sono però le quote riciclate: in Germania, ad esempio, dove si producono in media 600 chili di rifiuti per abitante, la differenziata si attesta intorno al 75%, mentre il resto viene bruciato e in discarica finiscono appena 9 kg, a fronte dei 123 kg dell’Italia. Complessivamente in Europa si ricicla circa il 30% di carta, vetro e plastica, mentre il compostaggio della frazione umida è pari al 17%. Sono 125 milioni, però, le tonnellate che in Europa finiscono agli inceneritori e in discarica, dove però la quantità di rifiuti che viene conferita è calata negli ultimi 23 anni da 145 milioni a 59 milioni di tonnellate.

Inceneritori in Europa. Sono oltre 350 gli impianti di termovalorizzazione o incenerimento che si trovano in 18 Paesi europei. Il report Ispra (2015) indica la Danimarca come Stato col maggior quantitativo di rifiuti bruciati (415 kg/abitante per anno), seguita da Paesi Bassi (245 kg), Finlandia (239 kg), Svezia (229 kg), Lussemburgo (213 kg), Austria (212 kg) e Germania (196 kg). L’Italia brucia appena 99 chili pro capite all’anno, meno anche rispetto a Paesi come l’Estonia (185 kg), il Belgio (181 kg), la Francia (174 kg) e il Regno Unito (152 kg).  «Il paradosso è che noi portiamo all’estero una quota di rifiuti da bruciare, perché da noi non è possibile farlo. Sono Paesi definiti “virtuosi”, come Olanda, Svezia o Germania, dove esistono inceneritori e cosiddette ‘miniere di sale’, ex cave oggi riempite di rifiuti per evitare che collassino e che dunque si sono trasformate in discariche» spiega Elisabetta Perrotta, direttore di FISE-Assoambiente.

Dove sono gli inceneritori? Oltre al caso di Brescia (con 880 mila tonnellate di rifiuti all’anno smaltiti), che rappresenta un’eccellenza italiana nel settore ed è nata dopo l’emergenza rifiuti degli anni '90, per via delle discariche piene, la maggior parte degli impianti che bruciano rifiuti in Italia si trova al Nord: secondo il Rapporto rifiuti urbani 2017dell’Ispra, dei 41 complessivi ben 14 sono in Lombardia. A seguire ci sono l’Emilia Romagna (con 8 strutture) e la Toscana (5 sulle complessive 9 del centro Italia), seguite da Veneto (2), Piemonte, Trentino Alto Adige e Fiuli Venezia Giulia, con uno per ciascuna regione. I più importanti sono quelli di Torino, Milano, Brescia e Parma. Sono solo 7 invece gli inceneritori al Sud: solo in Sardegna sono due, ma l’unico impianto di dimensioni adeguate è quello ad Acerra (Napoli), dove si bruciano 600mila tonnellate all’anno di rifiuti. Sicilia e Abruzzo ne sono completamente sprovviste. I cosiddetti “inceneritori senza recupero energetico” sono pochi: i principali sono a Marghera (Venezia), disattivato di recente, San Vittore (Frosinone), Colleferro (Roma), Gioia Tauro (Reggio Calabria), Capoterra (Cagliari), Melfi (Potenza), Statte (Taranto). Sono strutture dalle dimensioni ridotte (sotto le 100 mila tonnellate di rifiuti smaltiti all’anno), più costose e destinate alla dimissione, come nei casi di Vercelli, Ospedaletto (Pisa), Tolentino (Macerata), Statte (Taranto) o Macomer (Nuoro).

Effetto B.A.N.A.N.A (e NIMBY) ed esempi virtuosi. L’emergenza rifiuti in Italia deve fare i conti con l’effetto NIMBY, acronimo inglese di Not In My Back Yard ("non nel mio giardino"). A questo di recente se ne è aggiunto un altro: il cosiddetto B.A.N.A.N.A, ossia Built Absolutely Nothing Anywhere Near Anything: "non costruire assolutamente nulla da nessuna parte vicino a niente". Un paradosso, se si pensa che esistono esempi virtuosi di impianti realizzati nel centro di capitali europee, come la Danimarca. Qui, dove la quantità di rifiuti smaltiti tramite combustione è elevata, lo scorso anno è stato inaugurato un termovalorizzatore nel centro della capitale, Copenhaghen, e sul suo tetto a dicembre sarà aperta una pista da sci. Costato 670 milioni di dollari, l’impianto di Amager Bakke - CopenHill ha sostituito il vecchio inceneritore: brucia circa 400mila tonnellate di rifiuti all’anno e secondo le autorità danesi emette solo vapore acqueo, perché i filtri trattengono polveri e fumi. Permette di produrre elettricità, destinata a 62.500 abitazioni, e acqua calda a 160.000 unità.

Le materie prime secondarie. «Per fare questo occorre però anche creare un mercato delle cosiddette "materie prime seconde": sono quelle realizzate con il trattamento dei rifiuti, lavorati e trasformati in materiali riutilizzabili, che possono fare concorrenza a quelli primari. È il caso della carta riciclata o delle bottiglie in Pet riciclato, o ancora di alcuni materiali ricavati dal riciclo dei cellulari: contengono materiali anche preziosi che, se riutilizzati, ci permettono di ridurre l’importazione di materie prime dall’estero, in modo da essere più autosufficienti, e di ridurre i costi» conclude Perrotta.

Inceneritori in Italia, dove sono e qual è la differenza coi termovalorizzatori. Diversamente dai primi, i termoutilizzatori producono elettricità e non inquinano. Ma c'è il problema CO2. Da Nord a Sud, la mappa completa, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net. Inceneritori e termovalorizzatori. In molti li identificano come la stessa cosa. In realtà, non è così. I primi sono impianti che bruciano i rifiuti e basta, mentre i secondi sono impianti che bruciano i rifiuti per generare energia. Gli inceneritori sono impianti vecchi, che oggi non si costruiscono più: si preferiscono i termovalorizzatori, che permettono non solo di distruggere i rifiuti, ma anche di produrre elettricità.

DOVE SONO - In Italia gli inceneritori senza recupero energetico sono pochi e soprattutto al Sud: i principali sono a Porto Marghera (Venezia), San Vittore(Frosinone), Colleferro (Roma), Gioia Tauro (Reggio Calabria), Capoterra (Cagliari), Melfi (Potenza), Statte (Taranto). Gli impianti che bruciano rifiuti in Italia sono complessivamente 56, e per la maggior parte termovalorizzatori collocati al Nord (28 in tutto). Per quanto riguarda il Centro Italia, il numero maggiore di termovalorizzatori è in Toscana (5 su 9). L’intero Mezzogiorno che deve esportare l’immondizia ha appena 8 termoutilizzatori, di cui uno solo, quello di Acerra (Napoli), ha dimensioni efficienti. I più grandi d’Italia sono a Brescia (A2a, 880mila tonnellate l’anno) e Acerra (A2a, 600mila tonnellate l’anno). Di dimensioni industrialmente interessanti sono anche Milano (A2a), Torino (Iren), Parona Pavia (A2a), Padova (Hera), Granarolo Bologna(Hera), San Vittore del Lazio (Acea). Infine, ci sono decine di impiantini costosi, la cui ragione economica è sorretta dai vecchi incentivi Cip6 che stanno uscendo di scena insieme con gli inceneritori di cui sostengono il pareggio di bilancio. Diversi impianti di capacità inferiore alle 100mila tonnellate l’anno infatti sono spenti o funzionano in modo marginale, come quelli di Vercelli, Ospedaletto (Pisa), Tolentino (Macerata), Statte (Taranto)o Macomer (Nuoro).

IL BUSINESS DEI RIFIUTI AL SUD - Il fatto che la maggior parte di impianti sia al Nord non è senza conseguenze. Il caso di studio più importante è la Campania: con pochi e malfunzionanti impianti, nel 2016 (ultimo dato disponibile) la regione ha esportato 258 mila tonnellate di rifiuti urbani, arricchendo i consorzi di autotrasportatori e le municipalizzate settentrionali, proprietarie di impianti altrimenti affamati dall’aumento della raccolta differenziata (al Nord oltre il 64%, al Sud 37,6%; la Campania è al 52%, Napoli al 38%). Altre 103 mila tonnellate sono andate dalla Campania all’estero. In questa fase, il mercato paga 200 euro a tonnellata. Il conto è facile: il business dei rifiuti che la Campania non riesce a trattare vale almeno 70 milioni l’anno. Che consentono ai Comuni del Nord di calmierare le tasse sui rifiuti, a spese dei cittadini campani (ma anche dei romani, il meccanismo è analogo).

QUALI EFFETTI PER AMBIENTE E SALUTE - Inceneritori e termovalorizzatori bruciano lo stesso tipo di rifiuti, quelli solidi urbani (piccoli imballaggi, carta sporca e stoviglie di plastica, ad esempio) e quelli speciali (derivanti da attività produttive di industrie e aziende). Per legge la temperatura di combustione deve essere sopra gli 850 gradi, per evitare la formazione di diossine. Se la temperatura scende, si attivano bruciatori a metano. Rispetto agli inceneritori, i termovalorizzatori hanno in più radiatori dove l'acqua viene portata ad ebollizione, turbine azionate dal vapore e alternatori mossi dalle turbine che producono energia. Gli impianti più moderni distribuiscono anche acqua calda per i termosifoni delle case. Anche se l'impatto zero non esiste, come evidenziato da studi del Cnr e dell'Ispra, questi impianti sostanzialmente sono non inquinanti, ma hanno il problema degli scarti, in particolare ceneri e fumi. Per sopperire a questa complicazione, i moderni termovalorizzatori hanno 4 livelli di filtraggio per i fumi e sistemi di trattamento e riciclo delle ceneri molto avanzati. Anche per questo tutte le analisi epidemiologiche recenti condotte intorno agli impianti moderni non hanno evidenziato un aumento di patologie. Nel paesi del Nord Europa i termovalorizzatori sorgono in mezzo alle città. La combustione tuttavia produce CO2 e contribuisce all'effetto serra.

Copenhagen, Altro che termovalorizzatore: quello nuovo è una collina, con pista da sci. E non inquina. Il maxiprogetto Copenhill nella capitale danese: pareti per arrampicata, sentieri per hiking, caffetteria con vista sul porto e molto altro intorno a uno stabilimento di nuova generazione che brucia 440mila tonnellate di rifiuti ed emette solo vapore acqueo. Simone Cosimi l'08 ottobre 2019 su La Repubblica. Dai rifiuti alla produzione di energia fino al divertimento e allo sport. Oltre 9mila metri quadrati aperti tutto l’anno per la pista da sci Amager-Bakke, appena inaugurata in Danimarca, realizzata sul lungomare industriale di Amager, sito già ben noto per gli sport estremi. La curiosità è che quello battezzato sull’isolona a Sud di Copenhagen è un incredibile esempio di simbiosi industriale, visto che sorge sopra un termovalorizzatore cittadino perfettamente operativo. Il nuovo impianto di Amager Bakke-CopenHill è infatti costato 670 milioni di dollari e da due anni ha sostituito il vecchio termovalorizzatore mangia-rifiuti: brucia 400mila tonnellate di rifiuti all’anno ma dalla ciminiera, stando a quanto assicurano le autorità, esce solo vapore acqueo visto che i filtri di nuove generazione sono in grado di trattenere tutte le polveri e i fumi nocivi. Nulla da temere. Sul tetto di questo nuovo impianto – situato in realtà a una quarantina di minuti dal centro della capitale danese – è stato dunque ricavato un pendio lungo 200 metri, che scende dall’altezza di 90, con un grande tornante e una pendenza che arriva al 45%: è lì che è nata la pista da sci larga 60 metri in grado di ospitare 200 persone in contemporanea. Non c’è la neve, ovviamente, ma un veloce fondo di plastica italiano, fornito dalla Neveplast di Mebro, vicino Bergamo. Non mancano ascensori trasparenti e tappeti mobili per risalire fino alla “cima” e concedersi un’altra discesa metropolitana sulla creatura progettata dallo studio Big, Bjarke Ingels Group, insieme ad altre sigle (Sla, Akt, Lüchinger+Meyer, Moe e Rambøll) per una gara varata nel 2011. Il percorso è stato in effetti lungo, dovendo necessariamente seguire i tempi di costruzione dell’innovativo termovalorizzatore da 41mila metri quadri, anche se aveva parzialmente aperto ai visitatori già da un paio di anni. Pista da sci olimpionica, parco freestyle o pista da slalom a tempo: tutto questo sulla sommità di un impianto attivo 24 ore su 24 nel quale i visitatori possono anche sbirciare, mentre si divertono, risalendo tramite i diversi impianti. E per chi non scia sono disponibili un bar sul tetto con vista sul porto, una palestra per fare crossfit, una parete per l’arrampicata fra le più alte del mondo (85 metri) o una piattaforma d’osservazione, la più alta della città, per scattare qualche bella foto e scendere tramite il sentiero di 490 metri per l’hiking (e gli immancabili pic-nic) progettato dallo studio Sla. Mentre si fa sport o ci si rilassa , forni e turbine convertono oltre 440mila tonnellate di rifiuti all’anno in energia pulita che può fornire elettricità a 150mila abitazioni. Non mancano inoltre gli spazi per tour educativi, conferenze e ricerca accademica. Un vero polo multifunzionale sui generis anche perché è la stessa struttura – tappezzata di pannelli d’alluminio e vetro – a essere ecosostenibile, in piena filosofia che vuole fare di Copenhagen la prima città “carbon neutral” entro il 2025. Per esempio, il tetto da 10mila metri quadri assorbe calore filtrando inquinanti e particolato e minimizzando il deflusso delle acque piovane. Ultimo ma non ultimo, il parcheggio può essere riconvertito a pista di pattinaggio.“Come impianto energetico, CopenHill è talmente pulito che siamo stati in grado di convertire i suoi edifici nella pietra angolare della vita sociale della città: la sua facciata si può scalare, sul tetto ci si va a piedi e sui pendii si può sciare – ha spiegato lo studio di progettazione – un chiarissimo esempio di edonistica sostenibilità, cioè del fatto che una città sostenibile non è solo migliore per l’ambiente ma anche più divertente e godibile per i suoi cittadini”.

Copenaghen, l'inceneritore con pista da sci sul tetto. Di Maio: "Ce la vedo ad Acerra..." Tutto pronto per il nuovo termovalorizzatore costato 670 milioni di dollari. Produrrà energia a impatto zero. Attorno un parco con piste ciclabili e impianti sportivi. Sul lato più alto della struttura la parete artificiale d'arrampicata più alta del mondo, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net. Da un lato il Movimento cinque stelle con Di Maio apertamente contrario agli inceneritori. Dall'altro Salvini, sicuro che su questo tema l'Italia non tornerà indietro. La gestione dei rifiuti è ormai diventata un enorme problema globale, tanto da entrare prepotentemente nella dialettica di governo con i contrari e i favorevoli. Ma se l'Italia si scopre (in parte) spaventata da questi impianti che bruciano rifiuti e preoccupano per a loro incompatibilità con la salute pubblica, c'è chi va dritto per la propria strada e sposa la filosofia degli inceneritori senza avere paura. E' la Danimarca: a Copenaghen sta infatti per entrare definitivamente in funzione un termovalorizzatore che non solo brucia i rifiuti della città scandinava, ma produce energia sorgendo al centro di un parco pubblico e ospitando sul suo tetto una pista da sci, in funzione da dicembre. L'impianto della capitale danese (citato da Salvini e che brucia 400.000 tonnellate di rifiuti all'anno) è costato 670 milioni di dollari, ha cominciato i test di funzionamento nel 2017 ed è in fase di ultimazione. Di Maio, sul collega vicepremier che ha chiamato in causa l'esempio di Copenaghen, si è lasciato scappare una battuta. "Sì, ce la vedo proprio la pista di sci ad Acerra", ha detto a Caserta dopo la firma del protocollo d'intesa sulla Terra dei Fuochi. 

I SEGRETI DEL TERMOVALORIZZATORE - La struttura sorge in un’area verde 5 chilometri a nord della città e sarà gestito da un consorzio pubblico di 5 comuni a cominciare dal municipio di Copenaghen. L’impianto ne sostituirà uno già in funzione, fornirà energia elettrica a 62.500 mila abitazioni e acqua calda a 160mila. Di più. Funzionerà a impatto zero: dai camini uscirà infatti solo vapore acqueo. Non basta: attorno all’inceneritore di Copenaghen un parco con piste ciclabili e impianti sportivi, mentre sul tetto dell’impianto progettato dallo studio di architettura Bjarke Ingels Group, sarà realizzata una pista da sci lunga 200 metri mentre su uno dei lati dell’edificio è prevista una parete per l’arrampicata libera. Per quanto riguarda la prima novità, si tratta di un pendio lungo 200 metri sul tetto, con un grande tornante e una pendenza che arriva al 45%. Su questo pendio, che scende da un'altezza di 90 metri, è stata realizzata una pista da sci larga 60 metri con fondo in plastica, fornito dalla Neveplast di Nembro (Bergamo). Un ascensore e tappeti mobili permetteranno agli utenti di risalire. La struttura può accogliere fino a 200 sciatori e il biglietto dovrebbe costare 9,50 all'ora. Intorno alla pista verranno piantati alberi e realizzati sentieri per trekking e jogging e aree picnic. Sul lato più alto dell'impianto è in corso di costruzione una parete artificiale d'arrampicata alta 85 metri, la più alta del mondo. L'offerta "turistica" dell'impianto (chiamato Copenhill) sarà completata da un grande caffetteria con vista sul porto e da un ampio parcheggio, utilizzabile anche per eventi di pattinaggio.

Rifiuti. Cosa fanno a Parigi. Scrive il Consorzio Recuperi Energetici. Un termovalorizzatore in parte interrato che tratta 460 mila tonnellate di rifiuti l’anno sull’argine della Senna. Vi sembra una fantasia? No è la realtà dell’impianto di Syctom Isseane, a Issy -les- Moulineeaux, un Comune della cintura di Parigi. Il progetto raggruppa 48 Comuni che hanno aderito ad un medesimo piano e si sono messi insieme per smaltire i rifiuti, realizzando quest’impianto. Dal 2007 il centro tratta i rifiuti prodotti di circa un milione di abitanti...Un’apposita carta della qualità ambientale è stata sottoscritta con il comune di Issy che garantisce le condizioni di qualità, di sicurezza e di protezione dell’ambiente. L’impatto sulla salubrità dell’ambiente è regolato da limiti rigorosissimi. Un impianto simile e forse anche più avanzato è quello di Firenze almeno sul ciclo dei rifiuti. Qui si raggiunge il 54% della raccolta differenziata ed entro il 2020 è previsto il 70%. Il termovalorizzatore di Case Passerini eviterà che i rifiuti residui, ossia quelli non riciclabili, siano inviati altrove producendo energia elettrica equivalente al fabbisogno annuo di 40 mila persone, climatizzando l’intero aeroporto ed eliminando lo smog causato dai camion che trasportano rifiuti nelle discariche.

Sta per entrare in funzione la nuova struttura, che produrrà energia a impatto zero: dai camini uscirà solo vapore acqueo. Attorno un parco con impianti sportivi, scrive Claudio Del Frate 19 novembre 2018 "Il Corriere della Sera". Chi ha paura degli inceneritori? Di sicuro non la Danimarca: a Copenaghen sta per entrare definitivamente in funzione un impianto che non solo brucia i rifiuti della città, non solo produce energia ma che sorge al centro di un parco pubblico e, dulcis in fundo, ospiterà sul suo tetto una pista da sci. Un altro mondo rispetto all’Italia dove in queste ore ci si interroga se continuare a far funzionare i termovalorizzatori già esistenti. Una sfida aperta a chi teme che questa attività sia incompatibile con la salute pubblica.

Energia elettrica e acqua calda. Il nuovo forno della capitale danese - citato anche da Salvini per ribadire che sui rifiuti «non si torna indietro» - è costato 520 milioni di euro, ha cominciato i test di funzionamento nel 2017 ed è in fase di ultimazione in tutti i suoi dettagli: sorge in un’area verde 5 chilometri a nord della città e sarà gestito da un consorzio pubblico di 5 comuni a cominciare dal municipio di Copenaghen. L’impianto ne sostituirà uno già in funzione, fornirà energia elettrica a 65 mila abitazioni e acqua calda a 150mila. Le tecnologie d’avanguardia consentono all’inceneritore di funzionare a impatto zero: dai camini uscirà infatti solo vapore acqueo.

Parco e pista da sci. Ma la vera sfida è quella di far convivere smaltimento dei rifiuti e presenza degli abitanti di Copenaghen: attorno all’inceneritore c’è un parco con piste ciclabili e impianti sportivi, la progettazione è stata affidata a uno dei più prestigiosi studi di architettura del paese in modo da ridurre l’impatto urbano. Fino all’obiettivo più ambizioso. La pendenza del tetto dell’impianto verrà sfruttata per realizzare una pista da sci lunga 600 metri mentre su uno dei lati dell’edificio è prevista una parete per l’arrampicata libera. Anche in questo caso, i rifiuti serviranno a generare profitto: per accedere all’impianto - ribattezzato Copenhill - occorrerà pagare un pass di circa 10 euro giornalieri.

·        Rifiuti, ecoballe senza fine.

Rifiuti, ecoballe senza fine. Mentre Roma affonda nell'immondizia a Taverna del Re, il sito di stoccaggio più grande della Campania, ci sono milioni di tonnellate di rifiuti. Fabio Amendolara il 18 ottobre 2019 su Panorama. A Napoli, che di quelle balle ne ha prodotte la maggior parte, per il Friday for future, lo sciopero scolastico per il clima ideato dai follower di Greta Thunberg, il corteo si è così ingrossato che ha dovuto cambiare destinazione, da piazza Dante (troppo piccola) a piazza Cavour (ora nel centro storico, ma un tempo grande collettore di acque piovane). Uno striscione su due aveva impresso uno slogan sulla Terra dei fuochi. Passata la manifestazione, in via Toledo, qualcuno sui social ha documentato tra le polemiche lo stato in cui i manifestanti avevano lasciato una delle strade più importanti di Napoli. Tutto materiale che finirà compattato e impacchettato a Taverna del Re, o chissà dove, visto che ad agosto, in piena stagione turistica, una ecoballa, forse caduta nel 2015 dalla motonave Ivy al largo dell’isola di Cerboli, Canale di Piombino, è stata trovata dalla Capitaneria di Porto di Portoferraio a mezzo miglio marino al largo di Capo Calvo, nella costa sud-est dell’isola d’Elba, tra Capoliveri e Porto Azzurro, in piena area del Santuario dei mammiferi marini. Altre ecoballe per magia finiscono incenerite, quasi tutte certificate, poi, con una causa di autocombustione. Perché, qui, in ogni pezzetto di terra lasciato incontrollato per un attimo dallo Stato, arriva la camorra. «A munnezza è oro» disse profetico Nunzio Perrella, in una delle sue tre vite (quella da boss pentito), a un giovanissimo Franco Roberti, tra i primi magistrati a occuparsi in quest’area di traffico di rifiuti. Nella sua prima vita Perrella era un mammasantissima dei clan e quegli intrallazzi li conosceva benissimo. Nella terza vita ha cercato popolarità (come se in quest’area gli mancasse) e si è trasformato in una Iena: con una telecamera nascosta ha fatto l’esca per una video inchiesta di Fanpage che fece arrabbiare Vincenzo De Luca. L’ex sindaco di Salerno, ora governatore della Campania, a ogni intervista dà una nuova data per smantellare la grande discarica. È fissa nella mente dei cittadini l’immagine dell’11 giugno 2016 con De Luca e Matteo Renzi, allora premier, all’ingresso dell’area delle piramidi di monnezza. In quei giorni la Regione Campania aveva bandito una gara per lo smaltimento di una prima partita da 789 mila tonnellate: otto lotti, valore complessivo 118 milioni di euro. Sei le ditte impegnate nell’operazione, ma a tre anni di distanza le tonnellate rimosse sono ferme a nemmeno 60 mila. «Via le ecoballe dalla terra dei fuochi» disse Renzi con la sua solita spocchia. «Ripuliremo la Campania in tre anni. Via la camorra dalla gestione dei rifiuti». Qualcuno tra chi era con loro già ridacchiava. E, infatti, se si prova a ricordare ai napoletani quel siparietto di Renzi si ottiene sempre questa risposta: «Chill’, Renzi, è ’nu parlettiero». Termine dialettale che indica uno smargiasso. Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è preoccupato. Solo una minima parte delle ecoballe è stata rimossa e a giugno ha sollecitato le autorità italiane ad attuare senza ritardi il piano per lo smaltimento, affrontando i problemi evidenziati dalla Corte di Strasburgo nella condanna 2012 per aver costretto i cittadini di Somma Vesuviana a vivere tra i rifiuti. Il governo dovrà fornire entro il 16 dicembre informazioni dettagliate sul sistema di smaltimento, inclusa la capacità degli impianti. Inoltre, le autorità devono assicurare che i cittadini possano fare ricorso contro la cattiva gestione del sistema. Nel frattempo bisogna pagare una multa: 120 mila euro al giorno. E questa è la parte più costosa dell’operazione. La più spericolata è legata ai terreni: in 14 anni sono stati pagati 24 milioni di euro, quasi 2 milioni l’anno, per remunerare i proprietari dei siti che ospitano la discarica. I parlamentari della Commissione sul ciclo dei rifiuti della passata legislatura, oltre a ricostruire i costi per gli affitti, si sono occupati delle vicende giudiziarie dei proprietari con cui Fibe Impregilo stipulò i contratti. I loro curriculum sono di tutto rispetto: si va dai segnalati per associazione mafiosa ai fiancheggiatori dei boss dei casalesi. A Santa Maria la Fossa, per esempio, Luigia Fontana e Giuseppina Martinelli, titolari di due particelle catastali, hanno incassato circa 3 milioni di euro. La Commissione scoprì che le due sono coniugate con i fratelli Giuseppe e Pasquale Mastrominico, imprenditori, condannati nel 2015 in primo grado a otto anni di reclusione, dato che si barcamenavano nei rapporti tra Antonio Iovine e il gruppo di «Sandokan». Storie di Gomorra a parte, il sindaco di Napoli, che è anche presidente della Città metropolitana, più che del passato preferisce parlare del presente, perché la crisi dei rifiuti si sta ripresentando con una seconda, drammatica puntata. La chiusura dell’inceneritore di Acerra ha messo di nuovo in crisi il sistema. E come fa sempre da otto anni, ritira fuori la storia dei «siti di compostaggio». Un progetto che la sua amministrazione non è mai riuscita a realizzare. E annuncia di nuovo: «C’è stata una svolta e siamo già in fase molto avanzata. L’obiettivo è realizzarli entro la fine del mio mandato». Un paio d’anni. Quello del compostaggio è il tema del momento. Anche De Luca annuncia la costruzione di 15 impianti. Ma le ecoballe? Raffaele Cantone, ex presidente dell’Anac, commenta deluso: «Le ecoballe sono ancora lì. Sfregio enorme per questo territorio». E ricorda che il governo Renzi stanziò 250 milioni: «Allora, tre anni fa, si disse che in breve temo quel fiume nero che si vede dall’alto si sarebbe prosciugato. Non è accaduto». Ma Renzi, si sa, è un «parlettiero». E gli altri? Al momento si fanno tante chiacchiere, ma «per rimozione e smaltimento», sentenziano dall’associazione ambientalista Liberamente insieme, «ci vorranno 19 anni». 

·        Si fa presto a dire plastic-free.

L’impresa  delle imprese «Via la plastica?  Un dovere morale». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 da Corriere.it. Sono d’accordo sulla necessità di ridurre l’uso del plastica, e adottano spontaneamente comportamenti virtuosi in tal senso per un «dovere morale». Anche nel caso sia necessario sostenere qualche onere in più. È quanto emerge un po’ a sorpresa da un’indagine condotta per conto di Confcommercio fra oltre 400 imprese, associate e non, che operano nel commercio alimentare, nella ristorazione, nel turismo, quindi dai negozi ai bar, dagli stabilimenti balneari agli alberghi. «In effetti la percentuale di consenso e consapevolezza sui temi ambientali è risultata molto alta - dice Pierpaolo Masciocchi, responsabile ambiente dell’associazione - e ciò va considerato con attenzione soprattutto pensando al fatto che le aziende interpellate vivono il nostro patrimonio naturale e artistico come elemento d’impresa e si sentono chiamate al dovere etico di partecipare alla sua salvaguardia». Punto di partenza dell’indagine è la direttiva emessa di recente dal Parlamento europeo che prevede, a partire dal 2021, il divieto di vendita di articoli di plastica monouso (che andranno sostituiti con prodotti biodegradabili) e un secondo step di ulteriori limitazioni entro il 2025. La direttiva non è stata ancora recepita in Italia ma rappresenta un punto fermo importante per la tutela dell’ambiente. Ebbene, le imprese la conoscono? Il 96 per cento ha risposto in modo affermativo e il 95 la valuta in termini positivi. Quasi la metà poi ritiene che ridurre l’uso della plastica sia un «dovere morale» e quasi un terzo ritiene che l’ambiente e il mare siano una «ricchezza economica». Il 68 per cento ha appreso l’informazione dalla tv, il 18,3 dai giornali e il 17,9 dai social network. Per quanto riguarda le conseguenze attese per il settore, il 66,6 per cento pensa che la direttiva non avrà impatto, il 16,7 lo prevede negativo mentre il 18,5% lo stima positivo, soprattutto in relazione «alla valorizzazione della propria impresa come “attenta all’ambiente”». Di gran lunga più bassa è la conoscenza di direttive locali plastic free: solo il 20 per cento ha risposto in modo affermativo. E meno del 17,6 per cento ha dichiarato di sapere che da gennaio 2019 è in vigore un credito d’imposta sulle spese sostenute per gli acquisti di prodotti riciclati. Fra questi il 60 per cento considera positivo il provvedimento. In parte può sorprendere anche il fatto che, al di là della conoscenza delle disposizioni green, il 72,5 per cento delle imprese dichiara di aver già adottato almeno una strategia per la riduzione della plastica monouso. «Si tratta di comportamenti virtuosi spontanei, nel senso che non seguono obblighi o divieti - sottolinea Masciocchi - mentre nel 52 per cento dei casi sono adottati “da sempre” e quasi il 40 per cento li definisce come “dettati da principi di etica ambientale”». Fra le policy più diffuse il 54,4 per cento delle imprese ha deciso di fornire ai clienti sacchetti biodegradabili, il 51,4 per cento vende o serve bevande unicamente in bottiglie di vetro, il 41,1 confeziona i prodotti solo in contenitori biodegradabili e circa il 30 fornisce ai clienti stoviglie, posate e accessori di materiale lavabile e riutilizzabile. Tutte azioni di contenimento della plastica che, in circa metà dei casi, hanno comportato per le imprese un aumento dei costi. Ma hanno premiato il dovere morale e l’effetto «reputazionale». La sensibilità ambientale non è comunque riservata alla sola plastica monouso. Secondo la ricerca il 70 per cento delle imprese ha adottato almeno una politica a favore di un risparmio o di una maggiore efficenza in campo energetico. Nella maggior parte dei casi sono state utilizzate lampadine a led, macchinari ed elettrodomestici a basso consumo, rubinetti o sistemi luce temporizzati. Pur autonome dunque nel dirigersi verso una maggiore sostenibilità, le aziende chiedono però una presenza attiva sul tema da parte delle associazioni di categoria, e nello specifico di Confcommercio: il 75 per cento auspica la promozione di comportamenti green e oltre la metà aderirebbe a progetti e iniziative sulla sostenibilità.

La tassa sulla plastica: una misura per fare cassa senza una strategia industriale. Sulla "plastic tax" abbiamo chiesto l'opinione di chi la usa, produce, ricicla, scoprendo che la tassa esiste, è già aumentata nel 2019 e nel 2020 salirà ancora. Panorama il 18 ottobre 2019. "Il provvedimento del Governo, relativo alla tassa sulla plastica (la "plastic Tax") non è solo discutibile in quanto tale, (è appunto una nuova tassa), ma è un provvedimento privo di fondamento logico, perché il problema non è combattere la plastica come materiale, ma combattere contro la plastica non raccolta, abbandonata e dispersa nell'ambiente. Si rischia così di criminalizzare un materiale, misconoscendone il valore, semplicemente per l’incapacità del governo e delle amministrazioni a gestire il problema rifiuti. Ci si sofferma sugli effetti e non si trattano le cause". E' l'opinione dei produttori ed utilizzatori di plastica, soprattutto quella per alimenti, che leggono con preoccupazione le notizie riguardanti l'introduzione dell'ennesima gabella. Anche perché ad inizio anno c'è già stato un aumento significativo di quella che è la tassa sulla plastica esistente, e cioè il "Contributo Ambientale Conai". Nel 2019 infatti, rispetto al 2018, il contributo è cresciuto, in maniera importante.

Fascia 1 - (2018) 179 euro a tonnellata; (2019) 150 euro/tonn

Fascia 2 - (2018) 208 euro a tonnellata; (2019) da 208 a 263 euro/tonn

Fascia 3 - (2018) 228 euro a tonnellata; (2019) a 369 euro/tonn

Ma c'è di più. Il Conai ha già stabilito un ulteriore aumento dal 1 gennaio 2020. Il costo medio delle tre fasce per la plastica salirà da 268 euro/tonn a 330 euro/tonn.

Nessuno può negare che il problema dei rifiuti abbia effetti evidenti e disastrosi sull'ambiente. Non serve ricordare i cumuli di spazzatura che deturpano in modo particolare alcune città come amplificato dai media. Le soluzioni però ci sarebbero, anzi ci sono. Ciò che manca e a cui il governo dovrebbe puntare nell’interesse del reale del Paese, è una vera informazione ed educazione sull’importanza del corretto smaltimento e del valore che si può derivare dai rifiuti plastici, recuperando e smaltendo correttamente la plastica. Si preferisce tassare, anziché informare, ed educare, scaricando l’inefficienza della raccolta e la gestione del problema, sulle spalle dell’industria della plastica, già colpita da pesanti contributi ambientali i cui frutti dovrebbero essere proprio utilizzati per favorire la ricerca scientifica e tecnologica. L’Europa stessa ha definito una strategia "New Plastic Strategy" che prevede obiettivi di riduzione della plastica (50% entro il 2025, e 55% entro il 2030). Gli stati membri si stanno attivando per recepire la direttiva, con alcuni paesi quali la Germania che hanno già legiferato in materia incentivando al massimo il riciclo, riducendo quasi a zero il conferimento in discarica, (“landfill”), che è per tutti il fine ultimo. E l’Italia come risponde? Scaricando il problema sulle aziende del comparto e alla lunga sui consumatori, che si troveranno a pagare costi maggiori, ritrovandosi poi magari a dover fare i conti con il fatto che la plastica risolve di fatto molti problemi, (come già è successo in alcuni esperimenti compiuti da alcune catene distributive che hanno dovuto buttare al macero intere partite di merce avendo eliminato il packaging plastico che le proteggeva). La plastica infatti, alla stregua di altri materiali, può essere un perfetto materiale circolare, se raccolto e non disperso nell’ambiente. Il pet delle bottiglie in plastica è già perfettamente riciclabile non solo dando vita ad altri materiali, quali tessuti o fibre, ma può ritornare bottiglia. Basta raccoglierlo. Non disperderlo. Questo dovrebbe essere insegnato anche nelle scuole, e spiegato ai consumatori, senza punirli o vessarli con tasse e balzelli: basta solo educare ma per educare bisogna conoscere. Il materiale, la filiera, le aziende. C'è poi il discorso, spinoso, degli inceneritori. In Svizzera, ad esempio, esistono impianti di ultima generazione capaci di smaltire e sfruttare l'energia prodotta senza inquinare. Anche la plastica viene smaltita in questa maniera. L'Italia invece si ostina per mancanza di fondi ma anche di cultura, a scegliere questa strada accumulando rifiuti, problemi e spesso finendo con lo spedire il materiale all'estero a costi assurdi. Il settore industriale delle materie plastiche, che oltre ad essere un’eccellenza italiana, con un indotto occupazionale che coinvolge circa 10.000 aziende con 150.000 addetti ed un fatturato di 40 miliardi di euro (dati Federazione Unionplast) è tra quelli più innovativi nell’ambito della ricerca di nuovi materiali e tecnologie per il riciclo, per il fine vita, un settore che rappresenta per il Paese un’importante voce di bilancio: siamo tra i principali esportatori con un indotto che riguarda non solo materiali, ma tecnologie di stampa, stampaggio e macchinari. Un comparto dove le innovazioni sono costanti, basti pensare che i materiali plastici si sono notevolmente alleggeriti nell’ultimo decennio, (un esempio sono proprio i flaconi o le bottiglie, che hanno visto una costante riduzione di peso e che oggi dispongono di un efficiente sistema di riciclo funzionante in tutta Europa). In quest’ottica si è sviluppato poi l’imballaggio flessibile, nato proprio per rispondere all’esigenza della riduzione di peso: ha infatti un basso impatto ambientale, con un consumo di risorse minimo offre prestazioni e performance elevate, garantendo integrità di molti alimenti, dai secchi ai liquidi, ottimizzazione dei costi di logistica e grande funzionalità e sicurezza. Per questo l’imballaggio flessibile è in crescita, in molti settori e come tutto il comparto, anche l’imballaggio flessibile si è già mosso per sviluppare tecnologie e materiali in ottica di economia circolare che rendano cioè possibile e più facile il riciclo. Interessante è il lavoro del Ceflex un consorzio che raggruppa più di 150 stakeholders di tutta la filiera dell’imballaggio flessibile, (dai grandi produttori di resine, ai converter, ai brand, enti scientifici e di ricerca, associazioni, fino ai produttori di impianti di riciclo, ed ai riciclatori) il cui obiettivo è proprio quello di raggiungere la massima riciclabilità, e questo viene fatto attraverso la ricerca e la condivisione di sperimentazioni e progetti. Tutto ciò dimostra che l’industria della plastica si è mossa prima dei governi e delle istituzioni con la ricerca, nella maggior parte dei casi autofinanziata, per dare vita non solo a materiali riciclabili e rinnovabili, ma per occuparsi del fine vita dei manufatti attraverso tecnologie di ultima generazione rispondenti ai criteri dell’economia circolare. Pochi sanno che oggi esistono anche in Italia molti riciclatori già attrezzati per il riciclo meccanico, capaci di selezionare e riciclare manufatti e che il 15% della plastica proviene da economia circolare. La domanda di polimeri riciclati è salita del 3,1% nel 2018, ma occorre creare un mercato adatto a recepire imballaggi contenenti plastica riciclata sicuri, ma non solo. Sarebbe utile spingere in questa direzione con provvedimenti e sgravi fiscali a supporto. Un capitolo a parte riguarda poi il riciclo chimico dove ci sono impianti e tecnologie all’avanguardia, con testimonianze nel Nord Europa, dove stanno per diventare operativi impianti di riciclo chimico integrato, capaci di trasformare i rifiuti plastici in oli attraverso sistemi di pirolisi e purificazione degli stessi. Occorre quindi potenziare la ricerca scientifica, sostenerla anche a livello nazionale, con un vero piano per la transizione verso l’Economia circolare , incrementando il supporto alle aziende che innovano ed investono in tal senso. Questa è la vera svolta sostenibile! Parlare di plastica in senso generico, e demonizzarla, vuol dire non conoscere la realtà e non credere nel progresso scientifico e tecnologico, il che dovrebbe far riflettere sulla deriva di un paese che ha dato alla chimica premi Nobel e ora che pensa di risolvere il problema della plastica con tasse e divieti, mandandoci a comperare i prodotti alla spina.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 18 ottobre 2019. "Come vuole l' acqua"? "Fredda, naturale e non tassata". La tassa sulle bottiglie di plastica è innanzitutto una tassa sull' acqua. Ed è odiosa perché moraleggia. Il governo si finge ambientalista per lucrare sul consumo - primario - di 14 miliardi di litri in 8 miliardi di bottiglie l' anno. Non affronta il disastro ambientale con leggi sui materiali e incentivi alla raccolta, ne approfitta. Tasserà l' aria inquinata, il respiro?

Ci siamo imballati. Report Rai PUNTATA DEL 16/06/2019 di Cecilia Andrea Bacci. Il 40% della plastica prodotta nel mondo - 8,3 miliardi di tonnellate tra il 1950 e il 2015 - viene utilizzata per realizzare imballaggi. Di tutta quella plastica, ne è stata riciclata appena il 9%. La produzione cresce e, dai 340 milioni attuali, potrebbe arrivare a superare un miliardo di tonnellate all'anno entro il 2050. Dovevamo ridurre, riutilizzare e riciclare. A che punto siamo? E come funziona la raccolta della plastica, che riguarda prevalentemente gli imballaggi domestici?

CI SIAMO IMBALLATI di Cecilia Bacci. 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo della plastica, una grande risorsa per le sue qualità, però per le stesse qualità diventa un problema mondiale dopo l’uso, per via della sua composizione: parliamo di 200 polimeri diversi. Non è biodegradabile e per questo a Londra stanno cercando la soluzione a questo problema.

WILL GARRARD – MANAGER RECYCLING TECHNOLOGIES Ecco: questa è tutta plastica non riciclabile. Polimeri preziosi che nessuno vuole più. E questa busta laminata? Non è riciclabile perché, oltre all’alluminio, è composta da due tipi di plastica. Togliamo il metallo e il resto viene bruciato. Tutto materiale che solitamente non viene processato. Noi, però, lo facciamo.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO E lo fanno grazie al thermal cracking. Una metodologia che stanno testando qui, in un impianto di riciclaggio a un’ora da Londra.

MARVINE BESONG – INGEGNERE RECYCLING TECHNOLOGIES La plastica non è altro che una lunga catena di molecole. Noi spezziamo quella catena in frazioni più piccole.

CECILIA BACCI E cosa ottenete? MARVINE BESONG – INGEGNERE RECYCLING TECHNOLOGIES Quattro prodotti: una cera, con cui poi si possono realizzare, per esempio, candele, e poi tre olii che tornano alle aziende petrolchimiche. E possono essere utilizzati anche come carburante a basso contenuto di zolfo per le navi.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Dal prodotto finale, il plaxx, si può ricavare soprattutto plastica vergine.

MARVINE BESONG – INGEGNERE RECYCLING TECHNOLOGIES Da una tonnellata di plastica ricaviamo circa 750 chili di plaxx.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Di plastica, questo macchinario, ne può riciclare fino a 7 mila tonnellate l’anno.

MARVINE BESONG – INGEGNERE RECYCLING TECHNOLOGIES Lo abbiamo progettato per essere modulare e quindi poterlo trasportare in tutto il mondo, là dove c’è plastica da riciclare. In pratica, portiamo la soluzione al problema.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Il problema è questa plastica, quella non valorizzabile dal riciclo meccanico. In Italia la chiamiamo plasmix.

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA C’è un po’ di polistirolo, qui c’è addirittura un tappo che non viene selezionato. Qui addirittura c’è della carta.

CECILIA BACCI I prodotti difficilmente riciclabili sono, mi viene da dire, magari una bustina con dentro una parte laminata oppure una parte in carta.

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA Bravissima. Sono i poliaccoppiati, nel senso: più materiali diversi, più plastiche diverse. Questo è il punto di partenza, il plasmix, questo è il CSS, il combustibile secondario che viene poi utilizzato nei cementifici o nel recupero energetico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Importiamolo subito questo thermal cracking. Perché noi la plastica, il cosiddetto plasmix che non riusciamo a riciclare, lo bruciamo nei cementifici, che sono diventati a tutti gli effetti degli inceneritori. Oggi si va avanti con la logica che chi inquina, paga. Ma è una partita di giro e quindi i produttori aumentano i prezzi e lo paghiamo tutti noi. Ma almeno servisse a smaltirla, la plastica. Invece dagli anni Cinquanta a oggi solo il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito, e quindi ce lo siamo inalato o mangiato attraverso altri veicoli. E il 79% è ancora in giro, in discarica o nell’ambiente. Noi dovremmo pretendere invece che chi produce gli imballaggi di plastica faccia in modo che la plastica continui ad essere una risorsa anche dopo l’uso. Altrimenti mortifichiamo anche il gesto di chi pensa di salvare l’ambiente riciclando e invece vede il suo imballaggio bruciato all’interno di un capannone. Questo perché la Cina non ne vuole più sapere di importare la plastica quando invece noi continuiamo a generarla e con essa anche i sensi di colpa. La nostra Cecilia Bacci.

OLIVIER HOEDEMAN – CORPORATE EUROPE OBSERVATORY Addossare tutto sulle spalle del consumatore è una strategia che risale agli anni ‘50 ed è il cuore delle politiche messe in piedi dalle lobby della plastica e degli imballaggi. Vorrebbero far passare il messaggio che l’inquinamento è tutta questione di cattive abitudini. Che è colpa dei consumatori che gettano i rifiuti in natura e non nel cestino. Così distolgono l’attenzione da loro stessi, che quella plastica la producono.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Santa Barbara, California: Roland Geyer è l’autore di uno studio, primo nel suo genere, che quantifica tutta la plastica prodotta dagli anni ‘50 ad oggi: com’è stata utilizzata e che fine ha fatto.

ROLAND GEYER – PROFESSORE ECOLOGIA INDUSTRIALE UNIVERSITÀ DI SANTA BARBARA Di tutta la plastica che abbiamo prodotto, ne abbiamo riciclato soltanto il 9 per cento. Il 12 è stato incenerito e ben il 79 per cento è finito in discarica oppure è ancora in giro, nell’ambiente.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO È più ottimista l’OCSE, che nel 2018 stimava che la plastica riciclata fosse il 15 per cento. Ma non aveva preso in considerazione l’intero periodo di produzione, dagli anni ‘50 in poi.

ROLAND GEYER – PROFESSORE ECOLOGIA INDUSTRIALE UNIVERSITÀ DI SANTA BARBARA Dal 1950 al 2015 abbiamo prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Numero che sta ulteriormente crescendo. E della plastica prodotta, il 40 per cento serve a realizzare imballaggi.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Ovvero prodotti pensati per contenere e proteggere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti.

MARK MIODOWNIK – PROFESSORE SCIENZE DEI MATERIALI UNIVERSITY COLLEGE LONDRA Pensa allo shampoo e a dove viene imbottigliato. Le bottiglie vengono riempite una dopo l’altra, velocemente. Poi i tappi vengono pressati sopra. Se la bottiglia non fosse resistente, esploderebbe. Il tappo invece deve essere aperto ed è fatto in un altro modo. Quella bottiglia la usi per un mese e poi la getti. Ma riflettici: stai buttando via qualcosa di molto speciale.

CECILIA BACCI E perché è così speciale?

MARK MIODOWNIK – PROFESSORE SCIENZE DEI MATERIALI UNIVERSITY COLLEGE LONDRA Perché è un capolavoro, un mix di materiali differenti pensati per svolgere al meglio il loro compito e permetterti di goderti il prodotto.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Di plastiche ne esistono oltre 200 tipi. I cinque polimeri più diffusi sono polietilene, polipropilene, PVC, PET e polistirene.

PAOLA FABBRI – PROFESSORESSA SCIENZE DEI MATERIALI UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Tutta questa variabilità chimica, composizionale - un grande vantaggio dal punto di vista applicativo - quando però dobbiamo andare a gestire a fine vita d’uso i flussi di materiale di scarto, ci impone...

CECILIA BACCI Servirebbe separare.

PAOLA FABBRI – PROFESSORESSA SCIENZE DEI MATERIALI UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Una separazione. Esattamente. Molto accurata. Molto accurata. Altrimenti le plastiche, quando vengono rilavorate insieme, rifuse congiuntamente come plastiche miste, molto di frequente si va verso proprietà fisico-meccaniche scadenti.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Lo scorso gennaio New York ha detto addio ai contenitori in polistirolo: bicchieri, piatti e scodelle. Veri e propri simboli dello street food.

SAMANTHA MACBRIDE – DIPARTIMENTO SALUTE CITTÀ DI NEW YORK Ne consumavamo circa 30 mila tonnellate all’anno. Ci siamo detti: o dimostriamo di poterlo riciclare senza spreco di risorse, nel pieno rispetto dell’ambiente e in tutta sicurezza o lo bandiamo.

CECILIA BACCI Avete provato a capire se fosse sostenibile riciclarlo?

SAMANTHA MACBRIDE – DIPARTIMENTO SALUTE CITTÀ DI NEW YORK Sì. È molto difficile da lavare e poi, quando arriva negli impianti di riciclaggio, è difficile da separare. Si frantuma in mille pezzi, si appiattisce. E poi, una volta riciclato, non interessa praticamente a nessuno comprarlo.

CECILIA BACCI Il divieto sarebbe dovuto entrare in vigore nel 2015 ma le industrie...

SAMANTHA MACBRIDE – DIPARTIMENTO SALUTE CITTÀ DI NEW YORK ...sono ricorse in appello sostenendo che esistesse un mercato per il polistirolo riciclato.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO New York ha alle spalle vere e proprie guerre con chi fabbrica la plastica. Nel 1971 aveva proposto una tassa sulle bottiglie, ma vinse l’associazione degli industriali, che riteneva che il provvedimento avrebbe fatto perdere troppi posti di lavoro. Ma ha avuto la sua rivincita nella guerra contro il polistirolo.

SAMANTHA MACBRIDE – DIPARTIMENTO SALUTE CITTÀ DI NEW YORK Anche perché, una volta riciclato, spetta a noi, al Comune, rivenderlo.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO I costi gravano esclusivamente sul comune che dovrebbe riciclare a sue spese per poi rimanere col cerino in mano perché il polistirolo riciclato non lo compra nessuno. È il sistema degli Stati Uniti, patria dell’usa e getta, oggi in crisi perché la Cina ha detto basta all’importazione della maggior parte delle plastiche. GIUSEPPE UNGHERESE – GREENPEACE ITALIA Tutti quei rifiuti che prima, dall’occidente, arrivavano in Cina, hanno dovuto trovare delle nuove rotte e delle nuove destinazioni. Paesi come la Malesia, la Thailandia, il Vietnam.

CECILIA BACCI Quindi stiamo parlando di Asia…

GIUSEPPE UNGHERESE – GREENPEACE ITALIA Paesi tutt’altro che dotati di sistemi di recupero e riciclo efficienti.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO E infatti in diversi paesi è andata a finire così. Ma il vento sta cambiando grazie all’aggiornamento del trattato internazionale più completo sui rifiuti pericolosi: la convenzione di Basilea voluta dalle Nazioni Unite. Chi spedisce i propri rifiuti dovrà essere autorizzato dal paese di destinazione. E i primi dinieghi sono già arrivati. Mentre in Europa vale - o almeno dovrebbe valere - un principio: chi inquina, paga. Lo stabilisce la direttiva UE sugli imballaggi del 1994 e riguarda direttamente il produttore.

ANDREA FARÌ – PROFESSORE DIRITTO DELL’AMBIENTE UNIVERSITÀ ROMA TRE Che ha l’obbligo di sostenere i costi della raccolta e del recupero di quel prodotto quando diventerà rifiuto, e di organizzare un sistema idoneo a raccogliere e a portare a recupero di materia quel bene quando diventa rifiuto.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO La responsabilità estesa del produttore è uno strumento economico fondamentale per l’economia circolare. Raccolta e recupero devono essere efficienti. Ma non tutti gli Stati si sono dimostrati all’altezza. Così il legislatore europeo ha stabilito criteri minimi.

ANDREA FARÌ – PROFESSORE DIRITTO DELL’AMBIENTE UNIVERSITÀ ROMA TRE I sistemi di responsabilità estesa del produttore, che poi nel nostro ordinamento storicamente hanno assunto la forma dei consorzi, devono appunto garantire la raccolta su tutto il territorio nazionale.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO E, oltre a coprire i costi, garantire il raggiungimento degli obiettivi. Ma a che punto siamo?

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA Al 44 per cento già ora.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Se il 44 per cento viene riciclato, un altro 40 per cento finisce in cementifici e inceneritori per il recupero energetico: 908 mila tonnellate su 2 milioni e 292 mila immesse nel mercato nel 2018. Nel sistema italiano la responsabilità diventa condivisa tra produttori e utilizzatori. Ovvero tra chi produce questa bottiglia e chi la commercializza con all’interno dell’acqua. Il riciclo viene gestito dal Corepla, che compra e rivende la plastica.

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA All’ingresso nei centri di selezione viene pesato il quantitativo che viene conferito dai singoli comuni o dalle singole municipalizzate. In base alla qualità, alla pulizia del prodotto il Comune che ha fatto questo conferimento viene ricompensato con circa in media 300 euro a tonnellata.

CECILIA BACCI Avete reso, nel 2018?

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA 350 milioni di euro ai Comuni.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Nel 2014, però, l’Antitrust valutava che quanto corrisposto dal Corepla coprisse solo in parte i costi sostenuti dai Comuni.

FILIPPO ARENA – SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Abbiamo fatto questo calcolo del 20 per cento complessivo di costi dei produttori da materiale da imballaggio che poi venivano effettivamente versati rispetto, invece, all’attività necessaria.

CECILIA BACCI Versati ai Comuni.

FILIPPO ARENA – SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Versati ai Comuni, esatto.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Quei soldi rappresentano una delle uscite più importanti per il Corepla. L’entrata più significativa si deve al contributo ambientale che produttori e utilizzatori versano per pagare i costi dell’avvio al riciclo dei propri imballaggi.

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA Gli oneri dipendono molto da come la gestione è effettuata. CECILIA BACCI In virtù di cosa lei mi dice che la coprite?

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA Abbiamo fatto degli studi. Un grande comune italiano, parlando con il responsabile, mi ha detto che tramite i contributi che provengono da Corepla ha portato a pareggio la municipalizzata locale. Per cui ritengo che il costo nostro non coprisse solo i maggiori oneri ma coprisse tutti i costi.

CECILIA BACCI Di che Comune stiamo parlando?

ANTONELLO CIOTTI – PRESIDENTE COREPLA Non glielo posso dire.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Non si capisce perché si debba tenere segreto. Comunque, dallo scorso anno chi produce imballaggi difficilmente riciclabili, paga di più: 369 euro a tonnellata contro i 208 degli imballaggi domestici. Ma ci abbiamo messo più di vent’anni! Intanto le multinazionali del pianeta, davanti alla fondazione Ellen McArthur, hanno fatto una promessa: non solo ridurre la quantità di plastica immessa nell’ambiente ma limitare anche la varietà di polimeri e colori.

MARK MIODOWNIK – PROFESSORE SCIENZE DEI MATERIALI UNIVERSITY COLLEGE LONDRA Abbiamo visto, in altri paesi, che se l’industria decide di fabbricare le bottiglie d’acqua con soltanto un tipo di plastica la percentuale riciclata cresce fortemente.

CECILIA BACCI Per esempio? MARK MIODOWNIK – PROFESSORE SCIENZE DEI MATERIALI UNIVERSITY COLLEGE LONDRA Il Giappone. Avevano un problema con tutte queste bottiglie per i soft drink: alcune verdi, altre blu, altre rosse. Una cosa terribile da riciclare perché creava un prodotto marrone che nessuno voleva usare. Poi le aziende si sono messe d’accordo, volontariamente, per produrre soltanto bottiglie trasparenti, in PET, e ora ne riciclano il 90 per cento.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Novanta per cento: lo stesso tasso che vorrebbe raggiungere l’Europa entro il 2029. Per migliorarlo il legislatore avrebbe voluto una bottiglia col tappo legato e indivisibile. Una misura per evitare di disperderlo nell’ambiente.

OLIVIER HOEDEMAN – CORPORATE EUROPE OBSERVATORY La lobby della plastica ha seriamente combattuto questa proposta, che poi sarebbe il modo più semplice per risolvere il problema.

CECILIA BACCI FUORICAMPO GRAFICATO Insieme a Coca Cola, Danone, Nestlé e Pepsi Co. che, in questa lettera indirizzata ai ministri dell’Ambiente degli stati dell’Unione Europea, scrivono di essere interessati al deposito su cauzione.

OLIVIER HOEDEMAN – CORPORATE EUROPE OBSERVATORY Quella lettera è un vero e proprio esempio di un’attività di lobbying ipocrita. Coca Cola dice di preferire il “vuoto a rendere” ma non è affatto vero. Si è battuta contro questo provvedimento in molti paesi. E questo documento riassume le sue priorità. Qui troviamo i provvedimenti da respingere: la responsabilità estesa del produttore, ovvero il concetto che “chi inquina, paga”; e ancora obiettivi vincolanti per la raccolta e il riciclo delle bottiglie.

CECILIA BACCI E poi il deposito su cauzione.

OLIVIER HOEDEMAN – CORPORATE EUROPE OBSERVATORY Coca Cola era contraria.

CECILIA BACCI Anche se ha scritto questa lettera dove dice di essere favorevole.

OLIVIER HOEDEMAN – CORPORATE EUROPE OBSERVATORY Sì. E questo ci fa capire quanto non fosse sincera.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Coca Cola considera quel documento come superato e alla fine, dovrà adattarsi perché la direttiva sul monouso prevede che dal 2024 i tappi siano attaccati alla bottiglia. Nella stessa lettera, datata 9 ottobre 2018, le multinazionali promettevano di monitorare sistemi alternativi e di produrre un report entro marzo 2019. Report che la Commissione non ha mai ricevuto. Questa è l’azione che Greenpeace ha organizzato fuori dallo stabilimento bergamasco di San Pellegrino, proprietà Nestlé.

GIUSEPPE UNGHERESE – GREENPEACE ITALIA Nestlé è una delle aziende più grandi al mondo. La più grande multinazionale degli alimenti e delle bevande. Lo scorso anno, nonostante i proclami, ha aumentato la quantità di plastica usa e getta che immette sul mercato: il 13 per cento in più rispetto all’anno precedente.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Nestlé è in buona compagnia. Insieme a Coca-Cola e Pepsi Co, è responsabile del 14 per cento della plastica trovata in tutto il mondo. Lo ha rilevato il movimento internazionale #BreakFreeFromPlastic, che nel 2018 ha sguinzagliato 10 mila attivisti tra 42 paesi e sei continenti. Obiettivo? Raccogliere e analizzare pezzi di plastica inquinata. Prevalentemente polistirene. E solo in seconda battuta PET, con cui si producono le bottiglie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le multinazionali fanno il doppio gioco. Però, sollecitate da noi, hanno risposto e anche hanno preso un impegno: la Coca-Cola promette di produrre, entro il 2030, bottiglie composte per il 50% da pet riciclabile. La stessa cosa per la Pepsi. Danone già produce il 77 per cento di imballaggi riciclabili e promette addirittura di raggiungere per il 2025 il 100 per cento. Stesso dato per Nestlé che ci scrive che, in Italia, ha già raggiunto il 95 per cento. Vedremo se si tratta di promesse da marinaio. Però quello che è certo è che i governi dovrebbero fare un’opera moral suasion nei confronti dei produttori. In Giappone il governo ha fatto pressione e i produttori si sono messi d’accordo e hanno raggiunto il 90 per cento delle bottiglie riciclabili. Poi però devi fare anche una lotta contro l’ipocrisia. La Coca-Cola in una lettera dice di essere favorevole al deposito cauzionale, cioè devi restituire la bottiglia di plastica, in un’altra si dice di essere contraria. Quindi, quale è delle due quella vera e quella falsa? E intorno a un dubbio, vero o falso, si è arrovellato per quindici anni tutto il mondo accademico, atenei, studiosi e giornalisti. Si sono intorcigliati intorno ad un papiro che abbiamo comprato e pagato, caspita se lo abbiamo pagato.

Le spiagge pugliesi restano «plastic free», Consiglio di Stato boccia decisione del Tar. Emiliano: «Abbiamo vinto una battaglia a tutela dell'ambiente e dei nostri figli». La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2019. Le spiagge della Puglia restano "plastic free": la quarta sezione del Consiglio di Stato, in composizione collegiale, ha accolto nel merito l’appello della Regione, nella stessa direzione della sospensione decisa il 7 agosto per il provvedimento del Tar Puglia, che aveva invece bloccato l’ordinanza regionale "plastic free". Nell’udienza di merito ieri sono state così confermate «le valutazioni già espresse dal Presidente della stessa Sezione con il decreto monocratico reso lo scorso 7 agosto». A darne notizia, con una nota, sono il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e la coordinatrice dell’Avvocatura regionale, Rossana Lanza. «Abbiamo vinto una battaglia di civiltà a tutela dell’ambiente per il futuro della nostra terra e dei nostri figli - commenta Emiliano - in questo modo tutti noi, amministratori, gestori dei lidi, cittadini, abbiamo la possibilità di tutelare e proteggere le bellezze dei mari pugliesi. È un risultato eccezionale raggiunto anche grazie allo sforzo di una squadra compatta e altamente professionale, quella dell’Avvocatura regionale, guidata dall’avv. Coordinatore Rossana Lanza. Vorrei ringraziare ciascuno di loro - conclude - perché il risultato ottenuto, nel legittimo esercizio delle prerogative dell’Ente in materia di tutela del demanio costiero avendo perseguito indirettamente l’effetto di innalzare il livello minimo di tutela imposto dallo Stato in materia ambientale, ci fa sentire protagonisti, nel nostro piccolo, nella grande battaglia per la tutela dell’ambiente e dei mari». Dopo questa decisione, che conferma il ripristino del divieto di usare la plastica lungo il litorale, pende comunque sull'ordinanza balneare della Regione la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, insieme ad altre questioni giuridiche, che "sarà valutata - precisa il Consiglio di Stato - nell’udienza di merito già fissata davanti al Tar di Bari per il 19 febbraio 2020». L’istanza al Tar per la sospensione cautelare era stata presentata da diverse associazioni e imprese produttrici di plastica. «Festeggiando il pronunciamento del Consiglio di Stato che ha riconosciuto la legittimità dell’ordinanza "plastic free" della Regione Puglia», che vieta l'impiego nei lidi di contenitori di plastica come bicchieri e altri articoli monouso, il Codacons chiede che tale divieto "sia esteso a tutta Italia e, constatando ancora una volta il silenzio inquietante del Ministero dell’Ambiente», l'associazione «proclama una giornata "plastic free" per l’8 settembre, in occasione dell’annunciato sciopero dei consumatori».  «Il Consiglio di Stato - afferma il presidente del Codacons, Carlo Rienzi - ha riconosciuto il fatto che la Regione, con l'ordinanza, ha perseguito l’interesse pubblico. Il divieto di utilizzo di prodotti in plastica monouso, con la finalità di tutelare la salute e l’ambiente, è del tutto lecito». «Dispiace che il Ministero non se ne sia accorto e non si sia costituito nel procedimento», conclude Rienzi secondo il quale "è tempo di estendere al resto del Paese un’ordinanza sacrosanta, che va nella direzione indicata anche dall’Unione Europea, e tutela gli interessi dei residenti e dei turisti».

I Comuni non possono fare divieti “plastic free”. Lo ha appena stabilito il Consiglio di Stato, sospendendo una campagna ordinata dal Comune di Teramo. Maurizio Tortorella il 30 agosto 2019 su Panorama. E ora chi lo dirà a Greta Thunberg, la piccola pasionaria svedese del no alla plastica? In Italia i Comuni non possono fare campagne “plastic free”, per vietare l’utilizzo di prodotti monouso. Lo ha stabilito proprio oggi il Consiglio di Stato, che ha accolto l'appello cautelare della Federazione della gomma plastica e ha sospeso l’efficacia  di un provvedimento del Comune di Teramo in materia di “plastic free”. Secondo i supremi giudici amministrativi, infatti, l'ordinanza comunale non era conforme alla legge: difettava “delle necessarie istruttorie e della motivazione circa la sussistenza di una effettiva situazione di emergenza o di grave pericolo”. Inoltre, si legge nell’ordinanza depositata oggi dal Consiglio di Stato, il provvedimento comunale difettava “delle indicazioni di un limite temporale di efficacia, connaturato al carattere straordinario dell’atto”. Il Consiglio di Stato ha anche riconosciuto “il pericolo di danno” per le industrie, “dedotto alla luce dell’incidenza sulle scelte imprenditoriali sia della singola società appellante che dell’intera filiera produttiva”.

La Malesia è la nuova terra dei fuochi: brucia lì la plastica del mondo intero -«Non inquinateci». Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. C’è un’altra terra dei fuochi, alimentata con i rifiuti provenienti da tutto il mondo ricco e anche dall’Italia. È la Malesia. Il Paese asiatico è diventato il principale ricettacolo di scarti plastici dell’intero pianeta, soprattutto della parte occidentale e ricca del globo, che produce più di quanto non riesca a smaltire e riciclare. Fino alla fine del 2017 il primato delle importazioni spettava alla Cina. Poi dal gennaio dello scorso anno Pechino ha chiuso i propri porti all’immondizia proveniente da fuori e i cargo europei e americani hanno dovuto ripiegare su nuove rotte. Kuala Lumpur è diventata la principale destinazione. La conseguenza non è solo che le terre in cui Salgari ha ambientato le avventure di Sandokan e delle sue «tigri» si sono trasformate in un immondezzaio a cielo aperto. Ma anche che il governo malese deve ora fare i conti con serie ripercussioni per la salute della popolazione. Perché lo smaltimento dei materiali non sempre avviene secondo le regole. E i roghi che vengono appiccati ai cumuli di plastica o le discariche incontrollate finiscono con l’avvelenare l’aria, il terreno e le acque, con diffusione di diossine e altre sostanze tossiche e il conseguente aumento delle malattie. Ad accendere i riflettori su quanto avviene lungo la nuova via del polimero è Greenpeace che, dopo avere lanciato lo scorso aprile un report sulle rotte globali dei rifiuti in plastica, diffonde ora una videoinchiesta, realizzata dalla propria unità investigativa, in cui mostra all’atto pratico cosa accade in terra malese per effetto dei consumi occidentali. Discariche improvvisate, rifiuti perennemente in fiamme. E le testimonianze di medici e famiglie che denunciano come in breve tempo siano già aumentate del 30% le patologie respiratorie tra le comunità che vivono nelle zone interessate dai depositi di immondizia. Di questi tempi si parla molto di plastica e degli effetti che la sua dispersione ha nell’ambiente terrestre e marino. E si moltiplicano gli inviti al riciclaggio. Ma non tutta la plastica può essere riciclata ed è per questo che i Paesi che più nel producono e che più ne fanno uso si trovano poi alle prese con le difficoltà dello stoccaggio degli scarti. Di qui la cessione ad altri. La Malesia da sola, secondo le stime di Greenpeace, avrebbe accolto da sola il 20% di tutti i rifiuti plastici spediti all’estero dai 21 principali Paesi a livello mondiale, che ammontano a quasi 6 milioni di tonnellate. L’Italia avrebbe contribuito con 650 container in un solo anno. Le autorità malesi sono ovviamente informate dei rischi e nel 2019 hanno chiuso 155 fabbriche per violazione delle norme a tutela dell’ambiente. Ma al di là delle aziende autorizzate, sono numerose quelle illegali nate sulla scorta del nuovo business, che operano senza licenza e che quindi, fintanto che non vengono individuate, non sono soggette a controlli e verifiche. «Quello che abbiamo visto in Malesia è inaccettabile – commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace - e conferma, ancora una volta, che le nuove destinazioni dei rifiuti in plastica, inclusi quelli italiani, non sono in grado di trattare in modo appropriato questi materiali». «È chiaro – aggiunge - che non riusciremo mai a riciclare correttamente tutta la plastica che continuiamo a utilizzare: il primo passo è eliminare al più presto la plastica monouso spesso inutile e superflua». L’associazione fa anche sapere che chiederà al ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, di farsi carico del problema. «Voi tenete le vostre città pulite, belle e senza inquinamento - commenta l’attivista malese Lydia Ong, già componente dell’assemblea di Stato di Penang —. Ma i vostri rifiuti sono stati trovati nel nostro Paese. Facciamo appello ai governo di tutto il mondo, non mandateceli. Per favore smettetela, non ne abbiamo bisogno».

 Legambiente analizza i rifiuti: i sacchetti di patatine i più abbandonati nel verde. L'indagine in 87 parchi pubblici italiani per presentare "Puliamo il mondo", che si terrà dal 20 al 22 settembre. Mozziconi di sigaretta, pezzi di plastica e involucri di snack e dolciumi la piaga dei giardini pubblici. Ciafani: "È la prova che le campagne di sensibilizzazione non sono mai troppe". Cristina Nadotti su L'Espresso il 19 settembre 2019. Ci sono gli onnipresenti e perpetui mozziconi di sigarette e ci sono i tanti pezzi di plastica non identificabili. Le aree verdi italiane sono però soffocate e insozzate soprattutto dai sacchetti delle patatine. È uno dei dati che Legambiente rende noti in occasione di "Puliamo il mondo 2019", che il 20, 21 e 22 settembre vedrà l'associazione impegnata, come accade da 27 anni, nella campagna per raccogliere rifiuti abbandonati e promuovere comportamenti sostenibili e rispettosi dell’ambiente. La prevalenza di involucri di patatine e caramelle tra i rifiuti abbandonati nelle aree verde è stata accertata monitorando 87 parchi pubblici in tutta Italia, nei quali sono stati effettuati 87 transetti di monitoraggio di 100 metri quadri ciascuno, per un totale di 8.700 metri quadri. I volontari che hanno partecipato all'indagine sono stati 564, appartenenti a 40 differenti circoli di Legambiente. I parchi campione sono frequentati principalmente da bambini e ragazzi, famiglie, anziani e sportivi. È un dato sconcertante, se si pensa che i maggiori consumatori di patatine sono i giovani, proprio coloro tra i quali la cultura del corretto smaltimento dei rifiuti dovrebbe essere ormai acquisita. E dire che l'indagine ha verificato che i cestini per la raccolta dei rifiuti sono presenti in 85 degli 87 parchi monitorati: in 2 invece mancano completamente, ma anche dove sono presenti, solo nel 17% dei casi (15 su 85) sono predisposti per la differenziazione dei rifiuti secondo materiali. Purtroppo se i sacchetti di patatine finiscono per terra è colpa anche di cestini che non sono coperti e visto che il vento è una delle maggiori cause della dispersione nell’ambiente, nel monitoraggio è stata riportata la presenza o meno di chiusura o copertura dei cestini presenti: solo in 30 parchi su 85 (35%) è presente questa caratteristica utile a prevenire la dispersione di materiale. Ma c'è un altro dato che lascia pensare che il vento c'entri poco e che i rifiuti siano colpevolmente abbandonati: nel 57% dei parchi (50 su 87) sono state notate zone di accumulo, per lo più sotto o nelle vicinanze di panchine e tavoli da pic-nic, in presenza di cestini strabordanti, tra siepi o cespugli e in alcuni casi nell’area giochi per i bambini. I dati generali dicono poi che raggruppati per categorie di materiali, i rifiuti dispersi nei parchi sono per il 71,8% di plastica (16.526 rifiuti), per il 13,5% di carta (3.101) e per il 5,7% di metallo (1.308). Come detto, si tratta soprattutto di mozziconi di sigarette (il 37% dei rifiuti raccolti, 8.620 su 23.003 totali), frammenti non identificabili di plastica (2.331, il 10%) e frammenti di carta (1.774, il 8%). I pacchetti di patatine, dolciumi e caramelle rappresentano circa il 7% dei rifiuti totali rinvenuti (1.648). Per quanto riguarda i mozziconi di sigarette, il parco in cui sono stati monitorati in maggior numero è a Ruoti (PZ) in Basilicata, con più di 1000 mozziconi trovati in 100 m2, seguito da Castiglion del Lago (PG) in Umbria con più di 900 mozziconi e Potenza (PZ) in Basilicata con più di 800 mozziconi. Se i mozziconi di sigaretta la fanno da padrona, più in generale i rifiuti assimilabili al settore del “fumo” (come accendini, pacchetti di sigarette e tabacco e involucri di plastica dei pacchetti) rappresentano il 41% dei rifiuti raccolti. Le altre due categorie maggiormente presenti tra i rifiuti rinvenuti sono quelle degli imballaggi (per la maggior parte alimentari come pacchetti di dolci e patatine – 37%, bottiglie di vetro – 17%, e tappi di barattoli in metallo – 14%) e quella dei prodotti usa e getta (tappi e coperchi in plastica e metallo – 28%, buste e sacchetti – 11%, fazzoletti e tovaglioli – 10%, bicchieri di plastica – 9%) che rappresentano rispettivamente il 23% e il 21% del totale. Indagini come questa mostrano quanto ci sia ancora bisogno di campagne come "Puliamo il mondo". “Sono indispensabili, conferma il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani - perché nonostante i progressi fatti su tanti fronti,  le buone pratiche vanno implementate e c’è ancora parecchio da fare rispetto alle politiche, alle leggi e alla loro applicazione, e per la sensibilizzazione. Basti pensare ai mozziconi di sigaretta che lastricano le strade o ai materiali ingombranti abbandonati in aree verdi e ai lati delle strade, che diventano discariche a cielo aperto di pneumatici, mobili, elettrodomestici, con tutti i rischi di quello che comportano per l’ambiente e, in definitiva, per la salute. "Puliamo il Mondo", insomma, è una battaglia di civiltà. Per questo non potevamo non allargarlo, da qualche anno, alla battaglia contro i pregiudizi che stanno inquinando la civile convivenza nel nostro Paese e mettendo a repentaglio il principio che i diritti umani siano diritti di tutti”. La manifestazione, appuntamento italiano di "Clean Up The World", nato a Sydney nel 1989, che coinvolge ogni anno oltre 35 milioni di persone in circa 120 Paesi, nella prossima edizione italiana amplierà la sua gamma di iniziative. Nel progetto di cittadinanza responsabile saranno coinvolte le scuole e le attività di raccolta rifiuti saranno abbinate a eventi sportivi, dibattiti e bonifiche di luoghi particolarmente significativi. L'elenco completo degli appuntamenti si trova sul sito di Legambiente.

Si fa presto a dire plastic-free. Dai cotton fioc alle posate monouso, una serie di prodotti verranno realizzati con nuovi materiali ecologici. Ma la guerra contro la plastica sarà lunga, scrive Guido Fontanelli l'1 aprile 2019 su Panorama. «Voglio dirti solo una parola, ragazzo. Solo una parola». «Sì, signore». «Mi ascolti?». «Sì, signore». «Plastica». Pausa. «Credo di non avere capito, signore». «Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica». Da quando è montata in tutto il mondo la campagna contro la plastica, non riesco a togliermi dalla mente questa scena del film «Il laureato»: siamo nel 1967 e a dare una dritta al giovane Dustin Hoffman appena uscito dal college è un amico del padre. La previsione si è rivelata corretta. Fin troppo. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta schiere di scienziati sono riusciti a sviluppare una serie di materiali straordinari derivati dal petrolio chiamati polietilene, polipropilene (inventato dal premio Nobel Giulio Natta nel 1954), polistirolo, Pvc, Pet (brevettato nel 1973). La plastica si è insinuata dappertutto, nell’arredamento, nell’edilizia, nei computer, nelle auto, negli aerei, nei vestiti, negli imballaggi, perfino nei bicchieri di carta, nelle sigarette, nei cosmetici e nei dentifrici. I materiali in plastica sono fantastici perché possono assumere qualsiasi forma, sono elastici o rigidi a seconda delle necessità, hanno una buona resistenza meccanica, proteggono gli alimenti, sono leggeri e costano poco. Talmente poco da aver creato un’intera generazione di prodotti usa-e-getta: come i bicchieri, le bottiglie o il rasoio monouso, lanciato nel 1971. Il risultato è stato un aumento vertiginoso della produzione: l’ultimo rapporto realizzato dal Wwf sull’argomento ricorda che dal 1950 la plastica vergine uscita dagli stabilimenti petrolchimici è cresciuta di 200 volte, raggiungendo nel 2016 quota 396 milioni di tonnellate. Secondo le previsioni, la produzione di plastica potrebbe ulteriormente aumentare del 40 per cento entro il 2030.

Una grande invenzione. La plastica è un materiale stupendo, ma ha un grande difetto: non è facile da riciclare. Mentre la carta, il ferro o l’alluminio possono essere riutilizzati molte volte, la plastica si degrada, una bottiglia di Pet non può essere usata per farne un’altra. E se anche si riesce a ritrasformare un rifiuto di plastica in materia prima, il suo prezzo non sempre è competitivo. E così oltre il 75 per cento di tutta la plastica prodotta nel mondo è già divenuta un rifiuto. Dei 7 milioni di tonnellate di plastica consumati ogni anno in Italia, 2,2 servono per gli imballaggi e di questi più del 40 per cento non si riesce a riutilizzare. Il sistema della raccolta dei rifiuti fatica a gestire questa enorme quantità di immondizia di plastica, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. E molta finisce nell’ambiente. Ogni anno vengono riversati negli oceani tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica. Fino a qualche tempo fa nessuno vi prestava molta attenzione. La notizia che nella pancia di una balena c’erano 40 chili di sacchi di plastica (come in quella trovata nelle Filippine il 18 marzo scorso) non sarebbe finita neppure sui giornali locali. Ma poi gli scienziati hanno scoperto alcune cose che hanno scioccato l’opinione pubblica. La presenza negli oceani di gigantesche isole galleggianti formate da immondizia: ce ne sarebbero addirittura otto, la più vasta delle quali grande tre volte la Francia. Nelle università ci si è interessati sempre di più al fenomeno dell’inquinamento da plastica rivelando che i sacchetti di plastica uccidono fino a un milione di uccelli marini ogni anno e 100 mila mammiferi acquatici. Poi la ricerca si è rivolta verso le microplastiche, e si è scoperto che finiscono addirittura nell’acqua che beviamo. Tanto basta per provocare una vera e proprio psicosi globale. Seattle ha vietato le cannucce di plastica, San Francisco le bottigliette di plastica negli edifici pubblici, Milano ha varato una campagna contro la plastica monouso. Da anni la McDonald’s ha eliminato le confezioni di polistirolo e presto interverrà su cannucce e coperchi in plastica. L’Italia, grazie alla pressione dell’associazione Marevivo, è la prima nazione in Europa ad aver decretato da quest’anno lo stop ai cotton fioc in plastica e dal 2020 alle microplastiche nei cosmetici e nei prodotti per l’igiene personale. E l’Europa ha deciso che dal 2021 sarà vietato il consumo di posate, piatti, cannucce, bastoncini per palloncini, che costituiscono il 70 per cento dei rifiuti marini. Secondo il Wwf, la messa al bando della plastica monouso potrebbe ridurre la domanda di plastica del 40 per cento entro il 2030.

Carta e bioplastiche. Ma è possibile fare a meno della plastica? Riusciranno la giovane attivista svedese Greta Thunberg e tutte le associazioni che si battono per uno sviluppo sostenibile a farci vivere in un mondo plastic-free? Non è semplice. Angelo Bonsignori, direttore generale della Federazione Gomma e Plastica della Confindustria (che ha promosso per venerdì 5 aprile 2019, a Milano, la Prima conferenza nazionale sul futuro sostenibile delle plastiche), vive questa campagna come una minaccia che mette in pericolo un’industria fatta da 5 mila aziende con 120 mila dipendenti, e in particolare le 30 imprese specializzate in stoviglie monouso: «Gli allarmi sono giustificati solo in parte, occorre certamente ridurre i consumi di prodotti usa-e-getta ma bisogna anche migliorare la raccolta dei rifiuti, permettere che se ne occupino i privati dove i Comuni non ce la fanno». Però le alternative alla plastica stanno avanzando molto più velocemente di quanto mi aspettassi. E l’Italia è particolarmente avanzata in questo campo. I produttori di carta e cartoni (un materiale che ha sette vite, si ricicla all’80 per cento e alla fine diventa un rifiuto compostabile) hanno sviluppato soluzioni che sostituiscono il polistirolo negli scatoloni o la plastica nei contenitori per trasportare le bottiglie, hanno creato le buste per i tortellini, per il fresco e anche sacchetti per la raccolta dell’umido. Ancora più sorprendente il boom delle bioplastiche ottenute dagli scarti delle lavorazioni agricole e dalla polpa di cellulosa. Poiché l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo ad aver organizzato fin dagli anni Novanta la raccolta dei rifiuti umidi, ha favorito lo sviluppo di materiali compostabili o per i sacchetti (come il MaterBi della Novamont). Così è nata un’industria che produce sacchetti, ma anche posate, piatti, bicchieri, cialde per il caffè, tutti compostabili: perfino film trasparenti tipo polietilene e bioplastiche da accoppiare alla carta e da inserire nei sacchetti per alimenti e nei bicchieri. O i materiali biodegradabili creati dalla Bio-On per la cosmesi o l’industria automobilistica. «Oggi il settore vale circa 650 milioni di fatturato» dice Marco Versari, presidente di Assiobioplastiche, «ed è formato da 150 aziende». Che crescono ad alta velocità. Come la Fabbrica pinze Schio (Vicenza) che ha creato la linea di produzione di posate Eco Zema e che vede il suo fatturato aumentare quest’anno del 40 per cento. I prezzi delle stoviglie in bioplastica sono ancora alti, ma stanno diminuendo molto rapidamente. Oggi in Italia circa 200 mila studenti pranzano ogni giorno in piatti compostabili, Milano Ristorazione usa solo stoviglie in MaterBi. E una società di co-working, come la milanese Copernico, nei suoi ristoranti utilzza esclusivamente bicchieri in vetro, piatti in carta e legno e posate in bioplastica. «Costano il 15-25 per cento in più» ammette Alessio Banfi, amministratore di Copernico and Friends, «ma sono coerenti con la filosofia della nostra azienda». Insomma, i numeri sono ancora piccoli, ma sembrerebbe che sui prodotti usa-e-getta la strada intrapresa, almeno in Occidente, sia quella giusta. E forse riusciremo a rallentare l’invasione di rifiuti di plastica. Ma l’altra notte in sogno mi è apparso un tizio barbuto che mi diceva: «Stai attento, guarda che anche il compost ha i suoi problemi. E se laviamo tutto in lavastoviglie che succede ai consumi di acqua?». Vabbè, una psicosi per volta, per favore.

·        Perché nella guerra alla plastica l'Europa si è dimenticata dei bicchieri.

Perché nella guerra alla plastica l'Europa si è dimenticata dei bicchieri. La direttiva approvata a Strasburgo non mette al bando uno dei prodotti monouso più diffusi. L'Italia sospetta un favore ai produttori tedeschi e del Nord. Guido Fontanelli l'8 maggio 2019 su Panorama. E i bicchieri di plastica? Perché il Parlamento Europeo ha stabilito il blocco dal 2021 di una serie di prodotti di plastica usa e getta ma non dei bicchieri? A porre questa singolare domanda è stata l’associazione ambientalista Marevivo con un grande avviso a pagamento pubblicato sul Corriere della Sera. Ma non c’è solo questo «mistero» ad aleggiare sulla direttiva. Ci sono le proteste dei produttori di stoviglie in plastica, naturalmente. E anche le preoccupazioni delle società specializzate nelle bio-plastiche, che in teoria dovrebbero essere contente. Insomma, pur rappresentando un grande passo avanti contro l’inquinamento dei mari, la direttiva approvata il 27 marzo dal Parlamento europeo crea molti malumori e qualche sospetto. Intanto per i tempi di approvazione, insolitamente brevi: di solito dalla proposta al via libera del Parlamento trascorrono un paio d’anni. In questa occasione invece è bastato meno di un anno. Ritmi rapidissimi, dettati dalla volontà politica, soprattutto dei socialisti, di arrivare all’approvazione di una direttiva molto popolare prima delle elezioni europee del 26 maggio. Ma che cosa prescrive esattamente la direttiva? Impone agli Stati membri di vietare dal 2021 la commercializzazione di questi prodotti di plastica: cotton fioc; posate (forchette, coltelli, cucchiai, bacchette); piatti; cannucce; agitatori per bevande; aste da attaccare a sostegno dei palloncini; contenitori per alimenti in polistirene espanso; bicchieri per bevande in polistirene espanso e relativi tappi e coperchi. La direttiva fissa inoltre un obiettivo di raccolta del 90 per cento per le bottiglie di plastica entro il 2029 e stabilisce che entro il 2025 il 25 per cento delle bottiglie di plastica dovrà essere composto da materiali riciclati, quota che salirà al 30 entro il 2030. Sono dunque esclusi dal bando le bottiglie e i comunissimi bicchieri trasparenti. Eppure, come mostra il documento preparatorio della direttiva, tra gli oggetti di plastica trovati più di frequente in mare o in spiaggia ci sono al primo posto le bottiglie, al secondo i filtri di sigarette, al terzo i cotton fioc e all’ottavo posto i bicchieri. «È necessario vietare anche i bicchieri di plastica» sostiene Marevivo. «Si tratta di prodotti usa e getta che si ritrovano spesso in spiaggia e rappresentano circa il 20% dei rifiuti marini». In Europa se ne consumano 16 miliardi all’anno, in Italia tra i 16 e i 20 milioni al giorno (secondo una stima di Plastic Consult).

Lobbysti al lavoro. Invece i bicchieri e le bottigliette sono oggetto solo di un invito a ridurne la produzione, senza peraltro specificare i tempi. Come mai? Chi ha seguito l’iter della direttiva ha il timore che gli estensori abbiano voluto favorire i Paesi del Nord Europa e la Germania: i primi sono grandi produttori di bicchieri di carta con film di plastica, la seconda di bicchieri trasparenti, molto usati per la birra. Mentre proprio l’Italia ha l’industria produttrice di stoviglie monouso in plastica più importante in Europa con una quota di export superiore al 30 per cento. E ora si dispera: l’associazione di categoria Unionplast dice che sono a rischio trenta aziende con 3 mila addetti. E ricorda che «è un paradosso il bando ai piatti monouso che vengono regolarmente raccolti dal consorzio Corepla, tenendo anche in considerazione che, per rimanere sui piatti usati in Europa, non arriviamo ad un 1,5 per cento dell’utilizzo di tutta la plastica usata per il packaging nella Comunità Europea». Ma sono preoccupati anche i produttori e i trasformatori di bioplastica, cioè realizzata con materie prime di origine vegetale e quindi compostabile: «Il testo della direttiva è ambiguo» sostiene Marco Versari, presidente di Assobioplastiche. «E il nostro timore è che alcuni Paesi recepiscano la direttiva vietando anche le bioplastiche, settore dove l’Italia è leader». Per esempio i Paesi del Nord Europa, forti produttori di cellulosa, potrebbero favorire i contenitori di carta e vietare quelli in bioplastica. «Non c’è molta logica in questa direttiva» commenta Versari. «Che senso ha per esempio inserire tra i prodotti da mettere al bando i bastoni dei palloncini e non altri?» Ora la parola passa alla Commissione per fissare meglio i confini della norma. E successivamente ai governi nazionali. Nel frattempo le lobby affilano le armi.

·        La "zarina" del Fai con la mania dei ruderi e di vezzeggiare il Pci.

Giulia Maria Crespi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giulia Maria Crespi vedova Paravicini e Mozzoni (Merate, 6 giugno 1923) è un'imprenditrice italiana, discendente della famiglia di cotonieri lombardi, proprietari della fabbrica di Crespi d'Adda. Giulia Maria fu educata da precettori privati, apprendendo le lingue tedesca, francese e inglese. Il primo marito, conte Marco Paravicini, padre dei suoi gemelli Aldo e Luca, morì in un incidente dopo 4 anni di matrimonio. A partire dalla metà degli anni sessanta, dopo la morte degli zii Mario e Vittorio Crespi, gestì come accomandataria - in luogo del padre Aldo, gravemente malato - la proprietà del Corriere della Sera, responsabile della linea e dei bilanci. Soprannominata la «zarina» per lo stile arrogante, e contestato, della sua gestione, il quotidiano operò una netta virata a sinistra: la nuova linea venne varata nel 1972 col licenziamento del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone, e sancita con l'allontanamento, l'anno successivo, del giornalista Indro Montanelli che la bollò come «dispotica guatemalteca» al termine di un lungo dissidio, mai ricomposto in seguito. Nel 1973, all'inizio di ingenti passivi di bilancio del Corriere, dapprima la Crespi cedette quote della proprietà a Gianni Agnelli e Angelo Moratti; poi, nel 1974, liquidò la sua quota rimanente all'editore Andrea Rizzoli, uscendo definitivamente dall'amato Corrierone. Nel 2013 possiede il 2,353% delle azioni del Gruppo Editoriale L'Espresso. È inoltre proprietaria di un'azienda agricola, situata nel Parco naturale del Ticino, a Bereguardo, che conduce dal 1974 assieme al figlio. È tra i fondatori del FAI - Fondo Ambiente Italiano, fondazione di cui è presidentessa onoraria. È stata sposata dal 2 giugno 1965 con l'architetto nobile Guglielmo Mozzoni. Un contributo autobiografico dell'imprenditrice è stato oggetto della trasmissione televisiva "Allo specchio. L'Italia è un Paese fondato sulle nonne." condotta da Paola Severini Melograni (Puntata 7, 'La passione per l'Italia'; con Giulia Maria Crespi e Rosanna Brambilla; trasmessa Domenica 18 agosto 2013, ore 12.00, su Rai Storia, e Mercoledì 28 agosto 2013, ore 01.00, su Rai 3).

Lascia il Fai la "zarina" con la mania dei ruderi e di vezzeggiare il Pci. Mario Cervi, Giovedì 26/11/2009 su Il Giornale. Giulia Maria Mozzoni Crespi ha rassegnato le dimissioni dalla presidenza del Fai (Fondo ambiente italiano) che aveva fondato trentaquattro anni or sono. Le succede Ilaria Buitoni Borletti. Il passaggio di consegne è avvenuto - parole del neo vicepresidente Marco Magnifico - in concordia, in serenità e normalità. Con il suo piglio schietto, e anche con cavalleria, Giulia Maria Crespi ha dichiarato che «Ilaria ha una lunga esperienza e un maggior senso manageriale del mio, porterà il Fai a traguardi superiori». Comunque l’indomita lottatrice che intimidì i direttori del Corriere della Sera e che ancora intimidisce i ministri con le sue richieste e con la sue rampogne, non si arrende. Ha accettato la presidenza onoraria del Fai e annuncia che si occuperà - indovinate - di ambiente. Proprio non le va di andarsene definitivamente, anche se passa alla pensione. Credo che il suo acerrimo avversario Indro Montanelli, se fosse ancora con noi, le renderebbe a questo punto l’onore delle armi. Questa signora ottantaseienne ha avuto degli ideali, e per quegli ideali si è battuta con tale grinta da meritare sia il titolo di «zarina» sia quello, montanelliano, di «Maria Antonietta delle campagne». Giovanni Spadolini si divertì per qualche tempo a chiamarla «la fanciullina», volendo con questo alludere sia a una sua presunta immaturità, sia a una ancor più presunta docilità femminile. La «fanciullina» non esitò, venuto il momento, a cacciare Giovannone dal trono di via Solferino. Quando Giulia Maria, figlia di Aldo Crespi e dell’imperiosa moglie Giuseppina, cominciò ad avere influenza nel Corriere - del quale i fratelli Crespi erano proprietari - noi giornalisti un po’ scanzonati e scettici imbastimmo un apologo sulla sua mania di proteggere tutto, la natura comunque si esprimesse e ogni piccolo rudere salvatosi dagli oltraggi del tempo. «Vennero i vandali - recitava l’apologo - con le loro vanghe, i loro picconi, la loro furia dissacratrice, distrussero le vestigia d’una chiesetta paleocristiana e sopra ci costruirono San Pietro».

Scherzavamo. Non scherzava per niente invece la «fanciullina» che a un certo punto - avendo gli altri Crespi venduto le loro quote di proprietà nel maggior quotidiano italiano - si trovò a esserne la padrona. Il tempo smussa gli angoli, non voglio qui insistere più di tanto su derive e cedimenti ideologici che a Montanelli - e anche a me e ad altri colleghi - parvero intollerabili. C’era, in quella stagione italiana, aria di dramma, l’avvento comunista non sembrava tanto campato in aria e in una certa borghesia - non parliamo poi dei politici - s’avvertiva una gran voglia di consegnarsi al Pci, futuro vincitore. Nessuno immaginava che il comunismo fosse a fine corsa. Giulia Maria, diversamente da altri, non vezzeggiò la sinistra per viltà. La vezzeggiò per orgoglio, convinta com’era, nel nome d’ideali astratti e ignorando la realtà, che da quella parte dovesse venire la rigenerazione del mondo. Si parlò molto della sua amicizia con Mario Capanna (ci fu perfino una perquisizione di polizia nella sua tenuta «La Zelata» sul Ticino alla ricerca del Capanna inseguito da un mandato di cattura e latitante). Oggi Capanna scrive sul Giornale, pensate un po’. Giulia Maria Crespi credette d’aver trovato il direttore che faceva per lei in Piero Ottone. Il quale si adeguò a tal punto che Montanelli, rotti gli indugi, lasciò il Corriere: individuando proprio in Giulia Maria l’arcinemica. In tanti seguimmo l’esempio di Indro, e così nacque il Giornale. Poi anche Giulia Maria cedette, nessun Crespi rimase più nell’azienda che Benigno aveva fondato insieme al napoletano Torelli Viollier. Giulia Maria non scomparve, ma si dedicò esclusivamente alle sue crociate (per verità alcuni anni dopo acquistò una partecipazione nel gruppo Repubblica-L’Espresso, ma non fu un revival). Il Fai fu la sua creatura. Bisogna rendergliene merito. Fu creato sul modello del National Trust inglese, un’organizzazione privata con milioni di iscritti che restaura case e monumenti. È arrivato, il Fai, a 80mila soci, 500 sponsor, 6mila volontari. Giù il cappello. La «zarina» è stanca ma non rassegnata. Ha superato l’incubo del cancro, la vecchiaia non la spaventa. Il marito Guglielmo Mozzoni ha detto in un’intervista: «Mi chiedono sempre come ho fatto a domare la tigre. Ma io non l’ho domata, l’ho lasciata libera... Se mi fossero piaciute le pecore non avrei scelto una tigre». 

Pino Corrias per ''la Repubblica''  il 27 ottobre 2019. A proposito di Greta Thunberg dice: «Gli uomini sciocchi, rancorosi e vecchi ne parlano male. La deridono. Io invece adorerei conoscerla questa magnifica ragazzina di 16 anni che sta scuotendo il mondo. Mi piacciono i suoi occhi, il suo tono, il suo calmissimo furore».

Che cosa le direbbe?

«Che è un seme del futuro. Che le sue parole daranno frutti. Che mi piacerebbe passare un pomeriggio con lei, magari sotto gli alberi della Zelata, ora che è autunno e tutto diventa così bello da scacciare persino la malinconia».

Giulia Maria Crespi, 96 anni, è seduta su un divano bianco. Beve una tisana fumante, ogni tanto mangia una mandorla salata. È la decana degli ambientalisti italiani. La signora del Fai, il Fondo per ambiente italiano che ha salvato ville, castelli, boschi, una parte preziosa del nostro paesaggio, magari piccola, ma con immensa risonanza, per restituirlo allo sguardo pubblico e fare della bellezza un dono. I saloni del suo palazzo di corso Venezia contengono il silenzio delle cattedrali. E le sue parole un pezzo della nostra storia. Si ricorda «quando Milano era più bella di Parigi», con l’acqua dei navigli che correva accanto alle magnolie. L’acustica perfetta della Scala, prima dei bombardamenti. Le istitutrici a casa che le insegnavano Storia dell’arte e il latino, le fabbriche tessili di famiglia, le estati con gli Agnelli e i Franchetti. Mussolini che minacciava suo padre, proprietario del Corriere della Sera. Mussolini appeso in piazzale Loreto. Il ritorno dei prati nel Dopoguerra. L’asfalto e il cemento, a soffocare i prati, durante il Miracolo economico: «Sala è un buon sindaco, ma anche lui ama un po’ troppo i grattacieli». Si ricorda della prima volta che entrò da proprietaria al Corriere, anno 1961, «tutti si inchinavano, mentre io tremavo perché sapevo di non sapere nulla». Si ricorda della bomba in piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, quando Spadolini direttore scese in Cronaca e disse che bisognava smontare le pagine che accusavano i fascisti e rimontarle «dicendo che erano stati gli anarchici». Di quando lei licenziò Spadolini per piazza Fontana «e perché stava sempre al telefono con i ministri». Dei litigi con Indro Montanelli. Di quando la accusavano di essere troppo ricca, troppo comunista e addirittura l’amante di Mario Capanna, «quello del Movimento studentesco che io neanche avevo mai visto».

Ascoltata oggi, è una storia persino divertente.

«Una mattina vennero i poliziotti a circondare la Zelata, perché questo Capanna era latitante dopo certi scontri di piazza e lo cercavano a casa nostra. Non sapevo se piangere o ridere. Fui processata. Mi difendeva Giandomenico Pisapia, uomo e avvocato magnifico, ma io gli dissi che volevo difendermi da sola. E finì che diventai amica del giudice».

Quella fu la stagione di Piero Ottone direttore.

«Ottone è stato il mio maestro di giornalismo. Ha svecchiato il Corriere con Pier Paolo Pasolini in terza pagina, le inchiesta ambientaliste di Antonio Cederna, i reportage di Corrado Stajano».

Montanelli non amò quella svolta e preparò lo scisma.

«Credo che lui volesse diventare direttore o forse solo che io glielo chiedessi. Litigammo. Se ne andò. Non me ne sono mai pentita».

Però poi nuovi poteri finirono per estrometterla dal “Corriere”.

«Era il 1974. C’era la crisi. Si fece avanti Rizzoli che faceva da maschera ai soldi di Cefis e forse già allora al potere della P2. I miei due soci mi abbandonarono e mi abbandonò anche Agnelli».

Lei lo considerò un tradimento.

«Lo era. Mi aveva giurato che sarebbe sempre stato il mio cavaliere bianco. Invece non mosse un dito. Mi disse che i tempi erano cambiati ed erano cambiati gli interessi della Fiat. Andai a inginocchiarmi a casa sua a Roma. Lui disse al maggiordomo di accompagnarmi alla porta perché aveva da fare».

Eravate amici dall’infanzia.

«Andavamo insieme a sciare al Sestriere e d’estate a Forte dei Marmi. Mi ricordo una festa speciale di notte, avevamo vent’anni e facemmo tutti il bagno nudi. Quando mio padre lo scoprì, rimase orripilato».

E neanche l’amicizia bastò.

«Non l’ho mai perdonato. Anche se ho continuato a essere amica di Marella, la moglie, che ho visto soffrire moltissimo».

Era un re regnante.

«Regnava ammirato da tutti compresi i suoi operai alla catena di montaggio».

Finita la sua avventura al “Corriere”, iniziò quella del Fai.

«L’idea della fondazione venne alla mia amica Elena Croce. Era il 1975. Invece di lamentarci delle cose brutte potevamo impegnarci per salvare quelle belle che venivano abbandonate. Cominciai da una piccola spiaggia di Panarea, poi il castello di Avio a Trento».

Oggi i vostri siti sono più di sessanta.

«Tutti donati gratuitamente e aperti al pubblico. Un miracolo che vive grazie a migliaia di volontari e a milioni di visitatori».

La gente ama le cose belle. Ma gli uomini spesso si specializzano in quelle brutte.

«Il veleno è il profitto e l’ignoranza. Periferie orrende, fabbriche orrende. Pensi al Petrolchimico costruito nella laguna più bella del mondo. O alle acciaierie di Taranto, tra i due mari, che hanno avvelenato l’aria, la vita, ogni cosa. È il demone di re Mida che, trasformando tutto in oro, è morto di fame».

La giustificazione è il progresso, i posti di lavoro, il prodotto interno lordo.

«No, è l’idiozia. Quando distruggi in fretta, nel tempo lungo la paghi. La mia meravigliosa Sardegna è stata devastata da fabbriche chimiche e dal cemento sulle coste. Mentre potrebbe avere un’agricoltura unica al mondo, allevamenti, artigianato, un turismo non predatorio».

Colpa della politica?

«Colpa dei politici. Che non hanno una visione, non sognano, non vedono. Vogliono solo i voti del prossimo anno».

Quello che sognava più di tutti era Berlusconi.

«Peccato che sognasse solo per sé. Mi dicono sia diventato orrendo a forza di chirurgia plastica e di fondotinta. È vero che non conta più nulla?».

Il capo delle destre ora è Salvini.

«Dalla padella alla brace. Questo Salvini usa la paura, la rabbia e l’ignoranza per distruggere il Paese e l’Europa. Io penso che la nostra unica salvezza sia una Europa grande e unita».

È per questo che russi e americani la assediano.

«Trump è un uomo terribile. E anche Putin. E il turco Erdogan. Siamo circondati da matti».

Tra i politici italiani chi salva?

«Prodi certamente. Un po’ Rutelli. E Veltroni che al Partito Democratico ci ha creduto veramente. Io l’ho anche aiutato come potevo. Ora si è disgustato della politica. E andandosene mi ha deluso».

Renzi?

«È uno che fa e poi disfa. Vuole essere sempre al centro. Un po’ come il Berlusca che è tutto lui, solo lui. Lo sa che in Sardegna siamo confinanti? Una volta gli ho detto di venire a vedere le mie rocce sull’acqua e lui mi ha risposto che le sue erano più belle. Ma io so che sono sassi che ha fatto portare dai camion. Renzi uguale, vuole dominare. Ma poi cosa ha dominato?».

Grillo?

«Per carità, grida sempre».

Giuseppe Conte?

«Prima mi sembrava molto modesto. Ora parla, esiste, resiste. È un buon avvocato di mediazione. E la mediazione è la cosa che serve di più in politica».

Lei ama la politica?

«La mia politica è il Fondo ambiente italiano. Che vuol dire fare, investire, restituire, anziché chiacchierare. Il premio è migliorare di un millimetro la vita di tutti noi».

Il suo posto più bello?

«L’unico che ho comperato, Cala di Trana, a Palau. Era il 1958, c’era il mare, il vento, una collina. Dalla strada di terra battuta apparve una processione di carri trainati dai buoi, donne in costume, uomini a cavallo, avanzavano dentro a un silenzio sontuoso. Come in una visione magica. Ero in fuga d’amore con Guglielmo, che avrei sposato anni dopo. Era il posto del nostro destino».

Per questo ama così tanto la Sardegna?

«La Sardegna è diversa da tutte le isole del mondo. Naviga da sola nel tempo. Ha un profumo e una luce speciali. Per qualche ragione misteriosa, sono diventata molto più sarda che milanese. Più spirituale che materialista».

È religiosa?

«Non da messa alla domenica. Ma credo nel mistero della vita».

Ha paura della morte?

«No. Mi piacerebbe morire nel sonno, ma non avverrà».

Perché?

«Perché è troppo comodo. Morire è faticoso. E io sto morendo piano piano, ho avuto sei volte il cancro, non vedo, sento male, cammino male».

È favorevole all’eutanasia?

«Assolutamente no, non fa parte del mio destino. Ma ho due amiche che si sono già prenotate un posto nelle cliniche svizzere».

Quindi è contraria al divieto?

«Io sono contraria a tutti i divieti. Ognuno è libero di scegliere».

La chiesa è contraria.

«Ah, la chiesa! Io credo nella reincarnazione. Credo nelle ripetute vite terrene. E credo che per ogni bene fatto ci sarà un risarcimento futuro».

Quindi è ottimista?

«Sì, anche se sono convinta che in questo momento stia planando sul mondo uno spirito negativo. Quello delle guerre, del sangue. Ci saranno catastrofi, continueremo a avvelenare la vita e l’aria. Ma un minuto prima di soccombere, troveremo la forza di rinascere. Per questo Greta è così importante. Parla ai giovani, parla al futuro».

Anche lei lo fa.

«Sono contenta di averci provato. Di avere avuto e restituito. Avrei ancora tanta voglia di arrabbiarmi per l’arroganza e la stupidità degli uomini. Ma so che il mio tempo sta finendo. So che quando viene l’inverno cascano le foglie e la vita si ritira. Io mi sto ritirando». 

Le due vite attive di Giulia Maria Crespi. «Il filo rosso», Einaudi: l'imprenditrice lombarda si racconta. «Fanciullina» e «zarina»: tra le convulse, teatrali vicende del «Corsera» e un istintivo senso del bello come civiltà, da cui la fondazione del Fai...Giuseppe Frangi il 17 gennaio 2017 su Il Manifesto. Un volto da «fanciullina» (definizione di Spadolini, ai tempi della direzione del Corriere), un altro da «zarina» (firmato Montanelli). Lei spiega questa sua doppia natura con il proprio segno zodiacale, essendo dei Gemelli, nata un 6 giugno di parecchi anni fa: i prossimi saranno 94. Anche l’autobiografia che ha da poco pubblicato (Il mio filo rosso, Einaudi, pp. 455, euro 22,00) è un libro a due marce: quella sognante e bucolica di una donna conquistata dall’amore per la natura e per il paesaggio, e quella risoluta e bellicosa di un’imprenditrice da cui, per un paio di decenni, sono dipesi i destini del più importante quotidiano italiano, il Corriere della Sera. Ha anche due nomi, Giulia Maria Crespi; ha avuto due mariti, il primo, Marco Parravicini, morto troppo presto in un incidente stradale; il secondo, Guglielmo Mozzoni, che invece l’ha lasciata pochi mesi fa, dopo una lunga vita insieme (è di suo pugno il ritratto della Crespi che fa da copertina al libro). Due anche i figli, guarda caso gemelli: Aldo e Luca. La vita di Giulia Maria Crespi è tutta all’insegna di questo doppio. «Due esseri distinti, due modi di vivere contrastanti e diversissimi. Come mai non riesco a fonderli?», si chiede ancora oggi, con quel tocco di ingenuità, un po’ vera e un po’ calcolata, che spiazza tutti gli interlocutori. «Non sapevo spiegarmelo e così ho proseguito per tutta la mia vita», scrive all’inizio di questo libro-fiume, in cui racconta, alternando rapide vorticose e lanche paradisiache, la «versione di Giulia Maria». Un libro fiume, stipatissimo di incontri, di amicizie (e anche di tradimenti), di viaggi, di idee, di case, di vacanze, di feste, di persone, di animali, di piante. Non s’è fatta mancare niente Giulia Maria Crespi, e questo rende il racconto della sua vita, magari non sempre attendibile perché appassionatamente di parte, ma certo coinvolgente. Le due Giulia Maria si dividono il libro: una occupa tutta la parte centrale con il racconto convulso, intricatissimo, e anche un po’ teatrale, delle vicende di via Solferino; l’altra invece si prende il primo e terzo capitolo, con una narrazione a tratti carica di epos e a tratti di una fanciullesca meraviglia. Ovviamente il primo è un capitolo chiuso, seppure con qualche sussulto di nostalgia, mentre il secondo è capitolo quanto mai aperto. In un libro che per la sua concitazione spesso è scevro di date, ce n’è una che invece è indicata quasi con solennità: estate 1958. Giulia Maria Crespi, in vacanza all’Elba, viene completamente stregata dalle descrizioni che Tatia Franchetti (moglie di Cy Twombly) le fa di una Sardegna ancora intatta e selvaggia. Detto fatto: con Guglielmo Mozzoni e la sua Giulietta, sbarca a Porto Torres per andare alla scoperta di un luogo che le era stato indicato, Cala di Trana, un tratto di costa e una collina in vendita. È amore a prima vista: se ne riparte per Milano «con il prezzo di acquisto in tasca». «L’evento più epocale della mia vita», lo definisce. «Più che una storia, un segno del Destino che si è dipanato negli anni con decisiva, assoluta coerenza» (la «D» è proprio maiuscola…). Sarebbero diventati quella cascina, quella duna, le rocce, le due spiagge un’isola felice preservata dall’assedio a cui la Sardegna stava per essere sottoposta da lì nel giro di pochi anni. Cala di Trana dà la chiave dell’approccio ambientalista di Maria Giulia Crespi: che è profondamente emotivo, totalizzante, non ideologico ma sempre molto pragmatico. Non c’è un’ansia sistematica nel suo fare, ma un avanzamento passo a passo, con la conquista di singoli spazi che a loro volta l’hanno conquistata con la loro bellezza. Spazi «liberati» da un’idea di sviluppo tutta sbagliata o da un degrado senza speranza. Per difenderli non conosce remore. Quando l’Enel avanza un piano per piantare delle antenne in cima alle rocce di Cala di Trana, grazie a un vicino che aveva «venduto» il passaggio, si fionda da Giulio Andreotti, che messo sotto pressione da questa pasdaran della natura, alla fine trova l’«inghippo»: mettere un vincolo per tutela storico-ambientale. E lei se ne esce dallo storico studio di San Lorenzo in Lucina con la vittoria in tasca. Altra data che resta negli annali della Giulia Maria story è il 1967. Era impegnata nella sezione milanese di Italia Nostra e con Renato Bazzoni, architetto, paesaggista, ecologista prima che queste parole diventassero di moda, che con lei avrebbe qualche anno dopo fondato il Fai, lanciò l’idea di una mostra intitolata «Italia da salvare». «Epocale! Per gli Anni Sessanta questa mostra fu una novità assoluta di denuncia, una precisa documentazione sulla bellezza, consumo e degrado del paesaggio e dei beni artistici», ricorda oggi Giulia Maria. Esordio a Palazzo Reale di Milano, poi in giro per l’Europa con tappa anche a Bruxelles. «Ricordo Bazzoni, che era sempre in giro per montare e smontare pannelli», scrive Crespi. Anche il Corriere serve alle nuove battaglie di Giulia Maria: è lei a convincere Montanelli («…in questo mio silenzioso pugilato con i direttori del giornale») a raccontare e denunciare il degrado di Venezia. Saranno ben undici articoli, tra febbraio 1968 e settembre 1970, destinati ad accendere l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su quella città gioiello. «E quali articoli! Quanto impegno, quanta forza e coraggio di denuncia! Un giorno durante questa battaglia Indro mi venne a trovare e mi disse: “Sa, non me l’aspettavo proprio, per Venezia un successo! I giovani mi circondano! Si risvegliano! Si attivano! Mi chiamano!”». C’era sempre un qualcosa di giocoso nelle idee e nelle intuizioni di Crespi. Come quella volta che si presentò da Bazzoni con l’ultima sua pensata: fondare un enorme bosco a sud di Milano per dare respiro a una città in cui «le stelle ormai non si vedono più». L’amico Bazzoni reagì con una certa durezza. «Bisogna salvare la bellezza italiana altro che bosco!», le disse. Bisognava creare la cosa che non c’era, il National trust italiano. Una nuova realtà giuridica che prendesse in donazione beni storici da privati con l’impegno di restaurarli e valorizzarli. Era l’aprile 1975. Nasceva il Fai, Fondo ambiente italiano. Per due anni in realtà non arrivò quasi nulla. Poi nel 1977, per rompere gli indugi, Bazzoni e Franco Russoli, allora sovrintendente di Brera, convincono Giulia Maria a fare lei il primo passo, acquistando e donando al Fai il monastero di Torba, in provincia di Varese. Oggi il complesso di Castelseprio Torba, completamente restaurato, è entrato nelle liste del Patrimonio Unesco. La notte di quello stesso capodanno Giulia Maria è invitata da Emanuela Castelbarco al magnifico Castello di Avio, in Val d’Adige. Dopo il brindisi con la spavalderia che la caratterizza si rivolge all’amica: «Perché Emanuela non doni tutto questo al Fai?». E dono fu; decine e decine di altri ne sono seguiti in questi quarant’anni. Un elenco lunghissimo di piccoli pezzi d’Italia rimessi in sesto e restituiti a una fruizione pubblica usando contributi privati. Uno dei più recenti per Giulia Maria Crespi ha rivestito un valore molto particolare, poiché si è trattato di un bosco: proprio un bosco come quello che si trovò costretta a «rinnegare» per buttarsi nell’avventura del Fai. È il Bosco di San Francesco («mio guru di elezione») ad Assisi, donato al Fai da IntesaSanpaolo. Una donazione avvenuta poco prima dell’elezione di papa Bergoglio, papa dalla coscienza ecologica molto decisa, la cui enciclica Laudato si’ viene continuamente evocata nel libro. Così da Francesco a Francesco, può concludere candidamente il suo libro l’eterna «fanciullina» Giulia Maria, «dopo il disastro la vita è tornata».

Giulia Maria Crespi, la storia di una vita. Kitti Bolognesi su Naturasi.it. Incontriamo Giulia Maria Crespi nella sua casa di Milano. Ha compiuto 93 anni il 6 giugno e ha scritto un libro: “Il mio filo rosso. Il “Corriere” e altre storie della mia vita”. 454 pagine autobiografiche narrate con uno stile appassionante, privo di autoindulgenza, che porta diritto ai fatti e alle persone. Si legge con piacere, commuove e, soprattutto, accompagna il lettore lungo le tante storie che uniscono la vita di una persona alla storia del nostro Paese. La guerra, Milano sotto i bombardamenti, la lunga e complessa storia del Corriere della Sera, la nascita del FAI...

Giulia Maria: “Perché una rivista distribuita nei negozi di alimentazione vuole parlare del mio libro?” I motivi per parlare del tuo libro sono tanti. Il tipo di educazione che hai ricevuto che ti ha legata indissolubilmente alla ricerca del bello, del buono e del vero. Il tuo impegno per difendere l’agricoltura biologica in Italia. Eri ancora al Corriere e scopri di avere un cancro al seno. Vieni operata da Umberto Veronesi, fai la radioterapia e poi decidi di seguire il consiglio di Aldo Bargero, medico dei tuoi figli, che ti sprona ad andare in Svizzera, alla Lukas Klinik, dove praticano cure alternative. “All’inizio è stato tragico: tutti cibi integrali, niente carne, niente vino, quasi mai formaggio e niente zucchero. Avevo una gran fame. Uscivo e mangiavo di nascosto. Poi ho scoperto cosa volevano dire i cereali integrali e piano piano tutto questo è diventato il mio modo di mangiare.Un po’ di carne, ogni tanto, l’ho sempre mangiata: ma in generale sono vegetariana. Alla Lukas ho scoperto un mondo. C’erano medici meravigliosi. Ho scoperto Steiner, l’antroposofia e la biodinamica, che mi hanno aperto orizzonti straordinari. Io che seguivo il buddhismo ho capito che l’antroposofia va un passo oltre. Nella mia vita ho avuto sei volte il cancro, ma non ho mai fatto la chemioterapia”.

Torni in Italia e decidi di convertire la tua azienda agricola Cascine Orsine alla biodinamica.

“Ho iniziato per tentativi con risultati pessimi. Ancora una volta è intervenuto Aldo Bargero. Mi ha sgridato perché – diceva – non potevo giocare con la biodinamica, che è materia molto seria. Mi ha esortato ad affrontare la conversione con professionalità. Così mi sono messa a studiare agraria e a frequentare corsi in Germania. E lì, di nuovo, incontro persone straordinarie: serie, colte e competenti, aperte. Avevano un modo di esporre chiaro e professionale, avevano esperienza sul campo. Georg Merkens diventa consulente della Zelata e assieme all’associazione biodinamica iniziamo anche un’attività di corsi di formazione per diffondere i principi dell’agricoltura e dell’alimentazione sana. Come docenti chiamo Manfred Klett, Wistinghausen, Bockemuhl e Koepf. Mio marito Guglielmo, che mi prendeva in giro per l’antroposofia, quando ha sentito parlare Klett della fertilità della terra, degli uccelli, degli alberi è rimasto affascinato e ha capito perché l’agricoltura biodinamica e l’antroposofia mi avevano affascinato a quel punto e occupavano così profondamente i miei interessi.” Il libro è stato letto anche da giovani madri che ora chiedono i tuoi consigli. Sono ammirate dall’educazione che hai ricevuto, dalla figura di tuo padre, dolce ma assolutamente esigente. Non frequenti la scuola e tuo padre sceglie per te i migliori maestri: tra questi Maria Montessori, Fernanda Wittgens. Devi esercitare la tua scrittura e non ti dà pace fino a che non raggiungi un livello che ritiene soddisfacente. Quando ti chiama al Corriere ti raccomanda: “Vestito modesto. Non parlare per due anni. Ascolta. E ricordati: puntualità.” Insieme fate lunghe passeggiate sotto le stelle. Parlate tanto e vi scrivete tanto. “È un’educazione da élite, di una famiglia ricca. Fuori dal tempo. Oggi vedo i ragazzi preda di tutti gli aggeggi elettronici, come stregati. A scuola sono facilitati perché riescono ad avere tante informazioni, ma perdono un serio contatto con una profonda cultura. Il loro cervello non viene più stimolato a livello creativo, non hanno una visione limpida e chiara. Però sono anche molto vivi: hanno voglia di viaggiare, non stanno mai fermi. Anche questo, per me, è un fatto su cui riflettere. Ma, soprattutto, non ascoltano più”.

Ma la tua educazione è stata una grande scuola perché ancora oggi hai una capacità di ascolto non comune.

“È vero, ma spesso non abbastanza. Per capire chi ti sta di fronte occorre ascoltare e sentire quello che emana”.

Nel libro parli spesso di solitudine, delle lunghe domeniche passate da sola. Questo ti ha permesso di coltivare la tua vita interiore? Quella spiritualità che ancora oggi ti fa da guida?

“Certo. Purtroppo, oggi i ragazzi non vengono immersi nella natura e questo è un fatto estremamente negativo. Quando la gente viene da noi alla Zelata o va a mangiare nel ristorante che NaturaSì ha organizzato nella nostra azienda i bambini hanno paura dei cani, dei vitellini... non scherzo, è capitato che qualcuno chiedesse di vedere la pianta che fa gli spaghetti! Non hanno la minima dimestichezza con la natura”.

Le nostre amiche mamme ammirano il rapporto che hai con i tuoi nipoti, ai quali cerchi sempre di far sentire l’importanza della natura. Giochi con loro, con loro dai i semi alle formiche... scrivi loro: “Ricordatevi nipotini, qualche volta guardate a lungo un fiore, uno qualunque. Vi ispirerà mille pensieri”. Per le feste comandate coinvolgi grandi e piccini in recite, in canti e racconti...

“Da vent’anni scrivo e racconto loro delle storie ispirate ai pianeti, agli alberi, agli insetti. Racconto loro la storia di Anna, una bimba immaginaria che vive alla Zelata. È sempre sola, non dice mai bugie e capisce il linguaggio degli animali, ma non quello dei pesci. I miei nipoti mi chiedono di raccogliere i racconti in un libro. Alla vigilia di Natale mettiamo sempre in scena piccole recite con i bellissimi costumi che fa la nostra inseparabile amica Wally.”

Da tempo sei preoccupata dallo stato disastroso in cui versa l’ambiente.

“Bisogna muovere la base del Paese, le sfere più alte sono sempre più dedite al guadagno, con un’idea distorta che trasforma nuovi posti di lavoro di scarsa qualità in una completa rovina del domani. La prima cosa è cercare di rendere le persone coscienti. Io credo nei giovani, ce ne sono tanti che lavorano fuori dalla luce dei riflettori e hanno iniziative meravigliose, creano comunità di lavoro. Nel Fondo Ambiente Italiano lavorano 7.000 volontari e in particolari giornate ben 30.000 giovani ciceroni illustrano al pubblico beni artistici e naturalistici. Alcuni raccolgono i semi di fiori selvatici e vanno a distribuirli lungo le strade e nei campi. Lo Stato dovrebbe dare un po’ di mezzi ai giovani che hanno voglia di tornare alla terra e non possono permetterselo perché i terreni sono costosi e l’agricoltura non rende niente. Per concludere? Oggi l’uomo dovrebbe affrontare la vita con uno spirito diverso...”. Kitti Bolognesi

Il Talebano dell’ecologia: Fulco Pratesi.

Pratesi: «Far pipì sotto  la doccia è un atto politico  (lo scrivevo già 30 anni fa)». Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Fulco Pratesi. Fulco Pratesi è nato a Roma nel 1934. Laurea in Architettura, nel 1966 fonda il WWF Italia, di cui è stato presidente dal 1979 al 1992 e dal 1998 al 2007. Oggi è presidente onorario. Il Municipio di Oslo invita i norvegesi a risparmiare acqua, al mattino, evitando di tirare inutilmente lo sciacquone. E noi? Lo scrivevo nell’89, ora è chiaro a tutti: così si salva il Pianeta. La copertina di «Ecologia Domestica» il libro pubblicato trent’anni fa da Fulco Pratesi con la rivista Nuova Ecologia (allora diretta da Paolo Gentiloni): vi si ipotizzava il risparmio sull’acqua dello sciacquone. Il Municipio di Oslo, in Norvegia — Paese che consuma 182 litri d’acqua pro capite al giorno fra cucina, bagno e giardino, noi 241 — ha chiesto ufficialmente ai propri pur pulitissimi concittadini di risparmiare l’acqua dello sciacquone, facendo la pipì sotto la doccia al mattino. Del resto in quel civilissimo Paese la paura di sprecare acqua è una fissazione nazionale: i già virtuosi norvegesi consumano il doppio dei danesi, le multe contro gli sprechi arrivano a 158 euro e nel Sud della Norvegia 10 municipi su 12 hanno imposto restrizioni sull’apertura dei rubinetti durante il giorno. Che un tema come questo possa essere argomento di politica amministrativa sorprenderà parecchie persone. Eppure molti anni prima che l’allora sindaco di Londra Ken Livingstone rivelasse — era il 2006 — di non tirare mai l’acqua dopo la pipì, affrontai questo stesso tema nel 1989 (30 anni fa!) in un libro pubblicato con la rivista Nuova Ecologia, diretta allora da Paolo Gentiloni (libro che Chicco Testa, fondatore ed ex presidente di Legambiente, mi confessò che avrebbe voluto scrivere lui). In questo libretto — con prefazione del grande Guido Ceronetti, illustrazioni di Sergio Staino, il creatore di “Bobo”, e grafica di Cinzia Leone — tra le altre, spesso provocatorie, indicazioni che fornivo ai lettori, basate anche sui miei personali comportamenti, c’era appunto il problema messo in luce ora dal municipio di Oslo. A pagina 68, mi chiedevo infatti se fosse «giusto o non tirare l’acqua dopo aver fatto pipì» e rispondevo: «A volte mi dico che è assurdo per pochi decilitri di orina inquinare 8/12 litri di ottima acqua potabile. In altri momenti», proseguivo, «mi convinco invece che forse è meglio diluire molto la pipì, per non rendere le acque di fogna troppo cariche di azoto organico». L’argomento, a parte le tante battute ironiche che mi ha attirato, non è peregrino per chi crede nei principi del risparmio idrico soprattutto nel nostro Paese di antica civiltà, che non si vergogna di essere il primo in Europa e il secondo al mondo, dopo il Messico, nel consumo di acqua al giorno a persona. In effetti del volume di acqua (quasi sempre ottima e potabile) che ogni italiano consuma al giorno, il 31 per cento finisce, inquinato, nel WC: da 10 a 12 litri a ogni scarico per gli escrementi solidi e 6 litri per la pipì (se si usa lo sciacquone “intelligente” e risparmioso, quello che ha il doppio pulsante). A questo si aggiunge il consumo per la pulizia corporea: fino a 60 litri per una doccia prolungata, 120 per un bagno in vasca. Tutta preziosa acqua che finisce nelle fogne arricchita di schiume chimiche e residui organici. Acqua che si potrebbe benissimo, in gran parte, risparmiare. Molti anni prima che lo scultore e scrittore Mauro Corona, nato nel 1950, dichiarasse che si metteva sotto la doccia solo una volta al mese — «quando esagero faccio una doccia al mese, adesso però sto per completare il secondo mese senza farne nemmeno una», ha detto nel 2016 alla Zanzara di Radio24, attirandosi pure lui gli strali che io avevo già sperimentato —- in Ecologia domestica indicavo i miei sistemi di pulizia, oggetto di derisioni e ludibrio nei media maggiori: «Ogni mattina lavaggio di collo, orecchi e ascelle; dopo aver usato il gabinetto, estese abluzioni al bidet: la carta igienica non è assolutamente sufficiente per un’efficace pulizia. La sera, prima di andare a letto, lavanda ai piedi. Doccia, mai». In quegli anni mi concedevo un bagno con poca acqua scaldata con il gas (allora andavo in bicicletta per la città) solo il sabato. Oggi, una volta al mese e anche meno spesso, anche perché, alla mia età — ho compiuto 85 anni a settembre —, lo sport e le altre faticose attività corporee sono meno praticate. La ragione di questo comportamento sta nella presenza, sul nostro corpo, di una «crema protettiva e idratante», come la definisce il chimico Gianni Proserpio. Questa difesa idrolipidica, scrive, «può fare invidia per efficacia, equilibrio chimico e azione di difesa della salute, a tutti i preparati della moderna cosmesi», e meglio delle creme idratanti che furoreggiano nelle pubblicità dei settimanali. Il lavaggio, addirittura giornaliero, con saponi, detersivi e bagnoschiuma chimici, elimina questa patina protettiva con presumibili danni alla nostra salute. «Non è che, lavandosi poco», scrivevo nel 1989, «si debba poi far ricorso ai deodoranti, tutti più o meno dannosi, per le sostanze che contengono». Veniamo alla barba, ornamento e simbolo alla moda dalla quale oggi pochi maschi si sottraggono. Per mantenermi presentabile e glabro in un mondo di barbuti, allora come oggi mi faccio la barba ogni due/tre giorni. Ormai scomparse le lamette Gillette, che adoperavo anche per correggere i disegni in inchiostro di china da architetto, adopero un efficiente attrezzo a due lame con testina cambiabile. Ricavo la schiuma da un grosso e cubico sapone maghrebino bruno donatomi da un amico e un pennello di pelo di tasso che uso da molti anni, sempre con un pensiero reverente al povero mustelide che me lo ha fornito. Dopo la rasatura non uso dopobarba. Un po’ per consentire alla pelle di ricostituire la difesa idrolipidica di cui ho parlato, un po’ per il ricordo di olezzi di dopobarba (uniti a quelli di deodorante) che assillano in autobus e in metro. Lavo i denti dopo ogni pasto, iniziando con la prima colazione (è inutile lavarseli appena alzati, come fa la maggioranza), non lasciando il rubinetto aperto durante l’operazione. Sempre in tema di risparmio di acqua, introdotto dalla discussa indicazione del municipio di Oslo, penso sia utile fornire suggerimenti “ecologici” anche nel settore degli indumenti. Rimpiango le camicie dei nonni di cui si potevano cambiare colletti e polsini (dove si condensa lo sporco), mantenendo il resto per parecchi giorni. «Allora», scrivevo, «la gente sarà stata un po’ meno pulita, ma fiumi, mari e laghi molto meno inquinati». Preferisco, di ripiego, le camicie colorate (reggono di più lo sporco), meglio se di puro cotone (le fibre sintetiche danno più caldo, fanno sudare di più e a volte puzzano). In conclusione, voglio ancora rompere una lancia in difesa delle cosiddette “magliette” o “maglie della salute” delle nostre nonne. Nonostante importanti film che mostrano fusti come Marlon Brando, Brad Pitt, Bruce Willis, Freddie Mercury e altri in canottiera, questo sbeffeggiatissimo indumento, unito alla maglietta a mezze maniche, costituisce l’abbigliamento ecologico ideale. Io indosso la maglia di lana il primo novembre e la tolgo verso il primo maggio. Nelle altre stagioni, canottiere di cotone. In estate niente. Coloro che in inverno si ricoprono con piumoni, cappotti di pelliccia, giacconi con alamari di legno, potrebbero farne a meno con una calda e avvolgente maglietta di lana «a pelle». Naturalmente, queste indicazioni risalgono agli Anni Ottanta del secolo scorso, quando il riscaldamento globale aveva poco infierito, anche in Italia. Ma oggi, se si ha rispetto per quel Pianeta in difesa del quale tanti giovani seguaci di Greta scendono il venerdì nelle piazze, è necessario mettere da parte il sarcasmo e le facili battute e cambiare le proprie abitudini quotidiane. Perché si può fare tanto, tantissimo, semplicemente diventando più responsabili e intelligenti nell’uso delle risorse. Quando fare la pipì nella doccia la mattina verrà visto come un «atto politico», qualcosa comincerà davvero a cambiare.

·        Shellenberger, l’ambientalista moderno.

Shellenberger, l’ambientalista moderno: l’uomo può aiutare la natura.  L’Economia del futuro in Triennale. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Maria Teresa Cometto. Grazie al progresso tecnologico, la nostra prosperità e la protezione del Pianeta non confliggeranno, dice l’ambientalista americano. Convinto anche che il nucleare non sia il peggiore dei mali. Shellenberger porta l’esempio della plastica, contro cui oggi sono in corso varie campagne: «È servita a sostituire prodotti naturali come il guscio delle tartarughe marine, uccise a milioni per fabbricare le montature di occhiali — ricorda —. Tornare a usare prodotti naturali per gli occhiali, al posto della plastica, può significare quindi una nuova mattanza di quegli animali. Inoltre, non c’è alcuna evidenza scientifica che la bioplastica generata dalle piante sparisca più velocemente della plastica derivata dal petrolio». Un altro esempio dei danni dell’ideologia ecologica «romantica», secondo Shellenberger, riguarda il biocarburante o carburante organico. «La sua produzione con l’olio di palma in Indonesia — sottolinea — ha provocato la distruzione di ampie zone di foreste pluviali e la morte di tantissimi animali, fra cui gli oranghi, ora minacciati di estinzione». Una tragedia ecologica su cui il NewYork Times ha pubblicato una lunga inchiesta intitolata appunto «L’olio di palma doveva salvare il pianeta, invece ha scatenato una catastrofe», dove si spiega che la decisione degli Stati Uniti dieci anni fa di usare quell’olio come biocarburante non solo ha provocato una deforestazione su scala industriale, ma anche ha fatto aumentare le emissioni di anidride carbonica. «Il cambiamento climatico e i problemi ambientali sono fatti reali, ma richiedono soluzioni pratiche, non radicali», dice Shellenberger. E cita il ruolo delle tecnologie in agricoltura: «L’utilizzo maggiore che facciamo della terra è per produrre cibo. Grazie ai fertilizzanti e ai trattori, siamo riusciti a usare sempre meno terra per produrre cibo in maggiori quantità e in modo più efficiente. E così nei Paesi ricchi molte aree sono tornate a essere selvagge. Per esempio nel Nord-Est dell’America, in stati come il Maine, molte produzioni agricole sono state abbandonate perché non ce n’è più bisogno e al loro posto sono ricresciute le foreste». Per l’attivista, «la chiave del progresso è l’energia, che però può avere un impatto negativo sull’inquinamento e i cambiamenti climatici — continua Shellenberger —. L’impatto diminuisce con il passaggio dai combustibili a bassa densità a quelli ad alta densità: dal legno al carbone poi al petrolio e al gas naturale fino all’uranio. C’è più energia in una manciata di uranio che in qualsiasi altra fonte energetica». Non è vero che l’energia nucleare sia pericolosa, sostiene Shellenberger, citando studi scientifici che documentano la sua sicurezza. «Secondo certe stime — aggiunge — l’energia nucleare ha salvato finora due milioni di vite umane grazie al suo contributo nel ridurre l’inquinamento dell’aria, che è tuttora un enorme problema in molti Paesi emergenti, dove la gente muore perché l’aria è irrespirabile». L’ecopragmatista cita poi altri problemi legati alle fonti energetiche rinnovabili: «Le fattorie solari occupano estensioni di terra 450 volte più grandi di una centrale nucleare e quelle eoliche hanno bisogno di 700 volte più terra dei pozzi di gas naturale per produrre la stessa quantità di energia. Inoltre hanno ancora una bassa efficienza e alti costi anche in Paesi avanzati come la Germania, come ha denunciato il settimanale tedesco Der Spiegel». Senza contare le conseguenze inattese negative, come l’uccisione degli uccelli causata delle pale dei mulini a vento. «In Kenya — dice Shellenberger — un impianto eolico finanziato dalla stessa Germania e da altri Paesi occidentali desiderosi di fare del bene è stato costruito lungo una rotta migratoria di diverse specie e gli scienziati avvertono che ucciderà centinaia di aquile in via di estinzione». La via alla sostenibilità insomma è complessa.

·        Prima di Greta.

Prima di Greta, 27 anni fa una dodicenne parlò di clima ai potenti della Terra: "Combatto per il mio futuro". Sofia Gadici su Repubblica Tv l'1 ottobre 2019. Greta Thunberg non è stata la prima bambina a parlare di cambiamenti climatici e a scuotere le coscienze. Nel 1992, ad appena 12 anni di età, una giovane attivista canadese di nome Severn Cullis-Suzuki pronunciò un discorso al vertice della Terra di Rio de Janeiro, che è rimasto impresso nella memoria di molti. Per le sue parole appassionate, Severn venne soprannominata "La bambina che zittì il mondo per 6 minuti". A distanza di 27 anni sembra che poco sia cambiato e tante sono le similitudini tra il discorso di Greta, pronunciato alla Nazioni Unite lo scorso 24 settembre, e quello di Severn Cullis-Suzuki: entrambe hanno parlato con preoccupazione delle generazioni future e dei più deboli, lanciando un allarme sugli effetti negativi dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. Oggi Severn è una scrittrice e conduttrice tv in Canada, e il suo impegno per l'ambiente è continuato nel corso degli anni.

·        I Gretini.

Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

 Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

Da tgcom24.mediaset.it" il 5 novembre 2019. "E' stato fantastico vedere la mia amica ed eroe Greta Thunberg...". Arnold Schwarzenegger commenta così una serie di scatti condivisi sul suo profilo Instagram in cui appare insieme alla giovane attivista in bicicletta per le strade di Santa Monica. Dopo Leonardo DiCaprio quindi un'altra star del cinema per la sedicenne svedese, che sta viaggiando per tutto il Nord America: "Continua ad ispirare", aggiunge l'ex governatore della California. Schwarzenegger, da sempre molto sensibile ai problemi ambientali e Greta si erano già incontrati a maggio quando la ragazza ha aperto il vertice mondiale austriaco del 2019 dell'organizzazione ambientale no profit R20 Regions of Climate Action, istituito dal vegano Arnie nel 2011. Sostenuto dalle Nazioni Unite, R20 è una coalizione di governi, organizzazioni internazionali e società private che implementano infrastrutture verdi nelle città.  Per il suo viaggio in America l'attore le ha messo a disposizione la sua Tesla elettrica.  Greta ha finora viaggiato solo con mezzi ad emissione zero attraversando con una barca a vela l'Oceano dell'Inghilterra a New York e utilizzando via terra solo treni e auto elettriche, come quella presa in prestito da Schwarzenegger.

Da huffingtonpost.it il 20 novembre 2019. ″È una viaggiatrice del tempo, mandata sulla Terra per salvarci”. È questa l’ultima teoria cospirazionista intorno alla figura di Greta Thunberg, la giovane attivista che si batte per l’ambiente. A far nascere questa “bizzarra” idea nelle menti degli utenti è una foto che circola da poco sui social network. Nell’immagine estratta, a quanto sembra dagli archivi della Università di Washington e risalente al 1898, si vedono tre giovani intenti ad estrarre acqua da un pozzo in Canada. Uno di questi è una ragazza, incredibilmente somigliante a Greta. Treccine comprese. Di fronte a questo ritrovamento molti utenti stano avanzando le ipotesi più disparate. Alcuni sono convinti che la giovane nella foto di 120 anni fa sia proprio Thunberg e che sia “stata spedita sulla Terra per mostrarci il futuro”.

 Gino Castaldo per “la Repubblica” il 22 novembre 2019. L’impatto zero è il Santo Graal delle nuove generazioni in musica. Vorrebbero tutti suonare, radunare folle, esplodere di luci e suoni, ma senza produrre emissioni nocive, rimanendo invisibili all' ecosistema. Possibile? Nel dubbio dicono i Coldplay, meglio stare a casa. L' annuncio di oggi non lascia margini: basta tour, finché non saremo sicuri della loro totale eco-sostenibilità. Non sono i primi a preoccuparsi dell' ambiente, non saranno gli ultimi, ma il passo in più è quello della rinuncia totale. La spinta della generazione Greta chiede un impegno nuovo, non più rimandabile, e la musica non può certo rimanere indietro. Tutto è cominciato più o meno all' alba del nuovo millennio, da quando qualcuno formulò una domanda molto semplice: belli i concerti, per carità, irrinunciabili, esaltanti, ma non sarà che questi giganteschi kolossal dello spettacolo, così amati anche per la condivisione di valori di pace e progresso, possano risultare alla fine altamente inquinanti? È bastato fare due conti e scoprire che la contraddizione è innegabile. I grandi concerti sono una macchina infernale, hanno un impatto devastante. Uno studio del 2007 stimava che solo in Italia la musica dal vivo produceva quasi tre milioni di tonnellate di Co2. Nel mondo le proporzioni sono impressionanti. Hanno fatto le pulci anche ai grandi festival, scoprendo che solo nei giorni di Glastonbury venivano lasciate a terra qualcosa come un milione e trecentomila bottigliette di plastica, tanto da spingere gli organizzatori a vietare nell' edizione di quest' anno i prodotti non riciclabili. In molti hanno cercato risposte. I Radiohead pretendevano addirittura di arrivare in treno ai concerti in location comodamente raggiungibili da mezzi pubblici. Il seme verde è germogliato, creando situazioni a volte bizzarre. C' è chi come i Tetes de bois organizza concerti a pedali, con un piccolo luna park di biciclette che fanno da dinamo e generano elettricità, ma questo ovviamente riguarda piccole situazioni, altrimenti si ricorre ai pannelli fotovoltaici, si calcolano le emissioni e ci si impegna a piantare alberi per pareggiare i conti. Il problema se lo stanno ponendo in molti, il coro sommesso rischia di diventare un' orchestra. Marco Mengoni ci ha provato, ha organizzato 5 date in luglio del tour Fuori Atlantico, in luoghi adatti alla sfida, per tentare di avvicinarsi il più possibile all' orizzonte mitico dell' impatto zero. Jovanotti, per il suo tour sulle spiagge, ha progettato col Wwf un piano di quasi totale riciclo dei rifiuti, avvicinandosi al 97% del totale. Le bottigliette di plastica consumate nei concerti sono state raccolte, ridotte in filamenti adatti a essere trasformati in magliette sportive che sono state regalate proprio ieri ai Comuni che hanno ospitato le date del tour. Ma soprattutto, dice il Wwf, col tour di Jovanotti potrebbero essere stati seminati 600.000 semi di buonsenso, uno per ognuno degli spettatori coinvolti. Altri lo fanno finanziando organizzazioni militanti. David Gilmour ha regalato i 21 milioni di dollari ricavati dall' asta delle sue chitarre a ClientHeart lo studio legale non profit che si batte per le cause dell' ambiente. Ci vuole un esempio forte, dicono i Coldplay, ognuno deve fare la sua parte, e per loro l' esempio è non suonare. Spegnere la musica per accendere delle luci verdi, e il sorriso di Greta.

Da il Messaggero il 22 novembre 2019. Celebrare la potenza della musica, che abbatte muri e costruisce ponti, con un disco che mischia il pop-rock occidentale con influenze mediorientali, e che parla di amore, uguaglianza, umanità e speranza, ma anche di guerre e razzismo: è quello che fanno i Coldplay con Everyday life, il loro nuovo lp (nei negozi da oggi), l' ottavo della loro carriera. «È la nostra reazione alla negatività che è in giro ovunque», spiega il frontman della band britannica, Chris Martin, «se hai il privilegio di girare il mondo, capisci che siamo tutti sulla stessa barca». Così i Coldplay annunciano anche lo stop ai tour: «I concerti inquinano. Finché non saremo certi che siano eco-sostenibili, staremo fermi». Appena due esibizioni ad Amman, trasmessi in diretta su YouTube (all' alba e al tramonto). Lunedì saranno al Museo di Storia Naturale di Londra.

Marco Molendini per Dagospia il 21 novembre 2019. Sbagliano i Coldplay, la risposta all'inquinamento del pianeta non può essere lo spegniamo tutto. La battaglia ambientalista finirebbe per perdere, usando l'astensione contro la prepotenza e il menefreghismo dei Trump e dei Bolsonaro. La forza del rock è un'altra, sta nel messaggio, nella sua capacità di coinvolgere, di usare i volumi alti, alzare i temi, sensibilizzare l'opinione pubblica. Altrimenti resta soltanto il narcisismo dell'ego, schierarsi strumentalmente per nobilitare la propria immagine a fini promozionali per accompagnare l'uscita di un nuovo album (Everyday life, pubblicato guardacaso proprio oggi). La musica inquina per la sua stessa esistenza. L'antico vinile, oggi tornato in auge, inquina (produce 0,5 kg di CO2 e poi c'è il packaging), il cd non è riciclabile, lo streaming inquina più dei supporti fisici perchè passa dai server che devono essere raffreddati e usa energia. Anche ascoltare inquina, perchè l'ascolto attraverso qualsiasi device ha bisogno esso stesso di una fonte di energia. Guardare la tv, andare al cinema, uscire di casa, perfino respirare produce C02. Allora? Il problema sta nei comportamenti, nell'educazione, nel controllo delle fonti maggiormente inquinanti, come le industrie. Il rock non deve tacere, come tutte le altre musiche. Certo fa bene chi, come hanno fatto Ligabue e Jovanotti cerca di compensare il consumo di energia dei propri concerti finanziando operazioni di rimboschimento, chi usa come hanno fatto i Bon Jovi biocombustibile, chi invita a pedalare sulle biciclette come i Tetes de bois, ma sono prove di buona volontà, gocce nel mare. Senza contare che sarebbe quanto meno presuntuoso immaginare che quei 40, 50 mila spettatori che sarebbero andati al concerto che i Coldplay non faranno in attesa di studiare nuove strategie per non inquinare, stessero fermi a casa senza consumare energie, senza muoversi, insomma senza produrre anidride carbonica. Questo non vuol dire che non ci si possa limitare, evitare le esagerazioni, tagliare la corsa alle supermega produzioni, alle abitudini esagerate: i voli privati delle rockstar inquinano oppure no?). Ma il rock, a meno che non si voglia soltanto lucidare le proprie medaglie e acquisire consenso, ha un altro compito, e parliamo di rock per dire ogni genere di musica, provare a cambiare i comportamenti, contribuire a creare una mentalità ambientalista, d'altra parte ne va del futuro di tutti noi. Forse ne vale la pena.

ANSA il 6 dicembre 2019. E' arrivata a Madrid, dopo un viaggio notturno in treno partito da Lisbona, la giovane attivista svedese Greta Thunberg. Ad attenderla alla stazione alcuni giornalisti e media televisivi. La sedicenne che ha ispirato il movimento ambientalista Fridays for future (FFF) parteciperà alla Conferenza dell'Onu sui cambiamenti climatici che si è aperta lunedì scorso a Madrid e si concluderà venerdì 13 dicembre. Greta si unirà questo pomeriggio alle 18 allo sciopero globale per il clima che partirà dalla stazione Atocha. In un tweet ieri aveva ricordato che oggi c'è il nuovo sciopero globale (il quinto da quando si è formato FFF) e aveva dato appuntamento ai ragazzi di Madrid. Rientrata martedì scorso in Europa, a Lisbona, dopo la traversata atlantica in catamarano dagli Usa, Greta è a Madrid per scuotere i 196 Paesi partecipanti alla Cop25 ad un'azione urgente contro il riscaldamento globale. Come l'anno scorso alla Cop24 di Katowice in Polonia, il suo discorso è molto atteso. Oggi, prima di marciare assieme ai giovani spagnoli per sensibilizzare le coscienze sui disastri provocati dai cambiamenti climatici, Greta ha in programma una conferenza stampa con altri giovani attivisti alle 16:30 a "La Casa Encendida". La giovane attivista - che viaggia a emissioni zero - era partita per gli Usa in settembre con il veliero di Pierre Casiraghi per partecipare al vertice sul clima a New York per poi trasferirsi in Cile per la Cop25. Ma la Conferenza delle parti è stata dirottata a Madrid per disordini nel Paese sudamericano. Quindi la sedicenne svedese, che ha preso un anno sabbatico dalla scuola ed è accompagnata dal padre in questo viaggio, ha trovato "un passaggio" per rientrare in Europa a bordo del catamarano di 48 piedi "La Vagabonde", ospite di una coppia australiana di YouTuber. E' riuscita ad approdare a Lisbona in tempo per partecipare sia alla marcia, oggi, sia alla Cop25. Nell'agosto dell'anno scorso, Greta aveva cominciato il suo "sciopero per il clima" - come è scritto a mano su un cartello che porta sempre con sé alle manifestazioni - non andando a scuola ogni venerdì per protestare davanti al Parlamento di Stoccolma e sollecitare interventi per tagliare i gas a effetto serra che sono, secondo gli scienziati, la causa principale dei cambiamenti climatici e dei conseguenti eventi climatici estremi.

Da quotidiano.net il 6 dicembre 2019. Attesissima al Cop25 di Madrid, nella notte la giovane attivista svedese per il clima Greta Thunberg ha viaggiato tra Lisbona e Madrid, dove stasera partecipa alla marcia per il Clima. Greta, tallonata dalla stampa internazionale (una trentina i reporter che, comprando i biglietti all'ultimo minuto, sono saliti con lei sul treno alla stazione di Lisbona), ha dovuto affrontare il lungo viaggio, oltre 10 ore, ma anche l''affronto' di dover violare i principi di sostenibilità da lei difesi con tanta energia: su un tratto - 100 chilometri tra il confine portoghese e Salamanca - la linea non è elettrificata e il treno dipende da una locomotiva diesel che produce il doppio di CO2 rispetto a quelle elettriche. Davvero uno smacco, per Greta, che non viaggia in aereo per evitare emissioni di gas inquinanti e per questo è tornata in Europa in catamarano. Il Trenhotel Lusitania è il treno notturno che collega le due capitali iberiche: partendo da Lisbona, attraversa 17 città ed è arrivato stamane alle 08:40 a Madrid. La giovane svedese è arrivata alla stazione di Lisbona 'scortata' dalla polizia e da Nikki Henderson, la skipper britannica che l'ha accompagnata durante la traversata transatlantica conclusasi martedì  scorso, tre settimane a bordo del catamarano La Vagabonde. Il suo ingresso sul treno è stato accompagnato dalla baraonda dei giornalisti e alla fine la giovane è stata anche fotografata mentre saliva a bordo. Sebbene la Junta de Extremadura le avesse messo a disposizione un'auto elettrica, scartate le offerte più stravaganti (persino quella di percorrere a bordo di un asino i 600 chilometri che separano le due capitali iberiche), la ragazzina infatti ha scelto di utilizzare i pochi collegamenti ferroviari esistenti tra Portogallo e Spagna.

Greta arriva a Madrid come una star «Sciopero per il clima». Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 su Corriere.it da Sara Gandolfi. Dalla marcia record alla conferenza sul clima l’attivista scortata da agenti (e fotografi): «Ora c’è dibattito ma non è cambiato nulla». Con quella sua faccia un po’ così, tra lo stordito e l’imbronciato, tipo «ma che ci faccio qui?», Greta Thunberg è finalmente arrivata a Madrid. La paladina della «protesta lenta» — 20 giorni di navigazione transoceanica dall’America più una notte in treno da Lisbona — è scesa dai vecchi vagoni del Lusitania con il cappuccio della felpa ben calato sulla testa, scortata da un cordone di polizia e dal circo mediatico delle grandi occasioni. Come una star del rock o una diva di Hollywood. «Sono una semplice attivista climatica, una piccola parte di un grande movimento», ha detto in conferenza stampa. E ha cercato invano di cedere parola e riflettori ad altri ragazzi di FridaysForFuture, la protesta planetaria da lei innescata un anno e mezzo fa, quando cominciò a saltare scuola di venerdì contro la crisi climatica. L’attenzione ora è solo per lei. E per le sue idee: ieri migliaia di persone hanno poi invaso le strade di Madrid per la #MarchaPorElClima, un corteo enorme che ha dato il via al Vertice sociale, parallelo a COP25: i suoi «groupies», l’esercito di Greta. Erano talmente tanti che a un certo punto la polizia ha chiesto alla 16enne di salire in auto (elettrica, ovviamente). Ma poi lei, la star indiscussa, è ricomparsa, oscurando perfino un attore vero, Javier Bardem, che l’ha preceduta sul palco. È senza dubbio la protagonista di questa conferenza sul clima, anche perché molti leader neppure verranno. Ed è contro di loro che, ancora una volta, si alza potente la voce di Greta. Arrabbiata: «I politici continuano a ignorare la crisi climatica, non possiamo aspettare un giorno di più». Orgogliosa: «Abbiamo ottenuto molto: creato una coscienza collettiva, aperto un dibattito». Disillusa: «Protestiamo da un anno e non è successo nulla. Non è una soluzione sostenibile che i bambini marinino la scuola». Delusa: «Le emissioni di CO2 non si stanno riducendo, nel 2019 aumenteranno. Da un certo punto di vista, non abbiamo ottenuto nulla». E alla fine, in chiusura del corteo, guerresca: «Le persone al potere devono assumersi la loro responsabilità e proteggere le generazioni future. Il cambiamento sta arrivando dalle masse, che siamo noi. Devono seguirci, gli piaccia o no». Dalla piazza, un boato. Come alla fine di un concerto rock. Tutti fermi davanti a quella piccoletta circondata da una nuvola di cameraman e cellulari pronti al selfie. Greta dice: ascoltate la scienza. Per ora, è più facile ascoltare lei. 

La marcia del clima su Madrid. Greta: «Cercano di zittirci». Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 da Corriere.it. Migliaia di persone hanno invaso le strade del centro di Madrid per la #MarchaPorElClima, un corteo enorme che ha dato il via al Vertice sociale, parallelo e antagonista a COP25, la venticinquesima conferenza delle parti sul clima che proseguirà nella capitale spagnola fino al 13 dicembre. Tra gli slogan: «Questa Conferenza è una farsa», «Il capitalismo uccide il pianeta» e «La Terra muore e io con lei». L’esercito di Greta si è radunato alle 18 in piazza Atocha, poco dopo il termine della conferenza stampa durante la quale la sedicenne svedese ha ancora una volta fustigato i potenti della terra, che «continuano a ignorare la crisi climatica». Era previsto che Greta sfilasse per tutto il tempo con il corteo ma a un certo punto la «muraglia umana» era così fitta, così come il circo di fotografi e cameraman che circondavano la ragazza, che la polizia spagnola l’ha invitata a salire in auto. Elettrica, ovviamente. Greta si è scusata: «Avrei voluto esserci, ma è per motivi di sicurezza». Arrivata in mattinata a Madrid da Lisbona con il vecchio treno Lusitania, Greta è stata scortata per tutto il tempo da un fitto cordone di poliziotti. Prima alla Fiera dove è in corso COP25, e dove ha partecipato a un breve sit-in con altri giovani attivisti, poi alla conferenza stampa in un palazzo del centro, Casa Encendida, dove ha detto fra gli applausi: «Stiamo scioperando da un anno ma non è successo nulla, non possiamo aspettare un giorno in più, chi ha paura del cambiamento cerca di zittire noi giovani».

Cop25, Greta striglia ancora i politici: "Volete farci stare zitti, ma noi non smetteremo". A Madrid l'attivista svedese ha partecipato alla marcia di protesta per il clima. "C'è un'urgenza evidente nei confronti del cambiamento climatico: faremo tutto il possibile per fare qualcosa di concreto e non essere più ignorati ". La Repubblica il 06 dicembre 2019. "Stiamo scioperando da un anno ma non è successo ancora nulla. Si sta ignorando la crisi climatica e finora non c'è una soluzione sostenibile. Non possiamo continuare così, vogliamo azione e subito perché la gente sta soffrendo e morendo per questa emergenza climatica, non possiamo aspettare ancora". Greta tuona da Madrid, dove è in corso la Cop25, la Conferenza mondiale Onu sui cambiamenti climatici. Come previsto, la giovane paladina del clima ha strigliato ancora una volta i politici per le azioni poco incisive per limitare le emissioni di CO2 come previsto dagli accordi di Parigi. "Gli Stati devono capire ciò di cui abbiamo bisogno in futuro, non possono nasconderlo né ignorarlo", dopo un anno di manifestazioni in tutto il mondo, ha detto Greta puntando il dito contro i Paesi che "stanno tentando di metterci in silenzio per non rinunciare al denaro, per la loro avarizia. Ma noi continueremo con la nostra azione". Greta ha osservato che "dobbiamo fare di tutto per risolvere il problema e tentare tutto ciò che possiamo per evitare conseguenze peggiori. La Cop25 - ha spiegato - è un anno intermedio verso la più importante Cop26" quando tutti i Paesi dovranno presentare i propri impegni, gli obiettivi climatici nazionali per il 2030, "ma non possiamo permetterci un giorno in più nel rinvio, dobbiamo agire ora. Dobbiamo approfittare di qualche opportunità che abbiamo". E infine, sul presidente degli Usa Donald Trump che ha presentato la revoca dall'accordo di Parigi e i Paesi ricchi che non mostrano impegni seri sul taglio delle emissioni di gas serra, la giovane attivista ha detto che sono "ipocriti, che cercano di pulire la loro spazzatura, mentre dovrebbero risolvere la crisi che essi stessi, i ricchi, hanno creato" a danno dei paesi poveri. La giovane svedese ha scelto il treno per raggiungere Madrid da Lisbona nel giorno dello sciopero mondiale per il clima a margine del summit Cop25.  Il Trenhotel Lusitania è il treno notturno che collega le due capitali attraversando 17 città. Scartate le proposte più bizzarre: dall'asino all'auto elettrica. Greta è arrivata a Lisbona martedì scorso dopo aver compiuto una traversata atlantica di tre settimane a bordo di un catamarano. Un lungo viaggio che l'attivista ha scelto di intraprendere, anche all'andata, per evitare l'aereo, responsabile dell'emissione di gas inquinanti. Nel pomeriggio Greta si è unita agli altri partecipanti, alle piattaforme di attivisti - tra cui Fridays for Future e Juventud por el Clima - e alle migliaia di simpatizzanti per attraversare le strade di Madrid chiedendo una risposta all'emergenza climatica. Intanto, alla Cop25, si è nel tratto finale dei negoziati iper-tecnici tra le delegazioni dei quasi 200 Paesi partecipanti, prima della prossima settimana quando è prevista la cosiddetta fase ministeriale del negoziato.

Greta Thunberg: «Non ascoltate me, ma gli indigeni che soffrono». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. Greta è stanca, Greta è spaventata dall’attenzione ossessiva della stampa che qui a Madrid la insegue ovunque, Greta vuole che ora parlino anche gli altri ragazzi di FridaysForFuture. Greta, sussurra chi le sta più vicino, non vede l’ora di tornare a casa in Svezia e riabbracciare la mamma e la sorella, che non vede da quando è partita per la sua doppia transoceanica in barca a vela. L’entourage della diciassettenne che ha infiammato il mondo parlando di crisi climatica e strigliando i governanti all’Onu, sta cercando in tutti i modi di stendere un cordone protettivo attorno a lei. Qui a Madrid, dove la Cop25 è entrata nel vivo per la sua ultima settimana di negoziati, Greta Thunberg non concede interviste. Greta, però, è comunque protagonista. Dopo l’abbuffata di venerdì - conferenza stampa e show finale sul palco della Grande marcia per il clima - domenica si è fatta vedere all’Università Complutense di Madrid, dove si svolge il Vertice sociale alternativo. E lunedì è tornata alla Cop per una conferenza stampa collettiva dove ha voluto ostinatamente limitarsi al ruolo di comparsa. O di Grande Ispiratrice. Fuori dalla sala il circo mediatico si accalcava. Lei, come al solito apparentemente la più piccola e fragile del gruppo, ha detto solo poche parole, prima di passare il microfono agli altri ragazzi. «Abbiamo notato una forte attenzione dei media – ha detto con un sorriso velato – e crediamo che sia nostra responsabilità morale usare questa attenzione per dare voce a coloro che hanno bisogno di raccontare le loro storie». Ovvero alle popolazioni del Sud e ai popoli indigeni, «in prima linea nella lotta al cambiamento climatico», quelli che più di altri soffrono delle ingiustizie sociali direttamente correlate ai cambiamenti climatici, secondo Greta, che avverte: «L’impatto del cambiamento climatico non riguarderà solo i bambini di oggi. Sta già colpendo molte persone che oggi soffrono e muoiono». Dopo di lei, nella sala superaffollata delle conferenze stampa, hanno preso la parola gli «inascoltati». Ragazzi dalle Filippine, dal Cile, dalle Isole Marshall che affondano. Al fianco di Greta, quasi la sua ombra, c’era Luisa Neubauer, portavoce di FridaysForFuture e co-fondatrice del movimento che si è ispirato a quella piccola ragazza svedese, con sindrome di Asperberger, che da sola, un giorno di un anno e mezzo fa, decise di scioperare da scuola perché i governi dovevano fare qualcosa per il clima. Se Greta è stanca, spaventata dall’attenzione morbosa dei media, sarà la ventitreenne Luisa a prendere il suo posto davanti alle telecamere? Luisa Neubauer, in un’intervista al Corriere si schermisce: «Vorrei che fossimo un movimento senza leader e senza le vecchie ideologie di destra e sinistra?». E la politica? «Tutti noi facciamo politica». E mentre i negoziati ufficiali languono, l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani Michelle Bachelet dà la sua benedizione al movimento, affermando che i giovani «hanno diritto» di partecipare alle decisioni perché «sono stati in prima linea in questa lotta pacifica». Greta intanto è tornata nell’ombra, pronta a ritornare sul palcoscenico della Cop25 mercoledì, al fianco, sembra, nientemeno che di Indiana Jones-Harrison Ford.

Clima, Greta da Madrid: le emergenze hanno già effetto sulla vita delle persone. Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. «Le emergenze climatiche non sono qualcosa che avrà un impatto sul futuro, che avrà effetto sui bambini nati oggi una volta adulti. Hanno già effetto sulle persone che vivono oggi». Lo ha detto Greta Thunberg aprendo la conferenza stampa organizzata da Fridays for Future durante la conferenza Cop 25 delle Nazioni Unite in corso a Madrid. La conferenza stampa è iniziata in ritardo per la grande quantità di persone in coda per seguire l'attivista svedese, al punto che la sala è stata chiusa e poi riaperta solo ai giornalisti. «Abbiamo il dovere di usare l'attenzione dei media per la nostra piattaforma e per far sentire la nostra voce - ha aggiunto Greta, prima di dare la parola alla moderatrice Luisa Neubauer e ad alcuni attivisti da tutto il mondo, dall'Uganda al Cile, presenti alla conferenza stampa -. Noi, io e Luisa, non parleremo oggi, siamo privilegiate perché le nostre storie sono state già dette, ma non sono le nostre storie che devono essere ascoltate ma quelle degli altri, soprattutto nel sud del mondo e nelle comunità indigene. Abbiamo creato questo evento come una sorta di piattaforma per condividere le storie che devono essere conosciute». Il primo a prendere la parola dopo Greta, che ha anche ricordato l'importanza di «ascoltare le storie delle popolazioni indigene, che sono in prima linea nel subire gli effetti dei cambiamenti climatici», è stato un ragazzo proveniente dalle isole Marshall, alle prese con l'innalzamento delle acque. «Ci hanno detto che per resistere dobbiamo adattarci, andare più in alto - ha affermato - o che una soluzione che abbiamo è emigrare». Gli altri interventi hanno visto alternarsi ragazzi da tutto il mondo, dalle Filippine agli Usa al Cile. A prendere la parola anche un attivista russo, che ha ricordato come nel proprio paese sono state arrestate delle persone per aver partecipato alle proteste sul clima. Tra gli speaker anche una ragazza nativa americana, che ha ricordato le lotte in corso contro lo sfruttamento dei territori contro il volere degli indigeni. Il messaggio di tutti ai politici è stato la richiesta di avere più visibilità. «Chiediamo di essere ascoltati, perché nessuno più di noi sperimenta sulla propria pelle i danni dai cambiamenti climatici», ha ricordato ad esempio un'attivista dall'Uganda.

GIACOMO TALIGNANI per repubblica.it il 29 novembre 2019. Per la prima volta nell'onda verde nuoteranno anche i pesci azzurri. Oggi, durante il quarto sciopero globale per il clima, decine di cittadini che si rispecchiano nei valori del neonato movimento delle Sardine si uniranno infatti ai giovani di FridaysForFuture che sfileranno nelle piazze di più di 100 città italiane per chiedere risposte immediate alla crisi climatica.  Un'unione che in molti casi "esisteva anche prima - raccontano da FridaysForFuture Roma - perché molte delle persone che scioperavano per il clima si sono poi ritrovate in piazza a far sentire la loro voce strette fra le altre sardine". Il movimento delle 6000sardine nato da quattro giovani bolognesi poche settimane fa si è diffuso a macchia di leopardo come risposta a Matteo Salvini nel tentativo di "riappropriarsi della politica" dicono i fondatori, la stessa politica con la P maiuscola che invocano anche i giovani ispirati da Greta Thunberg, "perché servono immediate strategie per ridurre le emissioni ed arginare così gli effetti del surriscaldamento che ci sta rubando il futuro". Per entrambi la parola d'ordine è slegarsi, chi dalla politica dell'insulto, chi da un'economia dipendente dai combustibili fossili e dal consumismo "non sostenibile" come quello del Black Friday di scena oggi. Avendo valori condivisibili, i ragazzi di FridaysForFuture Roma hanno così deciso di scrivere una lettera di invito alle "amiche sardine", ribadendo che "gli obiettivi per cui lottiamo entrambi sono complementari e, anzi, spesso coincidono. Non c'è "noi" o "voi" che tengano. Il fatto che entrambe le mobilitazioni siano promosse da noi ragazze e ragazzi è ancora più importante, perché così vogliamo rivendicare il nostro protagonismo in questo momento di stallo dei grandi" scrivono. Ma dato che le sardine sono un "anticorpo" appena nato, per i giovani ambientalisti trovare una risposta univoca all'invito "non è stato semplice - spiegano da Roma -. Non ci sono ancora coordinatori o punti di riferimento e non abbiamo in programma incontri con loro: l'appello è semplicemente a unirsi a noi, a venire nella corrente per chiedere un cambiamento". A sancire l'unione potrebbe però pensarci il calendario. Oggi per esempio a Mantova si sono dati appuntamento sia le sardine sia i manifestanti del clima. Domani invece le sardine si stringeranno nelle piazze di Firenze, Napoli, Ferrara, Treviso e diverse altre realtà italiane ed è probabile che fra i tanti partecipanti attesi ci siano anche i ragazzi impegnati nella lotta al surriscaldamento globale. Nel gelido autunno colpito da eventi climatici sempre più devastanti per entrambi i gruppi lo scopo è dunque "riscaldarci con il calore delle nostre idee, del nostro entusiasmo". Ecco perché da FridaysForFuture invitano chiunque, nel corteo di stamattina, a portare la propria sardina da mescolare ai tanti cartelli che ricordano l'assenza di un Pianeta B. "Siamo certi che tanti di voi abbiano a cuore la situazione climatica - scrivono i ragazzi di Greta nell'appello - così come sappiamo che molti di noi stanno prendendo parte con entusiasmo alle vostre iniziative volte ad evidenziare l'emergenza democratica in corso nel paese. Questi scambi, queste commistioni, sono il segnale più evidente che l'emergenza climatica non potrà essere affrontata e risolta senza prima affrontare l'emergenza democratica. Vi aspettiamo, aspettateci in piazza".

Andrea Rossi per “la Stampa” il 14 dicembre 2019. La bambina che sferza i potenti della Terra è arrivata esausta alla sua prima meta. «Sono stanca. Non è giusto che una persona della mia età, che persone della nostra età, debbano fare tutto questo». Dopo un anno da leader globale ha imboccato la rotta di casa cercando una parentesi di normalità: «Ancora qualche tappa lungo il tragitto verso la Svezia, ma per Natale sarò a casa». E, forse, sarà di nuovo una ragazza della sua età, almeno per qualche giorno, prima di ricominciare il viaggio. «Fermarsi non è un'opzione», racconta Greta Thunberg. Ma anche andare avanti, parlare davanti a migliaia di persone, centinaia di piazze, salire sul palco dei summit internazionali, confrontarsi con i capi di Stato, è innaturale per chi ha sedici anni. La fragilità è un diritto, anche - forse soprattutto - per chi è mosso da una granitica determinazione: «Se potessi scegliere vorrei vivere come un' adolescente normale, andare a scuola. Ma questa non è una situazione normale. Tutti devono essere disposti a trovarsi in situazioni in cui non si sentono a proprio agio». Non ha scelto di essere leader, tantomeno l'ha voluto. È un ruolo che le si cuce addosso a fatica, la sembra quasi opprimere. È facile immaginare quanto le costi essere una front woman. Per questo chi la accompagna in questo estenuante tour in difesa della Terra cerca di ritagliarle frammenti di normalità. Suo padre Svante è un muro gentile ma inflessibile. Prova in ogni modo a regalarle momenti di quotidianità. Ad esempio una mattinata da turista a Torino: la cappella della Sindone, i musei reali, pranzo con un panino e due banane dentro il Teatro Regio, mentre suo padre le mostra i volumi che raccontano la storia della musica lirica. Era a Torino da giovedì sera Greta, arrivata da Madrid a bordo di un' auto elettrica, una Tesla, guidata da papà Svante, ma a tutti era stato detto che sarebbe arrivata soltanto ieri nel primo pomeriggio. Si fa anche questo per tutelare una ragazza da ciò che rischia di opprimerla. L'assedio quotidiano. «Quando sei una persona introversa, preferiresti non essere troppo al centro dell' attenzione», spiega Greta a chi le chiede come si convive con l' idea e la concretezza di essere un simbolo per migliaia di ragazzi in tutto il mondo. «Ma non è un sacrificio. Sono una privilegiata, e sono stata io a mettermi in questa situazione. Dovevo farlo. Dobbiamo farlo tutti: dipende da noi, dobbiamo lottare per il futuro finché i leader non capiranno che è il momento di agire». E così alle tre del pomeriggio, dopo una mattinata da turista, con suo papà - che per un' adolescente sarebbe la norma ma per lei è quasi qualcosa di raro ed eccezionale - Greta Thunberg indossa nuovamente i panni della leader globale: cappellino e tuta grigi, scarpe da ginnastica e l' inconfondibile impermeabile giallo che sembra quasi risucchiarla tanto è più grande di lei. Non fosse per quella cerata sarebbe invisibile, tanto è minuta, tra le due ali di carabinieri che la scortano mentre va incontro alla folla che l' attende. «Siete con me?». Sì, sono con lei. Anche ieri, anche a Torino, ne ha avuto la prova. Ora, però, è tempo di tirare il fiato. «Farò una pausa, c' è bisogno di riposare ogni tanto. Ma non mi fermerò per troppo tempo. Il necessario per ripartire, almeno fino a quando i leader non faranno quel che devono per il nostro pianeta».

Madrid, Cop25: le consultazioni continuano. Ma si va verso il fallimento totale. Non sono bastate le due settimane regolamentari e neppure le 24 ore di tempi supplementari perché si traducessero in azioni concrete delle nazioni le raccomandazioni degli scienziati: troppo distanti le posizioni sui temi cruciali. Luca Fraioli il 14 dicembre 2019 su La Repubblica. Si tratta a oltranza anche se sono sempre meno le speranze che la Cop25 di Madrid segni il punto di svolta sperato nella lotta alla emergenza climatica. Non sono bastate le due settimane regolamentari e neppure le 24 ore di tempi supplementari perché si traducessero in azioni concrete delle nazioni le raccomandazioni degli scienziati. La Conferenza sul clima organizzata dal Cile in terra di Spagna si sarebbe dovuta chiudere venerdì, ma le delegazioni sono rimaste a trattare nei capannoni della Fiera di Madrid tutta la notte e tutta la giornata di oggi. E anche in serata continuano le consultazioni. Ma col passare delle ore, nonostante le rassicurazioni della presidenza cilena, è stato sempre più chiaro che si era in bilico tra il semplice fallimento e il fallimento totale: troppo distanti le posizioni sui tre temi cruciali. Aumentare i tagli alle emissioni di CO2, predisporre meccanismi finanziari per gli aiuti ai paesi più vulnerabili dal punto di vista climatico, mettere ordine nel mercato del carbonio in modo da evitare il double counting (così com'è formulato ora si rischia che sia il paese venditore che quello acquirente conteggino la quantità di emissioni scambiata). Nella migliore delle ipotesi, i delegati si potrebbero lasciare con una fumosa dichiarazione di intenti, dandosi appuntamento per una Cop25 bis da tenere a Bonn nel giugno 2020. Sul banco degli imputati i grandi paesi inquinatori, a cominciare dagli Usa di Trump. Ma anche l'Australia, l'India, la Cina, il Giappone, il Brasile. Nel vuoto pneumatico di leadership, denunciato anche da Greta Thunberg proprio dai microfoni della Cop25, l'Europa ha provato ad assumere la guida, inviando a Madrid il vicepresidente della Commissione Ue con delega al Clima Frans Timmermans. Ma sono risultati vani i suoi tentativi di mediazione tra le grandi economie e i paesi più deboli (quelli africani o le isole oceaniche che rischiano di sparire per effetto dell'innalzamento dei mari). Fiaccata dalla Brexit e con un Green Deal non abbastanza coraggioso, l'Europa ha dimostrato di non avere la forza per condurre il gioco. Un fallimento, se confermato, ancora più clamoroso perché arriva al termine dell'anno in cui più forte si è alzata la voce di chi, a cominciare dai ragazzi di Fridays for Future, azioni immediate per non compromettere irrimediabilmente il futuro delle prossime generazioni. "Sono stato presente ai negoziati sul clima sin dalla loro istituzione nel 1991, ma non ho mai visto come qui a Madrid un totale scollamento tra le richieste degli scienziati e delle persone di tutto il mondo e quello che i negoziatori stanno cercando di ottenere", ha dichiarato Alden Meyer, attivista della Union of Concerned Scientists. E durissima con i vertici della conferenza è stata nelle ultime ore un'altra veterana del Cop, Jennifer Morgan, attuale direttrice esecutiva di Greenpeace International e anche lei alla sua 25esima Conferenza Onu sul clima: "La presidenza cilena ha un compito: proteggere l'integrità dell'accordo di Parigi e non permettere che venga distrutto da cinismo e avidità". Le ha fatto eco Jamie Henn, della ong 350.org: "Una manciata di Paesi rumorosi ha dirottato il processo prendendo in ostaggio il resto del pianeta". E in serata ha fatto sentire la sua voce anche Greta Thunberg, sulla via di Stoccolma dopo il lungo viaggio in barca a vela, treno e auto elettrica che l'ha portata a toccare New York, Lisbona, Madrid e Torino. "Sembra che la Cop25 di Madrid stia fallendo. La scienza ha parlato chiaramente, ma è stata ignorata. Qualunque cosa accada non ci arrenderemo mai, abbiamo appena iniziato". Parlando alla Conferenza aveva chiesto azioni immediate e una iniezione di ottimismo. È stata delusa su entrambi i fronti. Ora resta davvero poco tempo: l'appuntamento cruciale è la Cop26 che si terrà a Glasgow il prossimo novembre per attuare gli Accordi di Parigi e prendere impegni vincolanti per tengano il riscaldamento del pianeta entro 1,5 gradi rispetto all'era preindustriale. Ci si era dati una serie di scadenze (e Cop25 era una di queste) per non arrivare al vertice scozzese con l'acqua alla gola. Ora si rischia di essere sommersi.

Cop25, rinviato il nodo sulle emissioni. Greenpeace: «Esito inaccettabile». Il Dubbio il 15 dicembre 2019. Dopo oltre 36 ore di negoziati, nulla di fatto alla Cop25 di Madrid. I 198 Paesi seduti al tavolo non sono riusciti a raggiungere un compromesso sull’articolo 6 dell’accordo di Parigi, relativo alla regolazione globale del mercato del carbonio. «L’esito della Cop25 è completamente inaccettabile». A scandirlo è Greenpeace che ritiene che «i progressi che ci si auspicava emergessero dalla Cop25 siano stati ancora una volta compromessi dagli interessi delle compagnie dei combustibili fossili e di quelle imprese che vedono in un accordo multilaterale contro l’emergenza climatica una minaccia per i loro margini di profitto. Durante questo meeting – sottolinea l’associazione ecologista – la porta è stata letteralmente chiusa a valori e fatti, mentre la società civile e gli scienziati che chiedevano la lotta all’emergenza climatica venivano addirittura temporaneamente esclusi dalla Cop25». Invece, i politici «si sono scontrati sull’Articolo 6 relativo allo schema del commercio delle quote di carbonio, una minaccia per i diritti dei popoli indigeni nonché un’etichetta di prezzo sulla natura. Ad eccezione dei rappresentanti dei Paesi più vulnerabili, i leader politici non hanno mostrato alcun impegno a ridurre le emissioni, chiaramente non comprendendo la minaccia esistenziale della crisi climatica». «I governi devono ripensare completamente il modo con cui conducono queste trattative, perché l’esito di questa Cop25 è totalmente inaccettabile», ha aggiunto Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International. «La Cop25 -afferma Morgan- era stata annunciata come un appuntamento “tecnico”, ma è poi diventata qualcosa in più di un negoziato. Ha messo in luce il ruolo che gli inquinatori rivestono nelle scelte politiche e la profonda sfiducia dei giovani nei confronti dei governi». «C’era necessità -continua Morgan- di decisioni che rispondessero alle sollecitazioni lanciate dalle nuove generazioni, che avessero la scienza come punto di riferimento, che riconoscessero l’urgenza e dichiarassero l’emergenza climatica. Anche per l’irresponsabile debolezza della presidenza cilena, Paesi come Brasile e Arabia Saudita hanno invece fatto muro, vendendo accordi sul carbonio e travolgendo scienziati e società civile». Greenpeace rimarca che «l’accordo di Parigi potrebbe essere stato vittima di una manciata di potenti “economie del carbonio”, ma questi Stati sono dalla parte sbagliata della lotta e della storia e l’accordo di Parigi è solo un pezzo di questo puzzle». Per Greenpeace, «quello di cui c’è bisogno è un cambiamento sistemico di cui le persone possano fidarsi».

Il fallimento di Cop25, la conferenza sul clima. Il flop del vertice internazionale sul clima, che rimanda ogni decisione al 2020, è figlio della politica fatalista e scettica di Washington e Pechino. Luciano Tirinnanzi il 16 dicembre 2019 su Panorama. Gambia e Marocco. Ecco gli unici due Paesi attualmente in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima (Cop21), sui cui si basavano le discussioni spagnole della conferenza Cop25, andata in scena a Madrid e naufragata in un preoccupante nulla di fatto. Siglato nel dicembre del 2015 da 195 Paesi (praticamente tutto il mondo, tranne Siria e Nicaragua), quello di Parigi è ancora oggi l’orizzonte al quale ci si riferisce quando si menzionano le regole per limitare il cambiamento climatico e il surriscaldamento della terra provocato (anche, ma non solo) dall’uomo, sulla scia dello storico Cop3 di Kyoto del 1997. Per vagliare periodicamente il rispetto dei parametri stabiliti a Parigi e monitorare simili accordi internazionali, ogni anno sotto l’egida dell’ONU si tiene una «conferenza sul cambiamento climatico» che quest’anno a Madrid prometteva di irrobustire le regole alle quali attenersi per limitare l’inquinamento del pianeta, e le modalità per salvare il mondo da un futuro di cataclismi e sconvolgimenti epocali. Invece, il flop colossale della 25esima Conferenza sul clima, dove non è stata presa alcuna significativa decisione in merito, è consistito nell’aver rimandato tutto alla Cop26, che si terrà a Glasgow, Scozia, il prossimo novembre. Come a dire che abbiamo solo perso tempo (quando di tempo, sostengono gli scienziati, non ne resta molto). Del resto, l’ottimismo idealista dei giovani – mai come oggi sensibili al tema ambientale, grazie anche all’esposizione mediatica dell’attivista sedicenne Greta Thunberg, eroina della lotta al cambiamento climatico e ispiratrice di appuntamenti «green» come Fridays ForFuture – non poteva che scontrarsi con la cinica realtà del mondo degli adulti, dove invece gli ideali tramontano quasi automaticamente con l’avanzare dell’età.

Il paradosso di Parigi. L’antifona, o meglio l’illusione di massa del sentirsi quanto mai vicini a un accordo globale per salvare il pianeta, era paradossalmente giunta proprio dalla Conferenza di Parigi: l’accordo storico era sì entrato in vigore il 4 novembre 2016, ma era stato ratificato soltanto da 55 Paesi, ovvero la soglia minima prevista. Dunque, una cifra ben lontana dalla entusiastica partecipazione iniziale di quei 195 Paesi che, in linea di principio, si erano detti entusiasti all’idea di aderire. Già, perché quando chiede agli Stati sovrani di agire subito per non incrementare le emissioni di gas serra, e raggiungere nella seconda metà del secolo una produzione di nuovi gas così bassa da poter essere assorbita naturalmente dal pianeta; quando si chiede ai loro governi di versare 100 miliardi di dollari ogni anno ai Paesi più poveri, per aiutarli a sviluppare fonti di energia meno inquinanti; e ancora, quando si chiede alle loro industrie di produrre su scala globale 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica entro il 2030, invece dei 69 miliardi di tonnellate attuali, ecco che qualcuno - calcoli alla mano - inizia ad avere dei ripensamenti. Gli Stati Uniti, ad esempio, cioè i primi in classifica tra i produttori di emissioni e i primi «big» a uscire dagli accordi stessi, non appena si è insediato Donald Trump alla Casa Bianca. Ma anche la Cina, che nella classifica dei produttori di emissioni li segue a breve distanza, e che non ha esitato a infischiarsene della questione ambientale, non avendo la minima intenzione di rallentare la crescita della sua economia, che è basata proprio sullo sfruttamento immorale e senza regole di ogni risorsa possibile, sia essa umana o ambientale. Entrambi i Paesi, che si erano impegnati a ridurre le emissioni del 28% entro il 2025, sono oggi talmente impegnati a farsi una guerra commerciale senza esclusione di colpi pur di non soccombere all’avversario, da non riuscire a scorgere alcun motivo per attenersi a un accordo sul clima che ne imbriglierebbe troppo le capacità di espansione e performance economiche. Eppure, senza queste due superpotenze nessuno sforzo basterà mai a frenare il cambiamento climatico.

I mercati di carbonio. Così, ecco che a Madrid è saltata inevitabilmente l’intesa più importante: quella sull’articolo 6 dell'Accordo di Parigi che regola i cosiddetti «mercati del carbonio», ovvero i meccanismi che sottendono alla commercializzazione di permessi di emissione di anidride carbonica, pensati per sostenere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 secondo sistemi di compensazione e riduzione delle emissioni. In pratica, viene fissato un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema. Il commento di Greenpeace in proposito, è stato da manuale: «i progressi auspicati [da Cop25, ndr] sono stati compromessi dagli interessi delle compagnie dei combustibili fossili e di quelle imprese che vedono in un accordo multilaterale contro l’emergenza climatica una minaccia per i loro margini di profitto». Neanche Marx avrebbe saputo dirlo meglio. Dunque, ecco i fatti. Come noto, il vero obiettivo degli ambientalisti e degli scienziati è non superare la soglia fatidica dei 2 gradi centigradi sopra la temperatura media terrestre e limitarla a + 1,5, per evitare il punto di non ritorno che entro fine secolo porterebbe la terra a surriscaldarsi oltre i 3 gradi, con conseguenze che gli studi di settore giudicano quasi apocalittici.

Il futuro incerto. Secondo le regole di cui sopra, nel 2020 in Europa le emissioni dei settori disciplinati dal sistema saranno inferiori del 21% rispetto al 2005 e nel 2030 saranno inferiori del 43%. Tuttavia, senza il rispetto degli accordi di Parigi, Stati Uniti e Cina nello stesso periodo (2030) produrranno da soli qualcosa come 5 o 6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in più, causando un aumento delle temperature medie di 0,3 entro la fine del secolo e vanificando di fatto gli sforzi di tutti gli altri Paesi messi insieme. Così, appare chiaro che, finché verrà loro consentito di crescere economicamente o inaugurare vie della Seta in barba a quelle regole base che guardano alla tutela delle future generazioni, non vi sarà alcuna speranza (se mai ve n’è stata una) di invertire il trend. Abbandonarsi all’idea che non si possano convertire le industrie tradizionali per nuove fonti energetiche in tempi utili o che il surriscaldamento non dipenda dall’uomo, non è soltanto una visione fatalista del progresso umano, ma una vera e propria roulette russa sulla pelle di tutti. Eppure, se nonostante la corruzione e i ritardi monumentali sull’opera, persino il MOSE italiano è riuscito a dare segnali di vita per evitare in futuro l’acqua alta a Venezia, e se anche la petro-monarchia dell’Arabia Saudita punta ad affrancarsi dagli idrocarburi scommettendo su un futuro a energia solare, allora anche il mondo può sperare che anche Washington e Pechino vengano un giorno illuminati sulla via di Damasco.

Lo scontro sul clima scuote l’Europa: il blocco di Visegrad contro Bruxelles. Federico Giuliani su it.insideover.com il 14 dicembre 2019. La voce di Greta Thunberg non ha fatto breccia in tutti i cuori d’Europa. Mentre l’Ue è riuscita a raggiungere un accordo sul clima al termine di una discussione lunghissima ed estenuante, fissando al 2050 il raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica dell’Unione, la Polonia ha deciso di defilarsi per continuare sulla propria strada. Varsavia ha alzato un muro insormontabile con gli altri 26 Paesi, che hanno invece sottoscritto l’intesa. Il perché di un comportamento simile arriva dal premier polacco, Mateusz Morawiecki, il quale ha sottolineato che l’obiettivo prefissato dall’Europa è troppo ambizioso e costoso per uno Stato come la Polonia che ancora oggi continua ad affidarsi ai combustibili fossili. Il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, si è detta soddisfatta per il grande sostegno ricevuto dalla quasi totalità dei Paesi membri al suo Green Deal, pur comprendendo la posizione della Polonia. Per evitare l’impasse Bruxelles ha concesso una sorta di proroga al governo polacco, che avrà tempo fino al giugno 2020 per aderire alla strategia che farà dell’Unione Europea “la prima regione al mondo a zero emissioni”. Secondo alcune fonti europee, Morawiecki avrebbe addirittura proposto di ritardare l’obiettivo prefissato dall’Ue al 2070.

Lo scontro sul clima. La Polonia di Jaroslaw Kaczynski ha deciso di anteporre gli interessi economici nazionali a un accordo climatico giudicato da Varsavia più di facciata che non effettivamente utile alla causa. I sovranisti polacchi non sono tuttavia gli unici ad aver accumulato più di una riserva sulla linea green intrapresa da Bruxelles. Anche Repubblica Ceca e Ungheria sono rimasti perplessi di fronte all’idea di inserire un tetto alle emissioni di Co2, ma alla fine sia Praga che Budapest, a differenza di Varsavia, hanno detto sì a denti stretti. Come detto, la Polonia avrà tempo fino a giugno per tornare “sulla retta via” indicata dall’Ue. In questo lasso di tempo il governo polacco analizzerà la proposta di von der Leyen sul Fondo per la transizione, uno strumento che in linea teorica dovrebbe aiutare le regioni europee a mettere in atto la transizione al green nei vari settori industriali. La proposta ufficiale dovrebbe essere recapitata ai polacchi – così come agli altri Paesi – il prossimo 8 gennaio.

Transizione green e nucleare. Alcune stime quantificano in circa 500 miliardi di euro il costo della transizione energetica della Polonia: un’infinità per le casse di un Paese che vuole investire i suoi denari per altre politiche. Certo è che la Polonia ha fin qui opposto resistenza a ogni accordo sul clima discusso in sede europea. Riguardo l’ultimo vertice, il Consiglio europeo ha approvato il nuovo obiettivo climatico, avvisando però che “in questa fase, uno Stato membro non può impegnarsi ad attuare tale obiettivo. Il Consiglio europeo tornerà sulla questione nel giugno 2020”. In mezzo a tutto questo von der Leyen si è spinta a parlare addirittura di “successo”. Eppure è sotto gli occhi di tutti: una parte d’Europa non ha alcuna intenzione di collaborare sul clima alle condizioni imposte dai gretini. Accanto alla transizione green c’è anche la questione nucleare che contribuisce a inasprire le differenti vedute tra il cosiddetto blocco di Visegrad e il resto d’Europa. Già, perché mentre Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia vorrebbero utilizzare I fondi europei per il nucleare come forma di energia eco-sostenibile, Bruxelles la pensa diversamente.

Ambiente, Costa: a Milano in ottobre la prima Cop dei giovani, Greta già invitata. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Sara Gandolfi su Corriere.it. Si svolgeranno in Italia, a Milano, il prossimo anno a ottobre, i lavori preparatori di Cop26 e soprattutto la prima Cop Giovani. Ad annunciarlo in anteprima al Corriere della Sera, è il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, che oggi nella sessione plenaria di Cop25 ribadirà il sostegno italiano alla riduzione delle emissioni «in linea con gli obbiettivi di Parigi».

Visto il protagonismo dei giovani, CopYouth diventerà un evento chiave?

«Ne ho parlato con il sindaco di Milano e con il presidente della Regione Lombardia. Sono entrambi entusiasti, come lo sono io. È la prima volta nella storia delle Cop,su un’intuizione tutta italiana. Giovani di tutto il mondo che si incontrano per due giorni, con una Dichiarazione finale che sarà portata in novembre alla Cop26 di Glasgow e presa in carico dai decisori. L’aspirazione è che diventi poi un appuntamento strutturale».

Greta dice «educhiamo gli adulti». È d’accordo?

«È la prima volta nella storia dell’essere umano in cui i figli educano i genitori. I giovani hanno una marcia in più, sono più liberi, dobbiamo creare le condizioni per ascoltarli. Passare dalla protesta in strada alla proposta».

Quindi Greta è invitata?

«Ma certamente. Come saranno invitati, a carico dell’Italia, i giovani di ogni Paese che compone la Cop, e anche l’inviata di Un Youth, Jayathma Wickramanayake».

La parola chiave a Cop25 è «ambizione». L’Italia appoggerà il preannunciato piano della presidente della Commissione Ue che punta addirittura a tagliare del 55% le emissioni entro il 2030?

«L’Italia ha appoggiato l’elezione di von der Leyen proprio perché l’aveva preannunciato. L’Italia è uno dei 66 Paesi al mondo che ha firmato l’impegno per la decarbonizzazione entro il 2050 e ha depositato nel dicembre dell’anno scorso un Piano energia e clima considerato dall’Unione Europea tra i tre migliori dell’Ue, pur essendo ancora da rivedere su alcuni passaggi. Bruxelles ci ha fatto dei rilievi, li stiamo verificando per poter alzare le ambizioni. In linea con la realistica possibilità poi di applicarlo».

L’Italia chiede però all’Ue che gli investimenti verdi non vengano contati nel debito. Ce la farà?

«Il commissario Gentiloni ha sposato questa idea, non perché italiano ma perché ragionevole. La transizione diventa più veloce e rispetta quello che è stato detto nelle ultime Cop sulla “transizione giusta, che non lascia nessuno dietro”, se puoi investire di più. E per questo serve una deroga al Patto di stabilità».

In Italia il decreto clima diventa legge, ma è sparito l’intervento ai sussidi ambientalmente dannosi (Sad), 19 miliardi di euro...

«Abbiamo pensato che è più ragionevole intervenire in una legge dedicata, che io immagino sia il Collegato ambientale. Con l’intento di trasformare un Sad in un Saf (“sussidio ambientalmente favorevole”): la categoria non ci rimette, il saldo è zero la tutela ambientale è maggiore».

E la plastic tax?

«Il ministero di riferimento è Economia e finanza. Noi diamo una valutazione tecnica. Ad esempio: non ha molto senso colpire ciò che è compostabile, degradabile, riciclabile. Poi la decisione finale non può essere nostra».

Decarbonizzare in Germania significa meno carbone, da noi meno gas e petrolio. Come la risolviamo?

«Nel percorso della neutralità climatica con obbiettivo 2050 — se poi si può anticipare ben venga — vuole dire passare dal sistema del cosiddetto carbon fossile attraverso quello che oggi si prospetta come l’unico sistema di transizione, che è il gas, per arrivare poi all’elettrico e all’idrogeno. Là vogliamo arrivare. Però dobbiamo prima attraversare il guado».

Clima, solo 7 governi ambiziosi. E i Ceo vogliono la «carbon tax». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. A 4 anni dall’accordo di Parigi, che prevedeva una riduzione delle emissioni del 3-5% all’anno, nell’ultimo decennio le emissioni sono aumentate in media dell’1,5% all’anno. Se la tendenza continuerà, arriveremo a un riscaldamento globale tra i 3Ma invece di accelerare l’azione, come richiederebbe la gravità della sfida, i passi avanti sono troppo lenti. Secondo il Rapporto del Wef, finora 67 paesi si sono prefissati l’ambizione di raggiungere l’obiettivo di emissioni nette pari a zero entro il 2050. Di questi Paesi, che rappresentano circa il 15% delle emissioni globali di gas serraAnche le imprese sono grande ritardo. Limitando l’analisi alle quasi 7.000 aziende che hanno comunicato le loro emissioni a CDP, l’organizzazione non profit che monitora le emissioni globali, dal rapporto emerge che solo un terzo fornisce la piena divulgazioneDavanti a questo scenario poco confortante, anche il World Economic Forum ha deciso di scendere in campo usando la sua piattaforma per chiamare all’azione e alzare il livello di ambizione tra le imprese. A cominciare dal l‘appuntmento di fine gennaio tra le alpi svizzere. Tra le iniziative , l’aggiornamento del Manifesto di Davos per il 2020 sullo scopo universale di un’azienda, per far riflettere i Ceo che un’impresa è più di una semplice unità economica che genera profitto. E che la performance deve essere misurata non solo sul ritorno agli azionisti, ma anche su come essa raggiunge gli obiettivi ambientali, sociali e di buon governo.

Cop25, il vertice di Madrid si chiude con il fallimento, niente accordo. Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Sara Gandolfi e Paolo Virtuani. Non è stata raggiunta un’intesa sui mercati di CO2. Gli ambientalisti: «Esito inaccettabile». E’ andata peggio persino delle più pessimistiche previsioni. La venticinquesima conferenza delle parti sul clima (COP25), ovvero il vertice annuale di quasi 200 Paesi, si chiude a Madrid con un giorno e mezzo di ritardo e con un sostanziale pesante fallimento. Neppure i prolungati ed estenuanti negoziati hanno sbloccato l’articolo 6 dell’ Accordo di Parigi, riguardante i mercati della CO2, e alla fine il vertice termina con una dichiarazione al ribasso, un timido appello ai Paesi a fare “sforzi più ambiziosi”. Il minimo indispensabile, molto meno delle attese comunque. I negoziati continueranno l’anno prossimo alla COP26 di Glasgow, quella delle grandi decisioni. Il compromesso non è facile, perché tutti i Paesi invitati hanno diritto di veto (e il Brasile, ad esempio, lo ha esercitato spesso in questi giorni) ma ugualmente il misero risultato ottenuto sotto l’egida delle Nazioni Unite conferma l’enorme distanza fra quello che chiede l’opinione pubblica, soprattutto il movimento giovanile, e quello che si ottiene in questi consessi politici multilaterali. Una “disconnessione” ben sottolineata da tutti i movimenti ambientalisti in questi giorni – dal Wwf a Legambiente – e da Greta Thunberg, l’ispiratrice di FridaysForFuture, che domenica mattina ha twittato: «Sembra che la COP25 stia fallendo proprio ora. La scienza è chiara, ma viene ignorata. Qualunque cosa accada, non ci arrenderemo mai. Abbiamo appena iniziato». E un gruppo di attivisti di Extinction Rebellion sabato ha rovesciato davanti all’ingresso di Ifema una più che simbolica montagna di cacca di cavallo. «Esito completamente inaccettabile», scrive Greenpeace. Sembra quasi che i negoziatori e i ministri, in questi giorni di vertice, abbiano vissuto in una stanza insonorizzati, sordi ai dossier degli scienziati, ai record climatici in negativo (di emissioni di CO2 e di temperature nel 2019) e alle proteste della piazza. Solo 84 Paesi si sono impegnati a presentare piani più restrittivi, riguardo le emissioni di gas serra, entro il 2020. Tra questi, non ci sono Stati Uniti, Cina, India e Russia, che insieme rappresentano il 55% delle emissioni climalteranti. L’Ipcc (l’organo istituito dall’Onu per monitorare il cambiamento climatico) ha chiaramente avvertito che gli sforzi globali devono moltiplicarsi per cinque se si vuole evitare un aumento della temperatura media terrestre superiore a 1,5° rispetto a quella pre-industriale, la soglia oltre la quale gli eventi estremi potrebbero raggiungere il punto di non ritorno. Con i piani attuali, si arriverebbe facilmente ai 3,2° di aumento entro la fine del secolo.

Cosa fai tu per l’ambiente? Le storie dei ragazzi alla Conferenza sul clima di Madrid. Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. La 25esima Conferenza delle parti sul clima (COP25) chiude oggi con pochi e timidi risultati. I negoziati tecnici per risolvere i punti in sospeso dell’Accordo di Parigi ieri erano ancora bloccati e se si arriverà a un compromesso sarà al ribasso. Tranne i «vulnerabili» e l’Ue, nessun Paese ha dato segno di voler innalzare le proprie «ambizioni», soprattutto i superinquinatori. Un gap enorme separa la politica da quello che chiedono i giovani. Greta, ma anche i tanti attivisti ed esperti. A COP25 ne abbiamo sentiti alcuni, pur sapendo che nel 2019 dovrebbe ormai considerarsi superata la fase delle scelte individuali per risolvere questa crisi. Serve un impegno globale, come ha ricordato più volte il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. «Tu cosa fai per il clima nella vita di tutti i giorni?». È questa la domanda che abbiamo posto a giovani e meno giovani. A partire dal ministro italiano dell’Ambiente, Sergio Costa: «A casa mia, con la mia famiglia, faccio le classiche piccole azioni che può fare chiunque. La differenziata più spinta possibile. Quando mi lavo i denti, chiudo l’acqua quando non è necessaria. Spengo le luci ogni volta che lascio una stanza. Mangio molte verdure. E tante altre piccole cose, dal frigo non “sparato” al comprare sfuso. Con massima soddisfazione, da nonno, le mie due nipotine di 5 e 2 anni stanno già facendo la raccolta differenziata».

Greta Thunberg è la «Persona dell'Anno» per «Time». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Sara Gandolfi, Chiara Sandrucci. Thunberg è la più giovane sulla copertina del magazine che dal 1927 ogni dicembre indica il personaggio che ha segnato gli ultimi 12 mesi. Ha battuto il presidente Donald Trump e Nancy Pelosi, la «talpa» che ha messo in moto la procedura per l'impeachment contro il presidente e i manifestanti di Hong Kong. La teenager svedese Greta Thunberg è la «Persona dell'Anno» della rivista «Time». La sedicenne ha conquistato la copertina che dal 1927 ogni dicembre il magazine attribuisce alla persona che, nel bene o nel male, ha segnato l'anno che sta per concludersi. Greta, che oggi ha parlato alla Cop 25 di Madrid, è la più giovane «Persona dell'Anno» di Time.

I candidati. Oltre al Trump, in nomination per il quarto anno di fila, le altre persone nella lista dei candidati per la copertina erano: i dissidenti di Hong Kong, la premier neozelandese Jacinda Ardern, il «whistleblower» che ha avviato l’impeachment al The Donald, il presidente cinese Xi Jinping, l'ex sindaco di New York Rudy Giuliani, Mark Zuckerberg e la capitana della nazionale Usa di calcio femminile Megan Rapinoe.

«Il potere della gioventù». La foto mostra la ragazza in piedi su uno scoglio davanti al mare e con il capelli al vento, con la scritta «il potere della gioventù». La motivazione di questa scelta? «Per aver suonato l'allarme sulla relazione predatrice dell'umanità con l'unica casa che abbiamo» e «per aver mostrato cosa succede quando una nuova generazione prende la guida», spiega il magazine. Greta «è riuscita a trasformare vaghe ansie sul futuro del pianeta in un movimento mondiale che chiede un cambiamento globale». In altre sottocategorie, «Time» ha scelto «i funzionari dello stato» che hanno testimoniato a Capitol Hill nelle audizioni per impeachment di Trump come «Guardiani dell'anno». Bog Iger di Disney è «l'uomo d'affari dell'anno», mentre la squadra di calcio femminile a stelle e strisce è stata scelta come «atleta dell'anno» e la 31enne cantante e attrice Lizzo è la «entertainer dell'anno».

Greta Thunberg è la “persona dell'anno” sul Time. Le Iene l'11 dicembre 2019. L’attivista svedese che si batte contro il cambiamento climatico è stata nominata dal Time “Person of the Year”: la personalità che ha segnato il 2019. Noi de Le Iene ci siamo occupati a più riprese del tema della salvaguardia del nostro pianeta. È la più giovane “Persona dell’Anno” mai apparsa sulla copertina del Time. Quest’anno il settimanale americano, che dal 1927 sceglie la persona che ha maggiormente segnato gli ultimi 12 mesi, ha scelto l’attivista Greta Thunberg. La sedicenne svedese, che si batte per l’ambiente e ha coinvolto i giovani di tutto il mondo nella lotta contro il cambiamento climatico, è passata avanti a Donald Trump, Nancy Pelosi (che ha messo in moto la procedura per l’impeachment contro il presidente Usa), i manifestanti di Hong Kong e gli altri candidati alla copertina “Person of the Year”. Greta Thunberg è diventata in poco tempo il simbolo delle lotte dei giovani contro la crisi climatica e il riscaldamento globale. Ha iniziato la sua protesta nell’estate 2018, ogni venerdì. Di fronte al parlamento svedese chiedeva misure più efficaci contro i cambiamenti climatici. Dopo il suo discorso al vertice sul clima delle Nazioni Unite in Polonia e al forum di Davos, è diventata un esempio in diversi Paesi. Fridays for Future è diventato un movimento internazionale, a cui aderiscono studenti (e adulti) da tutto il mondo. Qui sotto potete vedere il discorso di Greta al summit sul clima all’Onu nel video realizzato da Marco Gianstefani. Lo avevamo pubblicato in occasione della manifestazione Fridays for Future del 27 settembre 2019, a cui hanno partecipato un milione di studenti in tutta Italia e che noi de Le Iene abbiamo seguito nell’articolo che potete leggere qui. "Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia”, dice Greta all’Onu. “Ci state deludendo, ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Il mondo si sta svegliando e il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no".

Clima, Greta a Madrid attacca ancora: «Come  fate a non avere panico?» Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Sara Gandolfi, Chiara Sandrucci. Molto più pacata e determinata, senza lacrime e grida, o frasi ad effetto «per non rubare la scena alla scienza», Greta Thunberg è tornata mercoledì mattina 11 dicembre a strigliare i grandi del mondo da un palcoscenico istituzionale, la seduta plenaria della Conferenza sul clima che riunisce in questi giorni a Madrid (Cop25) i delegati di 196 Paesi. Con un messaggio sempre più chiaro, visto i milioni di giovani che questa fragile diciassette ha dimostrato di poter mobilitare: «Ogni grande cambiamento della storia è venuto dal popolo». In questo caso, per ora, un popolo di ragazzini. «Tra sole tre settimane entreremo in un nuovo decennio, un decennio che definirà il nostro futuro. C’è speranza, l’ho vista, ma non viene dai governi e dalle corporazioni, viene dal popolo», così è iniziata la sua arringa. Poi ha snocciolato i dati scientifici dell’emergenza – «come fate a non provare panico? Come fate a non provare rabbia?» - e il suo ennesimo durissimo atto di accusa: «I nostri leader si stanno comportando come se non ci trovassimo in una situazione di emergenza». Paladina della giustizia sociale e dei «vulnerabili», contro i privilegiati «che girano lo sguardo dall’altra parte»: «Cento imprese sono responsabili per il 71% delle emissioni globali, i Paesi del G20 di circa l’80% – ha detto, leggendo un foglio con gli appunti - il 10% della popolazione più ricca produce la metà delle emissioni di CO2 mentre il 50% più povero appena un decimo». E infine: «Non è stato fatto quasi nulla, a parte contabilità intelligente e marketing creativo». Finora, qui alla Cop25, solo un altro divo è riuscito – per qualche ora – a rubare la scena alla «piccola» venuta dal Grande Nord. Ovvero, l’attore Harrison Ford che alla tenera età di 77 anni vesti i panni dell’Indiana Jones del clima. Lunedì è apparso accanto al miliardario Bloomberg, candidato alla nomination democratica, per ribadire che c’è un’altra America, oltre a Donald Trump. Un’America che ha «coraggio» e per dare il suo appoggio ai popoli indigeni («hanno diritto a sedersi al tavolo dei negoziati») e dei giovani («dobbiamo lasciare a loro il comando»). Fuori dallo stand dell’Altra America, dove ha parlato, fotografi, scienziati e delegati sgomitavano per riuscire a rubare una foto con lui. Han Solo, invecchiato ma sempre fascinoso, ora ingaggiato in una nuova guerra perfino più difficile di quella stellare.

Arnold Schwarzenegger, attivista verde: «Ora ho Trump nel mirino». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it. Ce la farà tutta la potenza di Arnold Terminator Schwarzenegger a far cambiare idea a Donald Trump sulla necessità di contrastare i cambiamenti climatici? «Missione impossibile», verrebbe da dire per restare nel cinema. Ma chissà che nella realtà non possa andare diversamente. Arnold Schwarzenegger, ecologista da sempre che le sue convinzioni ha messo in pratica alla guida della California come governatore green tra il 2003 e il 2011, racconta in un’intervista sul nuovo numero di 7 (in edicola venerdì 13 dicembre e su Pdf nella Digital Edition del Corriere fino a giovedì 19) che d’ora in avanti sarà questa la sua nuova sfida: salvare la Terra e combattere Trump. In copertina il magazine del Corriere domani in edicola racconta però un’altra sfida. Quella di Marina Cavazzana e di Mauro Ferrari. Non sono nomi noti al grande pubblico,eppure rappresentano due esempi preziosi per le nuove generazioni. E non solo in un orizzonte italiano, visto che lei vive in Francia da 30 anni e lui è tornato di recente in Italia dopo aver passato due terzi della sua vita negli Stati Uniti. Marina Cavazzana, in breve — tutto il resto lo racconta lei nell’intervista a Stefano Montefiori, corrispondente a Parigi del Corriere — è una delle pioniere delle terapie genetiche e sta guidando un team che ha l’obiettivo di cancellare l’Aids dalla nostra vita: «I primi risultati clinici si avranno tra un anno e mezzo. Ci sono altri gruppi nel mondo che stanno cercando di ottenere lo stesso risultato con altre tecniche. Vedremo chi arriverà prima». Una rincorsa emozionante. Non l’unica: «Sto cercando di formare nuove generazioni di medici perché la terapia genetica possa essere offerta al maggior numero di pazienti possibili». Non si sente più italiana o francese, «mi sento europea». Nata a Venezia nel 1959, figlia di un ferroviere e di una maestra, si è laureata in pediatria all’Università di Padova e, nel 2012, è stata nominata scienziata dell’anno in Francia. L’altro personaggio che la segue sulle pagine di 7 ha fatto 40 maratone negli ultimi dieci anni ed è il sassofonista della Rhythm & Blues Band, 18 musicisti uniti da quarant’anni di musica e amicizia. Ma se Mauro Ferrari è sulle pagine di 7 è soprattutto perché è uno dei più importanti studiosi delle nanotecnologie applicate alla cura dei tumori. Questo male ha ucciso la sua prima moglie quando lui aveva 35 anni e la coppia tre figli ancora piccoli. Due lauree tra Italia e Usa, da gennaio sarà alla guida del Consiglio europeo della ricerca, che gestisce un budget di diversi miliardi da investire nella ricerca scientifica. Ancora un personaggio fuori del comune, nella sezione rossa: è Edoardo Albinati, scrittore, vincitore del premio Strega 2016 con La scuola cattolica che però, prima di tutto, si sente un prof di lettere: «È il mio lavoro fisso». Lo svolge in carcere, a Rebibbia, dal 1994. In classe ci sono i 18enni e gli anziani, «che hanno commesso delitti, rubato o fatto violenza... Poi ci potrebbe anche essere qualche innocente... Chi ha alle spalle una vita come la loro, forse capisce l’Inferno di Dante meglio di un liceale 15enne». Infine, nella sezione tempo libero, 7propone un viaggio in Giordania, Paese di deserti, montagne e scenari mozzafiato più volte frequentati dal cinema: da Lawrence d’Arabia a Guerre stellari.

Cinquemila in piazza Castello per Greta: "Torino puoi farcela a battere lo smog". L'ambientalista svedese: "Voglio ringraziare chi è riuscito a portare in piazza tutta questa gente". Camilla Cupelli e Mariachiara Giacosa il 13 dicembre 2019 su La Repubblica. Greta Thunberg a Torino: "Felice di essere qui, Torino è una città stupenda". Nel bel mezzo della prima nevicata dell'anno e durante l'ennesimo sciopero dei mezzi pubblici, Greta Thunberg è arrivata in piazza a Torino poco prima delle 13 per il cinquantesimo Friday for future di Torino. Era giunta a Torino ieri sera e ha dormito in un hotel di via Nizza. Stamattina ha visitato la città. Era arrivata da Madrid - dov'era per la Cop25 - in auto elettrica, accompagnata dal padre e dal suo staff, compresi alcuni documentaristi che seguono la giovane attivista svedese in giro per il mondo. Torino è una "città stupenda, sono molto felice di essere qui, anche se non ho avuto molto tempo per visitarla", ha detto appena raggiunto il presidio di Fridays For Future, in piazza Castello, tra numerosi giornalisti e fotografi presenti. "La foto per il Time? È stato un gran divertimento! Fortunatamente il fotografo era di grande talento...", ha detto Greta sul palco commentando la la copertina del magazine che l'ha consacrata "persona dell'anno". "Ciao a tutti, grazie per essere qui, felice di essere qui - ha detto nel suo breve discorso sul palco davanti a cinquemila persone, moltissimi studenti, ma anche tanti adulti e pure anziani - sono orgogliosa di essere qui, grazie per essere venuti. Sono molto colpita dagli organizzatori che hanno messo su tutto in breve tempo. Ricordo qualche mese fa quando ho visto le immagini delle manifestazioni a Torino con un numero incredibile di persone e voglio ringraziarli". "Non c'è un alternativa dobbiamo continuare a lottare - dice Greta - Non possiamo più dare per scontato il domani, noi giovani vivremo quel domani. In meno di tre settimane entreremo in una nuova decade, che deciderà il nostro futuro. Cosa faremo o non faremo cambierà il futuro. I nostri figli e nipoti vivranno in quel futuro. Dobbiamo assicurarci che il 2020 sia l'anno dell'azione". Alla fine ha chiesto: "Are you with me?". E tutti, urlando, le hanno risposto: "Yes". L'intervento di Greta si è chiuso con un minuto di silenzio per tutte le vittime dei cambiamenti climatici. Infine, sulle note di "Bella ciao", i manifestanti hanno intonato una canzone in inglese in difesa dell'ambiente. Greta Thunberg ha poi lasciato il centro a bordo di una Tesla elettrica di colore blu, guidata dal padre. La giovane è stata accompagnata all'auto da una delegazione dei giovani di Fridays For Future, che le hanno fatto da scorta in mezzo a due ali imponenti di forze dell'ordine. Prima di partire, ha salutato i presenti. Il suo viaggio continuerà verso Milano, quindi direttamente verso la Germania per rientrare a casa, a Stoccolma. "Andrò verso casa, con qualche tappa lungo il percorso. - ha spiegato la ragazzina - Farò un po' di vacanza, perché non puoi andare avanti senza riposare. Ma non mi servirà molto tempo per essere di nuovo pronta e riposata". "Servono politiche ambientali nazionali più ambiziose e coraggiose, ma anche impegni concreti ed efficaci a livello europeo per evitare che questa Cop25 di Madrid si traduca nell'ennesimo inutile vertice", chiede Legambiente a poche ore dalla conclusione del vertice sul clima. A sostenere Greta in piazza anche tanti giovani dell'associazione ambientalista con slogan associativo #changeclimatechange, perché il clima non può più aspettare, serve l'impegno di tutti, dalla politica alle istituzioni locali ai singoli cittadini. "Ha ragione Greta quando dice che le istituzioni fingono di agire, perché non hanno capito che siamo di fronte a un'emergenza, quella climatica, che va affrontata con coraggio e serietà. Un'emergenza i cui effetti sono già visibili da tempo a differenza di quanto affermano i negazionisti. Per questo - dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - quello che chiediamo alla politica è di non essere più miope e di guardare in faccia la realtà". Questa mattina sul balcone d'onore di Palazzo Civico è stato affisso uno striscione per dare il benvenuto alla giovane attivista della lotta ai cambiamenti climatici. Sullo striscione, sfondo verde e con un mondo libero dall'inquinamento, la scritta "Welcome to Turin, Greta". "Oggi è una giornata importante per Torino - ha scritto la sindaca Chiara Appendino condividendo sui social l'immagine dello striscione - la presenza di Greta Thunberg sarà una ulteriore occasione per ribadire la centralità che l'emergenza climatica deve avere nel dibattito pubblico e politico". "Mi auguro - aggiunge - di vedere in piazza tutti i rappresentanti delle Istituzioni locali, come segno simbolico forte dell'unità in questa battaglia".

Greta Thunberg a Torino: “Inchiodiamo i leader alle loro responsabilità”. Le Iene il 13 dicembre 2019. La giovane attivista svedese ha partecipato al Fridays for future a Torino: “Non possiamo arrenderci, il meeting sul clima a Madrid non ha avuto alcun risultato”, ha detto appena arrivata in piazza Castello. Noi de Le Iene abbiamo seguito dall’inizio le manifestazioni per clima in tutta Italia. “Non dobbiamo permettere ai leader del mondo di fuggire dalle loro responsabilità”. Ha aperto così il suo discorso in piazza Castello a Torino Greta Thunberg, icona delle manifestazioni per il clima. La giovane attivista è arrivata in città per partecipare alla manifestazione del Fridays for future: migliaia di persone hanno invaso il centro del capoluogo piemontese per ascoltarla.  “Non possiamo permetterci di arrenderci, dobbiamo continuare a lottare. Non è giusto che le vecchie generazioni scarichino le responsabilità della crisi climatica su noi giovani. Si comportano come se non ci fosse un domani, ma invece c’è: ci vivremo noi, e dobbiamo lottare per quello come se la nostra vita dipendesse da questo. Perché è così”. Le parole di Greta poi volgono al futuro immediato, che sarà cruciale per determinare il futuro nel pianeta: “In meno di tre settimane entreremo in un nuovo decennio, e sarà cruciale per definire il nostro futuro. Dobbiamo fare sì che il 2020 sia l’anno in cui le emissioni di carboni finalmente calino. Siamo noi a poter far accadere questi cambiamenti. Dobbiamo spingere chi ha il potere a prendersi le proprie responsabilità”. La giovane attivista svedese è stata l’ideatrice degli scioperi del clima e le sue proteste davanti al parlamento di Stoccolma hanno portato in pochi mesi al fenomeno planetario dei Fridays for future. Pochi giorni fa Greta è stata nominata “persona dell’anno” dal Time, come vi abbiamo raccontato nell’articolo che potete leggere cliccando qui. Greta è arrivata a Torino a bordo di un’auto elettrica: inizialmente avrebbe dovuto viaggiare in treno dalla Spagna, ma uno sciopero in Francia l’ha costretta a cambiare piani. L’attivista simbolo delle lotte per clima ha voluto incontrare i ragazzi che nelle scorse settimane hanno tenuto vivo il movimento dei Fridays for future fino a organizzare la grande manifestazione del 27 settembre. Greta Thunberg non ha avuto incontri istituzionali. La sindaca Chiara Appendino era comunque in piazza ad ascoltare l’attivista svedese: “Siamo molto onorati di ospitarla”, ha detto la sindaca prima dell’evento. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato gli scioperi del clima in tutta Italia fin dall’inizio: lo scorso settembre più di un milione di ragazzi ha affollato le piazze in tantissime città. Anche il ministro dell’Istruzione aveva invitato i presidi a giustificare le assenze degli studenti da scuola per permettere loro di essere al Fridays for future. Eppure il governo, mentre spingeva i giovani a protestare per il clima, continuava a sovvenzionare le aziende che inquinano. La situazione nel nostro Paese infatti è tutto tranne che rosea, soprattutto per quanto riguarda i soldi pubblici che elargiamo alle imprese che in qualche modo hanno un impatto su clima: in totale sono infatti 161 gli aiuti fiscali che hanno un effetto sull’ambiente, per un valore di 41 miliardi di euro. Di questi solo 15,2 miliardi vanno a favore di attività “green”, mentre 19,3 sono destinati a sussidi dannosi. I restanti 6,6 sono invece considerati di impatto “incerto”. Noi insomma scegliamo di aiutare chi inquina: speriamo che la voce di Greta spinga chi di dovere, finalmente, a intervenire.  

Greta a Torino: «Felice  di essere qui, il 2020  sarà l’anno dell’azione». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Torino è una «città stupenda, sono molto felice di essere qui, anche se non ho avuto molto tempo per visitarla». Così l’attivista svedese Greta Thunberg, arrivata al presidio di Fridays For Future, in piazza Castello a Torino dove è stata riconosciuta e fermata da tantissimi passanti prima di arrivare al raduno. Cappellino grigio, tuta, scarpe da ginnastica e l’inconfondibile impermeabile giallo, Greta, 16 anni, personaggio dell’anno secondo il Time, ha incontrato la sindaca Chiara Appendino al Teatro Regio, dove è giunta a bordo di un’auto elettrica. Massicce le forze di polizia impiegate per l’evento, con gli agenti e personale Digos che presidiano la piazza. «In tre settimane — ha spiegato — entreremo nel nuovo anno che definirà il nostro futuro. Sarà fondamentale e dovremo farci i conti per il resto della vita, anche per i nostri bambini. Il 2020 deve essere il nostro year of action (anno per agire, ndr) e dobbiamo assicurarci di raggiungere gli obiettivi stando insieme, noi siamo la speranza». L’attivista svedese ha poi parlato della Cop25 e di come i leader mondiali «stanno cercando di non adempiere al loro compito». «Dobbiamo assicurarci - ha continuato - che i politici proteggano il nostro futuro. Ieri molti attivisti sono stati buttati fuori dalla Cop25 e oggi manifestiamo in loro solidarietà. Non importa il risultato della Cop25 ma non dobbiamo mollare. Non è giusto che le vecchie generazioni rimettano le loro responsabilità a noi giovani». Dopo il suo breve comizio, Greta ha raccontato che ora per lei è arrivato il tempo di riposare. «Dopo Torino andrò verso casa, con qualche tappa lungo il percorso. Farò un po’ di vacanza — ha aggiunto — perché non puoi andare avanti senza riposare. Ma non mi servirà molto tempo per essere di nuovo pronta e riposata». Poi, prima di andare via, ha commentato anche la copertina del Time. «È stato un gran divertimento! Fortunatamente il fotografo era di grande talento...».

(ANSA il 12 dicembre 2019) - Donald Trump attacca Greta Thunberg, nominata da Time la persona dell'anno. Commentando un tweet di congratulazioni all'attivista svedese, Trump afferma: "E' ridicolo. Greta dovrebbe lavorare sul suo problema di controllo della rabbia e poi andare a vedere un buon film con un amico! Calma Greta, calma!". La giovane attivista svedese Greta Thunberg ha prontamente reagito all'attacco di Donald Trump, definendosi sul profilo Twitter una "teenager che lavora sul problema della gestione della sua rabbia. Attualmente sto uscendo per andare a vedere un vecchio buon film con un amico".

Trump fa il bullo: «Greta? Ridicola, impari a calmarsi». Alessandro Fioroni il 13 Dicembre2019 su Il Dubbio. Il tycoon attacca la giovane ambientalista. Intanto al Congresso si va avanti con l’iter per l’impeachment lette le accuse al presidente: «non merita di ricoprire la sua carica, è un pericolo per gli Usa». Nel giorno in cui la richiesta di impeachment approda alla Commissione giustizia della Camera, il presidente Donald Trump si esibisce in un surreale teatrino mediatico attaccando a testa bassa Greta Thumberg, la 16enne attivista svedese appena nominata dal Time “persona dell’anno”. «Greta è ridicola ed è ridicolo che sia stata nominata persoa dell’anno, deve lavorare al suo problema della rabbia e calmarsi, magari andando al cinema con un amica!», ha ringhiato Trump in un tweet. L’inquilino della Casa Bianca non ha mai nascosto il suo fastidio quasi epidermico nei confronti della giovane ambientalista che più volte lo ha accusato di ignorare l’emergenza del riscaldamento globale, di aver fatto uscire gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima e di contribuire con le sue politiche prive di vincoli ambientali al disastro ecologico imminente. Dal canto suo l’amministrazione Trump ha sempre minimizzato gli allarmi sul global warming, anche quando a lanciarli sono stati i più importanti scienziati e metereologi del pianeta. Un duello carico di significati simbolici quello tra il 73enne leader del prima potenza mondiale e una ragazzina che in pochi mesi è diventata l’icona di un movimento globale, animato in gran parte da giovani sotto i vent’anni. Un duello che la stessa Greta ha accettato con garbo, prima aggiornando ironicamente la sua biografia su Twitter definendosi «un’adolescente che deve imparare a gestire la rabbia», poi rispondendo direttamente del tycoon: «Il presidente ha ragione e lo voglio ringraziare, infatti sto per andare al cinema con un amico». Oggi Greta è attesa in Italia, scenderà in piazza a Torino per le manifestazioni del Fridays for Future, mentre Trump ha problemi ben più spinosi da affrontare che un i litigi digitali con una 16enne. Alla Commissione giustizia della Camera sono state infatti lette le nove pagine dell’atto di accusa al presidente che si snodano in due risoluzioni distinte: una sull’abuso di potere, l’altra sull’ostruzione alle attività del Congresso. Incriminazioni pesantissime, che delineano una violazione della separazione dei poteri e che l’opposizione democratica vorrebbe far concretizzare nello stato di impeachment: «Il presidente ha dimostrato che rimarrà una minaccia alla Costituzione se gli verrà permesso di rimanere in carica, ed ha agito in modo nettamente incompatibile con l’auto governo e lo stato di diritto», si legge nel documento. Che poi conclude : «Trump deve essere sottoposto ad impeachment, al processo deve essere rimosso dall’incarico e considerato non qualificato per qualsiasi altro incarico di onore, fiducia e profitto sotto l’autorità degli Stati Uniti». La Camera ha poi bocciato la richiesta di respingere le risoluzioni da parte dei deputati repubblicani, ma in fondo era scontato considerando che i dem hanno la maggioranza ( 233 seggi su 435, come sarà scontato che le due risoluzione verranno votate. Discorso diverso per il Senato, dove i rapporti di forza sono ribaltati, con il Gop a fare la parte del leone; solamente un clamoroso colpo di scena, o un operazione di killeraggio politico interno potrebbero infatti portare alla destituzione effettiva del presidente. Che ancora ieri liquidava la sua messa in accusa come «la richiesta di impeachment più stupida della storia americana».

La lezione di Greta. E quella di Trump. Greta Thunberg e Donald Trump. Mario Furlan su Il Giornale il 16 dicembre 2019. C’è chi storce il naso perché il noto settimanale americano Time ha proclamato Greta Thunberg “persona dell’anno”: ma come, un simile onore a una ragazzina? Come diavolo fa a stare sulla copertina che ha celebrato giganti come Winston Churchill e Papa Francesco, Gandhi e Nelson Mandela, Roland Reagan e Donald Trump?

Si dà il caso che questa ragazzina sia riuscita a mobilitare milioni di giovani nel mondo ben più di centinaia di illustrissimi scienziati che ormai da decenni lanciano allarmi sul futuro del pianeta. Strano? No, logico. Perché noi umani siamo molto, molto più emotivi che razionali. Un algido scienziato che con voce distaccata sciorina freddi dati sui cambiamenti climatici lascia del tutto indifferenti. Mentre una sedicenne autistica con la faccia un po’ inquietante che grida “La nostra casa è in fiamme!” emoziona e spinge all’azione. Muove le masse. Ma non i capi di Stato. Infatti la Conferenza sul clima di Madrid è stata un fallimento. Perché? Perché qui entra in gioco una seconda legge del comportamento umano. Noi bipedi siamo, in gran parte, miopi. Non vogliamo rinunciare a qualcosa oggi in vista di un bene maggiore domani. Preferiamo l’uovo oggi alla gallina domani. I politici, si sa, spesso non vedono oltre le prossime elezioni. Sono in campagna elettorale permanente. Puntano al consenso immediato. Donald Trump, principale artefice del fallimento della Conferenza, è tutto concentrato sulla sua rielezione nel 2020. Imporre restrizioni all’inquinamento gli costerebbe voti: non gli conviene. E se tra dieci o vent’anni la situazione climatica mondiale, quindi anche americana, sarà fuori controllo? Chissenefrega, pensa. Tra dieci anni non sarò più presidente. E tra vent’anni non sarò, probabilmente, più al mondo. Che ci pensino i miei successori! Spesso anche noi siamo così nella nostra vita personale. Ragioniamo a corto termine. Ma mentre Trump ha il suo tornaconto personale, noi dovremo pagare lo scotto della nostra miopia. Morale: per raggiungere i tuoi obiettivi nel 2020 fai come Greta: usa le emozioni, non ti fermare alla sola razionalità. E non fare come i politici: non essere miope, guarda lontano! Felice anno nuovo, e che tu possa realizzare i tuoi sogni più belli!

Greta Thunberg, la clamorosa inchiesta del geopolitico americano: "Investimenti milionari, chi la sfrutta". Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Proprio alla vigilia del vertice di Madrid - quello che ha portato al fallimento degli ecologisti - sul sito canadese Global Research è stata postata un'inchiesta di William Engdhal, 75 anni, analista geopolitico americano e autore di best seller sulle guerre del petrolio, il quale, citando nomi e fatti precisi, sostiene una tesi clamorosa. A riportare la lunga analisi è Italiaoggi che parla della grande finanza mondiale. Quest'ultima, alleata per l'occasione con l'Onu e l'Unione europea, si starebbe servendo di Greta Thunberg come icona mediatica per creare allarmismo sul riscaldamento climatico provocato dall'uomo (una fake news, sostiene Engdhal), e innescare di conseguenza il business più redditizio dei prossimi decenni, il cosiddetto Green new deal, la rivoluzione dell'economia verde. Non si parla di pochi quattrini, bensì di investimenti di oltre 100 trilioni di dollari, da raccogliere con massicce emissioni di obbligazioni speculative. Fondi - sempre secondo Italiaoggi - da riversare, mediante il credito, sulle nuove imprese climatiche, anche a prescindere dal loro effettivo valore e know-how. Nel mirino di Engdhal due gli uomini chiave: il banchiere inglese Mark Carney, capo della Banca d'Inghilterra, e l'ex vicepresidente Usa, nonché vice di Bill Clinton, Al Gore. Insomma, altro che buonismo disinteressato. 

Da quotidiano.net il 16 dicembre 2019. Greta Thunberg fa ritorno a casa, ma il treno tedesco è pieno e lei twitta la sua foto seduta per terra tra le valigie, con scritto: "Viaggio su un treno sovraffollato attraverso la Germania e finalmente torno a casa". E fin qui tutto bene, la 16enne ambientalista ieri ha preso le ferrovie e non l'aereo per limitare l'impatto del suo viaggio sull'inquinamento ambientale, perno della sua battaglia. E come molti giovani non si è formalizzata non trovando posto, e si è seduta a terra, l'importante in fondo è rientrare nella natia Svezia dopo oltre quattro mesi di viaggio per terra e per mare. Ma il tweet non è andato a genio alle Deutsche Bahn, la società ferroviaria tedesca che cura la tratta da Francoforte ad Amburgo, che ha riconosciuto il pavimento del suo vagone nella foto di Greta. Ne è nato un battibecco tra l'adolescente capace di scuotere l'Onu, e la società tedesca, che oggi ha replicato sempre su Twitter: "Cara Greta, grazie per il tuo sostegno agli impiegati delle ferrovie nella nostra lotta contro il cambiamento climatico. Siamo contenti che sabato hai viaggiato con noi sul treno ICE 174" ad alta velocità. Poi aggiungendo la stoccata: "Sarebbe stato più gentile se avessi anche citato il modo amichevole e competente in cui sei stata trattata dal nostro personale in prima classe". La Thunberg, che in fatto di risposte sui social non si fa pregare (la scorsa settimana era stata criticata da Donald Trump, e lei aveva ribattuto prontamente al presidente americano), ha commentato il seccato tweet delle ferrovie tedesche spiegando che il suo treno da Basilea era stato annullato, e che aveva dovuto sedersi a terra su due treni, prima di trovare un posto in prima classe a partire da Goettingen, e assicurando: "Questo naturalmente non è un problema e non ho mai detto che lo fosse". Infine Greta ha chiuso la polemica aggiungendo che "i treni sovraffollati sono un ottimo segno perché significa che la richiesta di viaggi in treno è alta!". La Deutsche Bahn da parte sua non ha smentito il racconto della giovane e il fatto che non abbia trovato posto prima di Francoforte, metà strada del tragitto per andare da Basilea ad Amburgo.

Greta fa la snob sui treni: ma i tedeschi scoprono il bluff. Scintille su Twitter fra Greta Thunberg e la tedesca Deutsche Bahn. E l'attivista è costretta a fare marcia indietro. Lorenzo Vita, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale. È proprio un periodaccio per la piccola Greta Thunberg, che dopo aver preso la batosta nel Regno Unito, essere stata rimbrottata da Donald Trump e aver visto fallire il summit sul clima di Madrid, adesso si becca anche un rimprovero mondiale da parte delle ferrovie tedesche. L'attivista svedese, che continua a ribadire (giustamente) che viaggiare su ferrovia inquina molto meno che viaggiare in auto, ha infatti deciso di pubblicare sul suo profilo Twitter una bella foto di lei seduta in mezzo a una carrozza sovraffollata. "Viaggiare su treni sovraffollati attraverso la Germania. E finalmente sto tornando a casa!" recitava Greta nel suo annuncio social. Peccato che a Deutsche Bahn la cosa non sia andata proprio a genio. Perché è vero che in fin dei conti è simpatico avere Greta tra i passeggeri (tutta pubblicità), ma è anche vero che spacciarsi come una viaggiatrice qualsiasi in una carrozza senza spazio per sedersi non è che sia il massimo. Specialmente se il trattamento riservato nei confronti dell'ambientalista dalle bionde trecce non è stato proprio quello di una qualsiasi pendolare costretta a doversi sedere sul pavimento per mancanza di spazio. Anzi. La storia è ben diversa e quella foto dell'ecologista disperata in realtà si trasforma in un boomerang. L'ennesimo per un personaggio che sarà anche persona dell'anno del Time, ma di certo non brilla per essere cristallina. Ed ecco, quindi, la risposta delle ferrovie tedesche. Prima gentile e quasi contenta: "Cara Greta, grazie per il tuo supporto a noi ferrovieri nella lotta contro i cambiamenti climatici. Siamo felici che sabato tu abbia viaggiato con noi sull'Ice 174". Ma il tweet assume, dopo poche righe, un tono ben diverso: "Sarebbe stato più bello se avessi menzionato anche il modo cordiale e competente in cui sei stata trattata dallo staff al tuo posto in prima classe". Ma come? La ragazza che ha cuore il mondo viaggiava in prima classe? E perché allora la foto così triste seduta in mezzo alle borse? Semplicemente perché la piccola Greta - forse con uno staff troppo abituato ai viaggi sui catamarani reali - ha pensato bene di prenotare il biglietto ma non il posto a sedere. E si è trovata senza posto a sedere ... ma solo nell'immediato. Tanto è vero che dopo la piccata risposta di Deutsche Bahn, è arrivato anche il tweet della retromarcia della signorina Thunberg: "Il nostro treno da Basilea è stato rimosso dalla circolazione. Così ci siamo seduti sul pavimento di due treni diversi. Dopo Goettingen mi sono seduta". E infatti, da Francoforte in poi, lei e i suoi compagni di viaggio si sono seduti in prima classe. Insomma, va bene lottare per il clima, ma bisogna farlo anche in business class, magari con tartine e una bevanda fresca. Del resto ama le piante, gli animali, Fratello Sole e Sorella Luna. Ma non è mica francescana.

Per zittire le sardine basta un treno regionale. Cristiano Puglisi il 26 novembre 2019 su Il Giornale. Viadotti crollati, frane. In Italia, in questi giorni, si susseguono momenti drammatici. Eppure l’attenzione mediatica sembra concentrata prevalentemente sulle “sardine”. Il movimento anti-salviniano, sedicente spontaneo, nato in Emilia Romagna (guarda caso) il cui leader è tal Mattia Santoni, che parrebbe essere collaboratore di una rivista legata a Romano Prodi, si pone l’obiettivo di arginare la crescita delle destre in vista del voto regionale di gennaio. Fanno tanto rumore, le sardine. Eppure per zittirle basterebbe poco, pochissimo. Per la precisione un treno regionale. Che c’entrano i treni, vi starete chiedendo. C’entrano per il fatto che la banale retorica anti-leghista di questi gruppi, come sempre preponderante sui media, sempre pronti a incensarli come palingenetico antidoto al ritorno di un fascismo immaginario, si infrange magicamente quando viene a contatto con la dura realtà. Che è, tra le altre situazioni, quella dell’insicurezza diffusa, reale e percepita, a partire proprio dall’Emilia Romagna. Insicurezza che il sottoscritto, di ritorno da un convegno, ha potuto sperimentare sulla propria pelle quando, pochi giorni fa, ha acquistato, per rientrare dalla ridente Forlì verso Milano, un biglietto ferroviario per Bologna, da dove sarebbe partito il treno Frecciarossa per il capoluogo lombardo. L’orario di partenza era fissato alle 21.27. Ebbene, quel viaggio di appena un’oretta (ma basterebbe un tragitto molto più breve, sul serio) sarebbe probabilmente capace di tramutare uno di quei paciosi esponenti delle stesse “sardine”, tutti brufoli, occhiali e capelli arruffati e fintamente ribelli, in un glaciale militante di Forza Nuova. Quell’esperienza tra “risorse” (e non) ubriache e volti poco rassicuranti e altrettanto poco autoctoni e donne e lavoratrici dall’espressione tirata e preoccupata aiuta subito a comprendere come un tragitto di quel tipo sarebbe precluso a una ragazza sola, magari una studentessa universitaria di ritorno da un banale aperitivo con gli amici. Peccato che, a garantire quei convogli, siano proprio le tasse pagate dai genitori di quelle ragazze o da quegli operai che, finita una dura e lunga giornata di lavoro su turni, si servono di quegli stessi treni per tornare dalle proprie famiglie. La foga dell’accoglienza senza prospettive genera disperazione, insicurezza, violenza. Quella violenza di cui, senza andare troppo per il sottile, gli italiani, soprattutto quelli già alle prese con altre preoccupazioni come l’arrivare a fine mese (sì, sono proprio quelli che prendono i treni regionali…), di certo non hanno bisogno. Ecco perché, nonostante le sardine, continueranno a votare Salvini. E la Meloni. Ed ecco perché, quei bravi ragazzi che organizzano cortei di protesta, ma che poi la sera tornano a casa con l’auto comprata dal papi, continueranno a non capire…

Luca Monaco per ''la Repubblica - Cronaca di Roma'' il 30 novembre 2019. Meno numerosi del solito, ma più motivati. Orfani delle sardine, che hanno aderito alla manifestazione solo sui social, ridotti nei numeri per via della decisione del ministero dell' Istruzione di non giustificare l' assenza agli studenti, i Fridays for future rilanciano alzando il tiro. « Sanzionano » le vetrine della banca in piazza Barberini («Uccide il pianeta » ). Dalla pancia del corteo ambientalista indetto in occasione del Black friday, si levano slogan d' attacco: « Se non cambierà/ lotta dura sarà » , scandiscono i 20mila studenti che ieri hanno attraversato le strade del centro da piazza della Repubblica a piazza del Popolo. Se la fondatrice del movimento, Greta Thunberg, ha disertato il quarto sciopero globale per il clima, una delle attiviste simbolo della protesta romana, 10 anni appena, è al suo posto. Coccolata dai manifestanti stringe tra le mani un cartello diverso dal solito: «Stop climate bullyng » . Da quando, nel marzo scorso, ha deciso di esporsi in prima persona per « chiedere ai potenti di difendere il pianeta», la bimba è stata presa di mira da una compagna di classe. A tal punto dover decidere di cambiare scuola. Ieri la bimba, iscritta alla quinta elementare di un istituto della provincia, ha trovato il coraggio di raccontarlo. «Da quando ho partecipato al primo sciopero globale una compagna di classe ha iniziato a insultarmi, a minacciarmi, a prendermi in giro - dice - mi bullizzava tutti i giorni. Sono andata dalla maestra, ma non mi ha creduta. Mi ha detto che non era vero niente e che io ero una bugiarda. Adesso voglio cambiare scuola, ma non lascerò questo movimento » . La folla l'abbraccia con un applauso lunghissimo. Sciolta la tensione, finalmente la piccola sorride. Anche se inizia a piovere. L'acqua bagna i ragazzi sdraiati in piazza del Popolo a manifestazione conclusa. Il cielo minacciava pioggia fin dal mattino. Quando quel corteo si è mosso verso largo di Santa Susanna, teatro del primo blitz dimostrativo «contro la ratifica del patto commerciale tra la Ue e i Paesi del Mercosur, che distruggerà la foresta amazzonica». Simbolicamente, 10 ragazzi si macchiano di vernice rossa le tute bianche. Elia, 13 anni, iscritto al Socrate, annuisce: «Bisogna essere radicali, non basta dire " Salviamo il mondo". Bisogna dire, come stiamo facendo, che " il capitalismo mangia il mondo" » . Elia e i suoi compagni del liceo della Garbatella sono gli unici a godere dell' assenza «giustificata dal preside». Gli altri no. Scioperano. Come Manfred Bergman e gli altri 60 professori riuniti dietro lo striscione "Teacher Lazio for future" in coda al corteo. « Occorre insegnare in maniera nuova - ragiona - Omero e Dante erano naturalisti, l' avevano già capito». In via Sistina i 400 del Virgilio scandiscono « camerata basco nero » . Allontanano due ragazzi che provocano il corteo facendo il saluto romano. L' appuntamento è ora alla manifestazione delle sardine, il 14 dicembre in piazza San Giovanni.

Paolo Di Paolo per ''la Repubblica - Cronaca di Roma'' il 30 novembre 2019. Venerdì verde? Venerdì nero? È difficile cogliere la sfumatura esatta, definire il colore preciso dello strano, imprevedibile venerdì di fine novembre appena alle spalle. Sospeso fra preoccupazione per il futuro del pianeta, nuove forme di protesta politica e acquisto esagitato, compulsivo. La piazza romana dove si erano date appuntamento le più adulte sardine con i giovanissimi protagonisti dei Fridays for Future è parsa meno affollata, almeno rispetto agli impegnativi pronostici. Colpa del ministero che non avalla, che non "giustifica" lo sciopero studentesco? Il di Paolo Di Paolo segue dalla prima di cronaca Colpa del ministero che non avalla, che non "giustifica" lo sciopero studentesco? Colpa del tempaccio autunnale? O dell'imminente ulteriore manifestazione del 14 dicembre, per cui vale la pena risparmiare energie? Certo, dopo i raduni trionfali a cui siamo stati abituati dal popolo di Greta quella di ieri poteva sembrare una battuta d' arresto. Non lo è, ma ha forse reso più visibili le contraddizioni del paesaggio della militanza. Quella del Black Friday, per esempio, vivacissima: ho incrociato drappelli di forzati delle compere pre-natalizie anche su un trenino regionale partito da Velletri e diretto a Roma, ragazzi e ragazze nemmeno troppo su di giri. Anzi: sufficientemente lucidi per concludere che l' assalto non sarebbe stato facilissimo, che gli ostacoli per accaparrarsi merce a buon mercato sarebbero stati consistenti. Alzare le spalle con moralismo non serve a granché; e d' altra parte a fare il controcanto ai cacciatori di saldo qualcuno c' era: la squadra del Block Friday, più che scettica sulla festa dei consumi. Così, in una sola giornata - e a diverse latitudini - abbiamo visto aggrovigliarsi fili differenti della contemporaneità. Il filo teso dagli adolescenti che richiamano gli adulti alle loro responsabilità, passate e presenti, rispetto al futuro. Il filo della generazione disincantata per eccellenza (o che tale sembra) - le Sardine che cantano e canteranno "Bella ciao" come inno di resistenza al peggio, al discorso dell' odio, e che provano, rifiutando i cappelli di partito, a rilanciare un discorso "da sinistra", largo, trasversale. Le sentinelle degli eccessi del consumismo, che rammentano ai negozi in muratura così come a quelli immateriali le implicazioni spesso davvero nere dei venerdì di saldi. E poi la folla di chi è tentato dallo sconto, dalla corsa all' acquisto vantaggioso. La marea umana che clicca in fretta, nottetempo, su Amazon, o si alza di mattina presto per attendere davanti alla porta d' ingresso del negozio dei (piccoli o grandi) sogni. La marea umana che siamo noi, che siamo tutti: ambientalisti precoci o tardivi, sardine o altro genere di abitanti del mare che chiamiamo mondo, apocalittici, integrati e ex apocalittici che spesso si svegliano fin troppo integrati. Nel novero ampio dei protagonisti del venerdì nero-verde siamo rappresentati più o meno tutti, quasi nessuno escluso. Perché è come vedere mescolarsi ambizioni nobili e più materiali, entrambe tutto sommato legittime; vedere confondersi sogni di futuro e sogni più a portata di mano e di presente; grandi ideali e necessità piuttosto pratiche; l' astratto e il contingente; l' ansia per il domani e quella, spesso anche più invadente, del giorno per giorno. Basta un semplice venerdì per inchiodarci alle contraddizioni della vita umana sul pianeta Terra? A quanto pare sì. Il problema? Non basta svegliarsi in un sabato scolorito per trovare una chiave buona per risolverle.

Pierluigi Battista per il ''Corriere della Sera'' l'1 dicembre 2019. Ma che errore, e che paradosso nostalgico tra chi, giovanissimo, non ha l'età per avere nostalgia dei dogmatismi del passato, contrapporre il Block Friday ambientalista al Black Friday consumista. Come se ambiente pulito fosse sinonimo di pauperismo, ma chi l' ha detto? Ed equilibrio ecologico significasse etica della rinuncia, mortificazione, decrescita infelice, molto infelice. Perché la demonizzazione del consumismo appartiene a una storia triste, e denuncia una forma di disprezzo per chi fatica e lavora duro per entrare in una dimensione di benessere, di agiatezza, di superamento di una condizione in cui ad essere soddisfatti sono soltanto, e nemmeno sempre, i bisogni primari. A cavallo tra la fine degli Anni Cinquanta e l' inizio dei Sessanta l' Italia è passata dalla fame, dalla distruzione bellica e dall' arretratezza a una società di massa dove erano permessi per la maggior parte delle persone consumi inimmaginabili persino nelle sfere più benestanti e privilegiate della piramide sociale. In un pugno di anni la guerra contro la povertà si trasformò in deplorazione del consumismo. Ma lo deploravano quelli che già stavano bene. Chi si era liberato dalla dittatura del bisogno e ora poteva comprare gli oggetti del desiderio astutamente esposti nelle vetrine nemmeno le ascoltava, e giustamente, le geremiadi contro il consumismo. Quando crollò il muro di Berlino, la prima cosa che fecero i tedeschi dell' Est prigionieri della miseria di Stato fu l' assalto dei negozi che vendevano prodotti non di prima necessità. Gli intellettuali sussiegosi storsero il naso, ma i per i tedeschi dell' Est fu una festa. Il consumo non esaurisce la nozione di libertà, ma non esiste società libera che non presupponga la libertà di consumare, di comprare, di gettarsi in quella che Marx definiva «la fantasmagoria delle merci». La storia dello sviluppo della società del benessere è costellata di errori, e anche di crimini. Le ciminiere venivano esibite orgogliosamente come simboli di progresso, senza pensare ai fumi velenosi che eruttavano. Foreste e risorse naturali sono state depredate senza pietà e pudore per soddisfare le esigenze della produzione industriale. Leggerezza, ignoranza e cinismo hanno fatto a a gara per sacrificare sull' altare dello sviluppo bellezze della natura che si pensavano infinite e inesauribili. La sensibilità ambientale, a parte esigue minoranze, era scarsissima: si fumava ovunque, anche negli ospedali, si insediavano quartieri a un passo dagli altiforni delle acciaierie, ignorandone la potenza mortifera si faceva uso di materiali venefici come l' eternit, si è dato spazio ad allevamenti intensivi in cui alla crudeltà nei confronti degli animali si sommava l' utilizzazione di prodotti destinati a devastare campi, terreni, falde acquifere. Negarlo sarebbe da sciocchi, e infatti adesso sono proprio i settori più avanzati della ricerca scientifica, dell' industria, dell' agricoltura a coniugare la crescita dei prodotti con la pulizia dell' ambiente. Ma è sciocco e semplicistico anche negare che il progresso ha portato salute, pulizia, prosperità, benessere sociale, opportunità per un numero sempre crescente di persone. Gli storici delle «Annales» hanno già sfatato il mito nostalgico e puerilmente bucolico delle città preindustriali pulite e sane: no, erano sporche, anzi fetide persino attorno ai palazzi nobiliari, le strade ridotte a cloache, senza servizi igienici, con una promiscuità deleteria tra animali ed esseri umani, puzzolenti in una misura spesso intollerabile. Non si stava meglio quando si stava peggio; si stava peggio, e basta. Il consumismo tanto biasimato ha dato a un numero incalcolabile di persone case confortevoli, vestiti di qualità, possibilità di una maggiore cura del corpo, strumenti per viaggiare, conoscere nuovi mondi, stabilire nuove relazioni sociali e sentimentali, ufficiali o clandestine, strumenti per informarsi, divertirsi, rendere più piacevole la vita, per avere più diversità di cibo, per togliersi soddisfazione, per arginare giornate uggiose e depresse con la forza rigenerante dello shopping. Che c' è da deplorare? Dovremmo fare più attenzione, certo: basti pensare che un tempo la plastica era considerata una meraviglia del progresso e su «Carosello» la si celebrava con il «e mo', e mo', e mo', Moplen» di Gino Bramieri. Ma dobbiamo augurarci che l' industria e l' agricoltura e la scienza arrivino al più presto per garantire prodotti sempre più puliti. Non auspicare, invece, la povertà, la decrescita infelice, l' immobilismo, il ristagno, la tristezza sociale. Una politica intelligente e lungimirante deve costringere la grande distribuzione a rispettare la dignità del lavoro e le tutele sindacali per chi lavora nei giorni festivi, non auspicare la chiusura dei grandi magazzini e dei supermercati la domenica per punire i consumatori troppo dediti al rito pagano del consumismo. Viva il Block Friday e la libertà di manifestare, ma giù le mani dal Black Friday e dalla libertà di consumare. È così difficile?

 Alessandro Zoppo per ''il Giornale'' l'1 dicembre 2019. Se si pensa al conduttore di un programma televisivo a tema auto, il primo nome che viene in mente è quello di Jeremy Clarkson. Il presentatore storico di Top Gear, che con Richard Hammond e James May ha dato vita a una delle trasmissioni più seguite al mondo, è deluso dalla disaffezione che il pubblico giovane mostra per questo tipo di show. Il motivo? L’overflow di allarmismo climatico. “Tutti quelli sotto i 25 anni che conosco – spiega Clarkson in un’intervista concessa al tabloid The Sun – non hanno il minimo interesse nelle automobili. Greta Thunberg ha ucciso i programmi sulle auto. Glielo insegnano a scuola, prima di dire ‘Mamma e papà’, che le macchine sono cattive, e questa cosa si infila nelle loro teste”. Hammond, alla guida di The Grand Tour e uno dei volti più noti dell’interno panorama mondiale del car show, concorda con Clarkson. “Odio ammetterlo – dice al Sun –, ma penso che Jeremy abbia ragione. Ai giovani non frega più niente delle auto. Quanti di loro stanno crescendo con i poster di qualche bella macchina appeso in camera da letto?”. Il climate change è entrato di prepotenza nei loro programmi: Amazon Prime Video farà debuttare il 13 dicembre 2019 una trasmissione speciale intitolata The Grand Tour Presents: Seamen, che vedrà Clarkson, Hammond e May alle prese con un viaggio di 500 miglia dalla Cambogia al Vietnam tra battelli, biciclette e risciò. I tre hanno vissuto gli effetti del cambiamento climatico sulla propria pelle: hanno trovato il delta del Mekong quasi asciutto nonostante fosse la stagione delle piogge. “Per la prima volta – ammette Clarkson – abbiamo dovuto accettare a forza il riscaldamento globale, e non siamo stupidi: senza dubbio esiste, si può cambiare idea nella vita. Solo uno stupido non cambia idea di fronte a prove incontrovertibili come quelle che ci siamo trovati davanti”. Il punto, secondo il conduttore, è che ormai l’allarme “climatico” è sfuggito di mano. “La domanda da porsi è – si chiede –: che cosa possiamo fare? È una discussione sicuramente più interessante di quello che sta accadendo adesso. Greta è un’idiota. Andare in giro per il mondo a dire che moriremo tutti non risolverà un bel niente. Occorre invece parlare con gli scienziati”. In una recente intervista, a tal proposito, il fisico e accademico Franco Prodi ha bollato il movimento di Greta Thunberg come una “bufala mondiale” e ha definito l’allarmismo basato sulla Co2 come “non scientifico”.

Greta Thunberg "la facciamo studiare a scuola". Eco-dittatura: dove si è superato il limite. Libero Quotidiano l'1 Dicembre 2019. In Svezia le teorie di Greta Thunberg si guadagnano un posto speciale a scuola. Nello specifico, in un corso digitale di religione e filosofia per le classi dalla settima alla nona per indottrinare i futuri discepoli del pensiero ecologista. A riportare la notizia è il quotidiano svedese Samhällsnytt, che racconta come alla 16enne svedese è stato dedicato un intero capitolo dal titolo: «Il Clima». La bomba culturale sul clima scatenata dalla Thunberg, si spiega nell' introduzione al corso, ha ispirato e incoraggiato tantissimi alunni da ogni parte del mondo a non presentarsi a scuola per marciare in favore di una lotta per l' ambiente più serrata da parte dei governi dei rispettivi Paesi. Greta, insomma, è una sorta di «sveglia» che «ci permette di discutere, di parlare e di riflettere su quello che sta succedendo nel nostro mondo». Gli studenti, tra gli altri compiti, saranno addestrati a confutare ogni sorta di critica nei confronti dei dettami di Greta, realizzando anche delle caricature per prendere in giro i suoi detrattori. In uno degli esercizi previsti dal corso, agli studenti sarà chiesto di illustrare con un' immagine o un disegno la frase «Non si scherza così facilmente con Greta». L'editore del manuale di studio, la casa Liber, una delle più grandi del settore in Svezia, si è detta molto soddisfatta dell' iniziativa. Il clima, in Svezia, è totalmente favorevole alla Thunberg. Recentemente, l' arcivescovo di Svezia, Antje Jackelén, ha paragonato Greta ad un profeta, arrivando persino a definirla «il successore di Gesù Cristo».

Il fisico Franco Prodi: “Greta Thunberg è una bufala mondiale”. L’Arno/Il Giornale il 28 novembre 2019. Fratello dell’ex presidente del Consiglio, il professor Franco Prodi è un fisico e accademico che ha dedicato tutta la vita agli studi della meteorologia e della fisica dell’atmosfera, prendendo parte a numerose commissioni di studio nazionali e internazionali. Fino al 2008 ha diretto l’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr. Intervenuto ad una trasmissione radiofonica in onda su Punto Radio, trasmessa in diretta dall’Aula 40 del Cnr di Pisa, il professor Prodi ha detto, senza mezzi termini, che il movimento ambientalista lanciato dalla giovane svedese Greta Thunberg “è una bufala mondiale”. Così ha spiegato la propria affermazione: “Bisogna stare attenti alla tutela dell’ambiente planetario. Il fatto di lanciare questo allarmismo basato sulla Co2 è non scientifico. Farebbero bene a studiare i giovani, a studiare di più, a studiare il ciclo cliamtico che è complesso. L’umanità sta andando dietro ai dettami dell’Ipcc (Intergovernmental Panel On Climate Change) e non è la strada della scienza. Quella del contatto fra i governi mondiali, le Nazioni Unite e diversi scienziati convocati per questo scopo”. Prodi nega “che si possa dire con sicurezza scientifica, che la responsabilità dell’uomo (nei cambiamenti climatici, ndr) sia del 95%. Questa affermazione non ha un fondamento scientifico. Il problema è proprio questo. Non è possibile con la conoscenza attuale del sistema clima quantificare quant’è l’effetto antropico. Intanto sfatiamo l’idea che siamo solo due partiti, negazionisti e catastrofisti. C’è un partito della scienza vera che dice, attenzione, non siamo come nella meteorologia dove abbiamo le cinque stazioni, qui siamo in un sistema fisico molto complesso, che non è ancora conosciuto completamente”. Nel dibattito durante la trasmissione il professor Antonello Provenzale (Istituto di Geoscienze e Georisorse del Cnr di Pisa) ha confutato le tesi di Prodi: “Quando si dice che il cambiamento climatico è in atto, che c’è sempre stato certamente ma che in questo momento è particolarmente accelerato e una buona parte è dovuta ad emissione di C02 da parte umana, si parla di dati, misurati su tutto il pianeta, dati scientifici. Dopo di che quando facciamo previsioni usiamo dei modelli, qui si che entrano in gioco delle delicatezze, delle difficoltà di rappresentare dei fenomeni, per questo si fanno degli scenari e su questo è vero c’è molto da migliorare. Non si deve fare confusione, i dati ci sono, i modelli sono un’altra cosa”. Anche Renato Colucci, ricercatore del Cnr e docente di glacologia (la scienza che studia i ghiacciai) ha contestato le tesi di Prodi: “Cosa sta succedendo è cominciato diverso tempo fa, ora se ne cominciano a veder i risultati più eclatanti. Ad esempio la riduzione parossistica dei ghiacciai alpini, metri e metri di ghiaccio antico ogni estate, evidenze inoppugnabili. Basta confrontare le foto anche di solo cinque anni fa per vedere la riduzione. Il rischio è di avere tra alcuni decenni una catena alpina con ghiacciai che saranno solo un ricordo, resteranno poche tracce sul Monte Bianco o sul Monte Rosa e poco più.”

Ascolta l’intervento del professor Prodi su Punto Radio-Cascina Notizie

Una foto di 120 anni fa scatena l'ironia del web: «E se Greta Thunberg viaggiasse nel tempo?» Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. Notate nulla di strano in questa foto d’epoca? Impossibile non accorgersene: la ragazza con le trecce sulla sinistra è la copia esatta di Greta Thunberg. Una somiglianza effettivamente impressionante, ma che dovrebbe suscitare niente più che un rapido sorriso. Invece ha aperto un nuovo argomento di discussione tra i cospirazionisti del web. In Rete, infatti, sono già in molti a dirsi certi - in maniera più o meno seria - che quella raffigurata in bianco e nero non sia semplicemente un’antica sosia dell’attivista svedese, bensì lei stessa, in carne e ossa. Che oggi sarebbe dunque tornata sulla Terra per metterci in guardia contro un’imminente apocalisse climatica. L’immagine è stata scovata nelle ultime ore negli archivi della libreria dell'Università di Washington. Intitolata «Three children operating rocker at a gold mine on Dominion Creek» («Tre bambini manovrano un bilanciere in una miniera d’oro a Dominion Creek»), è stata scattata nel 1898 nel territorio dello Yukon - parte dell’attuale Canada - dal fotografo Eric Hegg. «Ha visto cosa ci aspetta ed è stata spedita qui per avvertirci», «Ha viaggiato nel tempo per salvarci», «È davvero lei, dopo 120 anni è tornata»: questo il tenore dei commenti postati sui social dagli utenti convinti della natura messianica della giovane Greta.

Diranno sul serio? Come prevedibile, la «bislaccheria» di queste teorie ha rapidamente innescato il fenomeno opposto. Ha spinto cioè decine di utenti a dileggiare i complottisti, veri o presunti. Greta si trova attualmente in viaggio sull'oceano Atlantico a bordo di una barca a vela di proprietà di due velisti-influencer. È infatti attesa a Madrid a inizio dicembre per partecipare alla prossima conferenza sul clima organizzata dall'Onu e, come noto, non prende l'aereo per ragioni ambientali.

Greta Thunberg a Piazza San Marco "gode" per l'alluvione: spunta un'immagine clamorosa. Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Greta Thunberg a Piazza San Marco con le braccia incrociate come per dire: "Ve l'avevo detto". La sua foto, ovviamente taroccata, sta facendo il giro del web. Mostra la vispa svedese, simbolo mondiale dell'impegno ecologista, nella piazza inondata di Venezia. Ha l'impermeabile giallo, lo stesso con cui è ritratta sulla copertina del suo libro. Con lo sguardo severo, come sempre, la giovane paladina dell'ambiente ammonisce: ecco cosa succede a ignorare gli effetti dei cambiamenti climatici per cui lei si batte. Il fotomontaggio di Greta Thunberg creato da Luca Fancellu e pubblicato su Twitter e stato retwittato da Spinoza, che l'ha ricondiviso anche sulla pagina Facebook, ed è diventato virale. Greta ora si trova sul catamarano Le Vagabonde della coppia di influcencer australiani che stanno girando il mondo con il loro bambino di 11 mesi. I due velisti, idoli di YouTube, hanno deciso di dare un passaggio dagli Usa all'Europa a Greta, che deve partecipare a Madrid al summit sul clima. All'andata in Usa Greta era andata con la barca a vela di Pierre Casiraghi (poverina), al ritorno fa l'upgrade: un confortevole catamarano Outremer. 

Vittorio Feltri, la letterina a Greta Thunberg e gretini: "Ambientalisti da strapazzo, prendetene atto". Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. Ormai gli ambientalisti spopolano. La moda ecologista dilaga in ogni strato sociale e non c' è verso di arginarla. Rassegniamoci a subirne le conseguenze devastanti. Ma ci sia almeno consentito di opporre al catastrofismo imperante alcune considerazioni basate sulla osservazione della realtà. Il surriscaldamento del pianeta è una boiata pazzesca, nel senso che i mutamenti climatici sono sempre avvenuti, in modo altalenante, provocando talvolta disastri, mai però esiziali. Almeno finora. Eppure un grado in più o in meno di temperatura non ha sostanzialmente influito sulla esistenza degli umani. Sorvoliamo su questi dettagli ininfluenti. Esaminiamo piuttosto ciò che è successo negli ultimi 50/60 anni. La mortalità infantile, fenomeno un tempo tragico, si è praticamente ridotta a zero. Mio padre, ad esempio, ebbe cinque fratelli, tra cui due gemelli, che tirarono le cuoia precocemente. Mia moglie ebbe pure due sorelle, entrambe decedute in fasce. All' epoca era così, un orrore che colpiva quasi tutte le famiglie del Nord e del Sud. La medicina era impotente di fronte a certe malattie. Oggi non crepa più nessuno nella culla, tranne rare eccezioni. Non solo. L' età media era molto bassa, si andava all' altro mondo intorno ai 50 anni e chi arrivava ai 70 era considerato un matusalemme. Oggigiorno ad oltrepassare le 80 primavere giunge una moltitudine, maschi o femmine che siano. Il benessere è diffuso a qualsiasi livello. Ogni abitazione ora dispone di un bagno attrezzato quando una volta non esisteva che un cesso privo di vasca e di bidet, il frigorifero era un oggetto misterioso, i nuclei familiari più abbienti godevano di una ghiacciaia funzionante soltanto d' estate allorché si poteva acquistare il ghiaccio dagli ambulanti. Le automobili le possedevano i ricchi, una minoranza sparuta, qualche privilegiato aveva la Vespa o la Lambretta. Ce lo vogliamo dire che si campava male? La carne si mangiava al massimo la domenica, ci si lavava poco e le case erano piccole, troppo piccole per parentadi numerosi. Tuttavia adesso ci si lamenta di più, ci lagniamo per l' inquinamento immaginario, visto che nella città giudicata più sporca, Milano, le aspettative di vita sono le più lunghe d' Italia. Scrivo queste verità affinché gli ecologisti da strapazzo ne prendano atto e la smettano di ammorbarci con discorsi e recriminazioni improntati a bugie. Si dà infine il caso che il nostro Paese, nonostante sia infestato dallo smog, come dicono insensatamente gli amici e gli ammiratori di Greta, in Europa sia al vertice della longevità. Vuol dire che l' aria mefitica fa bene alla salute. E che l' aumento della temperatura ci fa stare coi piedi caldi, quindi ci giova.

Greta Thunberg, schiaffo alla miseria giorno due: "Come ho dormito bene". Sul catamarano. Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. "Giorno due. Oggi il tempo è migliore. Ho dormito bene. Bellissimo essere tornata nell'oceano". Se la spassa Greta Thunberg a bordo di Le Vagabonde, il catamarano di una coppia australiana di surfisti con un bambino di 11 mesi. La svedese posta una foto sorridente su Twitter. I due hanno dato un passaggio all'ambientalista svedese per permetterle di raggiungere in tempo l'Europa per andare a Madrid alla riunione del clima". Dopo un viaggio di oltre 5mila km arriverà in Portogallo, tra almeno due settimane. "Voglio ringraziare tutte le persone che ho incontrato in Nord America per la loro incredibile ospitalità", ha twittato la giovane svedese. Era stata proprio lei l'1 novembre a lanciare un appello sui social chiedendo un "passaggio"per l'Europa su una barca in modo da evitare l'aereo, escluso per ragioni di impatto ambientale. I catamarani, come molti sanno, sono barche a vela con doppio scafo, dunque più lussuose e spaziose. Dunque Greta sarà più comoda rispetto al passato. Gli accompagnatori della svedesina, Riley ed Elayna, sono la coppia di Le Vagabonde, molto attivi sul Youtube e sui social: fanno da anni il giro del mondo con il catamarano e 11 mesi fa hanno anche avuto un bambino, Lennon. Dunque anche la copertura mediatica è garantita. Il prezzo di un catamarano del genere, marca Outremer, può arrivare fino a 800mila euro. La Thunberg non lascia nulla al caso.

Giacomo Talignani per repubblica.it il 14 Novembre 2019. Greta Thunberg salperà, meteo permettendo. Nonostante un novembre sconsigliatissimo per la traversata atlantica e nonostante una corsa contro il tempo decisamente complicata, la giovane attivista svedese da poche ore avrebbe trovato una barca di una coppia di privati disposta ad accompagnarla dagli Stati Uniti alla Spagna in tempo per partecipare al Cop25 sul clima che si terrà a Madrid. Un po' come fu all'andata, quando Pierre Casiraghi accompagnò nel viaggio d'andata dall'Europa all'America la giovane attivista, dovrebbero volerci circa due settimane di navigazione per rientrare: in realtà però le difficilissime condizioni meteo restano un enorme incognita sull'intera traversata. Greta, all'offerta del passaggio su una barca a vela, avrebbe già detto sì ma ora tutto dipenderà dalle condizioni che si preannunciano davvero avverse. Per ora è soltanto atteso, come spesso fa via social, un messaggio della svedese che indicherà come affronterà il suo viaggio di ritorno. La questione del viaggio di ritorno in Europa, per la giovane paladina della lotta al riscaldamento globale, sta diventando un affare di coerenza: non intende volare per continuare a portare il messaggio di non contribuire alle emissioni, ma vuole comunque arrivare in tempo al Cop25 di Madrid, dove si decideranno dal 2 al 13 dicembre le sorti del Pianeta in termini di strategie anti global warming. Ecco perché da giorni, soprattutto sui media stranieri, decine di giornalisti continuano a chiedersi: come farà Greta a raggiungere la prossima conferenza mondiale sul clima dopo che è stata improvvisamente spostata dal Cile a Madrid a causa delle rivolte interne cilene? E' stata la stessa adolescente svedese, con un post su Facebook, a chiedere aiuto: "Ora ho bisogno di trovare un modo di attraversare l'Atlantico a novembre... Se qualcuno può aiutarmi a trovare un mezzo di trasporto gli sarò molto grata" scriveva il 1 novembre dispiaciuta per quanto stava accadendo in Sudamerica e mandando il suo sostegno "al popolo del Cile". Nella sua stessa situazione, decisi a partecipare al Cop25, incontro che prevede la presenza di tutti i leader mondiali riuniti per trovare una soluzione alla crisi climatica e per cercare di tenere la barra dritta sugli accordi di Parigi, ci sono oggi decine di altri attivisti "rimasti a piedi". Diversi ragazzi infatti avevano partecipato a spedizioni marittime, come "Sail to Cop", barca a vela partita da Europa e poi Africa con lo scopo di raggiungere il summit ad emissioni zero, e sono oggi senza soluzioni per tornare in tempo in Spagna il 2 dicembre evitando di volare. Dopo l'annuncio di Greta alla ricerca di un passaggio in tantissimi si sono subito fatti avanti. Escluso un suo ritorno con la Malizia II, la barca a vela di Casiraghi che ad agosto aveva portato la sedicenne e il padre Svante dalla Gran Bretagna a New York, e ora impegnata in altre regate, fra i primi ad intercettarla via social offrendo una soluzione è stata perfino la compagnia aerea Eurowings, sussidiaria di Lufthansa, che ha proposto a Greta l'idea di tornare in aereo offrendo una compensazioni delle emissioni investendo in progetti green. Pare che la sedicenne, dopo aver saputo della proposta, abbia declinato l'invito: la sua missione, per coerenza e per messaggio nei confronti di tutti i giovani di FridaysForFuture e non solo, continua ad essere quella di voler raggiungere l'Europa senza volare. A questo punto, nonostante il silenzio di Greta atto a non far parlare di sé ma della crisi climatica, i giornali inglesi e spagnoli si sono sbizzarriti nell'ipotizzare soluzioni, da navi cargo in partenza dagli States sino alla possibilità che intervenga in video. Poco dopo però, a tendere la mano a Greta, è stato proprio il governo spagnolo. L'organizzazione del Cop25 in un solo mese, ovvero da quando è stato deciso di spostarlo a causa delle rivolte cilene, è davvero una corsa contro il tempo: c'è tantissimo da fare, ma gli spagnoli vogliono a tutti i costi che Greta sia presente. Teresa Ribera, ministro della Transizione ecologica della Spagna, ha infatti contattato via social l'attivista offrendole subito aiuto. Il summit avrà un costo di circa 60 milioni di euro, e si ipotizza possa avere un impatto su Madrid di 100 milioni, portando nella capitale iberica circa 25 mila persone: con Greta, sostiene la Spagna, l'attenzione sul vertice sarà ancora più alta.  "Se non dovesse riuscire ad esserci, le garantiremo un intervento in videoconferenza", ha fatto comunque sapere Ribera. Al momento, non è chiaro se il governo spagnolo abbia contribuito al sostegno del viaggio di ritorno che Greta, su offerta di una coppia di privati stranieri che hanno una imbarcazione in un porto americano, avrebbe valutato positivamente per il suo rientro in Europa. 

Greta Thunberg, capito la svedesina? Schiaffo alla miseria, come andrà in Europa. Alessandra Menzani su Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Greta Thunberg piangeva perché non sapeva come raggiungere Madrid dall'America, lei che non prende aerei per rispettare l'ambiente. Adesso ha trovato la soluzione, ossia il mezzo per attraversare l'Atlantico. Un lussuoso catamarano. All'andata ci era andata in barca a vela, al ritorno la svedesina ha l'upgrade. Greta Thunberg lascerà gli Usa insieme al padre Svante e viaggerà su un catamarano con una giovane coppia di australiani che vivono con il figlioletto di 11 mesi. L'imbarcazione, una esclusivissima Outremer, è lunga 14 metri ed è partita da Hampton, sulla costa orientale americana. Dopo un viaggio di oltre 5mila km arriverà in Portogallo, tra almeno due settimane. "Voglio ringraziare tutte le persone che ho incontrato in Nord America per la loro incredibile ospitalità", ha twittato la giovane svedese. Era stata proprio lei l'1 novembre a lanciare un appello sui social chiedendo un "passaggio" per l'Europa su una barca in modo da evitare l'aereo, escluso per ragioni di impatto ambientale. I catamarani, come molti sanno, sono barche a vela con doppio scafo, dunque più lussuose e spaziose. Dunque Greta sarà più comoda rispetto al passato. Gli accompagnatori della svedesina, Riley ed Elayna, sono la coppia di Le Vagabonde, molto attivi sul Youtube e sui social: fanno da anni il giro del mondo con il catamarano e 11 mesi fa hanno anche avuto un bambino, Lennon. Dunque anche la copertura mediatica è garantita. Il prezzo di un catamarano del genere, marca Outremer, può arrivare fino a 800mila euro. La Thunberg non lascia nulla al caso. "Se arriverò in tempo, parteciperò alla Cop25, perché mi hanno invitato", ha riferito la 16enne che contava di recarsi in Cile prima che l'evento venisse annullato a causa delle violente proteste che scuotono il Paese sudamericano. Quanto al 2020, "non ho ancora progetti", ha aggiunto. Alessandra Menzani

Regina Elisabetta, storica svolta: così si inginocchia a Greta Thunberg e Carola Rackete. Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Regina Elisabetta, una svolta storica che strizza l'occhio alle ecologiste Greta Thunberg e Carola Rackete. Basta pellicce, d'ora in poi la sovrana britannica indosserà solo modelli sintetici ed ecologici. Dunque una conversione ambientalista della regina Elisabetta II che, a 93 anni, ha deciso di mettere in naftalina tutti i capi fatti scuoiando animali. La notizia è oggi sulle prime pagine di molti giornali britannici, frutto di una delle rivelazioni ricavate da un nuovo libro in uscita firmato da Angela Kelly, secondo la quale l'ordine di lasciare nel guardaroba reale solo eco-pellicce risale ad alcuni mesi fa. Saranno contente le gretine... 

Lorenzo Fioramonti, il ministro di Greta Thunberg: "Cambiamento climatico, materia obbligatoria a scuola". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. L'Italia può diventare la prima nazione al mondo a rendere obbligatorio nel suo sistema scolastico lo studio dei temi inerenti al cambiamento climatico e allo sviluppo sostenibile. La proposta è stata avanzata dal ministro dell'istruzione Lorenzo Fioramonti attraverso un'intervista rilasciata all'agenzia Reuters. "Dal prossimo anno scolastico tutte le scuole statali dedicheranno 33 ore all'anno, almeno 1 ora a settimana, ai temi del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile", ha detto Fioramonti. Sarebbe una vera e propria rivoluzione del sistema scolastico, che, nelle intenzioni del ministro 5 stelle, metterebbe al centro dei programmi didattici i temi ambientali. L'ultima di una serie di proposte, alcune non esenti da critiche come quelle di tassare i biglietti aerei, la plastica e lo zucchero per raccogliere risorse da destinare al sistema educativo. L'intervistatore di Reuters fa notare al ministro come le sue proposte di nuove tasse abbiano suscitato il disappunto popolare. Fioramonti, a tal proposito, afferma che il governo sta ascoltando e studiando la realizzazione delle sue idee. E poi il consueto attacco a Matteo Salvini: "Voglio rappresentare l'Italia che contrasta ciò che fa Salvini ed è stufa della sua narrativa". Ecco un altro ministro autodefinitosi anti-Salvini.

Fioramonti: «La battaglia sul clima nei programmi di studio a scuola». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Sala. Robert Watson, massimo esperto mondiale di clima, già presidente dell’Ipcc e di Ipbes, oggi alla Camera per la Peccei Lecture: «Il mondo non fa abbastanza per cambiare la tendenza. Gli obiettivi di Parigi? Irrealizzabili senza gli Usa». Un assaggio lo si è avuto il 27 settembre, quando il ministro Lorenzo Fioramonti chiese alle scuole di giustificare gli studenti che avessero deciso di saltare le lezioni per unirsi alla mobilitazione planetaria contro il surriscaldamento globale. Adesso il titolare dell'Istruzione allunga il passo e assicura che l'educazione ambientale sarà «materia di studio» obbligatoria in tutte le scuole italiane. Sostenitore appassionato delle politiche green, il ministro grillino ha annunciato che «l'Italia diventerà il prossimo anno il primo Paese al mondo a rendere obbligatorio lo studio del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile». Almeno un'ora a settimana sarà dedicata alla materia «cambiamenti climatici». E questo sarà il primo step per arrivare a declinare tutte le materie in ottica di sostenibilità: dalla geografia, alle scienze, alla fisica, ha anticipato il ministro alla Bbc. «Abbiamo come molti altri Paesi una materia obbligatoria, l'educazione civica, che vogliamo "attualizzare" - ha detto Fioramonti -. Nel XXI secolo, questa materia deve essere centrata sullo sviluppo sostenibile e sulla cittadinanza responsabile in un Pianeta che soffre. Quindi abbiamo pensato di rifarci all'agenda 2030 delle Nazioni Unite e tradurne gli obiettivi in un sistema coerente di insegnamenti, che metta al centro i nostri diritti e doveri verso l'ambiente». Obiettivo dell'ora di «sviluppo sostenibile» (circa 33 ore l'anno, che il ministro non ha chiarito come verranno inserite nel piano orario, né se ci saranno risorse dedicate), è «far diventare le tematiche più urgenti riguardanti la salute del pianeta un argomento di conversazione centrale e continuo». «Le giovani generazioni chiedono trasformazioni radicali - ha ricordato il ministro - e questo è un modo per dire loro che siamo all'inizio di una vera rivoluzione culturale». Il primo passo di un percorso più ambizioso: «adattare l'intero curriculum scolastico alla comprensione dello sviluppo sostenibile». Un filo rosso dovrà unire geografia, scienze, fisica. E «accompagnare i giovani ad essere autori di quel cambiamento della società che loro stessi chiedono». «Il mio scopo - ha detto ancora - è rendere il sistema educativo italiano il primo che mette l'ambiente e la società al centro di tutto ciò che impariamo a scuola». «Voglio che l’Italia diventi leader contro i cambiamenti climatici, il primo Paese a rendere lo sviluppo sostenibile la pietra miliare del nostro nuovo sistema di educazione e ricerca». Lo scrive in un tweet il ministro per l’Istruzione, Lorenzo Fioramonti. Che dopo aver partecipato, venerdì scorso, al Consiglio Ue sull'educazione ha anche affidato al social il suo entusiasmo: «Grande è stato l'interesse tra i ministri dell'UE. Dobbiamo ascoltare la richiesta dei giovani europei di un cambiamento culturale incentrato sul pianeta». L'idea grillina di un'educazione civica incardinata sulla sostenibilità e sulla sfida ai cambiamenti climatici era stata lanciata da Fioramonti qualche giorno fa, in un'intervista al New York Times. Per la prima volta il ministro aveva parlato della sua idea, in grado di fare dell'educazione ambientale una sorta di «cavallo di Troia» per portare l'Agenda 2030 all'interno del curriculum scolastico. Un'iniziativa che ha trovato la sponda immediata del fondatore e garante dei Cinque Stelle, Beppe Grillo, che ha rilanciato il progetto dal suo blog. Sottolineando come fino all'estate, quando il ministro dell'Interno Matteo Salvini sembrava banalizzare i cambiamenti climatici, non c'erano le condizioni per portare avanti il nuovo curriculum. «Ora - ha spiegato Fioramonti anche alla Bbc - le condizioni ci sono». Secondo quanto anticipato al New York Times, ci sarà di un gruppo di esperti – fra i quali Jeffrey D. Sachs, direttore dell’Harvard Institute for International Development, e Kate Raworth dell’Environmental Change Institute dell’università di Oxford – a fare da consulenti allo staff ministeriale. Ed entro gennaio, «sarà tutto pronto per formare gli insegnanti».

Il "gretino" Fioramonti ne spara un'altra: "Eni abbandoni il petrolio e diventi green". Il ministro dell'Istruzione fa infuriare tutto il settore: «Parole vergognose». Fausto Biloslavo, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Lorenzo Fioramonti, ministro dell'Istruzione, ne spara un'altra delle sue, intimando all'Eni, fiore all'occhiello nazionale nel campo energetico, «la riconversione totale» verso un futuro verde e felice, ma al di fuori della realtà. Fioramonti, che non è il ministro dello Sviluppo economico e dovrebbe occuparsi solo di scuola ha pontificato: «Vorrei sentirmi dire che nel 2025 il petrolio sarà un centesimo nelle attività di Eni, nel 2030 saremo completamente green. Non c'è tempo». La Federpetroli e tutto il centro destra hanno sparato a palle incatenate contro le estrose dichiarazioni del ministro, che non da oggi è un «gretino», nel senso di fan della Giovanna d'Arco ambientale, Greta Thunberg, che va tanto di moda. Fin dal 2017 Fioramonti scriveva: «Possiamo - e dobbiamo - prevedere un futuro alimentato da energia rinnovabile al 100%, che potrebbe contribuire a spezzare il legame tra attività economica e cambiamento climatico». Teorie imbarazzanti che hanno provocato altre gaffe ministeriali come le tasse sui voli passeggeri. L'ultima sparata arriva da Madrid con un'intervista rilasciata mercoledì al portale della finanza etica Valori.it, al Cop25. La conferenza sui cambiamenti climatici dell'Onu, dove Greta ha fatto la sua puntuale sceneggiata. Forse estasiato dalla ragazzina svedese finita sulla copertina di Time, il ministro ha dichiarato che «l'Eni è una grande risorsa per il Paese ma a patto che non si faccia più nessuna esplorazione e si investa in maniera radicale nella riconversione totale verso le rinnovabili, l'idrogeno e le nuove frontiere della decarbonizzazione». Una crociata contro l'azienda nazionale, che ha scatenato dure reazioni. «Le parole del ministro Fioramonti sono una grande mancanza di rispetto e una vergogna per le aziende del Mondo dell'Oil & Gas internazionale ed in particolar modo per migliaia di lavoratori che fanno grande la nostra Eni e l'indotto che vive grazie al petrolio» ha risposto il presidente di FederPetroli Italia, Michele Marsiglia. Tutto il centro destra si è mobilitato al suo fianco e Salvini ha sottolineato: «Alè, altre migliaia di lavoratori rischiano il posto. Roba da matti». Marsiglia ha paventato possibili riflessi in Borsa puntando il dito contro il grillino: «Un ministro, che rappresenta uno Stato è totalmente irresponsabile nel pronunciare dichiarazioni del genere. Questa è la nostra Pubblica Istruzione? Fioramonti non ha forse pensato ai migliaia di azionisti, a piccoli e medi risparmiatori, alle migliaia di aziende, alle famiglie che hanno investito i loro risparmi da anni nel titolo Eni». Il ministro «gretino» aveva già sollevato dure critiche per la proposta di tassare i voli, che inquinano, con l'obiettivo di finanziare la ricerca. In realtà è un altro tassello ideologico della folle teoria del «superamento del prodotto interno lordo», che ha trovato in Greta la nuova Messia ecologista. Non è un caso che Fioramonti, in settembre, abbia pubblicamente appoggiato i venerdì di sciopero «ambientale» lanciati dall'attivista svedese definendoli «una bellissima iniziativa». E invitando di fatto gli studenti a marinare la scuola per andare in piazza con queste parole: «La lezione più importante che possano frequentare». Poi ha annunciato che nel 2020 sarà obbligatorio «lo studio dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile». Un'altra «gretinata» se verranno utilizzati testi apocalittici propagandati dagli attivisti del clima, che vedono la fine del mondo dietro l'angolo.

Leonardo Di Caprio incontra Greta: ''Insieme per un futuro più luminoso''. La Repubblica il 2 novembre 2019. "Spero che il messaggio di Greta possa svegliare i leader mondiali" e "che il tempo dell'inerzia sia finito". E' il post dell'attore Leonardo Di Caprio che sui suoi canali social condivide due fotografie insieme alla sedicenne svedese Greta Thunberg. "È a causa sua e degli altri giovani attivisti ovunque nel mondo", scrive nel post, che "sono ottimista sul futuro". "E' stato un onore passare del tempo con Greta. Io e lei ci siamo impegnati a sostenerci l'un l'altro nella speranza di garantire un futuro più luminoso al nostro pianeta. #scioperoperilclima #ClimateStrike". Intanto la giovane attivista pianifica il suo ritorno in Europa dopo il lungo viaggio negli Stati Uniti dove è arrivata a bordo di una barca a vela. "Visto che #COP25 è stata ufficialmente trasferita da Santiago a Madrid ho bisogno di un pò di aiuto - scrive sui social - a quanto pare ho viaggiato per metà del mondo, nella direzione sbagliata. Ora ho bisogno di trovare un modo per attraversare l'Atlantico a novembre. Sarei grata se qualcuno potesse aiutarmi a trovare un mezzo di trasporto". E' l'appello lanciato su Twitter dall'attivista svedese Greta Thunberg, dopo che la conferenza internazionale sul clima è stata trasferita nella capitale spagnola da Santiago del Cile, che ha rinunciato a causa della crisi sociale e le proteste che stanno scuotendo il Paese. 

Greta Thunberg, la clamorosa metamorfosi: come si presenta allo show americano. Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. Cresciuta, con i capelli sciolti, l'aria più sicura di sè. La baby attivista Greta Thunberg ha detto addio alle trecce e ha cambiato look. Si è mostrata diversa dal solito nel salotto televisivo di Ellen Degeneres sulla tv americana. Greta, che di recente ha rinunciato polemicamente a un prestigioso premio per il suo impegno ambientalista, ha parlato della sua battaglia, di Donald Trump e della sindrome di Asperger che lei ha. "Ho ricevuto il premio ambientale del Nordic Council nel 2019", ha detto recentemente la svedesina, "ho deciso di rifiutare questo premio, anche se è un grande onore. Ciò di cui abbiamo bisogno è che i nostri politici e le persone al potere inizino a dare ascolto alla scienza".

Greta Thunberg, un disperato appello: "Ho bisogno di aiuto, ora non so più come fare". Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. Greta Thunberg fa un appello ai suoi fan. Un appello decisamente singolare. "Visto che #COP25 è stato ufficialmente trasferito da Santiago a Madrid ho bisogno di un po' di aiuto". Dopo l'annuncio dello spostamento della sede della conferenza sul clima dal Cile alla Spagna, la piccola attivista si trova spiazzata: come è noto, lei non prende aerei per rispettare l'ambiente e non sa come fare a raggiungere la Spagna dagli Usa dove ora si trova. "A quanto pare ho viaggiato per metà del mondo, ma ho sbagliato". Una storia fantozziana, la sua. "Ora ho bisogno di trovare un modo per attraversare l'Atlantico a novembre... - la conferenza sarà dal 2 al 13 dicembre - Se qualcuno potesse aiutarmi a trovare un mezzo di trasporto ve ne sarei grata". Un appello che stringe il cuore, quello della svedesina. "Mi dispiace tanto che non sarò in grado di visitare il Sud e l'America centrale questa volta, non vedo l'ora di farlo", ha aggiunto la sedicenne, "ma questo ovviamente non si tratta di me, delle mie esperienze o di dove vorrei viaggiare". "Siamo in un'emergenza climatica ed ecologica" conclude la sedicenne, offrendo tutto il suo "sostegno alla gente in Cile".

Da liberoquotidiano.it il 31 ottobre 2019. Finisce prima del previsto l'ospitata di Alessandro Sallusti a Fake, il programma condotto da Valentina Petrini su Nove. In studio insieme a Giulia Innocenzi, il tema della trasmissione è quello delle notizie strumentalizzate o manipolate. E dopo un inizio tranquillo, viene tirata in ballo Greta Thunberg. Il taglio della trasmissione è chiarissimo: difendere sempre e comunque la baby-attivista svedese. Così, a Sallusti, vengono sottoposte alcune notizie riportate da Il Giornale, dei retroscena secondi i quali dietro alla Thunberg potrebbe esserci un esperto di comunicazione. Notizie che vengono messe in dubbio. Sallusti, insomma, viene messo sotto torchio in modo piuttosto arbitrario. "Non ricordo i dettagli, se è vero o no non lo so – ribatte Sallusti - un sito è una diretta, in quel momento era possibile ritenere credibile questa notizia. Che dietro a lei ci sia un esperto di comunicazione ritengo di sì, non è un reato", spiega Sallusti. Dunque, il direttore rincara: "Stiamo facendo vedere una faccia della medaglia, ce n’è un’altra uguale e contraria. Si tratta di cercare di capire chi ci sta prendendo per il culo - passa all'attacco -. Greta è una bambina meravigliosa, ma cerca di convincerci che è possibile andare in America su una barca a vela di un principe miliardario. Se tutti noi potessimo accedere a un principe potremmo convincere i ragazzi che gli aerei possono restare a terra, ma siccome non ci sono principi e non abbiamo sei mesi di tempo per andare dal Mediterraneo alle coste di New York, gli aerei non possono restare a terra. Non la sto demonizzando, ma non vorrei essere preso in giro", conclude in modo secco. E Sallusti, evidentemente stizzito - e a ragione - a quel punto si alza e se ne va: "Devo scappare". Piccata la replica della Petrini: "Io la saluto, mi dispiace che se ne vada dopo averci dato dei dati parziali". Cala il sipario.

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 31 ottobre 2019. «Certo che possiamo fare un' intervista», ci aveva detto Carola Rackete appena conclusa la stesura del suo libro. Era metà ottobre. «Vediamoci a Vienna, avrò qualche ora libera. A una condizione però: dovete venire in treno, l'aereo inquina troppo». Già questa richiesta lasciava intuire su quali argomenti si sarebbe concentrata la chiacchierata con il Venerdì di "Repubblica". La lettura, poi, di Il mondo che vogliamo (scritto a quattro mani con la giornalista tedesca Anne Weiss e in uscita il 4 novembre, pubblicato in Italia da Garzanti) ne è stata solo la conferma. Quindi, dopo tredici ore e quarantotto minuti di viaggio su rotaia - tredici fermate tra Roma Termini e Vienna Hauptbahnhof - l' appuntamento è alle 15, sotto alla statua di Mozart nel Burggarten. Carola si presenta da sola: puntuale, spettinata, sorridente, con uno zaino enorme sulle spalle e una felpa blu troppo larga per essere sua. «Me l' ha prestata un amico di Berlino, la mia l'ho persa. Due giorni fa ero lì a parlare all'Humanitarian Congress insieme all'avvocata ecologista keniana Phyllis Omido». Ci sono voluti meno di trenta secondi per capire che la Capitana della Sea Watch, quattro mesi dopo Lampedusa e nonostante la grande attenzione dei media (e degli hater sovranisti), non è cambiata di una virgola. Segue la sua rotta, non circumnaviga gli ostacoli e, se serve, attracca. Nella capitale viennese è arrivata per ritirare un premio per l'impegno umanitario. Nelle otto ore in cui è rimasta in città non si è fermata mai: ha mangiato una mezza zuppa di verdure e bevuto due cappuccini e un bicchiere di vino rosso; ha controllato il telefono una volta sola; non ha scritto messaggi nelle chat né post sul suo profilo Twitter (28.000 follower). Ha camminato, tanto. Ha parlato, tantissimo. Il suo libro non è solo il racconto dettagliato di cosa è successo a Lampedusa, quando con la Sea Watch 3 ha violato il divieto dell' allora ministro Salvini. È molto altro. Carola espone la sua anima di ambientalista radicale e di studiosa di Scienze naturali, cita dati e pamphlet come Deep Adaptation, nel quale il professor Jem Bendell spiega perché, a causa del riscaldamento globale, l'estinzione dell' umanità sia diventata possibile. Nella lunga intervista sul Venerdì di domani, la 31 enne tedesca ricorda quando raggiunse il Polo Nord e, nel ghiaccio troppo sottile, vide la fine del mondo. «È il momento di agire», ripete ossessivamente. Invita tutti alla riduzione dei consumi (a cominciare dagli aerei) e alla disobbedienza civile contro una politica «che non fa abbastanza per l' ecosistema». Dopo aver regalato il premio a un ragazzo afgano in platea, è corsa alla stazione per prendere il treno notturno per Bratislava. Di nuovo lo zaino in spalla, a passeggiare nel mondo.

Carola Rackete chiama a raccolta i disobbedienti di tutto il mondo: disturbiamo l’ordine pubblico. Il Secolo d'Italia idomenica 3 novembre 2019. Carola Rackete pensa di essere la filosofa capace di ispirare una nuova rivoluzione. Insomma veste i panni di Marx, almeno secondo il titolo che Repubblica assegna al suo scritto: “Disobbedienti di tutto il mondo uniamoci”. E’ l’anticipazione del libro della Rackete che da domani sarà in edicola con il quotidiano. Il libro si chiama “Il mondo che vogliamo”. Stavolta però l’unione caldeggiata da Carola Rackete non è contro il capitalismo che sfrutta i lavoratori ma è contro il disastro ambientale. Lei vuole andare oltre Greta Thunberg e dice: “Non prendere l’aereo e non mangiare carne non basta” così come non è sufficiente consumare meno e evitare di acquistare troppi abiti nuovi.

Decrescita e proteste. Il mondo da horror dipinto da Carola. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. Il mondo si può migliorare, cari lettori. Siete voi che lo rovinate, con il vostro schifoso benessere. Dovete smettere di consumare. Toglietevi quel pezzo di carne che state per mettervi in bocca, animali. Affamatori. Smettetela di comprare vestiti nuovi, usate per anni gli stessi quattro stracci. Poco importa se puzzano e fanno schifo. E non mettete nemmeno un piede su un aereo. Parola di Carola Rackete, testuale. Però non basta, bisogna fare di più. E ora vi spieghiamo come. Oggi esce, in edicola con Repubblica, la Bibbia del politicamente corretto, il manifesto del neo terzomondismo, il Capodanno del migrazionismo cattocomunista che ha in odio l'Occidente: il libro della Capitana. Il mondo che vogliamo, s'intitola il volume in uno slancio assolutista, tipico di chi è convinto di essere sempre dalla parte della ragione. Invece no, cara Carola, parla per te, quello è il mondo che volete tu e altri quattro sciamannati che pirateggiano nel mediterraneo. La Capitana della Sea Watch, saltata alla ribalta delle cronache lo scorso giugno per essere attraccata a Lampedusa con un carico di clandestini dopo aver speronato una nave della guardia di Finanza, ora è diventata la nuova paladina di una sinistra a corto di idee. «È il momento di agire. Perché si verifichino rapidi cambiamenti - pontifica la Che Guevara coi dreadlock -, le società hanno bisogno di proteste di massa e del maggiore disturbo dell'ordine pubblico possibile (...). Viviamo nell'epoca nella quale l'ordine è sbagliato e distruttivo». Concetti altissimi. Praticamente il casino come filosofia e ideologia politica. «Disturbiamo i governi, la cui più grande preoccupazione consiste nel mantenere alto i livelli di crescita e nel non dover condividere la loro ricchezza. Disturbiamo i colossi dell'energia (...), disturbiamo industrie e imprese. Se li lasciamo fare permettiamo che le persone affoghino nel Mediterraneo e per le strade siano esposte alla violenza di destra. Disturbiamo, ma per buoni motivi». La rottura dei coglioni del prossimo (cittadini, imprese, istituzioni) e il mito della decrescita elevati a ragione di vita e azione politica. Carola disturbatrice globale, una specie di Paolini 2.0 scappato dal piccolo schermo. Il problema è che lei si prende sul serio e trova sponda nella solita accolita di radical chic che ama giocare alla rivoluzione dal salotto di casa propria: «Il mio ingresso a Lampedusa ha suscitato scalpore grazie alle cronache dei media e generato un dilemma. Si è visto che da una parte c'era qualcuno che difendeva i diritti umani e dall'altra governi che li violavano». Non c'è nessun dilemma, cara Carola, violare le leggi di uno stato sovrano, speronare una nave militare e traghettare tre scafisti non è un atto rivoluzionario, è un atto criminale. E pensare di essere dalla parte della ragione è da cretini.

Francesco Specchia per "Libero" il 3 novembre 2019. La strategia della signora è chiara: farsi arrestare ogni livido venerdì del mese, se continuano a non essere rispettati gli accordi del New Green Deal per il clima. Se lo facesse Giuseppi Conte, date le promesse ecologiche finora non onorate, la permanenza in galera sarebbe eterna, e avremo qualche problema in più al governo. Ma qui siamo in America, Washington Dc; e i casini al governo, certo, permangono però non riguardano l' arrestata di pregio, Jane Fonda. Jane Fonda, 81 anni, si è fatta arrestare, anzi "trarre in ceppi", durante l' ennesima protesta pacifica a favore del clima e contro Trump davanti al Congresso degli Stati Uniti. Si è fatta arrestare per la quarta volta. Spera di arrivare a 11 venerdì d' arresto di seguito (i "Fire Drill Friday"), fino a dicembre. Poi basta. Perché a gennaio deve tornare sul set della sua serie tv, ché affaticarsi «per lasciare un futuro migliore alla mie nipotine» va senz' altro bene, ma non esageriamo, business is business. I poliziotti - anche quelli che da piccoli impazzivano per lei quand' era un sex symbol in Barbarella - sempre più sbuffanti e stremati, appena l' hanno vista inerpicarsi con piglio chic sulla solita scalinata d' alabastro, hanno volto l'ennesimo sguardo al cielo: «Oddio, rieccola». Nuovo show, nuove telecamere che s' accendono sulla versione Granny "nonna" di Greta. Ora, il fatto che, dopo «aver letto l' ultimo libro di Naomi Klein, Il mondo in fiamme. E ascoltando - appunto - Greta Thunberg accusare i potenti della Terra di averle rubato il futuro, alla grande attrice sia venuto lo sghiribizzo di protestare, in barba alle leggi, per i cambiamenti climatici può sembrare strano, ma non lo è. Perché, in fondo, è il gesto che conta e di questi gesti Jane ha riempito la propria esistenza, ottenendone preziosi riverberi sulla propria vita artistica. E per ben quattro volte, finora, la canuta Jane ha alzato al cielo i polsi graziosamente ossuti avvinti nel braccialetto di plastica, in segno di vittoria, come quando ad Hanoi negli anni Settanta cavalcava i cannoni americani tentando di farcirli di fiori, e lanciando strali contro la guerra del Vietnam. Jane, sulla scalinata dei presidente ha evocato l' applauso del pubblico; e ha spiegazzato il solito cappottino cachemire il cui color vermiglio deve avere un significato che ci sfugge. Quando, per esempio, ha manifestato contro l' occupazione della Palestina o per la Women' s March il cappotto era nero come la morte, per fermare la guerra in Iraq era «marrone come, come la sabbia del deserto mediorientale»; insomma, c' è tutta una filosofia cromatica, dietro il doppiopetto. Jane ha, infine, ha eseguito alla lettera l' accorta strategia mediatica della giovane deputata Dem, Alexandria Ocasio Cortez la quale, dopo aver smesso di farsi arrestare, ha chiesto alla riconosciuta Giovanna d' Arco del pacifismo di farle da supplente. Come interpretare questa liturgia dell' ecologismo militante? Aiutare davvero la causa di Greta, dato che la ragazzina, ora che le hanno spostato la nuova conferenza mondiale sul clima dal Cile alla Spagna e non volendo prendere l' aereo inquinante non sa come arrivare a Barcellona? Contribuire a sbarazzarsi di Trump (come mezza Hollywood)? O, semplicemente, fare qualcosa per rallentare l'avanzata di una noiosa vecchiezza tornando agli allori delle cronache con un soffio di redditizia nostalgia? Interrogativi laceranti per l'americano medio. Figuriamoci per noi...

Andrea Cuomo per "il Giornale" il 3 novembre 2019. La più nota turista climatica del mondo, Greta Thunberg, stavolta sembra essersi iscritta a uno di quei catastrofici viaggi organizzati da Filini e Fantozzi, di quelli in cui tutto avveniva sempre nei modi e nei tempi sbagliati. La sedicenne svedesina star del green carpet ambientalista stavolta si è trovata fuorigioco un po' per sfortuna un po' per la sua fissazione di non prendere aerei a causa delle loro pesanti emissioni di CO2. Ed è chiaro che quando si decide di viaggiare prevalentemente via mare, la capacità di reagire a eventuali contrattempi è scarsissima. Greta si trova attualmente negli Stati Uniti, dove è giunta in barca e dove ha incontrato tra gli altri anche Leonardo Di Caprio, scopertosi suo fan. Da lì si sarebbe dovuta spostare, sempre con velistica lentezza, in Cile, dove era in programma COP25, la Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. All' organizzazione della quale però il governo di Santiago ha rinunciato a causa dell' instabilità provocata dalle furibonde proteste di piazza delle ultime settimane. E così la conferenza si terrà a Madrid, in Spagna, dal 2 al 13 dicembre prossimi. E siccome Greta non può certo mancare alla kermesse, di cui si prevede sia una delle stelle, ha un leggerissimo problema. Riattraversare il mondo e raggiungere l' Europa in un mese. Così Greta ha fatto un appello sui suoi seguitissimi social, dai toni un po' patetici e un po' involontariamente comici. «Pare - ha scritto - che abbia viaggiato per mezzo mondo in direzione sbagliata. Mi serve aiuto, ho bisogno di trovare un modo per attraversare l' Atlantico a novembre. Se qualcuno potesse aiutarmi a trovare un trasporto, sarei molto grata». Poi in un soprassalto di precoce saggezza, la grata Greta mette le mani avanti per sminare i possibili attacchi social: «Ovviamente non è un problema. Le persone soffrono in tutto il mondo e sto bene qualunque cosa faccia e ovunque io sia. Mi dispiace molto non poter visitare il Sud e il Centro America, non vedevo l'ora. Ma questo ovviamente non riguarda me, le mie esperienze o i luoghi in cui desidero viaggiare. Siamo in un' emergenza climatica ed ecologica. Mando il mio supporto alle persone in Cile». Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte, il personaggio è così, malata di perfezionismo. Per mare non esiste Blablacar, quindi l' aiuto a Greta è dovuto arrivare da molto in alto, ovvero dal governo spagnolo. «Cara Greta - ha scritto su twitter la ministra spagnola per la Transizione ecologica, Teresa Ribera - sarebbe bello averti qui con noi a Madrid. Hai fatto un lungo viaggio e aiuti tutti noi a sollevare le preoccupazioni, ad aprire le menti e a sostenere le azioni contro i cambiamenti climatici. Ci piacerebbe aiutarti ad attraversare l' Atlantico. Pronta a contattarti per renderlo possibile». Insomma, una soluzione si troverà, o Cile o Spagna purché Greta non si lagna. E se la nipotina del clima ha qualche cruccio, va peggio alla nonna del clima, l' attrice e attivista Jane Fonda, arrestata venerdì a Washington durante una manifestazione contro gli errori dei politici nell' emergenza climatica. «Stavolta posso essere reclusa per una notte, sarà uno scherzo». L' attrice, che ha quasi 82 anni e che ha trasformato il suo cappotto rosso fuoco in un simbolo della protesta, manifesta ogni venerdì da un mese a Capitol Hill, a volte in compagnia di altri attori hollywoodiani, e ogni volta finisce in manette.

DAGONEWS l'11 ottobre 2019. C’è il miliardario britannico con un patrimonio di 1,2 miliardi di sterline. La rock band Radiohead. Il figlio di Vivienne Westwood. Se vi state chiedendo cosa hanno in comune questi personaggi provate a guardare cosa è successo nelle scorse ore al London City Airport. Sono loro, e non solo, i finanziatori degli Extinction Rebellion, il gruppo di dissidenti che si batte contro l’emergenza ambientale. Sir Christopher Hohn, uno degli uomini più ricchi del Regno Unito, ha donato 50.000 sterline al gruppo ambientalista e non lo nasconde: «Sono un finanziatore personale di Extinction Rebellion. Di recente ho dato loro 50.000 sterline perché l'umanità sta distruggendo in modo aggressivo il mondo. C'è un urgente bisogno che tutti noi ci svegliamo di fronte ai cambiamenti climatici». Si ritiene inoltre che l'associazione benefica da lui co-fondata, la Children's Investment Fund Foundation (CIFF), abbia donato ulteriori 150.000 sterline. La conferma da parte del diretto interessato non c’è, ma analizzando il fondo ecco che non torna qualcosa. Il suo hedge fund, denominato Children's Investment Fund, era proprietario di una quota del due percento di Coal India, una società statale con sede a Calcutta che ha estratto dal sottosuolo oltre 400 milioni di tonnellate di carbone nel 2014, l'anno in cui le quote sono state vendute. Andrew Medway, un ex operatore bancario che gestisce le donazioni del gruppo, ha affermato che oltre la metà delle donazioni sono state raccolte online e oltre 6.000 persone hanno donato più di  600.000 sterline solo in questa settimana. Altri donatori di alto profilo includono il gruppo rock Radiohead, che ha già donato 250.000 sterline, Joe Corré, fondatore della società di lingerie Agent Provocateur e figlio di Vivienne Westwood, che ha donato  50.000 sterline. L'organizzazione statunitense Climate Emergency Fund, finanziata principalmente da Aileen Getty, 62 anni, nipote di J Paul Getty, una volta l'uomo più ricco del mondo, ha donato 330.000 sterline ai manifestanti. Oltre alle donazioni, diverse star hanno aderito alla protesta iniziata lunedì a Londra: tra di loro ci sono Benedict Cumberbatch, la modella Daisy Lowe, il comico Ruby Wax e gli attori Juliet Stevenson e Mark Rylance.

Greta Thunberg, un anno e un mese di proteste: dalla Svezia alle piazze di tutto il mondo. Pubblicato sabato, 21 settembre 2019 da Corriere.it. Era il 20 agosto di un anno fa, un lunedì. Una ragazzina sconosciuta si mise a sedere davanti al Parlamento svedese a Stoccolma per protestare contro l’inerzia del governo di fronte al cambiamento climatico. Riga in mezzo, lunghe trecce, sguardo incerto (altro che incerto, scopriremo poi) e spalle ricurve (altro che ricurve, scopriremo poi). Greta Thunberg, uno scricciolo di 15 anni che aveva deciso di non andare a scuola fino alle elezioni del 9 settembre al grido di — come c'era scritto sul suo cartello — «Skolstrejk för klimatet». «Sciopero scolastico per il clima». Altro che scricciolo, appunto: un anno e un mese dopo quella ragazzina incapace di imporre alla sua mente di disinteressarsi della catastrofe climatica in atto si è trasformata in un movimento di milioni di coetanei festosi e determinati. Ieri, venerdì 20 settembre 2019, gli under 18 di più di 3.200 città di 165 Paesi di tutto il mondo si sono riversati in piazza per ribadire il loro diritto ad avere un futuro. Erano più di tre milioni. E non è finita qui: la settimana di proteste di Friday for future — così si chiama il movimento, perché Greta si presentava davanti al Parlamento ogni venerdì — in occasione dell'incontro sul clima di New York del 23 settembre andrà avanti fino al 27, giorno in cui anche l'Italia farà sentire la sua voce. Una giornalista newyorkese, Natalie Wolchover, ha rappresentato su Twitter in uno dei modi più efficaci possibile — con un'immagine — quanto sia cambiato in quest'anno di proteste, discorsi da Davos («Alcuni dicono che non stiamo facendo abbastanza per combattere i cambiamenti climatici ma questo non è vero, perché per non fare abbastanza, si deve fare qualcosa e la verità è che non stiamo facendo niente») a Strasburgo («Quello che posso dire ai giovani è: continuate a lottare, perché state facendo un grande lavoro»), viaggi (senza prendere l'aereo, con tanti treni e pure attraversando l'Atlantico in barca a vela) e prese di posizione della giovanissima svedese. Due foto, una al fianco dell'altra: Greta nell'agosto del 2018, quando nessuno sapeva come si chiamasse e aveva idea di come avrebbe inciso sul dibattito pubblico, e una delle potenti piazze di ieri, il 20 settembre di un anno dopo, quando Greta Thunberg, 16 anni, è la favorita per il Nobel per la Pace.

Il punto (di Angelo Mellone). La mobiliazione globale bluff di Greta non incide sui territori. Pubblicato il 16 Marzo 2019 Angelo Mellone su Barbadillo. Greta Thunberg icona effimera e mondialista. Di ciò che ho imparato dalla politica so che le battaglie devono essere lunghe, radicate, partecipate e tangibili. I social hanno creato l’illusione di miliardi di persone che si mobilitano tutti assieme per una causa ma questo è: una illusione. Il raccontarsi che si è fatto qualcosa di buono mettendo un click o, oggi, elogiando gli studenti che hanno ‘scoperto la politica’ nel modo più vago e indolore possibile o, peggio, facendo prove tecniche del velleitarismo di queste manifestazioni “globali” sostenute e appoggiate dai media globali e dagli stessi poteri globali che tanto nulla possono tenere di iniziative come quella del fenomeno mediaticamente costruito e finanziato di Greta e delle Grete che spuntano con i loro cartelli.

Quando da ragazzi volantinavamo per l’Irlanda libera a Taranto stavamo solo dando soddisfazione al nostro narcisismo esistenziale, sai quanto gliene poteva fottere a Westminster… ecco, oggi mi è sembrato di vedere la stessa cosa, con un decimo di afflato ideale, perché manifestare contro il cambiamento climatico è quello che è, una battaglia globale e dunque inutile perché impossibile da condurre. Anziché fare queste menate, il venerdì si vada in giro a fare educazione ambientale e lotte di quartiere contro il degrado, e poi si sommino le migliaia di manifestazioni. Allora sì. Sennò ci resta la faccia di Greta ancora per un giorno e poi tutti a nanna fino al prossimo inutile global contest.

Quarta Repubblica 23 settembre 2019 Rete 4 Mediaset. "Oggi la grande industria è diventata un nemico emotivo. L'Italia deve produrre acciaio, che è il materiale più riciclabile. C'è la cultura del non fare in Italia."

Nicola Porro: Buona Sera “Fino alla Fine. Romanzo di una Catastrofe. Come stai? Benvenuto per la prima volta qua da noi, Io sono molto felice. Intanto hai scritto un libro molto coraggioso: “Fino alla fine. Romanzo di una Catastrofe”. Racconti l’Ilva di Taranto che per te è una cosa diversa rispetto a quella che è per noi per un motivo molto chiaro, lo vedete adesso il romanzo che veramente vi consiglio. Per quale motivo per te l’Ilva ha un significato diverso? E poi arriviamo alle cose di queste ore. Perché?

Angelo Mellone: Per quando ancora si chiamava Italsider, mio padre è stato uno dei  primi 25 assunti in quello stabilimento e qualche anno dopo mio padre e mia madre si sono conosciuti in quello stesso stabilimento. Io ho perso mio papà quando ero adolescente e per una malattia non estranea a causa di lavoro, ma quando scoppiò l’indagine, l’inchiesta della magistratura che portò poi al sequestro dello stabilimento, dell’aria a caldo dello stabilimento, io sono tra quelli che ha detto: non possiamo dimenticare, comunque, un storia grandiosa come la storia industriale del mezzogiorno.

Porro: Papà è morto per una malattia che potrebbe essere legata a quello che faceva e tua hai una posizione che è di un coraggio che poi nessuno potrà sindacarla per il semplice motivo che che…

Mellone: L’hanno fatta.

Porro: La tua posizione di figlio di una persona che è morta di una malattia così grave nello stabilimento di Taranto, Comunque non voglio neanche discutere chi lo contesta. Ma la cosa che io voglio discutere è un’altra.  Coma si combacia...è nel tuo romanzo, ma è anche nella tua esperienza personale: l’ambiente, che è il grande tema che tutti parlano oggi ….e lo sviluppo. Le due cose. Stanno insieme o bisogna chiudete l’Ilva, bisogna chiudere la Tap, bisogna chiudere le centrali?

Mellone: Intanto noi scontiamo, secondo me, l’assenza di un partito Verde. Per cui tutti parlano di politiche verdi, di sviluppo sostenibile. Il Tema grande, secondo me e quello che…e quello che noi chiamiamo industria pesante, che poi è quella che ha fatto grande l’Italia, la chimica, la metalmeccanica e la siderurgia. Da un lato le industrie, secondo me, fanno ancora poca responsabilità sociale. Le grandi industrie dovrebbero aprirsi al territorio, dovrebbero fare investimenti, dovrebbero dialogare. Dall’altro che cosa succede. Noi non parliamo più di operai, in televisione non si parla più di operai. Gli operai sono diventati ormai una cosa invisibile. L’industria non si vede più, la grande industria, e dall’altra parte però hai queste grandi cattedrali, questi giganti del passato, del nostro passato industriale che sono lì e che diventano spesso il nemico identificabile per chi? Spesso per delle minoranze che non sono ambientalisti, ma sono spesso estremisti dell’ambiente...

Porro: Quello che è definito populismo ambientale.

Mellone: Si chiama ambiental-qualunquisti. Il Nemico emotivo l'ho visto sul territorio.

Porro: L’Itali a deve avere l’Ilva?

Mellone: L’Italia deve avere una siderurgia che produca un acciaio pulito. L’acciaio è il materiale più riciclabile. Quindi noi facciamo la battaglia contro la plastica, però anche lì sulla plastica…la maggior parte di produttori della plastica monouso sono italiani, per cui bisogna fare le grandi riconversioni fino al 2040,  2050. Si fa l’acciaio, sosteniamo.

Porro: Che cos’è  l’ambiental-qualunquismo.

Mellone: E’ la cultura del no, della cultura del non fare e dell’opporsi a qualsiasi cosa che sia sviluppo industriale, però con delle contraddizioni.

Porro: Quali?

Mellone: Uno dovrebbe fare politica ambientale: centri storici chiusi, mobilità sostenibile, eco, bio, green e poi, magari, gli stessi che voglio la chiusura del siderurgico sono quelli che,  ne so a Taranto,  vogliono l’aeroporto a dieci chilometri. Mentre sappiamo tutti quanti che gli aerei scaricano addosso…, insomma, non precisamente rose e fiori. E qui ci sono delle contraddizioni pesanti, che però vengono esacerbate. Oggi i social che fanno: polarizzano. Si – no, mi piace – non mi piace. Non c’è un grigio e non ci sono i tempi.

Porro: Pd e movimento 5 stele però su questo vanno d’accordo.

Mellone: Il Pd è il partito sviluppista; i 5 stelle sono un partito che vogliono un’alternativa allo sviluppo. Io dico che nel mio romanzo il tema Industria – Ambiente distrugge un’amicizia perché uno vuole salvare l’acciaio e l’altro vuole gli vuole fare una battaglia. E finisce male la storia nel romanzo. Però io dico vogliamo far e l’energia pulita? C’è la Tap, il gas. Vuoi decarbonizzare la siderurgia? Devi importare il gas con il tubo e devi fare la Tap. Vuoi non andare in aereo, ma in treno? Benissimo. Però io a Taranto ci metto 6 ore per arrivare in treno, A Milano alla stessa distanza due ore e 50 e devi fare l’alta velocità. Vuoi non la plastica, allora l’acciaio che è un materiale più riciclabile, Allora facciamo l’acciaio pulito. Il Tema è:  Viva l’ambiente però mettiamoci d’accordo.

Angelo Mellone, Fino alla fine. Taranto, in un futuro prossimo. Dindo, Claudio e Valeria, detta Gorgo, hanno ormai passato i cinquant’anni. Si ritrovano a Taranto per partecipare al funerale di un vecchio amico. La piazza è piena di gente, e l’atmosfera è pesantissima, incattivita, lacerata, come si sono lacerati nel tempo i rapporti tra gli amici, tanto uniti in gioventù dalle comuni passioni, umane e politiche, quanto lontani e divisi oggi, sia per le strade diverse che hanno preso le loro vite, sia perché la loro amicizia si è frantumata contro il Siderurgico di Taranto, lo stabilimento più grande d’Europa: per alcuni la fabbrica va salvata a tutti i costi, perché non solo produce lavoro e benessere, oltre che acciaio, ma anche perché è un monumento insostituibile di memorie e di orgoglio operaio; per altri, invece, il Siderurgico è ormai solo il “Mostro” da chiudere, abbattere, cancellare, bonificare, perché con i suoi fumi avvelena e uccide. Fino alla fine è il racconto di sconfitte e tradimenti, di una generazione smarrita, incapace di invecchiare, e di un paese quasi al capolinea: mentre l’azione si svolge incessante, attraverso sapienti escursioni nel passato vediamo i quattro protagonisti crescere, cambiare, peggiorare forse, anche se l’usura della memoria, dei rapporti e della morale non li piegherà mai del tutto allo spirito del tempo. E assistiamo anche al cambiamento dell’Italia, ridotta a una comunità composta da una moltitudine di individui in retrospettiva, trasformata in nazione liquida, disillusa, spenta; un paese di partiti deboli e personalistici, dove l’ideologia ha lasciato il posto alla comunicazione, i partiti sono diventati proprietà privata di leader che hanno sostituito i militanti con i follower e la passione civile si è trasformata in una disperata forma di ultima resistenza all’omologazione. Fino alla fine è un romanzo tanto travolgente e originale quanto profondo e toccante, nel quale le vicende umane dei protagonisti si innervano in quelle del paese. Fino al pirotecnico finale, in un futuro che, forse, è già presente.

Angelo Mellone (Taranto, 1973) è giornalista, scrittore e capostruttura Rai. Editorialista e inviato di politica, cultura e costume per numerosi quotidiani nazionali, è autore e conduttore di programmi radiofonici e televisivi. Ha conseguito il dottorato in Sociologia della comunicazione all'università di Firenze e insegna Scrittura alla Luiss "Guido Carli" di Roma. Autore di diversi libri di saggistica, reportage e lavori teatrali, Fino alla fine è il suo quarto romanzo, dopo Nessuna croce manca (Baldini+Castoldi, 2015), Incantesimo d'amore (Pellegrini, 2016) e La stella che vuoi (Pellegrini, 2017).

Angelo Mellone: «Questa è una città da commissariare». Il nuovo libro natalizio, i druidi e il siderurgico. Intervista di Enzo Ferrari, Direttore Responsabile di Taranto Buonasera, domenica 17 Dicembre 2017. Il nuovo libro natalizio, i druidi e il siderurgico. Il giornalista-scrittore tarantino Angelo Mellone punge una certa Taranto “assistenzialista”. Ecco l’intervista realizzata dal Direttore di Taranto Buonasera Enzo Ferrari.

“La stella che vuoi” è il sequel di “Incantesimo d’amore. A distanza di un anno, sempre a Natale e sempre più fantasy.

«Sì, questo è un romanzo pienamente fantasy. L’elemento magico e la lotta tra bene e male sono preponderanti. I protagonisti sono due bambini che vivono nel mondo degli adulti: uno dal giorno dei morti del 2016 vede solo ombre, l’altra è l’ultima discendente delle streghe bianche. È il confronto tra tenebre e luce con un chiaro richiamo a quel che accade nel Signore degli Anelli».

Solo che non siamo nella Terra di Mezzo immaginata da Tolkien ma tra la gravina di Massafra, Alberobello, il bosco delle Pianelle…

«Questo gioco pagano mi permette di riannodare i fili della tradizione antecedente al Cristianesimo e di collocarla in queste terre che offrono come scenario la Valle d’Itria, Grottaglie, Martina Franca. Non ho fatto altro che rielaborare le nostre tradizioni popolari, il folclore, le superstizioni e ambientarle qui, da noi. Per scrivere un fantasy non c’è bisogno di andare lontano. In fondo i Druidi sono arrivati fino al Salento, la Cerva alla quale era intitolata l’attuale Madonna della Scala di Massafra, è un simbolo solstiziale. Per non parlare dei simboli sui trulli e della leggenda del mago Greguro e delle masciare. Intanto “Incantesimo d’amore” diventerà un film. Sarà prodotto dalla Sun Film e in questi giorni faremo i primi sopralluoghi per scegliere gli ambienti dove girare».

A proposito di ambienti, in “La stella che vuoi” ad un certo punto entra in scena anche il siderurgico.

«L’Ilva è un po’ come le caverne di Mordor. I tre folletti buoni vanno in Acciaieria per forgiare con l’acciaio la runa della luce e smascherare il maleficio».

E i tre folletti chi sono: Calenda, Mittal e Melucci?

«No, no. Nessun riferimento a loro. Ho solo voluto ricreare l’anima antica della nostra terra, quell’anima pura, spartana, che si batte contro chi crea conflitti e disastri. Sa che dico? Che la prossima Spartan Race andrebbe disputata proprio al siderurgico».

E anche questa risposta sembra metaforica…

«Purtroppo in questi anni si è sviluppato un dibattito lacerante. Si stima che la vertenza Ilva-Taranto, nel suo complesso, ci sia costata 16 miliardi di euro. Un danno enorme prodotto dal peggior meridionalismo e dalla peggiore grettezza culturale che una parte di Taranto ha sfoggiato in questi anni».

A quale Taranto si riferisce?

«A quella lagnosa, vitttimista, rivendicazionista e autolesionista della quale fanno parte pezzi di giornalismo e ambientalismo che con la loro propaganda continuano a fare un male devastante a Taranto».

Ce l’hai con gli ambientalisti.

«L’ambiente è un tema troppo serio per relegarlo a gruppi che hanno necessità di trovare qualcuno a cui aggrappare le loro lagne. Come io non sono industrialista, loro non sono ambientalisti. Ci sono vie di Roma – lo dicono i dati dell’Istituto Superiore della Sanità – che hanno valori di inquinamento superiori a quelli di via Machiavelli, ai Tam buri. Eppure a Roma nessuno si è mai sognato di far girare manifesti che ritraggono i bambini con la maschera antigas. In quei manifesti c’è tutta l’impotenza culturale di questi della paura. Giocare sulla pelle dei bambini è una operazione indecente, folle, terribile».

Credi che riusciremo ad uscire da questa vertenza così lacerante?

«La vertenza si risolverà, nonostante la minoranza urlante, la borghesia inutile, l’inesistente classe dirigente della città. Io mi auguro che alla fine si possa davvero arrivare all’ambientalizzazione dello stabilimento e alla bonifica del territorio. Ma se la vertenza si risolverà sarà sempre per un intervento esterno, non per ciò che la città è in grado di produrre».

Vuoi dire che Taranto da sola non riuscirà mai a farcela?

«Taranto è una città di proprietà dello Stato. Senza lo Stato resterebbe solo la borghesia inutile e parassitaria. E lo dico con dolore. Pensiamo che in oltre mezzo secolo di siderurgia non è mai nata una impresa di trasformazione dell’acciaio. Taranto andrebbe commissariata, non è in grado di governarsi, è vissuta sempre grazie all’intervento esterno e quando lo Stato ha cominciato a ritirarsi sono arrivati i dolori».

Però un risveglio esiste e qualche segnale incoraggiante arriva dalla valorizzazione di alcuni simboli della nostra cultura, come il Castello Aragonese e il Museo, non credi?

«Il Castello è stato rilanciato dall’ammiraglio Ricci, che non è di Taranto, e il museo ha ripreso a brillare con la nuova direttrice, che non è di Taranto. L’unica realtà tarantina che ha saputo emergere a livello nazionale è la Ionian Dolphin di Carmelo Fanizza.

Ora però arriveranno tanti soldi che, se spesi bene, potrebbero dare una luce diversa alla città.

«Mi auguro che questi fondi vengano gestiti da chi sa gestirli».

Taranto? “Questa è una città da commissariare”. Quello che i giornalisti…tarantini non hanno il coraggio di scrivere. Il Corriere del Giorno Lunedì 18 Dicembre 2017. Permetteteci di complimentarci con l’amico e collega Enzo Ferrari direttore del quotidiano Taranto Buona Sera , uno dei pochi giornalisti seri e capaci  in un deserto intellettuale e culturale come quello del giornalismo tarantino, per l’intervista odierna al collega tarantino Angelo Mellone, che anni fa ha avuto l’intuizione e la buona idea di trasferirsi anni fa a Roma per fare una carriera (in RAI) degna di essere chiamata tale. Angelo Mellone nella sua intervista dice delle verità, esprime dei concetti di cui condividiamo parola per parola, a partire dalla vertenza Ilva-Taranto, che nel suo complesso, sembrerebbe essere costata 16 miliardi di euro. “Un danno enorme prodotto dal peggior meridionalismo e dalla peggiore grettezza culturale che una parte di Taranto ha sfoggiato in questi anni“. “A quale Taranto si riferisce?” gli chiede Enzo Ferrari.  “A quella lagnosa, vitttimista, rivendicazionista e autolesionista – risponde Mellone – della quale fanno parte pezzi di giornalismo e ambientalismo che con la loro propaganda continuano a fare un male devastante a Taranto“. “Ce l’hai con gli ambientalisti” continua Ferrari. “L’ambiente è un tema troppo serio per relegarlo a gruppi che hanno necessità di trovare qualcuno a cui aggrappare le loro lagne. Come io non sono industrialista, loro non sono ambientalisti. Ci sono vie di Roma – dice Mellone – lo dicono i dati dell’Istituto Superiore della Sanità  che hanno valori di inquinamento superiori a quelli di via Machiavelli, ai Tamburi. Eppure a Roma nessuno si è mai sognato di far girare manifesti che ritraggono i bambini con la maschera antigas. In quei manifesti c’è tutta l’impotenza culturale di questi della paura. Giocare sulla pelle dei bambini è una operazione indecente, folle, terribile“. “Credi che riusciremo ad uscire da questa vertenza così lacerante?”  “La vertenza si risolverà, – risponde Angelo Mellone – nonostante la minoranza urlante, la borghesia inutile, l’inesistente classe dirigente della città. Io mi auguro che alla fine si possa davvero arrivare all’ambientalizzazione dello stabilimento e alla bonifica del territorio. Ma se la vertenza si risolverà sarà sempre per un intervento esterno, non per ciò che la città è in grado di produrre“. “Vuoi dire che Taranto da sola non riuscirà mai a farcela?” domanda Enzo Ferrari. “Taranto è una città di proprietà dello Stato. – risponde Mellone –  Senza lo Stato resterebbe solo la borghesia inutile e parassitaria. E lo dico con dolore. Pensiamo che in oltre mezzo secolo di siderurgia non è mai nata una impresa di trasformazione dell’acciaio. Taranto andrebbe commissariata, non è in grado di governarsi, è vissuta sempre grazie all’intervento esterno e quando lo Stato ha cominciato a ritirarsi sono arrivati i dolori” che rispondendo alla domanda  “qualche segnale incoraggiante arriva dalla valorizzazione di alcuni simboli della nostra cultura, come il Castello Aragonese e il Museo non credi ?”  conclude ricordando qualcosa che ai tarantini sfugge “Il Castello è stato rilanciato dall’ammiraglio Ricci, che non è di Taranto, e il museo ha ripreso a brillare con la nuova direttrice, che non è di Taranto. L’unica realtà tarantina che ha saputo emergere a livello nazionale è la Ionian Dolphin di Carmelo Fanizza”. Un pò poco per sperare in un risveglio socio-economico-culturale della città di Taranto.  Marco Travaglio in un suo intervento al concerto tarantino del 1 maggio  disse che “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”.  Una sacrosanta verità. Il problema è che ancor prima di comprare i giornali, si sono comprati con quattro soldi i giornalisti. Quasi tutti. A partire da qualcuno che infatti è “specializzato” nel pubblicare interviste su commissione, rigorosamente in ginocchio (come scrisse tempo fa il Nuovo Quotidiano di Puglia) , qualcuno che predilige occuparsi di “monnezza”. La sua specialità…

Povera la mia Taranto: distrugge il suo futuro uccidendo le industrie. I veleni hanno ormai annientato la città. E la miopia degli ambientalisti boicotta il rilancio. Angelo Mellone, Domenica 17/11/2013 su Il Giornale. Taranto a novembre si regala una tramontana che spazza il cielo da ogni nuvola e fa apparire i monti calabri a un tiro di schioppo. Il lungomare della città sfodera un tramonto dove è possibile contare almeno dieci sfumature di colori. Questa è la bellezza incredibile dei tramonti tarantini, accucciati tra il castello Aragonese e le due isole che proteggono la città dalla forza delle maree. Solo che nel quadro di colori surreale e surrealista, il lungomare è vuoto, e siamo in due, solo in due assieme un vecchietto con la canna da pesca, a farci compagnia sotto la statua del Marinaio. Alle spalle di questo vuoto di anime c'è il palazzo dell'Ammiragliato, storica e secolare istituzione tarantina: è notizia fresca che sarà trasferito a Napoli. Una collega, sconsolata: «Non siamo su Scherzi a parte ma poco ci manca»: la flotta e l'arsenale tarantini ridotti a succursale dell'isoletta di Nisida, sotto Posillipo. Incredibile. La partenza dell'Ammiragliato, in fondo, è come amputare uno dei due polmoni identitari di quella che è ancora la capitale industriale e militare del Mezzogiorno: seppur ferita, spaventata e violentata da una micidiale saldatura tra i danni dell'industrializzazione e una campagna autodistruttiva di immagine che l'ha ridotta mediaticamente a un inferno di diossine e malattie. Comincia qui questo reportage involontariamente stralunato, perché basta fare pochi passi lungo il canale navigabile e osservare, ancorato nel porto militare di Mar Piccolo, l'incrociatore Vittorio Veneto, un pezzo storico, in disarmo, della nostra flotta. Fa strano sapere – un misto di dolore e rassegnazione – che la sua trasformazione in museo storico, progetto da 15 milioni di euro, sarà realizzato, ma a Trieste o a Genova: a Taranto no. Non ci sono i soldi. Gli enti locali tacciono. Sono presi da altri problemi, ultima dei quali la raffica di avvisi di garanzia che la magistratura ha distribuito con generosità ai vertici della classe politica locale, accusata di aver chiuso più di un occhio di fronte alla violazione ripetuta delle norme ambientali da parte dell'Ilva. Ci mancava solo la diffusione di una telefonata tra il presidente della Regione Nichi Vendola e l'ex capataz delle relazioni istituzionali Ilva, Girolamo Archinà, per accelerare ulteriormente il ventilatore che sparge letame sui ruderi di una classe dirigente. Taranto resta la più grande città operaia italiana ma una frazione di cittadinanza ha ormai deciso che l'industria va espulsa da Taranto. Il governo, e la maggioranza silenziosa della città la pensano diversamente, nessuno degli ambientalisti è mai riuscito a spiegare oltre gli slogan in cosa consisterebbe la «riconversione» della città, ma intanto la deindustrializzazione procede per inerzia, persino nelle frontiere della green economy. Mesi fa gli emissari di Rotterdam, arrivati a Taranto per studiare la possibilità di una joint venture a trazione industriale con il porto tarantino, che ha le potenzialità retroportuali più profittevoli del Mediterraneo, sono scappati a gambe levate. Poche settimane fa ha chiuso i battenti la Vestas, multinazionale del fotovoltaico che produceva le turbine per le pale eoliche, e 120 operai sono stati lasciati a casa. Il gruppo Marcegaglia dal 31 dicembre lascerà a casa 140 lavoratori che qui fabbricavano pannelli coibentati e fotovoltaico. Mentre la pluripremiata proprietaria dell'hotel Arcangelo mi prega di scrivere che a Taranto si può fare buon turismo, comprendo che ormai la polvere rossa sputata dallo stabilimento non ha intossicato solo i corpi. «La città va risanata anche nelle coscienze», mi confida un assessore comunale. E ha ragione. Si respira una cattiva aria di contrapposizione e di risentimenti, a Taranto. Odio, paura, un linguaggio di sospetto e di violenza. Qualche giorno fa i ministri dell'Ambiente e della Salute, Orlando e Lorenzin, sono stati accolti dal grido «assassini», accusati da una minoranza livorosa in cui coabitano l'operaismo desindacalizzato e il populismo ambientalista. I contestatori pretendono un «risarcimento» che in altre parole significa fiumi di denaro pubblico distribuiti per coprire l'agonia in punto di morte delle acciaierie e il collasso dei livelli occupazionali. Nessuno che si chieda, nel frattempo, come mai non c'è una sola azienda tarantina che produca manufatti con l'acciaio dell'Ilva. Un paradosso che racconta molto di più delle statistiche terribili sui tumori. La sfiducia verso un'Ilva ecocompatibile è in alcuni casi gridata, in altri conchiusa nel solito scetticismo silenzioso dei meridionali. Eppure è l'unica reale speranza per evitare che la città, che dieci anni fa ha fatto bancarotta tra gli scandali, diventi una Detroit italiana, violentata nella memoria collettiva e sequestrata da un futuro di nuova emigrazione massiccia. La città convinta di essere «il Nord del Sud», è un lontano ricordo. I tempi d'oro sostituiti dai compro-oro. Poli di buona occupazione come i call center di Teleperformance resistono, in un deserto sofferente. Chiudono negozi storici nella centrale via d'Aquino, la squadra di calcio infognata nei campionati di provincia. I bar vicini a Maricentro che non sono stati ingoiati dai cinesi offrono cappuccino e cornetto a 1 euro. I quartieri operai di cui con grazia e dolore racconta Mimmo Argentina nel Vicolo dell'acciaio (Fandango) sono silenziosi, in smobilitazione identitaria. Il turismo, balneare e culturale, è ancora chimera come le parole eccitate di chi assicura di sapere su quali fondali sta la mitica statua di Zeus, alta 18 metri, più grande e antica del colosso di Rodi. «Sarebbe un simbolo incredibile di lancio della candidatura», esclama. Magari non si dovesse ancora discutere dello sfratto dell'istituto musicale Paisiello, o della sorte del museo archeologico la cui ristrutturazione doveva essere conclusa sette anni fa. L'ipotesi di candidare Taranto a capitale della Cultura 2019 poteva essere, finalmente, un volano di buona mobilitazione di energie, idee e denari. Ma anche quest'idea, perseguita da una minoranza virtuosa di intellettuali, si è arenata nella bocciatura dei Beni culturali. Ci sono Lecce e Matera, invece, ancora in pista: alcuni erano convinti che la solidarietà meridionale avrebbe spinto queste città a convergere a sostegno di Taranto che, per tanti anni, aveva accolto manodopera da questi angoli del Sud. Evidentemente, avevano torto.

 Clima, al via il summit globale: le voci dei ragazzi di Greta dentro e fuori il Palazzo di Vetro. A fianco di leader mondiali, autorità locali, organizzazioni internazionali e rappresentanti del settore privato e della società civile, vi saranno alcuni giovani attivisti. Tra cui ovviamente la stessa Greta Thunberg. E per l'intera settimana dell'Assemblea, performance di protesta, die-in, concerti ed eventi. Giulia Pozzi il 23 settembre 2019 su L'Espresso. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, lo ha detto chiaramente: il Climate Action Summit,  al Palazzo di Vetro il 23 settembre, cade nel contesto di una «drammatica emergenza climatica». Un’analisi confermata dall’Organizzazione mondiale della Meteorologia, secondo cui gli anni compresi tra il 2015 e il 2019 saranno probabilmente riconosciuti come i cinque più caldi di sempre, e la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è ai massimi storici. Non solo: un nuovo rapporto Onu afferma che l’attuale modello di sviluppo sostenibile, composto da 17 obiettivi messi a punto per assicurare un futuro di prosperità al nostro pianeta, rischia di subire un’involuzione. L’allarme riguarda soprattutto il clima, tredicesimo punto dell’Agenda 2030. E non è un caso che proprio 17, ciascuno in rappresentanza di un obiettivo, fossero i velieri che hanno accompagnato lo sbarco nel porto di New York di Greta Thunberg, 16enne svedese divenuta simbolo della lotta al climate change. Lo scopo del Summit sarà quello di ottenere un impegno concreto per mantenere l’innalzamento della temperatura globale entro il limite di 1,5 gradi Celsius, per ridurre le emissioni di CO2 del 45 per cento entro il 2030 e azzerarle entro il 2050. Il tutto, in vista del termine del 2020 fissato dagli accordi di Parigi, entro cui gli Stati dovranno presentare i propri piani per il clima aggiornati. E a spingere in questo senso al vertice, a fianco di leader mondiali, autorità locali, organizzazioni internazionali e rappresentanti del settore privato e della società civile, vi saranno alcuni giovani attivisti, scelti tra i circa 600 invitati a partecipare allo Youth Climate Summit dell’Onu di sabato 21. Tale piattaforma è stata pensata per consentire ai “campioni del clima” di nuova generazione di presentare le proprie raccomandazioni. Tra questi, naturalmente, la stessa Greta. Ma è soprattutto fuori dal Palazzo di Vetro che i giovani stanno facendo sentire la propria voce. Dal suo approdo a New York a bordo della Malizia II, barca a vela a emissioni zero, la 16enne svedese è stata protagonista di una manifestazione davanti alle Nazioni Unite, di un sit-in di fronte alla Casa Bianca e del Global Climate Strike del 20 settembre. E almeno fino al 27, la settimana del clima vedrà una mobilitazione globale senza precedenti. “Fridays For Future” ha contato più di 3000 azioni programmate in 117 Paesi. Occhi puntati sugli Stati Uniti, che, ha sottolineato Greta, «hanno la responsabilità morale» di guidare il movimento. Attesa una partecipazione di 10 volte superiore a quella registrata a marzo e maggio, con più di 140 città aderenti. E in previsione del Global Climate Strike di venerdì scorso, il Dipartimento dell’Istruzione di New York ha deciso di tollerare l’assenza degli studenti che hanno marciato per il clima. Tante le organizzazioni impegnate nella mobilitazione, coordinate dal network di giovani leader “Future Coalition”. Tra queste, “Zero Hour”, fondata nel 2017 dalla 16enne Jamie Margolin a partire da un ristretto gruppo di amici. Altri due volti della lotta al climate change negli Usa, al fianco di Greta durante la sua recente visita alle Nazioni Unite, la 17enne Xiye Bastida, di “Fridays For Future NYC”, e Alexandria Villaseñor, che a 14 anni è già fondatrice di “Earth Uprising”. Tra i più noti giovani attivisti americani c’è anche la 16enne Isra Hirsi, che un anno fa ha lanciato la Youth Climate Strike Coalition. Sulla lista di richieste presentate dal suo movimento, una transizione completa alle energie rinnovabili entro il 2030, lo stop ai permessi per l’estrazione di combustibili fossili, la protezione delle comunità a rischio, degli indigeni e della biodiversità. Le azioni programmate, sostenute da organizzazioni come 350.org e Greenpeace, comprendono performance di protesta, die-in (sit-in in cui viene simulata la morte dei manifestanti), assemblee pubbliche, concerti ed eventi come #BellForFuture, #TreesForFuture, #ScientistsForFuture e #BikeStrikes. L’auspicio è che la voce delle nuove generazioni giunga forte e chiara ai leader riuniti alle Nazioni Unite per la settimana dell’Assemblea Generale. Per usare le parole di Bastida, «la protezione dell’ambiente (…) dovrebbe essere parte della nostra cultura. I giovani stanno lavorando per questo; ora serve che tutti si uniscano a noi».  

Riccardo Barlaam per il Sole 24 ore il 23 settembre 2019. Uno scricciolo. Una ragazzina piccola, esile e silenziosa. Che quando parla però scandisce bene le parole. Le tira fuori dai suoi silenzi, quella disabilità che ha scoperto di avere a undici anni: «Sono i miei superpoteri». Parole chiare, semplici, senza mezzi termini, che pesano e interrogano i potenti del mondo e che, assieme alla sua protesta settimanale davanti al parlamento svedese, l’hanno fatta diventare in breve icona di una generazione, assurta a simbolo globale della lotta contro il cambiamento climatico. Greta non sorride quasi mai. Ma è determinata, come pochi. Concentrata su quello che vuole ottenere, forse anche per via della sua sindrome da Forrest Gump. Ascoltare questa giovane di 16 anni che parla lentamente, gli occhi da cerbiatta sul viso tondo, i capelli raccolti in una lunga treccia, mi ricorda i versi del Magnificat, dell’umiltà e della grandezza, dei potenti sui troni e dell’infinitamente piccolo. Provate a chiedere a dieci persone che faccia abbia Antonio Guterres, il segretario delle Nazioni Unite che ha dedicato l’Assemblea Generale che inizia domani proprio al clima, chiamandola Climate Action Summit: pochi vi risponderanno. Provate a chiedere alle stesse persone chi è Greta Thunberg: tutti, anche i più distratti, vi diranno che conoscono questa ragazza svedese. Sedici anni, di Stoccolma, una famiglia come tante. Una sorella più piccola, Beata, e due genitori che la sostengono amorevolmente: il padre Svante Thunberg, attore svedese di teatro e tv - che in questi giorni a New York la segue dietro le quinte e cerca di proteggerla da questa ubriacatura di celebrità inaspettata - e la madre, il mezzo soprano Malena Ernman. Quando di anni ne aveva solo otto la piccola Greta ha sentito per la prima volta parlare dei cambiamenti climatici. Non capiva perché nessuno facesse qualcosa per fermarli. A 11 anni ha deciso di agire, nello stesso periodo in cui i genitori hanno scoperto la forma di autismo - la sindrome di Asperger - che aveva nascosta da qualche parte. Il silenzio, quello che lei chiama «il mio mutismo selettivo», è stato il primo passo per maturare dentro sé le sue capacità, seguito dalla necessità di voler agire, di voler fare qualcosa di concreto. «Dico a tutti i ragazzi: non sottovalutatevi, abbiate fiducia nelle vostre capacità, siate creativi. Ogni azione può avere un impatto. Nessuna cosa è troppo piccola per cambiare il mondo». L’idea degli scioperi per il clima le è venuta a febbraio di un anno fa: aveva sentito dei ragazzi in Florida che scioperavano dopo l’ennesimo attentato con le pistole in una scuola. Ad agosto ha cominciato a protestare davanti al Riksdag, il parlamento svedese. Ogni giorno, dalla mattina alla sera, per tre settimane di fila, in silenzio con il suo cartello di compensato verniciato di bianco - lo stesso che ha qui oggi con sé sottobraccio - con la scritta a mano a caratteri grandi “Skolstrejk for klimatet”, sciopero scolastico per il clima. Ai primi giornalisti incuriositi da quella ragazzina seduta davanti alla recinzione del parlamento aveva spiegato che era lì per chiedere ai deputati di ridurre le emissioni inquinanti come chiesto dall’Accordo sul clima di Parigi: «Faccio questo perché gli adulti stanno cag… sul mio futuro», aveva sentenziato senza giri di parole. Gli scioperi sono diventati settimanali, ogni venerdì. È nato il movimento “Fridays for future” che ha ispirato in appena sei mesi un milione e mezzo di teenager in tutto il mondo, Italia compresa. I social network hanno fatto il resto. Greta è diventata il simbolo di questa protesta. Ha parlato alla Conferenza Onu sul clima in Polonia, poi al summit di Davos. A luglio il segretario dell’Opec, il cartello dei paesi produttori di petrolio, ha detto che Greta e gli altri giovani attivisti per il clima rappresentano «la più grande minaccia» all’industria dei combustibili fossili. Lei dice: «È stato il più grande complimento che abbiamo ricevuto». È arrivata a New York a Battery Park accolta da migliaia di persone, dopo un viaggio di 15 giorni su una barca mossa da pannelli solari. Invita le persone a non usare più gli aerei per non inquinare. Idea radicale e un po’ utopica, impossibile con le tecnologie attuali da mettere in pratica, considerando i commerci e la velocità con cui viviamo e ci spostiamo. Ma le parole dell’oracolo-bambina spingono politici e aziende ad agire e le persone a interrogarsi per mutare le abitudini di consumo. L’ambientalismo con l’emergenza climatica non si può ridurre a una battaglia di destra o di sinistra, di favorevoli o negazionisti. È una battaglia di tutti, dell’umanità. Un’occasione per le nazioni di rivedere i loro modelli di sviluppo e di crescita. Le politiche per la tutela delle acque, del paesaggio, il consumo di suolo, il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico di borghi e città d’arte – in Italia potrebbe essere la molla per far ripartire l’edilizia - la conversione a tecnologie pulite, e così via. I ragazzi degli scioperi del clima chiedono un “Green new deal”, un grande patto verde che possa essere anche un’opportunità di sviluppo per le imprese e l’occupazione. Greta parla all’Assemblea Generale dell’Onu dei capi di stato e di governo. Il suo discorso è quello più atteso. Più di Guterres, più di Donald Trump. Una piccola ragazza davanti ai potenti del mondo. «All’Onu e a Trump dico che non bisogna ascoltare me ma quello che dicono gli scienziati. Bisogna ammettere che quello che è stato fatto finora non è stato sufficiente e che c’è un’emergenza climatica: da 12 anni i politici parlano di ridurre le emissioni ma non fanno niente». Non è troppo tardi per salvare il pianeta, dice lei. «Gran parte degli studi scientifici sostengono che è ancora possibile evitare gli scenari peggiori». Lo slogan è: “Action now”. «Agire adesso per trovare soluzioni nei territori locali e non solo più dichiarazioni internazionali». Greta ha parlato al Vertice dei ragazzi Onu, accolta da una vera e propria ovazione. E ha marciato assieme ai giovani di New York e idealmente assieme ai milioni di persone che hanno manifestato in 150 paesi del mondo per il Global Climate Strike: una partecipazione stimata da due a quattro milioni di ragazzi al grido di «Salviamo il nostro pianeta, è l’unico che abbiamo». «Lo sciopero globale è stato un evento gigantesco. Insieme stiamo cambiando il mondo ma ognuno può essere leader di questo movimento». Un buon punto di partenza è quello di «informarsi per capire la portata del problema. Poi ci sono tante cose che possiamo fare nella vita di tutti i giorni». Lei parla di diventare vegani - come se bastasse - non volare più, diminuire gli acquisti, cambiare gli stili di vita. «La gente quando mi incontra spesso mi chiede che cosa penso del futuro. Se sono ottimista o pessimista. Io dico sempre che sono realista. Ma non possiamo chiudere gli occhi e fare finta di niente. Dico che ci salviamo se facciamo quello che ci viene richiesto e se mettiamo davvero in campo delle azioni che prevengano quello che gli scienziati dicono accadrà». Ridurre le emissioni non è sufficiente, secondo lei. «Le risorse del nostro pianeta sono limitate: è il nostro modello di crescita che va rivisto. Ci sono sette miliardi di persone nel mondo. Ci sono catastrofi per il cambiamento del clima che stanno arrivando in molte parti del mondo e che impatteranno sulla vita di centinaia di milioni di persone se non ci muoviamo in fretta. Le decisioni che i politici prendono o non prendono oggi impattano sulla vita di noi giovani che saremo gli adulti di domani. Chiediamo di avere un futuro. È troppo secondo voi?»

Da Huffingtonpost il 24 settembre 2019. Dura tutto una manciata di secondi. Greta Thunberg è in piedi, pronta a fare il suo ingresso al summit sul clima delle Nazioni Uniti a New York, quando a un certo punto si palesa Donald Trump, e le passa di fronte. Emozioni diverse si alternano sul volto dell’attivista svedese nel trovarsi quasi faccia a faccia con l’uomo che ha definito il cambiamento climatico una “fake news”. La scena circola insistentemente sui social media e il Daily Mail ha intervistato un’esperta di linguaggio del corpo per capire quale non detto si celava nel suo sguardo. “La sua faccia si è trasformata. Prima perplessità, poi quelli che io chiamo gli ‘occhi coltelli’”, dice Patti Wood, descrivendo l’improvvisa curvatura delle sopracciglia di Thunberg. Successivamente la sedicenne spinge la lingua contro la guancia, per “controllare l’istinto di mostrarla”. Wood ha spiegato che la reazione fisica di Greta è stata probabilmente accentuata dalla sindrome di Asperger. “Alcune persone affette da Asperger non sono così abili nel controllare i segnali che inviano ad altre persone”, ha detto Wood, che ha sottolineato come la rabbia non sia immediatamente scomparsa dal suo volto - non era dunque rivelata da una microespressione - ma è persistita.

Greta, quando l’Ego adolescenziale diventa politica. Nicola Porro il 25 settembre 2019. Ideologia a parte, cosa si nasconde dietro le trecce e il broncio di Greta Thunberg? Max Del Papa, giornalista e saggista, ci invia una riflessione per capire meglio l’eroina ambientalista. A Cassandra trecciolina non piace venire sgretolata da Trump, l’hanno addestrata al culto di sé stessa. Anche quando la sgamano a pasteggiare tra vassoietti e bottiglie di plastica nello scompartimento esclusivo di un treno ad alta velocità, inquinante come ogni cosa di questo mondo, lei non gradisce e si rifugia in un lamento molto conveniente, molto politicante: vogliono zittirmi, ma io non tacerò. Giovanna d’Arco in cerata gialla, come un nostromo sotto un fortunale, ha tenuto il suo diario di bordo sullo sloop monegasco a colpi di tweet, anche questo un bello spreco di energia, se la legge sull’entropia ha un valore. Sarà che la legge è uguale per tutti ma per qualcuna è più uguale e così va di moda una somma ambiguità sulla lunatica fanciullina: scusarla per ogni escandescenza o idiozia, “è solo una bambina e per di più in disagio mentale”. Ma facciamo a capirci: se è solo una giovane dissociata, allora non va presa sul serio; se invece è la coscienza globale di una generazione, in grado di strigliare “i potenti”, offuscare gli scienziati e meritarsi un curioso Nobel per la Pace, allora può, deve ricevere le critiche e gli attacchi del caso; deve saperli assorbire, deve sapere rintuzzare le obiezioni con la forza della conoscenza. Non della egolatria incoerente: non era lei a ripetere che non aveva tempo per quell’ignorante di Trump? Fra le critiche, una su tutte: Greta ha definitivamente sdoganato alcuni difetti preadolescenziali quali l’isteria narcisistica: migliaia di ragazzine come lei che o si mettono di colpo a sbraitare, non si sa bene contro chi o cosa, oppure erompono in pianto disperato: non voglio morire, fra dieci anni saremo tutti essiccati. Deliri senza causa, che riposano su una orgogliosa ignoranza di ogni nozione e qui scatta il secondo guasto collaterale: la ingenerata convinzione che studiare non serva, andare a scuola sia inutile, una pericolosa diffidenza, se non disprezzo, per la scienza in nome della quale però si “sciopera”, tutto risolto a botte di slogan insulsi, da juke-box jettatore: potenti, ci avete ingannato, il mondo sta per finire, noi giovani siamo invincibili e abbiamo la verità, voi vecchi morirete presto, siete brutti, sporchi e in malafede anche se ci pagate i vizi e desideri che nessuna generazione prima di noi ha potuto sognarsi. È il trionfo non dell’individuo, affogato nella massa conformista e vittimista, ma dell’individualismo egocentrico e piagnone che finge di guardare al mondo ma guarda il proprio ombelico: schiave bambine, bambini comprati e venduti, dirottati e spariti, adolescenti che crepano di fame, di sete, di malattia o di miniera, ma Greta ringhia: mi avete portato via i sogni, come osate? A lei, capite? Ed è appena scesa dal panfilo di una famiglia petroliera, gira il mondo sui supertreni e può fare la schifiltosa sul menu. Può permettersi anche di non seguire le lezioni e in più ci fa la vittima: dovrei essere a scuola invece sono qui a sacrificarmi per l’umanità. Dicono i suoi fanatici a oltranza: poverina, è vittima di una manipolazione colossale e non se ne rende conto. Ma a sedici anni o te ne rendi conto o vai in manicomio, considerato che ti vanti di “vedere l’anidride carbonica depositarsi sui palazzi”. Greta, vogliamo dire, non induce alcuna solidarietà come non la induce la vittima che si presta al gioco losco; sempre più volonterosi della prima ora, d’altra parte, finiscono per detestarla: perché è detestabile, insopportabile nella sua presunzione di sedicenne sicuramente manipolata, ma che sa benissimo di essere manipolata. Non si può sempre indulgere su tutto, specialmente con la testimonial della grande rapina al treno della modernità: dietro le trecce di Greta sta il rifiuto della ricerca, dell’analisi, della realtà, della verità a premio della spoliazione dei poveri, come sempre, col pretesto dell’etica urgente: cambiare il mondo è necessario, non c’è più tempo, ma bisogna fare dei sacrifici e li farete voi straccioni. O, come ha detto la incredibile ex ministro all’Ambiente del Canada, Christine Stewart: “Chi se ne importa se la scienza del riscaldamento globale è tutta falsa, è un’occasione unica per rifare il mondo più uguale e più giusto”. Tutto il gretismo, o gretinismo, sta qui: in una malefica propaganda postmarxista che tinge di verde il rosso antico, ciò che un filosofo conservatore come Ryszard Legutko ha spiegato benissimo. Ma Legutko è difficile, non lo legge nessuno, Greta è facilissima e la seguono tutti. Tranne Trump.

Clima di censura tra scienziati: vietato parlare male di Greta. Gli studiosi che osano confutare l'emergenza climatica bollati come «negazionisti». Il caso del convegno dei Lincei. Giuseppe Marino, Mercoledì 25/09/2019, su Il Giornale. Non c'è bisogno dell'olio di ricino: per un pestaggio bastano le parole. Succede che un gruppo di otto scienziati italiani rediga un documento che contesta l'allarme sul cambiamento climatico e il legame con le attività umane, una «Petizione sul Riscaldamento Globale Antropico». Il documento viene diffuso tra i colleghi senza particolare battage mediatico, soprattutto se comparato all'eco planetaria ottenuta dai fautori delle tesi opposte che hanno eletto a simbolo la giovane Greta Thunberg. Succede anche che, nonostante la disparità di forze, la petizione raccolga duecento firme di scienziati, tra cui quella del fisico Antonino Zichichi. Il testo viene inoltre tradotto in inglese e comincia a circolare fuori dall'Italia con un titolo più aggressivo: «European Declaration: There is No Climate Emergency». Si arriva in breve a 500 firme di studiosi di tutto il mondo e viene preparata una conferenza per discuterne a Oslo il 18 e 19 ottobre. Al centro dell'offensiva «scettica» ci sono tra l'altro dati presentati dal gruppo di studiosi che mostrano un aumento delle temperature minore delle previsioni dell'Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l'organismo dell'Onu che indaga il «climate change». Fin qui pare trattarsi di un normale confronto di idee, a fronte di un tema dalle tante implicazioni, anche politiche. Che però inevitabilmente attirano l'attenzione anche del movimento d'opinione che ha eletto il complesso discorso sul «global warming» a una forma di religione. In Italia il dibattito scientifico è subito diventato questione per curve da stadio. Succede ancora che l'Accademia dei Lincei organizzi un convegno sull'argomento previsto per il 12 novembre e inviti anche uno scienziato che sostiene tesi opposte a quelle dell'Ipcc, il professor Franco Battaglia, uno degli otto promotori originali della petizione (nel gruppo c'è anche il professor Franco Prodi). Un membro del comitato organizzatore del convegno, il professor Guido Visconti, climatologo di fama che non ha mai nascosto i suoi dubbi sul modelli di ricerca dell'Ipcc ma che conferma il rapporto tra attività umana e cambiamento climatico, si dimette in polemica con la scelta dei Lincei. Parte immediata la bastonatura contro il professor Battaglia. Il quotidiano Repubblica pubblica un articolo in cui sbeffeggia gli articoli del docente, storica firma del Giornale e punta a metterne in ridicolo l'attività scientifica. Il titolo dell'articolo, soprattutto, è già un marchio: «I Lincei organizzano un convegno sul clima. E fanno parlare il negazionista Battaglia». La scelta del termine è significativa: «negazionista» è il vocabolo usato per indicare gli estremisti convinti contro ogni evidenza che l'Olocausto sia una montatura del popolo ebraico. Un modo piuttosto scoperto non di confutarne le tesi scientifiche, ma la stessa legittimazione sociale a esprimere un'opinione. Con il risultato che ora appare lecito inserire questi studiosi in una lista di bersagli da colpire. Come fa il meteorologo Luca Mercalli in un articolo: «Comunque la petizione degli scienziati negazionisti ha almeno un vantaggio: rende disponibile ai nostri giovani studenti che, sollecitati da Greta Thunberg, lottano per il loro futuro, una lista autografa dei loro nemici». Frase che, in altri tempi, sarebbe stata degna dei «cattivi maestri» dell'estremismo rosso. Davvero un brutto clima.

Franco Battaglia 23 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Il Gretinismo sta diventando un’epidemia: ha colpito anche la prestigiosa Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che recentemente s’è fatto promotrice di una stravagante tesi secondo cui sarebbe possibile entro il 2050 soddisfare il fabbisogno energetico dell’umanità così com’è oggi soddisfatto, ma con emissioni zero di CO2. A sostenere la fantasiosa tesi è stata una conferenza a Pisa dello scorso 9 settembre, di cui mi piace riportare il riassunto della relazione di tale Roberto Buizza, professore, appunto, al Sant’Anna e maitre-à-panser della conferenza. La quantità di banalità (condite con alcune affermazioni decisamente false) raccontata dal professore, che si aiutava con una sequenza di una decina di diapositive, non sembra avere limiti. Nella prima diapositiva si viene edotti della seguente notizia-bomba: la CO2 in atmosfera è aumentata rispetto ai valori pre-industriali. Lo sappiamo tutti, professore, l’industrializzazione è coincisa con l’uso dei combustibili fossili, no? La seconda notizia-bomba è che viviamo un periodo di riscaldamento globale. Sappiamo tutti anche questo: innanzitutto, viviamo in un periodo interglaciale, essendo usciti dalla glaciazione circa 10mila anni fa. Ma, soprattutto, stiamo uscendo dalla cosiddetta Piccola era glaciale (Peg), un periodo di circa 300 anni, col minimo di freddo nei primi anni del 1700, e che fu il periodo più freddo degli ultimi 10mila anni. L’attuale riscaldamento, professore, si può vedere in molti modi, uno dei quali si chiama “regressione alla media”: quando per qualche ragione occorrono fenomeni che fanno discostare dalla media, è naturale una sequenza di altri fenomeni che tendono a ripristinare quella media. E l’uscita dalla Peg cominciò ben due secoli prima della industrializzazione. La terza banalità nella terza diapositiva: i ghiacci fondono un po’ di più che nel passato. Ma va’, professore? Cosa vuole che faccia un riscaldamento? Con la quarta diapositiva cominciano le imprecisioni: il professore c’informa che gli uragani sono aumentati, e allo scopo mostra una fotografia del recente Dorian. Ma avrebbe dovuto mostrare una tabella con l’elenco degli uragani nel corso degli anni. Se l’avesse fatto, avremmo imparato che, per esempio, l’America fu investita da 149 uragani (di cui 10 di forza 4) negli 80 anni compresi fra il 1850 e il 1930, e fu investita da 135 uragani (di cui 8 di forza 4) negli 80 anni compresi fra il 1930 e il 2010. Gli uragani sono diminuiti, per numero e per intensità, e i rapporti dello stesso Ipcc lo ammettono. Una perla di logica è la quinta diapositiva, col cui aiuto il professore sostiene che siccome l’Italia sarebbe esposta ai danni da cambiamenti climatici più d’ogni altro Paese, allora dovrebbe essere leader nella diminuzione delle emissioni più d’ogni altro Paese. Non sovviene al professore che anche se l’Italia fosse capace di azzerare le emissioni, i (presunti) danni che essa patirebbe sarebbero immutati se gli altri Paesi non recepiscono le preoccupazioni del professore. E nessuno ha intenzione di recepirle, posto che, sebbene è da vent’anni che tutti cianciano di voler ridurre le emissioni al di sotto dei livelli del 1990, nei fatti le emissioni sono oggi il 60% superiori a quei livelli. Altra perla di logica è la sesta diapositiva, ove il prof. lamenta che siccome la popolazione mondiale è cresciuta esponenzialmente nell’ultimo secolo, allora bisogna ridurre le emissioni di CO2. Ridurre la crescita della popolazione, no? Nelle diapositive 7 e 8 il professore sostiene che v’è un aumento di richiesta d’energia e quindi d’emissioni, e che bisogna trovare il modo per diminuirle, anzi azzerarle, soddisfacendo la stessa domanda d’energia. Ci garantisce che il modo c’è. Ma non ci dice quale sarebbe. Infatti il modo non c’è. Nell’ultima diapositiva il Nostro afferma che l’Uomo è responsabile del cambiamento climatico e chi dice il contrario sbaglia. Effettivamente, lo scorso giugno oltre 100 colleghi del professore – per lo più geologi, geofisici, fisici dell’atmosfera, astrofisici – sottoscrissero una Petizione sostenendo che quella della responsabilità dell’Uomo è una leggenda metropolitana. Siccome il Nostro subito protestò pubblicamente, allora il presidente promotore della Petizione, Uberto Crescenti, professore di Geologia applicata e già Magnifico Rettore dell’università di Pescara, lo invitò ad un confronto pubblico. Ma il prof. Roberto Buizza della Scuola Superiore Sant’Anna non ha risposto e, sollecitato, ha continuato a non rispondere. Forse non se la sente di reggere il confronto. Franco Battaglia, 23 settembre 2019

I gretini di oggi sono peggio dei cretini di ieri. Giancristiano Desiderio 24 settembre 2019 su Nicola Porro.it. Ogni volta che vedo i giovani protestare, sfilare e urlare slogan idioti che farebbero arrossire anche l’ultimo comunista della storia mi vengono in mente le sante parole di Goethe: “I giovani sono insopportabili e se li sopportiamo è solo perché ci ricordiamo di essere stati anche noi giovani”. È vero e, tuttavia, ricordo benissimo che io da ragazzo cazzate come quelle di Greta ed i suoi seguaci non le ho mai dette. Avrò detto certamente altre scemenze ma non quelle sull’esistenza di un mondo perfetto fatto a misura d’uomo e di giovani viziati. Ecco perché l’integrazione che Benedetto Croce faceva della frase del grande poeta tedesco è da manuale: “I giovani devono imparare a non dar fastidio e devono diventare adulti il più presto possibile”. Purtroppo, è più facile a dirsi che a farsi perché oggi si sa quando l’adolescenza inizia ma non si sa quando finisce e così ci ritroviamo con uomini anziani e donne mature che credono di essere l’incarnazione del fanciullino di Giovanni Pascoli. Qual è il difetto costitutivo dei giovani? Sono privi di esperienza ma pretendono di giudicare il mondo non solo come se lo conoscessero ma anche come se ne fossero i padroni. Cosa che fa sbellicare gli dèi. Questo mondo è brutto, sporco e cattivo e loro lo vogliono bello, pulito e buono. Madonna, una noia senza fine e un moralismo così pedante che ucciderebbe un elefante. Il mondo, amava dire Giordano Bruno, è fatto di pazzi e di savi e se tutti fossero pazzi o tutti fossero savi non sarebbe il luogo interessante che è che sta bene così com’è proprio perché è tempestoso e pericoloso e nei pericoli ognuno deve attenersi al suo dovere. L’idea di voler cambiare il mondo è sempre stata una fissazione dei cretini che con la scusa di renderlo migliore lo hanno reso peggiore e hanno fregato la povera gente. Ma fino a quando si tratta del mondo umano, beh, qualcosa si può forse ancora fare. Ma i ragazzi di oggi – come cantava quella lagna di Luis Miguel – non si accontentano della natura umana e pretendono di cambiare anche la natura della natura come se ne avessero scoperto nientemeno che la pietra filosofale. Purtroppo, non esistono più i cretini di una volta. Oggi ci sono i gretini. La differenza sta nel fatto che i cretini tutto sommato erano meno presuntuosi: i sessantottini ritenevano d’essere dei padreterni in terra e volevano l’uomo nuovo fatto a loro immagine e somiglianza. Quando i sessantottini, durante il maggio francese, sfilarono per le vie di Parigi, Emil Cioran si affacciò dalla finestrella del sottotetto dove sopravviveva e gridò profetico: “Finirete tutti a fare i notai”. I gretini sono boriosi e saccenti e credono d’essere direttamente il padreterno e s’intestano il potere di creare una nuova natura immutabile, senza cambiamenti, senza catastrofi, senza caldo e senza freddo. Insomma, il classico paradiso terrestre della santa religione e della sacra pubblicità che rende Vasco Rossi di Vita spericolata – “voglio una vita come Steve McQueen” – una specie di Zarathustra di Zocca. Alla base di ogni paradiso vi è un ideale edonistico. L’idea che il mondo sarebbe un luogo così bello e piacevole se non ci fosse qualcosa – la natura matrigna, la morte, il male – che ogni tanto va storto e ci impedisce di spassarcela tutti i giorni come vorremmo mangiando i frutti a portata di mano sugli alberi rigogliosi e felici. Ma, ecco l’idea geniale: il male si può eliminare perché è il frutto di alcuni cattivoni che ci rovinano la vita piacevole: il Capitalismo (sempre lui), gli Americani (sempre cattivi), le Industrie (sempre inquinanti). Basta eliminare queste cose e il mondo ritornerà ad essere come per magia, ma questa volta addirittura su base scientifica, il paradiso terrestre che è sempre stato o, se più vi piace, la bellissima isola dei beati dove nei fiumi scorrono il miele e il latte e la gazzella va a spasso con il leone. L’idea dei gretini è vecchia come il cucco ma ad ogni passaggio generazionale rispunta: noi sappiamo ciò che voi non sapete e abbiamo capito ciò che voi non capite e questo sapere ci rende buoni e superiori e ciò che vogliamo, superare i conflitti, il male, la libertà, è per il bene dell’umanità. Il fanatico convincimento d’aver capito come si elimina il male è la porta d’ingresso dell’inferno. Ci vuole pazienza, molta pazienza. Giancristiano Desiderio, 24 settembre 2019

AVETE CREATO UN CLIMA INFAME. Anna Guaita e Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 24 settembre 2019. «Come osate? State riponendo le vostre speranze per il futuro su noi giovani, mentre avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con parole vuote. Interi ecosistemi sono sull'orlo del collasso, e tutto quello di cui riuscite a parlare sono i soldi, e la favola di una crescita economica eterna». Gli occhi di Greta Thunberg sono umidi di lacrime mentre pronuncia il suo discorso al Summit per l'Azione Climatica che apre i lavori dell'Assemblea Generale dell'Onu. Le labbra contratte a contenere un'emozione troppo grande per i suoi sedici anni; forse per la rabbia di dovere essere cresciuta così in fretta in un solo anno dallo sciopero di protesta che l'ha proiettata sul palcoscenico mondiale. Il suo appello è di soli tre minuti, così come lo sono quelli di Papa Francesco: «Questa è la sfida principale del nostro secolo», e dell'ex sindaco di New York Michael Bloomberg, il quale promette una cordata di municipalità e di aziende private pronte a prendere in mano l'iniziativa assente a livello politico. Il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres ha imposto limiti vincolanti agli oratori: «Salite sul palco solo se avete proposte concrete da aggiungere al piatto della lotta contro i cambiamenti climatici. La mia generazione ha fallito, ma io ho l'obbligo di assicurare un futuro alla mia nipotina». Sessantasei paesi si sono allineati alla richiesta del segretario dell'Onu di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 45% entro il 2030, e di azzerarle per metà secolo. Dietro di loro ci sono 10 regioni, 102 città, 93 aziende, e le 130 banche con un portfolio di 47.000 miliardi che domenica hanno promesso di allineare le strategie finanziarie con quelle della sostenibilità ecologica. L'obiettivo diventa sempre più severo con il passare del tempo, ma è ancora raggiungibile. A sorpresa spunta anche Donald Trump nella sala: è in ritardo, e Greta ha già parlato. Siede per dieci minuti con le labbra appuntite dallo scetticismo, poi si alza e va a presenziare una discussione sulla repressione religiosa nel mondo. Per noi italiani, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio hanno portato una forte testimonianza ambientalista, l'impegno verso la svolta verde e il desiderio di ricoprire un ruolo da protagonista nella marcia verso il salvataggio del nostro pianeta. Nell'incontrare i giornalisti prima dell'apertura del Summit per l'Azione Climatica, Di Maio anzi si è detto particolarmente felice, in quanto esponente del movimento Cinque Stelle, «da sempre ambientalista»: «Solo cinque o sei anni fa sarebbe stato impensabile che l'Assemblea generale volesse approfondire il tema dell'ambiente constata -. Ma adesso c'è una sensibilità mondiale che può segnare il punto di svolta». Dal canto suo il premier Conte ha ricordato come l'Italia stia seguendo la strada delle energie rinnovabili da tempo: «Un merito che spetta al Paese chiarisce -, a un sistema che da anni lavora in questa direzione». E tuttavia spezza una lancia perché si capiscano anche i Paesi che hanno paura di «scalette drastiche», con «tempi ristretti», che «fanno temere chiusure di aziende e licenziamenti». Conte ammette di capirli, ma assicura di non arrendersi e a costoro cerca di far capire che il «riorientamento dei sistemi produttivi non è penalizzante, ma porta dei vantaggi».

Greta ai leader Onu: «Mi avete rubato i sogni e l’infanzia  con le vostre parole vuote». Pubblicato lunedì, 23 settembre 2019 da Corriere.it. «Gli occhi delle future generazioni sono su di voi. Non vi lasceremo farla franca, il mondo si sta svegliando, e il cambiamento arriverà che vi piaccia o no». Queste le parole che l’attivista Greta Thunberg, 16 anni, ha rivolto ai leader del mondo in apertura del vertice Onu sul clima. Thunberg, che è riuscita a trasformare il suo sciopero settimanale per l’ambiente in un movimento globale, ha apostrofato duramente i rappresentanti dei governo che partecipano al Climate Summit in corso al Palazzo di Vetro: «Venite da noi giovani per avere speranza. Come osate? Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote, eppure sono uno delle più fortunate». L’attivista svedese non ha parlato solo del futuro, ma anche del presente, dedicando un passaggio del suo discorso anche alle conseguenze negative che i cambiamenti climatici stanno già causando: «le persone stanno soffrendo e stanno morendo, interi ecosistemi stanno crollando».

Vertice sul clima, l'intervento all'Onu dell'attivista svedese: "Non dovrei essere qui, dovrei essere a scuola dall'altra parte dell'oceano ma voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote". Greta Thunberg su La Repubblica il 23 settembre 2019. È tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Come osate! Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote. Ciò nonostante, io sono una delle più fortunate. C’è gente che soffre. C’è gente che sta morendo. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E voi non siete capaci di parlare d’altro che di soldi e di favoleggiare un’eterna crescita economica. Come osate! Per più di 30 anni la scienza è stata molto chiara. Come osate continuare a distogliere lo sguardo e a venire qui a dire che state facendo abbastanza, quando non si vedono ancora da nessuna parte le politiche e le soluzioni che sarebbero necessarie? Con gli attuali livelli di emissioni, il nostro limite di CO2 rimanente sarà consumato in meno di 8,5 anni. Dite che ci “ascoltate” e che capite l’urgenza. Ma, a parte il fatto che sono triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se voi capiste pienamente la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E io mi rifiuto di crederci. L’idea diffusa di dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di possibilità di rimanere al di sotto di 1,5 gradi centigradi, con il rischio di innescare reazioni a catena irreversibili al di là di ogni controllo umano. Forse per voi il 50% è accettabile. Ma questi dati non considerano i punti di non ritorno, la maggior parte dei circoli di retroazione, il riscaldamento aggiuntivo nascosto provocato dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia ed equità. Contano anche sul fatto che la mia generazione e quella dei miei figli assorbirà centinaia di miliardi di tonnellate della vostra CO2 dall’aria con tecnologie quasi inesistenti. Un rischio del 50%, quindi, è semplicemente inaccettabile per noi, noi che dovremo convivere con le conseguenze. Per avere una possibilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5°C — la migliore probabilità fornita dall’Ipcc (Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici) — al 1° gennaio 2018 il mondo aveva 420 gigatonnellate di anidride carbonica rimanenti da poter emettere. Oggi questa cifra è già scesa a meno di 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto lasciando che tutto continui come prima e con qualche soluzione tecnica? Con gli attuali livelli di emissioni, quel limite di CO2 rimanente sarà completamente esaurito in meno di otto anni e mezzo. Oggi non verranno presentate soluzioni o piani in linea con queste cifre. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno. Ci state deludendo. Ma i giovani cominciano a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se scegliete di deluderci vi dico che non vi perdoneremo mai. Non vi permetteremo di farla franca. Qui, ora, noi diciamo basta. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o meno.

Fioramonti: «Giustificate  gli studenti  che scioperano per il clima». Pubblicato lunedì, 23 settembre 2019 da Corriere.it. In piazza per il clima con la benedizione del ministro. Ripartono i «Fridays for Future», gli scioperi del venerdì in difesa dell’ambiente lanciati dall’attivista svedese Greta Thunberg circa un anno fa e diventati in pochi mesi un fenomeno globale. Il primo appuntamento per gli studenti italiani sarà il prossimo 27 settembre. La novità di quest’anno è che mentre l’ex ministro leghista Marco Bussetti aveva più volte manifestato la propria contrarietà a questo genere di iniziative invitando gli studenti ad andare a scuola invece di scioperare, il suo successore grillino Lorenzo Fioramonti ha voluto smarcarsi, anche su questo specifico punto, dal suo predecessore dando la propria benedizione ai ragazzi. Non solo a parole ma con una circolare in cui si invitano le scuole a considerare giustificata l’assenza degli studenti. «In accordo con quanto richiesto da molte parti sociali e realtà associative impegnate nelle tematiche ambientali - spiega Fioramonti sul suo account Facebook - ho dato mandato di redigere una circolare che invitasse le scuole, pur nella loro autonomia, a considerare giustificate le assenze degli studenti occorse per la mobilitazione mondiale contro il cambiamento climatico». Il testo della circolare, firmata dal capo dipartimento del Miur Carmela Palumbo, invita inoltre i docenti «a valutare la possibilità che tale giornata non incida sul numero massimo di assenze consentite dal monte ore personalizzato degli studenti, stante il valore civico che la partecipazione riveste». Economista con la laurea in filosofia, docente di Economia Politica all’università di Pretoria e autore insieme alla moglie Janine Schall-Emden, militante ecologista, di un documentario sul cambiamento climatico dal titolo The age of adaptation (2009), il ministro Fioramonti ha già detto in diverse occasioni di volere rimodulare l’insegnamento dell’educazione civica previsto dal prossimo anno in tutte le scuole in modo da porre l’accento in modo particolare proprio sulla questione ambientale. A testimonianza della nuova sensibilità ecologica del ministero dell'Istruzione a guida grillina, da sabato scorso sulla facciata del Miur, in viale Trastevere, sventola uno striscione con lo slogan: «Istruzione, no estinzione». Sarà biodegradabile?

Da "it.notizie.yahoo.com" il 24 settembre 2019. Guance rosse, viso fiero, capelli biondi, rigorosamente raccolti in lunghe trecce. È il profilo di Greta Thunberg, la 16enne svedese. Qualcuno però ha accostato la foto dell'attivista a un'immagine della propaganda nazista. A scommettere sulla somiglianza - messa in evidenza con un parallelismo fotografico su Twitter - è stato lo scrittore di destra Dinesh D’Souza: "I bambini, in particolare le ragazze bianche nordiche con trecce e guance rosse, erano spesso usati nella propaganda nazista. Una vecchia tecnica di Goebbels! Sembra che la sinistra progressista di oggi stia ancora imparando il suo gioco da una sinistra precedente negli anni '30", ha cinguettato il commentatore americano. Il post in appena 15 ore ha ricevuto quasi 35 mila interazioni degli utenti, che lo hanno definito "odioso", "inquietante" e "offensivo". Altri si sono chiesti come abbia potuto semplicemente pensare a un simile accostamento, qualcuno lo ha definito un "criminale" e c'è chi ha azzardato un fotomontaggio di un detenuto con la faccia di D’Souza. Chi è stato al gioco ha scritto "Indossi una camicia e hai i capelli neri. Anche Hitler! Sei Hitler!". Nelle stesse ore in cui il post diventava virale Greta Thunberg, impegnata nello sciopero globale per i cambiamenti climatici, ha ritwittato il post di Friday for future Canada con lo sciopero per il clima previsto per il 27 settembre. Ignara di tutto o semplicemente non interessata ad alimentare una simile propaganda.

Stasera Italia, Maria Giovanni contro Greta Thunberg: "Ma quale catastrofe? Questa mattina..." Libero Quotidiano il 23 Settembre 2019. Nello studio di Stasera Italia, il programma di approfondimento politico condotto da Barbara Palombelli su Rete 4, si parla dell'ennesimo allarme lanciato da Greta Thunberg in lacrime alle Nazioni Unite, soltanto poche ore fa. E a rispondere indirettamente alla paladina green della sinistra ci pensa Maria Giovanna Maglie, che da sempre non condivide il livello con cui ci viene propinato l'allarme ambientalista. "Per quel che riguarda la domanda sul clima e le nazioni unite, sugli allarmi e gli aerei inquinanti, io la faccio breve - premette la giornalista -. Ho ritrovato questa mattina un articolo del 1989 del New York Times, in prima pagina grosso così, che dava conto di un rapporto dell'Onu che sosteneva che il mondo, se avessimo continuato così, non ci sarebbe più stato già nel 2000 per una catastrofe di proporzioni mondiali. E invece eccoci qui. Non ho detto che non ci sono problemi, dico che il catastrofismo politically correct è insopportabile. E che ci sono scienziati che la pensano in un altro modo", conclude tranchant Maria Giovanna Maglie.

Vittorio Feltri contro Greta Thunberg e i suoi seguaci: "Ragazzina antipatica che va protetta da se stessa". Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. A me Greta è antipatica anche se è una ragazzina che andrebbe protetta, soprattutto da se stessa perché invece di pensare al proprio futuro, va in giro col termometro in tasca per misurare la temperatura, come se fosse una novità che il caldo e il freddo si alternano in base alle stagioni. È sempre stato così. A volte si scoppia a causa del sole e a volte si trema, intirizziti. Chi scopre nel 2019 che il tempo è variabile di anno in anno è un povero allocco che si adegua alle mode chiamiamole pure culturali sebbene di culturale non abbiano niente. Quasi 60 anni fa, ricordo che a febbraio sembrava di essere in primavera. Me ne andavo a spasso sulle fantastiche mura di Bergamo indossando solo la giacca, addio cappotto. Nessuno si stupiva del tepore esploso. Era, se non sbaglio, il 1962, e in aprile all'improvviso ci fu una nevicata pazzesca che invero durò un paio d'ore, e l'indomani tornò il sereno. Ma non c'era Greta o Gretina a stracciarsi le vesti. Nella mentalità corrente dell' epoca tre gradi in più o cinque in meno non costituivano motivo di preoccupazione né, tantomeno, di scandalo. Al massimo la mamma, prima che tu uscissi di casa, ti diceva mettiti o togliti la maglietta di lana. Morta lì. Tragedie zero. Neanche un telegiornale, non un opinionista (allora fortunatamente non ce ne erano) ti ammorbava con previsioni catastrofistiche sui destini del pianeta, che continuava a roteare su se stesso senza rompere i coglioni all'umanità. Rammentate il ministro Sirchia del governo Berlusconi all'inizio degli anni 2000? Durante una estate particolarmente torrida invitò gli anziani desiderosi di resistere all'afa a trascorrere i pomeriggi nelle chiese, notoriamente fresche, o, meglio ancora, nei supermercati. Il suo suggerimento scatenò una pubblica ilarità. Sembrava una scemenza tipo le raccomandazioni della nonna. In realtà aveva ragione. O hai l'aria condizionata nel tinello oppure conviene che ti affidi alla parrocchia o all'Esselunga. Non ci fu un solo politico che ebbe una idea migliore allo scopo di trovare refrigerio. Soprattutto non ebbe spazio mediatico alcuna adolescente scriteriata che impose all'Italia e all'Europa di spegnere il mondo in fiamme. Adesso invece, nonostante il venticello giunto sospirato con settembre, Greta e i suoi numerosi seguaci rimbecilliti continuano a intossicarci l'anima con prediche di stampo ecologista invitandoci ad eliminare tutto ciò che, secondo una teoria da svitati, compromette l'ambiente. La realtà è che l'ambiente sono costoro a rovinarlo con la loro presenza di queruli scassaballe, ignoranti o meglio disinformati. Ascoltino semmai le parole illuminate del Nobel Rubbia, il quale spiega senza enfasi che la terra fa la terra e si comporta da sempre come le garba, regalandoci gelo e arsura a proprio piacimento. Le automobili diesel non c'entrano un tubo di scappamento col clima, come non si possono incolpare le tecnologie dei nostri eterni disagi, le quali semmai sono risorse utili a tenere in equilibrio le città, i continenti. Ciò che più sconvolge la vita non è certo il clima, ma sono i modaioli che illudendosi di beccare qualche voto degli ingenui si accodano a una bimbetta e la elevano a modello di moderna interprete di una ideologia salvifica. Mi riferisco in particolare a Zingaretti e a Di Maio la cui cultura è affine alla mancanza di cultura della piccola svedese. di Vittorio Feltri

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 settembre 2019. La lotta al gasolio è una delle cose più idiote degli ultimi anni. E proprio per questo vi partecipano molti cittadini influenzati dagli ecologisti da strapazzo, convinti che la Terra sia sul punto di esplodere. Risultato, l'economia soffre e rende più difficile la vita a tutti quanti. Il mercato dell' automobile sta andando a pallino con grave pregiudizio per vari Paesi, incluso il nostro. Ormai l'opinione pubblica, guidata da una élite di imbecilli, è convinta che l'umanità sia minacciata da cambiamenti climatici inesistenti. Ieri qualsiasi organo di stampa enfatizzava le manifestazioni mondiali al centro delle quali primeggiava la solita Greta, una ragazzina sprovveduta però sopravvalutata da una massa di deficienti, specialmente giovani, che si sono inventati un nuovo tormento, il clima. Siamo al solito delirio. Nel 1968 l'avversario era la borghesia. Avanzava il proletariato, interpretato come una religione dagli studenti, cioè i figli dei signori o aspiranti tali, l'emblema era l'eskimo, l'attività più intensa degli stolti di sinistra era l'occupazione delle aule universitarie con annessa assemblea. I fanciulli picchiavano i professori, protestavano contro non si sa chi, e ci andavano di mezzo i poliziotti e i magistrati, molti dei quali vennero allegramente assassinati. Furono anni di merda che mi toccò trascorrere rinunciando alla mia identità. Lavoravo alla Notte, giornale di destra, e mi fingevo un cronista dell'Ansa allo scopo di poter raccontare i fatti, assistendovi, per evitare il rischio di essere sprangato come un Ramelli qualsiasi. Un'epoca che ricordo bene ma che non rimpiango. Mai conosciuti tanti coglioni quanto in quel periodo di follia collettiva di stampo marxista. I marxisti si sono estinti per fortuna, mentre gli stolti sono vispi e dilagano ancora sotto la veste ecologista. Essi si battono contro il sole e l'aria cattiva e fanno trionfare la loro ignoranza. Credono di essere vittime, nella loro banale esistenza, dello scioglimento dei ghiacciai, che comunque non è comandato dai capitalisti. Mi vergogno a scrivere queste ovvietà, eppure devo farlo per motivi di coscienza assistendo a piazzate internazionali così dissennate. Si tratta di una guerra alla civiltà, al benessere. La decrescita felice, la rinuncia alle tecnologie avanzate: siamo di fronte a un degrado culturale allarmante. Cerchiamo di arginarlo. Non possiamo essere schiavi dei soliti adolescenti stolidi piloti della regressione.

Carola Rackete come Greta: ora fa l'ecologista. Dopo essere stata ospite di Corrado Formigli a Piazza Pulita, Carola Rackete ha partecipato allo sciopero globale per il clima a Berlino: "La Terra sta morendo e noi adulti siamo responsabili". Roberto Vivaldelli, Domenica 22/09/2019, su Il Giornale. Carola Rackete, la capitana della Sea Watch beniamina del partito Open Borders, segue le orme di Greta Thunberg - altra idola della sinistra chic - e si ricicla ecologista. C'era anche Carola Rackete allo sciopero globale per il clima a Berlino, a cui secondo gli organizzatori hanno partecipato nella giornata di ieri circa 80mila persone. "Noi adulti siamo responsabili per il fatto che la Terra sta morendo", ha detto Rackete rivolgendosi alla folla, invitando tutti a unirsi alla protesta del movimento Extinction Rebellion in programma per il 7 ottobre e promettendo che "non finirà qui". Intervistata da Corrado Formigli a Piazza Pulita l'altra sera, la 31enne tedesca ha sottolineato di non voler rispondere a Matteo Salvini e alle sue parole da Pontida. "Io vorrei dire che di professione faccio l'ecologista, ho un master in conservazione della natura, non mi interessa della politica interna italiana. Il nostro clima sta andando fuori qualsiasi regime, le temperature aumenteranno, l'umanità è di fronte a una crisi esistenziale" ha spiegato.

In uscita il nuovo libro della Capitana della Sea Watch. Frontiere aperte e Greta Thunberg: i totem ideologici della nuova Carola Rackete in salsa "green", che ora è pronta a pubblicare un libro in Italia, edito da Garzanti, in libreria il prossimo 14 novembre. S'intitola Il mondo che vogliamo e l'ambiente sarà uno dei temi principali affrontati dalla "Capitana", come si evince dalla scheda di presentazione: "Carola Rackete è molto più di quello che i media di tutto il mondo hanno raccontato in quei giorni concitati: è una attivista con una chiara visione e una fortissima passione civile, un modello per tanti ragazzi e ragazze che scelgono di impegnarsi per un mondo migliore, e con questo libro ci ispira a combattere in difesa dell'ambiente, dei diritti umani, del nostro pianeta, perché agire oggi non è più una scelta ma una necessità". Un modello, dunque. Peccato che i progressisti italiani si dimentichino un piccolo particolare: la capitana della Sea Watch è indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione dell’articolo 1099 del codice della navigazione contestato al comandante che non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale. Non propriamente una sciocchezza. E anche se ai progressisti desiderosi di spazzare via i confini questo non sembra interessare più di tanto, e da noi la capitana viene celebrata in maniera a dir poco stucchevole in tv, all'estero qualcuno si ricorda di fare delle domande, mettendo a nudo tutta la debolezza e superficialità delle sue argomentazioni. Ospite della trasmissione Hardtalk sulla Bbc, infatti, la 31enne tedesca è uscita piuttosto malconcia dal confronto con il conduttore televisivo Stephen Suckur, che non gliene ha fatta passare una e che l'ha messa davanti alla cruda realtà delle sue azioni.

Carola Rackete: dai migranti alla svolta "green". Dall'immigrazionismo all'ecologismo gretino il passo è brevissimo. D'altronde il mantra della sinistra chic è sempre lo stesso: i migranti scappano sempre di più dalle loro terre a causa dei cambiamenti climatici, che sono colpa dell'uomo (rigorosamente bianco). In ogni caso Carola è fortunata: a differenza di tanti suoi coetanei italiani - ma anche tedeschi - che ogni giorno devono recarsi in ufficio, piuttosto che in fabbrica per portare a casa lo stipendio, può tranquillamente permettersi di fare l'ecologista di professione e fronteggiare così i suoi sensi di colpa di essere bianca e occidentale. Carola, infatti, è figlia di quella sinistra liberal che appoggia una forma radicale e totalitaria di multiculturalismo che sottovaluta l'importanza di integrare gli immigrati nella cultura nazionale sotto il vessillo dell'antirazzismo militante. Proviene da quella cultura globalista da figli di papà annoiati che è, a differenza di ciò che lei crede, fortemente elitaria e provoca tensioni sociali soprattutto nei ceti meno abbienti. Perché, alla fine, per quelli come la "Capitana", tutta la colpa è sempre "nostra", dei bianchi occidentali, responsabili delle migrazioni così come dei cambiamenti climatici. E ora Carola si fa portavoce, insieme a Greta, del nuovo millenarismo green e climaticamente corretto.

Gianluca Veneziani per liberoquotidiano.it il 2 novembre 2019. L' invidia è un mostro dagli occhi verdi, anche quando ci si occupa di tematiche verdi. Lo sa bene Carola Rackete, la paladina dei migranti appena riconvertitasi alla difesa dell' ambiente: non essendoci più Salvini, deve aver capito che non vale più la pena far politica sulla pelle degli immigrati ma dà più visibilità fare prediche contro il riscaldamento globale. Sennonché quel posto è già occupato, quella battaglia viene già portata avanti da qualcun altro: una ragazza celebre di nome Greta che ha la metà degli anni di Carola ma il doppio del successo. E questo deve dare un po' fastidio alla comandante della Sea Watch, e alimentare quella competizione o gelosia tra donne che non perde mai occasione di affiorare. E così, intervistata ieri da Il Venerdì di Repubblica, la Rackete fa emergere il suo punto di vista critico sulla giovanissima attivista svedese. Sì, «ha grandissimi meriti», spiega, ma «non possiamo lasciare ai bambini o ai teenager certe responsabilità. Spero che alla fine saranno gli adulti ad attivarsi». E ancora: «Fridays for Future ha un solo leader, Greta. Nei movimenti è meglio avere più di un rappresentante». In un sol colpo Carola dà a Greta della bambinetta e dell' egocentrica, una che pretende di fare tutto da sola senza esserne in grado, mentre nel mondo «ci sono alcuni ragazzi strepitosi che stanno organizzando proteste, e di cui nessuno parla». Ah, gelosia carogna. È evidente che Carola lo dice anche per interessi personali, per auto-accreditarsi dal momento che lei stessa ora sta costruendo il suo profilo di attivista sul ruolo di testimone dell' allarme ambientale. Grazie alla sua immagine di eroina salva-profughi già gira per il continente come una trottola, facendo conferenze a destra e manca, venendo invitata in panel, appuntamenti ufficiali, sedi istituzionali. Ora intende far lo stesso come icona ecologista, promuovendo suo il libro in uscita dopodomani Il mondo che vogliamo (Garzanti), quasi una risposta a La nostra casa è in fiamme di Greta, e lanciando lo stesso monito a «salvare il pianeta» che potrebbe andare incontro a una catastrofe intorno al 2050 (un po' di originalità no, eh?). Anche sui rimedi per far fronte al dramma ambientale la ricetta di Carola è identica a quella di Greta. Indovinate un po'? Smettere di prendere gli aerei. Solo che la Rackete è ancora più drastica della Thunberg, cioè non si limita a fare appelli globali, a suggerire politiche agli Stati e ai potenti, ma pretende di poter interferire nella libertà personale. Per essere intervistata e fare promozione al proprio libro, ad esempio, ha imposto al giornalista del Venerdì di sobbarcarsi a un viaggio Roma-Vienna di tredici ore e quarantotto in treno, affinché non prendesse l' aereo, da lei giudicato troppo inquinante. Quando si dice rispettare il diritto all' autodeterminazione altrui. E ancora, Carola chiede che nel medio periodo tutti gli aerei si svuotino, le tratte si dimezzino e le stesse compagnie aeree falliscano, accorgendosi che quel business non è «più conveniente». A tal fine, iniziando a usare il Noi come il Mago Otelma, Carola profetizza: «Nel mondo che noi vogliamo gli aerei saranno usati pochissimo, e mai per andare in vacanza. Oggi c' è chi vola da Barcellona a Londra nel weekend solo per fare shopping. Questo non dovrebbe più accadere». Che vadano quindi in malora i resort thailandesi che vivono di turismo mondiale o i negozi di lusso frequentati da clienti internazionali. Che venga seppellito il libero commercio e il libero spostamento, in nome del fanatismo delle Carola di turno. Eccolo là, il totalitarismo ambientalista che non solo limita la libertà individuale ma auspica il fallimento di un intero sistema grazie a cui campano e lavorano milioni di persone. È l' Ideologia che pretende di affermarsi a prescindere dai costi umani, considerati effetti collaterali trascurabili, come nelle peggiori dittature del passato. Peccato tuttavia ci siano due contraddizioni non da poco. Carola cerca di impedire a tutti di spostarsi come vogliono, ma lei stessa consente a pochi (i migranti) di spostarsi dove non possono. Violando acque territoriali e norme internazionali. E ancora: lei si schiera ferocemente contro i voli aerei, ma si dimentica che gli spostamenti su nave - di cui è protagonista, essendo capitana di un' imbarcazione - sono inquinanti più di quelli su gomma. Si vede però che l' inquinamento delle navi ong è cosa buona e giusta e non impatta sulla salute del pianeta. Che il traffico di esseri umani sia per Carola l' unica forma di mobilità consentita?

Clima, Greta bacchetta l’Occidente ma si dimentica di Cina e India. Federico Giuliani su it.insideover.com il 22 settembre 2019. In Europa non si contano più le manifestazioni di giovani e giovanissimi in favore del clima. Le parole dell’attivista svedese Greta Thunberg hanno incantato intere generazioni e perfino i governi degli Stati meno inquinanti al mondo, folgorati dalla battaglia della 16enne, hanno iniziato a recitare incomprensibili mea culpa. Prendiamo la Germania, il caso più emblematico. Angela Merkel, insoddisfatta della già più che ecologicamente accettabile economia tedesca, ha tirato fuori dal cilindro un maxi pacchetto di politiche per la lotta al cambiamento climatico dal valore di 100 miliardi. Fondi che saranno spesi da qui al 2030 e che peseranno in buona parte sulle tasche dei contribuenti. Insomma, una marea di soldi per una causa nobile ma non così apocalittica, a giudicare dalle ultime stime preliminari Eurostat sulle emissioni di Co2 derivanti da combustibili fossili. In generale, nell’Unione Europea, nel corso del 2018, le emissioni responsabili del surriscaldamento globale sono scese del 2,5% rispetto all’anno precedente; la riduzione maggiore si è avuta in Portogallo con un bel -9% ma anche la Germania non ha certo scherzato, facendo registrare un secco -5,4%.

L’inquinamento di Cina e India. Se allarghiamo il quadro all’intero pianeta, notiamo come l’Occidente non sia la fonte principale delle emissioni di Co2. Le situazioni più critiche sono quelle di Cina e India, tanto apprezzate per aver piantato decine e decine di milioni di alberi quanto ignorate per altri aspetti. Dando un’occhiata ai dati proposti dal Global Carbon Project, notiamo come dagli anni ’60 del secolo scorso a oggi, il Dragone e l’Elefante siano arrivati a produrre rispettivamente poco più di 10 bilioni di tonnellate di Co2 e circa 2,5 bilioni, pari a un incremento del +208% e +155% registrato nel periodo compreso dal 2000 al 2018. La tanto bistrattata Europa ha invece effettuato un percorso inverso, scendendo a circa 3,5 bilioni di tonnellate di Co2 prodotte, con un calo del -16% negli ultimi 18 anni. Per quanto riguarda la classifica dei paesi più inquinati al mondo considerando la concentrazione media stimata di PM2,5 (μg/m³) il sito AirVisual inserisce al primo posto il Bangladesh, con il valore di 97,1; a seguire troviamo Pakistan (74,3), India (72,5) e Afghanistan (61,8). La Germania è al 54esimo posto con un valore di 13,1. Fatta eccezione per alcuni paesi balcanici e dell’Europa Orientale come Bosnia, Macedonia e Bulgaria, l’Europa non ne esce affatto male e neppure gli Stati Uniti, 65esimi con 9,1.

Qualcuno avvisi Greta: non è colpa dell’Europa. Da questi e altri dati, notiamo come in realtà siano proprio i governi europei ad aver fatto i maggiori passi in avanti nella battaglia contro l’inquinamento, principale fattore del cambiamento climatico. Non si capisce quindi perché Greta e i gretini continuino a organizzare manifestazioni, scioperi e cortei in quella parte di mondo che, pur con tutti i limiti del caso, ha dimostrato di avere a cuore l’ambiente. Tralasciando il fatto che l’ambientalismo è ormai oggi diventato l’argomento principale sbandierato dai governi progressisti di tutto il mondo, Greta e i suoi adepti dovrebbero pianificare un bel viaggio via mare per approdare in Cina e risalire fino a Pechino. Qui potrebbero accamparsi in piazza Tienanmen di fronte alla Città Proibita e protestare contro Xi Jinping, che pure ha illustrato per filo e per segno i progressi effettuati dal suo paese in ambito ecologico. Quando una battaglia, pur giusta e legittima che sia, si trasforma in un’ossessione raramente porta a ottenere risultati positivi.

Francesca Santolini per la Stampa il 15 settembre 2019. “Cercare soluzioni concrete, volere un dialogo intergenerazionale, rispondere alla nostra protesta: non possiamo ignorarlo, le emissioni continuano ad aumentare, ma qualcosa si sta muovendo. Greta è riuscita a mobilitare un’intera generazione. L’incontro delle Nazioni Unite è una grande opportunità per un grande numero di Paesi, per sottoscrivere un quadro ambizioso contro il cambiamento climatico”. E’ ottimista Federica Gasbarro, classe 1995, portavoce del movimento Friday for the Future Roma e attivista contro i cambiamenti climatici. Federica è l’unica ragazza italiana ad essere stata selezionata per partecipare allo Youth Summit dell’ONU sul Clima, dove sarà presente anche Greta, ma non parlerà per dar spazio agli altri ragazzi. Il summit è una piattaforma in cui i giovani leader sul clima metteranno a confronto le loro soluzioni su scala globale, per poi presentare le loro conclusioni al Vertice sull'azione per il clima che si svolgerà lunedì 23 settembre nel palazzo di vetro delle Nazioni Unite a New York.

Federica, rappresenterai l’Italia al primo Vertice dei giovani sul clima organizzato dall’Onu. Come è iniziato il tuo impegno per il clima?

«Vengo da una famiglia molto attenta all’ambiente, mi hanno sempre educata al rispetto del pianeta in cui vivo. E poi gli studi che sto facendo in scienze biologiche mi hanno aiutata a comprendere da un punto di vista scientifico il dramma che il nostro pianeta sta vivendo».

Prima di iniziare i tuoi scioperi per il clima eri già impegnata in altre cause?

«Non faccio parte di altri movimenti o associazioni, questa è la primissima volta che mi batto in prima persona concretamente».

E perché per il cambiamento climatico vale la pena scendere in piazza?

«Perché si tratta di una vera crisi, se dovessimo perdere questa battaglia, i miei figli non conosceranno la Terra così come la sto conoscendo io. E perché non ci rendiamo conto che il cambiamento climatico non è solo la temperatura del pianeta che aumenta, ma sono anche le conseguenze sociali, economiche e umanitarie, penso per esempio ai migranti climatici».

Hai incontrato personalmente Greta Thunberg e l’hai accompagnata in piazza per lo Strike che si è tenuto ad Aprile 2019 a Roma, che impressione ti ha fatto?

«Ero un po’ tesa quando l’ho incontrata perché mi metteva in soggezione, abbiamo parlato, mi ha chiesto cosa stavamo facendo a Roma con i Friday for future, voleva conoscere le nostre iniziative. E’ una ragazza molto curiosa e di poche parole, per me lei è il simbolo della nostra battaglia».

Cosa pensi della politica italiana, secondo sta agendo su questo tema?

«Delle piccole cose sono state fatte, ma bisogna fare di più. Occorre realmente invertire la rotta, cambiare i sistemi di produzione, i sistemi di trasporto delle persone e delle cose, decarbonizzare l’economia».

Pensi davvero che sia possibile cambiare il nostro modello di sviluppo?

«Dobbiamo essere visionari e non sognatori. Se tutti si fossero affidati alle logiche comuni, nessuno sarebbe mai andato sulla luna, sembrava impossibile all’epoca e invece ci sono riusciti. Volenti o nolenti questo cambiamento ci sarà perché le conseguenze del riscaldamento globale sono già oggi sotto gli occhi di tutti».

Greta è arrivata a NY in barca a vela ed è stata molto criticata. Cosa rispondi a chi critica Greta?

«Il viaggio di Greta in barca a vela era chiaramente un gesto simbolico, non è che tutti dobbiamo avere la barca a vela, ma tutti dovremmo avere più attenzione per l’ambiente. Quindi va bene la critica, ma mi auguro che queste persone dedichino un po’ del loro tempo anche a capire e ad ascoltare le parole di Greta e magari ad impegnarsi di più per l’ambiente!»

Non pensi che dietro queste critiche ci sia anche un problema generazionale?

«Noi scendiamo in piazza per difendere il nostro futuro, perché ci appartiene ed appartiene alle prossime generazioni. E poi io nel 2050 avrò 55 anni e sarò solo a metà della mia vita, quindi a me il futuro interessa…».

Studi scienze biologiche e sei a pochi esami dalla laurea, cosa vuoi fare da grande?

«Io vorrei fare la scienziata e dare il mio contributo alla tutela dell’ambiente da un punto di vista scientifico. E già adesso lo sto facendo, sto scrivendo il mio primo libro in cui spiego in modo semplice cosa sono i cambiamenti climatici e in cui racconto qual è stato il percorso che mi ha portato dalle piazze, alle Nazioni Unite. Con Greta».

Alessandra Muglia per il Corriere della Serail 15 settembre 2019. Una barriera di corpi sdraiati per impedire alla gente di entrare e per dire stop alle auto. «Saremo diverse centinaia, abbastanza per riuscire a bloccare l' ingresso del pubblico» assicura ottimista al Corriere la leader del movimento ambientalista che intende «sigillare» nientemeno che il Salone internazionale di Francoforte. «È da settimane che in diverse città si svolgono dei training specifici per insegnare ai partecipanti a mantenere la calma ed essere preparati a dar vita a una dimostrazione pacifica: vogliamo evitare escalation e derive violente» precisa Tina, questa attivista tedesca di 33 anni. Il doppio di Greta Thunberg. Capelli castani fluenti, piercing al naso e trucco leggero, a differenza dell' ambientalista svedese lei nelle sue proteste è determinata a superare i limiti consentiti. Parla di «azioni non legali ma legittime» e «disobbedienza civile» come armi estreme per arrestare la deriva climatica. «Vogliamo città senz'auto» va ripetendo la portavoce dell' ala più radicale del movimento ecologista tedesco. Laureata in scienze politiche e appassionata di yoga, si fa chiamare Tina Velo - bici, in francese, per lei «la migliore invenzione tecnologica dell' umanità». Uno pseudonimo «per proteggermi dagli haters che sui social mi minacciano di morte o di stupro» spiega. Ma anche un modo per mettersi da parte: «Non scriva il mio vero nome - chiede - non sono un' icona e non voglio diventarlo, non voglio parlare di me, ma del movimento per il clima protagonista di un' azione mai provata finora: il blocco dell' accesso a una fiera internazionale». Una formazione nata sei mesi fa proprio con questo obiettivo. Il suo nome «Sand in Gear» (sabbia nelle marce) suona come il manifesto del gruppo che ha dichiarato guerra ad auto e suv, definiti «assassini climatici assoluti», e a un sistema di trasporto bollato come «vecchio, datato». Nella «sabbia» sono confluiti attivisti climatici di altri gruppi come la rete europea «Extinction Rebellion», «Attac» e «Ende Gelände», quest' ultimo protagonista a giugno dell' assalto ecologista alla più grande miniera di carbone della Germania, l' impianto a cielo aperto di Garzweiler, da 50 anni la maggiore fonte di inquinamento in Europa. Il blitz «verde» è riuscito a bloccare per un giorno il traffico della ferrovia Nord-Sud utilizzata per trasportare la lignite dall' impianto alle centrali elettriche di tutto il Nordreno-Vestfalia e questo successo ha rinvigorito le aspettative dei «disobbedienti». «Molti importanti cambiamenti sociali del passato sono stati indotti da gente coraggiosa decisa a infrangere piccole leggi per grandi cause». Tina cita le lotte anti coloniali, quelle dei gruppi anti apartheid e le conquiste del movimento femminista. La prossima tappa di questi combattenti green è a Berlino il 20 settembre, quando il governo tedesco presenterà le sue misure contro il cambiamento climatico. Oggi gli occhi restano però puntati su Francoforte: al salone il numero di espositori è crollato in due anni da 1.000 a 800, segnale della crisi dell' industria automobilistica. «Un settore che non gode più del supporto della società», dice Tina, a cui lei e compagni vorrebbero dare il colpo finale. Fosse per lei, «questo Salone sarebbe l' ultimo».

Cretinate ecologiche. Greta Thunberg è andata in barca a vela a New York, altri vip chiedono lo stop ai Suv. L'ambiente è avvelenato, pure di propaganda. Mario Giordano il 13 settembre 2019 su Panorama. «Perché non parli di ecologia?». Mauro Querci, il nume tutelare del Grillo Parlante, mi stuzzica con Greta Thunberg. Ma io, sinceramente, sono in difficoltà. La sedicenne salvatrice del pianeta è appena arrivata a New York gridando «Terra!» con l’entusiasmo di Cristoforo Colombo, senza nemmeno rendersi conto che l’America, in realtà, è stata già scoperta alcuni secoli fa. Nei giorni precedenti ci aveva raccontato la traversata in mare sullo yacht di Pierre Casiraghi con toni apocalittici perché si era improvvisamente accorta che nell’oceano esistono le onde. Chi l’avrebbe mai detto? E lo so che dubitare di Greta è un po’ come parlare male della mamma o della Madonna, ma persino i suoi adulatori più convinti hanno notato, nelle sue ultime uscite, un eccesso di toni che non giovano nemmeno a lei. Figurarsi quanto possono giovare all’ambiente. Per altro leggo sui giornali tedeschi che per riportare indietro lo yacht è arrivato a New York un altro equipaggio. Come? Ovviamente in aereo. Perfetto: siccome la bimba d’oro del neoambientalismo mondiale non viaggia in aereo, per andare a New York prende la barca del principe a pannelli solari e emissioni zero. Ma poi per riportarla indietro arriva una squadra di persone che viaggia in aereo. Non è meraviglioso? Mi ricorda un po’ quando, qualche tempo fa, Tom Cruise si fissò con i cibi ecologici. «Bisogna rispettare l’ambiente» ripeteva. E per rispettarlo, quando era in giro per il mondo, se faceva arrivare i cibi ecologici con il suo inquinantissimo jet privato. Emission impossible. Perché non parlo di ecologia, caro Mauro? Semplice: perché non c’è materia più seria, non c’è materia che ci tocchi più da vicino, che non incida di più sul nostro presente, oltre che sul futuro. Eppure non c’è materia sulla quale si eserciti altrettanta ipocrisia. Mondo pulito, coscienza sporca. Julia Roberts si fece fotografare sulla copertina di Vanity Fair come nuova regina del green, suggeriva carta riciclata, energia solare, l’abolizione della plastica. Poi la videro sfrecciare via con il Suv per le strade di New York. Jennifer Lopez fu chiamata a fare il testimonial delle auto ecologiche e arrivò in jet. E a ben vedere anche Pierre Casiraghi, che si è fatto bello nel mondo con il suo yacht a emissioni zero, ha come sponsor del suo yacht club la Bmw, auto che non brillano certo nelle classifiche del risparmio energetico. Non si può essere contro l’ecologia, ovviamente. Sarebbe un po’ come essere contro la vita. Però proprio per questo temo che l’argomento sia fra i più gettonati dai furbastri di ogni tipo, amanti del green solo per convenienza, persone che l’unico verde che amano è quello dei soldi. Ho l’impressione che l’ambiente sia un argomento troppo serio per essere lasciato agli ambientalisti. Ricordo, per esempio, che Lord Peter Melchett, storico direttore di Greenpeace in Gran Bretagna, ha passato metà della sua vita a lottare contro la terribile Monsanto. Il resto della sua vita l’ha passato a fare il consulente. Ovviamente della medesima (forse un po’ meno terribile) Monsanto. I politici, ovviamente, non sono da meno. A Biarritz il presidente francese Emmanuel Macron era in difficoltà: contestato per il suo poco ambientalismo, senza nessuna possibilità di raggiungere risultati significativi al vertice in casa sua, ha nascosto il suo imbarazzo dietro il fumo dell’Amazzonia. Non c’è niente di meglio come manovra diversiva. Tutti i vip del mondo, infatti, si sono affrettati a indignarsi sui social, pubblicando foto spaventose di incendi. Peccato che fossero gli incendi di trent’anni prima. Significa che l’Amazzonia non è un problema? No, significa che non sarà risolto finché viene usato per altri scopi. Per coprire le proprie magagne, o semplicemente per farsi un po’ di like. Per risolvere il problema dell’Amazzonia bisognerebbe studiare un po’ forse, almeno a sufficienza per distinguere la situazione del 1989 da quello di oggi. O si chiede troppo? Il fatto è che vestirsi di verde è facile, fa chic, si porta bene. Così tutti lo fanno soltanto per moda o per non doversi impegnare in qualcosa di più serio. Fateci caso nei prossimi giorni in tv: quando gli esponenti della nuova maggioranza pateracchio non saranno d’accordo su nulla, ma proprio su nulla, vedrete che tireranno fuori le parole magiche dell’economia green. Magari non sanno nemmeno cosa vuol dire o da dove cominciare, ma non importa. Tanto la mamma dei gretini è sempre incinta. Ed è per questo, caro Mauro, che non volevo parlare di ecologia.

Greta Thunberg ospite dell’album dei The 1975. Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Corriere.it. Greta Thunberg rockstar. Quella dell’attivista svedese è la voce narrante del brano (disponibile da oggi) che anticipa il nuovo album dei The 1975, la rockband inglese del momento, considerati i nuovi Radiohead e già arrivata in vetta alla classifica Uk e nella top 5 americana. Scelta inusuale quella di lanciare un album non con un classico singolo. Greta non canta in «The 1975» (c’è sempre stato un brano con questo titolo nei primi tre album), il suo è uno speech che ha come sottofondo una delicata strumentale della band guidata da pianoforte e archi. Una traccia da 4 minuti e 55 secondi in cui la svedese racconta il suo pensiero sulla «crisi ecologica e climatica» che stiamo vivendo. «Stiamo perdendo la battaglia» perché «le generazioni più vecchie hanno fallito, i movimenti politici hanno fallito, ma non ha fallito l’homo sapiens». L’altro giorno i The 1975 avevano oscurato i social, poco dopo aver postato quella che sembrava una copertina. Una banda gialla con il nome del gruppo, la ripetizione in diverse lingue della scritta «Notes on a Conditional Form» (titolo del disco) e un adesivo con stampato «Wake Up!» (sveglia!). È proprio Greta a dare la sveglia nel discorso e a chiedere di cambiare regole. «Non è più il tempo per la disobbedienza civile, è il momento della ribellione».

Greta e il greenwashing: quando il clima si fa marketing. Leopoldo Gasbarro 5 agosto 2019 su Nicolaporro.it. The 1975. È il nome di uno dei mie gruppi musicali preferiti. Quattro ragazzi di Manchester, non ancora molto noti in Italia, che ho scoperto, quasi per caso in uno dei miei viaggi a Londra lo scorso anno. Certo non rappresentano la mia generazione, quella di chi è cresciuto a pane e Genesis, di chi ascolta ancora James Taylor e le ballate rock dei Toto. Eppure il sound dei The 1975 mi ha catturato, a dimostrazione che dopo il tramonto di Freddie Mercury, di George Michael e Michel Jakcson, c’è ancora speranza per la musica di qualità. Così ho imparato a conoscere molte delle loro canzoni, ad innamorarmi della nostalgica “Paris” e del ritmo incalzante di “She’s American” o dell’eleganza musicale di “If I Believe You”. Un paio di giorni fa quando ho scoperto che era uscita la prima traccia del loro nuovo album, che sarà pronto a febbraio del prossimo anno, ho subito cercato il brano sulla piattaforma musicale che utilizzo. La mia sorpresa è stata grande quando ho scoperto che la canzone era niente più che un tappetino musicale su cui è stato montato un discorso originale dell’ormai arci-nota Greta Thunberg. La traccia dura oltre 5 minuti e tra l’altro invita tutti alla ribellione sociale. “…Dipende da te e me… Se guardi alla storia, tutti i grandi cambiamenti nella società sono stati avviati da persone a livello di base: persone come te e me. Quindi, ti chiedo di svegliarti e rendere possibili le modifiche richieste… non possiamo più salvare il mondo giocando secondo le regole, perché le regole devono essere cambiate. Tutto deve cambiare e deve iniziare oggi. Quindi, tutti là fuori, ora è tempo di disobbedienza civile. È tempo di ribellarsi”.

Questo una parte del testo tradotto in italiano…Io ho scritto un libro su quest’argomento. A dimostrazione di quanto sia sensibile al tema. Anch’io sono convinto che si debbano fare scelte forti oggi e che le si debbano fare in fretta. Tuttavia molto di quello che si sta facendo a livello mediatico, soprattutto attorno alla figura di una ragazzina come Greta Thunberg, mi sembra più una straordinaria operazione di marketing che l’effettiva voglia di salvaguardare il mondo in cui viviamo, soprattutto quello in cui vivranno i nostri figli.

Non so se sia il caso dei The 1975, magari loro, lo spero, hanno davvero fatto una forte scelta di campo, ma è chiaro altresì che oggi tante aziende stanno approfittando dei movimenti ambientalistici dell’attenzione a certi temi, per effettuare operazioni di Greenwashing. Si tratta di strategie di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzate a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. Anche no. Grazie. Del resto proprio oggi arrivano immagini disastrose dalla Groenlandia di cui dovremmo preoccuparci davvero. E presto. Leopoldo Gasbarro, 5 agosto 2019

GOOGLE CAMP: POTERI FORTI IN SICILIA! Marta Vigneri per TPI.it l'1 agosto 2019. Google Camp in Sicilia: si parla di clima. I fondatori di Google hanno organizzato a Selinunte, in Sicilia, il tradizionale Google Camp, summit internazionale che attrae ogni anno i vip più ricchi e famosi del mondo. Tra le celebrità ospiti dell’edizione 2019 dell’incontro, Barack Obama, il principe William, Kate Middleton, Mark Zuckerberg, il cantante Harry Styles e attori come Leonardo Di Caprio, George Clooney e Orlando Bloom. E ancora, i fondatori di Netflix, Diane von Fustenberg e Barry Diller, proprietario di Tripadvisor ed Expedia. Tra i vip nostrani, il cuoco Massimo Bottura, John Elkann e il fratello Lapo. Il tema principale dell’incontro di quest’anno sarà il clima, e fino al 4 agosto gli ospiti del gigante di internet statunitense parleranno dell’urgenza di combattere i cambiamenti climatici. Eppure, nessuno di loro sembra aver badato troppo all’ambiente per raggiungere il borgo marinaro di Marinella di Selinunte e l’esclusivo Resort Verdura di Sciacca, dove alloggiano, in provincia di Agrigento.

I Jet. Secondo quanto dichiarato dallo staff dell’aeroporto di Palermo Falcone Borsellino, meta principale di approdo dei vip attesi al Google camp in Sicilia,oltre 114 jet atterreranno in pista fino al 4 agosto prossimo, disperdendo nell’aria circa 100mila chilogrammi di CO2. “Il Google Camp dovrebbe essere un luogo in cui le persone più influenti del mondo s’incontrano per discutere su come rendere il mondo un posto migliore”, ha dichiarato uno dei partecipanti abituali a una rivista statunitense che segue l’evento. “Al summit si discuterà sicuramente di privacy online, politica, diritti umani e, ovviamente, di clima, il che rende tutto molto ironico considerando che l’evento ha smosso circa 114 jet privati per essere realizzato”, continua la fonte. E le contraddizioni non si limitano all’utilizzo di jet.

Gli yacht e le auto. Secondo alcune fonti presenti al Google camp, Orlando Bloom e Barry Diller sarebbero arrivati a Selinunte sul loro enorme yacht da 200 milioni di dollari, che ha entrambe le vele e due motori diesel da 2.300 cavalli. Anche il fondatore del distributore cinematografico miliardario Dreamworks, David Geffen, avrebbe utilizzato il suo yacht da 400 milioni di dollari per raggiungere la località marittima, lo stesso utilizzato per dare un passaggio a Katy Perry. E la cantante americana, che nel frattempo ha realizzato un video per l’Unicef sui cambiamenti climatici, sarebbe stata vista nei dintorni del Verdura Resort a bordo di un Suv Maserati. Insomma, i super vip del Google summit sono accorsi in massa al vertice internazionale sul clima, ma non sembrano prendere troppo seriamente l’impegno sui cambiamenti climatici perché con le loro abitudini contribuiscono a peggiorarli.

Da GDS.it l'1 agosto 2019. Anche l'aeroporto di Palermo Falcone Borsellino mostra gli effetti del Google Camp. Fino al prossimo 4 agosto all’aeroporto atterreranno 114 aerei privati. Solo oggi sono stati almeno 40 i jet privati che hanno toccato le due piste dello scalo aereo palermitano. Per il sesto anno consecutivo infatti Google ha scelto l’aeroporto di Palermo come base logistica per gli ospiti del Camp, grazie anche agli alti standard dei servizi Vip, con un handler dedicato. Quest’anno sono stati autorizzati all’atterraggio 114 voli: Per gli altri voli invece è previsto l'arrivo all'aeroporto di Trapani. “Dal primo Google Camp, l’aeroporto di Palermo è stato un partner eccezionale per la logistica e per il trasporto degli ospiti Vip dell’esclusiva manifestazione. Un segmento che stiamo sviluppando con la nascita di un nuovo terminal dedicato agli aerei privati - dice Giovanni Scalia, amministratore delegato di Gesap, la società di gestione dell’aeroporto di Palermo -. Con l’arrivo di Google, abbiamo creato una vera e propria task-force che ogni anno si attiva per dare il massimo della collaborazione professionale, dall’area movimento alla sicurezza, dall’area terminal a quella dell’Apron, per non parlare del grande lavoro della torre di controllo e della direzione aeroportuale”.

L'ambientalista Greta Thunberg risponde agli insulti di un editorialista. Il giornalista ha attaccato in un articolo la sedicenne eco-tivista svedese per i suoi disturbi. La replica: "Profondamente disturbata". La Repubblica il 02 agosto 2019. La giovane attivista per il clima Greta Thunberg ha risposto all'editorialista dell'Australian News Corp Andrew Bolt per aver scritto un articolo offensivo che deride la diagnosi di sindrome di Asperger dell'adolescente. La giovane svedese ha pubblicato un tweet dicendosi "profondamente disturbata" dalle campagne di negazione del cambiamento climatico, adottando lo stesso insulto utilizzato dall'editorialista. "Sono davvero 'profondamente disturbata' per il fatto che a queste campagne di odio e cospirazione è consentito di continuare all'infinito solo perché noi bambini comunichiamo e agiamo sulla scienza. Dove sono gli adulti?", ha scritto Thunberg sul social. Come raccontato dal Guardian, il noto giornalista dell'Herald Sun e commentatore di Sky News ha preso di mira la 16enne attivista, parlando dei suoi sostenitori come membri di un culto e denigrando la sua decisione di navigare attraverso l'Atlantico in una barca da regata per partecipare ai vertici sul clima delle Nazioni Unite negli Stati Uniti e in Cile. L'articolo dell'editorialista fa ripetutamente riferimento alla salute mentale di Greta, definendola "profondamente disturbata", "stranamente influente" e "strana". "Non ho mai visto una ragazza così giovane e con così tanti disturbi mentali trattata da tanti adulti come un guru", ha scritto Bolt. L'adolescente, le cui proteste l'anno scorso hanno scatenato il movimento globale di scioperi per il clima "Fridays for Future", si sta prendendo un anno di pausa dalla scuola per partecipare ai vertici sul clima, il 23 settembre a New York e il 2-13 dicembre a Santiago.

Susanna Tamaro: «Greta ed io sentiamo le fragilità della natura». Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Susanna Tamaro. Venerdì su 7 un’intera sezione del magazine dedicata alla crisi ambientale, aperta da un ritratto di Greta firmato dalla scrittrice che in lei si rispecchia. Dal magazine, venerdì in edicola, proponiamo un estratto dell’articolo di copertina dedicato alla sedicenne Greta Thunberg dalla scrittrice che, come lei, soffre sin dall’infanzia della sindrome di Asperger. Salvate il soldato Greta. Questo è il primo pensiero che mi è venuto quando si è scatenato il fenomeno di Greta Thunberg a livello mondiale. (...) Greta ha il volto immobile di un’icona. Mi ha fatto ricordare di quando, qualche anno fa, mi sono iscritta a un corso di ritratti. «Ma tu sai disegnare solo icone?», mi ha detto al termine la mia simpatica insegnante. Ancora non sapevo di avere lo stesso problema di Greta ma, quando l’ho scoperto, tutto mi è stato chiaro. Le persone come noi hanno una difficoltà estrema nel comprendere le espressioni dei volti, forse è per questo che, soprattutto in condizioni di stress, assumiamo la stessa fissità delle icone. (...) Greta ha solo 16 anni e, nell’età in cui le sue coetanee amano considerarsi già donne, si definisce «una bambina». Ed è una bambina. Le lunghe trecce, i jeans, le magliette, le camicie a quadri ci parlano di una persona lontana da qualsiasi desiderio di seduzione. Eppure, malgrado ciò, è riuscita a sedurre decine di milioni di suoi coetanei in tutto il mondo. Greta non ha malizia, non ha secondi fini (...) I dolori di un bambino normale non sono minimamente avvicinabili a quelli che prova un bambino Asperger. (...) Il non capire il linguaggio degli uomini viene compensato dal capire con chiarezza assoluta e immediata tutti i linguaggi che umani non sono. Gli animali ci parlano, e noi parliamo con loro. Abbiamo dialoghi intensi e sorprendenti con gli alberi e con i fiori. È questa capacità che ci permette di vedere prima degli altri — più degli altri — sofferenze, devastazioni e fragilità sempre più dilaganti di cui la natura ci parla (...).

Tamaro racconta Greta Thunberg: «Lei vede ciò che altri non vedono». Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 su Corriere.it. Salvate il soldato Greta. Questo è il primo pensiero che mi è venuto quando si è scatenato il fenomeno di Greta Thunberg a livello mondiale. Salvatela da tutta quella confusione, dal fragore, dal mare di cattiverie, malignità e derisioni che, insieme alla fama, le sono piovute addosso. Greta ha il volto immobile di un’icona. Mi ha fatto ricordare di quando, qualche anno fa, mi sono iscritta a un corso di ritratti. «Ma tu sai disegnare solo icone?», mi ha detto al termine la mia simpatica insegnante. Ancora non sapevo di avere lo stesso problema di Greta ma, quando l’ho scoperto, tutto mi è stato chiaro. Le persone come noi hanno una difficoltà estrema nel comprendere le espressioni dei volti, forse è per questo che, soprattutto in condizioni di stress, assumiamo la stessa fissità delle icone. Cosa vuol dire vivere nel mondo senza essere in grado di comprendere tutto ciò che passa attraverso l’espressione? Vuol dire sentirsi drammaticamente, disperatamente soli. Vuol dire essere consapevoli, in ogni istante della nostra vita, di essere precipitati su un pianeta di cui non conosciamo il linguaggio. Vuol dire vivere un’infanzia segretamente compressa tra l’ansia e il terrore, provare una rabbia disperata perché il mondo è lì, davanti a noi, ma non riusciamo in alcun modo a raggiungerlo. Greta ha solo sedici anni e, nell’età in cui le sue coetanee amano considerarsi già donne, si definisce «una bambina». Ed è una bambina. Le lunghe trecce, i jeans, le magliette, le camicie a quadri ci parlano di una persona lontana da qualsiasi desiderio di seduzione. Eppure, malgrado ciò, è riuscita a sedurre decine di milioni di suoi coetanei in tutto il mondo. Greta non ha malizia, non ha secondi fini, non conosce nessuna delle tecniche manipolatorie che permettono di muoversi con scioltezza nella società. Ed è proprio questa sua innocente purezza che attrae gli strali di chi, invece, nella stessa società, si trova a proprio agio. Fin dalla più tenera età, la sindrome di Asperger porta ad attraversare deserti infuocati, grovigli di emozioni impossibili da decifrare dall’esterno. Il vuoto è cosmico, come la solitudine. I dolori di un bambino normale non sono minimamente avvicinabili a quelli che prova un bambino Asperger. Ma dove la natura toglie, da un’altra parte dona. Il non capire il linguaggio degli uomini viene compensato dal capire con chiarezza assoluta e immediata tutti i linguaggi che umani non sono. Gli animali ci parlano, e noi parliamo con loro. Abbiamo dialoghi intensi e sorprendenti con gli alberi e con i fiori. È questa capacità che ci permette di vedere prima degli altri — più degli altri — sofferenze, devastazioni e fragilità sempre più dilaganti di cui la natura ci parla. La madre di Greta racconta del turbamento provato un giorno a scuola da tutta la classe vedendo un filmato sul grande continente di plastica che naviga da anni indisturbato nell’oceano. Nei suoi compagni questo turbamento si era già dissolto nell’ora seguente, incalzato da altri e più allegri argomenti. Solo Greta aveva cominciato a piangere, e aveva continuato a farlo a casa, inconsolabile. Quel mostruoso continente senza vita era ormai diventato per lei un vortice ossessivo. Vedere ciò che gli altri non vedono. Vedere, e non riuscire a dimenticarlo. Vedere e improvvisamente capire che il nostro compito non è altro che quello di aiutare gli altri ad aprire gli occhi. Da bambina io singhiozzavo per giorni se trovavo un nido distrutto, un gattino morto, un fiore buttato nella spazzatura, e non è che le cose, ora che sono adulta, vadano molto meglio. Non si tratta di sentimentalismo — nulla ci è più estraneo — ma di non aver alcun filtro capace di schermare il cuore. C’è una straordinaria bellezza nel mondo vivente, una straordinaria complessità, una straordinaria innocenza. E quando questa bellezza, questa complessità, questa innocenza vengono ferite, distrutte, derise, dentro di noi si formano delle voragini di disperazione. Perché distruggere, perché trasformare il mondo in una maleodorante pattumiera? Perché vivere senza una visione che possa contemplare anche la speranza? Il mondo si può cambiare, basta assumersene la responsabilità (ndr. lo ha sottolineato Greta al suo arrivo a Manhattan e poi alla manifestazione di New York). Se una cosa si può fare, quella cosa si deve fare.

Susanna Tamaro, 61 anni, triestina. Il suo bestseller Va’ dove ti porta il cuore è del 1994. Nel libro Il tuo sguardo illumina il mondo (edizioni Solferino), la scrittrice ha rivelato di soffrire della sindrome di Asperger . Le infinite sfumature delle elucubrazioni mentali non appartengono al mondo Asperger. Quando ho avuto un successo planetario con il mio libro, sono stata travolta da un’infinità di insulti, derisioni, calunnie. C’era sempre un retropensiero su tutto quello che facevo o dicevo, mi si attribuivano ombre, furbizie, astuzie che non sono mai stata in grado di concepire. Una persona Asperger non ha mai secondi fini, perché non fanno parte del suo orizzonte. Non ci sono ambiguità dentro di noi, né ombre che non siano i fantasmi della nostra stessa mente. Ci dedichiamo con assoluta dedizione a quello che ci sta a cuore, per una semplice ragione: perché crediamo che sia una cosa importante. Io so scrivere e relazionarmi attraverso i miei libri con migliaia di persone; Greta sa parlare alla sua generazione come nessun altro di un problema estremamente complesso che non contempla facili ricette ma che, comunque, ci riguarda tutti. Noi Asperger mettiamo le nostre enormi e magnetiche energie nel fare ciò che ci sta a cuore e, se le cose non vanno come pensiamo debbano andare, veniamo anche rapiti da indomabili furori (ndr. come quando Greta, furente all’Onu, ha accusato i grandi del mondo di averle rubato i sogni). Penso che Greta, da adulta, non farà politica, non si arricchirà, non creerà una linea di abbigliamento. Resterà la ragazza con le trecce che sorride con cauta timidezza, che parla con lo stesso pacato distacco con i potenti del mondo come con i coetanei che le sfilano accanto. Forse studierà biologia, o ingegneria ambientale o geologia. Di sicuro farà della sua sensibilità l’interesse di una vita. Ma intanto, con il coraggio della sua cristallina fermezza, ha ottenuto qualcosa che nessun attivista, nessun politico finora era riuscito a ottenere. Fare aprire gli occhi al mondo intero, fare alzare gli sguardi dei suoi coetanei dagli smartphone e spingerli a lottare insieme, dicendo: «Sì il futuro della Terra ci appartiene, è una responsabilità che è arrivato il momento di assumerci».

Che tristezza se Greta infastidisce gli intellettuali del no. Sergio Carlini su Il Dubbio il 2 ottobre 2019. il movimento non abbraccia ideologie totalitarie e non ha capi politici. Certe posizioni sono discutibili ma un confronto realista è necessario. Sorprendono – ma non troppo, per la verità – le posizioni di molti intellettuali, i quali hanno commentato con freddezza, se non con una punta di malcelato fastidio, le manifestazioni dei giovani sulla questione dell’ambiente. In Italia Massimo Cacciari – per fare un solo nome – ha espresso, a suo modo, una serie di dure critiche a un movimento giovanile che si sta diffondendo in tutto il mondo, un’onda internazionalista paragonabile per ampiezza a quella studentesca del ’ 68. Successivamente è stata la volta di un altro filosofo, assai celebrato in Francia e in Europa, Alain Finkielkraut, secondo il quale l’economia è troppo importante per lasciarla ai bambini. Dietro queste posizioni, che contengono anche valutazioni condivisibili e fondate, mi sembra si nasconda un pensiero molto aristocratico di chi fatica a prendere sul serio le correnti profonde che si agitano nelle odierne società. Da questo punto di vista, sono preferibili i politici lungimiranti – pur con una punta di inevitabile cinismo agli intellettuali malati di protagonismo, riparati dalle loro confortevoli cattedre universitarie e impediti nel leggere e ascoltare la realtà dalle loro pesanti corazze culturali. Non c’è dubbio che il movimento ambientalista che scorre sotto i nostri occhi contiene molti elementi assai discutibili, in particolar modo un istintivo anticapitalismo, una possibile avversione alla scienza e al progresso, così come lo abbiamo finora conosciuto, nonché una visione apocalittica della condizione terrestre. Questi elementi sono presenti, ma non sono gli unici e non sono predominanti. Fra i giovani che in tutto il mondo si battono e s’impegnano a favore dell’ambiente, vi è anche una filosofia che recupera una sana e necessaria dimensione naturale nell’agire dell’uomo e una nuova concezione dell’economia – comune oggi a molti imprenditori e amministratori delegati di grandi aziende – incentrata su uno sviluppo fondato sulla responsabilità sociale dell’azienda. Si tratta oltretutto di un movimento che, a differenza di quelli del passato, non ha capi politici e non abbraccia alcuna ideologia totalitaria. Perché dunque non guardare con rispetto e con fiducia a queste nuove idee e a questa nuova domanda di partecipazione? Saranno dunque i politici e non gli intellettuali a dover dialogare con questo movimento, con il necessario realismo, tipico del resto dei politici, ma al tempo stesso sapendone trarre quella energia e quelle indicazioni che possono essere valorizzate e diventare il motore di una nuova fase di progresso e di civiltà.

Il Papa loda Greta e Ursula von der Leyen, ma si scorda di Cristo. L'intervista del pontefice alla Stampa è un'occasione unica per fare politica . Camillo Langone su Il Foglio il 10 Agosto 2019.  San Lorenzo martire, cadono le stelle, cadono i governi, cadono i divi (l’ictus di Alain Delon), e ricasca il Santo Padre, che intervistato dalla Stampa loda Ursula von der Leyen, patrona di Sodoma, dei matrimoni e delle adozioni omosessuali, e ancora una volta elogia la Papessa Greta, sacerdotessa di una religione pagana. In una simile intervista, sfacciatamente elettorale, a finire sulla graticola è Cristo, che non viene citato nemmeno una volta, nemmeno per buona gesuitica creanza. Tu, San Lorenzo, sulla brace ti vollero ben cotto (secondo Sant’Ambrogio) mentre Gesù lo vogliono incenerito e poi smaltito secondo il nuovo dogma della raccolta differenziata (secondo me che non sono un Santo ma un semplice orante ormai abbastanza disperante). 

Non tutti amano Greta.  Anna Miller Swissinfo.ch il 6 agosto 2019. Traduzione dal tedesco: Andrea Tognina. Agli occhi di molte persone, la 16enne Greta Thunberg è un'eroina. Ma non mancano le voci critiche. Anche in Svizzera, dove Thunberg partecipa questa settimana all'assemblea "SMILE for Future", l'attivista per il clima ha degli avversari politici. Per i circa 450 giovani giunti in treno o in pullman a Losanna, la settimana promette grandi cose: provenienti da 37 paesi, gli attivisti discuteranno durante cinque giorni idee e progetti per contrastare la crisi climatica. Con loro ci sarà l'icona ambientalista Greta Thunberg. Il vertice sul clima "SMILE for Future", è una riunione strategica a livello europeo del movimento "Fridays for Future". L'assemblea è iniziata lunedì all'Università di Losanna. L'ateneo non ha esitato neppure trenta secondi prima di mettere a disposizione i locali per l'evento, ha detto Nouria Hernandez, rettrice dell'Università di Losanna. Tuttavia, non tutti in Svizzera sono così chiaramente a favore di Thunberg e del movimento per il clima. Per quanto molte persone siano solidali con Greta, i rappresentanti politici dell'area nazional-conservatrice sono particolarmente critici.

Le critiche da destra. Il deputato dell'Unione democratica di centro (UDC) Roland Rino Büchel, considera per esempio Thunberg poco più di una marionetta strumentalizzata da un padre attivista, come ha scritto in un editoriale alla fine di gennaio. Dopo la partecipazione dell'attivista svedese al summit sul clima a Katowice, in Polonia, nel dicembre 2018, l'esponente dell'UDC Claudio Zanetti ha scritto su Twitter di un "abuso dell'infanzia politicamente corretto". Circa due settimane fa i giovani dell'UDC hanno lanciato una nuova campagna in Svizzera: con l'hashtag #kretastattgreta (Creta invece di Greta) invitano la popolazione svizzera a trascorrere le vacanze a Creta invece di lasciare che il dibattito sul clima rovini le loro vacanze. Prima dell'apparizione di Thunberg davanti alla stampa lunedì, i giovani nazional-conservatori hanno pubblicato un comunicato, in cui si afferma che la giovane attivista svedese, il movimento per il clima, l'assemblea e tutte le loro richieste sono "estremamente pericolose" ("brandgefährlich", nell'originale tedesco).

"Simbolo contro la propria volontà". Martedì anche la stampa Svizzera ha dato ampio rilievo alla presenza dell'attivista svedese a Losanna. Molti commenti sottolineano il divario tra l'enorme presenza mediatica di Thunberg e la sua espressa volontà di essere un'attivista tra le tante. "Fa quasi compassione", scrive il quotidiano Neue Zürcher Zeitung. "Sul podio siedono sei persone che hanno qualcosa da dire [….] ma tutta l'attenzione va a colei che in fondo non vorrebbe tutto questo rumore attorno alla sua persona." Anche il tabloid Blick osserva che "alla conferenza sul clima di Losanna [Thunberg]  vorrebbe essere una semplice partecipante. Ma non è così semplice."  Alla centralità della figura di Greta Thunberg la stampa contribuisce del resto in maniera rilevante. Basti citare come esempio i titoli scelti da Le Temps ("La Gretamania s'invita a Losanna") e dalla Aargauer Zeitung ("E ora, Greta?") per parlare del vertice nel capoluogo vodese.

"Justin Bieber dell'ecologia". In Francia, alla fine di luglio, i deputati repubblicani avevano boicottato una sessione alla Camera dei deputati francese e avevano lanciato a Thunberg epiteti come "guru dell'apocalisse", "premio Nobel per la paura" e "Justin Bieber dell'ecologia". Greta Thunberg è una "icona mediatica senza alcuna legittimità", ha detto Sébastien Chenu del movimento di destra populista National Rally Movement. Molto scalpore ha suscitato un articolo pubblicato di recente dal New York Times, in cui autore critica la visione a suo avviso semplificata di Thunberg della crisi climatica e sostiene che, in quanto sedicenne, non sarebbe normalmente legittimata a partecipare alle discussioni al tavolo della democrazia. Altrettante polemiche ha sollevato il titolo del quotidiano Libero in occasione della visita di Thunberg a Roma, "La Rompiballe va dal Papa", accompagnato dal gioco di parole "Vieni avanti Gretina".

26'000 scienziati dalla sua parte. La critica in ogni caso continua, anche se Thunberg nega ogni legame di interesse e ora ha il sostegno di oltre 26'000 scienziati. A marzo avevano confermato per iscritto che le attuali misure di protezione del clima, delle specie, delle foreste, del mare e del suolo sono ben lungi dall'essere sufficienti per fermare il riscaldamento globale. Per Thunberg, il vertice climatico di Losanna segna l'inizio di un mese di viaggio. Venerdì la giovane attivista si recherà in Gran Bretagna e da metà agosto continuerà il suo viaggio a New York e Santiago del Cile con una barca a vela. I velisti Boris Herrmann e Pierre Casiraghi porteranno  oltreoceano la sedicenne, suo padre e un regista. Il loro obiettivo: il vertice delle Nazioni Unite sul clima del 23 settembre e la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima che si tiene in Cile a dicembre. Traduzione dal tedesco: Andrea Tognina  

Ora Greta sostiene il gay pride: è un ambiente che va di moda. Lorenzo Zuppini su Il Primato Nazionale il 7 Agosto 2019. Il mondo politically correct si sintetizza nella gestualità e nelle iniziative di una bambina svedese nota come Greta Thunberg, oggi famosa per aver iniettato in mezza umanità una overdose di falsità ambientaliste, insensatezze e di cialtronaggine. Ha sedici anni e poco più, che vuoi che sia direte voi, eppure attrae il mondo patinato ex comunista che oggi è alla disperata ricerca di un’isola d’approdo per sfuggire alla tempesta dell’insipienza. Se ne andrà a New York, al vertice delle Nazioni Unite sul clima, con la barca Malizia II di Casiraghi, alla quale è stata stampata sulla fiancata lo slogan “climate action now”. L’aereo inquina e fa aumentare il riscaldamento globale o qualcosa del genere, roba per cui poi i ghiacci si sciolgono e gli orsi polari vengono ripresi dalle telecamere tutti magri e denutriti. Bene. Chissà di cosa si ciberanno durante la traversata, se pescheranno dall’oceano i fratelli pesci o se faranno precedentemente scorta nel tempio del consumismo chiamato supermarket. Consumare meno per lavorare meno per inquinare meno e per essere, in definitiva, più felici tutti. Sembra un Di Battista qualunque, e il paragone è più calzante di quanto non sembri. L’aria svampita, stralunata e pesantemente snob (“vadi Gveta, vadi”), tipica di chi non fa niente nella vita ma si crogiola in una ignoranza così seduttiva da risultare più convincente di chi ha la pessima abitudine di studiare e non divulgare idiozie. C’è poi quello sguardo perduto verso l’infinito, verso l’assenza di limiti (e di confini), girovagando per il mondo alla ricerca di risposte che il buon padre di famiglia consiglia di ricercare all’interno dei libri. Lontani, anche se per finta, dalla mondanità e dalle deprecabili abitudini cui siamo ormai soggetti tutti quanti. Nel frattempo verrà girato un documentario su Greta e chissà se poi finirà su Netflix o YouTube o qualche altro gigante del ventunesimo secolo che rappresenta quel progresso umano e scientifico osteggiato dal popolo dei gretini.

Greta va al Gay Pride. Greta, bontà sua, ha soli sedici anni, ma il resto di quella melassa antagonista è più che matura e si dimostra ancora una volta incapace di andare oltre la sciocca pretesa di avere un mondo fatto su misura senza ingiustizie né violenze, e un clima perfetto e una convivenza perfetta e l’amore universale. D’estate non può far troppo caldo e in inverno troppo freddo. Loro rivendicano il diritto di plasmare il clima sulla base della moda del momento, la quale è sempre e invariabilmente ostile all’uomo bianco e alla civiltà e al progresso che con fatica ha creato. Una civiltà migliore sotto mille aspetti, ma che i gretini abiurano perché c’è sempre un po’ di fascismo latente e le coppie gay non sono parificate in tutto a quelle etero. Eggià, Gretina si è specializzata anche in questo genere di minchiate con il sostegno al gay pride di Stoccolma e avendo, mesi or sono, partecipato a una contromanifestazione in occasione del ritrovo di un gruppo identitario svedese. E così la narrazione continua indisturbata sulle note degli slogan scemi “contro ogni fascismo” e “love is love”, frasette fatte nel laboratorio della propaganda politicamente corretta ideata da uno sparuto gruppo di annoiati perdigiorno impegnati a garantire un futuro ecosostenibile a questa umanità allo sbando. Lorenzo Zuppini

Fridays for future in piazza con Greta. Nuovo appello ai politici: "Serve giustizia climatica". A Losanna si chiude il vertice europeo dei giovani ambientalisti che, ancora una volta assieme a Greta Thunberg, annunciano una nuova ondata di scioperi a settembre. La Repubblica il 9 agosto 2019. Garantire la giustizia ed equità climatiche, mantenere l'aumento delle temperature globali sotto 1,5°C dai livelli pre-industriali, ascoltare la miglior scienza disponibile oggi. Sono le tre richieste ai potenti della Terra che escono dal vertice europeo di Fridays for Future, il movimento di giovani per il clima ispirato da Greta Thunberg, che si conclude oggi a Losanna in Svizzera. Ieri una delegazione del movimento ha incontrato a Ginevra alcuni dei ricercatori che hanno preparato il rapporto dell'Ipcc (il comitato scientifico dell'Onu sul clima) su "Cambiamento climatico e territorio". I sette ragazzi che hanno partecipato al meeting Fff a Losanna, hanno ringraziato gli scienziati per il loro lavoro. "Grazie, grazie, grazie - ha detto Selin Goren, 18 anni, dalla Turchia - il vostro lavoro come scienziati del clima è essenziale per il nostro futuro. Quanti di questi rapporti preoccupanti ci vorranno prima che i governi prendano azioni efficaci? Noi useremo questo rapporto per richiedere ai governi di agire urgentemente per affrontare l'emergenza climatica". Kristina, 21 anni, dalla Russia, ha aggiunto: "Come gruppo di giovani del mondo, siamo venuti a Ginevra per dirvi che ci raccogliamo dietro la scienza. Il vostro lavoro è essenziale nel comprendere il problema, così come quello che possiamo fare per risolverlo". Per Julia Haddad, 16 anni, dal Libano, "questo rapporto rende chiaro che certi tipi di utilizzo del suolo sono una causa principale del cambiamento climatico e devono essere affrontati insieme all'uso dei combustibili fossili, se vogliamo raggiungere gli obiettivi sul clima di Parigi. Se le emissioni di gas serra non vengono tagliate rapidamente, posiamo trovarci di fronte insicurezza alimentare in molte parti del mondo. Come giovane donna che è cresciuta in Libano, io ho visto direttamente l'impatto dell'insicurezza alimentare sulla vita di tutti i giorni, ed è decisamente preoccupante". Dopo l'incontro con i ricercatori dell'Ipcc, i giovani attivisti sono tornati a Losanna, che ha visto 450 attivisti arrivare da 38 Paesi europei per il vertice dei giovani ambientalisti che si è chiuso oggi con una manifestazione in Place de la Gare, con la partecipazione di Greta Thunberg.

Greta pronta a salpare. Greta è pronta a partire ma non in treno, come ha fatto finora per limitare le emissioni di CO2. La prossima settimana la sedicenne attivista per l'ambiente salperà verso gli States attraversando l'Atlantico con la barca a vela Malizia II, messa a disposizione dal principato monegasco. Destinazione New York, dove Greta parteciperà a una serie di summit e proteste. "E' pronta ad accettare l'ignoto. Questo dimostra fino a che punto è pronta a spingersi per portare il suo messaggio", dice Boris Herrmann, il marinaio tedesco che la porterà a bordo della sua imbarcazione "zero emissioni" dalla Gran Bretagna agli Usa e che si dice impressionato dalla determinazione dimostrata dall'adolescente. La data della partenza dipenderà dalle condizioni meteo. A bordo, il co-skipper Pierre Casiraghi di Monaco. "Le ho chiesto se avesse paura - racconta Hermann - Ha risposto con un No molto deciso". A bordo della Malizia, tutta l'elettricità viene generata da pannelli solari e turbine sottomarine.

Greta: "Voglio parlare all'America, ma non incontrerò Trump. Lui non ascolta la scienza". La Repubblica il 9 agosto 2019. La giovane attivista svedese parla dopo il vertice sul clima a Losanna. Ora attraverserà l'Atlantico in barca a vela per portare la sua battaglia sul continente americano. Appena concluso il vertice Smile for Future di Losanna, Greta Thunberg nei prossimi giorni raggiungerà New York e la riunione dell'Onu sul clima. Attraverserà l'Atlantico in qualche settimana a bordo della barca a vela del figlio della principessa Carolina di Monaco, Pierre Casiraghi. Prima della sua partenza, la giovane militante ecologista ci ha confidato le sue speranze per questo viaggio. 

Greta Thunberg contro Trump: “Pazzo pericoloso”. Oltre la Linea news 18 Marzo 2019. Che dietro il fenomeno Greta Thunberg, ci sia un’accurata strategia di marketing politico ve lo abbiamo già raccontato nei giorni scorsi. Come ha poi correttamente rilevato Marcello Veneziani, «ma credete davvero che una ragazzina paffuta di sedici anni abbia mosso il mondo, l’Onu, i governi, i media in questa “storica” giornata di mobilitazione planetaria per salvare la Terra? Ci voleva lei, coi suoi cartelli e slogan, per scoprire quelle emergenze planetarie? Dai su, non ci vuole molto per capire il marketing politico-mediatico che si è mosso usando l’icona minorenne di Greta, trasformandola in una specie di Bernadette della religione ecologista, con relativo pellegrinaggio alla Lourdes miracolosa di piazza, e il racconto, lo storytelling, ad usum gretini». Una sinistra spompata e smarrita, prosegue Veneziani, «che non sa più che pesci pigliare, si è tuffata a pesce sul fenomeno Greta e i suoi milioni di sodali, cercando di trarre un populismo buono e giovanile in un rigurgito miracoloso di sessantotto e di appropriarsene. Se leggete i giornali di sinistra, non solo italiani, coi loro titoloni entusiastici, le paginate euforiche, è stata una flebo di vitalità in un corpo smorto, un soccorso da respirazione bocca a bocca». E infatti, ecco che Greta Thunberg, in nome del politicamente corretto e non di una critica articolata e cosciente, ha definito in un’intervista a Die Welt il presidente Usa Donald Trump «un pazzo pericoloso». E siamo altrettanto sicuri, potete scommetterci, che dal nuovo fenomeno mediatico internazionale, arriveranno, prima o poi, altre dichiarazioni di questo tipo – magari nei confronti di “sovranisti” e prima delle elezioni europee di maggio.

Chi muove i fili di Greta Thunberg. Greta è figlia della celebre cantante Malena Ernman – che nel 2009 partecipò anche all’Eurovision. Sui social vanta una pagina facebook intorno ai 200.000 like. A distanza di soli quattro giorni dalla prima protesta (24 agosto 2018) pubblica un libro dal titolo Scenes from the Heart. Casualità fin troppo emblematica. Non è finita, la strategia di marketing sarebbe fin troppo banale se fosse finalizzata alla promozione di un semplice libro da parte della madre. Capita quindi che alla giovane Greta Thunberg e alla celebre madre si affianchi anche un terzo personaggio: Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità. Da quel che risulta Ingmar Rentzhog è proprietario della startup We Do not Have Time. Il 24 novembre 2018 l’esperto di marketing ha pensato bene di inserire la stessa Greta Thunberg nel board della società. Solo 3 giorni dopo la società ha lanciato una campagna di crowfunding che ha raccolto 2,8 milioni di Euro.

Climate change, tutti i principi della scommessa green. Con Greta. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019di Enrica Roddolo su Corriere.it. Malizia II? Il nome evoca la leggenda del primo Grimaldi che nel Duecento con l’astuzia (da qui il soprannome Malizia) conquistò la Rocca di Monaco. In realtà oggi Malizia II è il nome di un’imbarcazione che sintetizza la scommessa «verde» di un discendente di quell’abile condottiero: Pierre Casiraghi, figlio di Carolina, vice-presidente dello Yacht Club de Monaco (presieduto dallo zio Alberto II). Sul Malizia, dotato di pannelli solari e turbine sottomarine per generare elettricità a zero emissioni di carbonio, Pierre Casiraghi è salpato per il mare con un sogno di sostenibilità. Sulle orme di Alberto I, il principe navigatore che dedicò la vita (e molte risorse) alle ricerche scientifiche nella profondità degli abissi. A bordo delle sue navi che...si chiamavo Alice (come la moglie) e Hirondelle. E seguendo la strada sostenibile tracciata dallo zio Alberto II adesso che con la sua fondazione FpA2 da anni punta sulla sostenibilità. Nelle acque del Porto di Monaco si tiene la Monaco Solar & energy boat challenge che mette in competizione imbarcazioni all’avanguardia per scommessa «verde». Non è certo un caso se adesso sul veliero ecosostenibile Malizia II del giovane Casiraghi - il più appassionato di mare e navigazione forse di casa Grimaldi oggi — salirà l’attività Greta Thunberg che ha annunciato su Twitter: «Andrò al vertice delle Nazioni Unite sul clima a New York, alla Cop 25 a Santiago e ad altri eventi lungo la strada. E mi è stato offerto un passaggio sulla barca a vela Malizia II». Risultato: l’unione mediatica della giovanissima attivista con il giovane Casiraghi è certo, contribuirà ad accendere i riflettori sulla buona causa «verde». «Team Malizia - con lo skipper Pierre Casiraghi e Boris herrmann racing condurrà sulla sua barca a vela Greta, un viaggio senza emissioni nocive attraverso l’Atlantico...», confermano da Monaco. E aggiungono: «La missione di Greta è una battaglia alla quale crediamo e che sosteniamo fortemente e siamo onorati di poterla accompagnare in America per questa missione». È infatti (anche) grazie alla forza mediatica delle ultime vere celebrity internazionali forse che sono i Royals, se la scommessa sostenibile continua a fare passi in avanti. La futura regina Mary di Danimarca, moglie dell’erede al trono Frederick, è diventata negli anni la paladina del vestire sostenibile, madrina del Copenhagen Summit sulla moda sostenibile. Ma il principe Carlo, è lo storico paladino green di un mondo altrimenti distratto dalla corsa verso il domani per accorgersi dei pericoli del climate change. Così oggi il duca di Rothesay come il principe di Galles è conosciuto quando si trova in Scozia, a Caithness ha inaugurato la più grande wind farm del Paese. È la scommessa della Beatrice Offshore Windfarm, un immenso progetto di parco eolico off shore al quale da anni Edimburgo e Londra lavorano per assicurare energia pulita e al tempo stesso riconvertire l’industry petrolifera scozzese in auge negli anni ‘70. Il futuro del pianeta, insomma, è anche nelle mani del «passato», per giocare con le parole. O meglio, dei reali che possono mettere al servizio del mondo contemporaneo la forza di un’immagine mai così evocativa. Così il principe Harry per il numero di settembre di Vogue UK (quello diretto eccezionalmente dalla moglie Meghan) ha intervistato Jane Goodall proprio sui temi della sostenibilità. Confidando, tra il serio e lo scherzoso, che per preservare il pianeta — si limiterà a due figli soltanto.

Giacomo Talignani per “la Repubblica” il 30 luglio 2019. Le trecce al vento e un messaggio chiaro, "zero emissioni contro una tonnellata di CO 2 ". Così la 16enne svedese Greta Thunberg ha deciso di sbarcare in America: ricordando che per aiutare un Pianeta stretto nella morsa del cambiamento climatico si può sempre cercare un' altra via. Lei ha scelto per una rotta che la porterà in barca a vela dall' Europa sino a New York, dove il 23 settembre è attesa al summit sul clima dell' Onu, navigando attraverso l' oceano Atlantico in un agosto per altro a rischio uragani. Saranno due settimane a bordo della "Malizia II", imbarcazione da regata guidata da Pierre Casiraghi. Datata 2015, con panelli solari, turbine sottomarine e sistemi per lo sfruttamento dell' energia eolica, questa nave è pensata per viaggiare ad "emissioni zero" contro la tonnellata di CO 2 di un volo andata e ritorno dalla Svezia agli Stati Uniti. Per lei questo viaggio è dunque una questione di coerenza. Quando il 20 agosto del 2018 si presentò davanti al Parlamento svedese con il cartello sullo "sciopero per il clima" non aveva idea di dove quella protesta l' avrebbe portata ma un anno dopo, diventata paladina del clima, è determinata a insistere con la scelta di "non volare per non inquinare". Dopo aver annunciato di volersi prendere un anno sabbatico da scuola per incontrare gli attivisti americani messicani e canadesi, partecipare al summit di New York e soprattutto alla Cop25 in Cile a dicembre, in centinaia le hanno scritto per aiutarla ad organizzare il viaggio. "Non ci sono treni per l' America e non so ancora come ci arriverò" scriveva ai follower. Poi è arrivata la proposta del Team Malizia e della Fondazione Prince Albert II di Monaco: un "passaggio" sulla barca da 18 metri. Partirà assieme al padre Svante, il regista Nathan Grossman, che girerà un documentario sulla traversata, lo skipper Boris Herrmann e il fondatore del team Pierre Casiraghi, terzo figlio della principessa Carolina di Monaco, anche lui al timone della nave. Si parte nelle prime settimane d' agosto. La data verrà decisa in base al meteo. "La navigazione sarà lunga e impegnativa", ha detto Greta ricordando che la nave è dotata di strumenti per rilevare la CO 2 e fornire dati agli scienziati. Malizia II è proprietà dell' imprenditore tedesco Gerhard Senft e sostenuta dallo Yacht Club di Monaco, di cui Pierre Casiraghi è vice presidente. Per il nipote di Grace Kelly "Greta è un ambasciatrice che trasmette un messaggio fondamentale sia per la nostra società che per la sopravvivenza delle generazioni future". Quei milioni di giovani che, dice Greta, "hanno alzato la voce per svegliare i leader mondiali. Nei prossimi mesi, a New York e in Cile, scoprirò se ci stanno ascoltando. Il nostro futuro è a rischio: dobbiamo tutti unirci davanti all' allarme lanciato dalla scienza". L' eco yacht Malizia II può produrre Elettricità a zero emissioni di carbonio A New York L' eco-attivista svedese Greta Thunberg, 16 anni, non viaggia in aereo a causa del forte impatto che i voli hanno sull' ambiente.

Greta Thunberg, l'ultima trovata: va in barca al vertice Onu. L'annuncio della partecipazione della giovane attivista svedese al vertice di settembre viene dato su Facebook: "Partiamo dall’Inghilterra e sbarcheremo a New York, all’Onu. A guidare la barca sarà Pierre Casiraghi". Roberto Vivaldelli, Lunedì 29/07/2019 su Il Giornale. Greta Thunberg, la giovane attivista svedese ispiratrice del movimento dei Fridays for Future contro i cambiamenti climatici, partirà a metà agosto, destinazione Stati Uniti, per partecipare a una serie di manifestazioni e vertici sul clima, tra cui il Climate Action Summit dell'Onu in programma a New York il 23 settembre, a margine della riunione annuale dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, nonché alle proteste per il clima previste per il 20 e il 27 settembre a Santiago del Cile. Greta viaggerà, come annuncia lei stessa sui social, sulla sulla barca da regata Malizia II (dotata, tra l'altro, di pannelli solari per consentire un viaggio transatlantico a zero emissioni), capitanata dal tedesco Boris Herrmann e da Pierre Casiraghi di Monaco e che salperà dall'Inghilterra a metà del prossimo mese. Greta ha in programma di visitare Canada e Messico, prima di raggiungere il Cile per la conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a dicembre a Santiago. Si tratta del primo viaggio in Nord e Sud America per la giovane attivista che prenderà un anno sabbatico dalla scuola per completare il viaggio. "Buone notizie" - annuncia Greta Thunberg ai suoi follower sui social media - "Navigheremo attraverso l'Oceano Atlantico dal Regno Unito a New York a metà agosto. La scienza è chiara. Dobbiamo iniziare a piegare drasticamente la curva delle emissioni verso il basso entro il 2020, se vogliamo avere ancora la possibilità di rimanere al di sotto di 1,5 gradi di aumento della temperatura globale. Abbiamo ancora una finestra temporale in cui le cose sono nelle nostre mani. Ma quella finestra si sta chiudendo velocemente. Ecco perché ho deciso di fare questo viaggio ora. Nell'ultimo anno, milioni di giovani hanno alzato la voce per far svegliare i leader mondiali dal clima e dalla crisi ecologica. Nei prossimi mesi, gli eventi a New York e Santiago del Cile mostreranno se ci hanno ascoltato". L'attivista aggiunge: "Insieme a molti altri giovani nelle Americhe e nel mondo, sarò lì, anche se il viaggio sarà lungo e impegnativo. Faremo sentire le nostre voci. La scienza è chiara e tutto ciò che i ragazzi stanno facendo è comunicare e agire secondo quello che ci dice la scienza. E chiediamo che il mondo faccia proprio questo messaggio". Prosegue, dunque, la "guerra" di Greta alle compagnie aree che ha già fatto proseliti in tutto il mondo. Come scriveva Repubblica lo scorso giugno, il "Flyggfritt" - movimento svedese del "no all’aereo" - ha arruolato 14.500 persone che si sono impegnate a non mettere piede su un jet nel 2019 e questo si è tradotto in un 'anomalo' balzo della vendita di biglietti in treno in Svezia. Nel frattempo, quindici parlamentari francesi hanno presentato un disegno di legge per proibire l’uso dell’aereo sulle tratte come la Parigi-Marsiglia (collegate oggi da 35 voli al giorno) dove la differenza del tempo di viaggio tra aereo e alta velocità ferroviaria è sotto le due ore e mezza, mentre Greenpeace chiede invece una sovrattassa per i frequent-flyer - il 15% dei grandi viaggiatori che copre oggi il 70% dei voli totali. Sul viaggio in barca dal Regno Unito a New York di Greta viene da pensare che si tratti dell'ennesima trovata pubblicitaria e nulla di più, annunciata in un momento in cui l'attenzione verso i Fridays for Future rischia di scemare dopo il grande entusiasmo iniziale. Una strategia per non far calare l'attenzione sull'icona del progressismo eco-friendly e sulla favola green di una giovane attivista che dal nulla finisce per essere ricevuta con tutti gli onori al World Economic Forum di Davos, simbolo del globalismo finanziario mondiale, e dai potenti del mondo come Christine Lagarde, direttrice del Fmi e ora presidente della Banca centrale europea. Peccato che la favola non nasca dal nulla ma da un'accurata operazione di marketing promossa da Ingmar Rentzhog, esperto di pubblicità, proprietario della startup We Do not Have Time. Il 24 novembre 2018, Ingmar ha inserito la stessa Greta nel board della società. Solo 3 giorni dopo, We Do not Have Time (che è anche lo slogan di Greta) ha lanciato una campagna di crowfunding che ha raccolto 2,8 milioni di euro. Rentzhog, inoltre, è stato assunto come presidente del think tank Global Utmaning nel maggio del 2018. Fondatrice di questo centro studi è Kristina Persson, ex ministro socialdemocratico svedese dello sviluppo. "È frustrante essere accusati di usare il nome di Greta Thunberg.Non l'abbiamo usata, l'abbiamo aiutata" ha dichiariato Rentzhog in un'intervista di qualche settimana fa, confermando la sua collaborazione con Greta. Quanto alle dichiarazioni dell'attivista svesede sulla "scienza", in realtà il dibattito sull'origine antropica dei cambiamenti climatici è apertissimo. Di recente, contro il "catastrofismo" di FridaysforFuture e di Greta Thunberg si sono schierati, attraverso una petizione, un centinaio di studiosi e scienziati di fama internazionale "con l’obiettivo di incentivare un serio dibattito sul futuro del nostro pianeta in base alle attuali conoscenze scientifiche e scevro da condizionamenti politici". Un appello sottoscritto da accademici come Uberto Crescenti, Giuliano Panza, Franco Prodi, Antonino Zichichi, Renato Angelo Ricci. Infatti, secondo gli esperti che hanno aderito all'appello, "la responsabilità antropica del cambiamento climatico osservato nell’ultimo secolo è ingiustificatamente esagerata e le previsioni catastrofiche non sono realistiche". Realismo e non catastrofismo è ciò che serve per discutere, senza preconcetti, di un tema serio e complesso come quello dei cambiamenti climatici.

Greta Thunberg non vola più per il riscaldamento globale e va a New York con lo yacht di Pierre Casiraghi. Maurizio Zottarelli su Libero Quotidiano il 30 Luglio 2019. Greta ha trovato un'elegante soluzione al riscaldamento globale: la barca a vela. La giovane attivista svedese è tornata a far parlare di sé annunciando che il prossimo 23 settembre parteciperà al vertice delle Nazioni Unite sul clima in programma a New York. Per cominciare, va spiegato, che la signorina Thunberg ha confermato la scelta di prendersi un anno sabbatico dalla scuola per poter diffondere a dovere il suo verbo ecologista in ogni parte del globo. A cominciare, quindi, dal summit Onu di New York. Al quale, però, per rispetto dell' ambiente e non contribuire al surriscaldamento della terra, non si recherà in aereo. No, andrà via mare. In realtà, la decisione di non volare più non è una novità visto che sono tre anni che Greta ha bandito gli aeroplani dalla sua vita. La novità consiste nel mezzo alternativo adottato. Perché verrebbe da pensare che scartata la via aerea e scelto il mare, la giovane svedese si sia affidata, non diciamo a un transatlantico, mezzo che sa di lusso fuori tempo e fuori moda, ma a qualche traghetto spartano ed ecologista. Invece, Greta ha fatto di meglio e a New York ci andrà sospinta dal vento, la più rinnovabile e pulita delle energie. Ma, anche in questo caso, non con una normale barca a vela, bensì con una fuoriserie da regata. Dalla sua pagina Facebook la giovane ci fa sapere che, beata lei, le è stato offerto un giro sulla barca da regata da 18 metri Malizia II. E di chi è il simpatico yacht messo a disposizione della guerra per la salvezza della terra? Ma della famiglia Grimaldi, i principi di Montecarlo. «Navigheremo attraverso l' Oceano Atlantico dal Regno Unito a New York a metà agosto» spiega Greta. E, naturalmente, anche lo skipper sarà d'eccezione: a guidare la barca sarà, infatti, Pierre Casiraghi, il figlio della principessa Carolina di Monaco, team leader dell' equipaggio di Malizia II, oltre che vicepresidente dello Yacht Club monegasco. A bordo, poi non mancherà papà Svante, che di solito segue la figlia come un'ombra e di certo non si perderebbe questa meravigliosa crociera attraverso l'Atlantico. Ma non finisce qui. Passato l'appuntamento di New York la goletta verde di lusso di Greta farà rotta a Santiago del Cile, dove conta di arrivare per novembre, in tempo per la Cop25 che si aprirà il 26 dello stesso mese. E pure in questo caso la ragazza dispenserà il suo verbo di salvezza spiegando che dobbiamo «piegare la curva delle emissioni drasticamente» per salvarci dal surriscaldamento e sarà, moralmente, accompagnata dai «milioni di giovani che hanno alzato la voce per far svegliare i leader mondiali». E soprattutto per spiegarci che, per viaggiare, è ora di smetterla di prendere questi costosi e inquinanti aerei. Chiamate Pierre Casiraghi e fatevi portare in barca da lui. È ecologico, pulito, la compagnia è bella e magari ci scappa pure l' aperitivo...di Maurizio Zottarelli

Greta Thunberg, la pagliacciata della traversata in barca: inquina più a vela che se avesse preso un aereo. Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. Greta Thunberg, la nuova egeria svedese dell' ambientalismo da salotto, è partita il 14 agosto dal porto di Plymouth, in Inghilterra, per andare a predicare il climaticamente corretto dall' altra parte del mondo, a New York, dove il 23 settembre verrà accolta da star al summit sull' ecologia dell' Onu. Su queste pagine, domenica scorsa, abbiamo raccontato il dietro le quinte di questo viaggio in barca a vela, e soprattutto la doppia faccia dello skipper très chic dell' attivista svedese: Pierre Casiraghi, terzogenito di Carolina de Monaco e, nonostante i bei discorsi per compiacere il mondo green, gran produttore di CO2 da azionista di Monacair, la principale società di trasporti in elicottero monegasca, e da vicepresidente dello Yacht Club de Monaco.

«ZERO EMISSIONI» - Come rivelato dal quotidiano tedesco Die Tageszeitung, però, c' è un dettaglio molto più imbarazzante che smonta la grottesca propaganda per l'ambiente di Greta & Co: la traversata a bordo del Malizia II della sedicenne con le trecce renderà necessari almeno due voli transatlantici e cinque biglietti aereo, con emissioni di CO2 in gran quantità e tanti saluti all'ambiente. Ma andiamo a vedere i particolari dell' impostura scoperchiata dal giornale berlinese. Stando a quanto dichiarato al Die Tageszeitung dal portavoce dell'altro skipper di Greta, il tedesco Boris Herrmann, quattro membri dell' equipaggio del Malizia II dovranno viaggiare a New York a bordo di un aereo per portare indietro la barca a vela a "zero emissioni" di Casiraghi. «Certo che prenderanno un aereo, non abbiamo scelta», ha dichiarato Andreas Kling, portavoce di Boris Herrmann. Oltre ai quattro membri dell'equipaggio che dovranno guidare verso casa l'imbarcazione monegasca, per tornare in Europa più velocemente prenderà l'aereo anche Herrmann, lo skipper tedesco attualmente in viaggio assieme a Greta. «Abbiamo dovuto organizzare il viaggio in pochissimo tempo», ha detto il portavoce dell' equipaggio del Malizia II al Times, cercando di giustificarsi. Ma il colmo dei colmi è un altro. Come sottolineato dal Tageszeitung, se Greta Thunberg e suo padre, attualmente a bordo del Malizia II, avessero preso un aereo Stoccolma-New York, avrebbero inquinato meno in termini di CO2, dato che due biglietti, e un volo, sarebbero stati sufficienti. Alla fine, invece, saranno almeno due i voli transatlantici, e cinque i biglietti aerei, e l' impatto ambientale, dunque, sarà di conseguenza molto più grave (non è ancora certo se Casiraghi tornerà in aereo come il suo collega tedesco, e se il regista che sta filmando la traversata pseudo-green di Greta opterà anche lui per un rientro più rapido: in questo caso, i biglietti saranno addirittura sette). L'attivista svedese, assieme al padre, dovrebbe invece rinunciare all' aereo, e tornare indietro in una nave portacontainer, stando alle informazioni del giornale berlinese.

PRESA DI COSCIENZA - «La traversata dell'Atlantico molto inquinante di Greta Thunberg», ha commentato il settimanale francese Le Point, mentre i giornali della gauche dedicano soltanto un trafiletto al ridicolo teatrino smontato dal Tageszeitung. «Abbiamo pianificato questo viaggio a New York all' ultimo minuto», ha dichiarato Holly Cova, responsabile dell' equipaggio del Malizia II, attraverso un comunicato trasmesso dall' entourage di Greta, prima di aggiungere: «In tutto, quattro membri dell' equipaggio riporteranno indietro l' imbarcazione. Sono decisioni logistiche prese dalla squadra del Malizia II». Infine, Holly Cova, ha ammesso che «la soluzione è imperfetta», pur sottolineando che «Greta spingerà il mondo a una presa di coscienza». Ma più che una presa di coscienza, siamo di fronte a una presa per i fondelli, condita di chiacchiere green e niente più. Mauro Zanon

Greta viaggia con Pierre Casiraghi, azionista di Monacair. Greta Thunberg si fa accompagnare in barca da Pierre Casiraghi ma il principino è azionista di Monacair, la prima società di trasporti in elicottero monegasca. Roberto Vivaldelli, Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. È iniziata mercoledì scorso la traversata atlantica di Greta Thunberg, la giovane attivista svedese fondatrice del movimento Fridays for Future ed icona dell'ecologismo progressista. Da Plymouth è iniziato il viaggio verso gli Usa con l'obiettivo di partecipare al vertice sul clima delle Nazioni Unite, la Cop25 in programma a New York il 23 settembre ma anche alle proteste contro i cambiamenti climatici che si svolgeranno il 20 e il 27 settembre. L'ispiratrice del movimento dei Fridays for Future ha preferito Malizia II, lo yacht da regata capitanato dal marinaio tedesco Boris Herrmann e Pierre Casiraghi di Monaco, a un più rapido e comodo viaggio in aereo. Decisione presa perché, ha spiegato la sedicenne, i voli emettono troppa CO2. L'imbarcazione scelta, invece, è "zero emissionì": solo energia da fonti rinnovabili, garantita da pannelli solari e turbine sottomarine. Sul Malizia II non ci sono le docce né i servizi igienici: le persone a bordo devono usare un secchio. Mangeranno pasti liofilizzati e confezionati sottovuoto, mentre per Greta sono a disposizione i kit vegani. Insomma, un vero quadretto eco-chic, su cui però pesano incongruenze e contraddizioni, come rileva anche il Codacons in una nota: "Il viaggio dell'attivista svedese Greta Thunberg per il summit sul Clima di New York è stato presentato come '100% ecosostenibile, a zero emissioni di carboniò. Eppure, l'imbarcazione Malizia II, precedentemente utilizzata per regate, tra costruzione precedente e modifiche successive ha raggiunto un costo di produzione di 3,7 milioni di sterline, ovvero 4 milioni di euro. Un costo che non certo un cittadino comune, ma solo una danarosa élite come quella di Pierre Casiraghi, sponsor e membro dell'impresa, potrebbe permettersi. Eppure, il rampollo del principato potrebbe rappresentare uno degli esponenti che Greta Thunberg accusava il 14 dicembre 2018 - parlando ai leader mondiali: 'La biosfera è sacrificata perché alcuni possano vivere in maniera lussuosa. La sofferenza di molte persone paga il lusso di pochi". A questo si aggiunge il fatto che i Casiraghi, che sostengono Greta nella scelta di evitare l'aereo per non inquinare, figurano tra i proprietari della compagnia Monacair - Monaco Helicopter Charter Company. Monacair è stata fondata nel 1988 da Stefano Casiraghi, e tra gli azionisti figurano proprio Pierre e Andrea Casiraghi. Gli elicotteri della compagnia monegasca decollano ogni 15 minuti da Nizza o da Monaco, per un totale di 50 voli al giorno durante tutto l'anno, con buona pace delle emissioni di CO2 e con costi che i normali cittadini non si possono permettere. Da una parte, insomma, difendono l'ambiente dai voli aerei e sostengono la battaglia di Greta, dall'altra fanno business in tutt'altro modo. E le contraddizioni sul viaggio "zero emissioni" non si fermano certo qui. L'obiettivo di ridurre i voli aerei, infatti, è stato raggiunto soltanto in parte. L'aereo è stato sostituito sì con l'imbarcazione ma due dei marinai che accompagnano Greta potranno tornare a casa volando. Allo stesso modo, è stato annunciato che due membri del Team Malizia II potranno raggiungere New York - sempre per via aerea - con lo scopo di riportare indietro la barca a vela utilizzata per raggiungere il summit newyorchese. L’imbarcazione dovrebbe raggiungere New York in 12-13 giorni. A bordo, oltre all'ispiratrice del movimento "Fridays For Future" Greta Thunberg e agli skipper Boris Herrmann e Pierre Casiraghi, il padre della giovane, Svante, e un regista che gira un documentario. E anche in mezzo all'Atlantico, Greta Thunberg non rinuncia allo sciopero per il clima che l'ha resa celebre, non curante delle contraddizioni che la accompagnano in questo viaggio eco-chic. L’attivista svedese ha postato su Instagram una sua foto con l'ormai famoso cartello "Skolstrejk for Klimatet" ("Sciopero per il clima" in svedese), che dall'anno scorso espone ogni venerdì. "Potrei sentire un po’ di mal di mare e non sarà un viaggio comodo, ma posso farcela" ha raccontato l'attivista alla Bbc. "Se diventerà davvero difficile, penserò che è solo per due settimane" ha raccontato. La traversata in barca è l'ultimo tassello di una "favola green" costruita ad arte. Il tutto nasce da un'accurata operazione di marketing promossa da Ingmar Rentzhog, esperto di pubblicità, proprietario della startup We Do not Have Time. Il 24 novembre 2018, Ingmar ha inserito la stessa Greta nel board della società. Solo 3 giorni dopo, We Do not Have Time (che è anche lo slogan di Greta) ha lanciato una campagna di crowfunding che ha raccolto 2,8 milioni di euro. Rentzhog, inoltre, è stato assunto come presidente del think tank Global Utmaning nel maggio del 2018. Fondatrice di questo centro studi è Kristina Persson, ex ministro socialdemocratico svedese dello sviluppo. "È frustrante essere accusati di usare il nome di Greta Thunberg. Non l'abbiamo usata, l'abbiamo aiutata" ha dichiarato Rentzhog in un'intervista di qualche settimana fa, confermando la sua collaborazione con Greta.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 18 agosto 2019. La gauche ecologista è in sollucchero per il viaggio a "zero emissioni" verso New York di "Santa Greta Thunberg", come l'ha definita il sito di opinioni liberali Boulevard Voltaire. Gli aerei sono sinonimo di insostenibili quantità di emissioni di CO2 per l' attivista svedese di 16 anni: meglio una barca a vela, dunque, dove l' elettricità verrà fornita da pannelli solari, si faranno i propri bisogni nei secchi e si mangerà soltanto cibo liofilizzato. «Soffro un po' il mal di mare, ma se ci sarà qualche difficoltà devo pensare che ci vorranno solo due settimane, poi tutto tornerà come prima», ha detto Greta, partita da Plymouth, in Inghilterra, lo scorso 14 agosto. La barca a vela "Malizia II", 18 metri di lunghezza, è stata messa a disposizione gratuitamente da Pierre Casiraghi, figlio di Carolina di Monaco, il quale si è anche offerto per fare da skipper alla nuova icona dell' ambientalismo salottiero, assieme al tedesco Boris Hermann. È tutto molto green e molto chic nel mondo di Greta e dei suoi sostenitori, il quadretto è perfetto per riempire i giornali che ci annunciano un' imminente apocalissi climatica. Ma nessuno, tranne il settimanale Valeurs Actuelles, ha ricordato le abitudini poco verdi e molto inquinanti del rampollo della dinastia monegasca, skipper ecologista per due settimane, e il resto dell' anno gran produttore di CO2. Il magazine parigino, sul suo sito, ha fatto il pelo e il contropelo al buon Pierre, che, tra le varie attività da gestire, ha anche quella di azionista di Monacair, la prima società di trasporti in elicottero monegasca. «Ammirate la bellezza della Costa Azzurra dal cielo a bordo dei nostri elicotteri che offrono una vista panoramica a 180°: un momento indimenticabile da condividere o da regalare in occasione del vostro soggiorno professionale o turistico a Monaco», si legge sul sito di Monacair. Gli elicotteri della compagnia monegasca, di cui Pierre possiede il 10% e di cui è stato presidente fino al 2017, decollano ogni 15 minuti da Nizza o da Monaco, per un totale di 50 voli al giorno durante tutto l' anno. Il costo? 140 euro a persona. Emissioni di CO2? In gran quantità. Il gruppo Monacair, tra le altre cose, è anche partenaire di due società che a Greta dovrebbero far venire il voltastomaco visti i flussi di CO2 che emettono: Airbus, il principale costruttore europeo di aeromobili, e Safran Helicopter Engins, compagnia lussemburghese leader mondiale delle turbine per gli elicotteri. Come sottolineato da Valeurs Actuelles, lo skipper di Greta, figlio di Stefano Casiraghi, possiede anche una quota nella società di costruzioni di famiglia Engeco: non proprio un modello di ecologia. Appassionato di sport automobilistici (è un habitué, come spettatore, del Gran premio di Formula 1 di Monaco, e ha partecipato a corse come l' Audi Sport TT Cup, nel 2015), Pierre Casiraghi, 31 anni, è anche il vicepresidente dello Yacht Club de Monaco. Gli yacht, si sa, non sono proprio un esempio virtuoso di rispetto dell' ambiente, ma il giovane Pierre sembra non farci troppo caso: oggi i suoi occhi sono solo per Greta. «Voglio salutare il coraggio di Greta che ha scelto di lanciarsi in questa avventura, il suo impegno totale, il suo sacrificio e la sua battaglia per ciò che è probabilmente una delle più grandi sfide della storia dell' umanità», ha dichiarato con toni pomposi il terzogenito di Carolina di Monaco. «C' est le bal des faux-culs», si dice a Parigi. Il ballo degli ipocriti.

Pierre Casiraghi: «Ecco perché ho detto a Greta Thunberg di fare la traversata sul Malizia». Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Enrica Roddolo su Corriere.it. Perché la traversata con Greta? «Perché credo nell’importanza di far crescere la consapevolezza del pericolo delle emissioni dannose e dell’inquinamento legato alle attività di tutti noi esseri umani». Pierre Casiraghi, il Grimaldi che scorta in barca a vela Greta Thunberg, l’attivista di soli 16 anni, al vertice Onu sul clima a New York, affida al Corriere i pensieri sul viaggio a bordo del Malizia II. Già, Malizia. Per capire l’avventura di Pierre — figlio di Carolina di Monaco e di Stefano Casiraghi — è il caso di fare un passo indietro. Fino a Malizia, appunto, soprannome di Francesco Grimaldi che espugnò la Rocca di Monaco nel 1297. L’inizio della storia e della favola di Montecarlo. La passione per le sfide di Pierre ha radici antiche. Alberto I, il «principe navigatore», era un visionario che ai primi del 900 ebbe l’idea di una sorta di prova generale di quella che sarebbe stata la Società delle Nazioni, radunando a Monaco principi e re per parlare di grandi intese fra Paesi. Sempre lui, veleggiava per sei mesi l’anno, portando in giro per gli oceani scienziati e ricercatori. In fondo Pierre, imbarcando Greta sul Malizia II, ricalca oggi le orme antiche del «navigatore» di Monaco, sempre pronto a far posto sui suoi velieri — Hirondelle e Princesse Alice come la seconda moglie, Maria Alice Heine — a studiosi dei mari. Perché proprio Greta, Pierre? «Perché lei è l’ambasciatrice di un messaggio fondamentale diretto sia alla nostra società sia alle future generazioni: convincere governi e istituzioni internazionali a proteggere in modo legale la biodiversità e l’esistenza stessa del genere umano è la partita decisiva per l’umanità». Visionario come Alberto I. Non a caso sulla vela di Malizia II campeggia «Uniti nel nome della scienza». Certo, Greta nella fragilità dei suoi 16 anni si lancia in una sfida impegnativa, facciamo notare a Pierre. Non dev’essere stato facile decidere di portare in Atlantico, con tutti i rischi di muoversi su una barca da competizione, una ragazzina così indipendente. «Per questo il Team Malizia e io siamo orgogliosi di avere Greta, sì su questo mezzo di trasporto capace di metterti alla prova, ma oggi questo è l’unico modo di raggiungere New York dall’Europa senza emissioni nocive». L’imbarcazione, guidata dallo skipper Boris Herrmann che si alterna al timone con Pierre, è infatti dotata di pannelli solari e turbine sottomarine per generare elettricità a zero emissioni di carbonio. A bordo dieta vegana per Greta e vita spartana: un secchio per toilette. «È l’unico modo di spostarsi in modo sostenibile, speriamo domani non sia più così, che ci siano anche altre opzioni. Ho grande rispetto per il coraggio di Greta di unirsi all’avventura — dice Pierre — e poi per la sua dedizione totale, il sacrificio nel battersi per la più grande sfida che l’umanità si trova ad affrontare». Con lo zio, Alberto II, Pierre condivide la guida dello Yacht Club de Monaco che in tandem con la Fondation Prince Albert II de Monaco (FpA2) voluta dal principe per sostenere la battaglia contro il climate change, organizza il Solar & Energy boat challenge: gara sui mari che dispiega le proposte di navigazione più avveniristiche e sostenibili. Il legame con lo spirito ecosostenibile di Monaco è l’essenza della nuova scommessa che porterà Greta e Pierre attraverso l’oceano. Anche se Pierre, dice la moglie italiana Beatrice Borromeo, fa molte cose, al di là del «marchio» Grimaldi. Non un principe, ma un figlio di principi, cresciuto libero dalle briglie del blasone. Di certo un privilegiato, a cui non manca però la voglia di mettersi alla prova. «Stiamo perdendo il 40% delle specie e questo mi preoccupa molto» ha detto lo zio Alberto al Corriere. Con Pierre e Greta, nella sua battaglia sostenibile, Alberto II non è solo.

Paolo Martini per Il Fatto Quotidiano il 20 Agosto 2019. Coincidenze del nuovo perverso intreccio tra ecologismo e sistema dei mass-media: la partenza di Greta per gli Stati Uniti sulla barca a vela di Pierre Casiraghi “con solo il secchio come toilette” e il nuovo ponte “sobrio e intelligente” progettato da Renzo Piano per Genova, hanno tenuto banco contemporaneamente, con paginate a tema e robusti richiami in prima. Negli stessi giorni, invece, ha fatto appena capolino a livello nazionale, su La Repubblica e La Stampa, la notizia che la Regione Sicilia ha bloccato la concessione per il prelievo di 700mila tonnellate di sabbia nel golfo di Termini Imerese, riserve naturali millenarie che dovevano essere espiantate dal nostro mare e trasportate nel fondo di quello del Principato di Monaco. A far scattare il relè tra queste notizie ci vuole giusto la pressione di un dito: la sabbia serve all’avanzamento dei lavori di un nuovo mega progetto edilizio a Montecarlo, Portier Cove. Si tratta di una vera e propria isola artificiale di sei ettari, che sorgerà nel 2025 in un’area marina vicina al porto. Per costruirla stanno piantando nell’acqua 18 blocchi di cemento alti 27 metri, da 10mila tonnellate di stazza l’uno: la sabbia andrebbe poi calata dentro questa sorta di diga di protezione. L’avveniristico progetto è stato varato con la sbandierata firma dello studio di Renzo Piano e la benedizione personale del principe Alberto, che sarebbe poi lo zio dello skipper di Greta. Ovviamente tutti, a cominciare dal potentissimo impero francese delle costruzioni Bouygues, capofila dell’opera, si guardano bene dal dire la verità, e cioè che questo scempio serve giusto ad approntare altre seconde case (stavolta da 80mila euro al metro quadrato!) per gaudenti evasori fiscali di tutto il mondo, nuovi posti-barca da vendere a peso d’oro per parcheggiare yacht con la bandiera della Cayman, e magari qualche vetrina di lusso in più per far spendere soldi sporchi a distrut-turisti miliardari in servizio permanente effettivo. Se volete sentire la musica d’accompagnamento suonata a Montecarlo, negli stessi giorni del via alla traversata atlantica di Greta, per quest’altro meno strombazzato viaggio dei 18 mallopponi di cemento da Marsiglia e della mostruosa massa di sabbia, che sta arrivando non più dal Tirreno meridionale ma da chissà dove, via Tolone, eccovi serviti: “Il principe Alberto è entusiasta del progetto e molto attento all’impatto ambientale dell’opera. Assicura che Portier Cove è stato pensato come un "eco-distretto" in cui flora e fauna marina saranno debitamente tutelate. Si integrerà con la conformazione costiera del Principato sia esteticamente che ambientalmente, con una nuova linea di arrotondata, per un’estensione di 35 metri in profondità della curva della costa esistente: essa consentirà il flusso naturale delle correnti senza modificarlo”. Slurp, slurp, slurp, eccetera, eccetera, eccetera. Non è che il grande maestro Renzo Piano, archistar e senatore a vita “ottimista e di sinistra”, sia l’unica bandierina eco-progressista sventolata dai principi cementificatori di Monaco: gli farà buona compagnia il simpatico rivoluzionario Massimiliano Fuksas, che, sempre con la moglie Doriana al fianco, ha appena vinto il concorso per un progetto nel borgo di Fontvieille. L’idea di una sorta di nuvola colorata con edifici e strade che si presenti come “un parco verticale e un mare trasparente”, servirà, stando alle parole dei Fuksas, “per vedere il giardino delle delizie ripensando alla poesia del cantico dei cantici”. Sic. La nuova mega-struttura di cinque piani prenderà il posto del vecchio porticciolo, già teatro di una prima speculazione edilizia negli anni Settanta. E qui si arriva dritti a Pierre Casiraghi, generoso tassista del mare della piccola Greta con la sua barca a vela Malizia II, nome che s’estende al cubo anche per questa geniale trovata di "green-washing", che diventerà presto un film. Come tutta la dinastia dei regnanti Grimaldi, anche Pierre è impegnato in prima persona nel perenne fervore edilizio dello staterello eco-mostro di Montecarlo: figura come socio maggioritario di una solida impresa di costruzioni monegasca, l’Engeco, che proprio a Fontvieille ha firmato uno dei progetti più importanti, la ristrutturazione di un grande immobile industriale nel centro uffici e servizi Le Neptune. E possiamo immaginare quanto anche questi luoghi di lavoro del turbo-capitalismo offshore, il venerdì saranno poco affollati, ma certo non perché qualcuno degli pseudo-residenti sarà voluto scendere in piazza con Friday for Future o magari anche solo farsi un selfie sullo yacht, come Greta in mezzo alle onde dell’Atlantico, il 16 agosto scorso, con in mano il cartello “Skolstreik for Climatet” (Sciopero per il clima). P.s.: L’autore di questo breve testo, facendo semplicemente notare qualche macchiolina nera sui nuovi vestiti verdi indossati repentinamente dai giornaloni e dalle televisioni, in ossequio all’ultima moda dell’iper-uranio dei ricchi del pianeta, non vuole assolutamente togliere nulla alla grandezza e alla bravura di Renzo Piano o dei Fuksas, e men che meno mettere in questione la buona fede della nostra amatissima Greta.

Greta Thunberg getta l'ancora a Coney Island. Da La Repubblica il 29 Agosto 2019. "Abbiamo ancorato al largo di Coney Island, stiamo espletando le pratiche doganali. Arriveremo marea permettendo a North Cove Marina (a Manhattan) alle 14:45 (le 20.45 in Italia)". Con un tweet Greta Thunberg ha avvisato il mondo: Malizia II è arrivata Coney Island, penisola situata nella zona meridionale di Brooklyn. "Terra!! Davanti le luci di Long Island e New York City". Greta Thunberg aveva questa mattina annunciato via Twitter che il suo viaggio verso gli States stava per concludersi: la 16enne attivista svedese si stava avvicinando alla Grande Mela a bordo dello yacht Malizia II di Pierre Casiraghi, figlio di Carolina di Monaco e del campione di offshore Stefano Casiraghi. A New York prenderà parte al summit dell'Onu sul clima. A dare il benvenuto alla giovane attivista ci saranno le Nazioni Unite con una piccola flotta di 17 barche a vela, una per ciascun obiettivo dello sviluppo sostenibile. Lo ha annunciato un portavoce delle Nazioni Unite. Le barche incontreranno Greta a New York nei pressi del ponte Giovanni da Verrazano. Greta sta compiendo un viaggio a zero emissioni dal Regno Unito a New York per il summit dell'Onu sul clima il 23 settembre prossimo. Il viaggio transatlantico è iniziato dal porto di Plymouth, nel sud dell'Inghilterra il 14 agosto. Nei giorni scorsi le condizioni meteo avevano costretto Malizia a rallentare.

Massimo Gramellini per il Corriere della Sera il 29 Agosto 2019. Ti abbiamo osannata quando con la tua protesta solitaria hai riacceso l' attenzione dei grandi sui patemi ambientali. Ti abbiamo sostenuta quando i malpancisti ti accusavano di esserti trasformata in un fenomeno da baraccone. E ti abbiamo difesa dalle critiche di chi giudica strumentale la decisione di recarti al summit dell' Onu in barca a vela, mezzo di trasporto ecologico ma non alla portata di tutte le tasche, mentre lontano dalle luci della ribalta i tuoi collaboratori raggiungeranno New York a cavalcioni di più economici e tossici aerei. Però una cosa te la dobbiamo dire, Greta Thunberg. Attenta all'effetto Papeete. Come forse non sai, prende il nome dallo stabilimento balneare di Milano Marittima in cui Salvini ha trascorso le ferie e perso politicamente la brocca. Arrivando davanti all' isola di Manhattan, tu ieri hai strillato sui social «Terra!», neanche fossi la pronipote vichinga di Cristoforo Colombo. L' altro giorno avevi informato l' umanità che il tuo viaggio era disturbato da un vento forte e che le onde dell' oceano erano molto alte. Capisco che sei abituata a misurare tutto ciò che ti riguarda con il metro dell' eccezionalità. Ma non stai solcando mari ignoti, né scoprendo continenti riemersi. Stai solo andando a New York in barca a vela. Attenta all' effetto Papeete, Greta. Basta un attimo. Basta sentirsi al centro dell' universo e circondarsi di laudatori adoranti per perdere il contatto con la realtà e ritrovarsi, al risveglio, in minoranza persino con sé stessi.

Greta Thunberg non vince il premio Nobel per la pace, assegnato al premier etiope Abiy Ahmed. Libero Quotidiano l'11 Ottobre 2019. C'è un giudice in Norvegia. La notizia non è tanto il fatto che il premio Nobel per la pace sia stato assegnato al premier dell'Etiopia, Abiy Ahmed, ma piuttosto il fatto che non sia stato assegnato a Greta Thunberg, la baby-paladina ambientalista che ha recentemente strigliato i potenti del mondo all'Onu. Ai più, infatti, non sarebbero state chiare le ragioni per le quali la giovane attivista svedese avrebbe dovuto vincere il Nobel per la Pace, assegnato dalla giuria di Oslo, in Norvegia: senza entrare nel merito delle battaglie di Greta, la "pace" pare un concetto un poco differente rispetto all'ambientalismo. Ma tant'è. Il Premio Nobel 2019 per la pace va al premier etiope Abiy Ahmed Ali, promotore dello storico accordo di pace con l'Eritrea. Il premier ha firmato la pace con l'Eritrea ponendo fine a un conflitto durato vent'anni, è riuscito a rendere più semplici le relazioni con tutti i vicini. In politica interna, ha stabilito la liberazione dei prigioniero politici e riallacciato il dialogo con gli oppositori in esilio.

C’è luce in Africa: il Nobel per la pace a Abiy Ahmed Ali. Il Dubbio il 12 ottobre 2019. Appena eletto, il premier etiope ha concesso l’amnistia a migliaia di prigionieri politici. L’assegnazione del premio Nobel per la pace doveva di una contesa tra una ristretta rosa di candidati. Innanzitutto Greta Tumbergh per la sua lotta in difesa del clima, poi la premier neozelandese Jacinda Ardem che dopo la strage di Cristianchurch aveva avviato una forte politica di riduzione di armi nel suo paese. Nomi all’attenzione dell’opinione pubblica e di indubitabile spessore, ma forse a sorpresa la decisione del comitato per il Nobel è stata un’altra, la prestigiosa onoreficenza è andata al giovane primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed. Le ragioni che giustificano il premio sono valide e rivestono un’importanza fondamentale per un continente martoriato come l’Africa. Abiy Ahmed infatti è stato il protagonista di un evento importantissimo e cioè la firma siglata il 16 settembre 2018, dopo una trattativa durata poche settimane, della pace con l’Eritrea del discusso presidente Isaias Afewerk. In questa maniera è stata messa la parola fine ad un conflitto armato scoppiato nel 1998 quando truppe etiopi entrarono in territorio eritreo. Una guerra a bassa intensità ma non per questo meno letale, da più parti giudicata assurda, basata essenzialmente su una contesa territoriale. Abiy Amhed ha rinunciato alle rivendicazioni originarie accettando l’accordo di pace dell’Onu nel 2000 ricevendo in cambio altre fette di terra al confine. Condizioni che lo stesso Afewrki ha colto al volo. Le ambasciate dei due paesi sono state riaperte e ristabiliti i collegamenti telefonici, è stato dato impulso agli scambi commerciali e riaperta la rotta aerea. Ma tali risultati sono il frutto di quella che è la personalità e la formazione di Abiy Ahmed. Nato ad Agaro, regione centro meridionale dell’Etiopia, proviene da una famiglia per metà cristiana e per l’altra musulmana, è stato un soldato con il grado di tenente colonnello. Ingeniere e politico riformista, prima di diventare Primo ministro nel 2018, a soli 42 anni, è stato a capo del dicastero della Scienza e Tecnologia e responsabile della cyber security del Paese durante il precedente governo guidato da Hailemariam Desalegn dimessosi a sorpresa. Ahmed fa parte dell’etnia oromo, la più numerosa ma anche la più marginalizzata, è leader dell’Organizzazione democratica del popolo oromo uno dei quattro partiti che formano il governo di coalizione. La sua ascesa inizia nel 2015, quando la sua comunità comincia a protestare per un progetto che prevedeva l’estensione della capitale Adis Abeba nel territorio dell’Oromomia. Furono i contadini a denunciare il tentativo di espropriazione delle proprie terre dando vita ad una lotta che il governo federale represse con durezza uccidendo 300 persone e dichiarando lo stato d’emergenza...Abiy Ahmed ha incarnato la pacificazione etnica e alla fine è stato indicato come l’inevitabile successore del tigrino Desalegn. Una volta divenuto primo ministro ha dato il via ad una serie di riforme che lo hanno reso un personaggio apprezzato anche dalle opposizioni sebbene gli scontri tra le diverse comunità, dalle quali è composta l’Etiopia, si siano riaccesi negli ultimi tempi. Nei primi 100 giorni del suo governo ha soprattutto ridato speranza alla popolazione per un futuro democratico, come provvedimento iniziale ha revocato lo stato di emergenza concedendo l’amnistia per migliaia di prigionieri politici, ha eliminato la censura sui media legalizzando i gruppi di opposizione. Ha esercitato il suo potere anche sui militari, licenziando quelli sospettati di corruzione e violazioni dei diritti umani e prometten- do di organizzare libere elezioni. Dal punto di vista economico Ahmed ha annunciato programmi per combattere le forti diseguaglianze del paese e per privatizzare parzialmente le maggiori aziende di Stato. Forse la definizione data dal Financial Times, un “incrocio tra Che Guevara e Macron”, è esagerata, ma il respiro ideale che esprime Abiy Ahmed lo si può rintracciare nel suo protagonismo anche al di fuori dell’Etiopia. Il giovane leader infatti si è impegnato in altri processi di pace in Africa. Nel settembre 2018 il suo governo ha lavorato per la normalizzazione delle relazioni tra Eritrea e Gibuti e mediato tra Somalia e Kenya. Soprattutto Abiy Ahmed si reso protagonista del difficilissimo accordo in Sudan tra militari e opposizione civile dopo la caduta di Omar Bashir. Un attivismo che gli ha fatto guadagnare l’appoggio di diversi paesi occidentali i quali contano sull’appoggio dell’esercito etiope per le missioni di peacekeeping, tra le quali l’intervento contro i terroristi somali di al Shabaab.

Chi è Abiy Ahmed, Nobel per la pace a 43 anni. Il premio Nobel per la pace 2019 è andato al Gorbaciov africano. Ritratto del primo ministro dell'Etiopia, un rivoluzionario diventato riformista. Panorama l' 11 ottobre 2019. Tutto avrebbe immaginato sua madre Tezeta Wolde, quando da bambino gli ripeteva che sarebbe diventato il re dell'Etiopia, tranne che avrebbe ricevuto il Nobel per la pace. Invece Abiy Ahmed, diventato primo ministro a 41 anni, a 43 ha ricevuto l'ambitissimo riconoscimento. L'11 ottobre 2019 il comitato norvegese dei Nobel ha assegnato il premio per la pace al premier etiopico Abiy Ahmed Ali, artefice di una spettacolare riconciliazione del suo Paese con l'Eritrea. Berit Reiss-Andersen, a capo del comitato, ha auspicato che il premio lo rafforzi «nel suo importante lavoro per la pace e la riconciliazione». E pensare che il suo nome per intero – Abiyot – in amarico significa «rivoluzione». Quando il 17 agosto 1976 nasce a Beshasha, da padre musulmano e madre cristiana, è un nome comune: l'imperatore Hailé Selassié è appena stato deposto e Mènghistu Hailé Mariàm, detto il Negus rosso, sta per prendere il potere. Abiy, che è il diminutivo di Abiyot, cresce fra i campi di caffé e di té nello Stato dell'Oromia. Il suo gruppo etnico, quello degli oromo, rappresenta il 32 per cento della popolazione etiopica, ma si è sempre sentito discriminato. Sua madre invece è un'amhara, il gruppo etnico dominante. Da ragazzo Abiy recita il Corano. «Ma, come accade spesso in Etiopia», ha scritto il settimanale Jeune Afrique quando gli ha dedicato un approfondito ritratto, «la sua era una famiglia aperta ad altre religioni». La conversione di Abiy Ahmend al protestantesimo evangelico arriverà molto più tardi. Fedele al suo nome, a 15 anni Abiy entra nella lotta armata, unendosi a un gruppo vicino al rivoluzionario Meles Zenawi, che è sul punto di rovesciare il regime marxista-leninista di Menghistu. Dopo la vittoria, nel 1991, il giovane rivoluzionario inizia una carriera militare. Quattro anni dopo, viene mandato in Ruanda come casco blu dell'Unamir, la forza di peacekeeping delle Nazioni Unite. A soli 19 anni, il futuro primo ministro tocca con mano gli effetti dell'odio etnico che ha provocato il peggior genocidio dopo l'Olocausto. Una «lezione imparata» che gli tornerà utile anni dopo, quando dovrà fare i conti con la violenza intercomunitaria che insanguina il secondo Paese più popoloso dell'Africa: 105 milioni di abitanti nel 2017, con 80 gruppi etnici. Mentre serve nelle forze armate, brucia le tappe accademiche. Si laurea in informatica, poi prende un master in Leadership trasformazionale e uno in Business administration e per finire un dottorato. Nel frattempo si è sposato con Zinash Tayachew, una donna sempre sorridente del gruppo etnico amhara, con cui ha messo al mondo tre figlie (recentemente hanno anche adottato un bambino). Due anni dopo lascia le forze armate con il grado di tenente colonnello e si candida alle elezioni con l'Oromo democratic party. Giovane, palestrato, attento all'aspetto fisico (si taglia i capelli due volte alla settimana), è il candidato perfetto: al primo tentativo viene eletto alla Camera. In quel periodo si verificano scontri, anche violenti, fra musulmani e cristiani. Abiy interviene come facilitatore e, con l'abilità che lo contraddistingue, ne approfitta per farci il dottorato. La tesi si intitola: «Capitale sociale e il suo ruolo nella risoluzione dei conflitti tradizionale in Etiopia: il caso del conflitto interreligioso dello Stato della zona Jimma». Le sue origini, il suo percorso professionale e la sua prestanza fisica gli spianano la strada: nel territorio oromo diventa popolarissimo. Nel 2015 diventa ministro della Scienza e della tecnologia, nel 2017 capo del Segretariato del partito. L'occasione d'oro gli si presenta quando, il 15 febbraio 2018, il premier Hailemariam Desalegn rassegna le dimissioni. E il 2 aprile 2018 Abiy Ahmed presta giuramento come primo ministro dell'Etiopia. A quel punto, non lo ferma più nessuno. A maggio libera migliaia di detenuti politici. A giugno revoca lo stato d'emergenza. A luglio firma con il presidente eritreo Isaias Afwerki una dichiarazione che pone fine allo «stato di guerra» fra i due Paesi. A settembre riapre le frontiere con l'Eritrea. A ottobre affida alla guida di una donna metà dei ministeri. A novembre nomina un ex leader dell'opposizione capo della Commissione elettorale...Il suo frenetico riformismo gli vale l'appellativo di Gorbociov africano. Quando, lo scorso 28 febbraio, Jeune Afrique pubblica il suo ritratto intitolato «Abiy Ahmed, l'uomo che cambierà l'Etiopia», scrive che il premier è «determinato a lasciare una traccia nella Storia». Ma neanche l'autorevolissimo settimanale africano si spinge a immaginare che sette mesi dopo prenderà il Nobel per la pace.

Abiy Ahmed dal Nobel per la pace alla repressione della polizia. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. Non sono passati nemmeno venti giorni da quando gli è stato assegnato il premio Nobel per la pace. Eppure il premier etiope Abiy Ahmed ha già fatto in tempo a dirsi pronto a dichiarare guerra all'Egitto e a vedere le forze dell'ordine reprimere nel sangue le proteste popolari contro il suo operato. Un paradosso che di fatto rappresenta il punto di caduta di alcune dinamiche innescatesi ben prima dello storico annuncio dell'11 ottobre. La popolazione etiope è formata da oltre 80 gruppi etnici diversi. Il più numeroso di questi è quello degli Oromo, al quale appartiene anche lo stesso Ahmed. Tuttavia, prima della sua ascesa al potere, il Paese era stato sempre guidato dalla minoranza tigrina. Le dimissioni dell'ex premier Hailemariam Desalegn sembravano quindi poter segnare l'inizio di un nuovo corso. Ad oggi, però, gli oromo continuano a sentirsi marginalizzati. Di qui lo scoramento sfociato in una violenta protesta a partire da mercoledì scorso, quando al 33enne attivista Jawar Mohammed è stata revocata la scorta personale con l'accusa di fomentare disordini e di aver tentato di organizzare un attacco proprio contro Ahmed. Una decisione che, agli occhi degli oromo, è sembrata al contrario una lampante dimostrazione del fatto che il premier avesse intenzione di togliere di mezzo il suo vecchio compagno di tante battaglie per sbarazzarsi di un potenziale rivale al potere. Così, a una settimana dall'inizio degli scontri, il bilancio parla chiaro: 67 morti, imprecisate centinaia di feriti e 359 arresti. Da una parte - quella dei manifestanti - violenze e vandalismi, dall'altra - quella della polizia - spari ad altezza uomo, pietrate e bastonate. Il tutto mentre Ahmed si trovava al summit russo-africano di Sochi, da dove ha preferito non rientrare ad Addis Abeba né commentare quanto stava accadendo, attirandosi ulteriori critiche. Negli ultimi giorni la tensione sembrerebbe comunque tornata entro i livelli di guardia. A seguito di apposite consultazioni con i leader religiosi e i rappresentanti dell'Oromia, infatti, il premier ha invitato tutte le parti in causa a rafforzare la cooperazione tramite un «dialogo costruttivo». Basterà? La "questione egiziana" ruota invece intorno al completamento della «Grande diga del rinascimento etiope» sul Nilo Azzurro, una grande opera infrastrutturale che Addis Abeba ha cominciato a costruire nel 2013 e che entrerà nella prima fase operativa nel giugno 2020. Ebbene, a chi lo interrogava martedì scorso durante un question time parlamentare in merito allo stallo dei negoziati con Il Cairo sulla gestione delle acque, Ahmed ha inaspettatamente risposto: «Alcuni dicono delle cose sull’uso della forza (da parte dell’Egitto, ndr). Voglio sottolineare che nessuna forza può impedire all’Etiopia di costruire una diga. Se ci sarà bisogno di andare in guerra, noi potremo avere milioni di persone pronte a combattere. Se qualcuno volesse lanciare un missile, altri potrebbero rispondere con le bombe. Ma questo non è nell’interesse di tutti noi». Tradotto: l'Etiopia non avrebbe intenzione di innescare alcuna crisi, ma qualora i suoi progetti venissero ostacolati sarebbe anche pronta a ricorrere alla forza. Se non apertamente minacciosa, una posizione perlomeno "muscolare". I fronti aperti sul tavolo del premier sono quindi di grande complessità. Non a caso, il Nobel gli è stato assegnato proprio in segno di incoraggiamento per la sua azione di «pace e riconciliazione in Etiopia e nelle regioni dell’Africa orientale e nordorientale». La consegna dell'onorificenza è in programma a Oslo per il 10 dicembre. Gli organizzatori sperano che, di qui a quel giorno, i cinque membri del Comitato che hanno decretato la vittoria del leader di Addis Abeba non debbano pentirsi della scelta.

Greta Thunberg rifiuta premio da 46mila euro: all'ambiente non serve. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. La giovane attivista rifiuta il premio del Nordic Council: «Il movimento per il clima non ha bisogno di premi: serve che la politica inizi a fare qualcosa». Fatti concreti, non vuoti riconoscimenti. Greta Thunberg ha rifiutato un premio per l’ambiente, affermando che alla battaglia per il clima serve soprattutto che i politici «incomincino ad ascoltare la scienza». La giovane attivista svedese, che ha dato il via al movimento globale dei «FridaysforFuture» per la lotta al cambiamento climatico radunando milioni di persone, era stata scelta, a Stoccolma, per il «Nordic Council environmental award 2019»: un premio consistente in 350 mila corone danesi (circa 46.800 euro). «Ho deciso di non ritirare questo premio - ha scritto Greta sui social, pur riconoscendo il grande prestigio dell’istituzione che le ha assegnato il premio -. Sono in California e non posso essere alla cerimonia. Lo considero un grande onore, ma il movimento contro il cambiamento climatico non ha bisogno di ulteriori premi. Quello di cui abbiamo bisogno è che chi è al potere inizi ad ascoltare gli scienziati». Alla cerimonia di premiazione a Stoccolma hanno partecipato du attivisti del clima, che hanno letto una dichiarazione di Greta. Ma la giovane, dagli Usa, dove è in viaggio da oltre un mese, non ha fatto mancare il suo contributo: «Il movimento per il clima non ha bisogno di altri premi - ha scritto-. Le belle parole non mancano, ma è tutta un’altra storia quando andiamo a vedere le emissioni dei nostri Paesi e il nostro impatto ecologico personale, includendo voli aerei e navi». Ringraziando il Consiglio Nordico per il «grande onore», Greta ha poi criticato i Paesi nordici per non essere all’altezza della loro «alta reputazione» sulle questioni climatiche. «Apparteniamo ai Paesi che hanno la possibilità di fare di più. Eppure i nostri Paesi continuano a non fare praticamente nulla. Quindi fino a quando queste nazioni non cominceranno ad agire secondo le indicazioni degli scienziati per limitare l’aumento delle temperature fra 1,5 e 2 gradi centigradi io e Fridays For Future Svezia non accetteremo il Nordic Councils environmental award». Il Consiglio Nordico distribuisce premi annuali per la letteratura, il cinema, la musica e l'ambiente, ciascuno del valore di 350mila corone danesi. Data anche come potenziale candidata al Nobel per la Pace, quest'anno, Greta ha già declinato altri riconoscimenti, tra i quali un premio assegnato ai bambini dall'ente svedese per l'elettricità. Le è stato però conferito il «Right Livelihood Award 2019» - un Nobel «alternativo», che dal 1980 premia le persone che lottano per un mondo giusto, pacifico e sostenibile - per aver ispirato e dato voce a richieste politiche di azioni urgenti sul clima. Nel maggio 2019 è finita sulla copertina di Time Magazine, che l'ha incoronata «leader della prossima generazione».

Greta Thunberg, ma chi è questa ragazzina? Perché negarle il Nobel è stato un gesto pietoso. Anna Corradini Porta su Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. Ci mancava che le dessero anche il premio Nobel. Non bastava che avesse messo sottosopra mezza Europa, che migliaia di giovani fossero scesi in piazza per renderle onore, felici di saltare la scuola con la benedizione, qui in Italia, del nostro ministro dell' Istruzione Fioramonti e che sia stata ricevuta da Capi di Stato, grandi della politica e persino dal Papa: ma chi è questa Greta? Che studi ha fatto, che preparazione ha per dissertare sul cambiamento climatico, di cui discutono con tutte le riserve scienziati e ricercatori? A me non basta che mi fissi dalle telecamere con quel suo musetto sempre un po' ingrugnito (mai un sorriso) e che rilasci interviste a destra e a manca perché io mi metta in fila ad ascoltarla. Darle il premio Nobel sarebbe stato un insulto per chi se lo è guadagnato con anni di ricerche e di sacrifici per arrivare a risultati che spesso ci hanno salvato da malattie terribili o hanno migliorato la nostra vita e il nostro futuro. Che abbia dato uno scossone è indubbio e di questo le rendo merito, ma poi faccia un passo indietro e lasci fare agli addetti ai lavori e torni magari a scuola, visto che ha solo sedici anni, perché è lì che può costruire il suo futuro e portare avanti meglio, con cognizione di causa, la sua battaglia. Mi chiedo, comunque, come migliaia di persone in tutta Europa si siano lasciate incantare da questa ragazzina, migliaia di persone che non ho mai visto sfilare per le strade o urlare nelle piazze in favore di chi veramente lavora per noi, per migliorare il nostro domani e per risolvere anche il problema climatico. Ricercatori che per miseri stipendi passano la loro vita nei laboratori, dediti anima e corpo al loro lavoro che è dedicato a tutti noi, rubando tempo e attenzione alle loro famiglie. Nessuno scende in piazza per gridare la nostra riconoscenza e se qualcuno di loro prende il Nobel, il giorno dopo solo quattro gatti ricorderanno il loro nome. Purtroppo oggi le cose vanno così e sono felice che questo ambitissimo premio sia ancora riservato a chi se lo merita e che le grida nelle piazze, le riprese televisive, certe genuflessioni dei grandi, non abbiano minimamente influenzato chi deve decidere a chi dare il Nobel. Complimenti. Anna Corradini Porta

Greta in barca per gli Usa e verso il Nobel della Pace. Alessandro Fioroni il 16 Agosto 2019 su Il Dubbio. La Thunberg parteciperà al summit sul clima di New York del 23 settembre. Salgono le sue quotazioni per il riconoscimento, mentre sono in calo quelle della premier neozelandese, Jacinda Ardern. «Potrei soffrire di un po’ di mal di mare ma salpo perché devo portare un messaggio». Poche parole, ma determinate rilasciate alla Bbc. È questo il solito stile di Greta Thunberg, l’attivista che con il suo esempio ha suscitato la nascita di un movimento planetario per combattere i rischi del cambiamento climatico.

IL VIAGGIO. La ragazza sedicenne è dunque salpata dal porto di Plymouth, in Inghilterra, per raggiungere gli Stati Uniti e partecipare al summit sul clima che si terrà a New York il 23 settembre. Il suo non sarà un viaggio facile, a condurla alla metà sarà infatti la barca a vela del team della Malizia II, comandata dallo skipper Boris Herrmann e da Pierre Casiraghi. Attraverserà l’Atlantico così come fanno solitamente i velisti consumati. Comodità praticamente inesistenti, niente bagno e cucina, dormire su brandine tirate da corde regolabili. Tutto per poter rispettare i tempi di percorrenza ( 14 giorni filati) percorrendo le 3000 miglia che separano Greta dal porto di arrivo.

POLEMICHE E CIRCO MEDIATICO. C’è da scommettere che l’impresa però rinfocolerà le polemiche che hanno accompagnato l’attività della giovane attivista svedese, fin da quando iniziò la sua protesta, munita di un semplice cartello, davanti al parlamento di Stoccolma il 20 agosto di un anno fa. La sua fama è infatti cresciuta talmente rapidamente da far sorgere dubbi circa un fenomeno costruito ad arte, per l’interesse di non ben identificati soggetti, e di un’ eterodirezione da parte di qualche “interessata” agenzia di comunicazione. Il viaggio di Greta infatti sarà sicuramente anche un grande evento mediatico visto che tutta l’impresa sarà seguita passo passo dall’organizzazione che sta dietro la Malizia II e raccontata sui blog del team, oltre che su quelli della Thunberg, cosa che sta già avvenendo con dovizia di particolari. Il circo mediatico che si sta dispiegando però non sembra deconcentrare la ragazza la quale ha dichiarato al momento di salpare: «la crisi climatica è concreta prima mi sentivo sola nel parlarne ma adesso mi sento bene, forte, perché so che non sono più sola in questa battaglia».

IN LIZZA PER IL NOBEL. Intanto salgono le quotazioni di Greta su un altro fronte, quello che la vede come una delle candidate favorite per il premio Nobel per la pace. La notizia è stata riportata dal quotidiano tedesco Die Welt che ha analizzato le previsioni di sette allibratori britannici. Solo per fare un esempio, l’agenzia di scommesse Ladbrokes a giugno quotava la Thunberg di un 33% di possibilità di vittoria, percentuale prepotentemente salita ora al 50%. Scommettendo una sterlina se ne vincono due. Inoltre stanno calando le possibilità per gli altri candidati come la premier neozelandese, Jacinda Ardern, che indossò il tradizionale velo musulmano in onore delle vittime della strage di Christchurc. Perdono terreno anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ( Unhcr) e Reporter senza frontiere.

La pagella di Greta: tutti voti alti, nonostante  le assenze. Pubblicato mercoledì, 19 giugno 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. Quattordici «A», il voto massimo, su diciannove materie. Greta Thunberg mette a tacere le polemiche mostrando una pagella invidiabile. Le numerose assenze del venerdì, in occasione dei FridaysForFuture per protestare contro il cambiamento climatico, non hanno inciso sul rendimento della 16enne attivista svedese. Greta eccelle in matematica, fisica e storia, inglese e francese, mentre ha voti leggermente più bassi, «B» (equivalenti a un nove), in svedese, educazione fisica, scienze del consumo. La pagella di fine anno è stata pubblicata dal quotidiano svedese Dagens Nyheter. Greta ha concluso il nono anno alla Kringlaskolan a Soedertaelje, nei pressi della capitale Stoccolma, e ha spiegato di aver recuperato studiando da sola a casa tutte le lezioni perse a scuola. «Ho veramente lottato per ottenere questi voti. Ma ne è valsa la pena». Nell'ultimo anno, oltre ai venerdì verdi, la giovane è stata impegnata anche in alcuni appuntamenti internazionali come il vertice di Davos o i vari incontri con i leader globali, ultimo dei quali quello con Barack Obama. La sedicenne - affetta da sindrome di Asperger - ha recentemente deciso di saltare tutto il prossimo anno scolastico: la prossima sfida per l’attivista sarà trovare un modo per raggiungere (senza usare l’aereo) il summit che si terrà a New York e, poi, la conferenza mondiale del clima a Santiago del Cile, due mesi dopo.

Greta ritorna a Parigi. E trova un brutto clima. La 16enne simbolo dell'ecologismo saccente va all'Assemblea. Ma in molti non la vogliono. Francesco De Remigis, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. Parigi «Per combattere il cambiamento climatico in modo intelligente, non abbiamo bisogno di guru apocalittici, ma di progressi scientifici e di coraggio politico», scrive su twitter Guillaume Larrivé alla vigilia dell'ingresso di Greta Thunberg nell'Assemblea nazionale francese. Il deputato gollista, probabile nuovo leader dei Republicains, invita al boicottaggio della 16enne. Con lui, onorevoli della destra moderata e lepenisti si schierano contro la «profetessa in pantaloncini corti» che oggi terrà un discorso a Palazzo Borbone. Greta torna a Parigi, ma non è solo la destra a nutrire dubbi sull'invito. La gauche giudica «incomprensibile» che l'attivista arrivi nel giorno in cui la pattuglia macroniana dirà «sì» al trattato di libero scambio Canada-Ue (Ceta), avversato proprio dagli ecologisti. Pure la maggioranza presidenziale si spacca: «Potremmo onorare anche gli scienziati che hanno agito per anni per il pianeta, usare il manicheismo del bene contro il male è troppo semplice», scrive Bénédicte Peyrol di En Marche. Perché il ritorno a Parigi di Greta Thumberg è così divisivo? Invitata da Matthieu Orphelin - onorevole e alla testa del collettivo «Per il clima» che conta 162 deputati, la 16enne non parlerà nell'emiciclo vero e proprio. Sarà ricevuta dal vicepresidente dell'Assemblée, poi un dibattito nella sala Victor Hugo tra le 12 e le 13,45, con 350 posti. Tanto basta a far inalberare la maggioranza, che non si stringe attorno all'eroina ecologista, improvvisamente diventata «scomoda». Vari insulti sui social: dall'accusa di essere «manovrata» a «Premio Nobel della paura». La sessione «Greta» prevede solo un pugno di deputati. Poi assisterà al question time da una tribuna dell'emiciclo. Senza intervenire in aula ma pur sempre nel cuore dell'istituzione francese. Anche Pamela Anderson tenne una (vana) conferenza alla Camera contro l'alimentazione forzata di oche e anatre, ricorda qualcuno. Ma per Greta tale freddezza era forse inaspettata. Domenica ha ricevuto il Prix Libérté 2019 a Caen alla presenza dei veterani dello Sbarco in Normandia. A febbraio fu accolta dalla sindaca di Parigi e da 8mila studenti festanti. Marciava per le strade della capitale denunciando il riscaldamento globale come «crimine contro l'umanità». Ribadì il concetto all'Eliseo, al presidente Macron. Ha partecipato al vertice di Katowice dell'Onu sul clima ed è stata invitata al Forum economico mondiale di Davos e a Bruxelles il suo discorso si tenne in un silenzio quasi religioso. Parte dell'Assemblée sembra invece invocare una sorta di sovranità nazionale. Il settimanale Le Point ha lanciato perfino una consultazione on line per chiedere se sia legittimo che la 16enne si esprima in un luogo così simbolico. Olivier Babeau, accademico e autore di «Elogio dell'Ipocrisia» la definisce «icona di un ecologismo naïf» sulle colonne del Figaro e Macron resta stavolta più defilato. La 16enne venuta a dire agli adulti che sono irresponsabili non troverà allori. Ma una quarantina di giovani francesi e pochi deputati. 

Populismo formato Greta Thunberg. In alcuni paesi il "furor di popolo" si è trasformato in sovranismo. A certi movimenti manca però la fase della maturità, come insegna la moda ecologica. Marcello Veneziani il 13 giugno 2019 su Panorama. Nel frangente delle elezioni europee e dei mutati assetti internazionali ci siamo persi il populismo. Era la chiave di lettura dominante fino a qualche mese fa, poi diventò sottofondo e sottinteso, adesso è scomparso dai radar del nostro tempo e del nostro lessico. Difficile ora localizzarlo e non solo perché è una massa gelatinosa e volubile. Che fine ha fatto il populismo? Di mezzo c’è stato il tracollo dei Cinquestelle, il movimento populista allo stato puro, nel senso di primitivo, grezzo, puerile. Poi c’è stata la sostituzione mediatico-ideologica del populismo con categorie venute dal passato in un delirio crescente che va dal nazionalismo al fascismo e dal nazismo al razzismo. Ma non basta. Ci sono due ragioni più forti che hanno decretato la trasformazione radicale del populismo. La prima, vistosa, sancita a furor di popolo, è il passaggio dalla fase fluida e puerile a una più matura, più definita, più adeguata alle responsabilità di governo. Il populismo è stato sostituito dal sovranismo, in Italia e nel mondo, che ne eredita il magma però si spinge oltre, lo delimita in precisi concetti e in spazi politici ben marcati: la sovranità dei popoli, della politica e degli Stati nazionali, il senso della realtà e dei confini, la protezione economica dei popoli e dei prodotti «nostrani», il richiamo alle tradizioni civili e religiose, la decisione sovrana, la sicurezza. Se si fa riferimento alle esperienze politiche più significative, l’arco che va da Trump a Orbán e i Paesi di Visegrád, passando per l’Italia di Salvini, il boom di Farage e di Marine Le Pen, fino all’India di Modi e al Brasile di Bolsonaro, il termine populismo non basta più; è insufficiente a designare il fenomeno, perché collegandosi con la tutela del primato nazionale, la politica decisionista e il richiamo civile-religioso, il populismo è rimasto un humus di base ma è diventato altra cosa. C’è poi un’altra importante trasformazione del populismo che la fabbrica delle opinioni non vuol vedere pur essendo lampante: c’è un populismo parallelo ma di segno contrario rispetto a quello sfociato nel sovranismo. È il populismo pro-migranti, che si fonda sull’ideologia dell’accoglienza, sul primato degli ultimi, degli esclusi, sul pauperismo. Un populismo ecumenico, umanitario, che si potrebbe forse definire papulismo, visto il suo principale promoter, Papa Bergoglio. Non è solo la sua estrazione argentina, le sue passate simpatie peroniste, la sua tendenza anticapitalistica in favore dei diseredati e non è solo il suo leaderismo autoritario, e il suo istrionismo mediatico, tipico dei leader populisti. Bergoglio è oggi il principale esponente di un populismo ecumenico, terzomondista, in cui gli avversari sono le élite, le gerarchie, i potenti e i potentati, i benestanti egoisti di tutto il mondo, quasi come per i movimenti populisti ritenuti di destra. L’ideologia dell’accoglienza diventa l’approdo della sinistra spaesata e spiazzata, che cerca nel bergoglismo il socialismo perduto (e il cattocomunismo). Il messaggio sociale del Papa sorge dentro una prospettiva escatologica, religiosa, seppure con una forte valenza sociale ed economica. Quella religione che vede Gesù Cristo come il primo rivoluzionario e il primo martire della repressione, il precursore di Guevara e dei movimenti di liberazione, o la sintesi tra El Che e Madre Teresa di Calcutta, per citare Jovanotti. Il Cristo come l’antefatto di San Francesco, dove il populismo sposa la povertà e si colora di ambientalismo. E qui tocchiamo un altro versante più laico e «terrestre» del populismo, quello ecologista, in Italia passato inosservato alle ultime elezioni europee ma cresciuto in tutta Europa e nel mondo, sull’onda della figura-simbolo di Greta Thunberg. Le sue trecce sono diventate il simbolo del populismo verde, giovanile e anticonsumista contro lo sfruttamento del pianeta ai fini del profitto. E per guida non un leader esperto ma «una di noi», una ragazza priva di sapere ed esperienza. Il populismo è tornato a essere quel fenomeno sotterraneo e trasversale che tocca gli eredi della destra e gli eredi della sinistra, passando per gli eredi del cristianesimo e delle religioni naturalistiche; cede il passo ai sovranismi nazionali e alle ideologie dell’accoglienza, ai protezionismi economico-nazionali e alla protezione dell’ecosistema in pericolo. È l’ambiguità, anzi la polivalenza del populismo. Dico «è tornato a essere» perché già negli anni Settanta apparve un populismo verde sull’onda della crisi energetica e poi un populismo cattolico sotto l’ala possente di Papa Wojtyila, gran comunicatore, anche se d’ispirazione assai diversa dal Papa argentino. Questo percorso variegato e plurale del populismo insegna una cosa: il populismo è un fenomeno indeterminato e polivalente, che nasce da un incrocio tra antipolitica e iperpolitica, democrazia plebiscitaria e autocrazia, autogoverno dei popoli e leadership carismatica. Ma per assumere fattezze reali, e non restare solo allo stato gassoso di umore, di protesta e di mentalità, deve necessariamente abbinarsi a un altro elemento che lo definisce e lo solidifica: la sovranità, il richiamo nazionale e patriottico, o umanitario e religioso, ambientalista e planetario. Il populismo nasce da democrazie malate e sistemi economici ingiusti, ma non è il frutto della malattia, semmai è la reazione allergica e vitale a essa. Ma è reazione elementare, protestataria, fino a che non diventa adulto, e passa dall’asilo infantile al livello superiore. E allora smette di essere populismo.

Una grande epoca pedofila. Viviamo in un mondo "pedofilo" che traveste ragazzi da adulti, ma c'è modo e tempo per cambiare, per il loro bene. Davide Rondoni il 12 giugno 2019 su Panorama. Una adolescente guida le manifestazioni per il clima e la ecologia, un sacco di famiglie portano i loro ragazzini a fare manifestazioni politiche confuse. Una adolescente viene lasciata morire in Olanda per eutanasia di stata poiché disperata dopo uno stupro. Stiamo scaricando sulla pelle dei ragazzini i problemi degli adulti ? Bambini e ragazzini, cantano, ballano e sculettano imitando gli adulti in programmi della tv pubblica e di stato. Una enorme pedofilia generale, culturale, sociale che si affianca a quella orrida che ha colpito una Chiesa troppo spesso interessata alle questioni del sesso e alla morale più che a Nostro Signore Gesù. Usiamo i ragazzini, li travestiamo da adulti per pulirci la coscienza, per non affrontare questioni culturali che la cosiddetta modernità ha depositato nelle risacche di un'epoca difficile, e per farli morire della nostra disperazione, per intrattenerci sprofondati nella noia del grande intrattenimento. Invece di essere oggetto di una grande imponente riforma educativa, pieghiamo i ragazzini a varie funzioni improprie - guidare manifestazioni, morire per mano dello Stato, intrattenerci... Li travestiamo da adulti, e questa è tecnicamente una pedofilia, per rendere piú accattivanti idee politiche, battaglie ideologiche, share da raggiungere per la pubblicità. D'altra parte, negli ultimi tempi persino intellettuali come Galli della Loggia, Polito, e persino Recalcati si sono accorti che la nostra scuola sta fallendo la sua missione. E questo dovrebbe interessare i governanti del "cambiamento". Occorre riportare i nostri ragazzini a una scuola del talento e dell'ideale, mentre oggi abitano una scuola divenuta surreale tra burocrazia e contorsioni del cascante modello enciclopedico illuministico e storicistico. Modello fallimentare sotto vari punti di vista, educativo e anche formativo rispetto alle esigenze di futuro. Se davvero si facesse un'attenzione non pedofila ai ragazzini, usandoli impropriamente, si porterebbero alle estreme conseguenze anche i sempre "coperti" allarmi dei nostri intellettuali piú di moda, attenti a non disturbare troppo, e quindi mai disposti ad andare a fondo, ricordando che da decenni c'è chi in Italia grida che siamo in emergenza educativa. Tra gli altri anche Cesare Moreno, animatore dei "Maestri di strada" di Napoli, instancabile immaginatore di una norma diversa di scuola. Molte sono le esperienze che testimoniano questa possibilità di cambiamento, eventi piccoli e grandi, come i Colloqui Fiorentini, le Romanae Disputationes, o le esperienze del Centro Asteria a Milano. Alla orrenda pedofilia dilagante (se pur giustificata ideologicamente o in guanti bianchi) si deve opporre una vera "filìa", amicizia, scelta di campo, verso i più giovani, strato sofferente della nostra società. Senza questa scelta di campo che incida a fondo su paradigmi culturali, scelte di metodologia didattica e orizzonti istituzionali, i ragazzi saranno oggetto solo di marketing e di pedofilia. C'è un lavoro urgente, per il quale occorre molta più determinazione di ogni battaglia politica. Per il quale occorre la stessa quantità di febbre e di desiderio che attanaglia, deviandoli, in modo stucchevole, orrendo e irresponsabile verso un "uso" di vario genere dei ragazzini invece che al loro servizio. Con quale delicatezza invece un poeta come Pound parlava della sua devota ammirazione per una ragazza. Tra i tanti testi riferiti a tale tremante ammirazione per una "creatura - così grande" che si trovano nella letteratura di tutti i tempi e di tutte le culture, ho scelto il suo.

Una ragazza.

L'albero mi è penetrato nelle mani,

la sua linfa mi ha pervaso le braccia,

l'albero mi è cresciuto nel petto - nel profondo,

i rami spuntano da me, come braccia.

Sei albero, sei muschio, sei viole sfiorate dal vento.

Una creatura - così grande - sei tu,

e tutto questo per il mondo è pazzesco. 

Ezra Pound

Rutelli: "Essere verdi non significa dire sempre No". Intervista al capostipite degli ecologisti italiani che racconta la vita politica e quella privata. Luca Telese 13 giugno 2019 su Panorama.

Onorevole Rutelli, mi spiega...

(Sorride). «La fermo subito. Non sono più onorevole, ma presidente dell’Anica. Sono un ex militante radicale e verde, lavoro da volontario sulle questioni ambientali e non mi occupo più di politica».

Ancora meglio: è la persona giusta per rispondere a una delle grandi domande del dopo voto.

«Dice? Sentiamola».

Perché i Verdi hanno vinto nel Nord Europa ma in Italia fanno flop?

«È un ragionamento lungo, da dove inizio?

Dal racconto sulla sua prima azione da ambientalista militante...

«Allora partirei da un arresto».

La storia si fa subito interessante!

«Era un sit in del partito radicale contro la centrale nucleare di Latina».

E la repressione degenerò fino a portarla in carcere?

«La repressione purtroppo non c’era».

Come, «purtroppo»?

«Il dilemma di quel giorno era che la polizia, che non voleva problemi, non voleva arrestarmi.

Gli arresti come medaglie che fanno curriculum. Anche Roberto Giachetti lo ha raccontato.

«Esatto. Era l’unico modo che avevamo per rendere visibile la protesta.

E lei quanti anni aveva?

«Era il 1972, 26 anni, ero un uomo-sandwich di cartelloni antinuclearisti, volantinavo, e purtroppo per me, quel giorno non volevano proprio arrestarmi».

Ma anche voi eravate preparati.

«Uhhh!!! Ci accompagnava l’avvocato Caiazza, all’epoca militante radicale anche lui, oggi presidente delle Camere penali. E avevamo uno stratagemma».

In che senso?

«Avevamo predisposto una trappola per costringerli a intervenire. Vicino alla centrale c’era un poligono di tiro e Caiazza ebbe l’idea: nel volantino aveva inserito un invito alla diserzione per i soldati del poligono che, come è noto, costituiva una gravissima violazione del codice penale».

E cosa accadde?

«Una scena che all’inizio sembrava da commedia all’italiana».

Cioè?

«Io comincio a dare i volantini ai poliziotti, quelli si allontanano, noi militanti li inseguiamo e Caiazza inizia a gridare: «Lei deve immediatamente arrestare il signor Rutelli! Il signor Rutelli sta violando gravemente la legge». Ah ah ah».

E alla fine ci è riuscito?

«Tre giorni di carcere e processo. Un risultato straordinario. Ma che fatica!»

Non resisto. Un altro aneddoto.

«Lei conosce il partito radicale: quando si imbarcava in una battaglia nulla ci fermava. Iniziammo a raccogliere le firme contro il buco nell’ozono».

Ah, ah, ah...

«E si può immaginare cosa fosse, nei primi anni Settanta, parlare di ambiente con termini scientifici.

Voi partivate nel solito modo: volantini, banchetti...

«... E maratone televisive. Ovviamente anche su Teleroma 56, la tv dei radicali».

Ovvio.

«Un giorno, durante una lunga diretta, mi chiama un certo Vincenzo, da Roma, e mi fa: «Mi sente? Per quanto riguarda il buco nell’ozono, vorrei dirle che io preferisco il buco del culo! Ha capito?».

Ah, ah, ah. È un video cult, ancora oggi su YouTube. Perché il giovane Rutelli risponde senza scomporsi...

«Gli dico: «È un problema di gusti, ma tutti sono assolutamente legittimi!»».

Allora i Verdi vincono nel Nord Europa perché ora c’è Greta?

«No, o almeno non solo».

In che senso?

«I Verdi hanno successo sicuramente, perché c’è una bandiera come Greta che rende visibile il problema, e trascina i giovani. Ma anche e soprattutto perché in Germania i Verdi firmano un accordo con la Siemens per le tecnologie sostenibili».

Non lo sapevo.

«Perché i loro temi diventano cultura di governo ed enorme opportunità di mercato. Ora vorrei spiegarle, con alcuni esempi, questo mondo che cambia».

Tutte le bugie raccontate da quei gretini dei Verdi. Franco Battaglia 4 giugno 2019 su NicolaPorro.it. Dunque, lamenta Bonelli, presidente dei Verdi – e se la prende con l’Ilva –  a Taranto, tra il 2002 e il 2015, sarebbero nati 600 bambini con malformazioni congenite. E allora? Intanto, se sono congenite, l’Ilva non c’entra. Poi, sono 600 bambini in 14 anni, diciamo 44 bimbi per anno. Ma in Italia nascono ogni anno 25mila bambini con malformazioni, cioè 44 ogni 100mila abitanti. Taranto ha 200mila abitanti, cosicché si sarebbero attesi non 44 ma 88 bambini l’anno; cioè non 600 ma 1200 bambini negli anni 2002-2015. Vuoi vedere che l’Ilva ha dimezzato le nascite con malformazioni? Certo che no, ma questa è la logica di Bonelli. Questa è la logica dei Verdi. Sono degli squallidi avvoltoi, pronti a trarre profitto dalle disgrazie umane. Per di più ignoranti come capre, per dirla alla Sgarbi. Zero in aritmetica. Bugiardi come pinocchi, mi verrebbe da dire, se non fosse che a me Pinocchio fa simpatia. Bonelli è quello che, quando fu invitato da Santoro nel 2011 ai tempi del referendum sul nucleare, ebbe la faccia di bronzo di affermare che dopo Chernobylvi furono, nei 25 anni successivi, 6mila morti per tumore alla tiroide nell’area di Ucraina, Russia e Bielorussia attorno alla centrale. Era un’area comprendente 6 milioni di persone, ma i morti per tumore alla tiroide registrati durante quegli anni furono non 6mila, ma 15. Tanti quanti se ne registrano in 25 anni in qualunque altra parte del mondo con simile quantità di popolazione. Bonelli è talmente genio, ma talmente genio, da credere che le sue panzane restino in vita illese, ed egli resti impunito. Orpo, se è stato punito: alle ultime elezioni nessuno ha votato i Verdi. O meglio, li hanno votati i Bonelli e i suoi quattro amici Gretini, che si contano sulla punta delle dita, posto che non hanno portato nessun parlamentare in EU. Debàcle totale. Vivono di bugie da quando sono nati, ‘sti Verdi. Inspiegabilmente spalleggiati dagli organi d’informazione. A urne ancora aperte in Italia, le agenzie di stampa battevano la seguente notizia: «In Europa volano i Verdi». Ma era una panzana, probabilmente diffusa con lo scopo di influenzare il voto di chi, in Italia, poteva avere qualche dubbio sui Gretini. Ma gl’italiani saranno pure stanchi, ma non sono fessi. In ogni caso, dicevo, era una panzana: i Verdi nel parlamento europeo erano il 7%, oggi sono il 9%, che non è alcun “volo”, neanche pindarico. Tanto più che i 2 punti percentuali in più conquistati dai Verdi europei sono stati persi dalla Sinistra Verde Nordica, passata dal 7% al 5%. In definitiva, tenendo conto del chiassoso battage costruito attorno alla piccola Greta, per la quale s’è speso financo il Papa, possiamo tranquillamente dire che quella dei Gretini, che in Italia è stata una debàcle, in Europa è stato un flop. Per forza: i loro uomini sono i Bonelli del mondo. Ominicchi, più che altro, più simili ai quacquaracquà. Franco Battaglia, 4 giugno 2019.

Greta Thunberg, la foto che la inchioda: l'ecologista beccata sulla barca a vela con la bottiglia di plastica. Libero Quotidiano il 30 Agosto 2019. "Da noi in Italia si dice "parla, parla"". Il popolo social si è scatenato contro Greta Thunberg per una foto che la stessa baby-ecologista ha postato sul suo profilo Twitter. Nello scatto, sullo sfondo, si vede infatti una bottiglia dell'acqua di plastica: "Ehi, Greta. La tua acqua è imbottigliata nella plastica". Insomma, la sua traversata dell'oceano a bordo dello yacht Malizia II di Pierre Casiraghi, è stata "verde" ma fino a un certo punto. Come nota l'Huffingtonpost l'attivista svedese aveva fatto delle borracce in alluminio il simbolo della lotta ecologista, peccato che poi lei stessa abbia utilizzato una classica bottiglia in pet.

Greta in barca e l'assurdo Nobel. Gian Micalessin, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale.  Se sognate uno sviluppo non solo sostenibile, ma anche proficuo per le vostre tasche puntate su di lei. A dar retta alle grandi agenzie di scommesse Greta Thunberg, la paladina in erba dell'ecologismo militante, è la favorita nella corsa per il Nobel alla Pace. L'assegnazione di quel Nobel a una ragazzina non sarebbe una gran notizia. L'Accademia di Oslo l'ha già conferito nel 2014 alla 17enne pakistana Malala Yousafzay. La vera notizia è la diversa caratura dei due personaggi. Malala, sopravvissuta al colpo di kalashnikov sparatole nel novembre 2012 da un militante talebano, è un personaggio autentico e genuino. A renderla famosa a soli 11 anni fu il blog, pubblicato sul sito della Bbc in lingua urdu, in cui raccontava i soprusi patiti da donne e bimbe in una regione del Pakistan sotto il controllo degli integralisti islamici. La smorfiosetta salpata ieri alla volta dell'America a bordo del catamarano del principino Pierre, figlio di Caroline di Monaco e del defunto Stefano Casiraghi, è invece una pura creazione mediatica di cui gli ambientalisti dovrebbero per primi dubitare. La sua storia puzza infatti più di una centrale a carbone. A cominciare da quel 20 agosto 2018 quando la foto della ragazzina, appena accoccolatasi davanti al parlamento di Stoccolma per protestare contro il cambiamento climatico viene pubblicata su Facebook dal suo mentore Ingmar Rentzhog per poi venir ripresa in poche ore dai più grandi media del Paese. Quel suo mentore oltre a gestire, casualmente, una raccolta fondi per il lancio di nuove tecnologie verdi e a presiedere Global Utmaning, centro di ricerca sullo sviluppo sostenibile fondato dalla figlia di un ex ministro socialdemocratico, è anche buon amico di Malena Ernmann, la mamma di Greta. Così altrettanto casualmente 4 giorni dopo mamma Malena, cantante lirica assai famosa, può annunciare l'uscita del primo libro della figlia. Tre mesi dopo, sempre casualmente, Greta diventa azionista della società fondata da Rentzhog grazie ai fondi di Sven Olof Persson, un miliardario socialdemocratico conosciuto come il re delle concessionarie automobilistiche di tutta Svezia. Dietro a quel faccino ingrugnito dalla sindrome di Asperger si nascondono insomma gli interessi di un abile manipolatore, di un intraprendente e spregiudicata famigliola e di un capitalismo verde e politicamente corretto che prima in Svezia e poi alle europee ha sfruttato il volto di Greta per sostenere i Verdi e combattere una destra dipinta come la grande nemica del pianeta terra. Un «capitalismo verde» pronto ad arricchirsi con le nuove tecnologie indispensabili a ridurre le emissioni, e a mettere fuori mercato le nostre industrie. Così grazie al volto di Greta le aziende cinesi e indiane, oggi al primo posto nell'inquinamento globale, non si limiteranno a bruciarci i polmoni e desertificare il pianeta, ma riusciranno anche a conquistare definitivamente i nostri mercati.

Greta Thunberg, Nobel per la Pace in arrivo? Roberto Vivaldelli su it.insideover.com l'11 giugno 2019. Se c’è una persona accreditata presso l’opinione pubblica mondiale a ricevere il prossimo Nobel per la Pace quella è Greta Thunberg, l’attivista svedese di 16 anni che ha dato il via al movimento globale dei “FridaysForFuture” che lotta contro i cambiamenti climatici.I bookmaker londinesi hanno pochi dubbi al riguardo: è proprio lei la grande favorita sopra tutti i grandi leader mondiali: Angela Merkel, Donald Trump o papa Francesco hanno pochissime chance. Così, dopo esser stata già nominata donna dell’anno dai giornali svedesi e mentre si annuncia una laurea honoris causa presso l’università belga di Mons, presto il nome di Greta Thunberg potrebbe figurare accanto a quelli di Martin Luther King, Nelson Mandela, Willy Brandt, Madre Teresa di Calcutta, Desmond Tutu e il Dalai Lama. Oltre a Barack Obama ed Henry Kissinger. I bookmaker di Ladbrokes, per esempio, in caso di vittoria, ad oggi offrono tre sterline su ogni sterlina spesa: in altre parole, danno Greta 1 a 3, una probabilità del 33%. Tra i “concorrenti” dell’attivista svedese qualche chance sembra averla la premier neozelandese Jacinda Ardern, che si ferma però al 17%. Seguono l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), all’11%, e Reporter senza frontiere, al 9%. Papa Francesco è staccato di diversi punti, visto che non va oltre il 6%. Altri bookmaker sono ancora netti: per Uniber le possibilità di Greta si aggirano al 44%, per Betway arriva al 50%. Nessuno sembra in grado di impensierire il primato di Greta Thunberg, sempre più vicina al Nobel.

Ecco chi ha candidato Greta Thunberg al Nobel. “Abbiamo proposto Greta Thunberg perché se non facciamo nulla per fermare il cambiamento climatico sarà la causa di guerre, conflitti e rifugiati”, ha dichiarato al Guardian il deputato socialista norvegese Freddy André Øvstegård. “Greta Thunberg ha lanciato un movimento di massa che considero un importante contributo alla pace”. “Sono onorata e molto grata per questa nomina”, ha replicato al tempo l’attivista su Twitter. Ci sono 301 candidati per il Premio Nobel per la Pace per il 2019, di cui 223 sono individui e 78 sono organizzazioni, scrive il comitato Nobel sul suo sito web. Nonostante il sostegno di gran parte dell’opinione pubblica mondiale – soprattutto quella liberal e progressista – non a tutti entusiasma il fatto che Greta sia candidata a ricevere il prestigioso premio istituito dal testamento di Alfred Nobel del 1895 ed assegnato per la prima volta nel 1901. Come osserva Ella Whelan sulla versione online del magazine britannico Spiked, “la nomination al Nobel di Thunberg ha suscitato alcune critiche. Non a causa della sua età (dopotutto, Malala Yousafzai ha vinto il premio nel 2014), ma a causa della mancanza di risultati tangibili conseguiti”. Il fondatore dei premi Nobel, spiega, l’uomo d’affari svedese Alfred Nobel, ha lasciato nelle sue volontà le istruzioni secondo cui il Premio per la Pace dovrebbe essere assegnato a “colui che ha fatto il lavoro migliore per la fratellanza tra le nazioni e l’abolizione o riduzione degli eserciti permanenti” e la “formazione e la diffusione di congressi di pace”. Non è chiaro come Greta Thunberg soddisfi questi requisiti. Infatti, come per Barack Obama – che ha ricevuto il premio sulla fiducia, ad appena un anno dall’insediamento alla Casa Bianca – il comitato sembra voler premiare il possibile messaggio più che i risultati concreti e le azioni. Ma l’ammirazione per la protesta di questa giovane svedese, scrive Ella Whelan, “trasmette anche un messaggio piuttosto preoccupante sull’autorità degli adulti. È strano che insegnanti, politici e genitori” tifino per dei ragazzini il cui motto è “sono troppo spaventato per andare a scuola”. Forse dovremmo dire piuttosto alle giovani generazioni di rimanere a scuola, studiare duramente e diffidare dagli slogan. Di qualsiasi tipo.

Un’operazione di marketing-politico. Dietro la favola green di Greta c’è sì probabilmente un sincero entusiasmo ma anche un intreccio di interessi politici e un’operazione di marketing-politico da manuale. L’attivista svedese è figlia di una cantante famosa, Malena Ernman, che nel 2009 partecipò anche all’Eurovision. E la mamma a distanza di soli quattro giorni dalla prima protesta della figliola – 24 agosto 2018 – pubblica un libro intitolato Scenes from the Heart. Una coincidenza? Forse si tratta solo di malizia…A Greta si affianca da subito Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità. È proprietario della startup We Do not Have Time. Il 24 novembre 2018, Ingmar ha inserito la stessa Greta nel board della società, salvo poi rimuoverla. Solo 3 giorni dopo, We Do not Have Time ha lanciato una campagna di crowdfunding che ha raccolto 2,8 milioni di euro. E non finisce qui, perché Rentzhog, Ceo della fortunata startup, è stato assunto come presidente del think tank Global Utmaning nel maggio del 2018, fondato da Kristina Persson, ex ministro socialdemocratico svedese dello sviluppo. Un think tank che ha il dichiarato obiettivo di sconfiggere i nazionalismi. “È frustrante essere accusati di usare il nome di Greta Thunberg”, ha dichiarato in un’intervista Ingmar Rentzhog, confermando tuttavia la proficua collaborazione con l’attivista. “Non l’abbiamo usata, l’abbiamo aiutata”. Se esistesse un Nobel per il marketing, quello certamente dovrebbe essere assegnato a Ingmar Rentzhog. Perché l’ondata ecologista di Greta ha permesso alla sinistra europea di cavalcare i temi green rifacendosi po’ il look e di contenere l’ascesa dei nazionalismi. Un rebranding abile ed efficace.

Clima: cosa ha messo in moto nel mondo una sedicenne. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 Milena Gabanelli, Sandro Orlando su Corriere.it. È maggio 2018, e un quotidiano svedese organizza un concorso. Lo vince la sedicenne Greta Thunberg con un tema sull’ambiente. Il quotidiano lo pubblica. Bo Thorén, un attivista di lungo corso che si batte contro l’uso di combustibili fossili, la contatta insieme ad altri studenti, proponendo uno sciopero per attirare l’attenzione pubblica sulla crisi climatica, sull’esempio degli studenti di Parkland, che si erano rifiutati di entrare in classe dopo una sparatoria a scuola. Nessuno lo fa, tranne Greta che dal 20 agosto si siede davanti al Parlamento di Stoccolma. Con sé ha un tappetino da campeggio, una borraccia metallica e un cartello con su scritto: «Sciopero da scuola per il clima». È il suo proclama politico. Tornerà nello stesso posto tutti i giorni, fino alle elezioni politiche del 9 settembre. Poi torna a scuola, e per recuperare le lezioni perse sciopera solo il venerdì. I giornali ne parlano, parte il tam tam sui social. Martedì 4 settembre 5 studenti olandesi tra i 15 e i 17 anni imitano Greta, tenendo un sit-in davanti al Parlamento dell’Aia. Venerdì 14 settembre a Berlino un gruppo di adulti manifesta davanti al Bundestag. Venerdì 21 settembre, nella cittadina di Zeist, sempre in Olanda, Lilly Platt, 10 anni va in strada con la mamma e il nonno per una protesta silenziosa. Sui social appaiono gli hastag #FridaysForFuture e #ClimateStrike: serviranno ai ragazzi di tutto il mondo per conoscersi ed aggregarsi. Venerdì 2 novembre a Sudbury, nell’Ontario, Canada, Sophia Mathur, 11 anni, è la prima ragazzina ad aderire allo sciopero per il clima dall’altra parte dell’oceano. Per venerdì 30 novembre vengono indetti cortei in più città dell’Australia, da Sydney a Melbourne, Brisbane e Perth. Il premier australiano Scott Morrison lancia un appello invitando a non astenersi dalla scuola, ma ottiene l’effetto contrario: il 30 novembre scendono in strada 15 mila ragazzi in 30 città. È il primo grande sciopero di massa per il clima a livello mondiale. Intanto i gruppi dei #FridaysForFuture cominciano a darsi una struttura, e organizzano manifestazioni sempre più partecipate. Venerdì 14 dicembre a Milano Sarah Marder, un’ex dirigente di banca di 54 anni, si mette da sola davanti Palazzo Marino con un cartello che richiama la protesta di Greta: è la prima italiana a unirsi allo sciopero. Da lì a poco i gruppi italiani dei #FridaysForFuture si mettono in moto: a Torino c’è David Wicker (14 anni), a Milano Miriam Martinelli (16 anni), a Pavia Marianna Bertotti (17 anni), a Pisa Bruno Fracasso (20 anni), a Udine Aran Cosentino (16 anni).Contemporaneamente in una New York freddissima la 13enne Alexandria Villaseñor staziona davanti al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite avvolta in un sacco a pelo. Il 17 e 18 gennaio in Svizzera e Germania sfilano più di 45 mila studenti. In Belgio sono 13 mila, che diventeranno però 35 mila la settimana dopo, e 70 mila domenica 27 gennaio, quando Bruxelles ospita la prima grande marcia per il clima. Dietro il successo della manifestazione ci sono tre ragazze: due compagne di scuola di un paesino vicino Anversa, la 17enne Anuna De Wever, che sogna di diventare un giorno segretario generale dell’Onu, e Kyra Gantois (Solferino pubblicherà dopo l’estate il libro che hanno scritto insieme); e la 18enne di Namur, Adélaïde Charlier. Il movimento tedesco è invece coordinato dalla 22 enne Luisa Neubauer, studentessa universitaria, ora candidata alle Europee con i Verdi. Le maggiori adesioni si registrano in Australia (150 mila manifestanti), Canada (170 mila), Francia (200 mila), Germania (300 mila) e soprattutto in Italia, che con 370 mila partecipanti stabilisce un primato. Le questure lo confermano: 100 mila sono scesi in piazza solo a Milano, 50 mila a Napoli, 30 mila a Torino e Roma, 25 mila a Firenze, praticamente quanto tutti i partecipanti ai cortei in Svezia. Le manifestazioni italiane hanno però qualcosa di diverso dalle altre. Mentre Il 15 marzo a Stoccolma a dimostrare per il clima davanti al Parlamento svedese ci sono per lo più adolescenti, senza l’ombra di un politico (è contro di loro che è diretta la protesta di Greta), in Italia invece c’è una grande partecipazione della società civile: studenti universitari, giovani, insegnanti, militanti di associazione di varie, genitori. Il nostro Paese è al secondo posto in Europa per morti causate da avvelenamento da particolato (60.600), e al primo da biossido di azoto (20.500). Non a caso l’Italia è stata deferita alla Corte di Giustizia europea per la violazione sistematica e continuata della direttiva comunitaria in materia di qualità dell’aria. Il Piano energia e clima viene inviato dal governo alla Commissione europea a dicembre. È meno di una bozza vaga e approssimativa, perché si limita a confermare le azioni già decise per ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 33% rispetto al 1990. Ora negli ultimi 26 anni il livello delle emissioni nel nostro Paese è stato abbattuto dai 518 ai 428 miliardi di tonnellate, con una diminuzione del 17,5% (90 miliardi). Nei prossimi 11 anni dovremmo ridurle di altri 156 miliardi di tonnellate, con uno sforzo triplo rispetto a quanto riuscito nel 2015-2016 (in cui le emissioni sono scese del -1,2%). La rivista Time include Greta tra i 25 adolescenti più influenti del pianeta. Possiamo solo augurarci che le «giovani marce» diventino inarrestabili e che si ingrossino anche le piazze cinesi, indiane, brasiliane. E noi giornalisti abbiamo il dovere di sostenerli, scriverne quotidianamente, proprio per dare spinta ad una forza che soltanto a quell’età non ha cedimenti. 

Il suo ambientalismo fa rima con socialismo. Le teorie apocalittiche della giovane svedese sono in linea con i desideri della politica e dell'industria. Alessandro Gnocchi Domenica 19/05/2019 su Il Giornale. Perché una ragazzina svedese di sedici anni è diventata un fenomeno globale rispolverando l'ambientalismo apocalittico senza aggiungere nulla al già detto? Di sicuro ha toccato un nervo scoperto della società, ma quale esattamente? Il riscaldamento globale non eccita gli animi. No, in Greta deve esserci qualcosa di più. La bambina autistica (sindrome di Asperger) che prende a schiaffoni i grandi della Terra. Affascinante ma non basta. Infatti sui media girano episodi degni delle medievali Vite dei Santi. Greta che sciopera ogni venerdì seduta davanti al Parlamento svedese. Greta che tocca (letteralmente) i cuori (...)(...) dei deputati. Miracolo! Subito si convertono alla confraternita di Santa Greta da Stoccolma. Santa Greta accolta da Francesco, il papa dalla coscienza verde. Santa Greta che non tocca la carne ma teneramente si fa fotografare in treno con il cibo spazzatura, come tutti gli adolescenti. La protesta di Santa Greta che diventa virale, studenti di tutto il mondo in sciopero al venerdì, grazie a un uso accorto dei social network. Santa Greta versione predicatrice che parla ovunque si prendano decisioni sul futuro del Pianeta: Onu, Davos, parlamenti assortiti. Santa Greta che però non vola in aereo perché non vuole inquinare troppo. Santa Greta che sventa le teorie complottiste sui suoi finanziatori: è stata avvicinata a una start up verde proprietà di un esperto di marketing; accusata di essere uno spot vivente per le pubblicazioni della madre; passata ai raggi X per vedere se nel portafogli avesse soldi del magnate Soros, di istituzioni politiche anti-sovraniste. E, ultimo miracolo, Santa Greta sulla copertina di Time.

Prima di proseguire, due precisazioni indispensabili.

Un uomo di destra non può non avere una coscienza ecologista. Si deve conservare, in primo luogo, la natura. Il problema è reale. Però analisi e soluzioni giuste non sono quelle proposte da Greta.

Secondo. Non c'è alcun complotto. L'approccio apocalittico è gradito ad ambienti industriali e politici che agiscono in piena luce. Non è sicuro che gli interessi di questi ambienti coincidano con quelli delle masse in preda alla crisi economica. Si capisce però che Greta non mancherà mai di fondi da spendere al servizio della causa.

Una possibile spiegazione del «caso Greta» è rintracciabile nel libro La nostra casa è in fiamme (Mondadori, pagg. 228, euro 16) al quale ha lavorato l'intera famiglia Thunberg: Greta, la sorella, il padre e soprattutto la madre Malena, cantante molto nota in Svezia. La teoria esposta è la seguente: ciascuno deve dare il suo contributo ma il riscaldamento globale si vince soltanto con l'intervento della politica. Tocca alla politica ridurre le emissioni, incentivare la green economy, rinunciare alla crescita, scegliere lo sviluppo sostenibile e infine creare una società più giusta fondata sull'uguaglianza, non solo nell'opulento Occidente o in Cina, ma anche e soprattutto nei Paesi che cercano di uscire dalla arretratezza. Voilà, il socialismo in salsa globalista è servito. La politica ovviamente brinda. Toccherà a chi governa chiedere sacrifici e redistribuire la ricchezza agitando lo spauracchio dell'apocalisse imminente. Non a caso la sinistra statunitense di Alexandria Ocasio-Cortez propone un New Deal verde. La Camera dei Comuni inglese ha approvato lo stato d'emergenza climatica con l'obiettivo di ridurre a zero le emissioni. Analogo provvedimento, voluto dal Partito democratico, giace nel Senato italiano in attesa di valutazione. Il Movimento 5 stelle, all'inizio, aveva una offerta politica ecologista, poi si è perso nelle mille battaglie contro la creazione di infrastrutture: e vai di No Tav, No Tap, No Inceneritori, No Qualunque Cosa.

Anche le aziende stappano lo spumante: toccherà a loro rifornirci di nuove automobili, ad esempio, usufruendo magari di incentivi fiscali per convertire la produzione (e i consumi) in senso green. Nelle speranze di politici e capitani d'industria, questo cambiamento fornirà la spinta per uscire dalla grave crisi economica che incombe sul mondo occidentale dal 2008. Le istituzioni sovranazionali esultano e sperano di acquisire finalmente un ruolo incisivo mangiandosi altre fette succulente di sovranità degli Stati tradizionali. Greta è dunque un perfetto prodotto mainstream e funzionale al sistema che critica. Non deve stupire che giri il mondo in tournée spettacolari. Non deve stupire che importanti aziende nel settore dei trasporti abbiano annunciato di orientare la produzione in senso ecologico. Se proprio volete un'immagine simbolo di questo periodo, date un'occhiata ai rendering dei progetti di restauro della cattedrale di Notre-Dame bruciata Parigi: piante ovunque.

Il socialismo cambia continuamente pelle. Prima vennero gli operai. Andò male al punto che nelle fabbriche del nord passarono tutti a destra. Poi esplose la questione dei diritti con battaglie partite bene e finite male a causa del ridicolo politicamente corretto. Quindi venne l'immigrazione incontrollata: ha messo in fuga gli ultimi elettori. Il sussulto finale è stato per l'Unione europea, istituzione che scalda solo i cuori di chi la maledice. Ora tocca all'ambientalismo apocalittico.

Vittorio Feltri, la lezione definitiva ai "gretini" sul clima: "Vi dico io cosa si è surriscaldato". Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 su Libero Quotidiano. I saputelli che imperversano sui social ci accusano di ignoranza crassa perché ieri abbiamo pubblicato il seguente titolo: "Riscaldamento del pianeta? Ma se fa freddo" (articolo di Azzurra Barbuto). Che le temperature di questo inizio maggio siano più basse del solito però è una constatazione che anche un cretino che discetta di ambiente può fare, basta che la mattina apra la finestra: se ha un brivido gli conviene indossare un golf, altrimenti vada tranquillamente in giro con la canottiera. Leggi anche: Feltri demolisce Greta Thunberg: "Rompiballe per definizione. E qualche imbecille a Bergamo..." A noi di Libero non ce ne frega nulla del clima, che durante la nostra lunga vita è ciclicamente mutato senza darci troppo fastidio. Accettiamo con santa rassegnazione ciò che avviene sul nostro pianeta senza creare allarmismi che generano paura tra gli uomini e le donne che non conoscono la storia della Terra. Di sicuro non diamo retta a una adolescente racchia e saccente come Greta, la quale poverina non è una scienziata e porta pure sfiga: da quando è stata ricevuta dal Papa, il nostro Paese si è raggelato: bombe d' acqua, fiumi che tracimano, laghi gonfi. Da notare che fino ad alcune settimane fa gli esperti (si fa per dire) si erano stracciati le vesti per via dell' incombente siccità, una minaccia alla sopravvivenza dei popoli. Che attualmente rischiano di annegare. Morire affogati o soffocati dal calore la sostanza è la stessa. Ma è un fatto che oggi, quanto ieri, non esistono pericoli del tipo descritto dai catastrofisti. Noi non siamo esperti di metereologia, ci limitiamo a dare una occhiata al termometro e verifichiamo che i gradi stagionali, più o meno, sono sempre i medesimi. Ora sono un po' più bassi del solito e non più alti, cosicché, da empirici quali siamo, affermiamo che il surriscaldamento del pianeta è una ossessione che inquieta gli sprovveduti, coloro che si adattano alle mode imposte dai chiacchieroni, i quali di scientifico hanno solamente qualche disturbo mentale. A costoro vorrei rammentare che Annibale venne in Italia valicando le Alpi con gli elefanti, che non sono mai stati abili sciatori. Significa che sulle montagne non c' era neve. Già, all' epoca dei romani le temperature erano assai più elevate di adesso. E nessuno si stropicciava la tunica. Voi invece non vi strappate neppure il cervello perché lo avete bruciato a causa dell' afa immaginaria che vi tormenta. Vittorio Feltri

AUTISMO, IL MESSAGGIO DI GRETA THUNBERG: «NON È UN DONO, MA PUÒ ESSERE UN SUPERPOTERE». Silvia Morosi per Corriere.it del 3 aprile 2019. «L’autismo non è un “dono”. Per molti (anzi, ndr.) è una lotta senza fine contro scuole, posti di lavoro e bullismo. Ma nelle giuste circostanze, può diventare superpotere». Nella giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, che si celebra ogni anno il 2 aprile (la ricorrenza è stata indetta dall'Onu nel 2008, per alimentare la conoscenza dei disturbi dello spettro autistico e a favorire azioni sociali per promuovere una maggiore inclusione), la 16enne svedese attivista per il clima Greta Thunberg — affetta di sindrome di Asperger — ha pubblicato sul proprio profilo Facebook un post: «Senza la mia diagnosi non avrei mai iniziato gli scioperi. Abbiamo bisogno di persone che ragionino fuori dagli schemi e dobbiamo iniziare a prenderci cura l’uno dell’altro. E ad abbracciare le differenze», ha confessato (qui dieci personaggi famosi con la sindrome di Asperger). «Oggi è la Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo. Orgogliosi di essere nello spettro!». Per la maggior parte delle persone è «una lotta senza fine contro scuole, luoghi di lavoro e bulli. Ma nelle giuste circostanze, date le giuste modifiche, può essere un superpotere. Ho avuto la mia giusta dose di depressione, alienazione, ansia e disturbi. Ma senza la mia diagnosi, non avrei mai iniziato i miei scioperi a scuola. Perché allora sarei stato come tutti gli altri. Le nostre società devono cambiare, e abbiamo bisogno di persone che pensano fuori dagli schemi e dobbiamo iniziare a prenderci cura l’uno dell’altro. E abbracciare le nostre differenze», ha scritto l’attivista. Un messaggio che ricorda quello che la giovane aveva ripetuto in diverse circostanze. Lo scorso anno aveva partecipato anche all’evento TEDx a Stoccolma, e — per la prima volta —aveva rivelato: «Sono affetta da sindrome di Asperger e soffro di mutismo selettivo».

Giovanni Longoni per “Libero Quotidiano” del 3 aprile 2019. L' umanità ha un disperato bisogno di fanatismo. Il nuovo millenarismo non è religioso ma ha lo stesso linguaggio di quello del passato: convertitevi, la fine è vicina, si diceva un tempo. Oggi la frase suona così: Non c' è quasi più tempo per salvare la Terra. "We don' t have time" è il nome della campagna mediatica che fa riferimento a Greta Thunberg, la sedicenne svedese che dall' agosto 2018 porta avanti una battaglia per salvare il pianeta da quella che lei chiama «la più grande crisi che l' umanità abbia mai affrontato». Intende il riscaldamento globale provocato dall' inquinamento; accanto a questo dogma centrale del culto di Greta ce ne sono altri: il veganesimo (l' allevamento bovino produce CO2 più del traffico automobilistico) e la lotta contro la plastica e a favore del riciclaggio dei materiali. Come otto secoli fa durante la semileggendaria Crociata dei fanciulli, è a dei giovanetti che l' Occidente si rivolge per avere un messaggio salvifico. La Thunberg gira l' Europa (pare rigorosamente in treno: l' aereo inquina), partecipa a marce di migliaia di scolari, poi viene invitata dai grandi della Terra che le chiedono consiglio. Ha viaggiato in Germania, Polonia, Svizzera e il 18 aprile è attesa a Roma. È noto che lei il venerdì mattina non va in aula: sciopera per il clima. Sorge il dubbio che, spostandosi sempre via terra, alla fine i giorni in cui marina scuola siano un po' di più. È stata a parlare a Davos, davanti alla solita platea dei reggitori dei destini del mondo, e li ha bacchettati severamente: «A Davos la gente ama parlare di successo ma il successo economico è arrivato con un prezzo da pagare e sul clima abbiamo fallito. Se non riconosciamo questo fallimento, ci saranno sofferenze indicibili». Anche il mondo dello spettacolo ha invitato Greta per venirne fustigato; e la ragazzina con le trecce non si è tirata indietro. A Berlino è salita sul palco con Vanessa Redgrave, la cantante Conchita Wurst, il presentatore Thomas Gottschalk, per ricevere il premio Goldene Kamera, normalmente riservato a personalità dello spettacolo. Poi giù randellate: le star, si lamenta la piccina, faticano a sostenere la battaglia per la salvaguardia del clima, in quanto «potrebbe limitare il loro diritto di volare in tutto il mondo, per visitare ristoranti, spiagge e luoghi di ritiro yoga». Non ha parlato di cammelli e di crune di aghi, ma il concetto è quello. «Tutta la scienza», si è premurata di ricordare Greta alla sua platea teutonica, «è concorde nel dirci che siamo a circa 11 anni di distanza dallo scatenare una reazione irreversibile che porterà probabilmente alla fine della nostra civiltà così come la conosciamo. «Probabilmente» è una parola chiave di questa frase, che ne attenua la portata; Greta lo ha chiarito da tempo: per lei, che è affetta dalla Sindrome di Asperger (un disturbo autistico) la realtà è o bianca o nera. Fa fatica a cogliere le sfumature; il non detto; le implicazioni dettate dal contesto. Ma questo problema è la sua forza, e Greta ha già ammesso anche questo. Il suo messaggio risulta più diretto, senza esitazioni. Lo chiarisce un altro esempio dal discorso di Davos: «Voglio che siate presi dal panico. Voglio che proviate la paura che io provo. Ogni giorno. E voglio che facciate qualcosa. Voglio che vi comportiate come se casa nostra fosse in fiamme. Perché lo è davvero». La svedesina è in buona compagnia: il Web ha visto nascere tanti casi di adolescenti-profeti. In Belgio Anuna De Wever, 17 anni, e Kyra Gantois, 19 anni. In Germania Luisa Neubauer, che va all' università. Negli Usa, Alexandria Villanesor, 13 anni. Sono voci ascoltate: in Svezia per fare un esempio legato sempre a Greta, è nato un movimento per boicottare i voli aerei a favore del treno. 

Greta sulla sindrome di Asperger: «Essere diversa è un superpotere». Pubblicato lunedì, il 2 settembre 2019 da Corriere.it. Greta Thunberg, l'attivista ecologista che sta scuotendo il mondo con i suoi proclami, per la prima volta parla di se stessa su Twitter: «Ho la sindrome di Asperger — confessa — e questo vuol dire che qualche volta sono un po' diversa dalla norma. E, nelle giuste circostanze, essere diversa è un superpotere». In poco tempo il messaggio ha raggiunto quasi un milione di like. La sedicenne ha spiegato perché non ama parlare della sua condizione: «Non rendo pubblica la mia diagnosi non per nascondermi ma perché molta gente ignorante la vede come una malattia o qualcosa di negativo e, credetemi, questo mi ha limitato in passato». La diversità si paga con l'isolamento e la depressione: «Prima di cominciare a fare gli scioperi della scuola non avevo energia, amici e non parlavo con nessuno. Stavo solo lì a casa seduta e mangiavo. Tutto questo ora è passato perché ho trovato uno scopo in un mondo che spesso sembra vuoto e senza significato a così tante persone».Poi il messaggio positivo a chi è nella sua condizione: «Quando gli haters se la prendono per il tuo aspetto e la tua differenza, significa che non sanno dove andare. E tu sai che stai vincendo», ha sottolineato.

Da quotidiano.net il 2 settembre 2019. Greta Thunberg ha "un superpotere". Lo racconta lei stessa, riferendosi alla sua sindrome di Asperger. E non è certo una novità: fiumi di inchiostro e migliaia di messaggi social si sono incentrati sulla particolarità di questa ragazzina che, con gli scioperi del venerdì, si è messa in testa di cambiare il mondo. Il fatto è che è la giovanissima attivista per il clima, per la prima volta, a raccontarsi sui social. "Ho la sindrome di Asperger e questo vuol dire che qualche volta sono un po' diversa dalla norma. E, date le circostanze, essere diversa è un superpotere", scrive in una serie di tweet. E spiega che di solito non parla pubblicamente della sua diagnosi non per nascondersi dietro di questa ma perché "so che molta gente ignorante la vede ancora come una malattia, o qualcosa di negativo". Al principio "credetemi, la mia diagnosi mi ha limitato", aggiunge. Ora invece, assicura Greta, è passato "perché ho trovato un senso, un significato in un mondo che talvolta sembra superficiale e senza senso a molta gente". Nel primo tweet, Greta si toglie qualche sassolino dalla scarpa: "Quando gli haters sottolineano il tuo aspetto e le tue differenze - scrive - significa che non hanno più nessun posto dove andare. E poi sai che stai vincendo! Ho Asperger e questo significa che a volte sono un po' diversa dalla norma. E - date le giuste circostanze - essere diversi è una superpotenza". Poi una confessione molto personale: "Prima di iniziare gli scioperi a scuola - scrive in un altro tweet - non avevo energia, non avevo amici e non parlavo con nessuno. Mi sedevo da sola a casa, con un disturbo alimentare. Tutto ciò è sparito ora, poiché ho trovato un significato, in un mondo che a volte sembra superficiale e insignificante per così tante persone".

Grazie a Pierre Casiraghi. Approdata a New York dopo la transoceanica con la barca di Pierre Casiraghi. Greta ringrazia tutti postando un video-ricordo con la scritta "Grazie ancora a @borisherrmann, Pierre Casiraghi, il team Malizia e tutti gli altri che ci hanno aiutato lungo la strada. Non dimenticherò mai questo viaggio, né quelli che lo hanno reso possibile".

Una "Greta" anche in Uganda. L'attivista svedese continua a fare proseliti: trova una sua emula anche in Uganda. Nello Stato africano, sull'esempio di Greta Thunberg, la giovane Vanessa Vash si presenta come "la prima e sola scioperante per il clima dell'Uganda". In un tweet con la sua foto, ritwittato oggi dalla stessa Greta sul proprio profilo social, la ragazza afferma di "essersi ispirata alla Thunberg per dare il via agli scioperi climatici in Africa" e di sperare di riuscire a dare un contributo al movimento ambientalista.

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 2 settembre 2019. «Ma sua figlia Greta non si annoia a star ferma su una sedia per ore ad ascoltare i discorsi dei politici?». Svante Thunberg sorride: «A volte me lo chiedo anch' io. Però, no. Lei ascolta tutti, è davvero coinvolta e attenta». È orgoglioso della notorietà che ha raggiunto? Il sorriso si apre ancor di più. «È brava, bravissima anche a scuola, un esempio per tutti noi». In un corridoio del Senato italiano, il papà della sedicenne più famosa del mondo mi ha raccontato così la «sua» Greta. Aspettava fuori dalla porta, con l' aria dimessa da ex ribelle - i lunghi capelli raccolti a coda, la giacca stazzonata -, che lei finisse le interviste con la stampa. Più che un suggeritore, uno chaperon. Costretto ad una vita da comparsa, prima come attore di serie tv (l' apparizione più nota, nel 1997, in un episodio di Skargardsdoktorn, saga di un medico svedese), poi come marito-manager della bella e talentuosa moglie cantante d' opera Malena Ernman, sposata nel 2004, oggi come ombra onnipresente al fianco della sua figlia maggiore (l' altra, Beata, canta, e nonostante abbia avuto la benedizione sui social della sorella, ancora non riunisce folle adoranti). Cinquant' anni, nato a Stoccolma, Svante è il figlio d' arte degli attori Olof Thunberg e Mona Andersson. Da giovane ha recitato con la compagnia del Royal Dramatic Theatre e del Riksteatern e poi ha tentato la carriera cinematografica come protagonista di un film sul compositore Joseph Martin Kraus. Il suo ruolo più riuscito, però, è quello di accompagnatore, chauffeur, protettore. Svante, a differenza della consorte mezzosoprano, è presente a tutti i summit, gli scioperi internazionali, le conferenze, sui treni che hanno solcato mezza Europa e perfino sulla barca a vela a pannelli solari che dall' Inghilterra lo ha portato con Greta e lo skipper principino di Monaco fino a New York. Come un genitore qualunque si è fatto fotografare con le valigie sulla banchina della stazione o agganciato alla randa in mezzo all'Oceano Atlantico. Ma in famiglia, da un bel pezzo, non è più protagonista. Qualcuno ha suggerito maligno che sia stato proprio lui - o forse l' ambiziosa mamma Malena - a manovrare la piccola per vendere qualche libro in più («Scene dal cuore», scritto a quattro mani dai due genitori in cui mescolano la storia della loro famiglia con quella della crisi ambientale). Se anche fosse, e di prove non ce ne sono, la potenza mediatica di Greta ha superato di gran lunga il progetto dei suoi procreatori. All' inizio, sul podio degli oratori, salivano in realtà insieme. Qualcosa si è rotto il 9 dicembre scorso, durante uno degli incontri collaterali del vertice sul clima di Katowice, in Polonia. Pochi giorni prima dello straordinario intervento che ha lanciato Greta nell' Olimpo degli eco-eroi, papà e figlia sono, fianco a fianco, ad una conferenza dell' organizzazione «ScientistWarning». I moderatori fanno più domande al padre che alla figlia, forse intimoriti da quel visetto da bambina timida. Svante però, nonostante la voce impostata d' attore e i profondi occhi azzurri, non è un oratore efficace come sua figlia. Incespica con le parole e chiede scusa mentre racconta di quando in famiglia si mangiava ancora carne e si guidava un' auto di grossa cilindrata. Intercala con mille «you know» (sai...) mentre spiega come il mondo abbia bisogno di «un cambiamento radicale di sistema», e infine balbetta quando deve tirare le conclusioni. E allora, inaspettatamente, sotto gli occhi attoniti di noi cronisti del clima, Greta gli sfila il microfono e sicura di sé scandisce in un inglese perfetto quello che papà non riesce a dire: «Practice what you preach», metti in pratica quello che predichi. La scena è rubata (per sempre) e Svante, da allora, si è autorelegato nelle retrovie. Oggi si limita a raccontare ai giornalisti una storia che ormai conoscono tutti: Greta undicenne che smette di mangiare e parlare, la sindrome di Asperger, la depressione, di come li ha convinti a diventare vegani e a rinunciare ai voli in aereo, perfino all' auto elettrica in garage («non possiamo guidare auto private se vogliamo raggiungere il target degli accordi di Parigi», concorda lui). Quando iniziano ad invitarla a tenere discorsi pubblici, papà e mamma tentennano. Sono preoccupati dai periodi di mutismo selettivo associati alla sindrome di Asperger. Greta non molla. E quando alla Cop24 di Katowice arringa la platea, conquistandola, Svante confessa: «Ho pianto». Lui ci tiene molto a ricordare che il suo nome viene da Svante Arrhenius, scienziato svedese e premio Nobel, che nel 1896 per primo calcolò il rapporto fra emissioni ed effetto serra. Un nome, un destino. D' altronde, si sa, dietro una grande persona c' è sempre una grande mamma e/o un grande papà. Relegato nell' ombra. I numeri social confermano: Greta ha 1,25 milioni di follower su Twitter. Papà appena 2.340. Ormai la comparsa Svante si è abituata al ruolo di seconda fila e dopo le 3.000 miglia percorse in barca a vela, si appresta al nuovo tour de force al seguito della eco-figlia. Qualche giorno di riposo, poi l' agenda prevede due summit Onu - il 23 settembre a New York e in dicembre a Santiago - tre scioperi climatici globali e svariati incontri tra Usa, Canada, Messico e Sud America. Svante, ma non è stanco? «Sì, un po' - ci ha confessato -. Ma questa storia mi ha cambiato la vita in meglio».

Marco Nepi per tpi.it il 18 settembre 2019.Il vice-presidente di CasaPound Simone Di Stefano si scaglia contro Greta Thunberg in un messaggio inviato ai seguaci del movimento: “Sono appena andato a riprendere mia figlia a scuola. Primo giorno di quinta elementare. Scopro che ha passato la mattinata ad imparare una canzone che dovranno cantare alla "manifestazione per Greta" (Mai autorizzato nulla del genere). La canzone contro i "cambiamenti climatici" è ovviamente Bella Ciao”. La figlia di ritorno da una scuola del primo municipio di Roma ha raccontato al padre come aveva trascorso la mattinata a scuola. Il leader di CasaPound non sembra aver gradito il fatto che la figlia dovesse imparare questa canzone e non ha autorizzato la partecipazione della bambina alla manifestazione contro il cambiamento climatico. Il 9 settembre decine di pagine e profili social di CasaPound sono stati oscurati e Di Stefano non potendo pubblicare un post sulla pagina ufficiale dell’organizzazione di estrema destra ha deciso di inviare un messaggio a chi lo segue per altri canali. Su Facebook molti utenti di CasaPound hanno condiviso il messaggio indicando come fonte la chat di “Telegram”. “Ora vedete, noi dobbiamo preparare una vittoria così grande, profonda e centrata da spazzare via democraticamente per sempre questi servi infami che si permettono di plagiare i nostri bambini. In ogni angolo si siano annidati. Epurare profondamente. Questo è lo spirito con cui vogliamo contribuire alla futura vittoria elettorale dei sovranisti. Perché dovrà essere una vittoria che non lascerà spazio ad ombre o compromessi. Ma ci vogliono le idee chiare. Quelle che vogliamo offrire”, ha concluso Di Stefano.

ANCHE OBAMA SI E’ "RINGRETINITO". Da Corriere.it il 18 settembre 2019. Arrivata a New York in barca a vela per non usare l’inquinante aereo, in previsione del vertice Onu sul clima di lunedì, Greta Thunberg sta incontrando il mondo della politica americana. Su tutti Barack Obama, che ha twittato: «Ha solo 16 anni, ma Greta Thunberg è già una dei più grandi difensori di questo pianeta. Sa bene che la sua generazione porterà il peso del climate change, e quindi non ha paura di spingere all'azione». Greta e Obama si sono incontrati lunedì e il video della loro conversazione è stato diffuso ieri: lui le chiede delle ultime manifestazioni, lei — per una volta — non lo striglia come è solita fare con tutti i leader politici cui si rivolge e dice anzi che «qui sono tutti gentili». Poi i due leader si battono il pugno e l’ex presidente dice alla ragazzina: «Noi siamo una squadra». I Fridays for Future capitanati da Greta Thunberg arriveranno anche a New York: è atteso in strada più di un milione di studenti per venerdì 20 settembre, e il sindaco Bill De Blasio ha dato il permesso ai ragazzi che vogliano manifestare di saltare un giorno di scuola. Greta poi parlerà il 23 settembre al Climate Action Summit dell’Onu. Greta Thunberg ieri ha preso parte a una seduta del Congresso, e lì ha rimproverato i senatori statunitensi della task force per il cambiamento climatico. «Ci state provando ma non fate abbastanza» per il clima, ha detto loro Greta che, il prossimo 20 settembre, alla vigilia del `Climate Action Summit´ dell’Onu, guiderà da New York lo sciopero mondiale a sostegno della lotta contro il cambiamento climatico. «Risparmiate i complimenti», ha esortato la giovane attivista, «non invitateci a parlare per dirci quale fonte di ispirazione siamo perché se poi non agite non serve a nulla». Per venerdì, sono previste manifestazioni a favore del clima in 150 paesi del mondo. Greta guiderà la marcia a New York da Foley Square e terrà poi un comizio a Battery Park. Con Greta ci saranno oltre un milione di studenti delle scuole pubbliche newyorchesi

Greta Thunberg, tutti ai piedi della nuova "leader mondiale". Politici, personalità, persino Papa Francesco. Tutti a trattare la giovane attivista ed ambientalista come una diva (senza che nessuno sappia davvero chi sia), scrive il 18 aprile 2019 Panorama. Al suo arrivo alla Stazione ferroviaria (niente aereo o macchina, inquinano) ad attenderla c'erano i fotografi. Poi si è diretta in Piazza San Pietro, dove c'era un posto in prima fila. Poi ecco l'incontro ravvicinato con Papa Francesco, con tanto di dialogo, risatine, strette di mano, foto, post su twitter ed immediata intervista sulla stampa: "Il Papa mi ha detto di andare avanti...". Domani poi prima il Senato, poi magari anche alla Camera e chissà cos'altro, tra personaggi più o meno pubblici, aziende, testimonial. A leggerla sarebbe l'agenda perfetta della visita nella capitale di Xi Jinping, il presidente cinese. Oppure di Donald Trump o chissà quale altro leader mondiale. Invece no. Tutto questo è dedicato ad una ragazzina. Lei, la nuova leader mondiale e simbolo di ogni lotta e persona vicina all'ambiente: Greta Thunberg. Per la 15 enne svedese abbiamo visto in queste ore di tutto. Ci sono politici (Tajani, tanto per fare un nome) che l'hanno ricevuta in pompa magna, promettendo impegni ufficiali con una vicinanza all'aria, piante ed animali davvero encomiabile (potere della campagna elettorale...). Tutti prostrati, tutti a sorridere con lei, sopra gli hashtag che seguono ad ogni sua comparsata. Un'esagerazione che sfiora la psicosi. La cosa è stata ed è talmente dirompente che non può non essere sospetta. Da settimane, da quando la giovane Giovanna D'Arco ha conquistato le luci della ribalta ci si chiede chi sia Greta, o, meglio. Chi ci sia dietro e con lei. Chi l'abbia aiutata a scrivere il suo libro, chi la gestisce, chi organizza gli incontri e gli appuntamenti. A nome di chi parla. Risposte? Nessuna. E quando non ci sono le risposte i dubbi non possono che crescere. Sarà la storia a dirci se sia stata questa ragazzina con le treccine ad usarci o il sistema ad usare lei.

Greta Thunberg: «Sono ribelle e poco socievole, i discorsi li scrivo da sola».  Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Sara Gandolfi su Corriere.it. «È una grande responsabilità essere così famosa, ma non è che io abbia il futuro del mondo e di tutte le specie viventi sulle mie spalle. Se non riuscissi più a gestire questa cosa, potrei fermarmi e ci sarebbero tante persone che sarebbero felici di prendere il mio posto. Io non sono insostituibile». Greta Thunberg è uno scricciolo. Un affascinante incrocio fra la forza aliena di Pippi Calzelunghe e la timida ingenuità di Heidi. Una sedicenne con la faccia da bambina che tutti corteggiano, pronti a incassare le sue bacchettate con un sorriso, a Strasburgo come a Palazzo Madama: «Voi non ascoltate la scienza, siete interessati solo a soluzioni che non cambino lo status quo», è sbottata giovedì prima di concedere l’intervista esclusiva al Corriere (lei risponde sicura e autonoma, il papà resta fuori dalla porta).

Politici, giornalisti, imprenditori fanno a gara per conoscerti. Ma tu hai chiesto di vedere il Papa. Cos’hai provato quando lo hai incontrato?

«Ero molto emozionata. È una persona molto importante e non sono in molti ad avere la possibilità di incontrarlo… Ed è l’unico leader mondiale a parlare di clima seriamente». 

Tu lo fai scioperando ogni venerdì. E ora milioni di ragazzi ti imitano. Non pensi che l’istruzione sia importante? 

«Io amo la scuola. Questa è un’azione simbolica con la quale diciamo: “Perché dovremmo andare a scuola se non c’è futuro”. Penso che la scuola sia molto importante, ma anche che dovrebbe fare di più per educare i ragazzi sulla crisi climatica e ambientale». 

In che modo? 

«Adesso a scuola ci viene insegnato che c’è una cosa chiamata “cambiamento climatico”, che l’anidride carbonica è un gas a effetto serra e aumenta la temperatura eccetera. E poi basta. Trattiamo l’argomento come se fosse uno dei tanti problemi. No! È l’argomento più importante di tutti ed è la crisi più grande che l’umanità abbia mai affrontato e se non la trattiamo come tale, non riusciremo a risolverla».

Stai viaggiando per centinaia di chilometri – in autobus e treno perché l’aereo inquina troppo – ma dici che non succede nulla. Sei delusa? È tutto inutile? 

«Se guardiamo il quadro più ampio e controlliamo le emissioni, allora non è cambiato niente. Però il dibattito sta mutando, le persone sono più consapevoli, i media ne scrivono di più, i politici ne parlano di più e tante piccole cose stanno accadendo, perciò non è inutile. La mia missione è fare tutto ciò che posso nel tempo in cui ho la possibilità di farlo». 

Qualcuno dice che sei solo una ragazzina, e che i ragazzini non fanno la differenza…

«Possono fare una grande differenza. Possono cambiare il mondo. L’età non dovrebbe essere importante. Quel tipo di argomentazioni sono… patetiche». 

E (finalmente) sorride. 

Pensi di essere una ribelle? 

«Sì, decisamente (lo sguardo è fiero, ora). In molte situazioni resto in silenzio e non dico niente, ma se si tratta di qualcosa che mi appassiona molto, allora sì, sono una ribelle». 

Una volta hai detto «Non sono molto brava con le persone». Non mi pare sia così…

«In privato non sono per niente brava con le persone. Non sono molto socievole. Non parlo molto. Odio fare conversazione e se lo faccio dev’essere perché possa venirne fuori qualcosa di buono, non mi piace parlare tanto per parlare. Ma se si tratta di un’intervista o se sto tenendo un discorso o sono con persone importanti, allora parlo. Perché so che devo farlo». 

E se fossi un leader politico? 

«Renderei le persone più consapevoli della crisi climatica e la scienza accessibile a tutti. Educherei le persone, farei informazione, direi loro che l’unica cosa su cui ci concentreremo d’ora in poi perché se non lo facciamo, potremmo raggiungere il punto di non ritorno». 

Quanto sono importanti i tuoi genitori in questa tua missione? 

«Io non esisterei senza di loro, mi hanno fatta, ma sono stata io a sviluppare questa idea. Sono io che scrivo i miei discorsi. Loro sono molto importanti, ma non sono loro a rendere questa cosa possibile». 

Durante l’incontro in Senato hai detto «Noi ragazzi non scendiamo in strada per permettervi di farvi i selfies con noi» (piccolo inciso, anche giovedì politici&Co. l’hanno costretta ai selfies e lei si è prestata paziente). Sei delusa dagli adulti?

«Dipende dagli adulti. La maggior parte non sono del tutto consapevoli di quello che sta succedendo. Ma altri lo sono e non stanno facendo niente, non so perché. Sì, sono delusa da alcune persone, ma non da tutte». 

Non vuoi parlare con Trump, ma la crisi climatica si può risolvere senza gli Stati Uniti? 

«Ovviamente no. È un problema globale, tutti devono collaborare. Alcuni più di altri. Ma nessuna nazione sta facendo lontanamente abbastanza». 

Oggi scioperi insieme ai ragazzi italiani. Sai che gran parte di loro ha smartphone costosi? Quale messaggio darai loro rispetto al consumismo? 

«Io non dico alle persone “Non puoi comprarti il nuovo iPhone” o “Non puoi mangiare carne”, io cambio le mie abitudini personali. Non voglio solo dare l’esempio, lo faccio anche per me stessa. Non voglio parlare di certi problemi e poi fare l’esatto opposto di quello che dico. Ma non forzo nessuno a fare niente». 

Cosa vuoi fare da grande? La politica, la scienziata? 

«Credo di aver pensato a qualsiasi possibile carriera. Voglio fare così tante cose e diventare così tante cose. È impossibile scegliere, ci sono così tante opzioni!». In che cosa sei brava? Matematica? A parlare di sicuro… Greta ride e d’improvviso torna ragazzina, con tutte le sue incertezze e un futuro davanti ancora da inventare. Nonostante l’Asperger e la fama mondiale. «Non lo so. A scuola mi piacciono tutte le materie, perciò il problema non è trovare qualcosa che mi piace, ma decidere quale fra queste cose mi piace di più».

Greta Thunberg tra i ragazzi in piazza del Popolo: "Promesse non rispettate, la nostra lotta durerà anni". Dopo l'intervento ieri al Senato con il j'accuse ai politici ("ci guardate e non capite"), l'attivista 16enne svedese alla manifestazione a Roma. Tra i giovani, 25mila, veri protagonisti della giornata. Alice, 9 anni: "Siamo qui per salvare il pianeta", scrive Elena Duse il 19 aprile 2019 su La Repubblica. Il pubblico pedala sotto al palco. Bambini e ragazzi parlano sopra. Una manifestazione così originale Piazza del Popolo non l'aveva mai vista. Voci sottili e vocioni da post adolescenza: "Con Greta salviamo il pianeta" gridano mentre i microfoni succhiano l'elettricità prodotta da 120 bici con la dinamo, spinte da chi semplicemente vuole fare la sua parte, per non consumare troppa energia "sporca". L'arrivo di Greta Thunberg - la particella che ha catalizzato questo movimento dei ragazzi per l'ambiente - è accolto dall'urlo della piazza. "Ciao Roma, siete tanti, dovete essere orgogliosi. Qui ci sono ragazzi di tutte le età, tanti piccoli e tanti anche intorno ai 20. È una bella età con tutta la vita davanti a noi. Ma il nostro futuro è stato venduto perché poche persone possano fare molti soldi. Quando ci dicono che il cielo è l'unico limite ci dicono una bugia. L'unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è il futuro. Molti di noi lo capiranno quando sarà troppo tardi. Siamo a un bivio per l'umanità. È ora che dobbiamo scegliere il sentiero da prendere. Siamo qui ora per scegliere e per invitare gli altri a seguire il nostro esempio. È un problema che accomuna tutti i paesi. Ancora non c'è nessun cambiamento concreto in vista. Le emissioni continuano a crescere. Il nostro movimento deve continuare. Non basteranno le settimane o i mesi. Non protestiamo perché gli adulti si facciano i selfie con noi. Noi bambini lo facciamo perché si agisca in concreto. Non siamo noi ad aver causato questa crisi. Ci siamo solo nati in mezzo. E vediamo che le promesse che ci vengono fatte non vengono rispettate. Ma noi continueremo a combattere per il nostro futuro e il nostro pianeta". Il sole estivo fa sudare ancor di più i 25mila (secondo gli organizzatori) fra liceali arrivati col treno, come ha fatto Greta, adulti e famiglie di romani, centinaia di cartelli senza simboli di partiti, disegnati a mano con slogan fantasiosi e divertenti: "Piantalberi", "Make earth cool again", "Make earth Greta again", "Ci avete rotto i polmoni", "There is no plan(et)B". Alice, 9 anni, la più giovane attivista del movimento Fridays For Future di Roma, parla in inglese: "Siamo qui per salvare il pianeta" dice con semplicità. Ma questa non è una festa. Questa manifestazione non è un gioco. Si attaccano Tav, Mose, inceneritori, capitalismo e infrastrutture in genere. Ma è contro la politica che i ragazzi eruttano rabbia autentica. Il clima, è chiaro, è solo uno dei problemi: "Siamo giovani, la generazione precaria per eccellenza e siamo qui per riprenderci il futuro". Gli interventi di liceali, ragazzi delle medie, studenti universitari di ogni regione d'Italia si alternano a ritmo battente, ogni pochi secondi. "Siamo giovani, ma non per questo non capiamo cosa succede". Sanno che gli adulti non hanno fiducia in loro: "Siamo semplici studenti, ci hanno detto che siamo un po' ignoranti non andiamo da nessuna parte. Dimostriamo il contrario". Ragazzi senza esperienza, raccolti nel movimento Fridays For Future, hanno organizzato una delle manifestazioni più nuove e colorate di Piazza del Popolo, con la novità di un palco a pedali: "Greta ha fatto qualcosa che tutti credevano impossibile. Noi oggi abbiamo fatto qualcosa che sembrava impossibile". L'incontro del Senato con Greta, avvenuto giovedì, è l'episodio che scatena più rabbia. "L'avete chiamata solo per farvi i selfie con lei" ruggiscono gli interventi dal palco, contro i politici (Matteo Salvini è l'unico citato per nome, e scatena un ruggito) che hanno votato contro gli accordi di Parigi. "I politici si divertono a prenderci in giro. Non capiscono che noi non vogliamo essere strumentalizzati, ma ascoltati". Il clima "non è un problema del futuro. E' un problema di oggi. E' il nostro problema". "Una generazione si è alzata in piedi come non ha fatto mai, perché stiamo andando a sbattere". Miriam, 16 anni, parla della sua Milano: "La città della moda, una delle città più inquinate del mondo. Da bambina mi raccontavano della pianura padana che era verde. Oggi c'è la pianura cemento, la pianura deserto". Il caldo sfuma dietro a un discorso più generale: "Siamo di fronte a una delle più grandi crisi globali, che pongono in discussione il nostro stile di vita e noi stessi. Serve un cambiamento di pensiero, una società più equa, una politica svincolata dagli interessi". "Il mondo è diviso in due parti, una che odia e una che ama. Basta con l'egoismo". E alla fine: "Questa è una società che ci sta rendendo sempre più soli. L'unica cosa che ci viene chiesta è mandare avanti l'economia. Ma per chi soffre di carenza d'affetto, in fondo alla piazza c'è un gazebo con persone che si abbracciano gratuitamente. Per imparare a fidarci l'uno degli altri, per sentirci più amati e amare di più anche il pianeta". No, il problema è più grande del clima. Gino Bastianelli è l'ingegnere di Bolzano che insieme al gruppo musicale dei Tetes de Bois ha inventato il palco a pedali: "La gente che sta pedalando produce 5 o 6 kilowatt. Questo palco in realtà ne consuma il doppio. Il resto viene dalla rete". Oltre cento persone sono venute a Piazza del Popolo in bici (anche bici per bambini) e hanno collegato la ruota anteriore a una dinamo. "Le usiamo per i nostri concerti dal 2011. È stata una nostra idea" racconta Andrea Satta, cantante dei Tetes de Bois". "Sembrava un'idea folle, un sogno di quando eravamo bambini, accendevamo la luce della nostra Graziella e pensavamo: se fossimo in mille accenderemmo una città" spiega Bastianelli. "Invece la tecnologia ci ha aiutato. Queste dinamo generano 50-60 watt. Sono adatte a tutti, basta una pedalata leggera. Per far sentire un concerto a mille persone per una o due ore sono sufficienti. Per farci sentire in tutta Piazza del Popolo non ce la faremmo senza la rete elettrica. Ma per il futuro abbiamo nuovi progetti per il palco a pedali".

Roberta Mitraglia per il sole24 il 19 aprile 2019. Da Londra a Parigi gli ecologisti di Extinction Rebellion protestano contro il cambiamento climatico. La linea rossa per il momento non è stata superata: l’azione a Heathrow, che minacciava di bloccare l’aeroporto, si è risolta con quattro ragazzi, di età compresa tra 13 e 17 anni, in sit in davanti a meno di un chilometro dallo scalo, circondati dalle forze dell’ordine. E un altro gruppo di teenager che ha intonato canti e ha pianto.  Il ministro dell’Interno, Sajid Javid , aveva chiesto alla polizia di usare «tutta la forza della legge» per fermare le proteste. Nelle stesse ore a Parigi i manifestanti alla Défense hanno impedito l’ingresso alle sedi di Edf, Société Général e Total. Intanto la giovanissima attivista svedese Greta continua il viaggio in Italia dopo essere stata ricevuta dai leader europei e dal Papa. Il movimento, fondato nell’ottobre scorso, da giorni sta rallentando il traffico e causando disagi nel centro di Londra, e chiede al Governo britannico di mettere in atto un piano per avere emissioni zero di gas serra entro il 2025, un obiettivo ben più ambizioso di quello approvato dalle Nazioni Unite che punta al 2050. I giovani vogliono di più: i quattro teenager di Heathrow hanno alzato un cartello con scritto: “Saremo l’ultima generazione?”. Ai giornali inglesi dicono di voler diffondere il messaggio su cosa sia necessario fare per combattere i cambiamenti climatici e di voler far sentire la propria voce. La Gran Bretagna ha tagliato del 42% le sue emissioni dal 1990 e punta all’80% entro il 2050 . Troppo tardi per i manifestanti. Anche a Parigi gli attivisti di Greenpeace hanno fatto sentire la loro voce manifestando alla Défense. Centinaia di impiegati non sono potuti entrare al lavoro a Total, il gigante petrolifero, nella società elettrica di Francia, Edf e nella banca SocGen. Il gruppo ha messo in atto la protesta contro le società energetiche e la banca accusandole di essere le forze principali dietro le politiche che aggravano il cambiamento climatico. Hanno mostrato giagantografie di Emmanuel Macron accusandolo di essere il “presidente degli inquinatori”.

Greta Thunberg, Pietro Senaldi difende il titolo di Libero: perché i rompiballe siete voi, scrive il 19 Aprile 2019 Pietro Senaldi su Libero Quotidiano. La solita mezza Italia dell' odio mi sta attaccando per il titolo di ieri di Libero, «La rompiballe va in Vaticano», che alludeva alla visita di Greta Thunberg a Papa Bergoglio. Il sindacato di categoria, al quale non appartengo, ha fatto un esposto contro di me e molti gretini, così sono affettuosamente soprannominati i tifosi della giovane ambientalista svedese mi hanno riempito di insulti e vorrebbero che bruciassi in piazza, in un rogo acceso con le copie di Libero, testata della quale invocano la chiusura. I primi vogliono espellermi da un club di cui non faccio parte, i secondi non mi leggono ma non tollerano che altri possano farlo. È la democrazia, bellezza. Non mi adombro e lascio che coloro a cui non garbo inneggino al mio funerale. D' altronde, da buoni seguaci, sono dei gran rompiballe. Per una volta mi tocca ringraziare l' Ordine dei Giornalisti, accusato dai miei antipatizzanti di favoreggiamento nei miei confronti in quanto mi lascia ancora a piede libero. In effetti mi ha processato soltanto in una decina di occasioni. Ora mi ha convocato non per giudicarmi ma per una chiacchierata nella quale, rarità, potrò dire la mia senza rischiare la collottola. Anticipo ai lettori di Libero qualche mia argomentazione. La prima è che è liberticida criticare un modo di fare giornalismo che può non piacere a qualcuno ma ha pure qualche estimatore e che la sinistra, dai politici ai ministri, ai giornalisti, deve smetterla di processare solo chi non le va a genio e garba invece ad altri. La prassi è diventata da ingiusta a oziosa.

MA QUALE SESSISMO. Ci hanno detto che dare della rompiballe a Greta è sessista. Falso, l' aggettivo è unisex, calza a pennello su uomini e donne, a meno che non si creda che rompere sia prerogativa del genere femminile. Io non lo penso assolutamente, chi mi dà del sessista evidentemente sì. Ci è stato contestato pure che ce la siamo presa con una ragazzina, come se la Thunberg fosse una scolaretta qualsiasi e non un personaggio di rilievo internazionale, ricevuta in Vaticano, che parla all' Europarlamento e a Palazzo Madama nonché in odore di (ig)Nobel. La fanciulla ha cercato tutta questa popolarità con determinazione, per dare forza alla sua battaglia. È diventata, per sua volontà, un personaggio pubblico, pertanto la critica su ciò che dice e fa è diritto e dovere di noi giornalisti. A questo riguardo non si può evitare di commentare la sfilata della giovane in Senato, ieri. Manco fosse Giorgio Napolitano ai tempi in cui era presidente della Repubblica, la super ambientalista ha accusato parlamentari dei quali ignora perfino il nome e che sono in maggioranza alla prima legislatura, quindi in carica da un anno, di averle rubato il futuro e averle mentito. E quelli, anziché spernacchiarla o almeno dirle «che c' entriamo noi?», si sono battuti il petto e si sono spellati le mani per applaudirla. Attenzione però, i senatori non sono gretini. A differenza degli ambientalisti, sanno come gira il mondo, hanno chinato il capo e omaggiato la ragazza, ma solo per continuare a farsi meglio i fatti propri. Come d' altronde un po' fanno tutti. Greta è giovane e ancora non lo sa: più il battimani è fragoroso, più è peloso. Di questo però la ragazza non deve preoccuparsi, comunque vada il pianeta, lei la sua battaglia l' ha vinta, anche se solo quella personale.

LA TESI DI RUBBIA. Quanto al surriscaldamento della Terra, a differenza della Thunberg non sono uno scienziato e neppure mi ci atteggio. So che, da quando esiste, sul globo si sono alternati caldo e freddo da prima che l' uomo vi comparisse. Quanto a esperti in materia poi, più che di Greta mi fido di Carlo Rubbia, Nobel vero, per la Fisica e non per il bla-bla. Lo scienziato, anch' egli applaudito dal nostro Parlamento adorante, ha sostenuto che la temperatura negli ultimi vent' anni è diminuita. Dopo che l' ho citato, probabilmente gli leveranno il premio per girarlo alla giovane svedese, ma il dubbio che egli abbia ragione mi resterà. Pietro Senaldi

''DEL CLIMA NON MI FREGA NIENTE. CON 2 GRADI IN PIÙ A BERGAMO SI STA MEGLIO. L'UNICA COSA CHE MI INTERESSA È LA FIGA''. Cristiana Mastronicola perTPI il 20 aprile 2019. Dopo la discussa prima pagina di Libero Quotidiano del 18 aprile, in cui l’attivista svedese Greta Thunberg veniva apostrofata come “rompiballe”, Vittorio Feltri viene intervistato dalla trasmissione radiofonica La Zanzara e spiega il perché di quel titolo. Perché Feltri considera Greta Thunberg una rompiballe? “Se c’è una rompiballe per definizione è proprio questa ragazzina, che, dicendo delle ovvietà che hanno ammorbato tutti gli europei per qualche settimana, è meritevole non tanto di un elogio, quanto di una definizione di rompiballe. Poi ‘Vieni avanti Gretina mi sembra perfetto”, spiega il fondatore di Libero. Non gliene frega nulla del surriscaldamento del pianeta, all’ex direttore? “Assolutamente nulla. Anche perché il pianeta si surriscalda a volte e a volte si raffredda. I cambiamenti climatici sono ciclici”, continua il giornalista. Incalzato da uno dei due conduttori della trasmissione, Feltri – bergamasco doc – ammette che con due gradi in più nella sua città si starebbe meglio: “Questa Gretina qui, che abita in Svezia, dovrebbe essere solo contenta se il pianeta si surriscalda un po’”. Se Greta andasse a Bergamo sarebbe accolta bene? “Qualche imbecille c’è anche a Bergamo, che l’accoglierebbe trionfalmente, a la maggior parte le riserverebbe una indifferenza totale”. Passando ad altri argomenti, a proposito del 25 aprile, l’ex direttore di Libero afferma di non festeggiarlo perché non gli interessa. C’è una cosa che ti interessa?, chiede Parenzo, e lui risponde: “La figa”.

FLAVIA PERINA: ''SE AVESSERO DATO A NOI UN MICROFONO QUANDO AVEVAMO 16 ANNI, AVREMMO DETTO COSE BEN PEGGIORI DI GRETA. TIPO…'' Nanni Delbecchi per ''il Fatto Quotidiano'' il 20 aprile 2019. Quanto va ripetendo Greta Thunberg sull' emergenza clima è incontestabile. Se lei è un fenomeno mediatico, chiediamoci cosa non lo è. Se è stato pensato a tavolino, complimenti al tavolino. Viviamo nell' età del percepito. Percepisci e porta a casa. Inoltre, qualcosa di decisivo nel nostro tempo deve essere accaduto e il fenomeno Greta ne è la miglior prova. Il conflitto generazionale esiste dalla notte dei tempi ma per la prima volta si presenta a rovescio. I tutori delle regole e della morale, i catoni censori sono i figli; gli irresponsabili, gli incoscienti, i giamburrasca sono i padri. Cinquant' anni dopo il '68, il mondo si è davvero capovolto di 90 gradi. Non invidiamo questi millennials destinati a ereditare un pianeta sull' orlo del baratro, però non invidiamo nemmeno i genitori. "Papà, mi sbaglio o stamattina hai preso la macchina?" "Eh, sì" "Ma come? Mi avevi promesso di prendere solo la bicicletta" "Lo so Greta, ma avevo un appuntamento urgente. Scusa". "Non mi interessano le scuse. Voglio i fatti".  "Ti prometto che è l' ultima volta". "Sarà meglio". "Mamma, ti sei fumata una canna?" "Ma no, Greta, che dici". "E allora cosa sono questi mozziconi che ho trovato mentre ispezionavo la differenziata? La prossima volta almeno buttali nella carta". "Greta, anche stasera resti a casa?". "Per forza, devo finire di scrivere il discorso, poi devo rispondere al Papa e a Formigli". "Ok. Allora noi andiamo". "Buona serata. Ma mi raccomando: a mezzanotte in punto, qui".

Fusaro: "Messaggio in codice di Greta: toglie il cappello e... Così funziona il burattino". Il filosofo all'attacco di Greta Thumberg con un video sui social: "Togliere il cappello per segnalare che ci sono domande scomode", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 22/04/2019, su Il Giornale. Diego Fusaro ne è certo. Quando Greta Thumberg si toglie il cappello mentre parla con una persona starebbe utilizzando un "messaggio in codice". È questa la tesi portata avanti dal filosofo che su Facebook ha condiviso un video dello psichiatra belga Marc Reisinger. Greta si trovava a Stoccolma. Era aprile quando la piccola paladina dell'ambiente inizia a parlare con lo studioso Reisinger. La bimba annuisce. Poi a un certo punto si toglie il cappello. In quel momento la conversazione viene interrotta da una donna. "Messaggio in codice della piccola Greta - scrive Fusaro sulla sua pagina Fb - togliere il cappello per segnalare che ci sono domande scomode. Così arriva l'addetto stampa a togliere d'impiccio. Et voilà, il funzionamento del burattino". Non è dato sapere le l'interpretazione di Fusaro sia corretta. Di certo l'ambientalista è finita già in altre occasioni nel mirino dei social. Come quando ha pubblicato una fotografia di un pranzo consumato in treno. In quell'occasione gli utenti la criticarono per aver scelto di consumare pane in plastica e frutta fuori stagione. Inoltre, molto si è scritto anche su chi e cosa si muova dietro il "fenomeno Greta".

UNA SCHIERA DI "GRETINI". Da radiocusanocampus.it il 26 aprile 2019. Il filosofo Diego Fusaro è intervenuto ai microfoni de “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul 25 aprile. “Il 25 Aprile è un giorno di festa e di lutto. Di festa perché coincide con la fine dell’orrendo nazifascismo e di lutto perché coincide con l’occupazione atlantista. Quando sento di personaggi della politica che non festeggiano il 25 aprile inorridisco. E’ una festa nazionale e come tutte le feste nazionali i rappresentanti dello Stato devono festeggiarla. E’ un qualcosa che sta al di sopra dei capricci dell’individuo imbronciato”. Su Izabella Nilsson Jarvandi, 15enne che si batte contro l’immigrazione e l’ideologia gender. “Lei e Greta Thunberg sono due facce della stessa medaglia in un dibattito dove non c’è un vero confronto –ha affermato Fusaro-. La cosa che sarebbe divertente se non fosse tragica è che per un verso si predica di affidarsi ai competenti e per un altro verso si dà importanza a persone che non possono essere competenti in quanto bambini. Stolte non sono tanto le due ragazzine in sé, ma le persone che le seguono. Si vede proprio la stupidità di quanti si mettono al seguito di bambini anziché seguire le linee della filosofia politica per capire il nostro mondo. Queste ragazzine incompetenti vengono assunte a paladine di battaglie e rilanciate sulle prime pagine dei rotocalchi. Invece le proteste delle giubbe gialle in Francia che toccano realmente le contraddizioni del capitale non vanno bene e vengono stigmatizzate dai media. La classe dominante giubila di fronte a proteste come quella di Greta, perché quella è la protesta ideale per il potere, una protesta in cui si scende in piazza non per i salari e per il lavoro ma per l’ambiente e senza protestare contro qualcuno di preciso. La piccola Greta, ogni qual volta si trovi davanti a un interlocutore che pone domande sgradite, si toglie il cappello e arriva l’addetto stampa a portarla via. E’ chiaro che Greta debba recitare un copione. La nostra ormai è la cultura del piagnisteo e del sentimentalismo, non c’è più una contrapposizione dialettica, abbiamo una continua proposizione di immagini strappalacrime che interrompono ogni possibile dialogo razionale”.

NON SOPPORTO GLI ECOLOGISTI. Massimiliano Parente per ''il Giornale'' il 20 aprile 2019. Ve lo dico francamente: non sopporto gli ecologisti, mi fanno venire l’orticaria. Anzitutto perché sono ideologici e faziosi. Per esempio citano gli scienziati sul riscaldamento globale, ma li ignorano quando gli stessi scienziati dicono che l’unica soluzione è il nucleare, e guai a parlare di nucleare a un ambientalista. E allora fregatevi, fate come Beppe Grillo, il quale si è tappezzato la villa di pannelli solari e l’energia prodotta non gli basta neppure per un mese, per il resto dell’anno deve attaccarsi alla rete elettrica. Tantomeno mi appassionano i discorsi ecologisti su come sarà la Terra tra cento anni, saranno cavoli loro, chi li conosce, già me ne frega poco della maggior parte dell’umanità che c’è adesso. Inoltre quando si riuniscono tutti insieme, come ieri a Roma, che depressione. Ancora di più in questi giorni che hanno trovato un madonnina a cui genuflettersi, Greta Thunberg, l’Heidi degli ambientalisti, anche le caprette le fanno le ciao, e oltre alle caprette ovviamente il Papa. Chissà poi se la Raggi avrà detto a Greta che a Roma ci sono ancora i cassonetti e non si fa la differenziata e non si riesce neppure a portare via la monnezza dalle strade. Comunque di Greta, per carità, non si può parlare male, altrimenti sei stronzo, soprattutto perché ha la sindrome di Asperger. Lo sa anche lei, perché nel suo profilo Twitter si descrive così: «Sedici anni, attivista ambientalista, con Asperger». Come se l’Asperger fosse un dottorato avanzato in climatologia. D’altra parte se togli l’Asperger resta solo sedici anni e attivista, chi se la filerebbe? E dunque sia lodata Greta. E l’Asperger. Che oggi per gli ambientalisti è diventato come l’autismo per chi negli anni Ottanta aveva visto Rain man. Tra l’altro il palco di Piazza del Popolo era alimentato dalle biciclette. Avete capito bene, le biciclette. 128 biciclette alimentate da 128 volontari per produrre un minimo di corrente da portare sul palco, ovviamente di giorno, perché fosse stato di notte dovevano far pedalare mezza Roma. Tra l’altro mi chiedo quante biciclette servano per alimentare uno dei mezzi preferiti di comunicazione degli ambientalisti, internet, visto che la stessa Greta sta sempre con il telefonino a twittare, con mezzo milione di follower che la seguono, a cosa li attaccano i telefonini? Al Tour de France? E inoltre in Italia, ci sarà arrivata in bicicletta? Insomma, non bastava la decrescita felice dei grillini, adesso ci tocca pure la pedalata felice dei gretini.

LA SINISTRA ANTI-CAPITALISTA SALE SUL CARRO DELLA 16ENNE «QUESTO SARÀ IL NUOVO 68». Mario Ajello per ''Il Messaggero'' il 20 aprile 2019. Greta è diventata cigiellina. Da Di Vittorio alla Thunberg, la parabola è questa. Ed ecco allora, prima dell' arrivo della sedicenne svedese sul palco di Piazza del Popolo («Vi amo tutti, love you all», saluta la star) che Maurizio Landini accoglie Greta nel palazzo della Cgil e le regala devotamente la tessera onoraria del principale sindacato italiano. Chissà gli operai dell' Ilva di Taranto come prenderanno la cosa. E comunque il socialismo verdeggiante e la diffusa mentalità anticapitalistica hanno trovato in Greta il volto su cui puntare e non conta, anzi conviene, che sia una ragazzina. E il plastic free - al bando le cannucce e no agli involucri delle caramelle sono il nuovo mantra - diventa il sostituto delle vecchie ideologie e il loro finto superamento. Anche se è ingenuo, e variegato, il popolo che va ad accogliere in piazza la ragazza che spezzerà le reni al Capitale. Ci sono i ragazzi curiosi: «Greta ha successo. Sono venuta qui per vedere perché», dice Sara, liceale al Convitto Nazionale. E sei rimasta soddisfatta? «Continuo a preferire le canzoni dei Maneskin». La giovane si rimette le cuffiette nelle orecchie e va a scrivere su un pezzo di cartone: «Greta sei grande». Come Ariana Grande, la pop star prediletta dagli adolescenti? Questo insieme di ragazzi è un mix, anzi un ibrido, come l' auto che ha portato Greta via dalla piazza. Chi è convinto che «i ricchi sporcano il pianeta e ci rubano il futuro». Chi è affascinato perché ogni influencer affascina. Chi non è ancora partito per il ponte Pasqua-primo maggio e vuole godersi il centro di Roma impreziosito da una nuova attrazione. Chi finge di credere a mamma e a papà che gli hanno detto che «questo è un nuovo 68» (che cosa?). C' è insomma tanta bella gioventù vogliosa di cambiare, e se qualcuno prova a obiettare (non è che il Circo Greta è in realtà un' operazione un po' politica, un po' aziendale, tra marketing, editoria e famiglia Thunberg?) capita che si senta rispondere da un trentenne con le treccine rasta e la t-shirt inneggiante al veganesimo: «Ma che me stai a reprime'?!».

IL MOVIMENTISMO ETERNO. E non c' è soltanto una residua ideologia anti-capitalista che soffia sul sogno green in salsa liceale come ennesimo tentativo di rivalsa, c' è anche il movimentismo eterno all' italiana. Guarda caso l' inno di questa piazza, cantato dal palco, è opera del cinquantenne Gianfranco Mascia, ex animatore del comitato Boicottare Berlusconi, ex girotondino con Nanni Moretti e leader di quello che si autodefinì il popolo viola. E comunque, si canta tutti insieme: «Tempo / non c' è più tempo / mi muovo adesso / altrimenti mi pento». Muoversi adesso anche per salvare i pinguini dai fascisti? Fingendo di non voler mettere il cappello su questa piazza («Non ho incontrato Greta per evitare strumentalizzazioni», dice il ministro pentastellato dell' ambiente, Costa), fuori da questa piazza senza simboli di partito c' è la gara a salire sulle esili spalle di Greta. Le associazioni dei vegani hanno organizzato lo sciopero anti-carne, come se la battaglia contro il buco dell' ozono dipendesse dalla dieta o fosse colpa del baccalà o delle galline che fanno le uova. Il Pd saluta Greta e il suo popolo, e annuncia il partito di Zingaretti: «Chi non è con Greta non ha capito nulla». I Verdi sono ringalluzziti al contatto con le trecce svedesi. I grillini - rappresentati ad alto livello, dal capogruppo Patuanelli a Paola Taverna, l' altro giorno nell' omaggio del Senato alla ragazza - fanno intendere che Greta salverà il mondo, magari anche dagli inquinatori leghisti. Della Cgil si è detto, e naturalmente si maschera da svedese anche Fratoianni. E che cosa non si fa per partecipare al circo e per raccogliere magari qualche baby voto alle Europee.

L' IDEOLOGIA DELLA BORRACCIA. Qui in piazza intanto vige l' ideologia della borraccia (quella rossa di Greta è ormai un' icona) anche contro l' acqua minerale e le sue industrie. E questa ideologia, insieme a tutto il resto, è un modo per credere in qualcosa ma non si sa bene che cosa, anche se i marpioni del Greta Power vorrebbero che l' indistinto diventasse politica. Se vent' anni fa impazzava il trend No Logo, e si sperava che potesse diventare un nuovo 68, ora il marchio che si vorrebbe dare a questi nuovi ragazzi è quello della decrescita felice e del sogno della natura incontaminata. E da Rousseau si è passati a Greta.

LARGO AI COMPETENTI. Gustavo Bialetti per ''la Verità'' il 20 aprile 2019. Tira una brutta aria per i competenti, ma non è lo smog a emanare cattivo odore. L' armata Zingaretti-Calenda ha rimediato infatti una bella figura di palta (siamo buoni, è Pasqua) cercando di andare dietro all' onda verde di Greta Thunberg (Landini intanto li superava a sinistra regalando alla sedicenne svedese una tessera onoraria della Cgil). «L' Europa che salva il pianeta», ha fatto scrivere tutto tronfio il neo segretario piddino su un cartellone elettorale: «Zero emissioni di Co2 entro il 2050». Un impegno degno del Bomba. Peccato che quella fosse la formula chimica del cobalto e non dell' anidride carbonica (si dice che Burioni abbia perso i sensi). Gli scienziati del Partito democratico avrebbero dovuto scrivere CO2 (Co2 sono due atomi di cobalto) e il Web ovviamente non ha perso tempo, infierendo sui dem con una pioggia acida di battute e citazioni (da Elio e le storie tese a Imane Fadil). C' è da dire che il fratello del commissario Montalbano non sembra particolarmente ispirato in fatto di cartellonistica. Perché anche il penultimo prodotto dei grafici democratici era entrato nella categoria «epic fail» (gaffe di un certo livello, per chi non frequenta i social). «Garantiamo la sanità per tutti, non per pochi», diceva il cartellone. Tutto a posto a livello lessicale, se non fosse che a far sbellicare la Rete ci ha pensato il contrasto tra lo slogan trionfalista e lo scandalo della sanità in Umbria. La presidente della Regione, Catiuscia Marini, infatti, si stava dimettendo, travolta dalle carte della maxi inchiesta sui concorsi truccati. Non resta che aspettare la prossima creazione. Dai saputelli che scrivevano «Vota la scienza, scegli il Pd» è lecito aspettarsi molto di più.

Greta in Senato: «Voi potenti non ci ascoltate, date false speranze». Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 su Corriere.it. Greta Thunberg, dopo l’incontro di mercoledì con Papa Francesco, giovedì mattina si è recata in Senato. L’attivista svedese, e promotrice del movimento Friday For Future, è intervenuta al seminario sul cambiamento climatico: «Dobbiamo trattare questa crisi come tale, milioni di studenti sono andati in strada per lo sciopero sul clima. Però non ci sono cambiamenti in vista. Allora perché le persone si congratulano con me? Non siamo scesi in strada per fare selfie, vogliamo che prendiate misure». Greta è convinta che alle nuove generazioni, ai giovani della sua età, sono date «speranze false» e anche se «alcuni possono avere tutto ciò che desiderano, l’unica cosa di cui hanno veramente bisogno è un futuro». «Kennedy disse “andiamo sulla Luna” e dopo qualche anno ci si andò. Notre Dame è andata a fuoco e in poche ore si sono trovati i soldi per ricostruirla. Quando vogliamo fare una cosa, i mezzi li troviamo. Il problema è che nulla viene fatto per fermare la distruzione del clima - ha continuato Greta -. La crisi climatica è la più semplice da affrontare e la più difficile. Sappiamo cosa dobbiamo fare: fermare i gas serra. La nostra economia dipende dalle fonti fossili che distruggono l’ecosistema». «Dobbiamo ascoltare gli scienziati - ha continuato, pantaloni scuri, camicia a righe, giacca di lana beige e borraccia rossa in mano -. Ma voi potenti non ci ascoltate, non volete comprendere. Non siete interessati alla scienza, siete interessati solo a continuare a fare quello che fate ora. Ma il cambiamento sta arrivando, la natura è interessata solo ai gas serra immessi nell’atmosfera. Le emissioni devono fermarsi». «L’incontro con Greta è stato cordiale di saluto e di benvenuto a questa ragazzina coraggiosa che sta facendo il giro del mondo per portare il suo messaggio». Sono le parole usate dalla presidente del Senato, Elisabetta Casellati, per descrivere il suo incontro privato con la giovane svedese Greta Thunberg. «Nessuno può voltare la faccia dall’altra parte di fronte a un’emergenza climatica che è planetaria. Greta e i ragazzi dei 2 gradi - aggiunge - vanno sempre ascoltati. Oggi hanno dato una sveglia alle coscienze, hanno sottolineato il fatto che le politiche devono sempre ispirarsi alla tutela del territorio». Nella stessa occasione, Greta ha incontrato gli studenti delle quinte elementari di due scuole romane, l’istituto comprensivo «Antonio Gramsci» del quartiere periferico del Trullo (vincitori di un concorso sulla sostenibilità di ministero dell’Istruzione e Asvis) e il liceo classico europeo del Convitto nazionale. Un incontro molto breve, un paio di minuti. «Greta ci ha salutati e ringraziati e ci ha dato appuntamento a domani». Venerdì, alle 12,30 in piazza del Popolo, si terrà infatti una manifestazione per il consueto sciopero del clima del venerdì.

Il comunismo verde dei "Gretini" adesso sbarca anche in Vaticano. La baby attivista Greta Thunberg da papa Francesco: "Unisciti alla protesta". Che il clima non c'entri in tutto ciò è evidente, scrive Franco Battaglia, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. Il riscaldamento globale è la realizzazione del sogno degli ambientalisti (che da ora in poi chiamerò sempre e solo Gretini): esercitare il controllo totale sulla società e sui comportamenti individuali. Il Gretinismo è servito per decenni come migliore scusa per il controllo delle azioni dei singoli individui, ricattandoli con avvertimenti del tipo: fa' questo per la salvezza dei tuoi figli o, se non ne hai, per la salvezza delle foche. Ma col riscaldamento globale è tutta un'altra forza: fallo per la salvezza dell'intero pianeta, ché il tuo comportamento a Stoccolma, sostiene la piccola Greta, ha conseguenze a Gitega, nel Burundi. Lo spettro del riscaldamento globale ha il beneficio aggiuntivo di consentire di superare l'irritante ostacolo delle sovranità nazionali, dispregiativamente liquidate come sovranismi. Il problema del riscaldamento globale è così gigantesco che, in realtà, nessuna soluzione è sufficiente a risolverlo, e qualunque cosa si faccia non sarà mai abbastanza. Rammentate il protocollo di Kyoto che entrò in vigore nel 2003, ci fece dissanguare economicamente, ma al risultato che si prefiggeva non ci si avvicinò d'uno iota? Era «solo un primo passo». Ma perché la CO2? Perché controllare la CO2 significa controllare gli usi dell'energia, e ciò significa controllare tutti noi, la nostra economia, i nostri stili di vita: ove ha fallito il comunismo, ci stanno provando col Gretinismo. Il che non è esente da una tragica ironia: i peggiori disastri ecologici sono stati quelli perpetrati nei Paesi del blocco sovietico e lo sono ancora oggi nella comunista Cina. I Gretini vorrebbero convincerci che più alto è il nostro benessere, maggiore è il danno che facciamo all'ambiente, in generale, e al clima, in particolare. Naturalmente, i costi da sopportare per fare come essi dicono di fare saranno sempre a carico di «altri», i cattivi: le multinazionali e i ricchi, europei e americani. Il concetto l'ha messo nero su bianco anche Francesco, nella sua Laudato si. Il nemico dei Gretini, allora, è la ricchezza, il benessere, il divario tra chi è ricco e chi è povero: il ricco deve sentirsi in colpa, e deve diventare povero. Il sospetto che un nemico più appropriato dovrebbe essere la povertà non li sfiora nemmeno. Ma sono Gretini. Allo scopo malcelato di diminuire questo odioso benessere, la parola d'ordine è diminuire i consumi delle risorse energetiche del pianeta. Per lasciarle dicono i Gretini anche alle generazioni future. Peccato che col petrolio che finisce, poniamo, fra 50 anni, il gas fra 100 e il carbone fra 300, risparmiarne un fantastico 10% (l'equivalente di improponibili 4 protocolli di Kyoto) significa farli finire fra 55, 110 e 330 anni, rispettivamente, con buona pace delle generazioni future. E con buona pace dei timori dei cambiamenti climatici che rimarrebbero tutti, visto che qualunque catastrofe sia prevista accadere fra 100 anni accadrebbe inesorabilmente 10 anni dopo. Ma l'aritmetica non è mai stata il forte dei Gretini. Forse le lezioni d'aritmetica erano previste di venerdì. Allora, se si vogliono gratificare le generazioni future, la vostra parola d'ordine, cari Gretini, dovrebbe essere non «diminuire» ma «immediatamente interrompere, senza se e senza ma» i consumi delle risorse energetiche del pianeta. E, se si vuole evitare che il clima impazzisca, anche le generazioni future dovrebbero astenersi dal servirsi di quelle che, a questo punto, «risorse» non possono più chiamarsi: la logica Gretina, insomma, privando dello stato di «risorsa» l'oggetto delle loro attenzioni, toglierebbe a costoro il loro potere venefico. E siccome i Gretini non sono cretini, hanno capito che il veleno devono somministrarlo a dosi controllate. Somministrata e digerita la prima dose politicamente accettabile di veleno, si passa alla seconda. A questo proposito, la campagna sul clima è insidiosissima: si comincia col vendere l'imminente pericolo e la necessità di agire, quindi si prospettano azioni successive, tutte costosissime e naturalmente inutili (ricordatevi che l'unica soluzione utile sarebbe il fermo totale). Quando la loro inutilità sarà evidente, si dirà che non è abbastanza, e che quello precedente era solo un piccolo passo. E via di questo passo. In ogni momento la parola d'ordine è fateci caso «agire subito». Che il clima non c'entri in tutto ciò è evidente, se si hanno occhi per vedere quanto nudo è il Re: appena 50 anni fa ci dicevano che, per colpa nostra, il pianeta si stava raffreddando, oggi ci dicono che, sempre per colpa nostra, si sta riscaldando, ma le azioni che suggeriscono siano intraprese sono, oggi, le stesse di allora. Ciò che aspirano controllare, allora, non è il clima. Ma gli uomini.

Greta Thunberg, chi c'è dietro la ragazzina ambientalista: di chi è figlia la svedese, scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Greta Thunberg è sbarcata in Italia, dove per tre giorni sarà accolta addirittura da Papa Francesco fino al Senato e poi dritta a manifestare in piazza per l'ambiente con altri ragazzi. La ragazzina svedese è diventata ormai un fenomeno globale, dietro al quale non è mai stato chiarito abbastanza come sia nato e per la spinta di chi. La svedesina di 16 anni non arriva da una famiglia delle tundra sperduta. Sua madre, per esempio, è una famosa cantante d'opera, Malena Ernman. Suo padre è un attore, Svante Thunberg, non proprio un operaio metalmeccanico. Solo per caso, la mamma di Greta lo scorso agosto ha dato alle stampe Scenes from the heart, un libro ultra-ecologista che ovviamente ha raccolto grande successo in contemporanea alla popolarità crescente di sua figlia. La giovanissima Greta può anche vantare di consulenze di peso. Come per esempio quella di Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità, che gli curerebbe la comunicazione e l'immagine. Anche lui dal fenomeno della svedesina spera di tirarci su qualche euro, visto che ha lanciato una startup, la We Do Not Have Time, che solo per puro caso è anche lo slogan di Greta, che poi è anche membro del Cda. La società ha già raccolto 2,8 milioni di euro di finanziamenti solo nei primi 3 giorni. Il giro d'affari dietro la nuova beniamina degli ambientalisti di tutto il mondo cresce di giorno in giorno. 

Affaristi, politici e furbi: ecco chi c'è dietro il «fenomeno Greta». Un think thank di sinistra, un business man senza scrupoli. E un piano: far soldi con l'eco, scrive Carlo Lottieri, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. C'è qualcosa di inquietante nel «fenomeno Greta», ora giunto da noi in occasione della Settimana santa. La ragazzina è ormai l'icona non soltanto dell'ambientalismo radicale, ma di tutta quella parte dell'opinione pubblica che ama semplificare ogni cosa sulla base di schemi moralistici. Nel suo più celebre discorso, alla Cop-24 di Katowice, la Thunberg ha adottato toni giacobini per contrapporre la purezza dei suoi ideali giovanili agli interessi di quegli adulti potenti che terrebbero nel lusso una piccola porzione dell'umanità, proprio mentre sacrificano i diritti dei più deboli. Com'è possibile che questa ragazza sia stata chiamata a parlare di fronte a esperti venuti da ogni parte del mondo? A Katowice la Thunberg è intervenuta come rappresentante di un'organizzazione che si chiama Climate Justice Now. Insomma, la rete dei movimenti ecologisti ha deciso di non mandare un cinquantenne consapevole della complessità dei problemi e ha giocato con grande freddezza la carta mediatica di un volto ancora infantile schierato a difesa del mondo intero. Ovviamente, Greta conosce ben poco i temi di cui parla. Il cambiamento climatico è questione non semplice e si tratta, per giunta, solo di una parte del problema. Gli ecologisti immaginano soluzioni autoritarie, imposte da un potere globale, ma quanti hanno a cuore la libertà individuale sono legittimamente scettici di fronte a ciò. Per giunta, è assurdo che si sia fatta di questa ragazza una sorta di rock-star presente a ogni consesso internazionale. E c'è da chiedersi fino a chi punto si spingerà il cinismo di chi ne sta utilizzando l'immagine per calcoli affaristici e per retorica manichea. Quando verrà costruita la vicenda che è all'origine della piccola Greta, un giorno da Jean-Paul Juncker e subito dopo da papa Francesco, si scopriranno le ambizioni di una madre cantante che ha già scritto un libro («Scene dal cuore»), una dinamica società di marketing (la «We Do Not Have Time»), un think-tank creato dall'ex-ministra socialdemocratica Kristina Persson: proprio di quel partito che ha candidato la piccola al Nobel della pace. Da tempo, i media svedesi stanno evidenziando vari lati poco edificanti della vicenda. In particolare, molti hanno sottolineato come dietro alla società «We Do Not Have Time» vi sia Ingmar Rentzhog e il progetto di un nuovo social network volto a sensibilizzare il pubblico in materia climatica. L'obiettivo è di agganciare il mondo ambientalista in una sorta di Facebook tematico: ed è facile immaginare quali siano i risvolti commerciali dell'operazione. Business is business, ma certo è ben poco nobile come viene detto a Stoccolma che questo uomo d'affari stia continuamente usando l'immagine della ragazza per raccogliere fondi. La cosa è stata apertamente denunciata dallo Svenska Dagbladet il 9 febbraio scorso. Il quotidiano era stato uno tra i primi a far conoscere la giovane, ma in seguito è rimasto scandalizzato dal comportamento di Rentzhog: che non è riuscito a trovare solidi argomenti per giustificare il suo operato. Su una cosa, allora, Greta ha certamente ragione: qualche volta gli adulti sono feroci. Soprattutto quelli che le sono più vicini.

UN ABBATE IN TESTA A GRETA. Fulvio Abbate per Dagospia il 17 aprile 2019. La scena in cui Greta Thunberg, ragazzina svedese, 16 anni, cartello autarchico della protesta extrascolastica scritto a mano, fa il giro delle cancellerie e perfino delle Stanze Vaticane come fosse la Shirley Temple del più edificante allarme ecologico, bambinella dell’Ara Coeli così ben incoronata dalle sue treccine, se non addirittura, per sussiego, la regina Vittoria rediviva, sì, l’intera sequenza cerimoniale e insieme tra Kubrick e pura pop art e perfino il nostro De Gasperi che a suo tempo va a ritirare l’assegno del Piano Marshall, di queste immagini appare, almeno ai miei occhi, davvero insostenibile; caricatura propria e garantita del meraviglioso mondo della mai affondata sinistra alla zuppa di farro, stavolta cucinata su scala davvero planetaria, zuppa globale, sì. Cose da suscitare entusiasmo e partecipazione, che so, presso ogni Concita De Gregorio presente al mondo delle opinioni giuste, garbate, rispettabili. Ancora una volta, la sinistra rionale, e per estensione mondiale, si affida a una faccina pronta a mostrarsi d'istinto davvero detestabile, almeno da chi dovesse custodire un minimo senso della rivolta e insieme, se non soprattutto, del ridicolo, coscienza del limite che provi orrore per ogni presepe edificante da ceto medio-alto riflessivo. Insomma, mai che questa risibile sinistra davvero sappia affidarsi a un volto pienamente, aristocraticamente, laicamente, cioè in modo davvero dionisiaco contrario al galateo del banale, faccia da schiaffi che tuttavia custodisca e doni i grandi paradossi salvifici per l’intelligenza, metti, come sapeva fare un Carmelo Bene. Semmai eccola sempre lì pronta a innalzarsi in contesti antropologicamente tra risibile e odioso, se non detestabili, roba da balsamo ecologicamente testato per capelli mai più crespi, trecce da educandato militante, ottime scuole, tra “Ambrit” e “Chateaubriand”, almeno pensando all’ambito romano, sì, proprio pensando alle coetanee di Greta che vanno allo “Chateau”. Si applaude in lei, Greta, l'ennesimo zampirone politico, va da sé da affiancare alle già testate Boldrini nel recente passato fallimentare mai del tutto ancora trascorso. Neanche in un film di Tim Burton si sarebbe visto un simile meraviglioso, eppure ripugnante epilogo lisergico, con le anime belle, anzi, la “bella gente” di sinistra che guarda, gli occhi umidi, e intanto applaude felice e soddisfatta, la piccola Greta accolta in Vaticano da papa Bergoglio, in veste di parroco dispensatore di rosari e di carezze d’incoraggiamento sulla strada del pianeta infine emendato d’ogni mondezza, una scena che surclassa perfino l’epilogo di “Mars Attack”, dove altri ragazzini non meno brufolosi salvano il mondo dalla catastrofe aliena grazie all’orrida musica country and western, sparsa infine con gli altoparlanti, canzoni care alla nonnina già su sedia a rotelle, ma si può fare peggio di così? Eppure sarebbe bastato davvero poco per uscirne, altro che trovare e subito affidarsi a sempre nuove piccole vedette lombardo-scandinave, lì pronte a riportare in vita l’entusiasmo girotondino da cassonetto infine eticamente accettabile, sarebbe bastato anche, ragionando in modo local, ricordare perfino l’ultimo film di Checco Zalone, dove grazie all’effetto dell’acido muriatico dell’ironia liberatoria si prende chirurgicamente per il culo ogni doverosa denuncia dello stato di salute del pianeta, oltre  ogni ossessione ecologica perbenista, dai, avevano sotto mano la soluzione dialettica a portata di botteghino sotto gli occhi per non rendersi ancora una volta risibili, e invece niente, irrecuperabili. Te lo devo dire forse io che l’immagine pubblica di Greta Thunberg, la sua stessa icona da patentino di palestra per pilates rimanda subito plasticamente all’affresco del già menzionato ceto medio-alto riflessivo, mamma cantante d’opera, papà attore, una chiaraferragni votata insomma alla retorica del politicamente corretto, sgrassato e riciclato, l’aureola della coscienza “civile” a illuminare l’intera ditta familiare; scommettiamo che dopo il suo arrivo, con quell’implicito manifesto della coscienza ecologica come patrimonio esclusivo, griffato eticamente, delle élite che sanno come stare a tavola e perfino al mondo, scommettiamo che il conflitto permanente tra l’orrendo “popolo” e la non meno mostruosa “élite” vedrà il primo sempre più motivato a sentire di averci tutti, noi semplici diplomati, sul cazzo?

GRETINI FATTI A MAGLIE. Dagospia il 17 aprile 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Maria Giovanna Maglie: Caro Dago, Greta io l'adoro. Desidero tranquillizzare te e I tuoi numerosissimi lettori che non ho intenzione di investire qualcuno con l'automobile nei prossimi tre giorni, e che per evitare qualsiasi tentazione ho consegnato le chiavi al mio consorte. Come sai, perché hai pubblicato la notizia, anzi il vero e proprio scoop di Pietrangelo Buttafuoco per il Fatto Quotidiano, sono in predicato di essere nominata ambasciatore a Washington, nella prospettiva, come da richiesta e desiderata del Presidente degli Stati Uniti, di diventare in seguito governatore del libero stato sovranista di New York. Non posso in questa fase quindi commettere errori di intemperanza qualsivoglia, come quelli ai quali mi sono abbandonata in passato, commentando malignamente sul vincitore di Sanremo ed anche e soprattutto su Greta Thunberg. Il primo commento mi è costato la mitologica striscia post TG1, così mi hanno spiegato, il secondo non vorrei che mi costasse Villa Firenze, sontuosa dimora dell'ambasciatore italiano attualmente occupata da sua eccellenza Varricchio, che un po' la gestisce come un bunker di Rignano sull'Arno. Prendo perciò lezioni di galateo diplomatico da Buttafuoco, mio mentore e sodale dai tempi del Foglio che fu e non è più. Egli mi ha messo sull'avviso di non illudermi che la raccomandazione forte di Donald Trump sia sufficiente a salvarmi degli obblighi convenzionali. E’ vero che la giovane Greta non vuole avere niente a che fare col presidente degli Stati Uniti, che ha dichiarato di non avere tempo né voglia di incontrare, e pazienza se qualcuno dovrà spiegarle che costui corre il rischio di essere rieletto nel 2020 per altri 4 anni. È vero anche che le regole delle feluche restano ferree, in testa c'è “ Mai dire la verità quando si può ricorrere a una graziosa bugia”, seguita da “Mai dire una cosa di significato chiaro quando se ne può dire una che tutti possono interpretare a modo loro”. Sono concetti duri ma mi devono entrare in testa. Sosterrò quindi che l'intero movimento di Greta e intorno a Greta è del tutto spontaneo e non a scopo di lucro. Che è una pura coincidenza che la sua mamma e nota cantante, Malena Ernman, abbia quattro giorni dopo la prima protesta organizzata della figlia pubblicato un libro che si chiama “scene dal cuore” sulla scelta ecologista. Come è una casualità che a breve distanza sia arrivato il libro di Greta medesima, ovvero “la nostra casa è in fiamme”. Dirò di essere stata febbricitante quando ho sostenuto che dietro Greta c’'è il signor: Ingmar Rentzhog, proprietario della startup We Do not Have Time,( che è poi l'abituale slogan spaventoso e spaventato utilizzato dalla ragazza,” non abbiamo tempo”), nel cui board compare anche Greta, e che in pochi giorni ha raccolto 2,8 milioni di euro, e fornisce servizi sui cambiamenti climatici. Non è vero niente. Come non è vero che lo stesso Rentzhog sia pure il presidente del think tank Global Utmaning, fondato da Kristina Persson, ex ministro socialdemocratico svedese dello Sviluppo, con lo scopo di contrastare nazionalismo e sovranismo intervenendo nella campagna elettorale per le prossime europee del 26 maggio.  Perciò Greta a parlare a Strasburgo sotto l'occhio umido del presidente Antonio Tajani mica ci è andata per fare campagna elettorale, mi era venuto in mente non si sa come prima di avviare il mio personale processo di redenzione. Com'è lo slogan? Piangete per Notre Dame, che si ricostruisce, e non vi preoccupate per la nostra casa che sta crollando, che è sempre il titolo del libro, sempre per puro caso. Che lezione per i parlamentari europei! È stato bello osservare l'afflato tra Greta e il presidente Tajani. Lui ha detto che “Greta ha mobilitato milioni di persone per difendere l'ambiente. Le ho raccontato tutto quello che l'Unione Europea sta facendo” e qui si capisce quanto sono diventati amichetti, che fa piacere. Poi ha precisato: “Mentre altre grandi potenze si defilano da questa battaglia cruciale, l'Unione Europea mantiene la barra dritta”, e qui si capisce che anche lui a Trump non saprebbe cosa dire semmai lo incontrasse.  Più sobria ma bella la frase che a Greta in udienza, con un giovanotto che le reggeva il parasole, ha dedicato Papa Francesco, che le ha detto “Vai avanti”. Se non avessi avviato il mio percorso diplomatico, mi sarebbe venuto in mente di aggiungere “che a me me vie’ da ride'”, come si usa in maniera irriverente a Roma. Nunca mas! Sono anche molto lieta che Greta domani sia ricevuta per un convegno al Senato della presidente Elisabetta Alberti Casellati, che una lunga militanza in Forza Italia ha convinto del sostegno all'ecologia, all’ ambientalismo, credo anche alla decrescita felice. Infine mi congratulo per il grande incontro di venerdì con gli ambientalisti italiani in piazza del Popolo per «Fridays for future». Sarà mia cura accorrere per avere l'occasione di guardare lo straordinario spettacolo offerto dalle strumentazioni elettriche del palco, allestito dalla Cgil, che saranno alimentate a pedalate, con 128 biciclette collegate a una dinamo. Straordinario, futurista, evocativo del futuro pulito e laborioso che ci attende. Il fisico purtroppo non mi assiste nel pedalare a lungo anch'io, ma sono certa che Pietrangelo Buttafuoco vorrà contribuire alla causa.  Poi io espatrio, sia pur in obbediente rappresentanza, vado dal palazzinaro. Al mio mentore Pietrangelo l'America non è mai piaciuta, lo lascio con Greta.

Da “la Zanzara - Radio 24” il 18 aprile 2019. “Ho detto una cosa terribile, me ne rendo perfettamente conto. Gli italiani non sono un popolo di razzisti e di xenofobi, ma con una sola grande eccezione che sono i rom. Quello contro i rom è, come dire, un razzismo di nuova formazione. In qualche modo, sì, è giustificato. Mentre una volta i rom vivevano borderline ai limiti della società facendo mestieri particolari, facevano i lattonieri in particolare, recuperavano i cartoni, poi c’erano i circhi, molti facevano i giostrai ecc. Tutta sta roba è sparita. Oggi di persone che vivono onestamente, che ambiscono di vivere onestamente, ce ne sarà una su duecento”. Lo dice Filippo Facci a La Zanzara su Radio 24. Ancora: “Chiariamo una cosa. Io sto parlando di quelli che vivono nei campi, che vogliono vivere in un certo modo, che però non è più possibile. Un tempo era possibile, oggi qualsiasi nazione occidentale e non solo occidentale, tenderà a ricacciarli via perché non hanno un futuro, non lo possono avere. Non può avere un futuro chi non manda i bambini a scuola, chi ruba. Vanno mandati a scuola? Ma è un ossimoro. Nel senso che nel momento in cui tu vai a vivere nelle case e mandi i bambini a scuola, non sei più Rom. Ce ne sono milioni di rom assimilati. Sono persone normali che però vogliono mantenere la loro specifica cultura, il nomadismo, il ruolo che un antropologo chiamerebbe da cacciatore raccoglitore andando in giro. C’è un dettaglio, rubano tutti. Tutti lo sanno. Fin da bambini non vengono mandati a scuola perché non è l’onesta la maniera in cui si concepisce di vivere, rispetto ad alcuni lavori che un tempo facevano borderline, ripeto, e oggi non fanno più. I rom rubano. Cercano di fottere il prossimo. E’ praticamente così, concretamente così”. Facci prosegue: “Non è da decodificare quello che ho detto. Non esiste nessuno che li voglia. E’ questo il discorso, destra e sinistra, chiunque incontri un rom cambia marciapiede, controlla il portafoglio, trovatemi uno che assumerebbe una donna di servizio di origine rom. Le eccezioni esistono sempre e servono per confermare le regole. Nessuno vuole i rom, nessuno. Dove ci sono i rom, aumenta la criminalità. Sappiamo come vivono in questi campi. Vivono rubando, insegnano ai bambini a farlo. Fanno cose orrende. Sono talvolta dei mostri. Ci sono delle storie di cui ho scritto anche di recente, che lasciano allibiti. Come se avessero un livello di tolleranza diverso dal nostro. Io ribadisco che se anche i rom sparissero dalla faccia della terra alla maggior parte degli italiani non gliene fregherebbe niente, che già non gliene frega niente di un sacco di altri popoli che sono perseguitati in giro per il mondo. Figuriamoci se gliene frega dei rom”. “In altre parole – dice ancora - i campi rom vanno bruciati coi lanciafiamme. Non si può vivere così. Questa è la regola, chiunque ci viva. Via, via, fuori, non si può vivere in roulotte, in campi, portando i bambini in giro con le donne incinte, così non vanno in galera. E’ una mostruosa illegalità. E non facciamo paragoni tra il degrado e la vita che i rom hanno programmato. Ai bambini di 4-5 anni mica dicono da grande farai un mestiere, no, da grande farai il rom”. E di Greta che pensi?: “Che ci ha rotto i coglioni. Ecco che cosa penso. A parte che ha proprio una faccia di cazzo sta bambina, che ogni volta che la vedo…Perché devo dire così? Perché  ha la faccia di cazzo. A me tutte le persone che hanno bisogno di riscoprire le questioni ambientali attraverso quella specie di mostriciattolo…Perché devo offendere così? Perché mi dà fastidio. Ha ragione la Maglie, viene da investirla con la macchina”.

Greta, un diario di famiglia. "Così lottiamo per il pianeta". La casa, i genitori, la sorella, la malattia e i loro ricordi: la sedicenne svedese si racconta. Dallo sciopero davanti al Parlamento fino alle proteste planetarie contro i cambiamenti climatici, scrive Giacomo Talignani l'08 aprile 2019 su La Repubblica. A volte ci vuole una persona invisibile per farci aprire gli occhi. Greta Thunberg lo era. Prima degli scioperi per il clima, dei discorsi all’Onu, del milione e mezzo di studenti che hanno seguito il suo esempio marciando contro l’inerzia dei governi sul cambiamento climatico, l’adolescente svedese viveva chiusa nel mutismo, piegata con il naso affondato nel pelo del suo cane Moses, in lacrime per essere stata bullizzata a scuola. “Ci metteva 2 ore e 10 minuti per mangiare cinque gnocchi”, ricorda il padre parlando della malattia. Ma Greta, affetta da sindrome di Asperger, sotto quel mantello di invisibilità e sofferenza, stava in realtà lottando: non faceva che studiare, ripetere a memoria i dati sulle emissioni di anidride carbonica, ritagliare articoli, conoscere e capire i fatti. “Un solo viaggio in aereo può cancellare vent’anni di raccolta di differenziata”, ripeteva da sola in cucina. Si stava preparando ad agire. Il racconto di quel periodo, di come una famiglia unita ha usato la stessa forza necessaria per cercare di curare le figlie (anche la sorella Beata soffre di disturbi di neuro-sviluppo) in una battaglia concreta contro il cambiamento climatico è la trama de La nostra casa è in fiamme, il libro di Greta Thunberg scritto insieme alla sua famiglia e che dal 9 aprile uscirà in edicola con Repubblica a 12,90 euro oltre al costo del quotidiano. Per volontà di Greta doveva essere un “libro sul clima”, e in gran parte lo è così come, sempre per scelta delle sorelle Thunberg, è una pubblicazione i cui proventi andranno tutti in beneficenza ad associazioni che si battono per salvare il pianeta. Ma soprattutto è un racconto, attraverso i discorsi della giovane paladina dell’ambiente, gli aneddoti della madre cantante lirica Malena Ernman e del padre attore Svante, di fragilità e forza. La fragilità di una Terra surriscaldata che “fra 12 anni non sarà più la stessa”, di una famiglia passata dal vivere viaggiando sempre sotto i riflettori a chiudersi in sé per superare la malattia delle figlie. Di una forza, quella con cui uscire dai problemi quotidiani, trasformata in impegno sociale: la voce di Greta, con dati scientifici, narra l’impegno necessario per arginare l’avanzata del global warming ricordandoci che “ci troviamo di fronte a una catastrofe. Voglio che proviate la paura che provo io ogni giorno” dice. Lo ripete senza risparmiare nessuno, dai governi ai media, sino ai suoi stessi genitori: “Avete appena prodotto 2,7 tonnellate di anidride carbonica”, dice ammonendo il padre e la sorella Beata che sono andati in Italia in aereo. È un libro che parla di ghiacciai che si sciolgono, inquinamento che uccide, futuro rubato ai giovani, ma soprattutto di speranza. La stessa che inizia il 20 agosto, quando Greta fa il primo sciopero per il clima. Da lì a poco, i ragazzi di tutto il mondo la seguiranno per mostrarci qualcosa per troppo tempo rimasto invisibile ai nostri occhi: una Terra estremamente malata che ci sta chiedendo aiuto.

Buonisti e stronzisti. Greta Thunberg, bersaglio degli stronzisti, scrive il 4 aprile 2019 Mario Furlan su Il Giornale. Greta Thunberg è la sedicenne svedese che ha fatto scendere in piazza milioni di suoi coetanei nel mondo per sensibilizzare l’opinione pubblica, e i potenti, sui rischi connessi ai cambiamenti climatici. Un’eroina. Una ragazza straordinaria, che sta operando per il bene del pianeta. Eppure ci sono persone – forse anche qualche lettore di questo blog – che pensano male di lei. Su Internet circolano decine di bufale sul suo conto.

C’è chi dice che sia una massona, e una pedina degli ebrei Rotshild (non ho mai capito perché i massoni e gli ebrei, dai Protocolli dei Savi di Sion e da Hitler in poi, vengano accusati di tutti, o quasi, i crimini del mondo).

Chi dice che sia finanziata da un altro ebreo, e quindi per definizione perfido, cioè George Soros.

C’è chi assicura che sia un’aliena, e che il suo sguardo impallato, conseguenza della sindrome di Asperger, sia in realtà la prova che viene da un’altra galassia. Ho letto anche che sarebbe una rettiliana, cioè un rettile sotto sembianze umane.

C’è chi accusa i ragazzi delle manifestazioni ambientaliste di lasciare cartacce per terra (come se chi partecipa alle altre manifestazioni non lo facesse).

C’è chi diffonde sui social foto che mostrano Greta mentre beve da bottiglie di plastica (un’incoerenza imperdonabile, perbacco!)

E c’è chi accusa la giovane svedese di avere messo in moto tutto quanto solo per scrivere un libro. O per diventare premio Nobel per la pace.

Tutte queste ridicole accuse sono mosse da due categorie di persone. Una ha tutto l’interesse a denigrarla: sono gli inquinatori e i politici da loro foraggiati, come Donald Trump, che si ostinano a ripetere che i cambiamenti climatici non esistono. E’ logico che ce l’abbiano con Greta, e che chiamino sprezzantemente “gretini” quanti vorrebbero un mondo migliore.

L’altra categoria che odia Greta e i gretini è composta dagli stronzisti. Chi sono gli stronzisti? Sono quelli che chiamano buonista chi fa del bene. E’ capitato anche a me. Qualche settimana fa un tipo mi ha accusato di essere buonista perché aiuto i senzatetto. Lo fai per lavarti la coscienza, mi ha detto. E ha aggiunto: Avrai sicuramente il tuo bel ritorno economico! Chissà quanto guadagni, chissà che casa e che macchina hai! Il signore in questione, che vede il male dappertutto, è uno che lavora in nero e che ha chiesto il reddito di cittadinanza. Un truffatore, insomma. Che sospetto si senta un po’ una merda. E che quindi ha bisogno di gettare merda su quelli meglio di lui. Non è l’unico. E non tutti gli stronzisti sono dei truffatori, per carità. Ma li accomuna il sospetto, e a volte il disprezzo, verso chi fa del bene. Visto i tempi in cui siamo, mi aspetto che un giorno o l’altro qualcuno mi insulti se mi alzo sull’autobus per far sedere un’anziana: “Sporco buonista che non sei altro, lo fai solo per farti ringraziare e per fare bella figura davanti agli altri passeggeri!” C’è chi cerca di nascondere la sua cattiveria accusando gli altri di essere malvagi. Di avere secondi fini,  di avere chissà quale interesse recondito e inconfessabile. Questi stronzisti sono delle persone piccole piccole. E meschine meschine. Incapaci di lasciare una traccia positiva nella loro squallida esistenza, cercano di lasciarne una di fango. Infangando chi si eleva sopra di loro. Così, abbassando gli altri, si sentono meno abbietti e inutili. Ma, nonostante i loro sforzi per denigrare la reputazione altrui, restano quello che sono. Non solo degli stronzisti. Ma degli stronzi.

Ragazzi di vita. Pubblicato venerdì, 05 aprile 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. Ha cominciato Greta Lingualunga, versione profeta dell’Antico Testamento, predicando in solitudine l’apocalisse ambientale e attirandosi l’antipatia perpetua dei pensatori convinti che l’inquinamento abbia proprietà balsamiche e il surriscaldamento sia un’invenzione della lobby delle merendine biologiche. Dopo di lei sono arrivati Ramy, Adam e gli altri monellacci dello scuolabus multirazziale, implacabili come cavalieri della Tavola Rotonda nel disfare i piani di un autista squinternato che voleva farli saltare per aria. Da ieri dilaga il video di un quindicenne di Torre Maura che, invece di lasciarsi andare a reazioni infantili, tipo schiacciare il pane sotto le scarpe, ha tenuto una lezione di tolleranza da fare invidia a papa Francesco. Tanto più che questo ragazzino di periferia disastrata (anche per colpa dei politici che adesso vi speculano sopra) non si rivolgeva a una comoda platea di intellettuali del centro storico, talmente innamorati dei rom che appena ne incrociano uno si tastano il portafogli. Il suo discorso della montagna sulla necessità di non lasciare indietro nessuno, lo ha tenuto in faccia ai duri di Casapound, sorpresi e quasi affascinati da un simile ardire. Quand’ero un adolescente immaturo, se avevo un guasto interno da riparare mi rivolgevo a qualcuno più anziano di me. Ora che sono un adulto altrettanto immaturo, forse dovrei cominciare a rivolgermi a certi ragazzini, e non solo quando mi si impalla lo smartphone.

Che tempo che fa, l'elogio di Greta Thunberg: assist di Fabio Fazio, zampata di Jean-Claude Juncker, scrive l'1 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Poteva esimersi dallo schierarsi con Greta Thunberg, Jean-Claude Juncker? Ovviamente no. E quale miglior occasione per sposare le linee della nuova paladina ambientalista se non l'intervista a Che tempo che fa con Fabio Fazio su Rai 1? Semplice, nessuna. "I mutamenti climatici - premette l'euroburocrate - sono una grande ingiustizia, quindi che i giovani si mobilitino a favore della lotta contro i mutamenti climatici ha tutta la mia approvazione. Ho molta simpatia per questi movimenti", conclude Juncker. Fazio, ovviamente, annuisce. Insomma, anche il presidente della Commissione europea - si suppone - si schiera con chi vuole consegnare un improbabile Nobel per la pace alla piccola Thunberg.

Siamo grati a Greta Thunberg, ma occhio ai furbi. La giovane leader del movimento ambientalista ha smosso il mondo. Speriamo i soliti furbi non se ne approfittino, scrive Mario Giordano il 28 marzo 2019 su Panorama. Quando Carlo d’Inghilterra, qualche tempo fa, fu invitato a ricevere un importante premio ambientalista negli Stati Uniti ci andò con uno degli aerei più inquinanti del mondo. Il suo collega di corona Carlo Gustavo di Svezia, mentre assurgeva alla guida del Wwf locale, entrava anche in una società ritenuta responsabile del disboscamento dell’Amazzonia. Lord Peter Melchett, già direttore di Greenpeace Gran Bretagna, ha passato metà della sua vita a lottare contro i semi transgenici e l’altra metà a produrli (in pratica: prima ha incendiato i campi della Monsanto, poi ne è diventato consulente). E quando i giornali americani andarono a indagare su Al Gore, vicepresidente Usa convertitosi alla causa dell’ambientalismo radicale, scoprirono che nei suoi terreni c’era una fabbrica di zinco, cui il leader democratico aveva concesso, in cambio di un ricca royalties, di scaricare nei fiumi sostanze tossiche in grande quantità. Non so perché ma mi sono tornati in mente questi episodi quando ho sentito che Greta Thunberg, la 16enne svedese con le trecce bionde, diventata simbolo dello sciopero ambientale e della lotta per salvare il mondo dall’inquinamento, è stata candidata al Nobel per la pace. Per carità: la ragazzina sarà mossa dai più nobili ideali. Ma come si fa a pensare davvero che abbia creato questo movimento tutto da sola? Come si fa a credere alla favola della studentessa malata che si piazza davanti al Parlamento svedese e di lì, con la sua ostinazione, riesce a smuovere il pianeta? È ovvio, ed è stato scritto, che dietro di lei si muove una macchina complessa e ben organizzata, guidata da un grande esperto di marketing e pubblicità, che si chiama Ingmar Rentzhog, con l’appoggio dei due genitori, tutt’altro che digiuni di media e comunicazione. Infatti papà è un attore e la mamma una cantante lirica che vanta importanti esperienze anche nell’Eurovision. La narrazione corrente dice che «i genitori l’hanno lasciata fare», e che la popolarità di Greta è cresciuta come per magia, attraverso il passaparola e i buoni sentimenti dei suoi coetanei. Ed è una narrazione così convincente che sarebbe bello persino crederci, se non fosse che poi la delusione potrebbe essere insopportabile. L’impressione che Greta sia stata usata è fortissima. Pensateci: lei è l’icona perfetta, il volto pulito, la maschera di cui l’ambientalismo aveva bisogno, dopo i travagli degli ultimi tempi, per rifarsi una verginità. Anni di polemiche, di bufere, di delusioni politiche, di scandali e di sponsorizzazioni sospette, di sedi vuote e iscritti sempre più vecchi, tanto da trasformare il movimento verde in un movimento grigio-verde, chiedevano una riscossa immediata. Una riverniciata. Una storia capace di suscitare nuove emozioni. Una ripartenza. Ecco che è stata «costruita» la favola meravigliosa di Greta. Alle spalle della quale non si muovono soltanto solenni proclami e nobili ideali, ma anche interessi, soldi, business. E che cosa c’è di meglio, per coprire tutto, che il volto limpido e innocente di una sedicenne? Una sedicenne che si impegna per salvare il mondo fa tenerezza, conquista tutti, si fa perdonare qualsiasi cosa dica. Anche la più scema. Organizzare uno sciopero planetario per salvare il mondo, per dire, che senso ha? I ragazzi, per salvare il mondo, dovrebbero andare a scuola, studiare ancora di più, magari capire la differenza che passa tra l’anidride carbonica e un videogioco: far sega dalle lezioni, con il consenso più o meno esplicito dei presidi, che beneficio può dare alla lotta contro il riscaldamento globale? Però, ecco, non si può dire. L’idea nasce da Greta, dunque è necessariamente una bella idea. Ci siamo mobilitati tutti. Le marce, i concerti, i balli in piazza, i servizi dei telegiornali, la meglio gioventù che si cimenta con l’impegno ambientale, saremo tutti più buoni, saremo tutti più sani, evviva evviva le treccine bionde e le parrucche, ci trasvestiamo da ragazzina svedese, come non accadeva dai tempi di Pippi Calzelunghe. Ma che cosa si muove davvero dietro la facciata riverniciata di verde? Quanti testimonial abbiamo visto sfilare in tutti questi anni per distrarre l’opinione pubblica mentre alle loro spalle si stavano compiendo le peggiori nefandezze? Ecco perché mi sono rivenuti in mente quegli episodi del passato. Perché sarebbe troppo brutto dover scoprire un giorno che anche dietro la figura limpida di Greta si muovono quelli che parlano di mondo pulito solo perché hanno la coscienza sporca. Nel caso, alla faccia del surriscaldamento del pianeta, staremmo davvero freschi. 

La foto di Greta Thunberg che mangia cibo confezionato in plastica scatena gli haters. L'immagine è stata rilanciata su Twitter per attaccare la giovane icona ambientalista, scrive Francesco Tortora il 16 marzo 2019 su Il Corriere dell aSera. Grazie alla sua battaglia ecologista la 16enne Greta Thunberg è diventata un'icona mondiale e un punto di riferimento per i giovani che venerdì si sono mobilitati in tutto il mondo contro il riscaldamento climatico. Ma l'attivista di Stoccolma, recentemente eletta "donna dell'anno" in Svezia e proposta come candidata al premio Nobel per la Pace, non ha solo estimatori. Nelle ultime ore è ricomparsa su Twitter una vecchia foto della ragazza, postata dalla stessa Greta il 22 gennaio sul sito di microblogging che la ritrae mentre fa colazione su un treno con pancarré confezionato in plastica e altri prodotti industriali. 

Le critiche. A scatenare le critiche è la presenza nell'immagine del cibo in plastica che ha spinto molti haters a mettere in discussione "l'integrità ecologista" di Greta: «Ecco l'icona dell'ambientalismo che mangia cibo in plastica mentre migliaia di studenti tra cui i nostri figli manifestano in piazza. Negli ultimi decenni chi sfrutta il business dell'ecologia è riuscito a indottrinarli bene!». Sulla stessa lunghezza d'onda un altro hater che sbotta: «Come è simpatica il futuro premio Nobel Greta Thunberg, simbolo della lotta al riscaldamento globale che mangia pane, margarina industriale e insalata confezionata in una busta di plastica. Eccoli gli ecologisti bifronte!»

L’odio sul web. Alcuni odiatori multimediali sfoderano il peggio di se stessi e non solo puntano il dito contro «l’incoerenza» di Greta, ma accusano anche la 16enne di essere sovrappeso e la invitano a non abbuffarsi. C'è però chi difende la ragazza e rivela come già in passato l'immagine sia stata usata per attaccarla: «Troppo facile provare a danneggiare qualcuno che sta lottando per una causa giusta con tweet odiosi e senza speranza».

Dall'intervista a Greta Thunberg di Fareed Zakaria, pubblicata da ''la Repubblica'' il 18 marzo 2019. Non ti limiti a parlare: hai messo in atto quel che dici cambiando il tuo modo di vivere. «Ho smesso di usare l’aereo, ho smesso di mangiare carne e latticini e ho smesso di usare e comprare cose nuove. Dobbiamo comprendere l’emergenza della situazione, renderci conto che i nostri leader politici non sono riusciti a tutelarci, che dobbiamo far sentire la nostra voce, e dobbiamo far pressione su chi è al potere e dire loro che non permetteremo che tutto ciò prosegua. Dobbiamo arrabbiarci e trasformare quella rabbia in azione». 

Benedetta Perilli per ''la Repubblica'' il 18 marzo 2019. No, non a tutti piace Greta Thunberg, l'attivista svedese che a 16 anni è riuscita ad affermarsi come una delle voci più importanti nella lotta al cambiamento climatico. Lei, la sua storia personale di giovane affetta da sindrome di Asperger, il successo dei suoi venerdì di protesta verde - i #Fridaysforfuture - e la nomina social a candidata al Nobel per la Pace, stanno avendo grande riscontro nel mondo. Ma non solo. Oltre alla polemica tutta italiana nata dopo le frasi di Maria Giovanna Maglie, cresce sui social un piccolo caso legato a una foto della giovane risalente al 22 gennaio scorso, quando la ragazza svedese ha partecipato al World Economic Forum di Davos raggiungendo la località svizzera con un viaggio in treno di 32 ore. Nell'immagine - non una foto ritoccata ma una immagine pubblicata dalla stessa attivista  - si vede Greta all'interno di un vagone di un treno mentre mangia un panino. Sul tavolo due banane, due bottiglie in metallo, un sacchetto in plastica di pane. La foto riporta la didascalia "Pranzo in Danimarca". Quella confezione di plastica per alcuni è diventata la prova della corruzione dell'attivista, la sua integrità messa in discussione. Sotto lo scatto, che fa parlare a due mesi di distanza, sono centinaia i commenti e c'è anche chi critica la scelta di mangiare banane in inverno. "La tipica ambientalista nord europea - scrive un utente - mangia cibo fuori stagione come le banane, usa plastica. Questa foto descrive perfettamente il genere di persone che partecipa a questi movimenti. Sei solo un altro giocattolo di una grande e ipocrita macchina lava-cervelli". A questa e altre critiche l'attivista aveva risposto lo scorso 2 febbraio pubblicando su Facebook una lettera aperta agli hater. "Molti sostengono che ci sia qualcuno dietro di me o che sono stata pagata o che vengo utilizzata. Dietro di me non c'è nessun altro oltre me". E ancora: "A volte collaboro con delle associazioni ma sono assolutamente indipendente e rappresento solo me stessa. Tutto quello che faccio lo faccio gratuitamente".

Greta Thunberg nel mirino degli haters: «Buon segno, mi temono». L’attivista sedicenne svedese risponde alle accuse e spiega perché si è scattata quel selfie in treno di ritorno da Davos. E anche perché ha scritto un libro, scrive Sandro Orlando il 17 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. L’hanno accusata di incoerenza, hanno cercato di coglierla in fallo taroccando delle foto che si era fatta durante il viaggio per andare al forum di Davos. L’hanno definita una marionetta al servizio di operazioni di marketing, hanno voluto vedere in lei una ragazzina strumentalizzata da organizzazioni ambientaliste o dai più disparati interessi economici. E tutte le volte lei, Greta Thunberg, una sedicenne alta un metro e 53, che non ha un ufficio stampa - vale la pena ricordarlo - né ghostwriter, ma fa tutto da sola, ha replicato allo stesso modo: «È un buon segno che mi odino, perché vuol dire che mi percepiscono come una minaccia». Rispondendo poi puntualmente a ogni accusa. «Abbiamo fatto un viaggio di 32 ore in treno», ha precisato ad esempio dopo che, di ritorno da Davos, si è fatta un selfie col papà in cui s’intravvedeva un tramezzino scartato da una confezione di plastica: «Dovevamo mangiare qualcosa, e questi prodotti si vendono appunto imballati, non potevamo portarci tutto da casa». Dopodiché, immancabilmente, qualche imbecille ha diffuso in Rete foto contraffatte per screditarla. L’hanno accusata di fare gli interessi dei genitori, che lo scorso settembre hanno pubblicato in Svezia un libro (in uscita per Mondadori) in cui raccontano la storia della sua malattia, e la crisi familiare che li ha portati a prendere coscienza dell’emergenza climatica. E di nuovo le è toccato intervenire: «Il libro doveva uscire nel maggio 2018, non c’entra nulla con la mia scelta, poi l’editore è cambiato e la pubblicazione è slittata. E i diritti vanno in beneficenza». Hanno detto che era manovrata da un noto ambientalista svedese, Bo Thorén: «Ho scritto un articolo sul clima per lo Svenska Dagbladet . Lui l’ha letto e mi ha contattato, suggerendo a me e altri miei coetanei di fare uno sciopero come quello degli studenti americani di Parkland, dopo la strage nella loro scuola», ha precisato ancora Greta. «L’idea mi è piaciuta, ma io l’ho sviluppata in autonomia, e nessuno mi ha seguita. Così ho cominciato da sola». Il primo giorno del suo sit-in davanti al Parlamento svedese, il 20 agosto scorso, un giovane imprenditore attivo in campo ambientale, Ingmar Rentzhog, si è fermato a parlarle e si è fatto una foto con lei pubblicandola su Facebook. E apriti cielo, hanno sostenuto che era finanziata da lui. E Greta sempre lì a ribadire: « «Non faccio parte di nessuna organizzazione, non rappresento nessuno al di fuori di me stessa, e non ho mai preso del denaro per quello che faccio». La verità è che questa adolescente, che hanno provato anche a denigrare per una sindrome che lei definisce «un dono che mi fa vedere tutto in bianco e nero», dà fastidio, perché con la sua ostinazione mette a nudo il fallimento di oltre 20 anni di politiche sul clima. E gli adulti, non a caso, sono i primi ad avercela con lei.

Sandro Orlando per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2019. «È incredibile, è stato tutto così veloce. Siamo andati così lontano e solo in poco tempo, che ancora non riesco a credere che sia successo». Greta Thunberg sorride. Sono quasi le tre del pomeriggio, la grande manifestazione per il clima in Mynttorget, la piazza tra il Palazzo Reale e il Parlamento, è terminata: i ragazzini che non sono riusciti a farsi un selfie con lei piagnucolano con lo sguardo affranto, ma gli uomini e le donne del servizio d' ordine sono implacabili, e invitano a tornare venerdì prossimo, tanto lei ci sarà ancora. Ora un cordone di volontari impedisce a chiunque di avvicinarsi a Greta, proteggendola anche dai manifestanti che dall' altra parte delle transenne sgomitano per fotografarla, neanche fosse Justin Bieber. E in effetti è lei la star della giornata, questa ragazzina alta un metro e 53 con le trecce da Pippi Calzelunghe, vestita con gli stessi pantaloni da neve che aveva due mesi fa. Quando con temperature di 10 gradi sotto zero, un po' più in là sul Riksgatan, a manifestare per il clima c' era solo lei, con il papà sempre a vista d' occhio, e l' immancabile Janine O' Keene, l' attivista di origini australiane, che è la vera regista di questi #FridaysforFuture , e ha lanciato la mobilitazione mondiale del 15 marzo. Oggi nella Mynttorget sono in 15 mila, tutti giovanissimi, con striscioni e cartelli colorati, a ballare sotto una pioggia incessante mentre sul palco i Tjuvjakt scandiscono le loro canzoni rap contro il cambiamento climatico. Ogni tanto tocca a Greta, che circondata da un coro di coetanee, tiene i suoi sermoni come intonando un gospel: «Non siamo noi che abbiamo contribuito a creare questo stato di cose - grida - noi ci siamo nati dentro e dovremo passare la vita a subirlo: per questo manifestiamo e continueremo a farlo». E la folla di adolescenti va in delirio, contorcendosi per riuscire a fotografarla. Lei si ritira sotto un piccolo tendone. Seduta con il suo impermeabile giallo chiude gli occhi e fa come per dormire: «Sono esausta», mi dice verso mezzogiorno, durante uno di quei momenti in cui torna ad essere la ragazza invisibile di un tempo, in disparte e in silenzio: «È dalle 6 che sono in piedi». Papà Svante, sempre più fradicio con la sua acconciatura rasta, si accorge del cedimento e le fa mangiare una banana. Ma è una pausa subito interrotta dalla ressa di fan che spingono per farsi un selfie con lei: e ogni volta che il servizio d' ordine allenta i ranghi, Greta si presta divertita, guardando pure sui cellulari le foto su Instagram. Ma fa fatica a parlare, oggi non è giorno di interviste, si scusa il padre. Qualcuno le regala una rosa rossa, lei la mette nello zaino e fa per andarsene. In un ultimo tentativo Svante le sussurra qualcosa all' orecchio. E Greta acconsente a mettersi davanti alla videocamera: «Agli studenti italiani dico che ora sono diventati parte di un movimento globale e stanno facendo la storia: per questo devono continuare», esordisce energica. «Spero che il movimento diventi sempre più grande e che riesca a fermare la crisi climatica, per garantire la vita delle generazioni future». È stata una lunga giornata, la prossima manifestazione globale per il clima è prevista venerdì 24 maggio, il giorno delle Europee. E c' è da scommettere che i giovani in piazza saranno ancora di più.

DIETRO A GRETA UN ESPERTO DI COMUNICAZIONE. Da “il Giornale” il 16 marzo 2019. Giovane, giovanissima. Battagliera, di più, guerriera. Greta Thunberg, 16 anni, svedese, non è ancora maggiorenne ed è già stata proposta per il premio Nobel. Ma davvero è tutta farina del suo sacco la battaglia per il clima? Secondo il giornalista d' inchiesta svedese Andreas Henriksson dietro a Greta c' è un esperto di pubbliche relazioni, Ingmar Rentzhog, fondatore della start up We Don' t Have Time, che ha lo scopo di «creare una piattaforma sociale sulla più grande sfida dei nostri tempi: il clima». Ma per raggiungere l' obiettivo serve un simbolo, una bandiera e Greta, per età e caratteristiche, è perfetta. Rentzhog la incontra di fronte al Parlamento e pubblica un post strappalacrime sui social nel primo giorno di sciopero della ragazza. Da allora il suo sito decolla. E quattro giorni più tardi esce anche il libro dei genitori della ragazza, Scenes from the Heart, che racconta della coppia e della figlia. «Una campagna pubblicitaria perfetta» la definisce il settimanale Weltwoche. Anche per raccogliere fondi: a novembre Greta è stata nominata nel board di We Don' t Have Time e tre giorni dopo una campagna di crowdfunding ha raccolto 30 milioni di corone (circa 3 milioni di euro)

Greta verso il Nobel per la Pace? Scrive internationalwebpost.org il 15 marzo 2019. (Fonte AdnKronos) - La sedicenne svedese Greta Thunberg, promotrice delle marce dei giovani per la lotta al cambiamento climatico in tutta Europa, è stata indicata come candidata al premio Nobel per la Pace 2019. La proposta è arrivata da tre deputati del Partito della Sinistra Socialista norvegese. "Abbiamo proposto Greta Thunberg perché il cambiamento climatico, se non verrà fermato, sarà la causa principale di guerre, conflitti e flussi di rifugiati in futuro" ha detto Freddy Andre Oevstegaard. Greta "ha lanciato un movimento di massa in cui vedo, forse, il principale contributo alla pace".La giovane attivista (SCOPRI CHI E’) - che dalla scorsa estate ha iniziato una protesta di fronte al Parlamento svedese per chiedere misure più efficaci contro i cambiamenti climatici - è diventata una musa ispiratrice nella lotta contro il riscaldamento globale. In particolare, ha promosso uno ’sciopero globale’ degli studenti, in piazza in migliaia di diverse località di tutto il mondo per chiedere un’azione più forte e rapida per combattere il cambiamento climatico. "Sono onorata e molto grata per questa candidatura", ha scritto Greta su Twitter. Thunberg, che si è rivolta ai leader mondiali al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, e alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite tenutasi lo scorso anno a Katowice, in Polonia, in un post ha quindi ricordato l’appuntamento di venerdì: "1.657 luoghi in 105 Paesi. E aumentano. Domani scioperiamo da scuola per il nostro futuro e continueremo a farlo per il tutto tempo necessario. Gli adulti sono più che benvenuti a unirsi a noi. Insieme per la scienza" è l’appello lanciato attraverso il social. Le prime proteste sono state fissate fuori i municipi e i parlamenti nazionali nei Paesi che vanno dall’Australia a Vanuatu nel Pacifico meridionale. Sono inoltre programmate 209 proteste in Francia, 195 in Germania, 178 in Italia, 158 negli Stati Uniti, 123 in Svezia e 107 in Gran Bretagna.

Barbara Palombelli, lezione a Greta Thunberg: "Cosa facevo io a 15 anni". Il bagno di umiltà per la baby star, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. La conduttrice Barbara Palombelli ricorda i tempi in cui anche lei era una baby manifestante. Il riferimento è ovviamente alle manifestazioni dei ragazzini capitanati da Greta Thunberg. "Bella la manifestazione verde di venerdì, piena di ragazzini...", scrive la giornalista e conduttrice di Forum sul suo profilo Facebook, "però, per essere precisi, a 15 anni anche noi liceali organizzavamo manifestazioni, lavoravamo, raccoglievamo firme, distribuivamo volantini, scrivevamo appelli... senza internet. Solo ciclostile".

Giuliano Ferrara demolisce Greta Thunberg, la ragazza paladina del clima: "La detesto, l'aborro", scrive il 15 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Non vorrei essere accusato di pedofobia, ma io detesto la figura idolatrica di Greta, aborro le sue treccine e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno". E' severissimo il giudizio di Giuliano Ferrara, su Twitter, riguardo alla ragazzina di 16 anni Greta Thunberg, l'attivista svedese promotrice delle marce dei giovani per il clima in tutta Europa. La fanciulla è stata proposta per il premio Nobel per la pace da tre parlamentari norvegesi in segno di riconoscimento per il suo impegno contro la crisi climatica e il riscaldamento globale, riporta il settimanale Time. "Abbiamo nominato Greta perché la minaccia del clima potrebbe essere una delle cause più importanti di guerre e conflitti", ha detto il parlamentare Freddy Andre Oevstegaard.

Da www.repubblica.it il 16 marzo 2019. La scrittrice e opinionista Maria Giovanna Maglie, intervenuta nella trasmissione Un giorno da pecora di Radio 1, ha risposto così a chi le chiedeva cosa pensasse della giovanissima Greta Thunberg, la sedicenne svedese diventata il simbolo mondiale delle proteste ambientaliste studentesche, affetta dalla sindrome di Asperger. Caro Dago, eccomi pronta al periodico insulto organizzato dall'esercito del politically correct. Premetto che non me ne può fregare di meno, aggiungo che non mi scuso perché non c'è niente di cui scusarsi. "Un giorno da pecora" è una trasmissione molto simpatica, dove mi sono divertita e tornerò volentieri se mi vorranno invitare di nuovo dopo questo casino, molto piacevole, nella quale si scherza e si esagera. Durante quella di venerdì, per esempio, una scatenata Giorgia Meloni ha ricordato al conduttore che appena tornata al governo lo farà licenziare subito  per mettere al suo posto uno un po' più decente e meno comunista. Lui ha riso, non ha chiamato l'Armata Rossa. Io ho osato fare una battuta, che può far ridere o meno, non mi pare questo il punto, che poi è una frase che a Roma si dice sempre, "te metterei sotto co' la machina", specificando poi che lo farei anche con altri che mi stanno antipatici e mi basterebbe naturalmente un colpetto su un piede, nessun omicidio. Solo che ho osato toccare la ragazzina simbolo del politically correct. Una gigantesca macchina di propaganda della quale è il terminale sfruttato e strumentalizzato, e che viene raccontata bene in alcuni articoli evidentemente non letti o tenuti nascosti, che ha mandato ieri in Piazza milioni di bambini e ragazzi per i quali, guardare le interviste, il cambio di clima è conseguenza dello spread e simili amenità. Naturalmente la giornata dedicata al pericolo che incombe non poteva essere una domenica, meglio un bello sciopero di giorno feriale, meglio se il giorno prima del fine settimana. Repubblica.it ha pensato bene di rilanciare la mia battuta come il caso del giorno. Mi sono presa e mi sto prendendo la mia dose di insulti livorosi e sanguinosi, che partono da Craxi per arrivare a Salvini, vecchi e nuovi tiranni invisi al mondo; insulti che non brillano per argomentazioni, tutto una ciccia e merda, evidentemente si parla di ciò che si conosce, e minacce di morte, che evidentemente però a differenza della mia battuta sono legittimi e giustificati. Per fortuna ci sono anche molte persone sensate a popolare i social. Quanto a me, ringrazio i giornaloni per l'attenzione per la mia modesta persona. Non ho incarichi pubblici, non ho trasmissioni televisive, come mai quello che dico è considerato così grave e  pericoloso? Maria Giovanna Maglie

Da Il Messaggero del 15 marzo 2019.  "Quella "bimba" con le treccine che lotta per il cambio climatico, non so perché ma mi mette a disagio. Sembra un personaggio da film horror...". Con questo tweet Rita Pavone, diventata trend sul social, ha attaccato stamattina la “bimba con le treccine”, cioè Greta Thunberg, attivista svedese di 16 anni diventata simbolo della lotta ai cambiamenti climatici e per questa ragione candidata al Nobel per la Pace. La cantante si è poi scusata: "Ho fatto una gaffe enorme perché non sapevo che avesse la sindrome di Asperger, nessuno l'ha detto mai in televisione. Io mi ricordavo la ragazzina con le treccine di un film e ho detto che mi metteva a disagio. Non direi mai una cosa così e trovo cattivo e orrendo che la gente aspetti un qualsiasi errore che tu fai nella vita per azzannarti come se fossero lupi. Diceva Dio che colui che non ha mai sbagliato scagli la prima pietra. Sono una persona perbene, non sono una carogna". «E' gente malata - spiega in tono concitato - quella che mi attacca. Ho solo detto che mi ricordava un personaggio e ho messo la foto del film dove c'è questa ragazzina che le assomiglia. E' brutto che ci siano persone che non aspettano altro per attaccarti, solo perché la pensi diversamente da loro. Mi dispiace, chiedo scusa, non sapevo avesse un problema e non intendevo offendere. Cosa vogliono? Che mi impicchi o che mi che mi tagli le vene? Perché sono incappata in un gravissimo errore di cui chiedo venia. Non pensavo di creare questo scompiglio, se qualcuno ha detto una battuta in più non l'ho detta io. E' diventato un mondo di lupi". Infine la Pavone fa una precisazione sugli attacchi che sta subendo: "Non mi parlino di canottoni. Io ho un labbro inferiore per cui devo dire grazie - croce e delizia - a mia nonna. Con gli anni questo labbro, che era tanto carino quando ero ragazzina, si è rilasciato. Io non ho mai fatto un intervento estetico. Ci tengo che tutti lo sappiano: io invecchio di brutto da parte mia e ne vado fiera. Non ho mai fatto un intervento, anche perché altrimenti sarei una cretina se il risultato è quello che ho....". Il cinguettio della cantante aveva conquistato subito la rete diventando virale, e l’hashtag col suo nome, #RitaPavone, assieme a quello di Greta sono entrati nei top trend italiani di Twitter. La reazione è stata immediata e moltissimi sono stati i commenti scandalizzati dall’osservazione della Pavone: “Spesso negli occhi degli altri – ha commentato un utente - vediamo noi stessi. “A me – ha aggiunto un altro - mette a disagio il cyberbullismo di una persona anziana priva di argomenti e rosa dalla cattiveria. Deve essere molto triste, mi dispiace per lei”. La vita da attivista di Greta Thunberg è iniziata la scorsa estate con delle proteste davanti al parlamento svedese. La sua lotta l'ha poi portata a parlare al vertice sul clima delle Nazioni Unite in Polonia e al forum di Davos.

Gaffe di Rita Pavone: "Greta personaggio da horror". Poi arrivano le scuse. Il tweet di Rita Pavone è diventato subito virale: Greta Thunberg, simbolo della lotta ai cambiamenti climatici, a detta della cantante sembrerebbe un personaggio da film horror. Immediate le scuse: "Ignoravo che avesse una malattia", scrive Luca Sablone, Venerdì 15/03/2019, su Il Giornale. Prima o poi capiterà a tutti di fare una gaffe. Recentemente è toccato a Rita Pavone, che sul proprio profilo Twitter ha definito "personaggio da film horror" Greta Thunberg, simbolo della lotta ai cambiamenti climatici candidata al Nobel per la Pace. Il tweet della cantate è diventato subito virale, tanto che l'hashtag #RitaPavone è entrato nei top trend italiani.

Le scuse e l'attacco. La showgirl ha tenuto a rilasciare alcune dichiarazioni all'Ansa: "Ho fatto una gaffe enorme perché non sapevo che avesse la sindrome di Asperger, nessuno l'ha detto mai in televisione. Io mi ricordavo la ragazzina con le treccine di un film e ho detto che mi metteva a disagio". La Pavone non ha risparmiato critiche nei confronti di coloro che l'hanno attaccata: "Non direi mai una cosa così e trovo cattivo e orrendo che la gente aspetti un qualsiasi errore che tu fai nella vita per azzannarti come se fossero lupi. Diceva Dio che colui che non ha mai sbagliato scagli la prima pietra. Sono una persona perbene, non sono una carogna". L'attrice continua: "È brutto che ci siano persone che non aspettano altro per attaccarti, solo perché la pensi diversamente da loro. Mi dispiace, chiedo scusa, non sapevo avesse un problema e non intendevo offendere. Cosa vogliono? Che mi impicchi o che mi che mi tagli le vene? Perché sono incappata in un gravissimo errore di cui chiedo venia. Non pensavo di creare questo scompiglio, se qualcuno ha detto una battuta in più non l'ho detta io. È diventato un mondo di lupi".

Una tana di iene.

Rita Pavone: Quella " bimba " con le treccine che lotta per il cambio climatico, non so perché ma mi mette a disagio. Sembra un personaggio da film horror...23:41 - 13 mar 2019

Andrea Melis Parolaio #primatutti: Perché nessuno tra Tg, media e social dice mai che Greta è autistica. Sarebbe molto importante per dimostrare quanto siano non solo umani speciali, ma persone specialmente umane. A differenza tua. Vergognati.

Rita Pavone: Non sapevo affatto della sua malattia e me ne dolgo dal profondo del cuore. Chiedo venia. In compenso vedo intorno a me delle jene sotto forma di esseri umani al cui confronto le prime diventano agnelli.

Caramellissima: Ah vede iene, ma perché la frase che lei ha detto non era da iena? Prima di dare aria alla bocca e ritmo sulla tastiera alle dita dovreste pensare a quello che dite.

Rita Pavone: Dire " disagio " è da iena? Allora il suo s ritto è da serpe.

@Eja!:  Mi vergognerei se avessi scritto il Suo twit.

Rita Pavone: Ne sono venuta a conoscenza solo ora. NESSUNO HA MAI PARLATO della sua malattia né sui giornali né in TV. Ho chiesto scusa. Lei è mai incappata in un errore nel corso della sua vita?

Marilena Utzeri: Sindrome di Asperger o meno, il suo tweet è comunque imperdonabile. Una ragazzina di 15 anni, 15!!!!! Se non riesce a capire che è stato grave comunque, credo che le scuse siano inutili.

Rita Pavone: Dire che mi fa sentire a disagio è una frase imperdonabile? Ma per favore...

@Eja!: Pensavo, dopo aver letto di essersi scusata, che avesse capito l'errore... invece no! La pezza è peggio del buco.

Fabrizio Delprete: C'era una "adolescente" che "lottava" per la pappa al pomodoro e c'è una adolescente che lotta per salvare il Pianeta. E sinceramente non è la seconda, a mettermi a disagio.

Rita Pavone: Se erano gli applausi che cercavi, li hai avuti.... Ma io non ero a conoscenza della malattia. Nessuno ne ha MAI parlato. Tantomeno in TV. Chiedo scusa a lei e ai suoi cari dal profondo del cuore.

Silvia Fabbri: Bene le scuse, ma la questione non è se Greta sia affetta da sindrome di Asperger o meno, il problema è che questa ragazzina sta combattendo una battaglia che sarebbe spettato a noi adulti portare avanti. Andrebbe lodata, non derisa, tutto qui!

Alberto Bagnai: Lo è.

Marco Bollettino: Complimenti, davvero. Bullizzare su Twitter una sedicenne affetta da sindrome di Asperger non è da tutti. Si vergogni soprattutto lei @AlbertoBagnai, sia come professore universitario, sia come parlamentare che rappresenta la Nazione e quindi tutti gli Italiani.

Vittorio Banti: Avevamo previsto esattamente un tweet del genere circa 2 settimane fa. Bravo!

Alberto Bagnai: Sono veramente patetici. Nel loro mondo, come in una fiaba di Andersen, con una spruzzata di buoni sentimenti diventi principessa. A me sembra più sensato questo racconto.

Vix5: Io mi chiedevo se fosse a posto con tutte le vaccinazioni. Non vorrei che ne abbia saltata qualcuna e poi perde il premio nobel?

Claudio Luppi: Possiamo chiedere all'esperto di vaccinazioni @frankmatano. Lui dice di avere le idee molto chiare.

Luigi. Maddalena 1944: Dagli anziani ci si aspetta sempre qualcosa di saggio. Che delusione!

Nika: Gli anziani non dovrebbero avere accesso a strumenti come i social. Non fan parte della loro cultura, non ci si sanno muovere, rischiano di fare danni grossi.

Rita Pavone: Beh, può darsi, ma il suo profilo non rivela proprio una giovinetta...

Nika: Parlavo di anziani di testa, che per fare i giovani simpatici fanno battute da bulli senza riflettere sul male che possono fare. Ammetta di aver fatto una gran cavolata, cancelli il tw indegno per una persona adulta (e nota) e smetta di cercare giustificazioni. Un consiglio, eh.

Antonio3piras: Ecco vatti a leggere i commenti che le stanno scrivendo alla signora Pavone qui sopra i bulli da tastiera, e noterai che l'età non c'entra.

Nika: Vero. Intendevo che i social in mano a chi non li sa usare sono pericolosi. E secondo me in mano agli anziani lo sono anche per se stessi, perché rischiano inconsapevolmente di dare di sé un’immagine non corrispondente al vero. Gli altri bulli da tastiera sono inqualificabili.

Jammin: A proposito di personaggi da film horror...#RitaPavone grande @zaykamilka!!!

Rita Pavone: Soprattutto quando si usa una foto orrenda scattata all'uscita di un ospedale dove, ricoverata per settimane in terapia intensiva, ho subito un intervento chirurgico e due bypass al tronco comune dell'aorta.Una passeggiata che vi auguro di provare prima o poi.

Max Alvisi: Alluscita di un ospedale? Ma quelli dietro di te non sono bicchieri di vino? Che Ospedale era? Il San Happy Hour di Valpollicella?

Sonia Dell'Uomo: Evidentemente l'intelligenza di una ragazza brillante e attenta crea disagio.

Rita Pavone: Signora, per favore, non mi metta in bocca cose non dette. Di balle ne leggo fin troppe. Dateci in taglio. L' aspetto crea, almeno in me, disagio. E questo NON è un insulto.

Io Sono Fico: Questo permette la durata del governo. Il fatto che in Italia si giudica dall'aspetto e non dal contenuto ha fatto sì che il mio amico Luigi, con quella sua bella faccia pulita, sia diventato vicepremier!

Rita Pavone: Non ho deriso nessuno. Non conti balle perché di ballisti qui vedo che ce ne sono a iosa. Ho solo detto che il guardarla mi creava disagio. E dire "disagio" non significa "deridere". Un bel dizionario no?

Cesare Di Trocchio: Quella cantante con le lentiggini, che twitta cazzate per il sovranismo, non so perché ma mi mette a disagio. Sembra un personaggio di un film di merda.

Anna Lanzalotti: Dev'essere una gran brutta cosa guardarsi allo specchio e scoprire di essere vecchi.

Rita Pavone: No. Comunque lo sarai presto anche tu. E la cosa bella è che ti diranno le stesse cose che tu dici adesso a me.

Anna Lanzalotti: Invecchierò, certo. Spero meno astiosa e più aperta verso i giovani. A 16 non si è più bambini e #GretaThunberg sta combattendo anche per lei e i suoi nipoti.

LOREDANA CUCCHI: Mache razza di commento è? Ma come ha fatto a venirle in mente? Prima di scrivere pensare no?

Rita Pavone: Lo suggerirei anche a lei visto il suo di commento.

Luca: Quando una foto vale più di mille parole.

Rita Pavone: Soprattutto se presa dopo il rilascio dall' ospedale per un intervento di due bypass al tronco dell'aorta... Io posso essere caduta in un errore e me ne dolgo - non sapevo della sua malattia - ma la tua cattiveria invece ti appartiene tutta.

Luca: E allora, se sai di essere caduta in errore, quanto meno abbi la decenza di cancellare il tweet e scusarti. Che poi, anche se non fosse stata malata, deridere una bambina candidata al nobel che lotta per il futuro del pianeta denota tutta la TUA cattiveria, acidità e grettezza.

giuliaselvaggi: Spesso negli occhi degli altri vediamo noi stessi.

Ken Chosai: A me da piccolo terrorizzava molto di più una mostruosa ragazzina lentigginosa che in TV si vestiva da maschio per impersonare Gian Burrasca.

Rita Pavone: Allora adesso sappiamo che sei " vecchio " quanto me.

euirmabrandeis: Abbiamo visto le repliche, non si illuda. Non siamo decrepiti quanto lei.

Mimmo Caporali: Ha parlato Marilyn Monroe.

Rita Pavone: Io ho detto disagio. E disagio non vuol dire che sia bella o brutta. Imparate l'italiano. È una bella lingus

I'm going to see BTS: Beh, ha detto anche che sembra un personaggio da film horror...Questo un complimento non è e se conoscesse bene la lingua italiana, dovrebbe anche saper leggere tutto quello che c'è scritto da lei stessa, non solo quello che le conviene.

fmax: Hai di nuovo cannato l'orario per la pasticca?

Rita Pavone: No. Non ti confondere. Sei tu a dover prendere 30gocce di Xanas.

Schizzo: Ma tu ti sei vista?

Rita Pavone: Sì. E tu?

paoletta 7: ma si è vista lei allo specchio ??? VERGOGNA

Rita Pavone: Sì. E vedo una donna di 73 anni. Qualcosa che le auguro possa vedere anche a lei un giorno. La giovinezza non è una formula magica o un onore. L'abbiamo avuta tutti. Chi prima e chi dopo.

paoletta 7: Si controlli il cervello ! Non è questione di età!

daniela: Una ragazzina che non si selfa 24 ore su 24 che non si rincoglionisce sui video giochi e che ha un interesse( che dovrebbe tra laltro un interesse comune ) È lei ci vede il disagio ... bah

elby Roberti:  Si deve mettere in risalto in qualche modo no? Non la caga nessuno!

daniela: Una cosa intelligente dopo tante stravaccate sarebbe un risalto

Alex Orlowski: Pensa che davi una sensazione ben peggiore quando cantavi viva la pappa col pomodoro

Manuel: E la feldmarescialla dove la mettiamo?

Montanara Selvatica: La "bimba" come la definisci tu, ha parlato alla COP24 (cop non è il supermercato, te lo specifico che non si sa mai) davanti ai leader mondiali. Ha fatto più lei in 16 anni di vita che tu in 140. Ne hai 140 giusto?

Francesco: Ma ti sei mai vista allo specchio?

Rita Pavone: Io sì. Lei no. Visto che posta la schiena e mette in primo piano un palazzo.

Francesco: Vergognati. A 73 anni dovresti dimostrare un minimo di buonsenso invece attacchi una ragazzina che lotta contro il cambiamento climatico.

Rita Pavone: Io sono responsabile di quello che dico e non di quello che tu capisci!

Killer Queen:  La bimba? Ci vuole coraggio a dire certe cazzate.

Grazia Rossi: Quanto hai ragione, ci vuole proprio coraggio, non mi è mai piaciuto criticare una donna per il suo aspetto fisico ma quando si dicono certe frasi meglio sarebbe tacere. Il suo problema comunque è il cervello.

Killer Queen: Lì il cervello esce sconfitto.

Gerardo Spagnuolo: Senti chi parla di Horror.

Rita Pavone: Soprattutto se si usa la foto di una persona uscita dopo due mesi di ricovero da un ospedale per un intervento di due bypass al tronco comune dell'aorta.... Voi sì che siete delle brave persone...

Federico Scanzi.  Già è scandaloso che una di 74 anni prenda in giro una ragazzina di 16. Ma se poi quella di 16 anni è pure Asperger siamo al minimo umano.

corrado colombo: Trovarsi di fronte a qualcuno più intelligente di noi ci fa sempre sentire cretini, potrebbe essere questo il motivo?

Rita Pavone: Infatti. E le ne è la prova.

Andrea Lazzo: Premi Nobel che vincerà Greta: 1 Premi Nobel che vincerà Rita Pavone: 0

BecauseTheNight: A me mette a disagio il cyberbullismo di una persona anziana priva di argomenti e rosa dalla cattiveria. Deve essere molto triste, mi dispiace per lei.

LAlfabeta: Vergognati.

SeguiSegui: che ridicola, forse ti guardi allo specchio?

Emilio52: Gli specchi di casa #Pavone si son rotti tutti. O, in alternativa, li hanno coperti. Più patetica che orribile. E ho detto tutto.

Vincenzo Caldarola: Se si guardasse allo specchio metterebbe a dura prova i by pass aorto coronarici che le furono impiantati! Neanche l'incontro ravvicinato con la morte l'ha resa migliore!

Da Il Fatto Quotidiano del 16 marzo 2019. La storia è nota. Rita Pavone, dopo aver definito Greta Thunberg “un personaggio da film horror” e aver suscitato una giusta ondata di indignazione si è scusata dicendo: “Ho fatto una gaffe enorme perché non sapevo che avesse la sindrome di Asperger, nessuno l’ha detto mai in televisione. Io mi ricordavo la ragazzina con le treccine di un film e ho detto che mi metteva a disagio. Non direi mai una cosa così e trovo cattivo…”. Tutto questo è avvenuto su Twitter che, come sappiamo, lascia tracce difficili da cancellare. E così Heather Parisi fa notare che Lorella Cuccarini aveva messo un like proprio al primo tweet di Rita Pavone, quello in cui definiva Greta “da film horror”. “La diffidenza, il disprezzo nei confronti del diverso, la paura dell’estraneo e la tendenza a sentirsi meglio degli altri, sono sintomi inequivocabili di razzismo. A Greta Thunberg è stata diagnosticata sindrome Ausberger e OCD. Provo vergogna per Rita Pavone e chi ha messo like”, scrive la ex ballerina che vive a Hong Kong in un tweet.

MA COME FATE A CREDERE ANCHE A QUESTO? (Ecco perché…), scrive  Maurizio Blondet il 15 Marzo 2019. “182 appuntamenti in Italia, 300 mila in piazza”: per il “Clima”.  La radio pubblica sta   seguendo   le manifestazioni, esulta e fa domande sul “Clima”. Dicono che il “Clima” “scuote le coscienze di tutti”.  “E’ fantastico!”, cinguetta  la giornalista…Ora,  se non capite l’artificialità di queste iniziative,   l’evidente organizzazione internazionale, se non capite che vi state prestato ad un gioco losco  e falso da allegare i  denti, dovremo concludere che  siete pronti ad applaudire qualunque dittatura orwelliana che può farvi fare qualunque cosa pericolosa, folle e odiosa.  Non vi offende nemmeno l’infantilismo per il quale pensano di convincervi con argomenti da bambini?  Basta che ne parli la tv, ed ecco fra noi trecentomila neo-fanatici marciano per  appoggiare una “direttiva” fin troppo evidentemente dettata dall’alto, dai circoli maltusiano-globalisti e  della dittatura europea – circoli che hanno bisogno di  trasferire il malcontento per le austerità, le deflazioni, le disoccupazioni di massa che hanno creato,  verso uno scopo da loro voluto: imporre nuove austerità per “il Clima”, fino a farvi mangiare insetti perché danno ottime proteine e  in alternativa a quelle di vacche e pollame, che “inquinano”. Che gente siete? Sapete leggere? Sono settimane che si scrive che “Greta”   la ragazzina svedese, viene utilizzata per  “una campagna di pubbliche relazioni”    che deve preparare l’uscita di un nuovo libro della madre di Greta,   la cantante d’opera svedese  Malena Ernman    –   che ha strumentalizzato questa povera  figlia affetta da sindrome di Asperger – e che si conosce anche il nome dello stratega della campagna, il professionista di pubbliche relazione Ingmar Rentzhog. Ma voi,  che state fissi sul vostro telefonino,  twittando e facebookando su tutti i “social”, non imparare niente, niente leggete di  utile   – o non capite quello che leggete.  Siete quelli che credete al mainstream, aderite alle verità ufficiali su tutte le questioni, senza alcun senso critico: vi convincono di qualunque cosa – gender,  bontà di “Francesco”, diritti LGBT, eutanasia –  e diventate i difensori fanatici di qualunque progetto  aberrante, demente e folle,  dettato da gente che vuole, semplicemente, la vostra estinzione.  Siete  fissi sui tablet,   ma è come viveste in un mondo di 500 anni fa:  non capite il potere ipnotico e seduttivo  da cui dovete guardarvi, come   non conoscete  la forza di suggestione dei media.  Ve ne fate   saturare, inzuppare dentro  – senza difesa. E vi credete pure furbi, pronti alla critica, “liberi” e intelligenti.

In questi giorni – e non sembri che stia cambiando argomento – Bagnai, Borghi, Zibordi si rimbalzano un twitter di una persona – che dà pure il suo nome e cognome, il che gli fa  onore  non si nasconde dietro l’anonimato – che a proposito della Banca Centrale Europea, esprime questa sua conoscenza: “So leggere e leggo molto. La BCE non può battere conio e non possiede direttamente soldi. Quelli che ha sono versati dai soci e provvede a raccoglierli, distribuirli o prestarli”. Si resta senza parole. Trasecolati,.  Sgomenti. Questo signore vive nel 21mo secolo  (e nell’exergo   si definisce così: “Sono molto sicuro di me.  Se sei d’accordo con me non dirmelo, se non sei d’accordo dimmelo”)   e ha una idea mitologica  – addirittura cavernicola –   di come funzionano le banche centrali – dette anche  “banche di emissione”, e  “prestatori di ultima istanza”. Un’idea che poteva nutrire, che so,  un contadino del  diciottesimo seoclo, non un moderno cittadino di un paese tutto sommato, dell’Occidente evoluto. Ma purtroppo,  succede che questa   ignoranza  di come si crea  la moneta è enormemente diffusa. Anche a livelli di giornalisti economici. Se non  si spiegherebbe come Mario Draghi si sia sentito fare la  domanda: “La  BCE può restare senza soldi?  Può fallire?”. Guardate la faccia di Draghi mentre  risponde che no, “tecnicamente” non può fallire, che “abbiamo ampie risorse”:   l’astuto banchiere non fa’ alcun tentativo di chiarire la verità all’ingenuo imbecille, se la ride sotto i baffi. E questo è un video che risale al gennaio 2014, e continuamente viene rimbalzato da 5 quattro anni – ma    se lo scambiano coloro che già “sanno”. Quelli che non sanno, non sono interessati a vederlo. No, la  Banca centrale europea, non raccoglie denaro  dai soci. Lo  crea dal nulla  – nemmeno lo stampa, lo genera con un click di computer . E a vostra insaputa, ne  ha creato  un oceano:  “la Banca centrale europea nel marzo 2015 e terminato alla fine di dicembre 2018 ha creato dal nulla moneta per ben 2600 miliardi di euro”  –  traggo queste righe da Il Fatto Quotidiano, non  da un blogger alternativo:  ma voi continuate a non capire? E  guardate che lo dicono anche, i banchieri centrali. Qui Peter Praet, del comitato esecutivo della BCE: “In  quanto banca centrale,  possiamo creare  moneta  per comprare attivi”. Qui forse non capite: che cosa sono gli “attivi” che la BCE compra con moneta creata dal  nulla? Sono “attivi finanziari”, mica ricchezze fisiche e reali. Precisamente sono titoli di debito pubblico. Dunque li compra dallo Stato, la BCE? No! Questo è vietato, vietatissimo dalle norme europee  – perché lo  Stato. Se avesse questa moneta, lo sprecherebbe. Allora la BCE fa così: le banche private comprano i titoli di debito pubblico, BTP e simili, a  vagonate –e lo rivendono alla BCE, guadagnandoci una percentuale. Dopodiché, le banche di questi soldi di cui sono piene, non li offrono all’economia reale. Non ne fanno nulla, se non vari  tipi di speculazioni finanziarie e arbitraggi “carry trade”:  di fatto, l’oceano di denaro creato dal nulla  ha gonfiato i valori delle azioni – si chiama  bolla – e non l’economia. Allo Stato, niente, sicché non ha potuto investire in infrastrutture. Fra il 2007 e il 2018 gli investimenti infrastrutturali in Italia sono scesi di quasi 40% All’economia, niente. Le banche italiane hanno massacrato l’economia tagliando da 910 a 685 mld cioè del 25% il credito alle imprese. Ma non perchè vadano male. Le banche tedesche guadagnano un terzo rispetto a loro e hanno aumentato il credito alle imprese  (Zibordi). Se  siete disoccupati, se i vostri giovani non trovano lavoro, se lo Stato deve fare austerità, il motivo è questo. Non altro. La disoccupazione giovanile in Italia ha superato quella della Spagna. E tanti di voi italiani continuano a credere alla BCE che dispone di misteriosi nanetti per estrarre le banconote dalla sua miniera, come in questo disegno satirico di Giusi Rubino?  Per forza credete anche a Greta. Gli rendete il gioco facile, infantili.

MI HA SCRITTO HEATHER PARISI. PROVO A RISPONDERE. Scrive Maurizio Blondet  il 16 Marzo 2019. Ho ricevuto  – e ne sono lusingato – questa lettera da Heater Parisi. Garbata, ferma e ben espressa. Sotto, provo a rispondere: Egregio Direttore, Mi capita a volte di leggere i suoi post.  Anche se abbiamo idee diverse su moltissimi temi (omosessualità, aborto, fecondazione assistita, giusto per citarne alcuni), apprezzo il “suo” essere contro corrente e cerco sempre di cogliere qualche aspetto che l’informazione main stream omette di raccontare. Io non vivo più in Italia da parecchi anni (10 oramai) ma la porto sempre nel mio cuore per tutto quanto ha rappresentato nella mia vita e perché mi ha dato mio marito (italiano) che amo follemente. Quando ci ritorno per motivi di lavoro, la trovo sempre più incattivita e sempre più affetta da una sindrome di accerchiamento. Sin dagli inizi della mia carriera, non ho mai avuto paura di dire ciò che penso e spesso (ancor oggi) ne ho pagato le conseguenze.  A differenza di certi mie colleghi non lecco il potente di turno per avere un programma e non frequento l’intellighenzia per darmi un tono. Sono una lupa solitaria, un po’ hippy un po’ sognatrice, ma anche molto spietata. Veniamo al motivo della mia mail. Ho letto i commenti al suo post del 15 Marzo su Greta Thunberg. Non voglio discutere in questa occasione quanto da lei sostenuto nell’articolo; non ne sono scandalizzata, figuriamoci (io personalmente sono tra coloro che sono convinti che l’11 Settembre sia un inside job). Ma moltissimi dei commenti dei suoi lettori sono intrisi di un odio e un disprezzo per il diverso che, a prescindere dalla validità delle sue tesi, non possono che essere portatori di altro odio e altro disprezzo.

Io non ho il dono della fede come lei, ma mi riconosco in alcuni dei valori. Non pensa che, dato il seguito che Lei ha presso i suoi lettori, dovrebbe stemperare tanto astio? Con stima Heather Elizabeth Parisi

Grazie per le sue obiezioni.  Mi provo a darle qualche risposta:  Ha ragione, siamo più cattivi.  Ecco perché

 L’incattivimento che lei nota più  acre ogni volta che torna, anch’io lo noto  – io credo che abbia  a che fare con lo  sgangheramento  istituzionale –  voglio dire: non politico,  ma della macchina pubblica: un fisco predatorio, una giustizia   di cui non ci si può fidare, inefficienze e menefreghismo pubblici,  “ricchi di Stato” (qualunque pubblico dipendente guadagna il 20-30 per cento in più del corrispondente privato;  senza contare per esempio  certuni  in certe Regioni  che prendono più del presidente USA: è una “nomenklatura” nel senso sovietico) atteggiamento persecutorio  e menefreghista di certi pubblici apparati. A lei pare strano? Ma io, nel mio passato di inviato, ho visto questo incattivimento,  questa sgarberia,  questa rabbia  di fondo,  nei paesi comunisti; era l’ordine sovietico,  le sue inefficienze  le code per il cibo,   le giornate passate  a lottare con la burocrazia ostile per ottenere  cose semplicissime, la polizia che faceva paura invece che fiducia,  i giornali che mentivano dalla prima pagina all’ultima (ricorda qualcosa?), l’ideologia obbligatoria che tutti riconoscevano menzognera,  la  nomenklatura insieme spregevole, favorita in tutto  e non criticabile….

Greta a Davos (a dire quel che loro vogliono). Ora,   gli italiani hanno provato a votare “tutti”, tutto il ventaglio dell’offerta politica, ma la macchina è  ancora quella di prima, anzi sempre peggio.   E su questo  le normative di Maastricht, su cui tanto ingenuamente speravano gli italiani, che ci pesano addosso come un peso aggiuntivo di soprusi  e spietatezza;    le  imposizioni UE ci hanno dato 5 milioni di poveri in più.   La  disoccupazione alle stelle, che quando lei era attiva in Italia, non era la tragedia che è oggi.  Qualche  piccolissimo imprenditore, o  nemmeno piccolo,   si suicida ogni mese perché non può pagare i debiti , i dipendenti e i fornitori, in quanto  lui stesso non viene pagato  (è la deflazione).  Abbiamo  perso il 25% delle  nostre industrie.  Ho detto e ci credo, che  Europa  non  è uno stato  di diritto non c’è rule of law). Tutto questo incide profondamente sul carattere collettivo  : i  meno istruiti e politicizzati non sanno perché, ma gli viene voglia di spaccare tutto, di urlare insulti e parolacce (anche io lo faccio),  di esprimere una rabbia  e una frustrazione che non sanno contro cosa e chi sfogare – perché gli italiani sono passivi e senza coraggio, soprattutto   senza unità  non sanno essere, per esempio “Gilets Gialli” . E’ un popolo, ammetto, che ha un fondo di volgarità e grossolanità mai  corretto  (mancanza di classe dirigente, di “nobiltà” esemplari  da imitare).  Sono sicuro che una parte grossa  del successo  “popolare” di Salvini  – quel sovrappiù  –   gli derivi dalla sua ineleganza, dalle sue felpe e dal suo mangiare, dall’esprimersi in modo poco articolato, apodittico   –  tutte le “curve da stadio” lo sentono “loro” e lo adorano  proprio per questo. E lo dice uno che lo ha votato…

Greta è il loro Morozov…Ora, veniamo a Greta.  Scusi, ma questa ragazzina che va a Davos e parla ai potenti  della Terra, che viene esaltata dai media e proposta al premio Nobel perché ci obbligherà tutti a  subire altre privazioni per  “il Clima” e ridurre “il CO2”,  è veramente una finzione che non può non fare uscire  dai gangheri chiunque non sia parte del Sistema e dei suoi privilegi, e sta nella parte perdente, con la disoccupazione e la povertà di massa. C’è  un elemento cosi inverosimile di finzione e propaganda, una misura così  provocatoria e impudente di falsità  ufficiale  unita ad un  infantilismo offensivo per tutti noi disgraziati – da far urlare. Scusi un attimo: le sembra verosimile che Greta sia andata Davos ed abbia potuto parlare ai potenti della Terra? Possiamo forse, lei ed io, essere ricevuti a Davos?   Eppure  avremmo alcune cose sensate da far presenti, a cominciare dall’11 Settembre false flag  fino alla necessità di rimettere in  vigore il Glass Steagall Act.  Proviamo ad andare al Forum di Davos, e vediamo come ci tratta la polizia.  Invece ricevono Greta, e i media si estasiano,  gli scolari in tutta Europa spontaneamente vanno il piazza “per il Clima” (che non sanno nemmeno cosa voglia dire) . A  pensarci, questa finzione infantile ed offensiva per il buonsenso (significa che il Regime ci sta dicendo: Vi facciamo ingollare anche questa),  ha davvero un precedente sovietico. Agghiacciante.

“Pionieri” col fazzoletto rosso portano fiori alla statua dello scolaro Morozov. Era il 1932.   Carestia a Terrore. Il piccolo Pavlik Morozov, scolaro, fu (credo)  ricevuto da Stalin e premiato con la tessera n. 1 dei Pionieri ed esaltato  come eroe dell’Unione Sovietica perché aveva denunciato alla Ghepeù suo padre  per  aver venduto documenti da viaggio (attività antisovietica):  la delazione era  un atto eroicamente staliniano, da incoraggiare  ed imitare. Poi dissero che Pavlik era  stato ucciso da parenti. Nonno e nonna, uno zio e un cugino finiscono nel Gulag . Migliaia di scolaresche vengono  portate sui luoghi del suo “martirio”,  fu elevato un monumento, e spontaneamente  – insisto, spontaneamente –   le generazioni di scolari delle elementari sognavano di diventare come Morozov  eroi rossi,   sfilano col distintivo  con la faccia dello scolaro  Morozov  –  e i genitori  ammutoliscono di terrore e insieme di rabbia, dovendo temere ogni parola che sfugga loro in cucina, perché il regime ha reso i loro bambini,  i loro delatori.

(A quando un francobollo per Greta?). Ora,  fatte le debite proporzioni,  Greta l’eroina del Clima   appare troppo  il Pavlik Morozov portato  ad esempio dal Sistema per non fare gridare di rabbia, di senso di verità offesa, e dalla brutalità del potere che riesce a importi queste falsità, a fartele ingoiare,   e portare i figli – giovani Pionieri orwelliani  –   nelle piazze a chiedere “spontaneamente”  ciò che Davos vuole imporci. La differenza è che c’è ancora qualche spazio  – sul web – dove si può urlare la propria rabbia,   il  proprio senso di offesa per essere trattati come deficienti infantili. Ancora per poco,  poi anche quello spazio sarà chiuso – già sono pronte le “direttive”  europee  che  i nostri liberi governi ratificheranno  senza discutere, e  taceremo. Ma infine,  se legge  qualche volta i  miei pezzi, avrà visto che spesso sono costretto a cancellare i commenti  a chiuderli   perché è vero, uno certo numero di lettori è insopportabile e frustrante.  Adesso chiudo i commenti su Greta; li avevo lasciati aperti inavvertitamente perché in altre faccende affaccendato. Grazie  per la sua  lettera, sono onorato di avere una lettrice così  ragionevole e sensata anche nell’opposizione. Non tutti lo sono, ahimé. Ma tenga presente che dei miei circa 20 mila lettori, quelli che intervengono sono  una quindicina,  per giunta sempre gli stessi.  Possiamo pensare che quelli che tacciono  sono migliori, e essere pazienti su questa ventina, che evidentemente “ha bisogno” di questo tipo di sfogo.  Per qualche ora. In questo  caso, chiudo i commenti adesso. Non vorrei  che i  quindici  lettori rovinassero questo clima civile.

Greta, Mattarella e la bufala della crisi climatica, scrive Franco Battaglia il 14 marzo 2019 su nicolaporro.it. Secondo il Presidente della nostra Repubblica saremmo «sull’orlo di una crisi climatica». Mi verrebbe da dire che Sergio Mattarella sia sull’orlo d’una crisi di nervi. E mi viene spontaneo chiedermi da dove l’amato presidente s’è inventato l’allarme. Non certo dai propri studi scientifici, visto che di formazione è giurista. La voce più vicina nel tempo che gli ha scosso il sistema nervoso deve allora essere stata Greta, la quindicenne svedese in sciopero dalla scuola ogni venerdì «contro l’ingiustizia climatica» (sic!). Io conterò meno della quindicenne, almeno quanto a scuotere un qualche sentimento – e come competere con una bimba? – però rimane il fatto che anche costei non può avere avuto il tempo, almeno data l’età, per focalizzare un problema che non esiste. E provare che una cosa non esiste è molto più difficile che provarne l’esistenza. Provate voi a dimostrare che non esistono i cani a tre teste nel sottosuolo di Venere. Comunque sia, sulla quindicenne è stato costruito una campagna mediatica e pubblicitaria tale da violare ogni articolo del codice penale quanto a sfruttamento minorile. Greta è stata trascinata davanti al Parlamento svedese e nelle pubbliche piazze e indotta a fare affermazioni di una tale stupidità che quando sarà cresciuta e avrà modo di riascoltarsi se ne vergognerà fino a nutrire sentimenti indicibili nei confronti dei suoi sfruttatori, a cominciare dagli stessi genitori. Al momento la piccina è lo strumento della raccolta di circa 3 milioni d’euro, al grido dello slogan, ideato da professionisti nel marketing senza scrupoli, «non abbiamo più tempo» (per ritardare la lotta ai cambiamenti climatici). Ma si può essere più fessi? L’umanità dovrebbe dedicare i propri sforzi a impedire che il clima cambi: più facile dedicarli a svuotare gli oceani! Perché, caro Presidente Mattarella, non solo il clima è sempre cambiato, ma soprattutto noi non possiamo farci niente. Provo a tranquillizzarla. In uno stesso luogo la temperatura ha, nel corso di un anno, una variabilità anche di diverse decine di Celsius. Nello stesso momento la temperatura ha, nei vari punti del pianeta, una variabilità dell’ordine di 100 Celsius. Dall’anno Mille, quando si era all’apice del Periodo Caldo Medievale, quando la temperatura media globale era un paio di Celsius superiore a oggi, fino al 1650, al minimo della Piccola Era Glaciale, quando la temperatura era oltre un paio di Celsius inferiore a oggi, la temperatura variava di circa 5 Celsius. Oggi, stiamo appunto uscendo dalla Piccola Era Glaciale, e lo stiamo facendo da oltre tre secoli e non possiamo farci niente. Anzi, proprio questi ultimi 150 anni ci hanno offerto un clima straordinariamente stabile. Oltre ogni aspettativa: +0.8 gradi appena in ben 150 anni! E gli eventi climatici disastrosi? Sono diminuiti, Signor Presidente. L’America è stata colpita da 149 uragani (di cui 10 di forza 4) negli 80 anni compresi fra il 1850 e il 1930; e fu colpita da 135 uragani (di cui 8 di forza 4) negli 80 anni compresi fra il 1930 e il 2010 (dati della National Oceanic and Atmospheric Administrationamericana). Quindi, come vede, gli uragani sono diminuiti per intensità e numero. Ma le emissioni di CO2 sono aumentate senza sosta. Per fortuna. Perché vede, signor Presidente, noi dobbiamo ringraziare Dio di essere nati nell’era del petrolio e non in quella della pietra o in qualunque altra era successiva all’era della pietra: nella nostra era, almeno, la schiavitù è un tabù, differentemente a prima, quando la pratica non era, neanche moralmente, in discussione. Tranquillo, Signor Presidente: keep calm and be relaxed. Non mi vorrà scioperare pure lei! Franco Battaglia, 14 marzo 2019

Giampiero Mughini per Dagospia il 15 marzo 2019. Caro Dago, ieri sera alla puntata del “Popolo Sovrano” che andava in onda su RaiDue me la sono trovata innanzi una folta rappresentanza dei giovani italiani che stamattina sono in corteo contro “l’economia cinica ed egoista” come loro la chiamavano. Ragazzi generosi che accorrono entusiasti sulla scia delle proclamazioni della sedicenne svedese che qualcuno (ma non il mio amico Giuliano Ferrara, con il quale concordo) vorrebbe adornata del Premio Nobel per la Pace. E quei ragazzi, che agitavano un divertente cartello con su scritto “Ci siamo rotti i polmoni”, mi ricordavano il me stesso di quando avevo vent’anni ed ero un gran frequentatore di cortei di protesta, epperò con alcune e notevoli differenziazioni. Loro ce l’hanno con “l’economia cinica ed egoista”, in buona sostanza con la società industriale e alcune delle sue grevi conseguenze sul clima e sull’ambiente terracqueo, io vivevo in un universo barbarico al di qua della società industriale e delle sue premesse. Altro che “polmoni” lesi dalle esalazioni del metano e del carbone. La mia famiglia era talmente malridotta economicamente che per un lungo periodo non potevamo permetterci neppure un frigorifero, e dunque neppure le sue esalazioni di anidride carbonica. Mia madre metteva i cibi sul balcone a tenerli in freddo al possibile. La nostra casa, costruita all’alba dei Sessanta, non aveva alcun sistema di condizionamento del caldo e del freddo. In inverno disponevamo in tutto e per tutto di una stufetta elettrica che a turno smistavamo da una stanza all’altra. Nella mia stanzetta-studiolo io lavoravo con addosso il cappotto, e per fortuna che l’inverno catanese non era dei più agghiaccianti. D’estate andavamo a fare il bagno sulle rocce che davano sul mare, perché non avevamo i soldi di che pagare l’ingresso in uno stabilimento. Ho fatto la prima vacanza della mia vita 16 anni, in un alberghetto di terz’ordine sulla collina di Nicolosi, io, la mamma, la nonna e il cane Giotto. Appena ho potuto sono fuggito lontano dal mare e dai fichidindia siciliani per andarmene dove c’era un abbozzo di “economia cinica ed egoista”, dove si stavano costruendo case a caterve con relativi impianti di condizionamento dell’aria, dove c’erano aziende che producevano ed esalavano gas mefitici, dove la natura immacolata veniva talvolta violata, dove l’uso dell’auto individuale (e relativo inquinamento) per il trasporto in città era già notevolmente diffuso, dove c’erano le prime manifestazioni del turismo di massa proprio ad una società affluente. Quello che ancora la metà dell’umanità non vede l’ora di poter fare. Questa è la realtà, non le favole raccontate da una qualche e vispa sedicenne. Questa è la realtà dura e contraddittoria con la quale dobbiamo fare i conti, e al più presto. Pulire i mari, congedarci dal carbone e dal metano e tutto il resto, ma certo. Usando tutti gli strumenti prodigiosi che ci offre la società industriale. Altro che i cortei, quelli che io non posso più fare perché devo sgobbare per pagare le tasse e per pagarmi i pannelli fotovoltaici, che anche quelli non sono un dono del signore.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2019. Ce l'hanno tutti con Greta, la giovane ecologista scandinava nel cui nome, venerdì scorso, milioni di ragazzi hanno bigiato la scuola. Greta che pretende di farci mangiare a chilometro zero e poi compra le banane. Greta manipolata dalle lobby verdi. Greta fantoccio dei suoi genitori avidi di denaro. Greta che, ha detto qualcuno, se non fosse malata la prenderei sotto con la macchina. Greta che predica all' Occidente, fingendo di dimenticarsi che a inquinare il pianeta sono soprattutto gli indiani e i cinesi. Intendiamoci. Greta Thunberg non è il verbo. Personalmente non ne condivido la retorica di stampo populista, che assolve la gente comune per dare tutte le colpe del cambiamento climatico alle élite: in materia ambientale quel poco che si è fatto lo si deve a minoranze illuminate. Però dietro la levata di scudi contro la ragazzina svedese c' è qualcosa che va oltre il dibattito sull' ecologia. C'è la nuova egemonia culturale dei cattivisti, che provano un fastidio quasi fisico per qualunque manifestazione del bene. La considerano ipocrita e moralista. Per loro gli esseri umani sono un impasto di pulsioni basiche e pensieri molesti. L' idealismo non è contemplato. Chiunque osi abbracciare un sogno o evocare un sentimento è ingenuo o in malafede. Da lui si pretendono una coerenza assoluta e una vita da anacoreta, altrimenti va subito affogato in un mare di cinismo. Non so perché lo facciano, ma preferirei essere Greta che uno di loro.

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 marzo 2019. Caro Dago, altro che partizione secca tra “cattivisti” e “buonisti” come suggerisce dalla prima pagina del “Corriere della Sera” Massimo Gramellini. La condizione tragica della mia vita è che io sono un bonaccione che nutre disprezzo intellettuale per i buonisti, i quali sono innanzitutto dei buoni a nulla. Ti sto scrivendo mentre di fronte alle coste siciliane, più precisamente a Lampedusa, un barcone con dentro alcuni poveri disgraziati rimane in preda alle onde del mare perché così vuole il ministro dell’Interno Matteo Salvini, un “cattivista” che di certo non è un fascista né ha nulla a che vedere con il fascismo ma che i suoi voti li acchiappa in buona parte lucrando sull’angoscia di così tanti del “popolo italiano”. Se accogliere quei poveri disgraziati? E ci mancherebbe altro. E del resto il sindaco di Lampedusa è pronto a farlo. A lui e alla sua città andrebbe dato il Nobel per la Pace, per quello che hanno fatto e accolto e sopportato negli anni recenti, altro che alla svedesina Greta. E qui entriamo al cuore della faccenda. Io che sono un bonaccione, e pur non essendo minimamente sollecitato sul piano morale e intellettuale dai comportamenti e dai pronunciamenti della svedesina, mai e poi mai avrei usato un parola sgraziata nei suoi confronti. Sono un bonaccione, purtroppo. Lo so che in questo modo nuoccio a me stesso, sul piano massmediatico. Ben altro fulgore ne è venuto a quanti, in questi giorni, denominavano “gretini” i tanti che si commuovevano innanzi alle immagini e alle parole di Greta. Uno che recita a meraviglia il ruolo del “cattivo”, Vittorio Feltri, il loro principe. (Tra parentesi io penso che Vittorio sia un bravissimo ragazzo. Tale si è comportato in tanti anni e in più occasioni con me. Lui digrigna i denti perché al suo pubblico piace. Solo per questo.) “Gretini”, sì. I ragazzi che hanno partecipato ai grandi cortei mossi dall’allarme per le condizioni del pianeta, o almeno una buona parte di loro, lo erano senz’altro. Non sapevano di che cosa stavano parlando. Non veniva loro il sospetto di star vivendo in una delle società più confortevoli tra quelle mai esistite. Non sanno nulla di come funzionava la società pre-inquinamento, il freddo in casa d’inverno e il caldo d’estate, i bagni sul ballatoio, il non avere un’auto con cui andare a guardare il mare alla domenica. Solo che io sono un bonaccione, e in questi giorni ho parlato di loro con garbo, persino con simpatia. Mai e poi mai faccio “il cattivista”. Dove invece non ho il minimo di esitazione è nel provare disprezzo intellettuale verso quelli che lucrano sul “buonismo” e ci costruiscono sopra delle carriere. Proclamare a voce alta e impostata che l’onestà è tanto meglio della corruzione et similia, Dio che ovvietà. Dire 24 ore al giorno che razza di schifezza è la mafia e i mafiosi e i camorristi, Dio che noia. Dire 24 ore al giorno che dall’Africa ne dobbiamo prendere quanti più è possibile, e anche se il destino di quelli che prendiamo è di starsene stesi sotto una coperta innanzi alle murate della Stazione Centrale di Milano. Dire 24 ore al giorno che questa società non fa altro che inquinare e far morire di inquinamento chi ci vive e che è questione di pochi anni e di poche ore e che tutto andrà in malora, e questo anche se l’aspettativa di vita media dei cittadini occidentali è aumentato di dieci anni in meno di un secolo e di dieci centimetri è aumentata l’altezza media dei viventi. Combattere l’inquinamento, ma certo. Basta aggiungere quanto costa alle famiglie e alla società, ossia che è un lusso che solo le società industriali avanzate si possono permettere, quelle dove Greta fa una prima colazione coi fiocchi e controfiocchi. Figuriamoci se appena ho potuto non ho messo i pannelli fotovoltaici. Una gran bella spesa, che riesco a sopportare perché lavoro come un dannato pur a una età in cui meriterei la casa di riposo. Il comune di Roma ha imposto a noi che ci abitiamo di far “rivedere” le caldaie che muovono il riscaldamento ogni due anni? Ma certo, giustissimo. Epperò è una bella spesa, cui aggiungere l’Iva. Quanti se lo possono permettere? Non certo un pensionato che si avvale di 800 euro al mese. L’auto inquina? Io non ce l’ho e non l’ho mai avuta, epperò ho avuto la fortuna di andare a lavorare a 25 minuti di autobus da casa mia e dunque me lo potevo permettere di non avere l’auto. E invece quelli che hanno da percorrere dieci chilometri per andare da casa al posto di lavoro, come ci vanno, o miei cari “buonisti”, o miei cari adepti a gratis della visione della società come di un presepe dove ogni cosa funziona a meraviglia? Cialtroni e basta, altro non siete.

"Esco di casa per salvare il mondo". E la Boldrini saltella in piazza. L'ex presidente dalla Camera pubblica un video tra i ragazzi che manifestano contro i cambiamenti climatici, scrive Luca Romano, Sabato, 16/03/2019, su Il Giornale. "Sono con voi". Con queste poche parole Laura Boldrini lancia un video sui suoi canali social per mostrare quando successo ieri in piazza durante le manifestazioni contro il cambiamento climatico. Il filmato mostra l'ex presidente della Camera cantare e saltare insieme a un gruppo di ragazzi come fanno i tifosi in curva. "Che bello è, quando esco di casa per andare in piazza a salvare il mondo", urla la deputata di Leu in mezzo agli studenti scesi in strada per il "Fridays For Future". L'ex presidente non ha mancato pure di saltellare al fianco di una delle ragazze in prima fila. Il video è stato visto e condiviso sui social. Non sono mancate le critiche. "Mancava lei tra Gli Avengers", scrive Carmen su Twitter. "Che imbarazzo", aggiunge un altro. Tra i commenti a sostegno ("Bravissima e anche quando ti offendono ricordati che siamo con te"), c'è anche chi contesta, non nel caso del video ma in generale, la presunta poca consapevolezza degli studenti scesi in piazza. "Peccato che gran parte di loro non abbia neanche idea di cosa sia il buco dell’ozono o i cambiamenti climatici! Oggi tutti ecologisti, domani chissà", scrive Andrea. Ieri, peraltro, ha fatto molto discutere la video-intervista del Messaggero tra gli alunni in piazza in cui emergono alcune risposte "particolari" sul buco dell'ozono e i cambiamenti climatici.

Il buco dell’ozono ai minimi storici dal 1982 (adesso   è grande quanto l’Europa). Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Secondo gli scienziati però il crollo del 60% rispetto al 2018 è solo in parte una buona notizia: decremento dovuto alle alte temperature in Antartide. Il buco nell’ozono sopra il Polo Sud si è ridotto del 60% rispetto a un anno fa. Ma è solo parzialmente una buona notizia. Secondo i dati forniti dalla Nasa e dal Noaa (l’ente sull’atmosfera e gli oceani degli Stati Uniti) il buco dell’ozono, che si era aperto negli ultimi decenni del secolo scorso soprattutto a causa dell’utilizzo dei gas contenenti fluoro, bromo e cloro (Cfc, Hfc e alogenati) utilizzati nei frigoriferi, negli estintori e come propellenti nelle bombolette spray, messi al bando con il Protocollo di Montreal entrato in vigore nel 1989, la forte riduzione in un solo anno è dovuta essenzialmente al caldo anomalo negli strati superiori dell’atmosfera nelle regioni antartiche. Lo strato di ozono nella stratosfera ci protegge dai nocivi raggi ultravioletti di provenienza solare. Nel 2019 il buco nell’ozono ha raggiunto la superficie minima di 9,3 milioni di chilometri quadrati (meno dell’Europa, Russia compresa, che è di poco più di 10 milioni di chilometri quadrati), l’anno scorso era di 22,9 milioni di kmq. L’estensione raggiunta tra il 7 settembre e il 13 ottobre di quest’anno è la più bassa dal 1983, quando fu registrata a 7,9 milioni di kmq. L’estensione massima quest’anno è stata raggiunta l’8 settembre con 16,4 milioni di kmq, da allora si è ridotta progressivamente. Il buco si forma sopra il Polo Sud alla fine dell’inverno australe quando si innescano le reazioni che distruggono la molecola di ozono che è formata da tre atomi di ossigeno. «È un’ottima notizia per l’ozono nell’emisfero australe», ha dichiarato Paul Newman, del Goddard Space Flight Center della Nasa. «Ma bisogna riconoscere che è anche dovuto alle temperature di quest’anno nella stratosfera. Non è un segno che il buco dell’ozono è improvvisamente sulla buona strada per il recupero». Infatti a 19 chilometri sopra la superficie, fascia dove si concentra l’ozono, le temperature a settembre erano di 29 gradi più alte della media.

Flavio Zanonato e la nipotina di 11 anni ecologista: "La Greta italiana", l'ex sindaco Pd massacrato, scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Sta dividendo la rete il post di Flavio Zanonato, ex sindaco di Padova e ministro allo Sviluppo economico nel Governo Letta, che lo scorso venerdì 15 marzo ha pubblicato le foto di Anna, la nipotina di 11 anni che a Padova ha preso parte alla manifestazione ambientalista per il pianeta. Dalle foto vediamo l'undicenne sul palco di Prato della Valle in qualità di attivista che, con tanto di microfono, intrattiene la folla di giovani e non. Una Greta Thunberg all'italiana insomma. I più critici si sono chiesti se sia giusto esporre pubblicamente un minore e se dietro questa mossa non si celi una chiara ispirazione politica da parte del nonno europarlamentare.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2019. Ha ragione chi sostiene che l' ingenuità di Greta Thunberg non deve far velo alla sua protesta, che a 16 anni si ha anche il diritto di essere inesperti se le intenzioni sono nobili e preziose, che l' emergenza climatica è un tema che va preso sul serio. Prendere sul serio Greta significa anche evitare le facili ironie, le scemenze ottuse e vili, la poetica del «mondo salvato dai ragazzini», gli opportunismi pelosi. Approfittando delle manifestazioni internazionali per il «Global Strike for future», Mario Tozzi si è fatto ospitare in tutte le trasmissioni possibili per reclamizzare un suo programma «Sapiens, un solo pianeta» (Rai3, sabato, ore 21,45). Tozzi non si comporta da ricercatore scientifico (è «primo ricercatore presso l' Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche»), ma sembra piuttosto un agitatore (al Cnr godono di molto tempo libero, visto che Tozzi è sempre in video o alla radio?). Calca l' accento sull' emergenza climatica come fosse un ragazzino, non misura le parole come fa, per esempio, il prof. Franco Prodi, climatologo di fama internazionale ed ex direttore dell' Istituto di Scienze dell' Atmosfera e del Clima del Cnr (che esistano due Cnr?). Prodi si dice contento che le nuove generazioni si rendano conto della gravità del problema ma sostiene che «la conoscenza scientifica del sistema clima è ancora molto incompleta, e non è in condizione di consentirci di fare quelle previsioni che oggi ci vengono proposte come tali ma che in realtà sono solo degli scenari». Così ragiona uno scienziato. Se si potesse fare un Blob di tutti gli interventi che Tozzi ha fatto per lanciare il suo programma, difficilmente vi troveremmo la figura del ricercatore mosso dall' urgenza di contrastare il deterioramento ambientale. Vi troveremmo solo l' ideologo Mario Tozzi, l' Alfonso Pecoraro Scanio della tv.

 La sbandata socialista dei democratici per salvare il pianeta, scrive Glauco Maggi il 18 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. I Democratici stanno sbandando verso il socialismo come soluzione per il pianeta? Trump risponde con un appello terra-terra di incoraggiamento ai sindacalisti perchè lottino per ottenere la riapertura di uno stabilimento della General Motors in Ohio. La campagna presidenziale non è mai sospesa negli Stati Uniti, e anche se ora mancano 19 mesi al voto si vede già su che cosa punterà Trump: mantenere e rafforzare la coalizione di operai e classe medio-bassa che l’ha sostenuto negli Stati cruciali della fascia proletaria e contadina del MidWest - Ohio, Wisconsin, Massachusetts, Michigan, Indiana. I Democratici, dai socialisti dichiarati alla Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez agli altri più moderati ma timorosi a dirsi capitalisti, hanno il problema impossibile di recuperare terreno in quello strato di “deplorevoli” e di “dimenticati” dei colletti blu senza laurea. I DEM sono sempre piu’ paralizzati dalla correttezza politica e dalle relative “religioni” e tabù che dominano nelle metropoli liberal, nei media e nelle università: la diversità razziale ed etnica, il femminismo, l’omosessualità, l’omofobia, l’islamofobia, l’antisemitismo (odiare gli ebrei e Israele è un disprezzo ormai mainstream tra i Dem in Congresso, dopo che non hanno saputo condannare e punire la neo-deputata islamica che aveva fatto professione pubblica di antisemitismo). Non c’è spazio per altre battaglie. Così, a creare e a difendere i posti di lavoro ci ha pensato finora Trump, e i numeri gli stanno dando ragione. E così non molla. “General Motors e l’UAW (sindacati dei lavoratori dell’auto NDR) prevedono di iniziare i colloqui in settembre/ottobre”, ha twittato oggi Trump. “Perchè aspettare? Cominciate subito! Io voglio che i lavori rimangano negli USA e voglio che lo stabilimento di Lordstown (Ohio), durante una delle migliori economie nella nostra storia, stia aperto o sia venduto a una azienda che lo riapra al più presto! Le compagnie automobilistiche stanno tornando negli Stati Uniti. Così fa chiunque altro. Noi ora abbiamo la migliore Economia nel Mondo, l’invidia di tutti. Fate sì che quel grande, bello stabilimento in Ohio apra ora. Chiudete un impianto in Cina o in Messico, dove avete investito così tanto nell’era pre-Trump, ma non negli USA. Portate a casa i posti di lavoro!”. Lo scorso novembre la General Motors aveva annunciato un piano per tagliare 15mila posti e chiudere gli stabilimenti di Lordstown, di Detroit-Hamtramck in Michigan e di Oshawa in Canada. Il corrente contratto tra GM e UAW scade in settembre, ma Trump spinge per accelerare le trattative nella speranza che la Ceo di GM Mary Barra, alla quale Trump aveva direttamente espresso la sua ostilità alla decisione dell’azienda nei mesi scorsi, trovi una soluzione indolore per il futuro dei dipendenti minacciati di licenziamento. "La sorte finale degli stabilimenti sarà risolta dai colloqui tra GM e UAW”, ha detto l’azienda automobilistica al sito The Hill, e il presidente non ha fatto anche stavolta mistero di tifare ad alta voce per i lavoratori. Trump, nei sondaggi, continua ad avere una maggioranza assoluta di americani che lo giudicano negativamente. La media curata da RCP gli da’ oggi il 53,9% di contrari e il 42.6% di favorevoli. Quello che nessuno può dire, nemmeno tra i suoi critici più acuti, è che non sia sincero e inflessibile nel suo ruolo di miliardario che difende i più bisognosi e che è diventato il paladino dei lavoratori in tuta. I sindacati faranno fatica a dimenticarselo.

Matteo Salvini inchioda il manifestante: "Ma quale ambiente", lo schifo contro il poliziotto, scrive il 16 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Altro che manifestazione "per salvare l'ambiente". Quella che si è celebrata venerdì in tutto il mondo e, in Italia, a Milano, è stata una manifestazione contro Matteo Salvini. Moltissimi, infatti, i cori e gli insulti contro il ministro dell'Interno. Insomma, ogni occasione è buona. E sul caso torna il diretto interessato, Salvini, che posta su Twitter un video che ritrae alcuni manifestanti che, con arroganza e violenza, si mettono a sbraitare in faccia ai poliziotti. Roba che con l'ambiente, semplicemente, non c'entra nulla. Il vicepremier leghista commenta il video (pubblicato da Corriere.it) così: "Ma non era la manifestazione per salvare l’ambiente?”. Cori Odio la Lega, Bella Ciao cantata in faccia ai poliziotti, insulti e minacce al sottoscritto... A me sembrano sempre i soliti, sbaglio?". No, non sbaglia.

L’inno degli studenti per il clima? E’ Bella Ciao, scrive Davide Romano il 15 Marzo 2019 su Primato Nazionale. Gli studenti che oggi in tutto il mondo stanno scioperando contro i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale possono contare su una colonna sonora d’eccezione: Bella Ciao. E’ proprio la canzone cara ai partigiani nostrani infatti la base musicale di “Do it now. Sing for the climate”, inno che da quasi sette anni accompagna le manifestazioni ambientaliste che piacciono ai signori dell’alta finanza di Davos. L’iniziativa nacque in Belgio tra il 22 e il 23 settembre del 2012, con un grande flash mob che coinvolse più di 80 mila persone in più di 180 città. Tutti a cantare “Do it now” con lo scopo di “smuovere le coscienze” dei politici al fine di intraprendere misure più coraggiose in materia di cambiamenti climatici. Dal Belgio l’iniziativa ha preso piede ed è stata replicata in vari paesi. Chissà che oggi anche gli studenti italici impegnati nello sciopero promosso da Greta Thunberg non rilancino una versione italiana della canzone. Alla fine dovrebbero lavorare solo alla traduzione del testo, la musica dovrebbe risultargli piuttosto familiare. 

Clima, Greta e la sinistra fru fru. Cantano "Bella ciao" e perdono i valori. "Con Greta" la sinistra perde definitivamente i propri tratti e non ha più senso ragionare in senso politicamente bipolare, scrive Marco Giannini, Domenica, 17 marzo 2019, su Affari italiani. Finalmente milioni di persone in Italia, che dico io, in tutti gli angoli del mondo, guidati da Greta hanno manifestato, coerentemente cantando Bella Ciao, per più diritti sociali per i lavoratori e contro le morti bianche, per un reddito minimo garantito identico (relativamente) su scala mondiale che dia dignità ad ogni essere umano, per un salario orario garantito ragionevole per tutte le categorie unito alle contrattazioni collettive, per un’istruzione di livello che fornisca competenze e nutra le menti degli studenti per renderle libere (vedasi Vygotskij), per una scuola che non spinga i nostri figli a marinarla costantemente per poi abbandonarla, che fornisca loro gli strumenti affinché un giorno non vengano strumentalizzati per altri scopi da quelli dichiarati disperdendone le esistenze, per tutelarli da un mondo che successivamente si rivelerà meno banale e sempre più immorale, competitivo e spietato. No, mi sto confondendo… la manifestazione di ieri era per l’“ambiente”… così… cotto e mangiato! Credo che molto presto manifesteremo per la bontà, oppure forse contro la cattiveria, anzi, contro i cattivi; sì credo proprio che Greta molto presto ci guiderà contro i cattivi, finalmente. Non era veritiero quindi che le lobbies si celassero dietro queste manifestazioni per colpire l’economia reale USA (Trump) cercando di scalzarla mediante la (loro) finanza globale, quella che ha creato a tavolino la recessione mondiale e che necessita di reazioni stereotipate, prevedibili, di ottundere le menti e banalizzare le questioni. Non era realistico credere che lo slogan “dobbiamo fare in fretta” servisse per creare le condizioni che rendano accettabili nuovi sacrifici (già “in canna”) altrimenti considerati odiosi ed improponibili dalle popolazioni (come è ampiamente dimostrato da tutti gli studi sul comportamento umano il “dobbiamo fare in fretta”, al fine di evitare un imminente catastrofe, è l’unico concetto che sortisce puntualmente l’effetto, a prescindere che esso sia realmente coerente). Anzi! Ormai tutti noi ci aspettiamo che da un momento all’altro il FMI, il WTO, la World Bank, Blackrock, Open Society, la Bayer-Monsanto, la Apple, la Deutsche Bank, il WTO, la BCE ecc devolveranno gratuitamente verso ogni cittadino, americano, israeliano, italiano, russo, cinese, inglese ecc un bonus che copra interamente le spese per la coibentazione della propria abitazione visto che, se si vuole ridurre il riscaldamento globale, non è tanto sulla CO2 che si deve agire ma sul metano 25 volte più impattante. Strano ma questo mi ricorda l’agire sul PIL e non sul numeratore ma, boh, sicuramente è il mio cervello cultore della macroeconomia a fare associazioni “strambe” (…). (Aggiungo che Beppe Grillo ed il M5s avranno anche tanti difetti ma per anni e anni hanno parlato di coibentazione delle abitazioni come priorità, qualcosa che altrimenti non emergeva nemmeno tra 186 anni). Era quindi del tutto tendenzioso, visto anche il plauso a questa manifestazione di Mattarella, Merkel, Macron ecc, affermare che le Big Companies finanziarie avessero creato la crisi finanziaria del 2007 e in tal modo socializzato le perdite, distrutto vite e privatizzato i profitti speculativi.

Ancora oggi è sicuramente “cattivo” chi rivela che non sono tanto i cittadini comuni a produrre CO2 quanto i settori terziario/quaternario e industria, come lo è chi informa che dietro queste manifestazioni ci sono coloro che costantemente si arricchiscono col meccanismo Cap & Trade, cioè proprio con il business della CO2 a spese dei cittadini. Paradossale leggere che si debbano ridurre i consumi quando costoro impongono l’ideologia del crescere ad ogni costo e dell’emarginazione sociale, a meno che (oltre al lavaggio del cervello ideologico vero target della “missione”) ciò non serva per ridurre il margine di manovra di quelle regioni del mondo che in modo stoico stanno cercando ancora oggi di emergere dalla recessione nonostante la stramaledetta controproducente austerity (in cui ad esempio l’Italia è imbavagliata). A proposito di “crescita infinita” invito i lettori a questa riflessione: un domani che i robot rendessero disponibili beni a sufficienza per il mondo intero e qualora tutti gli esseri viventi (e penso anche agli splendidi africani regolari a cui insegno Matematica e Scienze…) disponessero di un Reddito Minimo come quello approvato dall’attuale Governo (vincolato ad accettare un lavoro), i consumi globali arriverebbero ad un livello approssimativamente standard ponendo fine alla finanza e ridando all’economia reale la corretta dimensione. A quel punto a cosa servirebbe crescere? A niente, se non alla selezione naturale tra esseri umani. A quel punto il “crescere” servirebbe a dividere la torta in modo insensato favorendo pochi rentiers ed omologando l’intera popolazione umana nell’ignoranza e nell’imbecillità. Tenere lontanissime le menti da queste considerazioni è necessario perché la teoria della “crescita infinita” prosperi anche quando non servirà più (sia chiaro che al momento all’Italia serve eccome crescere!). Rendere moda, marketing, mercato (banche) certe questioni, equivale a svalutare i significati ed a manipolare il senso (comune) al fine di abituare i cittadini ad agire per emozioni, per stereotipi cosicché chi la determina (la moda), cioè chi detiene la pressoché totalità dei media, possa omologare e rendere dipendenti (cioè privi di libertà) i cittadini.

Dietro questa manifestazione ingenua, giovane “comunque bella” (Cit Battisti) ci sono coloro che hanno impoverito l’Africa, sfruttato la tratta di esseri umani, privatizzato nel Continente Nero e non solo, perfino l’aria da respirare e finanziato degli sporchi traditori piazzandoli là al potere in cambio di risorse a costo 0. Sono coloro che hanno alimentato guerre e colpi di Stato, venduto armi per nutrire i traffici, generato carestie, per alcuni (non posso escluderlo) sono pure coloro che hanno creato perfino virus mortali in laboratorio (es. la Sars). Sono coloro che proteggono l’opulenza dei politicanti europei altrettanto traditori ma pure cocainomani (e moralisti) e sfruttato i cambi fissi per colpire operai e classi medie. Fa molto male rendersi conto che, salvo eccezioni, non sia lo stato di necessità a smuovere le masse bensì il marketing. L'ambiente è meraviglioso e da tutelare ma è un tema che va affrontato in modo empirico non emotivo iniziando dalle cause. Chi difende la natura (per me una priorità) deve avere quanto meno una cultura scientifica di base (cultura non significa specializzazione universitaria ma qualcosa di più di una informazione per sentito dire, frammentaria, improvvisata ed infantile). Concludo ricordando che le lobbies occidentali, soprattutto dopo l’omicidio Moro (…), inquinarono il PCI dei diritti sociali negli anni settanta trasformandolo nell’eurocomunismo “fru fru” (per usare una terminologia cara a Beppe Grillo) dei movimenti (femen, diritti civili, antiproibizionismo, terzomondismo, umanesimo laicista, ecc) inaugurando l’“eone” dei sacrifici a partire dal vincolo esterno dello SME fino ad oggi (ed i risultati si vedono). Da questo momento la sinistra, il socialismo, non significarono più lavoratori ma ben altro, tra cui la distruzione della società intesa come Stato sociale, della tradizione e dei “luoghi antropologici”, dell’identità patriottica in favore del globalismo d’accatto. Mi sembra che “con Greta” siamo su questo solco, distrae le energie (ma io spero le alimenti). La sinistra perde definitivamente i propri tratti ed a maggior ragione non ha più senso ragionare in senso politicamente bipolare (anche se con il voto regionale e con l’enfatizzazione della stampa sulle questioni migratorie e sulla autonomia sembra riaffiorare questa impostazione comoda al sistema). Ricordo che l’ignara Greta è affetta da Asperger e cioè è a rischio egocentrismo e fissazione: è funzionale al suo sviluppo, al suo bene questa esposizione? O è usata come una cavia, come carne da macello? Una forza davvero socialdemocratica (non certo le attuali sedicenti forze socialdemocratiche europee) mai si presterebbe a una cosa così disumanizzante mascherata da sano ambientalismo. A proposito di ambientalismo… la TAV! Ci dicono ridurrà le emissioni di CO2 nel lungo termine e mi chiedo: ma alle montagne (al Pianeta Terra) interessa essere perforate, o forse è più coerente, naturalisticamente parlando, lasciarle stare così come sono per non alterare equilibri imprevedibili?

Potrei rispondervi essendo la Materia che insegno ma vi lascio nel dubbio ma tranquilli… tanto per il resto basta “fare in fretta”.

 Greta Thunberg, Fusaro: “Usata come arma di distrazione di massa”.  Diego Fusaro sostiene che il successo della ragazza svedese simbolo della lotta contro i cambiamenti climatici sia stato “costruito a tavolino”, scrive Domenico Camodeca su it.blastingnews.com il 15/03/2019.  I mass media di tutto il mondo celebrano ovunque in questi giorni il nome di Greta Thunberg, la ragazza svedese di 16 anni, divenuta il simbolo della lotta delle nuove generazioni contro i cambiamenti climatici che rischiano di sconvolgere il pianeta. Tutti lodano e incensano senza freni la giovane che, con il suo impegno pubblico attraverso l’iniziativa dello sciopero Friday for future, fin dall’agosto 2018 prova a tenere accesi i riflettori dell’informazione sul tema dell’emergenza climatica. Ad uscire fuori dal coro dei peana per Greta è, come spesso gli accade, Diego Fusaro. Il filosofo di formazione marxiana, definito ‘sovranista’, è infatti convinto che l’enorme pubblicità di cui può godere Greta Thunberg sia solo il frutto di un piano studiato a tavolino dalle classi dominanti capitalistiche per renderla un’arma di distrazione di massa che contribuisca a mantenere inalterato il sistema economico di sfruttamento vigente. Diego Fusaro: “Se Greta avesse protestato contro il padronato cosmopolita non sarebbe incensata come un’eroina”. Ultimamente, se si accende la tv, si aprono i giornali o si consultano i social network, capita sempre più spesso di incrociare il nome di Greta Thunberg, la ragazzina svedese nota da qualche mese per il suo impegno civile contro l’inefficacia delle misure governative globali di contrasto al cambiamento climatico. Una iniziativa più che meritoria quella della giovane attivista scandinava che, però, non convince del tutto Diego Fusaro. Con una serie di post pubblicati sui suoi canali social e diversi articoli pubblicati sui siti che lo ospitano, il filosofo sovranista ha lanciato una vera e propria controffensiva mediatica contro Greta, o meglio, contro il falso simbolo che la si vorrebbe far diventare. “Le rivolte che piacciono al capitale: quelle che non toccano il nesso di forza economico - scrive Fusaro su Twitter a commento di una frase della Thunberg postata dal quotidiano “turbomondialista” Repubblica - se questa simpatica ragazza avesse protestato per i salari e contro il padronato cosmopolita, non sarebbe incensata come un’eroina. Anzi, come le giubbe gialle, sarebbe demonizzata”. In un successivo cinguettio, Diego Fusaro torna a bomba sulla questione. “Siete irredimibili - ammonisce il filosofo - se non avete capito che l’affare Greta Thunberg è costruito a tavolino dagli architetti del turbomondialismo e dai taumaturghi della società dello spettacolo, per distrarre le masse dalla contraddizione economica e dalla lotta di classe”. Insomma, Greta Thunberg usata come arma di distrazione di massa in difesa del sistema capitalistico. Fusaro, poi, si rivolge anche ai giovani che Greta dovrebbe rappresentare. “La nuova trovata della global class dominante - scrive sempre su Twitter - per distrarre la popolazione giovanile dal conflitto di classe e dal massacro che sta subendo, a colpi di precariato e sradicamento, di supersfruttamento e umiliazioni quotidiane. Dal conflitto di classe al vago problema del clima”. Per chi non avesse ancora afferrato il concetto, Fusaro ribadisce, stavolta su affaritaliani.it, che alla classe dominante non importa nulla del clima, che non si cura di distruggere in nome del profitto. Le interessa, invece, distrarre in ogni modo i dominati, di modo che non lottino mai contro la classe dominante e la contraddizione economica. È per questo che da giorni trovate la piccola Greta in tutte le prime pagine dei rotocalchi turbomondialisti”. 

Ecco chi c’è davvero dietro Greta Thunberg, scrive il 2 marzo 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Chi c’è davvero dietro Greta Thunberg, la 15enne attivista svedese che ha iniziato la scorsa estate a manifestare una volta la settimana davanti al parlamento di Stoccolma chiedendo un impegno maggiore del suo governo su clima e ambiente? L’adolescente affetta dalla sindrome di Asperger che lotta contro il cambiamento climatico è diventata un simbolo globale, citata di recente anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nelle scorse ore, come riporta l’Ansa, l’attivista era ad Amburgo, in Germania. “Scioperiamo perché noi abbiamo fatto i nostri compiti a casa e i politici no”: lo ha detto l’attivista al termine del corteo degli studenti organizzati da Fridays for Future. “Siamo arrabbiati perché le generazioni più vecchie ci stanno rubando il futuro e non lo accetteremo più” ha proseguito Greta. “Noi continueremo finché non faranno qualcosa, saremmo pazienti perché è il nostro futuro ma se non faranno niente, dovremo fare qualcosa noi, e lo faremo” ha continuato.

Chi c’è davvero dietro Greta Thunberg. Ogni venerdì mattina, Greta si reca di fronte al Riksdag, il parlamento svedese, e rimane lì, con un cartello in mano: Skolstrejk för klimatet, sciopero scolastico per il clima. All’inizio era da sola, supportata solo dai genitori, poi la sua protesta è diventata virale. Tanto che a dicembre ha partecipato alla Cop24, la ventiquattresima conferenza sul clima che si è tenuta a Katovice, in Polonia. Lì ha tenuto un discorso che ha fatto il giro del mondo. Di lei, il presidente Sergio Mattarella ha detto: “Greta, la giovane svedese sta sottoponendo le istituzioni europee a una forte sollecitazione sui temi ambientali. Il suo discorso – ha sottolineato il presidente della repubblica parlando a Viterbo – sia una spinta per le istituzioni”. La domanda è: come ha fatto Greta Thunberg a diventare un fenomeno globale di questa portata? Si tratta di un fenomeno così spontaneo? Secondo Andreas Henriksson, giornalista d’inchiesta svedese, c’è chi sull’immagine di questa ragazza adorabile ci ha marciato, eccome. Secondo la sua ricostruzione, lo sciopero scolastico altro non era che parte di una strategia pubblicitaria più ampia per lanciare il nuovo libro della madre di Greta, la celebre cantante Malena Ernman – che nel 2009 partecipò anche all’Eurovisione vanta diverse apparizioni televisive. E il grande stratega mente di questa campagna sarebbe Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità, che ha sfruttato a sua volta l’immagine della ragazza per lanciare la sua start up. 

La ricostruzione del giornalista svedese. “Ora posso dire che la persona che sta dietro al lancio del libro e lo sciopero scolastico, e la successiva campagna di pubbliche relazioni sul problema del clima, è il Pr professionista Ingmar Rentzhog” scrive il giornalista Andreas Henriksson sul suo profilo Facebook. La bella storia di Greta Thunberg inizia il 20 agosto 2018. Rentzhog, che è fondatore della start-up We Do not Have Time, incontra Greta di fronte al Parlamento svedese e pubblica un post commovente sulla sua pagina Facebook. Siamo al primo giorno dello sciopero iniziato da Greta. Curiosamente, quattro giorni più tardi, il 24 agosto, esce il libro dei genitori di Greta, Scenes from the Heart, che racconta i dettagli della vita privata della coppia e della figlia. Una banale coincidenza? Forse. 

I rapporti con la start up. Per capire chi è Ingmar Rentzhog occorre fare un altro passo indietro. Nel maggio 2018, è stato assunto come presidente e direttore del think tank  Global Utmaning, che promuove lo sviluppo sostenibile e si dichiara “politicamente indipendente”. Sarà, ma il suo fondatore è nientemeno che Kristina Persson, figlia del miliardario ed ex ministro socialdemocratico dello sviluppo strategico e della cooperazione tra il 2014 e il 2016. Attraverso l’analisi dei tweet del think tank, si deduce un forte impegno politico alla vigilia delle elezioni europee, a favore di un’alleanza che andrebbe dai socialdemocratici alla destra svedese. I nemici sono i “nazionalismi” che emergono ovunque in Europa e nel mondo. Ma torniamo alla start up.We Do not Have Time, infatti, è decollata pochi mesi fa proprio grazie a Greta. Il 24 novembre Rentzhog la nomina nel board. Solo tre giorni dopo, la start up lancia una campagna di crowfunding per 30 milioni di corone svedesi (circa 2,8 milioni di euro). Greta è nominata ovunque. Lo stesso Ingmar Rentzhog si vanta di “aver scoperto” la ragazza ma nega, in seguito di averne sfruttato l’immagine per raccogliere denaro, pur sostenendo di “aver avuto un ruolo centrale nella crescita della sua popolarità”. Il quotidiano svedese Svenska Dagbladet non ci sta e accusa la start up di aver sfruttato la ragazza e la sua battaglia per il clima per i propri tornaconti personali. Dal canto loro, i genitori sostengono che la battaglia di Greta è assolutamente genuina e sincera ma non smentiscono affatto i rapporti con Rentzhog e il suo entourage. A giudicare da questi fatti viene da pensare che (l’ammirevole) battaglia di Greta sia nata tutt’altro che per caso. Certo, lei non ha assolutamente nulla da rimproverarsi. Forse chi le sta accanto, un po’ sì. 

Sul blog Gli Occhi della Guerra il 2 marzo 2019 è apparso un articolo che s’intitola: Ecco chi c’è davvero dietro Greta Thunberg, scrive Michelangelo Coltelli su Butac. Greta, come credo sappiate, è quella ragazza di 16 anni che ogni venerdì fa lo Sciopero del clima davanti al Parlamento svedese. L’articolo de gli Occhi della Guerra come è facile intuire vuole screditare la ragazza e la sua battaglia sull’emergenza climatica. L’ho letto con interesse, e la prima cosa che mi ha incuriosito è questa: La bella storia di Greta Thunberg inizia il 20 agosto 2018. Rentzhog, che è fondatore della start-up We Do not Have Time, incontra Greta di fronte al Parlamento svedese e pubblica un post commovente sulla sua pagina Facebook. Siamo al primo giorno dello sciopero iniziato da Greta. Curiosamente, quattro giorni più tardi, il 24 agosto, esce il libro dei genitori di Greta, Scenes from the Heart, che racconta i dettagli della vita privata della coppia e della figlia. Una banale coincidenza? Forse. Oh cacchio, il giornalista ha ragione, una coincidenza decisamente strana, come mai avevano già pronto un libro coi dettagli della vita privata della famiglia? Nessuno conosceva Greta in quel momento, era un’adolescente come un’altra. Sono andato a cercare il libro, l’autrice è la mamma, con l’aiuto del marito, questa la copertina: L’avete notato che c’è la signora Malena in copertina? Della figlia Greta non c’è traccia, perché, come ho scoperto, il libro non ha quasi nulla a che fare con Greta, ma con l’altra figlia di Malena, Beata. Una bimba a cui sono stati diagnosticati disturbi nello spettro dell’autismo. Il libro viene lanciato con grande risonanza perché la star è Malena, che è una nota cantante lirica svedese. Greta in tutto questo non ha nulla a che fare (anche lei ha un disturbo lieve dello spettro, ma non è lei la protagonista del libro). Sfruttare l’episodio senza spiegare queste cose è manipolare i fatti. L’omissione in certi casi è uguale alla bugia. Il libro di Malena è stato scritto per sensibilizzare il pubblico sui giusti approcci da avere in una situazione come la sua, con consigli per gli altri che dovessero trovarsi su quel percorso. Quindi abbiamo una persona di una certa popolarità che attira su di sé l’attenzione per sensibilizzare su un problema. Non ci vuole molto a immaginare che anche la figlia Greta sia sensibile a questo genere di comunicazione. E che proprio una famiglia come la sua le abbia permesso di avere modo e spazio per portare avanti la sua protesta. L’articolo de Gli Occhi della Guerra prosegue spostando l’attenzione sui leader del movimento We Do not Have Time che oggi ha Greta nel proprio consiglio direttivo. L’accusa è che dietro al gruppo ci sia Kristina Persson, legata ai socialdemocratici e attiva politicamente per contrastare le derive nazionalistiche che emergono in Europa. Non metto in dubbio che We Do Not Have Time abbia supporti politici, è normale cercarli. Specie per battaglie ambientaliste che senza l’intervento dei politici rimarrebbero solo parole lanciate nel vuoto. Il succo dell’articolo su il blog de il Giornale è che siccome alle spalle di Greta ci sono attivisti politici che vanno contro le politiche della testata la battaglia di Greta è da screditare. Non credo di potermi ritrovare con quella conclusione. La battaglia di Greta è ammirevole, denigrarla solo perché vicina a fazioni avverse è superficiale. Specie visto che il riscaldamento globale non è qualcosa in dubbio. Non credo sia necessario aggiungere altro.

Tutti i dubbi su Greta Thunberg: chi l’ha resa celebre e perché, scrive il 2 marzo 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Greta Thunberg è la vera “rockstar” del momento. Prime pagine di tutti i più importanti giornali del mondo, approfondimenti di ogni tipo, interviste: tutti ne parlano. La consacrazione definitiva è arrivata in queste ore, come riporta l’Ansa: l’attivista 16enne svedese promotrice delle marce dei giovani per il clima in tutta Europa è stata proposta per il premio Nobel per la pace da tre parlamentari norvegesi “in segno di riconoscimento per il suo impegno contro la crisi climatica e il riscaldamento globale”. “Abbiamo nominato Greta perché la minaccia del clima potrebbe essere una delle cause più importanti di guerre e conflitti”, ha sottolineato il parlamentare Freddy Andre Oevstegaard. In un’intervista a Repubblica, Greta Thunberg ha osservato che “siamo nel pieno di una crisi. Ed è la più urgente e grave che il genere umano abbia mai dovuto affrontare. Stiamo segando il ramo su cui siamo seduti e la maggior parte della popolazione mondiale non ha idea delle possibili conseguenze della nostra incapacità di agire”. E oggi, venerdì 15 marzo, anche in Italia è il grande giorno del Climate Strike: studenti di tute le età si uniranno allo sciopero proclamato nel mondo dai giovanissimi attivisti che, sulla scia dell’iniziativa di Greta, stanno manifestando per chiedere ai governi interventi urgenti sui cambiamenti climatici. Ma chi è davvero la giovane attivista svedese e come ha fatto a diventare così famosa? 

Chi c’è dietro Greta Thunberg. Sia chiaro: Greta è sicuramente una ragazza adorabile e la sua battaglia offre degli spunti di riflessione certamente importanti – al di là da come la si veda sul tema del riscaldamento globale. Il punto è un altro: si tratta davvero di un fenomeno così spontaneo e nato dal nulla oppure di un’abilissima strategia di marketing? Come vi abbiamo raccontato su questo giornale, tutto è nato è la scorsa estate. Da agosto 2018, ogni venerdì mattina, Greta si reca di fronte al Riksdag, il parlamento svedese, e rimane lì, con un cartello in mano: Skolstrejk för klimatet, sciopero scolastico per il clima. All’inizio era da sola, supportata solo dai genitori, poi la sua protesta è diventata virale. Tanto che a dicembre ha partecipato alla Cop24, la ventiquattresima conferenza sul clima che si è tenuta a Katovice, in Polonia. Lì ha tenuto un discorso che ha fatto il giro del mondo. Come è accaduto? A svelare il segreto del successo di Greta è stato Andreas Henriksson, noto giornalista d’inchiesta svedese. Secondo la sua ricostruzione, lo sciopero scolastico altro non era che parte di una strategia pubblicitaria più ampia per lanciare il nuovo libro della madre di Greta, la celebre cantante Malena Ernman – che nel 2009 partecipò anche all’Eurovision e vanta diverse apparizioni televisive. E il grande stratega mente di questa campagna sarebbe Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità, che ha sfruttato a sua volta l’immagine della ragazza per lanciare la sua start up. 

La vera storia dell’attivista. “Ora posso dire che la persona che sta dietro al lancio del libro e lo sciopero scolastico, nonché la successiva campagna di pubbliche relazioni sul problema del clima, è il Pr professionista Ingmar Rentzhog” scrive il giornalista Andreas Henriksson sul suo profilo Facebook. La storia di Greta Thunberg inizia il 20 agosto 2018. Rentzhog, che è fondatore della start-up We Do not Have Time, incontra Greta di fronte al Parlamento svedese e pubblica un post commovente sulla sua pagina Facebook e Instagram. Siamo al primo giorno dello sciopero iniziato da Greta. Curiosamente, quattro giorni più tardi, il 24 agosto, esce il libro dei genitori di Greta, Scenes from the Heart, che racconta i dettagli della vita privata della coppia e della figlia. Una banale coincidenza? Forse. Da lì a poco We Do not Have Time guarda caso decolla, proprio grazie alla spinta mediatica di Greta. Il 24 novembre Rentzhog la nomina nel board. Solo tre giorni dopo, la start up lancia una campagna di crowdfunding per 30 milioni di corone svedesi (circa 2,8 milioni di euro). Greta è nominata ovunque. Lo stesso Ingmar Rentzhog si vanta di “aver scoperto” la ragazza ma nega, in seguito, di averne sfruttato l’immagine per raccogliere denaro, pur sostenendo di “aver avuto un ruolo centrale nella crescita della sua popolarità”. Il quotidiano svedese Svenska Dagbladet lo incalza e accusa la start up di aver sfruttato la ragazza affetta dalla sindrome di Asperger e la sua battaglia per il clima per mero tornaconto personale. Dal canto loro, i genitori sostengono che la battaglia di Greta è assolutamente genuina e sincera ma non smentiscono affatto i rapporti con Rentzhog e il suo entourage.

I dubbi del Weltwoche. “Una campagna pubblicitaria perfetta”. Così la definisce il quotidiano conservatore Weltwoche, che indaga sulle origini del fenomeno Greta. Anche Weltwoche si concentra sulla figura controversa di Rentzhog: “Il pubblico mondiale celebra Greta come esperta di salvaguardia del clima” scrive il quotidiano della destra svedese. “La ricerca da parte dei media più critici ha dimostrato, tuttavia, che il suo successo è dovuto in gran parte all’esperto svedese Ingmar Rentzhog, che ha buoni contatti con diverse organizzazioni. Quattro giorni dopo che Greta aveva iniziato il suo sciopero sul clima, è stato presentato il libro della madre”. Lo stesso giorno, prosegue, “Rentzhog ha pubblicato una foto di Greta su Instagram e ha scritto un lungo articolo su Facebook. Ciò ha innescato una reazione a catena in molti giornali e altri media”. Alla fine di dicembre, scrive il giornale, “la rivista Samhällsnytt ha rivelato che Greta aveva pronunciato il suo famoso discorso alla conferenza di Katowice davanti a sedie vuote, mentre la televisione di stato svedese si comportava come se avesse parlato davanti a un pubblico entusiasta”.

“Reclutata da Bo Thorèn”. Sempre secondo Weltwoche, la madre di Greta, Malena Ernman, avrebbe confermato che l’attivista ambientalista Bo Thorén aveva reclutato sua figlia. Thorén è membro del consiglio di amministrazione di Fossilfritt Dalsland ed è un rinomato rappresentante del movimento ambientalista internazionale Extinction Rebellion. Insomma, dietro a Greta Thunberg c’è un libro di una famosa cantante (la madre), una start up in cerca di visibilità, un abile comunicatore ed esperto di pubblicità, diverse organizzazioni che bramano di diffondere il loro messaggio. Poi viene l’ambiente, il Climate Strike e le mobilitazioni globali. Nulla, però, accade per caso. E se non vi è dubbio di dubitare che ciò che racconta Greta al mondo sia sincero, chi le sta attorno ha abilmente beneficiato di un ritorno mediatico che era voluto e studiato a tavolino. 

Greta Thunberg e i grandi affari dietro gli scioperi sul clima, scrive il 16 Marzo Mauro Bottarelli su ilsussidiario.net. Oggi esordisce in grande stile l’ultima pagliacciata politically correct che il sistema si è inventato per rendere non solo accettabile ma anche socialmente apprezzato il proseguire di default nella politica di spesa pubblica indiscriminata e deficit come unica religione laica: la lotta ai cambiamenti climatici. Vi ho già parlato di questa nuova campagna globale, quando ho messo tutti in guardia dalla profilo da rock-star che la stampa globale sta riservando ad Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata democratica, figli di portoricani e cresciuta nel Bronx facendo la cameriera per pagarsi gli studi (sembra un film di Netflix, d’altronde le lobbies i candidati li cercano per bene, fanno i provini e si affidano a esperti di comunicazione e marketing), che ha lanciato il suo Green New Deal, ovvero un colossale piano di indebitamento a fondo perso spacciato per riconversione del sistema in nome della sostenibilità ecologica che, nei fatti, rappresenta la versione non direttamente monetaria del piano di espansione della Fed. Insomma, il Qe con altri mezzi. E, soprattutto, con l’alibi di salvare orsi polari, balene e bambini vittime dell’enfisema da smog. Come avrete notato, negli ultimi giorni siamo in piena esplosione del fenomeno. E oggi è il giorno del primo sciopero globale per la lotta contro i cambiamenti climatici, il D-day della nuova arma di distrazione di massa. Non più tardi di mercoledì è stata l’Onu a lanciare l’allarme: l’inquinamento provoca un quarto dei morti nel mondo. Peccato che altri due quarti siano frutto di guerre che l’Onu finge di non vedere, tipo quella in Yemen. Poco importa, il commercio di armamento val bene un po’ di ipocrisia. Tipo, casualmente, mettere i sauditi – i quali donne, bambini vecchi yemeniti li massacrano quotidianamente – a capo del Comitato Onu per i diritti umani. Il giorno precedente, ricordando la tragedia del Vajont, è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a metterci in guardia: siamo alle soglie di una catastrofe climatica. Ma il Presidente – con tutto il rispetto dovuto – lo fa per obbligo formale di moral suasion, visto che è politico di esperienza e grande equilibrio, finissimo studioso di diritto, ma, appunto, uomo dalle competenze accademiche giuridiche. Non un fisico, né un climatologo. E poi, ecco saltare fuori l’anello di congiunzione di due paure: avanti di questo passo, i cambiamenti del pianeta potrebbero portarci entro il 2050 ad avere 50 milioni di migranti climatici. Quindi, se si vuole fermare l’immigrazione clandestina, oltre ad “aiutarli a casa loro”, occorre intervenire su desertificazione e alluvioni, carestie ed epidemie. A fare da collante a tutti questi allarmi in ordine sparso, Greta Thunberg, la 16enne svedese che con i suoi scioperi del venerdì in nome della lotta ai cambiamenti climatici sta diventando la vera e proprio guru globale della battaglia del secolo. Ieri, poi, la certificazione della pagliacciata, ma anche del carattere di colossale mistificazione della campagna in atto: la sua proposta di candidatura al Nobel per la Pace. Il quadro è completo. E via, quindi, in grande stile al #fridaysforfuture anche in Italia, ovvero il giorno della settimana dedicato all’impegno ecologista. Non bastavano gli scioperi strategici dei mezzi pubblici, di fatto weekend lunghi assicurati a fronte di tavoli di trattativa aperti da secoli per rivendicazioni fotocopia, adesso c’è una nuova scusa per allungare il fine settimana e, finita la manifestazione in piazza, caricare l’automobile (la quale, ontologicamente, non inquina) e andarsene al mare o in montagna o a fare shopping al centro commerciale. Ora, io sono notoriamente cinico e disincantato, ma non ho mire di proselitismo: non mi importa che la gente la pensi come me, voglio solo che sia informata, che senta tutte le campane. E conosca i fatti. Per questo, mi chiedo e soprattutto vi chiedo: se, giustamente, lottiamo per le vaccinazioni e ci affidiamo a medici e specialisti e non a stregoni e accademici da ricerca su Google per evitare il ritorno di malattie che pensavamo debellate, se chiediamo a ingeneri e architetti di fare in modo che non accadano più tragedie come quella del Ponte Morandi, in base a quale coerenza e criterio scientifico dovremmo intraprendere una battaglia, la cui capofila è una studentessa 16enne svedese con le sue teorie catastrofiste e le sue accuse da ribellismo adolescenziale verso il “sistema”? Sarà certamente un genio, bravissima, con un QI degno di un docente universitario di Harvard di 55 anni, avrà divorato migliaia di testi scientifici e seguito centinaia di conferenze: ma resta una studentessa di 16 anni, cari lettori. Affidarsi alla sua guida, fosse anche solo simbolica e di testimonianza, in quella che viene dipinta come la battaglia del millennio, equivale a farsi operare di peritonite da qualcuno con la licenza media, ma che non ha perso nemmeno una puntata di ER o Grey’s Anatomy, ne siete consci vero? Davvero siamo sicuri che la sua crociata, al netto delle buone intenzioni e del genuino e appassionato impegno per il prossimo, su cui non nutro dubbi almeno fino a prova contraria, si basi su fondamenti reali e non sull’ennesima suggestione collettiva, la stessa che seguì per qualche mese la campagna di Al Gore? Salvo finire in fretta nel dimenticatoio e fuori dalle agende politiche di intervento di organismi proprio come l’Onu, quando la Cina minacciò tutti di far deragliare il commercio globale (e i mercati), se si continuava a romperle l’anima con la questione delle emissioni inquinanti. Vi faccio qualche esempio, tanto per rifletterci su nella giornata dell’impegno ecologista e nel suo day after. La prossima panzana che vi refileranno sul tema, a occhio e croce, sarà quasi certamente legata alla decisione presa venerdì scorso dal Fondo sovrano norvegese, un gigante da 1 triliardo di dollari di assets con forte concentrazione sul comparto energetico fossile, di scaricare i titoli azionari che ha in portafoglio legati ad aziende petrolifere. Ovviamente, vi verrà spacciata come una decisione frutto di nuova coscienza ecologica di fronte alla catastrofe ambientale che abbiamo di fronte. Una vittoria di Greta e dei suoi venerdì di protesta silenziosa e solitaria. Balle. È soltanto puro hedging finanziario nei confronti di un comparto che vede i propri prezzi al palo dal 2014 e che all’orizzonte non garantisce prospettive di rinnovato profitto. Anzi, lo scorso anno, bilancio alla mano, è costato al Fondo norvegese un bel -6,1% di return-on-equity, pari a una perdita di 485 miliardi di corone. E che l’operazione non abbia nulla di “verde” non lo dice il sottoscritto, bensì lo stesso Fondo sovrano nel suo comunicato stampa. Il quale venderà sì titoli azionari legati al comparto, ma soltanto quelli di aziende puramente esplorative, mentre terrà quelle delle big con operatività integrata su più comparti della filiera. Insomma, 134 compagnie vedranno le loro azioni scaricate, ma giganti come Royal Dutch Shell ed Exxon Mobil, ad esempio, potranno dormire sonni tranquilli. Ecco le parole del ministro delle Finanze norvegese, Siv Jensen: «L’obiettivo è ridurre la vulnerabilità del nostro benessere finanziario comune da quello che è ormai un permanente calo del prezzo del petrolio. A tal fine, è più accurato vendere aziende che esplorano e producono gas e petrolio che vendere un settore energetico ampiamente diversificato». D’altronde, parliamo di un Fondo cui fa capo un controvalore di titoli azionari petroliferi da 37 miliardi di dollari, da BP a Shell fino a Total. E sapete quale sarà l’obiettivo principale del tanto declamato disinvestimento “ecologista”? Piccole aziende indipendenti, i cui titoli hanno un controvalore di 8 miliardi di dollari circa nel totale del portafoglio norvegese. Insomma, il Fondo vende, ma lo fa con accuratezza finanziaria, non iconoclastia ambientalista. Meramente per un calcolo finanziario. E, attenzione, in base alle regole statutarie di investimento, anche l’eliminazione di quei titoli richiederà anni. La ragione? Semplice, il Fondo è controllato al 67% da Equinor, il gigante petrolifero e del gas norvegese, un tempo noto come Statoil, il quale non ha la minima intenzione di ridimensionare il suo business e concentrarsi sull’eolico o la raccolta di margherite, quindi venderà i titoli a piccoli blocchi e diluendo nel tempo le operazioni proprio per non creare caos nel comparto, scaricando posizioni eccessive in un momento di grande delicatezza, fra Opec allo sbando, prezzo bassi e nuove dinamiche geopolitiche tutte da ridisegnare. Di ambientalista, nonostante le Ong e i Partiti verdi di mezza Europa gridino alla vittoria e alla svolta epocale, non c’è proprio niente nella decisione di Oslo. Nemmeno a medio-lungo termine. Anzi, qualcosa c’è. Ed è terribilmente strategico. Non solo i grandi operatori petroliferi nei giacimenti di shale statunitense hanno appena annunciato la loro intenzione di aumentare la produzione al massimo, ma hanno, di fatto, aperto la porta ai prodromi della nascita di un cartello petrolifero indipendente a stelle e strisce, una sorta di Opec americana tutta incentrata sullo scisto. Ecco come Micheal Wirth, presidente e amministratore delegato di Chevron, ha prospettato la situazione: «I produttori ed esploratori indipendenti stanno per essere spremuti dalle banche, le quali vogliono che producano maggiori profitti o escano del tutto dal grande gioco di scala del Permian». Insomma, cannibalismo delle majors sui piccoli. Casualmente, gli stessi piccoli che il Fondo norvegese ha messo in cima alla lista di vendita del suo portafoglio azionario. Ecologismo?

I dati che smontano la “rivoluzione” ecologista dei millennials. La generazione dei Millenials, piena di debiti, è quella che protesta in piazza contro i cambiamenti climatici. E non è un caso, scrive il 16.03.2019 - Mauro Bottarelli. E se in Europa abbiamo mezze verità spacciate come rivoluzioni e una 16enne come capopopolo, con tanto di candidatura al premio più screditato della storia contemporanea, Oltreoceano non sono messi meglio. Mi riferisco ad Alexandria Ocasio-Cortez e al suo Green New Deal, il quale in base a un sondaggio condotto dalla prestigiosissima Università di Yale vede favorevole addirittura l’80% degli elettori statunitensi. Di più, siamo di fronte a qualcosa di straordinariamente (e strategicamente) bipartisan come supporto, visto che il 92% di chi si dichiara Democratico e il 64% di Repubblicani si sono detti pronti a supportare in maniera più o meno decisa il pacchetto di riforme che trasformerà completamente il settore energetico Usa su modello “verde” nel prossimo decennio. Se il sondaggio è stato condotto da un’istituzione come l’Università di Yale, ci sarà da fidarsi. Sicuri? Quella che leggete di seguito è la nota introduttiva, uguale per tutti, al sondaggio: Some members of Congress are proposing a “Green New Deal” for the U.S. They say that a Green New Deal will produce jobs and strengthen America’s economy by accelerating the transition from fossil fuels to clean, renewable energy. The Deal would generate 100% of the nation’s electricity from clean, renewable sources within the next 10 years; upgrade the nation’s energy grid, buildings, and transportation infrastructure; increase energy efficiency; invest in green technology research and development; and provide training for jobs in the new green economy (Alcuni membri del Congresso stanno proponendo un “Green New Deal” per gli Stati Uniti. Dicono che un “Green New Deal” produrrà posti di lavoro e rafforzerà l’economia americana attraverso l’accelerazione della transizione da carburanti fossili a fonti rinnovabili e pulite. Il Deal potrebbe generare il 100% dell’energia della nazione da fonti rinnovabili e pulite entro i prossimi 10 anni; migliorare la rete energetica nazionale, gli edifici e le infrastrutture di trasporto; aumentare l’efficienza energetica; investire in ricerca e sviluppo di tecnologia verde; garantire tirocinio e preparazione per posti di lavoro nella muova economia verde, ndr). Scusate, chiunque non sia un inquinatore per scelta o per perversione, il figlio di un petroliere o un feticista dello smog, potrebbe dirsi contrario a un presupposto simile, a una prospettiva di futuro del genere? Di fatto, non si chiede un parere sul Green New Deal, si offre una sinopsi iniziale che è un concentrato di senso di colpa e magnifiche sorti e progressive, roba da regno degli unicorni e poi si finge di voler conoscere il punto di vista dell’intervistato! Cosa dite, un paragrafo simile posto prima delle domande dirette, può configurarsi come vaghissima volontà di indirizzare il parere del rispondente? Ma tutto questo mica finisce sui giornali o nelle iniziative parlamentari, il messaggio è soltanto quello che si ottiene dal calcolo statistico delle risposte ottenuto: l’80% degli statunitensi è favorevole al Green New Deal, all’impegno per un’energia verde e contro i cambiamenti climatici, a un nuovo approccio. Il quale, ovviamente, oltre a richiedere una decina d’anni almeno, presuppone qualche triliardo di dollari di investimento pubblico e privato in opere di riconversione. Insomma, serve spesa pubblica. Serve deficit, perché è per una buona causa. Nessuno ti fa le pulci, non esiste al mondo un Dombrovskis così cattivo e insensibile da richiamarti perché spendi in difesa dei pinguini o degli organismi monocellulari del Borneo: la strada è spianata. E, cosa più importante, la coscienza collettiva anestetizzata ed euforizzata per bene. Se poi tenti ancora di fare resistenza in nome del buon senso e della scienza, intesa come dati reali, ti piazzano davanti un bambino con la mascherina per l’asma, tipo figurante di un falso attacco chimico in Siria e il gioco è fatto: la nomea di Erode non te la leva nessuno. Non sarebbe più onesto dire che, visto che anneghiamo nel debito (è dell’altro giorno la rottura di un nuovo record a livello globale e congiunto pubblico-privato, 178 triliardi di dollari, dati Bis) e il sistema non può più disintossicarsi a questo punto, occorre andare oltre, approssimarsi alle rive faustiane del Qe strutturale e perenne? O, quantomeno, decennale e senza la Fed che rompa l’anima, se non per dare una sgonfiata controllata agli eccessi di mercato? No, non si può. E non a caso, i paladini di questa battaglia sono giovani. Sono millennials o poco più grandi. Come la Ocasio-Cortez. Come Greta. Perché solo un giovane può venderti questa balla, senza che tu ti ponga domande e scopra quanto appena confermato proprio dalla Fed. Senza che tu scopra ciò contro cui davvero dovresti ribellarti e chiedere conto. Ovvero che proprio i millennials rappresentano, prima ancora di cominciare la propria vita lavorativa, la generazione più indebitata della storia. Qualche numero? Ce lo offre appunto la Federal Reserve di New York e parla chiaro: la generazione under-30, solo negli Usa, già oggi annega in oltre 1 triliardo di debito, un aumento del 22% solo negli ultimi 5 anni. Ma non basta. Stando a quanto riportato da Forbes, certamente una fonte non autorevole quanto Greta, le ultime statistiche relative ai debiti scolastici per il 2019 mostrano quanto la crisi di questo comparto stia diventando con il passare del tempo, attraverso la disaggregazione demografica e di gruppi sociali, cronica e sistemica. A oggi, negli Usa ci sono più di 44 milioni di giovani che congiuntamente fanno capo a oltre 1,5 triliardi di dollari in debito studentesco, una voce che è la seconda categoria debitoria nel Paese dopo quella dei mutui immobiliari ed è maggiore di quelle relative a carte di credito e prestiti per l’acquisto di automobili, il tutto in un Paese dove le spese per consumi pesano per il 70% del Pil. Prendendo in esame il dato relativo alla classe debitoria del 2017, la media è di 28.650 dollari a persona, stando a rilevazioni dell’Institute for College Access and Success. E non basta, perché proprio a causa di questo stato di schiavitù debitoria fin dagli anni della formazione, ecco che la conseguenza è che nel Paese dove normalmente al compimento della maggiore età si esce di casa (in prima istanza, proprio per andare al college) e si tende a comprarsene una propria, attraverso il mutuo, il tasso di proprietari di immobili nella categoria degli under 35 nell’ultimo trimestre del 2018 era al 36,5% contro il 61% del range 35-44 anni e il 70% di quello fra 45 e 54 anni. Di più, il 63% dei millennials che hanno comprato casa o acceso un mutuo per farlo, stando al sondaggio di Bankrate.com, si è pentito della propria scelta, poiché ha difficoltà nei pagamenti di rate, anche non esorbitanti. E con i tassi ancora ai minimi, rispetto alla media storica. E se il 79% di tutti i rispondenti ritiene ancora che l’essere proprietario di casa sia parte integrante del “sogno americano”, la maggior parte dei millennials definisce la scelta di aver acquistato casa “la ricetta per il disastro”. Capite perché conviene, contemporaneamente, vendere un nemico di lunga durata e facile presa mediatica come il riscaldamento globale, una sorta di fantasma spaventoso, ma inafferrabile e farlo attraverso dei coetanei della generazione più disagiata della storia recente, quella che per la prima volta rischia davvero di stare molto peggio di quella dei propri genitori e che rischia di rimanere letteralmente schiacciata dall’ascensore sociale in caduta libera? E capite perché, in un mondo basato sul debito (e non solo negli Usa), serve un’enorme piano Marshall di spesa pubblica e deficit di lungo termine, non fosse altro per piazzare tutti i titoli di Stato necessari a rifinanziare e servire quel debito contratto, da cittadini come da aziende come da Stati, come un cane globale che continua a mordersi la coda? Anche perché, signori, mica si possono fare guerre o inventarsi conflitti e nemici immaginari tipo la Corea del Nord o la Russia tutte le settimane, non vi pare? Et voilà, casualmente da qualche settimana il clima impazzito ha sostituito l’Isis, gli hacker russi, i missili di Kim Jong-un e tutto ciò che ci hanno venduto finora come emergenza, come nemico permanente. Casualmente proprio ora, con il rischio di recessione globale che sale e le Banche centrali che, stamperia a parte, non sanno più come uscire dall’impasse. Occorre agire ora, quasi le prossime tre settimane siano fondamentali per salvare il pianeta: sembra la pantomima del countdown perenne verso il giudizio universale del Brexit, non vi pare?

Per questo serve una generazione in piazza contro la siccità o le inondazioni, per evitare il triplice effetto. Primo, il rendersi conto di essere schiavo del debito che garantisce al sistema di sopravvivere. Secondo, smettere di foraggiare quel debito, cambiando il telefonino ogni tre mesi, comprando l’auto con il finanziamento, chiedendo prestiti per andare una settimana in ferie. Insomma, rompendo il giocattolo del consumismo da necessità. Terzo, ribellarsi davvero.

Vittorio Feltri e la balla del riscaldamento globale: "Fanciulli e giornaloni, basta blaterare", scrive il 17 Marzo 2019 Libero Quotidiano.  La pubblicistica è impazzita e blandisce gli sciocchini che vanno a migliaia in piazza per dire stupidaggini a riguardo della Terra, a loro giudizio sul punto di ucciderne gli abitanti. La Stampa di Torino ha toccato il diapason con questo titolo in seconda pagina: «L' urlo dei ragazzi italiani: guariremo questo pianeta sfregiato dai nostri genitori». Paradossale. Vogliono guarire una malattia senza conoscerla, senza aver studiato, senza sapere di cosa parlano. Sono ignoranti come travi ed è per questo che hanno persuaso i progressisti dell' intero globo terracqueo a prestare loro attenzione, a prenderli sul serio e ad appoggiarli. Ormai dilaga il conformismo più bieco e ottuso: il clima si è surriscaldato e minaccia le nostre vite. Non è vero. Negli ultimi 15 anni il calore è diminuito dello 0,2%. Semmai è aumentato l' inquinamento per effetto del crescente consumo di energia. Ciò che avviene dappertutto, tranne che negli Usa dove lo sviluppo tecnologico è stato tale da consentire un efficace controllo dei veleni che funestano l' atmosfera. Non sono concetti miei, questi, bensì del premio Nobel Rubbia, il massimo esperto di cui il nostro Paese dispone. In pratica i fanciulli chiassosi tipo Greta e i suoi seguaci gretini, lodati dalle folle folli, discutono di una materia a loro misteriosa. Blaterano. Suppongono di poter cambiare il mondo però non sono nemmeno capaci di cambiare loro stessi, pieni di droghe e di vizi d' ogni genere. Si buttino sui testi scientifici anziché riversarsi sulle strade a urlare scempiaggini. Tutti impegnati a spargere balle. Affermano che Milano è la città più inquinata della patria, ma omettono di precisare che è anche quella dove la gente campa più a lungo. Segno che lo smog fa bene alla salute? Non esageriamo, probabilmente una società civile si difende dalle schifezze organizzando un sistema sanitario efficace, idoneo a combattere ogni malanno. La Lombardia è la regione maggiormente attrezzata a proteggere il popolo onde consentirgli di resistere alle patologie. Al Sud, che si giova di un' aria pulita e sana, si va all' altro mondo con anticipo rispetto al Nord. Cari studenti dei miei stivali, datevi una regolata e piantatela di ammorbarci con le vostre lagne insensate. Vittorio Feltri

Salvate l’uomo, non solo la Terra. Greta e i gretini. Scrive Marcelo Veneziani su La Verità il 16 marzo 2019. Ma credete davvero che una ragazzina paffuta di sedici anni abbia mosso il mondo, l’Onu, i governi, i media in questa “storica” giornata di mobilitazione planetaria per salvare la Terra? Ci voleva lei, coi suoi cartelli e slogan, per scoprire quelle emergenze planetarie? Dai su, non ci vuole molto per capire il marketing politico-mediatico che si è mosso usando l’icona minorenne di Greta, trasformandola in una specie di Bernadette della religione ecologista, con relativo pellegrinaggio alla Lourdes miracolosa di piazza, e il racconto, lo storytelling, ad usum gretini. Il mondo salvato dai ragazzini era un testo poetico di Elsa Morante, uscito – guarda caso – nel ’68; è il titolo più adatto per la manifestazione planetaria che si è svolta ieri in migliaia di piazze di tutto il mondo, da Oriente a Occidente, dal nord Europa al sud Africa. Una sinistra spompata e smarrita, che non sa più che pesci pigliare, si è tuffata a pesce sul fenomeno Greta e i suoi milioni di sodali, cercando di trarre un populismo buono e giovanile in un rigurgito miracoloso di sessantotto e di appropriarsene. Se leggete i giornali di sinistra, non solo italiani, coi loro titoloni entusiastici, le paginate euforiche, è stata una flebo di vitalità in un corpo smorto, un soccorso da respirazione bocca a bocca. Perché permette di cavalcare un tema santo e corretto, che permette ancora di spartire il mondo in buoni e cattivi, che poi sarebbero tutti i governi in carica che oggi guarda caso non sono di sinistra, né qui né altrove; un modo per attaccare l’America trumpista e paraggi. Mi è capitato ieri mattina di passare a mezzogiorno per Piazza Venezia (non andavo dal Duce, vi assicuro) e mi sono trovato nel sole trionfale di Roma, nel pieno di queste fiumane di ragazzi che sembravano felici di essere al mondo, lì, proprio lì, felici di aver “giobbato” la scuola, e di essere in tanti, a far la storia e anche un po’ di goliardia, un po’ di politica e di socialità dal vero, finalmente, e non tramite social e smartphone. Li ho invidiati, lo confesso, era bello sentirsi ragazzi in quell’atmosfera di luce. Oltre il piacere di trovarsi, riconosco che il tema agitato è verace: avere a cuore le sorti del pianeta, mobilitarsi per salvarlo, o perlomeno suscitare attenzione sui temi sensibili, è cosa davvero buona e giusta. Anzi, aggiungo, che la salvaguardia dell’ambiente, l’amore per la natura, la denuncia del degrado ecologico, non dovrebbero essere lasciati ai verdi e tantomeno agli speculatori politici, reduci dai fallimenti del progressismo. Anzi, mi spingo oltre: chi si definisce conservatore, chi ama e difende la terra dei padri, dovrebbe sentirsi particolarmente sensibile al tema di salvare il pianeta, conservare la natura e criticare lo sviluppo illimitato, la crescita abnorme dell’inquinamento. Quindi sacrosanta la battaglia contro la morte della terra, e decisamente positivo che i ragazzi si mobilitino per questi temi anziché per altri, o peggio per nulla, se non i propri appetiti. Vorrei solo che gli slogan principali di questa mobilitazione non fossero limitati all’orizzonte ambientalista. Salvare la terra è un nobilissimo proposito, anche se suona velleitario declamarlo nelle piazze, o pretendere di farlo con una mattinata da passeggio in corteo. Ma si può davvero pensare che il pericolo per l’umanità siano la plastica, l’aumento della temperatura o i gas di scarico, e poi basta? Non pensate che altre tragedie planetarie si abbattano nel mondo, come lo sradicamento dei popoli, l’inebetimento dei giovani tramite i media, la diffusione della droga e dell’alcol, il collasso delle femiaglie, degli stati e la decadenza delle società? Non pensate che il tema di salvare la terra debba inserirsi all’interno del più grande proposito di salvare l’uomo e l’umanità che è in lui? Così rivendicare il diritto al futuro, sacrosanta istanza, ha valore e coerenza se non si limita a salvare il futuro delle piante e delle piste ciclabili. Stiamo perdendo il futuro in ogni senso e direzione, non solo a livello d’ambiente: perdiamo il futuro perché noi italiani ed europei non facciamo più figli. Rischiamo di estinguerci per questo, prima che per le emissioni di anidride carbonica. Perdiamo il futuro perché abbiamo spezzato i ponti tra le generazioni, non facciamo più lunghi progetti, non abbiamo più un’idea del futuro e un orizzonte di aspettative, stiamo perdendo le identità. Avere una visione del mondo vuol dire non preoccuparsi solo di salvare l’aria, l’acqua e la terra, ma anche quegli altri elementi che sono importanti come l’aria, l’acqua e la terra, ossia le nostre radici, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. E poi, quando chiediamo di salvare la natura, cerchiamo di capirci: ritenete raccapricciante una carota ogm, geneticamente modificata, ma ritenete sacrosanto il diritto all’umanità ogm, geneticamente modificata e transgenica. Non è una contraddizione, difendere la natura relativamente agli ortaggi e stravolgere la natura relativamente agli umani? Pensate che sia fruttuoso e coerente auspicare fecondazioni artificiali per gli umani ma denunciare sdegnati le sofisticazioni alimentari di carni, frutta e verdura? Salvare la natura, la terra, il futuro è un progetto più grande che comprende anche l’uomo, la sua natura e la sua cultura, il suo corpo, la sua mente. Ci pensate ragazzi? Ripetete spiritosamente “non rompeteci i polmoni” ma all’inquinamento mentale e ideologico, all’espianto degli organi vitali, mentali e spirituali dell’umanità ci pensate alle volte? Aprite gli occhi e le menti, ci sono più cose in cielo e in terra, e nella vostra anima, che non riguardano solo la salute del pianeta. MV, La Verità 16 marzo 2019

VOGLIONO CAMBIARE IL MONDO MA NON LORO STESSI. Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 19 marzo 2019. La pubblicistica è impazzita e blandisce gli sciocchini che vanno a migliaia in piazza per dire stupidaggini a riguardo della Terra, a loro giudizio sul punto di ucciderne gli abitanti. La Stampa di Torino ha toccato il diapason con questo titolo in seconda pagina: «L' urlo dei ragazzi italiani: guariremo questo pianeta sfregiato dai nostri genitori». Paradossale. Vogliono guarire una malattia senza conoscerla, senza aver studiato, senza sapere di cosa parlano. Sono ignoranti come travi ed è per questo che hanno persuaso i progressisti dell' intero globo terracqueo a prestare loro attenzione, a prenderli sul serio e ad appoggiarli. Ormai dilaga il conformismo più bieco e ottuso: il clima si è surriscaldato e minaccia le nostre vite. Non è vero. Negli ultimi 15 anni il calore è diminuito dello 0,2%. Semmai è aumentato l' inquinamento per effetto del crescente consumo di energia. Ciò che avviene dappertutto, tranne che negli Usa dove lo sviluppo tecnologico è stato tale da consentire un efficace controllo dei veleni che funestano l' atmosfera. Non sono concetti miei, questi, bensì del premio Nobel Rubbia, il massimo esperto di cui il nostro Paese dispone. In pratica i fanciulli chiassosi tipo Greta e i suoi seguaci gretini, lodati dalle folle folli, discutono di una materia a loro misteriosa. Blaterano. Suppongono di poter cambiare il mondo però non sono nemmeno capaci di cambiare loro stessi, pieni di droghe e di vizi d' ogni genere. Si buttino sui testi scientifici anziché riversarsi sulle strade a urlare scempiaggini. Tutti impegnati a spargere balle. Affermano che Milano è la città più inquinata della patria, ma omettono di precisare che è anche quella dove la gente campa più a lungo.  Segno che lo smog fa bene alla salute? Non esageriamo, probabilmente una società civile si difende dalle schifezze organizzando un sistema sanitario efficace, idoneo a combattere ogni malanno. La Lombardia è la regione maggiormente attrezzata a proteggere il popolo onde consentirgli di resistere alle patologie. Al Sud, che si giova di un' aria pulita e sana, si va all' altro mondo con anticipo rispetto al Nord. Cari studenti dei miei stivali, datevi una regolata e piantatela di ammorbarci con le vostre lagne insensate.

GRETA THUNBERG HA RAGIONE, MA SBAGLIA BERSAGLIO. Francesco Costa per www.ilpost.it il 18 marzo 2019. A una ragazza di 16 anni si può certamente perdonare l’ingenua pretesa di spiegare il cambiamento climatico con «molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso», specialmente quando le sue intenzioni sono così evidentemente buone e preziose, ma Greta Thunberg giustamente chiede e merita di essere presa sul serio, e quindi facciamolo. L’idea che i mancati progressi sul riscaldamento globale si debbano addebitare innanzitutto ai grandi paesi più sviluppati e industrializzati, o alle più ricche multinazionali, è purtroppo molto lontana dalla realtà. Basta guardare una qualsiasi mappa sull’inquinamento dell’aria per rendersene conto, ma non solo: lo sa bene chiunque abbia seguito con un po’ di attenzione le grandi conferenze sul clima di questi anni, da Kyoto a Parigi. Questo non assolve né i governi dei paesi più ricchi né le multinazionali, che ne hanno approfittato fin dove hanno potuto e hanno trovato anzi un alibi perfetto, ma è noto che negli ultimi vent’anni siano stati i paesi in via di sviluppo a fare resistenza davanti alla possibilità di introdurre norme comuni più severe e stringenti a salvaguardia del pianeta. La Cina, l’India, i paesi dell’Africa. Il loro argomento, peraltro, per quanto miope non si può liquidare con un’alzata di spalle, e non solo perché il loro sviluppo di questi vent’anni ha generato la colossale uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone. Sintesi mia: voi del mondo sviluppato vi siete arricchiti per secoli sfruttando le risorse del pianeta, saccheggiandoci, schiavizzandoci e inquinando a più non posso, e proprio ora che noi abbiamo cominciato a crescere e uscire dalla povertà dovremmo rallentare e spendere fior di quattrini per inquinare meno? I più forti tra i paesi emergenti ci stanno arrivando da soli, come la Cina, intuendo anche che alla lunga possa essere un affare pure dal punto di vista economico: ma gli altri hanno bisogno di risposte migliori di «datevi una mossa». Il discorso politico di Greta Thunberg peraltro non prende di mira loro, ma attacca soprattutto i governi occidentali, i «ricchi» e le cosiddette élites con toni bellicosi che sono ormai familiari a tutte le democrazie occidentali – «Ci avete sempre ignorato», «avete esaurito le giustificazioni», «il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no», «il potere non appartiene a voi ma al popolo» – e che mi sembra che fin qui non abbiano portato all’elezione di politici più avveduti e sensibili davanti ai cambiamenti del clima, anzi. Ma c’è di più. La storia dei progressi fatti fin qui nella lotta all’inquinamento e al riscaldamento globale, dai più piccoli e timidi ai più coraggiosi, è una storia di azioni intraprese dai governi nel disinteresse generale della grandissima parte delle persone, se non addirittura spesso contro la loro opinione. Dalla raccolta differenziata ai sacchetti biodegradabili, dalla chiusura delle miniere di carbone alle detestatissime direttive europee fino a qualsiasi cosa provi a disincentivare l’uso dell’auto – basta buttare un occhio in Francia – le misure ambientaliste sono state portate avanti non a causa della spinta popolare ma nonostante la spinta popolare; non contro i governi delle élites ma grazie ai governi delle élites, che hanno fatto queste cose sapendo che, salvo una ristretta minoranza di persone, nel migliore dei casi al popolo non sarebbe importato granché. Nel peggiore, gli avrebbero dichiarato guerra. È un fatto, che ci piaccia o no. D’altra parte basta guardare qualsiasi sondaggio su quali siano le priorità degli elettori per notare quanto in basso si trovano la protezione del pianeta e la lotta ai cambiamenti climatici (quando ottengono abbastanza risposte da essere menzionati, cosa che non accade sempre). Anticipo la domanda: davanti a un’iniziativa dai fini così benvenuti e nobili, come è certamente quella di Greta Thunberg, ha senso fare questo genere di osservazioni? Posso sbagliarmi ma la mia risposta è sì, proprio alla luce dell’obiettivo finale. Innanzitutto, la sempre più diffusa descrizione delle classi dirigenti globali come complessivamente e inguaribilmente corrotte e lontane dal «popolo», oltre a non essere fondatissima, ha portato proprio ai successi elettorali delle forze politiche più menefreghiste nei confronti dell’ambiente: andrebbe disinnescata invece che foraggiata. Inoltre, nell’elenco delle «idee sbagliate che ci hanno messo in questo casino», per usare le parole di Greta Thunberg, c’è anche l’atteggiamento autoassolutorio di chi pensa che la colpa sia solo e soltanto «dei governi», e che se fosse per noi avremmo già risolto il problema. È falso. Ma falso che più falso non si può. Da un certo punto di vista è persino sorprendente che si sia fatto qualcosa (poco) in questi anni sul clima nonostante il vasto disinteresse delle grandi masse popolari. Greta Thunberg ha ragione, ma dovrebbe prendersela con noi: col popolo.

LASCIATECI INQUINARE di Francesco Tortora per il corriere.it il 18 marzo 2019.

Jeff Bezos. I miliardari tech amano spendere parte delle loro immense fortune in "giocattoli costosi" come fantastiche isole sperdute negli oceani o ville da nababbi. Tuttavia uno degli status symbol che identifica i pionieri del mondo tecnologico è il possesso di almeno un aereo privato. Business Insider presenta la lista dei velivoli più spettacolari acquistati nel tempo dai miliardari tech. Si parte da Jeff Bezos, patron di Amazon e uomo più ricco del mondo, che possiede un jet privato attraverso la holding "Poplar Glen". 

Mark Cuban. Mark Cuban è un imprenditore americano presidente del network televisivo HDNet e della squadra di basket dei Dallas Mavericks. Nel corso degli anni il 60enne ha acquistato tre jet privati e considera i suoi aerei un privilegio perché gli permettono "di risparmiare il bene più prezioso: il tempo". Cuban ha acquistato nel 1999 il suo primo aereo, un jet Gulfstream V (nella foto), per 40 milioni di dollari. Al tempo l'imprenditore Al tempo il Guinness Book of World Records dichiarò che si trattava dell'acquisto via web più costoso di sempre. Successivamente l'imprenditore ha comprato altri due n velivoli, un Boeing 757 e un Boeing 767. Il secondo è usato per gli spostamenti della squadra di basket americana Dallas Mavericks. 

Bill Gates. La grande passione di Bill Gates, fondatore di Microsoft e seconda persona più ricca del mondo, sono i libri. Tra i beni presenti nella sua sterminata biblioteca c'è il "Codice Leicester" di Leonardo da Vinci, un manoscritto del XV secolo che Gates ha acquistato a un'asta del 1994 per 30,8 milioni di dollari. Ma il 64enna ama anche gli aerei e ha dichiarato che il jet privato che possiede è "la sua passione proibita" e la sua "spesa più folle". Gates è proprietario di un Bombardier BD-700 Global Express, aereo che può ospitare fino a 19 persone e costa circa 40 milioni di dollari.

Charles Simonyi. Charles Simonyi, informatico ungherese naturalizzato americano è un ex collega di Bill Gates alla Microsoft. Il 70enne si è occupato della creazione dei più importanti software applicativi della società di Redmond tra cui Microsoft Office fino alla sua uscita nel 2002. Con l'ex amministratore delegato condivide la passione per gli aerei. Charles Simonyi, possiede un jet Dassault Falcon. Tuttavia l'informatico non si accontenta di volare nell'atmosfera terrestre: il 70enne ha partecipato, in qualità di "turista spaziale", a due viaggi alla Stazione Spaziale Internazionale nel 2007 e nel 2009. In totale Simonyi ha speso 60 milioni di dollari per i suoi due viaggi nello spazio. 

Larry Ellison. L'hobby preferito di Larry Ellison, co-fondatore della Oracle Corporation, è navigare. Il miliardario ha seguito il suo primo corso di vela poco dopo il trasferimento in California nel 1966, quando aveva 22 anni. Allora ha trasformato il suo hobby in un'attività sportiva, investendo centinaia di milioni di dollari nel suo team velico "BMW Oracle Racing". Il 75enne è anche un'appassionato di aerei e ha una licenza da pilota. Larry Ellison possiede due aerei da caccia militari: un MiG-29 sovietico dismesso e un SIAI-Marchetti S.211, precedentemente utilizzato dall'aviazione italiana. Il governo americano però ha proibito a Ellison di volare con il MiG-29 nel territorio degli Stati Uniti. 

Jony Ive. Jony Ive, progettista britannico e "Chief Design Officer" di Apple ha acquistato l'aereo Gulfstream V che un tempo apparteneva a Steve Jobs. Il velivolo fu regalato nel 2002 dall'azienda californiana al fondatore al posto di un aumento di stipendio. Il Gulfstream V può ospitare 15 persone ed è stato acquistato da Jony Ive da Laurene Powell Jobs. La vedova dell'ex amministratore delegato avrebbe fatto uno "sconto significativo"  a Jony Ive. 

Elon Musk. Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, possiede jet privati dai primi anni 2000. In passato aveva un modello "Dassault Falcon 900" del 1994 con 12 posti a sedere, ma l'ha messo in vendita nel 2016. Musk oggi possiede un "Gulfstream G650ER" da 70 milioni di dollari. Nel solo 2018 il magnate sudafricano avrebbe percorso con il velivolo oltre 240 mila km. 

Richard Branson. Richard Branson, patron del gruppo "Virgin" è proprietario dell'isola privata "Necker Island", nelle Isole Vergini britanniche, di "Necker Nymph", splendido sottomarino con cui è possibile esplorare gli abissi marini ed è un grande appassionato di aerei. I suoi interessi non si fermano ai voli "normali". Il 69enne ha in portare nello spazio facoltosi turisti con la "Virgin Galactic", la sua compagnia spaziale commerciale. Branson possiede un "Dassault Falcon 50 EX" aereo che usa per volare da e verso il suo rifugio da 74 ettari nei Caraibi. In precedenza aveva un "Falcon 900 EX", ma l'ha venduto perchè aveva bisogno di un aereo più piccolo per poter raggiungere Necker Island. Per viaggi più lunghi, Branson prende voli su Virgin Atlantic, la sua compagnia aerea commerciale, così può "trascorrere del tempo con lo staff e i passeggeri".

Sergey Brin e Larry Page. Chiudono la rassegna Sergey Brin e Larry Page, i fondatori di Google che sono tra le persone più ricche del mondo. Ciascuno dei due può vantare un patrimonio che si aggira intorno ai 50 miliardi di dollari. Entrambi hanno investito parte delle loro ricchezze in una flotta privata di aerei attraverso la loro holding "Blue City Holdings". I fondatori di Google hanno acquistato il loro primo aereo nel 2005. Si tratta di un Boeing 767-200, acquistato dalla compagnia aerea australiana Qantas per 15 milioni di dollari. Secondo le statistiche più aggiornate la coppia, insieme all'ex CEO di Google Eric Schmidt, oggi possiede otto apparecchi. La flotta comprende tra l'altro due Gulfstream Vs, un Boeing 757 e il jet Dassault-Dornier Alpha. I fondatori di Google non dispongono solo di aerei personali, ma hanno anche un loro terminal privato che si trova all'aeroporto internazionale di San Jose, in California. Nel 2013 Sergey Brin e Larry Page per la costruzione del terminal hanno sborsato 82 milioni di dollari.

Otto e Mezzo, Vittorio Feltri inchioda Lilli Gruber sul riscaldamento globale: "Questa roba...", scrive il 17 Marzo 2019 Libero Quotidiano. A Otto e Mezzo su La7 Lilli Gruber, a Le parole della settimanasu Rai 3 Massimo Gramellini. Cosa li accomuna? Aver fatto due programmi, sabato sera, dedicati al global warming, sulla scia della manifestazione di Milano (e di quelle avvenute in tutto il mondo) di venerdì. Discussione che con discreta evidenza non è piaciuta a Vittorio Feltri, il quale ha commentato su Twitter: "Gramellini e Gruber hanno parlato stasera nei loro programmi tv del surriscaldamento del pianeta . Si sono adattati al conformismo di moda - sottolinea il direttore di Libero -. Secondo loro Milano è la città più inquinata. Sarà. Ma è anche quella dove la gente campa più a lungo. Segno che lo smog fa bene?". Domanda che resta in sospeso. Chiara la sfida a Gruber e Gramellini.

Simone Pierini per “www.leggo.it” il 17 marzo 2019. «Usano i bambini per non fare nulla. Che vergogna». Così Nadia Toffa su Twitter commenta la figura di Greta Thunberg divenuta simbolo della battaglia a difesa del clima. La presentatrice tv ha condiviso un articolo del Foglio intitolato «Risparmiateci i bambini climaticamente corretti e gli adulti che li usano» e si è detta d'accordo con quanto scritto all'interno. La risposta dei suoi follower è rabbiosa scatenando anche una pioggia di insulti alla persona. «Secondo questo ragionamento, nel ‘69 nessun ragazzo sarebbe dovuto scendere nelle piazze per protestare? Sono senza parole Nadia... da te non me lo sarei aspettato», rispondo sotto al tweet i suoi follower. «Che vuol dire. Lei è una bimba, mamma che ignoranza», risponde Nadia Toffa. Poi i commenti diventando incandescenti. «A 16 anni non siamo bambini - scrive un utente - Molti dei ragazzi di oggi sono persone pensanti e con la testa sulle spalle e a volte ci si sente un po’ piccoli davanti anche a loro». E c'è chi passa agli insulti: «Lei ha mai manifestato? Si, le sue fregnacce sui doni del cancro ha manifestato». Altri invece invitano rispondono in modo educato, seppur contrari al pensiero della "Iena", insistendo sull'importanza della figura e del lavoro di Greta Thunberg: «Cara Nadia, è un pensiero frustrante e negativo cercare le magagne in tutto quello che di positivo muove le coscienze. Invece io penso che questa sana energia debba replicarsi e dilatarsi proprio come è successo oggi in tutto il mondo». E ancora: «La bimba ha al suo attivo circa tre anni di militanza a favore di queste tematiche che fanno storcere gli occhi ai potenti del mondo per interesse personale». Un dibattito che è andato avanti e c'è chi chiede spiegazioni alla Toffa su chi fosse il destinatario del suo tweet: «Ma chi sarebbero quelli che li usano?». La presentatrice risponde: «I potenti che non muovono un dito», e chiarise di non essere contro Greta Thunberg «è per difenderla. La sfruttano». 

Se vivete bene ringraziate le generazioni che accusate, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 17/03/2019, su Il Giornale. Dovrei sentirmi in colpa. Un milione di ragazzi si è mobilitato in tutto il mondo per dire che noi, generazione oggi classe dirigente, siamo degli incoscienti, se non mascalzoni, perché stiamo portando il pianeta alla rovina ambientale. Ci lanciano ultimatum, minacciano di mettere all'indice i loro padri e i loro nonni per crimini contro l'umanità. Cari ragazzi, alla vostra età tutto è permesso, anche mentire e offendere. Però sappiate che basterebbe studiare un po' la storia per giungere alla conclusione opposta alla vostra, cioè che la mia generazione e quella dei nostri padri il mondo non lo ha distrutto, ma salvato, e non parlo ovviamente di me. Chi è venuto immediatamente prima di voi ha dovuto fare i conti, fra l'altro, con la cenere umana dei forni crematori di Auschwitz e quella disseminata nelle strade di Hiroshima, problemi un po' più drammatici delle bottigliette di plastica negli oceani per le quali tanto vi scaldate. Diciamo che, almeno fino ad ora, siamo stati bravi e abbiamo garantito - prima volta nella storia dell'umanità - settant'anni di pace tra le potenze e superpotenze del mondo.

Voi non esistevate quando i vostri nonni hanno dovuto ricostruire da zero città distrutte. Ci sono riusciti, inquinando un po', è vero, ma non c'era altra strada per garantire un futuro a loro e, quindi, a noi figli e a voi nipoti. Non siamo stati stupidi né incoscienti. Quando sono nato la maggior parte del riscaldamento domestico funzionava a carbone, poi è arrivato il più ecologico gas e oggi il fotovoltaico. La nostra generazione ha iniziato a guidare auto mosse da carburanti pesanti, ma ha sognato e realizzato quelle elettriche e ha inventato le bottigliette di plastica, che sì se abbandonate (anche da voi) inquinano, ma che hanno salvato da morte di sete milioni di persone che vivono in luoghi aridi e inaccessibili. Grazie al genio e al lavoro dei vostri padri e dei vostri nonni voi oggi avete un'aspettativa di vita di ben oltre ottant'anni e in continua crescita. E ciò prova in maniera inequivocabile che abbiamo fatto un ottimo lavoro per il bene dell'umanità, cosa più importante del solo «mondo» che, se non domato e controllato, può diventare, come purtroppo spesso accade, una bestia feroce pronta ad azzannarci. Le nostre generazioni hanno fatto tutto questo e ne andiamo fieri. Piuttosto è da vedere se voi, quando tra pochi anni prenderete in mano le redini del pianeta, sarete all'altezza di continuare su questa strada di pace e sviluppo. Non dico il Nobel, ma almeno un «grazie», cari Greta e gretini vari, ce lo meriteremmo.

Cgil e università censurano chi non la pensa come Greta e i catastrofisti ambientali, scrive Franco Battaglia il 26 marzo 2019 su Nicola Porro. Lunedì 25 marzo Il Sole24Ore esce con un curioso servizio a 4 pagine col seguente scoop: l’Italia è sempre più calda, col 2018 anno record. Più che scoop sembra la scoperta dell’acqua calda. Sappiamo che non l’Italia, ma l’intero pianeta sta godendo (dico io, ma patendo dicono loro) un riscaldamento globale, e non si capisce perché mai l’Italia avrebbe dovuto esserne esente. A parte questo scoop che scoop non è, fanno una gran confusione. A caratteri cubitali, accanto al titolo scrivono che la temperatura tra il 1880 e il 2018 è cresciuta di 2.3 celsius, ma l’informazione è poco significativa visto che hanno deciso (e qui non sbagliano) di confrontare le temperature col loro valor medio negli anni 1970-2000. E rispetto a questo valor medio il 2018, in Italia, è stato più caldo di 1.5 celsius. Perché l’informazione precedente è poco significativa? Perché, a leggere la sequenza di dati che essi riportano, si può parimenti affermare, per esempio, che l’anno 1996 fu 0.5 celsius più freddo del 1950. Quindi allarme alterato nel titolo. Ma torniamo allo scoop che non è scoop. Il pianeta si sta scaldando, lo sappiamo. Per esempio, nell’inverno del 1814 si celebrò l’ultimo festival su un Tamigi che, allora ghiacciato, consentiva l’attraversamento dei carri. Festival che si celebrava ogni anno da un paio di secoli. Allora, quello del 2018 non è l’anno più caldo in Italia dal 1800, ma è l’anno più caldo in Italia dal 1650, quando si era al minimo della Piccola Era Glaciale, come la chiamano i geologi (gli astrofisici lo chiamano minimo di Maunder, riferendosi al minimo dell’attività solare). Ma Il Sole24Ore si guarda bene dal citare la circostanza. Per occupare le quattro pagine si sarebbero rivolti a due esperti. Uno è un non meglio specificato Osservatorio Nazionale di Legambiente, nota istituzione scientificamente accreditata e sulla quale non pare interessante spendere altre parole. O forse sì: in nome del riscaldamento globale si sono promosse le politiche d’incentivazione con denaro sonante agli impianti eolici e fotovoltaici, e Legambiente fu in passato socia di una società, la Sorgenia, che installava quegli impianti. Recentemente la società si è preoccupata d’informare che «attualmente la società non ha collaborazioni con Legambiente», ma in passato le aveva. L’altro esperto scientifico è tale Dr. Michele Brunetti, fisico, ricercatore del Cnr e quindi qualificato a dire la sua. Il Dr. Brunetti si dice certo che la causa del riscaldamento è la CO2 che in 150 anni, dice lui e, per quel che vale confermo io, è aumentata di 100 ppm (parti per milione). Ora, ho già esposto il calcolo della candela: la CO2 che tutte le attività umane hanno immesso nel salone di casa vostra in 150 anni è pari a quella che si ottiene bruciando una candelina da torta di compleanno. E non saprei cosa avrebbe da commentare Brunetti. Al quale chiederei anche cosa ha fatto aumentare la temperatura del pianeta nei tre secoli dal 1650 al 1950. Un’altra domanda che porrei al dottore è quanto sia significativo riportare i dati dell’Italia (che è niente rispetto al globo) per un fenomeno che è globale. Tanto più che, posto che la temperatura media globale è cresciuta di +0.8 celsius in 150 anni, e se vi sono regioni della terra dove è cresciuta di più (l’Italia, per esempio, secondo l’articolo), devono necessariamente esserci regioni in cui è cresciuta di meno, se non addirittura ove è addirittura decresciuta. Come la mettiamo? Un’altra domanda ancora è: ma chi l’ha detto che +0.8 celsius è un male? Perché non potrebbe essere un bene? Quali argomenti ha il Dr. Brunetti per sostenere che la temperatura media globale ottimale è esattamente quella del 1800? O del 1700? Dopotutto, non stiamo parlando di decine di gradi, ma di uno o due gradi. Per il piccolo corpo umano, +0.8 celsius non è neanche febbre. Per il pianeta, la cui temperatura ha una variabilità di 100 celsius, una variazione di +0.8 celsius significa una sola cosa: clima straordinariamente stabile! Anzi, per dirla tutta: perché mai la concentrazione di CO2 ottimale dovrebbe essere 300 ppm, e non, che so, 400 o anche 500 ppm? Grazie alla fotosintesi, CO2+H2O=tessuto vegetale, cioè più rigogliosa vegetazione. Un’altra cosa che Brunetti non dice è esattamente di quanto egli propone la riduzione delle emissioni. Sottolineo “esattamente”. Il Sole24Ore gli fa dire: «puntare sulle tecnologie carbon–free può mitigare gli effetti climatici». Può? Dottore, qui stiamo parlando di un budget mondiale dell’ordine di 1 miliardo di dollari al giorno per decine d’anni (solo l’Italia ha impegnato 200 miliardi solo sul fotovoltaico) e lei dice “può”? Eh, no: mi dica esattamente di quanto deve essere ‘sta riduzione per esser certi di scongiurare la annunciata catastrofe. Il Dr. Brunetti, però, avrebbe avuto un’occasione per dibattere con me. Egli ha un incarico d’insegnamento al dipartimento di fisica dell’università di Ferrara, ove recentemente ero stato invitato per tenere conferenza il prossimo 17 aprile. Avrei dovuto presentare un piccolo testo, Clima, basta catastrofismi! scritto in collaborazione di colleghi molto più qualificati di me, tra cui il Prof. Uberto Crescenti, professore di geologia e già Rettore dell’università di Chieti-Pescara, il prof. Nicola Scafetta, professore di Climatologia e Fisica dell’Atmosfera all’università di Napoli. Orbene, venuti a sapere della mia conferenza, alcuni “scienziati” dell’università di Ferrara hanno protestato tanto fino a indurre il direttore del dipartimento a cancellare la conferenza. Nulla di nuovo sotto il sole. Nella mia città, Modena, il senatore Carlo Giovanardi aveva proposto un dibattito sulla questione tra me e un altro collega in contraddittorio con me. Immediatamente la Cgil e le associazioni della scuola FLC e UDU hanno diffuso un comunicato ove, tra le altre affermazioni v’è anche questa: «stigmatizziamo la proposta dell’On. Carlo Giovanardi che in questi giorni ha proposto confronti e contraddittori sui temi del clima e del riscaldamento globale». Insomma, cari lettori, sull’argomento non si deve parlare: Greta dixit è lo slogan. Ma io mi chiedo: non sarebbe più facile farmi parlare, sputtanarmi pubblicamente e mettermi definitivamente a tacere innanzi ad un copioso pubblico? Per il momento so che l’On. Giovanardi sta invano cercando qualcuno disposto a stare in contraddittorio con me. Staremo a vedere.

P.S. Ma la Cgil è consapevole che la riduzione dell’uso dell’energia fa perdere posti di lavoro? Mah…Franco Battaglia 26 marzo 2019

Adrian, Celentano fa i pipponi ambientalisti: beccato a bordo di un'auto super-inquinante, scrive il 23 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". Le polemiche contro Adrian su Canale 5 si espandono anche sulla vita privata di Adriano Celentano, beccato dai paparazzi del settimanale Oggi a bordo della sua auto in compagnia della moglie Claudia Mori. Come fa notare Dagospia, il Molleggiato non usa una macchina qualunque, ma un vero e proprio ecomostro. Proprio lui che ammorba i telespettatori con interminabili omelie sull'ambientalismo e il rispetto del pianeta, ha scelto di viaggiare a bordo di una Mercedes S600, fiore all'occhiello della casa tedesca, ma negli anni '90. L'auto di Celentano, 6000 di cilindrata, inquina praticamente quanto cinque Fiat Panda, roba che può fare al massimo 5 chilometri con un litro. E gli italiani invece devono fare i conti con l'ecotassa per l'utilitaria comprata a fatica due anni fa.

·        Un coleottero di nome Greta.

Greta Thunberg, il suo nome assegnato a un coleottero: tutti gli insetti con nomi famosi. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. «È appropriato dare a una delle specie scoperte più di recente il nome di chi sta lavorando così tanto per sostenere il mondo della natura e proteggere le specie vulnerabili». Così Max Barclay, curatore del Museo di Storia Naturale di Londra, ha commentato la scelta di chiamare un nuovo insetto come la giovane attivista svedese Greta Thunberg. Il nome scientifico ufficiale è Nelloptodes gretae bears. Il coleottero è stato scoperto dal dottor Michael Darby che stava studiando una collezione conservata proprio tra le mura del museo. L’insetto era stato in realtà individuato per la prima volta in Kenya nel 1960 da William Block, che successivamente aveva donato le sue scoperte all’esposizione. Tuttavia, non aveva ricevuto un nome ufficiale. Ci ha pensato quindi Darby a battezzarlo scegliendo proprio il nome di Greta in quanto «immensamente impressionato» dalla sua campagna a favore dall’ambiente. Il minuscolo scarafaggio misura meno di un millimetro, è di colore giallo e non ha ali, né occhi, ma possiede due lunghe antenne. Quello legato all’attivista svedese non è il primo caso in cui un nuovo animale viene chiamato come un personaggio famoso...

Un coleottero di nome Greta: omaggio a Thunberg. L'entomologo che ha scoperto il Nelloptodes gretae: ''Non si è mai troppo piccoli per fare la differenza''. La Repubblica il 25 ottobre 2019. Al lavoro sulle Ptiliidae, una famiglia di coleotteri molto piccoli, il ricercatore Michael Darby, socio scientifico del Natural History Museum di Londra, si è imbattuto in una nuova specie e ha deciso di darle il nome della giovane attivista svedese per il clima Greta Thunberg. Il Nelloptodes gretae. Che non è molto bello a vedersi, ma la dedica è un attestato di stima: "Non si è mai troppo piccoli per fare la differenza", spiega il ricercatore. La specie appartiene infatti a un gruppo di alcuni dei più piccoli animali viventi conosciuti, i coleotteri chiamati Ptiliidae. "La famiglia su cui lavoro comprende alcune delle più piccole creature viventi conosciute - spiega Darby - Non sono parassiti e non vivono in altre creature. Sono in pochi quelli misurano più di un millimetro di lunghezza". La specie fu originariamente raccolta in Kenya tra il 1964-1965 da un entomologo chiamato William Brock che prelevò i campioni di terreno nell'Africa orientale finora conservati nelle collezioni del Museo. Michael Darby ha esaminato questi campioni usando microscopi ad alta potenza per osservare e scattare foto dei piccoli coleotteri presenti nel substrato. Nelloptodes gretae misura appena 0,79 millimetri ed è di colore giallo pallido e oro. Senza occhi o ali, si distingue dalle altre specie per una fossetta osservata nello spazio in cui dovrebbero esserci gli occhi. Non è la prima volta che al ricercatore spetta il compito di dare un nome ad una nuova specie di Ptiliidae da lui scoperta: ebbe già modo di battezzarne uno con il nome del grande naturalista britannico, Sir David Attenborough, quindi si può dire che Greta sia in buona quanto prestigiosa compagnia. Per quanto riguarda la giovane e celebre svedese, Michael Darby ammette di essere un suo grande fan. "È una grande sostenitrice del salvataggio del pianeta ed è fantastica nel farlo, quindi ho pensato che fosse una buona opportunità per riconoscerlo".

·        Da Bill Gates a JLo: le star «ecologiste» che inquinano di più.

Da Bill Gates a JLo: le star «ecologiste» che inquinano di più. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. A parole sono tutti ecologisti. Ma quando bisogna viaggiare i personaggi dello star system non sanno rinunciare all'aereo. Lo dimostra un recente studio portato a termine da scienziati dell'università di Lund (Svezia) che ha calcolato «le impronte di carbonio delle star globetrotter», ovvero le emissioni di gas serra prodotte dai viaggi in aereo di 10 personaggi famosi. Steffan Gossling, la studiosa che ha guidato la ricerca, ha affermato di essere stata ispirata dalla connazionale Greta Thunberg che a settembre ha partecipato al vertice Onu sul clima a New York dopo aver raggiunto la Grande Mela in barca a vela: «Come dice Greta, maggiore è la tua impronta di carbonio, maggiore è il tuo dovere morale». Dalla ricerca emerge che il personaggio famoso che viaggia di più in aereo e che dunque inquina maggiormente è Bill Gates con un' impronta di carbonio di oltre 1.600 tonnellate di CO2. Nel 2017 ha fatto 59 viaggi, percorrendo 213.130 miglia (343 mila km) , principalmente sul suo jet privato Bombardier BD-700. Sebbene Gates abbia ammesso che  i jet privati sono il suo «colpevole piacere», ha scritto numerosi articoli in cui invita le persone a rispettare l'ambiente e a combattere l'effetto serra. 

Antonello Guerrera per “Affari & Finanza - la Repubblica” il 19 novembre 2019. Non usano aerei di linea ma jet privati. E il Guardian accusa: i loro spostamenti su Bombardier, Cessna e Gulfstream aumentano la CO2 nell' aria. Il solo fondatore di Microsoft nel 2017 ha volato per 320mila km e ne ha prodotta per 1.600 tonnellate. «Oramai è come avere l' ultimo modello dell' iPhone», dice al Guardian l' esperto di aviazione Brian Foley, «sempre più vip vogliono il jet personale più avveniristico e moderno sul mercato ». Il problema è che se l' impatto di un telefonino sull' ambiente è minimo, quello di un aereo privato è enorme. Secondo un nuovo studio della società di aviazione Honeywell Aerospace, si arriva, per emissioni di gas serra, a circa quaranta volte di quelle di un aereo di linea, calcolate per passeggero. Non è un problema di poco conto, se consideriamo che nei prossimi dieci anni si stima che paperoni, cantanti, star delle televisioni mondiali e manager delle multinazionali, insomma il cosiddetto "1% della popolazione mondiale", acquisteranno almeno 8 mila nuovi jet privati da utilizzare nelle loro scorribande da un angolo all' altro del globo. Solo quest' anno, per far capire il trend, circa 690 velivoli di questo tipo avranno spiccato il volo, per un incremento pari al 9% rispetto al 2018. L'anno prossimo invece, sempre secondo le previsioni di Honeywell Aerospace, i nuovi jet privati saranno ancora di più, almeno 740. Gli altri 7.600 che saranno acquistati nei successivi nove anni, invece, costeranno agli acquirenti privati oltre 225 miliardi di euro: circa due terzi opereranno soprattutto in Stati Uniti e Cina, in Europa invece ne svolazzeranno circa il 20 per cento. Oggi nel mondo sono già 4.600 i jet privati utilizzati regolarmente. Secondo Foley i vip e super ricchi del pianeta rappresentano fino al 25 per cento del mercato - il resto è composto da grandi aziende e multinazionali. Curiosamente, in cima alla lista dell' 1% spesso in viaggio su questo tipo di aerei, ci sono anche personalità in prima linea contro il cambiamento climatico o filantropi pubblicamente impegnati per un mondo migliore e più ecologico, come per esempio il fondatore di Microsoft e secondo uomo più ricco al mondo Bill Gates, da oramai molti anni coinvolto in attività anche umanitarie con sua moglie Melissa. Secondo uno studio della Lund University (Svezia) riportato sempre dal Guardian e pubblicato in "Annuals of Tourism Research", Gates nel 2017 ha viaggiato almeno 57 volte su jet privati, percorrendo in totale oltre 320mila chilometri, per quello che lui ha sempre ammesso essere "il suo piacere peccaminoso". Difatti, saltando

·        Non solo Greta.

Beata Ernman, la sorella 13enne di Greta Thunberg presa di mira dagli haters. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Sandro Orlando. La ragazzina, 13 anni, presa di mira: «È sistematicamente bersaglio di mobbing» Non solo Greta, le 5 attiviste da seguire Lombardo. Lo svedese Dagens Nyheterè stato il primo giornale a cui Greta Thunberg ha rilasciato un’intervista. Un anno dopo la reporter Alexandra Urisman Otto ha raggiunto l’attivista per il clima nel suo lungo viaggio attraverso l’America per una nuova intervista. La ragazza è come sempre accompagnata dal papà Svante, a cui si è aggiunto ora un cameraman, ed è venuta nella riserva indiana di Standing Rock, nel Sud Dakota, per incontrare le comunità sioux che da anni si oppongono al progetto di un oleodotto. I tre arrivano con l’auto elettrica messa a disposizione dal governatore della California, Arnold Schwarzenegger, Greta seduta davanti. E la ragazza parla per la prima volta di cosa voglia dire essere un personaggio pubblico, continuamente al centro dell’attenzione mondiale: «Quella che soffre — dice — è mia sorella Bea (nella foto da Facebook, le due ragazze), che ha 13 anni ed è sistematicamente bersaglio di mobbing, cattiveria e molestie». «Tutti quelli che mi minacciano e mi scrivono messaggi di odio», alla fine se la prendono con lei, continua Greta. Anche perché lei è sempre via, e dunque non è raggiungibile, mentre i suoi parenti sì: «La gente non sa dove mi fermo, e dove passo la notte, perché non ho una routine quotidiana. Invece mia sorella è a casa, e cerca di avere una sua vita normale, ma così è molto più facilmente raggiungibile». Le sole denunce alla polizia però non bastano, di qui l’appello della ragazza: «Io ricevo continuamente inviti da parte di persone che mi vogliono aiutare. Il modo migliore per aiutarmi però è adesso sostenere mia sorella. E non perché è mia sorella, ma perché è una persona meravigliosa e forte, ed è anche la mia migliore amica». La sorellina di Greta, Bea, sembra intenzionata a percorrere le orme della mamma, Malena Ernmann, che è una nota cantante d’opera: a giugno la teenager ha partecipato a una trasmissione televisiva in prima serata, debuttando con una canzone (Bara Du Vill) che è già stata ascoltata più di 150 mila volte su Spotify. 

Non solo Greta: chi guida  il movimento per il clima?  Le 5 attiviste da seguire. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 da Carlotta Lombardo su Corriere.it. World Organization for International Relations: le 5 attiviste da seguire. Attive sui social, guidano l’azione contro il «climate change» per la sopravvivenza del pianeta e della specie. E sono il simbolo di speranza per l’ambiente e le nuove generazioni. Ecco chi sono. Attente all’ambiente, allo stile di vita green, ai consumi consapevoli, alle energie rinnovabili. Soprattutto, attive sui social a guidare l’azione contro il «climate change» per la sopravvivenza del pianeta e della specie. La World Organization for International Relations, fondata nel 1978 da Emilia Lordi-Jantus, già funzionaria dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) e del Programma Alimentare Mondiale (WFP), stila la classifica delle 5 giovani attiviste più incisive, simbolo di speranza per l’ambiente e le nuove generazioni.

Manuela Barón. Al primo posto nel ranking delle attiviste della World Organization for International Relations si posiziona Manuela Barón, metà statunitense e metà colombiana, che si è particolarmente impegnata a promuovere — su Instagram e su YouTube — una vita a minimo impatto ambientale ed un’etica zero-rifiuti. «Prima di comprare nuovi oggetti sostenibili, usa tutto ciò che hai già — che sia o non sia bio — perché rivedere le nostre abitudini di acquisto significa ridurre i rifiuti: la cosa più sostenibile che puoi fare con gli oggetti non ecologici che hai in casa è usarli» sostiene Manuela.

Elizabeth Farrell. Al secondo posto si piazza la ventiduenne londinese Elizabeth Farrell, che ha sviluppato una «coscienza ambientalista» a partire da un progetto scolastico sui ghiacciai, pubblicando foto dei suoi look ambientati in panorami artici. Ha inoltre collaborato alla campagna Save The Arctic di Vivienne Westwood e da allora è stata consacrata erede della stilista britannica eco-punk che fin dal 1971 — anno in cui aprì il suo primo negozio al 430 di King’s Road — è in prima linea per ridurre le emissioni di anidride carbonica, primissima a denunciare il problema del riscaldamento globale e dei catastrofici problemi ambientali che ne sarebbero derivati.

Greta Thunberg. Sul podio non poteva mancare la svedese Greta Thunberg, oggi sedicenne. Era il 20 agosto 2018 quando la giovane liceale, allora sconosciuta, si mise a sedere davanti al Parlamento svedese a Stoccolma per protestare contro l’inerzia del governo di fronte al climate change e per chiedere interventi urgenti. Con i suoi discorsi ai potenti della Terra Greta ha girato l’Europa, mentre il movimento degli scioperi per il clima chiamato «Frifays For Future» si è esteso a molti Paesi. «Gli occhi delle future generazioni sono su di voi. Non vi lasceremo farla franca, il mondo si sta svegliando, e il cambiamento arriverà che vi piaccia o no». Queste le sue parole del discorso, diventato virale sui social, ai leader del mondo in apertura del vertice Onu sul clima.

Imogen Lucas. Quarta, la ventottenne Imogen Lucas, di Londra, fondatrice del Low Impact Movement, volto a ridurre al minimo i rifiuti. Immy, come la chiamano gli amici, si batte per uno stile di vita minimalista, etico, vegano e soprattutto a basso spreco.

Tolmeia Gregory. In quinta posizione, un’altra inglese, Tolmeia Gregory, che ha appena 19 anni e che da quando ne aveva 11 gestisce il blog sulla moda etica Tolly Dolly Posh. Tolly si auto-definisce «attivista di moda etica e sostenibile con lo scopo di promuovere una maggiore consapevolezza di ciò che si sceglie di indossare».

·        L'anti-Greta.

“NESSUNO PUÒ INSEGNARCI COME VIVERE”. DAGONEWS il 25 ottobre 2019. Un murales dedicato a Greta Thunberg è stato imbrattato in Canada con un messaggio pro-petrolio. Il viso dell’attivista era stato dipinto venerdì dall’artista AJA Louden sulla 109 Street a Edmonton vicino ad Alberta, ma domenica è stato vandalizzato. «Ferma le bugie – si legge sul volto della 16enne - Questo è il paese del petrolio!». A imbrattare il murales è stato il writer James Bagnell che ha spiegato: «Questa è Alberta. Questo è un paese produttore di petrolio. Mio padre ha lavorato nel settore petrolifero. Non abbiamo bisogno che gli stranieri entrino e ci dicano come gestire la nostra attività, come sostenere le nostre famiglie, come mettere il cibo sui nostri tavoli. Mio padre ne sarebbe disgustato. Penso che sia assolutamente intollerante da parte loro dirci come cambiare la nostra vita e la nostra gente. Dovrebbe tornare nel suo paese e cercare di migliorarlo». Bagnell ha aggiunto che Greta è una bambina che «sta facendo quello che le viene detto di dire». Pur sostenendo di abbracciare un mondo più green Bagnell ritiene che Greta dovrebbe stare zitta fino a quando non è capace di offrire soluzioni reali.

Izabella, ecco chi è l'anti-Greta che si batte contro l'immigrazione. Izabella Nilsson Jarvandi è svedese e si definisce attivista politica contro il globalismo. Ha 15 anni ed è già una star sui social. Proprio come Greta Thumberg. Scrive Claudio Cartaldo, Martedì 23/04/2019, su Il Giornale. La considerano già l'anti-Greta Thumberg. È svedese anche lei, ma non batte per l'ambiente. Tutt'altro: la sua missione è sconfiggere l'immigrazione e l'ideologia gender. Il suo nome? Izabella Nilsson Jarvandi. È più grande della paladina degli scioperi del venerdì per il pianeta, ma non di molto. La 15enne si definisce "una giovane attivista politica contro il globalismo, che cerca la verità e la giustizia per la mia amata Svezia". E qualcuno pensa che possa diventare una star al pari della Thumberg. Proprio come Greta, anche Izabella ha tenuto discorsi in pubblico con tutta la forza che possiedono i ragazzi. "Se non sei nemmeno abbastanza uomo o donna per difendere la tua gente - ha scritto sui social, riferendosi a Greta -, allora come diavolo dovresti essere lì per il resto del mondo?". Attivissima sui social, solidale con Viktor Orban, denuncia - scrive l'Ansa- "il genocidio del popolo svedese" provocato dai porti aperti e dall'eccessiva accoglienza svedese. Tra le sue battaglie anche quella contro l'ideologia gender e "l'indottrinamento" che le scuole svedesi starebbero portando avanti. In un dibattito su Twitter aveva denunciato i "testi assurdi" scolastici in cui ci sono "una ragazza con un pene" e un "ragazzo con una vagina". Senza contare i personaggi ancora più fluidi, come quelli che al tempo stesso sono "un maschio e una femmina".

Ecco l’anti-Greta: è svedese, sovranista e antigender. Chi è la 15enne Izabella Nillson. Scrive martedì 23 aprile Il Secolo D'Italia. La definiscono l’anti-Greta sovranista e antigender. E, come Greta Thunberg anche la quindicenne Izabella Nilsson Jarvandi arriva dalla Svezia. Ma lei, l’anti-Greta, si batte contro l’immigrazione selvaggia e l’ideologia gender. Sul suo profilo Twitter, Izabella si presenta così: «una giovane attivista politica contro il globalismo, che cerca la verità e la giustizia per la mia amata Svezia». L’anti-Greta svedese non sembra per nulla intimorita dal ruolo di oppositrice a quella che la sinistra radical chic si è scelta come icona e bandiera. E annuncia battaglia definendo «genocidio del popolo svedese» le politiche liberal del suo paese verso l’immigrazione. Lunghi capelli neri e occhi scuri, Jarvandi, non ha problemi a scontrarsi sui social con gli hater che la tempestano di post offensivi. Risponde a too. E si trova a suo agio non solo sul web. L’attivista anti-Greta Ha tenuto comizi pubblici davanti ai palazzi del potere. Ed ha solidarizzato apertamente anche con il premier ungherese Viktor Orban per la sue chiusure nei confronti degli immigrati e clandestini. Ma Izabella non si limita a sostenere posizioni sovraniste. E’ anche favorevole a politiche per la famiglia e combatte la cosiddetta ideologia gender, quella che sostiene che le differenze di comportamento fra maschi e femmine derivano dall’educazione. E che non prevedono un padre e una madre. A marzo l’attivista anti-Greta è stata protagonista di un durissimo dibattito su Twitter contro quello che ha definito «l’indottrinamento gender nelle scuole svedesi». Definisce «assurdi» i testi svedesi i cui protagonisti sono «una ragazza con un pene», «un ragazzo con una vagina» o individui che sono al tempo stesso «un maschio e una femmina». Ma la vera bestia nera di Izabella sono gli intellettuali liberal di sinistra e l’ideologia del politically correct. Per questo è diventata popolarissima negli ambienti sovranisti e degli integralisti cristiani. L’anti-Greta, naturalmente, non può non averne anche per Greta Thunberg: «Se non sei nemmeno abbastanza uomo o donna per difendere la tua gente – ha scritto sui social scatenando un putiferio di commenti -, allora come diavolo dovresti essere lì per il resto del mondo?».

Da Il Messaggero il 24 aprile 2019. Si parla tanto di Greta Thunberg, ma in Svezia c'è un'altra ragazza che, invece di battersi per l'ambiente, si impegna contro immigrazione e ideologia gender. L'anti-Greta si chiama Izabella Nilsson Jarvandi e ha 15 anni. Sul suo profilo Twitter si definisce «una giovane attivista politica contro il globalismo, che cerca la verità e la giustizia per la mia amata Svezia». Jarvandi, lunghi capelli neri e occhi scuri, ha tenuto comizi pubblici davanti ai palazzi del potere svedesi ed è attivissima sui social. Denuncia quello che definisce «il genocidio del popolo svedese», dovuto alle politiche liberali del suo paese verso l'immigrazione. Ha anche solidarizzato con il premier ungherese Viktor Orban per la sua chiusura nei confronti degli immigrati. Ma Izabella non si limita a sostenere posizioni sovraniste. È anche favorevole a politiche per la famiglia e combatte la cosiddetta ideologia gender, quella che sostiene che le differenze di comportamento fra maschi e femmine derivano dall'educazione. A marzo l'attivista quindicenne è stata protagonista di un durissimo dibattito su Twitter contro quello che ha definito «l'indottrinamento gender nelle scuole svedesi». Ha parlato di «testi assurdi», i cui protagonisti sono «una ragazza con un pene», «un ragazzo con una vagina» o individui che sono al tempo stesso «un maschio e una femmina». La bestia nera di Izabella sono gli intellettuali liberal di sinistra e l'ideologia del politically correct. Per questo è diventata popolarissima negli ambienti della destra sovranista e degli integralisti cristiani. La giovane attivista ne ha anche per Greta Thunberg: «Se non sei nemmeno abbastanza uomo o donna per difendere la tua gente - ha scritto sui social -, allora come diavolo dovresti essere lì per il resto del mondo?».

·        Quelli che…non sono Gretini.

L’allarme dell’Onu: «Oceani bollenti ghiacciai a rischio». Il Dubbio il 26 Settembre 2019.  Il rapporto degli scienziati Onu. La minaccia rappresentata dalla crescente acidificazione dei mari, i danni a coralli e pesci, e le enormi quantità di CO2 rilasciate dallo scioglimento del permafrost. Il riscaldamento globale sta provocando una situazione di emergenza negli oceani, ma questi potrebbero anche aiutarci a fronteggiare l’aumento delle temperature. In pieno Summit sul clima e apertura dell’Assemblea generale Onu è questo il monito lanciato da scienziati e ricercatori del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ( Ipcc), riuniti nel Principato di Monaco per la presentazione del loro ultimo rapporto su mari e criosfera. Senza appello il loro verdetto, rivolto ai dirigenti politici mondiali: lo scioglimento della Groenlandia e dell’Antartide sta contribuendo ad un aumento significativo del livello dei mari, trasformandoli in minaccia per l’umanità anche se potrebbero essere un alleato nella lotta al riscaldamento globale. L’Ipcc sta lavorando al rapporto dal 2015, sulla spinta del principe Alberto II di Monaco, compilato sulla base di centinaia di pubblicazioni scientifiche focalizzate sull’impatto dei cambiamenti climatici su mari, poli e ghiacciai. La versione finale, concordata con i rappresentanti dei governi, sarà diffusa domani. Tra i documenti più significativi, delle mappe interattive che tracciano i flussi d’acqua dalle cime delle montagne fino ai fondali marini, spiegando come stanno riscaldando il pianeta. Evidenziano anche la minaccia rappresentata dalla crescente acidificazione dei mari, i danni a coralli e pesci, e le enormi quantità di CO2 rilasciate dallo scioglimento del permafrost.

Sara Gandolfi per corriere.it il 25 settembre 2019. A due giorni dal vertice sul clima dell’Onu, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha pubblicato un nuovo drammatico rapporto, dedicato agli oceani e alla criosfera — le parti congelate del pianeta — intitolato Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate. Annunciato al termine di una sessione plenaria di quattro giorni, nel Principato di Monaco, il rapporto è una sintesi di 7000 papers scientifici di 36 paesi diversi, e non lascia margine al dubbio sulla crisi climatica in atto. Oceani sempre più caldi e acidi, ondate di calore, piogge e cicloni più devastanti, isole sommerse.

Ghiacciai dell’Himalaya a rischio, possono sciogliersi entro il 2100. L’innalzamento del livello del mare (finora + 16 cm) sta accelerando: senza un drastico taglio delle emissioni climalteranti, gli oceani entro il 2100 si alzeranno oltre dieci volte più velocemente di quanto sia avvenuto nel XX secolo. Ovvero 15 millimetri all’anno contro i 3,6 mm annui di oggi e l’1,4 mm del secolo scorso. Significa che il mare potrebbe sollevarsi di altri 84 centimetri entro fine secolo (secondo le stime più catastrofiche, addirittura 1,1 metri). Nello scenario migliore, con drastici tagli alle emissioni, si potrebbe limitare tale innalzamento a 43 cm. I ghiacciai perderanno in media più di un terzo della loro massa nello scenario più grave (alte emissioni); alcune catene montuose potrebbero perdere oltre l’80 per cento dei propri ghiacciai entro fine secolo e molti sparirebbero completamente. Il ritiro dei ghiacciai di montagna modifica la disponibilità e la qualità dell’acqua a valle, con pesanti implicazioni per l’agricoltura e l’energia idroelettrica da cui dipendono le comunità locali. La vita marina, già colpita duramente dal riscaldamento degli oceani, continuerà a declinare, anche se un taglio delle emissioni potrebbe ridurre il danno. Gli oceani si sono riscaldati senza interruzione dal 1970 e hanno assorbito più del 90% del calore in eccesso del sistema climatico. Dal 1993, il tasso del riscaldamento dell’oceano è più che raddoppiato. Tra l’84 e il 90 per cento di tutte le ondate marine di calore è oggi attribuibile alla crisi climatica: e le ondate sono due volte più frequenti, più calde e di maggior durata rispetto al periodo pre-anni Ottanta. La loro frequenza sarà di 20 volte più elevate se nel 2100 l’aumento delle temperature si fermerà a 2 ° C rispetto ai livelli preindustriali. Ma sarebbe 50 volte maggiore se le emissioni continuassero ad aumentare. Il riscaldamento dell’oceano riduce la miscelazione tra gli strati d’acqua e, di conseguenza, l’apporto di ossigeno e sostanze nutritive per la vita marina. L’oceano ha assorbito tra il 20 e il 30% delle emissioni di biossido di carbonio indotte dall’uomo dagli Anni ‘80, causando l’acidificazione degli oceani, destinata ad aumentare negli anni a venire. Il pH potrebbe crollare di altri 0,3 gradi entro il 2100, e questo implicherebbe un aumento dell’acidità di circa il 150 per cento. Fino all’80 per cento della parte superiore dell’oceano potrebbe perdere ossigeno già intorno al 2050. In conseguenza di ciò, la massa totale degli animali nell’oceano potrebbe diminuire del 15 per cento e la capacità massima di pesca crollare fino al 24 per cento entro fine secolo. I coralli sono particolarmente a rischio, anche nello scenario più roseo. Il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani, la perdita di ossigeno e i cambiamenti nelle scorte di nutrienti stanno già influenzando la distribuzione e l’abbondanza della vita marina nelle zone costiere, in mare aperto e sul fondale marino. I cambiamenti in atto negli oceani a loro volta generano fenomeni meteorologici estremi, destinati a peggiorare. Cicloni, uragani e tifoni diventeranno più potenti anche in un mondo a +2 C, causando maggiori danni alle coste, secondo il rapporto degli esperti Onu sul clima. L’«intensità media» dei cicloni tropicali e la percentuale dei cicloni di categoria 4 e 5, che è già aumentata negli ultimi decenni, «dovrebbe aumentare», anche se i cicloni in generale non dovrebbero essere più frequenti. Le correnti atlantiche – o Atlantic Meridional Overturning Circulation – che hanno un ruolo chiave nella redistribuzione del calore sul pianeta, sembrano destinate a indebolirsi, con il rischio di un aumento delle tempeste nell’Europa del Nord, di maggiori siccità in Sahel e Asia del Sud, e livelli del mare più alti nel nord est dell’America settentrionale. Lo scioglimento del permafrost e del ghiaccio marino potrebbe provocare un aumento del riscaldamento marino, in un circolo vizioso che si auto-alimenta. Sta già avvenendo. Il disgelo in Groenlandia e Antartico sta rilasciando oltre 400 miliardi di tonnellate d’acqua all’anno. E a Nord l’area dell’Artico coperta dalla neve in estate si restringe di oltre il 13 per cento a decennio. Lo scongelamento del permafrost potrebbe rilasciare enormi quantità di diossido di carbonio e metano in atmosfera. Senza un drastico taglio delle attuali emission, si teme il rilascio di decine o centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 entro fine secolo, con un’ulteriore accelerazione del riscaldamento climatico. Stessa conseguenza per lo scioglimento della neve e del ghiaccio. Alcune isole sono destinate a diventare inabilitabili a causa dell’innalzamento degli oceani. Nello scenario peggiore, anche molte regioni costiere sono ad altissimo rischio: entro il 2300 il livello del mare potrebbe arrivare a +5,4 metri. Entro il 2050, molte megalopoli costiere e piccole nazioni insulari subiranno ogni anno catastrofi climatiche, anche con un’aggressiva riduzione delle emissioni di gas serra. Costruire una protezione contro l’innalzamento del livello dell’acqua potrebbe ridurre il rischio di inondazioni da 100 a 1.000 volte, se si investisse «da decine a centinaia di miliardi di dollari all’anno»,ma gli stati insulari non ne avranno i mezzi. «L’oceano non può sostenere all’infinito il nostro attuale stile di vita — commenta Rebecca Hubbard di «Our Fish» — Stiamo spingendo ben oltre i limiti. L’Unione europea può lanciare un nuovo Green Deal prendendo subito misure per porre fine all’overfishing». E il sindaco di Parigi Anne Hidalgo, che presiede il gruppo C40 Cities, contro il cambiamento climatico le ha fatto eco: «Il rapporto è una lettura scioccante. Le coste del pianeta sono la casa di circa 1,9 miliardi di persone e di oltre la metà delle megacittà del mondo, e tutte sono in grave pericolo se non agiamo subito per impedire l’innalzamento delle temperature e del livello del mare». L’oceano e la criosfera svolgono un ruolo fondamentale per la vita sulla Terra. Un totale di 670 milioni di persone nelle regioni di alta montagna e 680 milioni di persone nelle zone costiere dipendono direttamente da questi sistemi. Quattro milioni di persone vivono permanentemente nella regione artica, e gli Stati in via di sviluppo delle piccole isole ospitano 65 milioni di persone. «Il mare aperto, l’Artico, l’Antartico e le alte montagne possono sembrare lontani a molte persone», ha dichiarato Hoesung Lee, presidente dell’IPCC. «Ma dipendiamo da loro e ne siamo influenzati direttamente e indirettamente in molti modi: per tempo e clima, cibo e acqua, energia, commercio, trasporti, attività ricreative e turismo, per la salute e il benessere, per la cultura e l’identità».

Mi avete rubato il futuro. Augusto Bassi il 25 settembre 2019 su Il Giornale. Mi avete rubato il futuro. Sì, voi che leggete queste righe stravaccati sulle Ikea Markus da gran dirigenti del mass market più dozzinale! Un tempo avrei preso 100mila lire per questo articolo; ma che dico 100mila lire, un milione di lire! E invece oggi? Mi avete rubato il futuro. Quando ero giovinetto e sognavo di far la vita di De Michelis esibivo erezioni mattutine turgide di ottimismo; oggi penso alla De Micheli e mi serve il defibrillatore. Mi avete rubato il futuro. Voi post-sessantottini smantellatori di ogni autorità, di ogni prammatica, germi solerti nell’infettare il mondo con l’emergenza climatica del relativismo, patetico camuffamento della vostra mediocrità… che il Gran cornuto vi porti! Invidiosi della libertà che le regole garantivano, del valore che dissodavano, servi dell’avidità e dell’invidia, avete livellato il pensiero all’altezza dei barboncini e avvelenato l’ecosistema della civiltà. Ma soprattutto… mi avete rubato il futuro. Voi totalitaristi del consumo, inoculato come virus negli organismi sociali e quindi edificato a grottesco totem per le moltitudini, mercificatori dello spirito, industriali di idee fatte in serie… mi avete rubato il futuro. Voi… grossisti di buonoidi sentimenti, mercanti di solidarietà tarocca e correttume, pifferai tragici per amigdale di testoline disabitate, spacciatori di droghe terzomondiste per tossicomani dissonanti, strateghi somari di conflitti fra poveri che inghiottiranno i vostri stessi giardinetti: mi avete rubato il futuro. E avete assassinato quello di 200milioni di bambini malnutriti nel mondo, che neppure hanno le forze per trascinarsi al pozzo dove cercare acqua pulita che non c’è… mentre una treccioluta marionetta cacacazzi da voi maldestramente manovrata sproloquia zacchere millenariste dalla zattera a vela di Pierre Casiraghi. Voi classe dirigente, senza classe alcuna né guida, mi avete rubato il futuro, ma non me ne preoccupo granché; perché il futuro è da sempre l’unico tipo di proprietà che i padroni concedono liberamente agli schiavi.

Cara Greta, non ti ho rubato proprio niente. Non sarà Greta a rubarci i meriti e vediamo se i gretini saranno altrettanto capaci. Occhio, che per farlo più che manifestare serve studiare. Alessandro Sallusti, Mercoledì 25/09/2019, su Il Giornale. «Come osate, avete rubato i miei sogni e la mia infanzia, io non vi perdono», ha tuonato ieri l'altro la giovane ecoattivista Greta rivolta ai grandi del mondo, riuniti all' assemblea dell' Onu, perché a suo dire «siamo all'inizio di un'estinzione di massa». In effetti non siamo messi bene, ma tutti gli studi provano che siamo messi molto meglio del passato e che il futuro che ci attende è meglio di quanto si possa pensare. Qualche esempio. Un milione e ottocentomila bambini muoiono ogni anno nei paesi in via di sviluppo, a causa della diarrea da acqua insalubre e da condizioni igieniche inadeguate. Non è una strage del progresso, è il suo opposto, cioè parliamo di persone ancora non toccate dal progresso, dalle tecnologie, impossibilitate a raggiungere gli ospedali più vicini per mancanza di strade, di auto, di aerei, in sintesi di tutto ciò che Greta vorrebbe mettere all'indice con la sua retorica da professorina. Ciò nonostante le generazioni che Greta «non perdona» qualcosa hanno fatto. La mortalità infantile in quegli stessi paesi nel 1980 era del 20 per cento, oggi è pressoché dimezzata e la percentuale di persone denutrite dal 1970 a oggi è scesa dal 35 al 15 per cento, prova che è il progresso, con la sua sempre maggiore mobilità di persone e merci che può togliere l'uomo dal degrado ed evitare le catastrofi. Oggi - come documenta una ricerca pubblicata in America da Peter Diamandis - un guerriero masai con un cellulare dispone della stessa connettività con il resto del mondo che il presidente degli Stati Uniti aveva solo pochi anni fa, nel 2005. Il progresso inquina? Certo, ma le nostre generazioni sono state capaci di passare dal fuoco al carbone ai pannelli solari in cent'anni, dai calessi alle auto a gasolio a quelle elettriche in cinquanta attraverso errori non evitabili. Thomas Edison raccontò di avere inventato la lampadina dopo avere fallito mille volte di fila. E, accusato di questo, rispose: «Io non ho fallito, ho solo scoperto mille modi che non funzionano». I predecessori di Greta non sono stati - non siamo stati, parlo della mia generazione - «ladri di sogni» ma sognatori che hanno combattuto - e in buona parte sconfitto - la malvagità degli uomini e migliorato il mondo, in una corsa a tappe tuttora in corso. Non sarà Greta a rubarci questi meriti e vediamo se i gretini saranno altrettanto capaci. Occhio, che per farlo più che manifestare serve studiare.

Piero Angela: «Greta mi piace ma l'ecologia c'è da sempre». Ilaria Ravarino Lunedì 21 Ottobre 2019 su La Repubblica. Ha passato una vita sul piccolo schermo, abbastanza a lungo per diventare sinonimo di buona televisione. È un'icona di scienza e sapienza, di quelle che in rete generano a getto continuo centinaia di meme (nomignolo ricorrente sui social: il sommo). Garbo piemontese, uomo di spettacolo da almeno 65 anni, da sempre legato all'azienda pubblica e padre dell'uomo che divulga forte nel sabato sera di Rai 1, a 90 anni - 91 a dicembre - Piero Angela si regala un capriccio, abbandonando per un giorno gli studi televisivi per calcare il palco del teatro. Stasera al Parco Auditorium della Musica di Roma, il 17 dicembre al teatro La Fenice di Venezia, il padre di Quark, Superquark e Alberto sarà, insieme all'esploratore e amico Alberto Luca Recchi, uno dei protagonisti dello show I segreti del mare, accompagnato dalla voce di Noa nella tappa romana e dal pianoforte del jazzista Danilo Rea in quella veneta. Condotto da Pino Strabioli, lo spettacolo sarà «un'occasione per scoprire le meraviglie e le fragilità del mare, un secondo paradiso che rischiamo di perdere». Noa in Italia, canta in Sicilia sabato 19 ottobre e lunedì 21 sarà con Piero Angela all'Auditorium di Roma. Alberto Angela, laurea honoris causa in Filosofia per il divulgatore scientifico.

Si sente a suo agio sul palco?

«Mi sento tranquillo, perché il conduttore vero e proprio sarà Pino Strabioli: lui è il nostro maestro di cerimonia, quello incaricato di introdurci e stimolarci».

Ma come si svolgerà lo spettacolo?

«Sarà diviso in tre parti. Una riguarderà le curiosità sul mare, le altre due saranno legate alle storie di Alberto Recchi e mie. Io e Recchi collaboriamo da tanti anni, abbiamo fatto tv insieme e scritto tre libri. Siamo amici nella vita, ma abbiamo due modi diversi di vivere e raccontare il mare. Lui lo fa attraverso magnifiche fotografie ed esplorando in prima persona i fondali. Ha ripreso di tutto, inclusi squali e grandi cetacei. Dirà quello che ha visto e vissuto. Sarà la narrazione della vita di un grande conoscitore di mari».

E lei cosa racconterà?

«La storia del mare dal punto di vista della ricerca. Parlerò dell'evoluzione dell'uomo, della vita nei mari e dei problemi che si creano con il riscaldamento terrestre. Si parla tanto delle foreste e poco degli oceani. Gli oceani assorbono un terzo dell'anidride carbonica e producono un terzo di ossigeno in più dell'Amazzonia. Se turbiamo il loro equilibrio, dobbiamo aspettarci grandi guai».

Greta Thunberg non fa che ripeterlo. Le piace?

«Si, ma attenzione: queste cose si sapevano anche trent'anni fa, ma nessuno le voleva ascoltare. I movimenti ecologisti sono sempre esistiti. Oggi, certo, le cose stanno peggiorando. Gli accordi di Parigi sono disattesi da paesi che a parole dicono di rispettarli e poi non lo fanno. Oggi si vive nell'eterno presente. Navighiamo a vista. Il problema non è il problema. Il problema è l'uomo».

La tv però dà segnali positivi. Suo figlio ha rifatto il 18.5% di share con Ulisse.

«È stato molto bravo. Fa una televisione diversa dalla mia, certo. Ma è giusta e coinvolgente. Di quelle che parlano direttamente al pubblico».

E lei porta la scienza a teatro. Non le sembrano due bei segnali?

«Il pubblico è cambiato. Le nuove generazioni hanno studiato più di quelle vecchie, sono più curiose e disposte a imparare».

Le nuove generazioni sono migliori delle vecchie?

«Non necessariamente. Le nuove generazioni sono vittime di un grande edonismo. Le vecchie avevano il senso del dovere e del sacrificio. Quando ero bambino sapevo di avere dei doveri e dei dritti che venivano dai doveri. Non c'è migliore e peggiore: per ogni vantaggio c'è sempre uno svantaggio da pagare».

Tornando al mare: cosa l'affascina di più?

«Miliardi di anni fa le forme viventi si sono sviluppate nell'acqua. Con gli organismi policellulari nasce la vita. E con la vita anche la morte, perché prima di loro i batteri tecnicamente non morivano mai: si replicavano in continuazione, l'uno perfettamente identico all'altro. La vita che nasce insieme alla morte: lo trovo un concetto molto affascinante».

NON CHIAMATECI GRETINI. Da Il Messaggero il 27 settembre 2019. Clima, al via i cortei e le iniziative in tutte le maggiori città italiane. In più di 150 città, da Padova a Palermo, da Firenze a Roma, la Rete degli Studenti Medi e Unione degli Universitari partecipano al Global Strike organizzato da Fridays For Future. Sono oltre un milione i partecipanti in tutta Italia secondo il dato fornito da Gianfranco Mascia di Friday For Future. «Sono duecentomila a Roma - ha spiegato - la piazza più partecipata, seguita da Milano con 150 mila. A Napoli sono circa 80 mila, 50 mila a Firenze, 20 mila a Torino e Bologna e 10 mila a Palermo e Bari».

Roma. È partito dalla stazione Termini il corteo dello sciopero del clima di Roma. I ragazzi che partecipano sono migliaia, la coda del corteo è ancora in piazza della Repubblica. I manifestanti percorreranno via Cavour, via dei Fori Imperiali e arriveranno in piazza Madonna di Loreto, accanto all'Altare della Patria, per il comizio finale. Clima allegro, tanti cartelli e slogan. Sono presenti intere scuole che espongono il loro striscione. Tanti cartelli scherzosi che mostrano attori e cantanti famosi e dicono che il clima è più rovente di loro. Molti i cartelli con battute goliardiche a sfondo sessuale, spesso portati da ragazze. Due ragazzi hanno esposto a lato del corteo un cartello «Gretini ipocriti», ma sono stati allontanati dalla polizia.

Milano. Sono «150mila» i manifestanti che a Milano stanno prendendo parte al corteo del movimento dei giovani per il clima Fridays For Future. Lo ha spiegato un portavoce del FFF Milano. Piantare un albero contro la cementificazione è uno dei gesti simbolici compiuti dai manifestanti del corteo del movimento dei giovani per il clima Fridays For Future, che si è fermato lungo il suo percorso in piazza Baiamonti per piantare un acero al centro dell'area verde di proprietà del Comune che una volta ospitava una pompa di benzina, e su cui è prevista la realizzazione della mini-piramide di Herzog.

Palermo. Tensione al corteo degli studenti a Palermo. Un gruppo di una trentina di giovani, vestiti tutti di nero, ha cercato di spezzare in due il lungo serpentone all'altezza dell'ex palazzo del Msi, creando il panico. Tanta gente, anche genitori con i figli delle scuole medie, ha rischiato di essere schiacciata sul cantiere della metropolitana. C'è stato un fuggi fuggi. In azione gli agenti antisommossa.

Firenze. Circa diecimila persone, per lo più studenti, ma anche professori e genitori, si sono radunati in piazza Santa Maria Novella a Firenze per il terzo sciopero mondiale per il clima. La manifestazione è organizzata da «Friday For Future», movimento ecologista capeggiato dalla sedicenne svedese Greta Thunberg. I manifestanti sono poi sfilati lungo le strade del centro cittadino fino a piazza Santissima Annunziata. Tanti gli striscioni durante il corteo, così come i cori scanditi dai manifestanti, tra cui «il pianeta è nostro e ce lo riprendiamo, i partiti in piazza non li vogliamo». Cortei con migliaia di partecipanti anche in altre città toscane, tra cui Livorno, Pisa, Arezzo, Siena, Empoli (Firenze).

Venezia. «Per l'occasione come studenti indosseremo maschera e boccaglio per dire che "abbiamo l'acqua alla gola".» spiegano. In particolare a Venezia, forse la città più a rischio da un punto di vista di innalzamento inesorabile del livello del mare, i ragazzi in maschera e boccaglio hanno calato dal ponte di Rialto uno striscione per invitare tutti a partecipare alla sciopero.

Cagliari. Hanno sfilato alla manifestazione per il clima con un'arma micidiale, il bazooka. Ma micidiale solo per l'inquinamento. È un bazooka spara alberi: l'hanno inventato due studenti della scuola media Ugo Foscolo di Cagliari. All'inizio volevano realizzare un cartellone. Ma il cartone lo hanno utilizzato in un altro modo. Lo hanno ripiegato sino a creare un tubo, un bazooka appunto. E poi dentro hanno messo dei rami raccolti per terra, senza strapparli alle piante. Tutto molto green. Per fare capire - ma si capiva lo stesso - che cosa stavano portando in spalla l'hanno proprio scritto con il pennarello: «bazooka spara alberi». «Di solito - hanno raccontato all'ANSA i due giovani studenti - le armi servono per distruggere. Mentre questa serve per salvare il pianeta. Perché gli alberi, una volta sparati, mettono le radici. E fanno diventare il mondo più verde. Rispondendo colpo su colpo alle emissioni di biossido di carbonio».

Ancona. Non un corteo, ma un grande sit in nel centro di Ancona per il terzo sciopero per il clima. È la manifestazione organizzata da varie associazioni giovanili degli studenti delle superiori e universitari. Un migliaio i ragazzi arrivati sinora in piazza Cavour con cartelli e striscioni, mentre altri stanno confluendo: «Siamo con Greta», «La terra vivrà senza di noi, ma noi senza di lei?», alcune delle scritte. Sono in programma vari interventi, una performance artistico-musicale e la presentazione di un centralina autocostruita per la rilevazione delle polveri sottili. Tante le scuole presenti, ci sono anche bambini delle elementari. Moltissime la manifestazioni previste in tutte le Marche, cortei e catene umane in spiaggia, ma anche le iniziative a tutela dell'ambiente promosse dai giovani di Legambiente: dalla pulizia di sponde di fiumi, torrenti, spiagge e scogliere, a incontri su temi ambientali.

Friday for the Future, i volti: ognuno a modo suo protegge l’ambiente. Ecco come. Dagli studenti ai professori del liceo, fino al 12enne che manifesta da solo nel Foggiano: ecco come cresce la sensibilità ecologica e come è possibile contribuire con piccoli gesti concreti. Manuela Pelati ed Elisabetta Andreis il 28 settembre 2019 su Corriere.it.

Valentina Riga, docente al liceo: lavatrice a gpl e detersivi bio. «Da pochi giorni ho aderito alla rete degli insegnanti per inserire il tema ambientale nella didattica — racconta la docente che lavora da 18 anni nella scuola alla Bufalotta, periferia nord di Roma —. All’inzio di settembre con altri docenti abbiamo costituito un comitato per fare formazione, su proposta di un collega che ha appena chiuso l’accordo con il Comune per la raccolta dei rifiuti differenziati». Nella vita privata la docente punta sul risparmio energetico: «Uso la lavatrice a gpl con detersivi biologici e lavaggio rapido, inoltre cerco di andare con i mezzi pubblici, ma per raggiungere la scuola con il bus ci metto due ore e non lo posso fare».

Giacomo, liceo classico: doccia veloce e con acqua fredda. Nella giornata torrida del terzo sciopero con il termometro che nella Capitale registra 35 gradi Giacomo pensa ad evitare lo spreco di acqua, bene non accessibile a milioni di bambini nel mondo. «Mi lavo con l’acqua fredda e faccio la doccia in pochi minuti». Con il portacicche in mano aggiunge: «Quando spengo la sigaretta la butto nel contenitore e lo svuoto nel cassonetto dell’indifferenziata». Niente auto e motorino. «Mi muovo a piedi perché mi piace camminare, sono abituato a vedere i miei genitori che vanno a fare la spesa al mercato con la bicicletta». Scrive su «Scomodo» il giornale di carta degli studenti: «Mi voglio impegnare di più sui temi ambientali».

Martina, liceo scientifico: raccolta differenziata e poca carne. «La cosa più importante da fare è la raccolta differenziata dei rifiuti — afferma Martina che va a fare la spesa spesso per la famiglia. —. Separo sempre la spazzatura nelle cinque frazioni di plastica, vetro, carta, organico e indifferenziata». Al secondo posto mette il consumo di carne: «Ne mangio poca e cerco di evitare di acquistare prodotti con troppo packaging, preferisco andare al mercato». «Poi bevo l’acqua solo nella borraccia e non compro la plastica, ma credo che senza essere informati sui temi ambientali queste sono solo parole, per questo leggo molto». Ieri mattina è andata a piedi all’appuntamento con gli altri studenti prima di sfilare in corteo.

Il prof: cibi sfusi e senza pellicole, poi solo lampadine a led. «Fino a qualche tempo fa agivo in solitudine, mi guardavano come fossi un “fissato”. Oggi sono circondato da studenti che fanno più e meglio di me, invece. Sono attenti, consapevoli. Ci scambiamo consigli in classe». A testimoniare è Matteo Andreozzi, professore di Filosofia alla paritaria Giovanni XXIII. Ieri era in piazza con decine di ragazzi. «Usiamo caricatori di device elettronici con timer, quelli che danno corrente a tempo; compriamo cibi sfusi e senza pellicole; per lavare mettiamo sfere ecologiche e non detersivi. Basta poco per sentirsi a posto. Rispettiamo la raccolta differenziata e usiamo solo lampadine led. Io poi personalmente non prendo l’aereo dal 1993»

L’universitaria: d’estate pulisco le spiagge e sono vegana. «Che fatica, a casa devo fare la parte della pedante. Sono diventata vegana, rincorro i miei se sprecano l’acqua o usano bottiglie di plastica o mangiano cibi non sfusi. I parenti non si rendono conto dell’emergenza che c’è. Questa estate con mia sorella abbiamo ripulito tutte le spiagge della Croazia dove siamo andate, una ad una». È battagliera Elisa Bianchi, 20 anni, studentessa in Bicocca. «Chi ci governa dovrebbe avere come priorità il futuro, e quindi la sopravvivenza del Pianeta. Io mi informo su Internet, adesso il movimento è diventato di massa, trasversale. In piazza ieri essere così tanti e vederci tutti insieme è stato un sollievo. Una gioia».

L’universitario: bicicletta e prodotti a km zero. «Vado in bicicletta, compro prodotti a km zero e mi informo sulla filiera produttiva, rispetto l’ambiente con azioni semplici e quotidiane. E cerco di diffondere questa cultura: credo in quello che studio. Se anche quelli delle generazioni precedenti si rendessero conto...». Andrea Accattato, 20 anni, è al secondo anno del corso di laurea in Scienze umane dell’Ambiente, del territorio e del paesaggio in Statale. «La priorità è promuovere l’uso di energie sostenibili — continua —. Ci vogliono politiche capaci di produrre un impatto maggiore anche a costo di ricavi economici inferiori. Dovremmo aprirci a nuove prospettive tutte ancora da inventare. Con serietà».

Potito, 12 anni, che a Foggia ha manifestato da solo. Ha protestato da solo contro l’inquinamento. Potito, 12 anni, alunno di seconda media, si è seduto nella piazza del suo paese, Stornarella, nel Foggiano, con un disegno — una mano tesa che regge una torta farcita di plastica — realizzato da lui. Perché una protesta solitaria? «L’autorizzazione a manifestare era solo per le scuole superiori. Ma io ho avuto il permesso dai miei genitori: ognuno di noi deve dare un contributo». Perché lo hai fatto? «Nel Cantico delle Creature si parla di “sorella madre terra”. E la terra è la nostra madre che ci nutre ogni giorno, ci fa vivere. Noi la stiamo avvelenando. E come avvelenare la propria madre». Cosa vuoi dire ai ragazzi della tua stessa età? «Che non bisogna protestare solo un giorno all’anno. Io utilizzo borracce in alluminio e non di plastica. A casa e a scuola. Ai miei genitori ho chiesto di installare un depuratore per l’acqua. Cosi non prenderemo più le bottiglie in plastica che stanno uccidendo l’ambiente. La Terra è il nostro futuro e spetta a noi proteggerla. A tutti, iniziando proprio dai noi più piccoli»

Potito, il dodicenne che  protesta da solo per il clima sulla piazza del suo paese. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. Nel piccolo paese di Stornarella, poco più di 5 mila abitanti in provincia di Foggia, gli scioperi per il clima hanno il volto pulito e gli occhi sinceri di un ragazzino di soli 12 anni sceso in piazza a manifestare da solo. Potito Ruggiero - questo il suo nome - voleva far sentire la sua voce. Lanciare il suo messaggio. Poco importa che accanto a lui non ci fosse nessuno. L’importante era il principio. A raccontare la vicenda è stato il sindaco di Stornarella Massimo Colia: «È ammirevole - ha scritto su Facebook - vedere quanto sia sensibile un bambino di 12 anni che da solo si è appostato in piazza per manifestare contro i cambiamenti climatici, così come stanno facendo migliaia di studenti, oggi, in tutta Italia per aderire al terzo Global Strike For Future. Potito ha disegnato un cartellone con una mano tesa che regge una torta farcita di plastica. Mi sono fermato a complimentarmi con lui e gli ho chiesto le ragioni che lo hanno portato ad aderire a questa iniziativa. Mi ha risposto: “Noi siamo figli di questa terra e con il nostro comportamento la stiamo avvelenando e non può esistere che un figlio avveleni sua madre”». Così, nonostante il ragazzino abbia manifestato in completa solitudine, la sua storia ha iniziato a fare il giro del Web. Uno dei primi a complimentarsi con lui è stato il governatore regionale Michele Emiliano, che lo ha eletto il suo «eroe pugliese di questo Fridays for Future». Nel flusso dei tanti attestati di stima che gli sono già stati tributati, a stupire è la grande somiglianza che lo lega alla prima Greta Thunberg. Anche lei, poco più di un anno fa, aveva infatti iniziato il suo percorso seduta su un marciapiede, a fianco a un semplice cartellone scritto a mano. C'è da scommettere che Potito, la prossima volta, non sarà più solo.

Il ragazzino che manifesta da solo: "La Terra è la nostra madre". Parla al Giornale.it il ragazzino della provincia di Foggia che oggi ha manifestato da solo in occasione del "Fridays For Future". Appassionato di astronomia, guarda le stelle e gli altri pianeti sognando più rispetto per la sua Terra. Emanuela Carucci, Venerdì 27/09/2019, su Il Giornale. "Non ci aspettavamo un clamore del genere, dall'ora di pranzo in poi non si è capito più niente" commenta Alessandra Ciccone, casalinga e madre di Potito Ruggiero, il ragazzino di Stornarella, un Comune in provincia di Foggia, diventato "l'eroe pugliese di questa giornata" (come lo ha commentato il governatore della Puglia, Michele Emiliano).

Da solo in piazza per difendere il clima. Potito, in splendida solitudine, ha protestato in piazza per il "Fridays For Future", la giornata contro l'inquinamento che ha portato migliaia di studenti in strada in tutto il mondo. Ma a Stornarella no, Potito era solo con un cartellone e una borraccia dell'acqua a manifestare. "Ne avevamo parlato in classe il giorno prima con i miei compagni. Gli altri però non hanno voluto partecipare per una questione organizzativa, ma secondo me avevano timore delle conseguenze di questo gesto. Mentre ne discutevamo io pensavo: domani scendo in piazza anche da solo" racconta al Giornale.it, fiero della sua scelta. Dodici anni il prossimo 31 dicembre, Potito ("si chiama come il nonno e c'è anche un santo" ha sottolineato la mamma) è un appassionato di astronomia. "Per la comunione ha voluto un telescopio che usa benissimo e ora conosce tutte le stelle". Potito con il naso all'insù ogni sera guarda la volta celeste osservando i pianeti e gli astri, sognando più rispetto per la sua (la nostra, ndr) Terra che lui stesso chiama "mamma". "La Terra ci dà da mangiare e da respirare, come una madre e noi la stiamo avvelenando. Possono dei figli avvelenare la propria madre?" È questo il messaggio che Potito, coraggioso e "impegnativo" come lo ha definito mamma Alessandra, vuole lanciare. "Di Greta Thunberg mi hanno colpito le sue lacrime di rabbia e quando l'ho vista in televisione ho pensato 'ha scatenato l'umanità!'". Così Potito dal suo piccolo paese di appena 5mila anime ha creduto in quelle lacrime e la sua determinazione ha colpito più dei fiumi di studenti sfilati nelle altre città del mondo. "Ieri è rimasto sveglio fino a tardi per preparare il suo cartellone, fino a stamattina gli ho chiesto se fosse sicuro di protestare da solo e lui mi ha detto: Sì mamma". Perché l'amore, quello per la Terra, muove, come diceva il poeta, “il sole e le altre stelle". E anche i ragazzini. Stelle del futuro.

Clima, i soliti "gretini" in corteo tra slogan, propaganda e ipocrisia. Sono più di un milione gli studenti italiani scesi in piazza per la manifestazione "Fridays for Future": un'onda verde che segue Greta Thunberg, ma ignora 500 scienziati. Fabio Franchini, Venerdì 27/09/2019, su Il Giornale. È il venerdì di Greta e di tutti gli studenti "gretini" del mondo. La manifestazione "Fridays for Future" è globale: un'onda verde che segue pedissequamente i dettami di Greta Thunberg, ignorando però i cinquecento scienziati che hanno firmato una lettera contro l'allarmismo climatico, cercando di far capire che non è in corso nessuna emergenza inesorabile, né crisi irrimediabile. Ecco l'ennesimo venerdì da "gretini". Cari ragazzi, cercate di essere coerenti. E che quanto sostenuto dalla 16enne paladina dell'ambientalismo, ovvero la teoria del riscaldamento globale antropico – cioè causato dall’uomo – non è in verità basato su alcuna verità scientifica. Il documento dei 500 studiosi, intitolato "Ruropean Declaration: There is No Climate Emergency" è stato però censurato, oltre che bollato dai media mainstream come "negazionista", per il semplice fatto di dire che i cambiamenti climatici non dipendono (tutti) dall'uomo e che l'anidride carbonica è positiva per la fotosintesi e la biomassa vegetale. Gli studenti italiani hanno colto la palla al balzo per saltare la scuola e allungarsi il fine settimane e infatti da Milano a Napoli, passando per Torino, Genova, Bologna Roma – giusto per citare le piazze più grosse d'Italia – gli alunni hanno partecipato ai cortei partiti attorno alle dieci di questa mattina. Uno degli organizzatori delle sfilate "green", Gianfranco Mascia, parla di oltre un milione di giovani per le strade: "Considerando che a Roma ora sono circa 200mila, a Milano anche, la stima del numero totale in Italia è di oltre un milione di persone". "Ci avete rotto il clima", "Ci avete rotto i polmoni", alcuni degli slogan dei ragazzi in sciopero. Mentre a Bologna si intona persino "Bella ciao", che col clima e con l'ambiente non c’entra proprio nulla, ma va sempre di moda nella città "rossa". A Milano, invece, in testa al corteo studentesco, ha fatto capolino persino il sindaco Giuseppe Sala. Rimane da chiedersi se le centinaia di migliaia di giovani che quest'oggi non sono andati a scuola sappiano almeno per cosa agitino cartelli, urlino frasi eco-friendly o si dipingano la faccia di verde. E rimane da chiedersi anche se sappiano cosa sostengono quei 500 scienziati, perché la sensazione è che non lo sappiano proprio e che diano ascolto solo alla 16enne svedese, che scienziata non è. La sensazione, insomma, è che molti di loro siano lì solo per non sedersi al proprio banco.

Che tristezza il capitalismo millennial, vegetale e analcolico. Riccardo Ruggeri il 27 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Un giovane millenial svizzero che ama Zafferano.news, e ci fa da sponsor nel Sottoceneri, mi ha invitato a vedere la sua vasta collezione di piante da appartamento, nella fattispecie cactus, felci, aloe. Non sapevo che i millenial americani nel 2016 avessero acquistato il 31% delle piante da appartamento vendute negli Stati Uniti. E non sapevo neppure che l’hashtag #plantsofinstagram contasse 3,5 milioni di post su Istagram. E neppure che i prezzi di alcune piante “millenial” siano esplosi. Non c’è dubbio che questo tipo di atteggiamento di giovani che vogliono convivere con delle piante, seppur non nella foresta ma nell’appartamento, li colloca di diritto nel grande arcipelago dei filo ambientalisti, che ha come capofila morale del mondo nuovo Greta Thunberg. La loro è una vera e propria onda verde che si salda con quella di Greta e di tutti i movimenti ambientalisti. Il sociologo svizzero, studioso delle giovani generazioni, professor Luca Bertossa paragona questa passione per le piante a quella di altri per gli animali. Ma da quando anche la Rete si è impossessata della passione per le piante, tutto è cambiato, essa si è fatta megafono di un nuovo stile di vita. E così sono spuntati come funghi i plant influencer, segno che il successo di questa ideologia era già molto avanti, ormai stava per palesarsi al grande pubblico. E così è stato. Bertossa è cauto nel valutare se questo fenomeno non possa far la fine di altri, improvvisamente evaporati. Ricorda che negli anni ’50 furono i giovani a lanciare lo stile di vita dei jeans, diventato poi fenomeno di massa. Se ricordo bene Gianni Agnelli li sdoganò quando li indossò, con un blazer, in occasione di una visita ufficiale al Governatore della Banca d’Italia a Palazzo Koch. Capiterà lo stesso per il verde casalingo? Le prime indicazione farebbero propendere per il sì: a) aumento dei prezzi dei vasi; b) le aziende che hanno molti millenial fra i loro dipendenti ormai sembrano delle serre; c) stanno nascendo delle start up come la californiana The Still o la newyorkese Rooted (ha coniato uno slogan imbarazzante “Le piante, a differenza delle persone, non scompaiono all’improvviso”) che fanno business. La giornata non poteva finire che in gloria: l’amico millenial mi ha fatto entrare nel magico mondo dei mocktail di cui non sapevo nulla, fermo com’ero ai banali cocktail della mia maturità cosmopolita. Il mocktail è il tipico sottoprodotto, al contempo del Ceo capitalism e dell’ambientalismo radicale. Un cocktail dove l’alcol lo paghi ma non c’è, però c’è il suo sapore, creato per imitazione dal barman, manipolando in modo acconcio erbe e spezie. Il Moscow Mule e il Bellini, scomparso l’alcol, sostituito dal suo sapore, sono “strutturati” con sola frutta. Il secondo con sfere di pesca, il primo con succo di lime e menta fresca. E così sono stati rivisitati tutti gli altri cocktail. Questi, liberatisi dalla schiavitù dell’alcol, sono diventati sciroppo dipendenti. Andate a Ginevra da Mr. Barber, il tempio dei mocktail, qua si trova il mitico Oseille de Guinée, sciroppo di tamarindo, zenzero fresco spremuto, limonata, confettura d’ibisco e, indispensabile, una goccia di Perrier. Siete maturi per entrare nel tabernacolo dell’afrodisiaco politico vegetale. Qua si capisce come il mocktail sia il fil rouge che mancava per trasformare, in termini culturali, la cena in un rito sacerdotale dove chef pluristellati e clienti cosmopoliti, mischiano i loro ruoli e diventano artisti del gusto visivo. Al centro c’è l’impiattamento e il cibo si fa natura morta. I veri gourmet 2.0 ormai il piatto si limitano ad osservarlo, le posate restano intonse, si comportano come i critici d’arte davanti a un’opera di Jeff Koons, mentre si centellinano l’Oseille de Guinée., e, pensosi, commentano il piatto. Siamo nel mondo liquido del Ceo capitalism, destrutturato, vegetale, analcolico. Prosit! Riccardo Ruggeri, 27 settembre 2019

Fulvio Abbate per Huffingtonpost il 28 settembre 2019. Noi, Greta Thunberg e i sovranisti. “Il Primato Nazionale”, quotidiano appunto sovranista, con la firma di Valerio Benedetti, mi riserva affettuose parole: “Fulvio Abbate era un fine umorista e un giornalista fuori dal coro. Fulvio Abbate era un intellettuale irregolare, la coscienza autocritica (e autoironica) della sinistra. Ma ora scrive per l’Huffington Post. E quindi è diventato una «vecchia zia» dell’ideologia globalista. Leggere per credere il suo ultimo editoriale per il quotidiano diretto da Lucia Annunziata”. Scendendo nello specifico, mi si rimprovera d’essermi scagliato contro “il dispositivo ironicamente derisorio su Greta Thunberg” messo in funzione dalla “destra programmaticamente cinica”. Un dispositivo che, parole sempre loro, alla mia persona “appare assolutamente inaccettabile per implicito, greve razzismo. Nel modo e nelle forme in cui un ampio pezzo di mondo, con crudeltà da affresco bruegeliano, osserva e soprattutto irride la persona Greta Thunberg sembra di riconoscere la medesima cifra razzista biologica che la subcultura clinico-politica del nazismo riservava a coloro ritenuti affatto pienamente “normali”, “sani”, se non, nella prospettiva dei lager, “subumani””. Ho lasciato per intero alla controparte la ricostruzione della mia riflessione, ma ci siamo, sostanzialmente è proprio ciò che sostengo, affermo, ironia irrimediabilmente perduta a parte, ora che sono anch’io in procinto di farmi crescere le trecce. In conclusione tuttavia, sullo stesso foglio, mi si imputa di trovare “ingiuriosa la contrapposizione tra il volto corrucciato della Thunberg e l’avvenenza di Ivanka Trump, perché si si tratterebbe di una “contrapposizione mediatico-spettacolare tra la figlia sontuosamente glam del magnate Donald, cui opporre, in un’altra prospettiva, la modestia dell’altra, le espressioni di Greta, il suo abbigliamento ordinario, sottolineando su tutto, esplicitamente, la presenza in lei della Sindrome di Asperger, come segno, giusto per rimanere nella definizione dei clinici nazisti, di scarto sociale, se non proprio allusione al subumano”. Confermo tutto, è proprio così la conclusione che se ne trae. Lo splendore fosforescente, cui nulla va imputato in nome dello smart set e della propria centrale assolutezza nell’ideologia del capitale materiale rispetto al capitale delle idee ergo del pensiero, contrapposta alla ricercata sciatteria, diciamo, “radical chic” dell’altra, la ragazzina “manipolata”, da “zecca” (cit.). L’obiezione del sovranista si riduce a questo punto a una sentenza apodittica: “Insomma, tra le altre cose, ci tocca ricordare ad Abbate pure la regola base dell’immaginario pop: la fica tira più di un carro di mocciosette arroganti” (sic). In definitiva, avrei “ormai vestito i panni dello sbirro globalista”. Così “in quanto paragonare la critica e la satira su Greta alle camere a gas è anche un’operazione condotta proprio adesso che i social network – legittimati dalle fole liberticide del governo giallofucsia – hanno iniziato la caccia alle streghe e hanno messo in moto una macchina censoria contro tutti coloro che esprimono opinioni politicamente scorrette. Quest’editoriale, insomma, ha un retrogusto amarissimo di delazione e di quell’odio che vorrebbe denunciare. Una volta il libertario Fulvio Abbate avrebbe riso di articolesse del genere. Oggi, invece, si è accomodato dalla parte dei questurini del pensiero”. Ci sembra di intuire che, tra i molti atti criminosi, ci viene addebitata, rinfacciata anche la cancellazione delle pagine social di CasaPound e Forza Nuova da parte della cabina di comando, non meno globalista, di Facebook.   Anche Renato Farina, su “Libero”, si ricorda di noi: “Fulvio Abbate sull’Huffingtonpost, ci identifica tra coloro che deformano l’immagine infantile di Greta spingendola nel lager come facevano i nazisti. Qui veramente siamo alla paranoia. È pura viltà, operazione mediatica gigantesca di occupazione delle coscienze, in funzione di un massimalismo distruttivo della nostra già traballante struttura sociale ed economica, la parata trionfale di una ragazzina ridotta a idolo del teatro (Bacone). È stata scovata come un fenomeno della natura, come una volta i circhi inviavano nel Borneo i loro talent scout per recuperare la donna più alta del mondo, o l’uomo a due teste. La sua eccezionalità gonfiata con abilità mostruosa dai genitori - il cui uso della loro figlia è censurato severamente dalla società civile svedese - ci è stata imposta. Questa ragazza dagli spaventi e dalle ire tipiche degli adolescenti è stata addobbata con formidabili dichiarazioni di incantamento da autorità politiche e religiose quale profeta di verità assolute (sostenute non da calcoli ed esperimenti, ma dalla pura enfasi retorica), presa in braccio dall’Onu senza che avesse combinato nulla, come in passato capitò solo a Madre Teresa di Calcutta che qualcosina aveva pur fatto nella sua vita in precedenza, e collocata sul carro come una dea di una nuova religione”. Ai colti, ai cinefili, ai radical-chic già frequentatori di cineforum, non sarà sfuggito, sia pure in filigrana, il riferimento a “Freaks” film di Tod Browing del 1932, capolavoro recitato da veri “fenomeni da baraccone”. Come sanno tutti coloro che davvero mi conoscono, ho sempre sostenuto il diritto all’antipatia, e forse perfino all’astio, dunque reputo che quest’ultimo dato o dispositivo possa e debba esserci nel girmi delle opinioni, si può legittimamente trovare Greta Thunberg insostenibile, espressione di un mondo detestabile cui è cara e intoccabile, metti, la zuppa di farro in luogo di un ben più erotico hamburger MacD. Cose da cui far discendere un corollario sarcastico-satirico implacabile, senza se e senza ma…Così, sempre in questo senso, mi precipito a verificare in che modo e con quali possibili acidi, su “Charlie Hebdo”, la sedicenne svedese è stata trattata, mostrata, indicata: subito mi imbatto nella sua faccia caricaturizzata in copertina, Greta che, insieme alle sue trecce, diventa una sorta di simbolo del suo eventuale potere e evidenza mediatici forse perfino insostenibili, dove il titolo, tradotto, corrisponde a “Questi autistici che governano il mondo”. Dove ogni critica ha un valore dubitativo, muove da un reale senso laico e demolitorio dei miti, un messaggio diretto anche e soprattutto alle “anime belle” di sinistra dell’Esagono, coloro che corrispondono, metti, ai nostri Michele Serra e Michela Murgia, con i loro feticci edificanti. A proposito di Serra: sappiano al “Primato Nazionale” che quest’ultimo mi ha bollato come “fascista” per avere ironizzato sul profumo “Eau de Moi” che egli, l’uomo di satira, produce insieme alla moglie Giovanna Zucconi per la griffe Serra & Fonseca. Resta però che l’attacco a Greta Thunberg, alle sue carenze, ai suoi limiti, alle sue smorfie, alla sua sindrome, confermo, si configura come l’ennesimo obiettivo di una destra essenzialmente reazionaria, sgradevole, provinciale, e fondamentalmente “nazista” (lo ha detto anche Bergoglio, riferendosi alla propaganda e al linguaggio sovranista di Salvini, con queste esatte parole: “nazista”), una destra oscena che dietro al riferimento costante alla vergogna circa l’esistenza di un “pensiero unico”, con l’eros mortuario di sempre, torna a mostrare la solita volontà di potenza piccolo-borghese, rionale, le facce dei cognati e delle cognate da antica maggioranza silenziosa, ciò che personalmente ho definito, appunto, “il ’68 della destra”ossia riprendersi l’eden perduto il 25 aprile del 1945. Non è colpa nostra se la destra italiana, con i suoi intellettuali di riferimento, custodisce l’oscena subcultura che implicitamente ancora versa lacrime sulla sconfitta dell’esercito del “Reich Millenario”, per causa della quale avremmo assistito alla “morte dell’Europa”, non è colpa nostra se tra i suoi editorialisti sotto l’alibi del “mainstream”, del “cattiverio” e altre altezzosità da cinto erniario, c’è la difesa di Dio Patria Famiglia e il ritratto di Mussolini ereditato in famiglia, una destra che ci costringe, ben al di là d’ogni riflessione sul clima e l’allarme sul futuro del pianeta, a difendere perfino le smorfie e le trecce di Greta Thunberg. A questo punto attendiamo soltanto le telefonate di Soros e di Zuckerberg e d’ogni altro partecipante al nuovo complotto demo-pluto-giudaico-massonico che ci dica “Grazie, zia”.  

Renato Farina per ''Libero Quotidiano'' il 28 settembre 2019. Greta ha torto, ma pare che non si possa dirlo. Perché chi lo fa diventa automaticamente nazista. È la classica reductio ad Hitlerum tipica di chi non vuole entrare in argomento. La nostra colpa è di aver accettato i termini della questione proprio come li ha posti la ragazza svedese. È vero o falso che i cambiamenti climatici porteranno presto alla distruzione dell' umanità? È vero o falso che causa decisiva e scatenante di questa presunta prossima catastrofe sono i comportamenti degli uomini, la loro industria, l' uso delle automobili, le centrali elettriche, l' allevamento del bestiame e così via? Siccome sono giudizi categorici che Greta asserisce essere basati sulla scienza, con molta calma rispondiamo: balle, menzogne, cialtroneria apocalittica. Abbiamo opposto in passato gli argomenti pacati, nati dalle misurazioni delle temperature nei primi quindici anni del millennio, esposti al Senato nel 2015 dal premio Nobel della fisica, non della letteratura o della pace, Carlo Rubbia, che ha dimostrato che il mondo non si sta affatto scaldando come un termosifone, e anzi le temperature medie sono calate di 2 gradi centigradi. Ieri abbiamo citato la lettera di 500 scienziati che contraddicono Greta, ovviamente inascoltati. Insomma non è vero che la totalità della comunità scientifica sia d' accordo con Greta, anzi solo una piccola minoranza appoggia il suo estremismo francamente fanatico. Persino chi dà molto peso alle cause antropiche nelle mutazioni climatiche, si guarda bene dal mettere timbro di scienza a farneticazioni populiste, dogmatiche, oscurantiste, inossidabili al dubbio, come quelle che ci hanno invaso tutti e invasato molti. E' paranoia - Fulvio Abbate sull' Huffington post ci identifica tra coloro che deformano l' immagine infantile di Greta spingendola nel lager come facevano i nazisti. Qui veramente siamo alla paranoia. È pura viltà, operazione mediatica gigantesca di occupazione delle coscienze, in funzione di un massimalismo distruttivo della nostra già traballante struttura sociale ed economica, la parata trionfale di una ragazzina ridotta a idolo del teatro (Bacone). È stata scovata come un fenomeno della natura, come una volta i circhi inviavano nel Borneo i loro talent scout per recuperare la donna più alta del mondo, o l' uomo a due teste. La sua eccezionalità gonfiata con abilità mostruosa dai genitori - il cui uso della loro figlia è censurato severamente dalla società civile svedese - ci è stata imposta. Questa ragazza dagli spaventi e dalle ire tipiche degli adolescenti è stata addobbata con formidabili dichiarazioni di incantamento da autorità politiche e religiose quale profeta di verità assolute (sostenute non da calcoli ed esperimenti, ma dalla pura enfasi retorica), presa in braccio dall' Onu senza che avesse combinato nulla, come in passato capitò solo a Madre Teresa di Calcutta che qualcosina aveva pur fatto nella sua vita in precedenza, e collocata sul carro come una dea di una nuova religione. Sarebbe stato ovvio che una ragazza esibita come una incarnazione in forma di fanciulla della Divina Madre Terra, che si esprime in termini apocalittici, quale esponente di una religione panteistica, con i suoi dogmi, suscitasse una certa opposizione. Ci stiamo contando in Italia sulle dita di una mano. E ci pare sacrosanto anche denunciare il lavoro minorile cui è stata costretta come una schiava dalle potenze mediatiche e finanziarie che alitano dietro di lei, costruendo il tabù per cui chiunque critichi lo stile oratorio violentissimo e gli occhi spiritati diventa immediatamente uno squilibrato Mengele pronto a sezionare la signorina affetta da morbo di Asperger in un apposito lager. L'illusione - Ci stanno imponendo di fissarla senza muoverci perché ci ipnotizzi meglio? Non ce l' ho affatto con lei, ma con l' immagine pubblica che è stata estratta da lei trasformandola in icona mistica, quasi fosse l' unica anima pura e innocente in un mondo dove gli adulti - tranne i suoi genitori, si presume - sono tutti criminali che hanno tolto il futuro ai giovani, ed anzi osano essere ancora vivi e magari timidamente alzare il dito e dire: provaci quello che dici. Ricordi Greta quando nel 1989 gli scienziati ammonirono che senza un radicale cambiamento dei consumi e della produzione di anidride carbonica entro il 2000 e non un giorno oltre, i mari si sarebbero innalzati di due metri sommergendo New York e con un disastro apocalittico? No, che non lo sa, non era nata. All' Onu avrebbero dovuto passarglielo quel testo. Oppure le ha spiegato magari un piccolo, insignificante ma onesto professore di geografia perché la Groenlandia si chiami così, cioè "Terra Verde"? E che nel Seicento ci fu una glaciazione poi retrocessa in Europa. Il meteorite che annientò i dinosauri l' hanno tirato gli uomini di oggi dopo aver inventato la macchina del tempo? A proposito, come mai il buco dell' ozono è sparito dalla circolazione? Chi l' ha tappato? Il fatto è che non lo aveva provocato la nostra razza, e non l' hanno chiuso con un rammendo gli ecologisti. Sappiamo così poco. E quel poco che sappiamo nega la tracotanza della Greta, divina per l' Onu e forse per il Vaticano ma non per noi. Per noi divina resta solo Greta Garbo. Noi non vogliamo nessuno in nessun lager, ma che si smonti questo palco galattico su cui viene trascinata per catechizzarci una ragazzina ignorante come una capretta, la quale è competente solo sui suoi sentimenti montati come panna acida da chi finge di volerle bene, e invece le fa marinare la scuola.

“GRETA? UNA MOCCIOSA VIZIATA”. Da Adnkronos il 6 ottobre 2019.  Greta Thunberg è per il presidente russo Vladimir Putin "gentile e sincera, anche se poco informata" delle questioni globali. E l'attivista svedese che dalle Nazioni Unite di New York ha accusato i leader mondiali di aver rubato il futuro ai giovani "con le loro parole vuote", rinunciando a perseguire politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici, ha incorporato, per poche ore, la definizione nel suo profilo Twitter, come aveva già fatto con commenti ancora più denigratori di Donald Trump. "E' deplorevole che qualcuno usi bambini e adolescenti", ha aggiunto Putin, nel suo intervento al Forum per l'energia di Mosca, mercoledì, sposando la tesi complottistica secondo cui la giovane svedese, e i suoi coetanei che protestano in tutto il mondo, sono manovrati. Tesi cavalcata in questi giorni dai media russi compatti (Sputnik, Rt, Rossikaya Gazeta e i canali tv) che, arrivando a citare come da canovaccio perfino George Soros (Argumenty i Fakty), rilanciano idi fatto con le loro critiche a Greta la preoccupazione del Cremlino per movimenti spontanei di giovani, come quello che quest'estate a Mosca ha contestato la bocciatura dei candidati indipendenti alle elezioni locali di settembre. "Non condiviso l'entusiasmo su di lei", ha quindi aggiunto il presidente della Russia, quarto paese al mondo per emissioni, nel gruppo dei peggiori della lista dei firmatari degli Accordi di Parigi per le misure adottate sul fronte dell'impegno per stabilizzare l'aumento delle temperature a due gradi sopra il livello pre industriale (secondo i dati raccolti dall'organizzazione non governativa Climate Action Tracker). Anche il presidente francese, Emmanuel Macron, ha criticato Greta, che è tornata a identificarsi nel suo prorilo Twitter come "16 year old climate and environmental activist with Asperger’s". "Nessuno ha spiegato a Greta che il mondo contemporaneo è complesso e diversificato, che la gente in Africa o in molti altri paesi asiatici vogliono aveva la stessa ricchezza della Svezia", ha detto Putin. Il governo russo nei giorni scorsi ha approvato una mozione per l'attuazione degli accordi di Parigi che non saranno ratificati in Parlamento. Le parole vuote dei leader sulla lotta ai cambiamenti climatici denunciate da Greta rischiano di rappresentare a pennello il neo ambientalismo di Mosca.

Da Automoto il 6 ottobre 2019. Il vulcanico Jeremy Clarkson, storico volto di Top Gear ora impegnato su Amazon Prime Video con The Grand Tour, non le manda a dire su Greta Thunberg. Nella sua rubrica sul Sun, Clarkson si è scagliato contro l'attivista svedese, definendola una «mocciosa viziata» e spiegando che a suo avviso dovrebbe «tornare a scuola e stare zitta». «Come osi - tuona Clarkson - salpare per l'America su uno yacht in fibra di carbonio che non hai costruito da te, dal costo di 15 milioni di sterline, cifra che non hai guadagnato, e dotato di un motore diesel di riserva di cui non hai fatto menzione». «Sei viziata - intima Clarkson - perché quando hai detto a mamma e papà di smettere di prendere l'aereo e di non mangiare carne, non si sono comportati come genitori assennati ignorandoti. Ti hanno detto di sì e hanno mantenuto la promessa». Quanto alle battaglie di Greta, Clarkson scrive: «Sbattere i pugni sul tavolo non cambierà nulla; lo imparerai quando avrai qualche anno in più. Sono d'accordo con te che il mondo si sta riscaldando. Potresti anche avere ragione sul fatto che l'uomo possa avere a che fare con questo». «Non c'è dubbio - continua Clarkson - che con l'allargamento dei deserti, andando a rendere inabitabili zone in Africa e nel Medio Oriente, l'Europa si troverà ad affrontare un'inimmaginabile emergenza rifugiati. Bisogna fare qualcosa a riguardo, e io ho un'idea. Torna a scuola il prima possibile e segui attentamente le lezioni di scienza, perché sarà proprio la scienza a risolvere il problema prima o poi». A non concordare con Clarkson è sua figlia, Emily, che su Twitter ha condiviso parole di stima per la giovane attivista. 

Greta Thunberg, lo scienziato a Libero: "Attaccarla è penoso". La risposta: la lista dei 500 che la contestano. Libero Quotidiano il 4 Ottobre 2019. "Attaccare Greta Thunberg è penoso e ridicolo". Questo il titolo all'intervento su Libero in edicola oggi, venerdì 4 ottobre, di Matteo Miluizio, astrofisico dell'Agenzia spaziale europea. Miluzio aggiunge che è "vergognoso prendersela con una minorenne", perché a suo giudizio "gli studi sul clima confermano che ha ragione. Lo scienziato, nell'intervento, passa in rassegna una serie di articoli che depongono a favore della Thunberg, rivolgendosi in particolare a Renato Farina, che giorni fa sul nostro quotidiano aveva anticipato l'esistenza di 500 personalità - tra scienziati, ambasciatori e altre cariche - che contestano la bontà delle tesi della Thunberg. Sempre su Libero in edicola oggi, dunque, la replica di Renato Farina a Miluzio: "Il problema non è lei ma ciò che sostiene", il titolo. In estrema sintesi, Farina sostiene che "usare la Thunberg come scudo umano è una mossa disonesta". Dunque Farina aggiunge che "tanti scienziati dicono cose diverse". E a tal proposito, vi proponiamo la lista integrale delle 500 personalità di cui vi abbiamo dato conto. Il titolo è emblematico: "There is no climate emergency", non c'è nessuna emergenza. Nella premessa, viene sottolineato come il network di 500 tra scienziati e professionisti chieda che il tema ambientale e climatico venga usato in modo meno politico, ma rigorosamente scientifico. Inoltre, sottolineano come la scienza oggi non abbia risposte precise circa la responsabilità dell'uomo nel cambiamento climatico. Per inciso, nella lista figurano 113 personalità italiane.

Dietro i cortei di Greta Thunberg, si intravede una rete unica. Dietro Greta esiste sorta di rete transnazionale per il clima dove accanto alla "spontaneità" e alla indiscussa buona fede di milioni di persone esiste anche una regia ben definita. Roberto Vivaldelli, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. Lo ha spiegato qualche giorno fa con estrema chiarezza l'ex ministro Giulio Tremonti: "Se uno pensa che Greta Thunberg sia un fatto spontaneo e naturale, forse non ha idea di quale macchina politica e mediatica sta dietro Greta, non è mica Giovanna D’Arco, è un fenomeno complesso, con un investimento di capitali straordinario alle spalle ed è il tentativo di ridisegnare la struttura industriale fatta con la globalizzazione". In effetti, di così "spontaneo" e naturale nel fenomeno Greta Thunberg c'è ben poco e non perché l'attivista svedese per il clima sia insincera ma perché è inconsapevolmente la punta dell'iceberg di un meccanismo politico-mediatico ben oliato, organizzato. Una sorta di rete transnazionale per il clima dove accanto alla spontaneità e alla buona fede di milioni di persone, ai social e a tutto quanto, esiste anche una regia ben definita. Come nota Daniele Capezzone su La Verità, basti pensare ai cartelli e gli slogan che, nelle piazze di tutto il mondo, hanno caratterizzato le manifestazioni verdi, con assonanze quasi letterali, con frasi identiche "casualmente" riprodotte nelle lingue di mezzo mondo. Da quello più "ribelle" e volgare come "Fuck me, not the Earth" che diventa "Fotti me, non la Terra" a quello più politicamente corretto "There is no planet B", tradotto pari pari in "Non c' è un pianeta B". Pure coincidenze dettate dalla nuova moda eco-chic? Può darsi, ma questa è soltanto la superficie di un movimento appoggiato da molti "potenti" del pianeta e celebrato persino a al World Economic Forum di Davos. La prima "rivoluzione" contro i potenti sponsorizzata dagli stessi potenti, da Bill Gates a Christine Lagarde, passando per Barack Obama. In una scrupolosa e ben documentata analisi pubblicata su New Eastern Outlook, lo studioso F. William Engdahl, consulente e docente di rischio strategico, va al cuore del fenomeno Greta. Engdahl cita The Manufacturing of Greta Thunberg, libro pubblicato dall'attivista per il clima canadese Cory Morningstar, che prova a smascherare il "bluff" del climaticamente corretto. L'attivismo di Greta è legato - forse inconsapevolmente - ad Al Gore, presidente del gruppo Generation Investment. Il partner di Gore, David Blood, ex funzionario di Goldman Sachs, è membro della Task Force sul clima presieduta dal miliardario Micheal Bloomberg. Greta Thunberg e la sua amica diciassettenne americana, Jamie Margolin, sono state entrambe nominate come "consiglieri speciali" della Ong svedese We Don't Have Time, fondata dal suo Ceo Ingmar Rentzhog, l'esperto di marketing e pubblicità che per primo ha diffuso sui social gli scioperi di Greta. Rentzhog è membro dei leader dell'Organizzazione per la realtà climatica di Al Gore e fa parte della Task Force per la politica climatica europea. Il Climate Reality Project di Al Gore è partner di We don't have time. Secondo Morningstar, “il complesso industriale non-profit può essere considerato l’esercito più potente del mondo. Impiegando miliardi di dipendenti tutti interconnessi, le campagne odierne, finanziate dalla oligarchia dominante, possono diventare virali nel giro di poche ore, instillando pensieri e opinioni uniformi, che gradualmente creano l’ideologia desiderata. Questa è l’arte dell’ingegneria sociale”. Questo, ad essere onesti, non significa per forza di cose che Greta Thunberg sia una marionetta o un prestanome di qualche miliardario. O che sia sul libro paga di qualcuno. Ma non si può nemmeno pensare che una campagna mediatica di queste dimensioni globali sia del tutto "spontanea" o nasca nel nulla. I collegamenti sopra elencati ne sono una prova. "L'immagine che emerge è il tentativo di una riorganizzazione finanziaria dell'economia mondiale usando il clima - osserva Engdahl - per cercare di convincere la gente comune a compiere sacrifici indicibili per salvare il nostro pianeta". Peraltro, come abbiamo spiegato in questo articolo, anche se le economie avanzate azzerassero le loro emissioni entro il 2030 – come auspica Greta, incurante o ignara delle ripercussioni sociali – i target per il contenimento dell’aumento della temperatura entro i 2° non sarebbero raggiunti. Tuttavia, auspicare che le economie emergenti taglino le emissioni di gas climalteranti significa auspicare che si blocchi il meccanismo attraverso cui centinaia di milioni di persone stanno fuggendo dalla povertà. Con conseguenze umanitarie, sociali e politiche potenzialmente catastrofiche. Di questo però né Greta né i suoi seguaci osano parlare mai.

Fridays for Future, la politica sale sul carro dei ragazzini. Governo e maggioranza tentano a parole di mettere il cappello su un movimento nato proprio per denunciare l'inazione della politica. Che non cessa: sul Dl Clima Ambiente e Tesoro già litigano. Gabriella Cerami suhuffingtonpost.it il 27 settembre 2019. La politica sale sul carro dei ragazzini. Se gli studenti hanno dimostrato di saper fare il loro mestiere, riempiendo le piazze delle città di colori, cartelli, emozioni e progetti per la lotta all’inquinamento, non si può dire lo stesso di chi in questi anni ha avuto la responsabilità di dare risposte ai più giovani sul tema dei cambiamenti climatici e invece ha sempre fatto spallucce. Tutti i partiti, chi più chi meno, nessuno escluso, hanno messo l’ambiente sempre all’ultimo posto della loro azione politica, motivo per cui il tentativo di mettere il cappello su questa enorme spinta giovanile e popolare appare oggi ancora di più opportunista e patetico. Per tutto il giorno infatti il governo e la maggioranza M5s-Pd elogiano la lotta, quasi provando a farla propria con un fiume di dichiarazioni tra tv e agenzie di stampa. Basti pensare che il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, con una circolare, ha invitato i presidi delle scuole a giustificare gli studenti che hanno partecipato alle manifestazioni del terzo Global Strike For Future. Non solo. Fioramonti, nei suoi uffici del dicastero, ha anche incontrato una delegazioni di alunni, non tenendo conto che i ragazzi hanno popolato le strade delle città proprio per urlare contro i potenti “e tutti quelli che fanno finta di non sentire la nostra voce”. L’esecutivo, peraltro, per adesso ascolta ma non agisce. Il premier Giuseppe Conte promette generiche “soluzioni concrete” perché vuole “un’Italia verde”. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa invece si scontra con il ministero dell’Economia in una lotta a colpi di bozze del cosiddetto Decreto Clima ovvero quella che dovrebbe essere la prima risposta concreta ai bisogni del movimento Fff. Tradotto significa che, mentre gli studenti erano in piazza a far sentire le loro ragioni, i dicasteri litigavano gli uni contro gli altri nel flusso delle agenzie che battevano bozze differenti. A un certo punto della giornata succede anche questo. Il titolare dell’Ambiente, colui che più di tutti gli altri ha la responsabilità del provvedimento, è costretto a diffondere una nota in cui viene precisato che lui non ha diramato alcun testo: “La situazione – scrive – è in costante evoluzione”. Poi da ambienti ministeriali si apprende che molte bozze in circolazione sono i “desiderati” di alcuni ministri. Con ogni probabilità il riferimento è al Tesoro che dal canto suo cerca di far quadrare i conti. Secondo uno dei testi in circolazione sarebbe sparite le due misure più sostanziose,  il taglio graduale ai sussidi ambientalmente dannosi (del peso totale di circa 17 miliardi) e l’incentivo per i prodotti sfusi venduti “alla spina”. In un’altra bozza invece il taglio ci sarebbe ancora ed è quella che si avvicina alla proposta del ministro Costa che aveva parlato di tappe forzate che prevedevano tagli pari ad almeno il 10% l’anno dal 2020, fino al “progressivo annullamento entro il 2040″. E’ qui che il decreto si è inceppato la scorsa settimana e si sta inceppando ancora in mancanza di un accordo chiaro e preciso, nonostante oggi sia un giorno dal valore altamente simbolico per la lotta contro i cambiamenti climatici. Purtroppo è il giorno in cui i politici provano a spingersi più in là dei ragazzi solo a parole. Lo stesso Costa invita tutti ad “agire subito” contro i cambiamenti climatici, più in là ancora va il sottosegretario Fraccaro: “Proporremo all’Ue di scomputare dal calcolo del deficit la spesa per investimenti a favore dell’ambiente: è necessario introdurre una Green rule ragionando su una soglia di scomputo pari al 2,5% del Pil per ogni Stato membro”. Dario Franceschini, il capo delegazione del Pd, dice che “la legge di bilancio dovrà avere al centro di ogni scelta grande e piccola l’ambiente e la sostenibilità. Saremo intransigenti su questo”. Sullo stesso binario Rossella Muroni di LeU, che propone di inserire nella manovra il concetto del “chi inquina paga”. A fine giornata restano le voci allegre e vive degli studenti e il triste frastuono della politica che prova a cavalcare un movimento che nasce proprio in antitesi a essa.

Quel Gretino del ministro Fioramonti “giustifica” solo i cortei che piacciono a lui. Francesco Storace sabato 28 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Quel Gretino del ministro Fioramonti ha fatto felici tante creature. Scuole deserte perché tanto quando si sciopera per il clima vale la giustificazione. E’ la felicità al governo che ieri ha raggiunto il suo apice, nelle piazze più amate dai marinari. Studenti caricati a mille, magari incollati con le orecchie a smartphone ecologici, prodotti nottetempo dal ministro dell’ambiente Costa. Peccato che le istituzioni debbano possedere il requisito della serietà, soprattutto in chi è preposto ad esse. Quella che resta una libera e sicuramente legittima scelta legata all’opinione delle persone, diventa un obbligo per il ministro della scuola. E’ lui, Fioramonti, che decide qual è il corteo buono e quello brutto, quando uno sciopero può far marinare la scuola e quando no. Chissà se in piazza va CasaPound che cosa possono fare gli studenti…Non è tollerabile che il titolare dell’Istruzione, come in un regime, si possa permettere di giustificare solo le sfilate gradite a lui. Perché nessuno potrà mai giustificare la sua assenza dal dovere istituzionale di garantire il buon andamento degli studi, frequenze comprese. Un tempo avevamo la nonna che sta male, oppure il cuccioletto da far visitare dal veterinario. Adesso sono sufficienti i cortei. Quelli che piacciono a sua eccellenza il ministro. Andrebbe rimosso per indegnità uno così. Anche perché va detta una cosa semplice semplice, ad un esponente di governo che in maniera papalina pensa di poter impartire giustificazioni urbi et orbi. Ma che ci stai a fare al ministero se aspetti uno sciopero per fare quelle cose che ti piacciono tanto? Fioramonti è quello delle tasse sulle merendine. Ma se fanno male – come pare di capire dal suo stranissimo pensare – allora non le devi tassare, ma le devi togliere di mezzo. Se sul clima la pensi come gli studenti, non devi aprire le classi per farli uscire, ma devi adottare con i tuoi colleghi provvedimenti adatti a far rientrare la protesta. Di ministri di lotta e di governo ne abbiamo già avuti abbastanza. E nessuno di loro è riuscito bene.

Un corteo contro l’eutanasia lo giustificherà? Vogliamo essere sicuri che il ministro Fioramonti sia schierato contro la droga. Un corteo di studenti contrario alla cannabis meriterebbe l’esonero dalle lezioni o no? E se di questi tempi bui il Parlamento volesse spalancare ancora di più della Corte Costituzionale le porte all’eutanasia, egli autorizzerebbe l’uscita dei nostri figli dalle classi per protestare? Quegli studenti che avessero ancora la voglia di battersi per la famiglia naturale fondata sul matrimonio, avrebbero diritto allo sciopero con giustificazione? Oppure torniamo al tempo del Marchese del Grillo, io so’ io….? Chiarire, prego. Fioramonti si è infilato in un tunnel dal quale non potrà più uscire, perché con i diritti non ci si può scherzare. Se puoi protestare tu, posso farlo anche io e persino – guarda un po’ – per i motivi opposti ai tuoi. Se un ministro pensa invece di sindacare sulle idee degli studenti, si fa male, perché non è il suo mestiere. A proposito, eccellenza: sa mica che c’entrava Bella Ciao cantata dai giovani climatizzanti? Lo gridavano alla Luna? Per questo li ha giustificati?

Il clima è “cosa loro”. A Milano cacciati dal corteo gli studenti leghisti, scontri a Palermo. Stefania Campitelli venerdì 27 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Sfilano in piazza per il clima sulla scia del richiamo planetario della “Greta dei miracoli” ma poi cacciano i ragazzi  non allineati. Nel giorno del Friday For Future in alcune città gli studenti della Lega sono stati fischiati e allontanati dal corteo studentesco come se la tutela dell’ambiente e le mobilitazioni ecologiche fossero “roba loro”. A Palermo, invece, una trentina di persone vestite di nero ha cercato di spezzare il serpentone che sfilava per il centro della città provocando tensioni e cariche da parte della polizia con fuggi fuggi generale. A dare la notizia della discriminazione degli studenti del Carroccio è stato il deputato e coordinatore federale della Lega Giovani, Luca Toccalini: «Solidarietà ai ragazzi della Lega cacciati dal corteo per l’ambiente a Catania e insultati a Milano e Forlì. A differenza della sinistra e dei sindacati ci siamo presentati in tante piazze italiane senza bandiere di partito, ma nonostante questo una certa parte politica a suon di chiacchiere vuole intestarsi una battaglia che non è loro, ma di tutti i cittadini. Ringrazio i tantissimi giovani che ci hanno incitato a non mollare, insieme a loro nelle prossime settimane costruiremo un manifesto per l’ambiente con proposte concrete per il Paese». Al corteo di Palermo invece ci sono state tensioni: la polizia ha acquisito alcuni filmati degli scontri avvenuti all’incrocio tra piazza Castelnuovo e via Ruggero Settimo. Secondo una prima ricostruzione, sembra che un gruppo di giovani appartenenti all’estrema destra siano arrivati con un loto striscione, tutti vestiti di nero, ma invitati ad andare via da un altro gruppo vicino agli antagonisti. Sono così partiti gli insulti e anche qualche scontro fisico tra manifestanti. Ma senza conseguenze. L’intervento dei poliziotti in tenuta antisommossa ha evitato che la situazione degenerasse.

Hanno avvelenato il clima. Andrea Indini su Il Giornale il 27 settembre 2019. L’ultima moda dei radical chic è la propaganda verde. Si stanno riscoprendo tutti seguaci dell’ultrà ecologista Greta Thunberg. Non che il sottoscritto ami inquinare. Mi sbatto tutti i giorni a fare la raccolta differenziata dei rifiuti: la plastica da una parte, l’umido dall’altra e così via. Se posso, poi, preferisco prendere i mezzi pubblici anziché mettermi in coda alla guida della mia macchina. Tutto, però, ha un limite. E il populismo ideologico con cui ci stanno perseguitando l’ha sicuramente valicato. È diventato una sorta di spartiacque: da una parte loro, i buoni, che scendono in piazza per battersi contro i cambiamenti climatici; dall’altra parte noi, i cattivi, che certo non vogliamo la combustione del mondo ma che non crediamo neppure che dobbiamo tornare all’età della pietra per salvare il futuro dei nostri figli. Non nascondo che l’intervento di Greta all’Onu mi ha spaventato . Non ne sono rimasto affascinato, come i più hanno scritto (per strappare qualche like) sui social network. Ho trovato il suo livore eccessivo e le sue lacrime forzate. L’odio con cui ha pronunciato la propria disanima nei confronti del sistema e gli applausi che è riuscita a strappare mi hanno, in qualche modo, trasmesso la drammatica sensazione che persino la sacerdotessa del clima rientri in un disegno politico che in Europa sta prendendo piede da qualche mese a questa parte. I Verdi stanno crescendo ovunque e chiunque si permetta di dissentire da certe tesi viene letteralmente linciato. Ne sanno qualcosa i 500 scienziati che nei giorni scorsi hanno presentato un documento per smentire le tesi (ideologiche) della Thunberg. Le loro tesi non sono state prese sul serio ma messe sotto censura. L’ecologismo spinto è diventato una moda. E poco importa se non è affatto suffragato da evidenze scientifiche. Questo delirio verde ha contagiato (da ultima) anche l’Italia. Anche da noi sono arrivati i “Fridays for future”, cortei benedetti dal governo giallorosso che ha invitato gli insegnanti a giustificare gli studenti che marciano nelle strade. Dicono che oggi, a manifestare, erano in un milione. Tutti seguaci di Greta. Ma mi domando: quanti di questi sono disposti a inseguire un “decrescita felice” (per dirla alla grillina)? A rinunciare agli smartphone e al 5G? A evitare di prendere l’aereo per andare a zonzo per l’Europa? A bandire i fast food e le bevande zuccherose dalla propria dieta? A non cambiarsi le mutande per giorni? Insomma, sono disposti a tutte queste rinunce per una non ben precisata religione che, ad oggi, non ha alcun sostegno scientifico? Questo non significa che l’inquinamento non esista e che non si debba far nulla per ridurlo. Al contrario. Serve un confronto scientifico onesto, lontano dal tribunale del popolo aizzato da Greta (e da chi la manovra). Solo su queste basi potremo fare passi avanti e non ridurre il nostro futuro a uno slogan ideologico. O ecologico. Ma solo per finta.

DALL’ACCOUNT TWITTER DI VITTORIO FELTRI il 27 settembre 2019. "La vocazione delle masse è da sempre quella di dare retta ai pazzi, meglio se criminali come Stalin e Hitler. Quindi non stupiamoci se oggi  ha molto seguito una ragazzina goffa che ha finito a malapena la terza media".

Virginia Piccolillo per Corriere.it il 27 settembre 2019. «Se continuiamo ad affrontare i problemi alla Greta siamo fritti. Siamo all’ideologia dell’incompetenza».

Massimo Cacciari, lei non apprezza il via libera del ministro Fioramonti agli studenti che vogliono partecipare al #Fridayforfuture?

«Mica il ministro può giustificare i ragazzi. O è diventato un suo potere?».

Non lo impone.

«Ecco. Allora sarà una manifestazione autorizzata. Come il “Giorno della memoria”. Solo che è di un’assurdità pazzesca».

Perché?

«I problemi non si affrontano in termini ideologico-sentimental-patetico».

Allora come?

«In termini scientifici. Userei le ore di queste manifestazioni per fare seminari autogestiti ai quali far partecipare lo scienziato che racconta come va il clima».

Alcuni forse lo sanno solo grazie a Greta.

«C’era bisogno di lei? Lo avevano già detto fior fior di scienziati. Forse non avevano l’eco di questa bambina».

Appunto, se serve a moltiplicarne l’eco non può essere utile?

«Ma non è dicendo “mi avete rubato i sogni” che si affrontano i problemi».

Piuttosto?

«Capendo problemini che sfuggono totalmente alla bambina. Bisogna porsi il problema delle risorse disponibili. Se uno sviluppo economico è compatibile con l’ambiente».

Non le sembra che comunque Greta stimoli la nascita di una coscienza critica tra i suoi coetanei?

«Ma non nascono così le coscienze critiche!».

Invece?

«Lentamente, faticosamente, con la formazione. Greta dovrebbe andarci a scuola. Forse si renderebbe conto che lei è svedese, i ragazzi che scioperano sono europei, ma in piazza non ci sono né indiani, né cinesi, né brasiliani. Non mi pare un problemino da poco».

C’è chi accosta questo risveglio di impegno politico nei ragazzi ad un nuovo ‘68. È così?

«Ma cosa c’entra? Nel ‘68 si scendeva in piazza per la riforma della scuola e per una questione politica generale... E comunque ho sbagliato strada, la linea è disturbata, la saluto». Clic. 

Vittorio Feltri contro Gennaro Migliore a L'aria che tira: "Eco-catastrofe? Vai a leggerti Rubbia". Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Il direttore di Libero Vittorio Feltri si scontra con Gennaro Migliore di Italia Viva sul tema di Greta, ambiente, e della manifestazione dei giovani di tutto il mondo: "Milano è la città più inquinata d'Italia ma è anche la città dove si vive più a lungo in Italia, si vede che il progresso fa bene, non male. Non bisogna credere ai cretini", ha detto all'Aria che tira Vittorio Feltri, che ha sottolineato come spesso le masse inseguano i pazzi, "meglio se criminali". Poi incalza: "Parla Rubbia ed è come se parlasse uno stupido". Gennaro Migliore, dice davanti a Myrta Merlino alla conduzione, risponde: "Io l'ho letto Rubbia, bisogna leggere i testi e non guardare solo le clip". "Bravo", chiosa Feltri, che sottolinea come preferisca credere al premio Nobel piuttosto che alla "Gretina".

Greta, sacerdotessa del clima che non ha nulla di scientifico. Altro che scienza: quello di Greta Thunberg è un populismo demagogico intriso di millenarismo che di "scientifico" non ha proprio nulla e assomiglia più a una "fede". Roberto Vivaldelli, Venerdì 27/09/2019, su Il Giornale. E chi lo dice che Greta Thunberg rappresenta la "scienza"? Come nota il politologo Alessandro Campi su Istituto di Politica, la causa perorata da quest’ultima è certamente nobile e grandiosa: la salvaguardia del pianeta contro il rischio – dato come imminente – della sua distruzione causata dai cambiamenti climatici. Ma come definire, se non come tipicamente populiste, le modalità attraverso le quali Greta e i suoi seguaci stanno conducendo la loro battaglia? Come spiega sempre Campi, nel fenomeno Greta Thunberg gli stilemi tipici del "populismo", "sino a diventare qualcosa a metà tra una moda politico-mediatica che si fa forte della nostra cattiva coscienza e un movimento di massa che inclina verso il misticismo para-religioso, sono tutti facilmente riconoscibili. A partire dal più elementare e costitutivo d’ogni populismo: la divisione del mondo in buoni (i molti) e cattivi (i pochi). I primi sono gli abitanti del pianeta (il popolo inteso in questo caso come umanità), i secondo sono i capi di governo e gli esponenti dell’establishment finanziario e industriale mondiale". Inoltre, osserva il politologo, le posizioni che Greta sostiene in materia d’ambientalismo sono intrise, a dir poco, di un allarmismo che sconfina nel millenarismo di marca apocalittica. Una tesi, quella di Greta Thunberg, che nessuno può mettere in discussione se non vuole essere tacciato di "negazionismo" sul clima o altro. Ma che, per l'appunto, di "scientifico" non ha proprio nulla perché sul tema, piaccia o meno ai climaticamente corretti, un dibattito esiste, soprattutto su quanto, nel concreto, l'uomo incida nel processo dei cambiamenti climatici. Discuterne è sintomo di "anti-gretismo"? No. Almeno che, per i "gretini", la "scienza" non sia, in realtà, una fede incondizionata in ciò che la loro beniamina dice. Come abbiamo riportato nei giorni scorsi, nell'indifferenza generale 500 scienziati di tutto il mondo hanno inviato al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, una lettera contro l’allarmismo climatico. Lanciata da Guus Berkhout, geofisico e professore emerito presso l’Università dell’Aja, l’iniziativa è il risultato di una collaborazione tra scienziati e associazioni di 13 Paesi. Pubblicato in un momento in cui l’agenda internazionale pone il clima in cima alla lista delle preoccupazioni, questa “Dichiarazione europea sul clima” ha lo scopo di far sapere che non c’è urgenza né crisi irrimediabile. Come spiegano gli studiosi, il clima varia da quando esiste il pianeta con fasi naturali fredde e calde. “La piccola era glaciale si è conclusa solo di recente, intorno al 1850, quindi non sorprende che oggi stiamo vivendo un periodo di riscaldamento”. Il caldo, intanto, cresce con un ritmo inferiore alla metà di quanto era stato inizialmente previsto e meno della metà di ciò che ci si poteva aspettare. Gli scienziati scrivono senza mezzi termini che quella in cui ci troviamo non è un’emergenza. Spiegano che i modelli di divulgazione generale sul clima, su cui si basa attualmente la politica internazionale, sono inadeguati. E contro il “catastrofismo” di FridaysforFuture e di Greta Thunberg si sono schierati, lo scorso giugno, anche un centinaio di studiosi e scienziati italiani di fama internazionale "con l’obiettivo di incentivare un serio dibattito sul futuro del nostro pianeta in base alle attuali conoscenze scientifiche e scevro da condizionamenti politici". La petizione, inviata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Presidente del Senato Elisabetta Casellati, al Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico e al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, contiene un "un caloroso invito ai responsabili politici affinché siano adottate politiche di protezione dell’ambiente coerenti con le conoscenze scientifiche". Tra i firmatari troviamo Uberto Crescenti, Giuliano Panza, Franco Prodi, Franco Battaglia e Antonino Zichichi. Come nota proprio il prof Franco Battaglia, oggi stiamo appunto uscendo dalla Piccola Era Glaciale, e lo stiamo facendo da oltre tre secoli e non possiamo farci niente. Anzi, proprio questi ultimi 150 anni ci hanno offerto un clima straordinariamente stabile. Oltre ogni aspettativa: +0.8 gradi appena in ben 150 anni. Ci sono altre tesi? Benissimo, se ne discuta, senza allarmismi. Altrimenti quella in Greta Thunberg è una "fede" e l'allarmismo contenuto nelle sue tesi rischia di essere poco utile e molto controproducente.

Sciopero clima, migliaia di studenti in piazza per i «Fridays for Future». Greta Thunberg in Canada. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. Il movimento dei giovani per il clima «Fridays For Future», ispirato da Greta Thunberg, torna in piazza in 160 città italiane e 27 Paesi nel mondo, per il terzo sciopero globale del clima, dopo quelli del 15 marzo e del 24 maggio scorso. Sono previsti cortei in mattinata, in genere dalle 10 alle 13, nel centro delle città, con un comizio collettivo finale: da Milano a Torino, da Napoli a Roma, migliaia di giovani hanno scandito i loro slogan contro l’inquinamento. Lo sciopero di venerdì arriva alla fine della #WeekForFuture, la settimana di manifestazioni per il clima indetta da «Fridays For Future» in tutto il mondo, cominciata venerdì 20 settembre, che — secondo gli organizzatori — hanno coinvolto 4 milioni di persone in tutto.

Greta in Canada. La giovane attivista 16enne sarà alla testa del corteo a Montreal, dove i leader del trasporto aereo delle Nazioni Unite si stanno radunando per discutere degli obiettivi sulle emissioni.

Le città italiane. Piazza della Repubblica a Roma si è riempita di migliaia di ragazzi per lo sciopero globale del clima. Gli studenti sfilano dietro manifesti e striscioni, molti dei quali in inglese, che denunciano l’emergenza ambientale. A Torino il corteo è partito da piazza Statuto. «Il protocollo di Kyoto non è un film erotico giapponese», «Ci avete rotto i polmoni», «Proteggi la tua casa» sono alcuni dei cartelli esposti. «Da Palermo alla Valsusa la Terra è una e non si abusa» è lo slogan scandito da un gruppo di giovani che dalla stazione ferroviaria di Porta Nuova ha percorso via Roma per raggiungere il punto di ritrovo. A Milano, invece, il corteo dei 50mila dei «Fridays for future» ha scandito in coro «Milano presente, è in piazza per l’ambiente», manifestando per sollecitare politiche contro i cambiamenti climatici. La giovane attivista 16enne sarà alla testa del corteo a Montreal, dove i leader del trasporto aereo delle Nazioni Unite si stanno radunando per discutere degli obiettivi sulle emissioni. Come Rete degli Studenti Medi e Unione degli Universitari «siamo scesi in piazza in tutte le città al fianco di Fridays For Future, consapevoli che la sostenibilità ambientale deve partire dai luoghi del sapere e della conoscenza, dalle scuole alle università», ricorda Federico Allegretti, coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi. Il Ministro dell’Istruzione ha sostenuto la manifestazione di oggi invitando gli studenti a scendere in piazza, «ora traduca le parole in fatti e programmi subito un piano di riconversione ecologica dei nostri edifici scolastici, che oggi soffrono del sottofinanziamento del sistema scolastico e nei quali registriamo un crollo ogni tre giorni». «Dobbiamo radicalmente cambiare le politiche su tutti i livelli, dalla singola scuola o università alla città, dal nostro Paese al mondo intero», continua Enrico Gulluni, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari. 

Clima, il 30% del Mondo non ha l’acqua potabile e noi ci laviamo le strade. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. È potabile nel wc, irrigazioni pubbliche anche se piove. Ma in casa possiamo risparmiare 90 litri al giorno. La quantità d’acqua a disposizione degli abitanti sta calando per effetto della siccità, e per ragioni dipendenti dai comportamenti dell’uomo.Persino in Europa, che non è un continente arido, le fonti di approvvigionamento idrico rappresentano un fattore di preoccupazione per almeno metà della popolazione. In Italia preleviamo 428 litri a testa al giorno, spesso superiamo la soglia-limite del 20% di indice di sfruttamento idrico: è il rapporto tra la quantità di acqua estratta ogni anno e il totale delle risorse di acqua dolce rinnovabili a lungo termine. Vuol dire che, soprattutto d’estate, stressiamo le riserve.Il prelievo complessivo annuo è di 9,49 miliardi di metri cubi d’acqua, il volume più alto dell’Unione europea. Poco meno della metà (47,9%) però non arriva ai rubinetti perché le reti di distribuzione sono un colabrodo. Il nostro consumo medio pro capite è di 220 litri al giorno, contro i 122 della Germania, i 128 della Francia e i 137 dell’Austria.Oltre a scendere in piazza e manifestare come giustamente stanno facendo i giovanissimi del #FridaysForFuture, tutti noi possiamo cominciare ad adottare comportamenti più consapevoli semplicemente cambiando qualche cattiva abitudine quotidiana proprio sul consumo di acqua. Vediamo quanta acqua buttiamo solo per lavarci i denti secondo le indicazioni del dentista, cioè 2-3 minuti di spazzolata, filo, e risciacquo. Se durante questa operazione lasciamo il rubinetto aperto, se ne vanno dai 12 ai 18 litri. Se lo teniamo chiuso, per riaprirlo solo quando è necessario, basta mezzo litro. Per una doccia di 5 minuti consumiamo in media 90 litri d’acqua. Se invece utilizziamo un soffione a risparmio idrico, ne bastano 40. Rispetto al getto tradizionale possiamo risparmiare fino al 55% (8 litri contro 18 al minuto). La vasca da bagno è molto dispendiosa: richiede dai 100 ai 160 litri. Sarebbe quindi opportuno mettersi a mollo con più parsimonia. Le cassette di scarico del wc a doppio tasto fanno consumare 3 litri ogni volta che pigiamo il bottone. Quelle tradizionali ne utilizzano 9 per ogni scarico. Vuol dire che in una giornata – mediamente – si possono non sprecare 36 litri. Una lavastoviglie al giorno per una famiglia di 4 persone consuma 10 litri a lavaggio. L’importante è farla partire solo quando è davvero piena. Lo stesso discorso vale per la lavatrice: di classe A consuma 60 litri a lavaggio, quelle più vecchie ne utilizzano 130. Accortezza anche quando si cucina. Ad esempio lavare la frutta mettendola a mollo e poi sciacquarla, anziché lasciarla sotto al rubinetto aperto, dove se ne vanno 6 litri al minuto. In sostanza con un pò di consapevolezza possono bastare a testa al giorno circa 130 litri, al posto dei 220 che la media nazionale ci attribuisce.Oltre alle dichiarazioni, governatori e sindaci devono, in base alla normativa del 1999 che riprende la direttiva europea, depurare e riutilizzare le acque reflue. L’Italia è in coda all’Europa: la depurazione avviene solo per il 62,5%, contro il 96,8 della Germania, l’82 della Francia e persino il 93,4 della Grecia. Così di fatto per tirare lo sciacquone del wc usiamo solo acqua potabile. Quasi sempre acqua potabile pure per il lavaggio delle strade e l’irrigazione dei giardini. Qui addirittura si arriva al paradosso di vedere partire gli irrigatori automatici anche quando piove, o appena dopo un’abbondante pioggia. Con depuratori moderni, cisterne di stoccaggio e impianti di recupero nelle case tutto questo non succederebbe. E tantomeno dovremmo saldare le multe salate che l’Europa – giustamente – ci sta infliggendo, sia per il pessimo sistema di depurazione, che ancora lascia scoperta buona parte del Paese, che per i buchi nella rete idrica.

UNA GENERAZIONE DI GRETINI. Dago spia il 27 settembre 2019. Andrew Bolt, giornalista di SkyNews Australia smaschera l’ipocrisia dei giovani che manifestano per il clima: «Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula; le vostre lezioni sono tutte fatte al computer; avete un televisore in ogni stanza; passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici; invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche; siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere trendy; la vostra protesta è pubblicizzata con mezzi digitali e elettronici. Ragazzi, prima di protestare, spegnete l’aria condizionata, andate a scuola a piedi, spegnete i vostri telefonini e leggete un libro, fattevi un panino invece di acquistare cibo confezionato. Niente di ciò accadrà, perché siete egoisti, mal educati, manipolati da persone che vi usano, proclamando di avere una causa nobile mentre vi trastullate nel lusso occidentale più sfrenato. Svegliatevi, maturate e chiudete la bocca. Informatevi dei fatti prima di protestare''. 

(pubblicato in italiano da Julio Loredo de Izcue sul gruppo ''Tradizione Famiglia Proprietà'')

CONTRO CHI È QUESTA RIVOLTA ECOLOGISTA? Marco Palombi per il “Fatto quotidiano” il 26 settembre 2019. Ora che si va posando la polvere mediatica attorno alla presenza al vertice sul clima dell'Onu di Greta Thunberg e di altri noti attivisti per l'ambiente tipo Bill Gates (sic), resta una domanda: ma contro chi è questa rivolta ecologista? A chi si rivolge la giovane svedese col suo "Pentiti!" o quando avverte che "il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no". A chi non piace? Mai s'è vista una rivolta contro il sistema accolta dallo stesso sistema che si vorrebbe abbattere con tale gioia: presidenti, cancelliere, burocratjia sovranazionale varia, amministratori delegati, giornalisti ed editori, ex pirati oggi filantropi, tutti applaudono entusiasti. Un solo esempio: a spingere l'alleanza verde a New York c'era pure Søren Skou, che di lavoro fa il capo della Møller-Maersk, conglomerato danese che, tra le altre cose, è il più grande armatore di navi mercantili del mondo, cioè uno dei più grandi inquinatori del mondo (ma non certo il solo presente al Palazzo di Vetro). E quindi - a non voler porre dubbi scientifici sul dogma dell'emergenza e sulle cure proposte - resta la domanda: chi è che rema contro? Chi "osa"? Bastano Trump e Bolsonaro a bloccare il risveglio mondiale della coscienza verde guidato dalle multinazionali, pure quelle del petrolio? Noi abbiamo questa rozza idea che, se tutti applaudono, hai probabilmente detto una cazzata e il sospetto, parafrasando il maestro Stefano Ricucci, che manager e presidenti vogliano fare gli ambientalisti col culo degli altri. Di chi? Mettiamola così: se non sei al tavolo, sei nel menu.

Greta Thunberg, il sospetto: perché scorda sempre India e Cina nei suoi interventi? Angelo Zinetti su Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Se Papa Francesco ha fatto suoi i temi ecologisti e ha pure incontrato a Roma Greta Thunberg, il 18 aprile scorso, dall' interno della Chiesa arrivano anche tirate d' orecchie alla giovane svedese nota per aver ideato il sistema più complicato di sempre con cui marinare la scuola. Ieri ad esempio, su Asianews, il sito del Pime (il Pontificio istituto missioni estere), è apparso un articolo senza firma che fa notare le contraddizioni del messaggio della giovane attivista svedese. Asianews, diretta da padre Bernardo Cervellera, pubblica notizie da tutto il mondo missionario - anche in lingua spagnola, inglese e cinese - e dà il polso della "politica estera" della Santa Sede. Ecco cosa dice di Greta. «Dopo il suo appassionato discorso al Summit dell' Onu 2019 sull' Azione per il Clima, Greta Thunberg ha depositato una denuncia contro cinque Paesi, colpevoli di non combattere il riscaldamento globale. Ma fra questi Paesi non ci sono né Cina, né India, fra i Paesi più inquinati della terra e fra i responsabili maggiori dei cambiamenti climatici.

Dopo aver denunciato i politici di usare «vuote parole» per discutere solo «di denaro e di favole legate all' eterna crescita economica», l' attivista ecologica, insieme ad altri 15 bambini e giovani dagli 8 ai 17 anni, attraverso l' Unicef, hanno depositato una denuncia accusando Germania, Francia, Brasile, Argentina e Turchia di non attivarsi contro il riscaldamento globale, minando i diritti dei bambini. Diversi commentatori si domandano come mai Greta e compagni non abbiano citato la Cina e l' India. La prima, pur avendo sostenuto l' accordo di Parigi sul clima (2015), nel 2018 ha aumentato la costruzione di centrali a carbone, con progetti che si estendono fino al 2030. Anche l' uso del carbone è aumentato, rimanendo l' elemento che produce il 60% del fabbisogno energetico del Paese. In India si registra il peggior inquinamento dell' aria: su 10 fra le città più inquinate al mondo, sette sono indiane e New Delhi (o più precisamente: Gurugram, un suo quartiere periferico) è al primo posto». Le critiche al messaggio semplicistico e poco onesto della Thunberg in realtà stanno arrivando anche da persone che inizialmente avevano provato a cavalcarne il fenomeno. Primo fra tutti il presidente francese Emmanuel Macron, finito nella lista dei cattivi di Greta. «Posizioni molto radicali sono suscettibili di creare antagonismo nelle nostre società», ha rimarcato Macron, aggiungendo che «tutte le mobilitazioni de giovani e meno giovani sono utili, ma ora devono concentrarsi su coloro che sono più lontani, quelli che cercano di bloccare. Non credo che il governo francese o il governo tedesco oggi stiano bloccando». Anche Angela Merkel si è sentita chiamata in casua dai discorsi catastrofisti della Thunberg: «Ogni persona attenta ascolta e si sente chiamato in causa» dal discorso molto emotivo di Greta. E tuttavia la Cancelliera ha voluto sottolineare che la giovane attivista svedese «sottovaluta le potenzialità delle innovazioni tecnologiche per quello che riguarda la lotta ai cambiamenti climatici». Insomma, cara Greta, torna a scuola. Angelo Zinetti

Come non fare parte dell’invasione d’imbecilli sui social. Il 28 febbraio la presentazione di “Tienilo acceso”. Abbiamo parlato con una degli autori, Vera Gheno, della nostra vita social(e). Luca Barachetti il 25 Settembre 2019 su eppen.ecodibergamo.it.  “Tienilo acceso” (Longanesi) ovvero “posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello” come recita la copertina del libro di Vera Gheno (sociolinguista) e Bruno Mastroianni (filosofo della comunicazione) su come sopravvivere dentro i social senza finire vittime degli imbecilli ma anche evitando di esserlo noi. Che caratteristiche ha il “cretino” da social e come riconoscerlo? Al di là della provocazione, non vediamo cretini da nessuna parte. Siamo convinti che la rete, in particolare i social, abbiano reso visibili o più visibili fenomeni che prima rimanevano più nascosti. Ma non esistono “cretini”. O meglio, i cretini siamo noi tutti: basta che veniamo toccati su un nervo scoperto per correre il rischio di regredire allo stato di bestie. Prendiamo la famosissima frase di Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”.discutere di Greta e non del cambiamento climatico.

Quanti gretini, con la “g”! È tutta questione di… conoscenza. Alesandro Bertirotti il 26 settembre 2019 su Il Giornale. È necessario, effettivamente, ad onor di cronaca e se vogliamo davvero fornire una informazione che tenti ti oltrepassare il monopolio mondiale dei sinistrati sui media, riflettere su questo articolo, che fa a sua volta riferimento ad un documento scientifico, una lettera per la precisione, redatta e diffusa da parte di numerosi e accreditati scienziati. La strumentalizzazione è l’anima della pubblicità, della paura, della ossessione e della mistificazione. E questo lo sappiamo da sempre. E non è solo il mondo sinistrato ad utilizzarla, perché anche quelli liberista e consumista fanno la stessa cosa. D’altra parte, per entrambi i mondi è necessario raccogliere consensi, che si traducono i veri e propri business. Eh sì, perché in base a quello che ci dicono, noi assumiamo comportamenti profondamente inconsci, credendo di salvare noi stessi dalla necessità di studiare, comprendere e confrontarci. In poche parole, se crediamo a quello che ci dicono, senza verificare le posizioni che scientificamente sono previste come antitetiche (sempre e comunque, come insegna Sir. Karl Raimund Popper), rischiamo di assistere alle farse mondiali messe in atto da questa bambina. Una bambina che certo non può capire quasi nulla di scienza, non fosse altro che per l’età, anche se venduta come enfant prodige etica, esistenziale ed antropologica. Il clima cambia da sempre, e da sempre l’Uomo ha a che fare con questo cambiamento. Certo, ciò non significa che si debbano continuare ad avere comportamenti umani che mettano a rischio il pianeta. Ma questo è un problema antropologico ed esistenziale che oltrepassa la propaganda del clima. Possiamo morire anche di fame, di inedia, di dittature e di religioni, vivendo comunque al caldo oppure al freddo. Dunque, per favore, un minimo di coscienza che rendesse queste persone senza voce sarebbe davvero auspicabile. Non chiediamolo alla bambina, che è felice e contenta di avere già il suo palco mondiale (e che per questo è già destinata a finire…), ma a coloro che la manovrano senza nemmeno troppo pudore. In fondo, non tutti sono proprio scemi.

Trump parla di Greta Thunberg su Twitter: la risposta della giovane ambientalista diventa virale. Roberta Lancellotti ssu Repubblica Tv il 25 settembre 2019. Avevano fatto discutere le occhiate di Greta Thunberg a Donald Trump all'ingresso dell'Onu. Ora lo scontro tra i due si sposta sui social. Il presidente americano ha commentato l'ultimo appassionato discorso di Greta, definendo la giovane ambientalista "una giovane ragazza felice in attesa di un meraviglioso e brillante futuro". Greta ha risposto allo sfottò, e la sua reazione è diventata virale.

Macron e il fastidio verso Greta: «Manifestare? Meglio pulire  le spiagge in Corsica». Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. Nel febbraio scorso Greta Thunberg è stata ricevuta con tutti gli onori all’Eliseo, e il presidente Emmanuel Macronla considerava una voce utile per sostenere il rispetto degli accordi di Parigi e la lotta contro il riscaldamento climatico. Quei tempi sono passati, la giovane attivista svedese ha denunciato la Francia (assieme a Germania, Argentina, Brasile e Turchia) per non avere ridotto abbastanza le sue emissioni e il governo francese adesso sembra detestarla: gli stessi che prima la portavano a esempio adesso la criticano come oltranzista e irresponsabile. Nel luglio scorso Greta Thunberg venne invitata a parlare all’Assemblea nazionale, onore concesso a poche personalità di grande rilievo e mai prima d’ora a un’adolescente. I deputati di La République En Marche, il partito di Macron, furono i più solerti ad accoglierla e Brune Poirson disse: «Grazie Greta, ci dai speranza, non mollare», tra le critiche di quanti, sopratutto a destra, denunciavano un impazzimento mediatico nei confronti della ragazzina e un eccesso di catastrofismo. Il personaggio Greta sembra essere sfuggito di mano, le sue denunce e il discorso pronunciato all’Onu non sono piaciuti né a Macron né al suo entourage. «Sono posizioni molto radicali - ha detto Macron -. Non mi pare che il governo francese o quello tedesco oggi si oppongano al rispetto degli accordi di Parigi. Stiamo abbandonando lo sfruttamento del carbone, limitando l’uso degli idrocarburi, ci stiamo muovendo, e non sono certo quelle frasi siano la strada più efficace». La stessa Brune Poirson, che esortava Greta a non mollare, adesso, vice-ministra alla Transizione ecologica -, dice: «Ma quali sono le soluzioni che propone? Nessuno le conosce. Non si può ricorrere alla disperazione, a una specie di odio». Più in generale, Macron sembra infastidito del mancato riconoscimento dei suoi sforzi e anche dalle frequenti manifestazioni dei giovani per l’ambiente e contro i governi a loro dire troppo timidi. «Manifestare tutte le settimane va bene, ma quei giovani potrebbero usare quel tempo per andare a pulire le spiagge in Corsica», ha detto Macron sull’aereo presidenziale che lo portava a New York all’Assemblea dell’Onu. «Oppure potrebbero andare a manifestare in Polonia, il Paese che in Europa blocca i progressi contro il riscaldamento climatico».

Fuori dal Coro, Mario Giordano non resiste e rompe il veto su Greta Thunberg: "Vai a scuola, basta". Libero Quotidiano il 26 Settembre 2019. "Ho fatto un voto: ho promesso di non parlare di Greta Thunberg". Mario Giordano apre così la puntata di Fuori dal coro, discutendo il discorso della paladina del clima che all'Onu ha dato il meglio di sé: "Quella ragazzina, fammela vedé. Di lei non parlerò ma di di quelli che la stanno usando sì, di chi le scrive i discorsi, di chi la sta strumentalizzando, dell'enorme business che sta dietro questa bambina! Non se ne può più!. Torna a scuola. Sarò anche fuori dal coro, ma non se ne può più" conclude il conduttore con tanto di applausi dallo studio.

Claudio Antonelli per “la Verità”il 26 Settembre 2019. Terminata la scuola, almeno quel poco di lezioni che ha frequentato, il 18 luglio scorso Greta Thunberg ha iniziato il suo tour in giro per l' Europa «rigorosamente», scrivevano i giornaloni, «in treno». Sia mai prendere un biglietto aero, perché il mezzo inquina. Una delle tappe meglio organizzate è stata quella di Parigi. Lì, invitata da ben 162 deputati, ha parlato davanti all' Assemblea nazionale. Il discorso non è degno di essere riportato, dal momento che si basava sulla solita retorica inconcludente, mentre appaiono più sottili le critiche dell' opposizione: «incomprensibile» che la maggioranza di Emmanuel Macron vanti i meriti della giovane Greta e poi, in contemporanea alla sua venuta, faccia votare il progetto di ratifica del Ceta, il trattato di libero scambio tra Ue e Canada. A loro parere nocivo per l' ambiente. La destra francese ha in realtà colto il nocciolo della questione. Macron ha scelto di sbandierare Greta (ospitata pure all' Eliseo) per nascondere le mosse reali della propria presidenza, tanto che il dibattito è finito per essere manipolato dalla sedicenne addirittura insignita a Caen del «Premio Liberté 2019», in presenza di veterani dello sbarco in Normandia. Non che Macron si sia mosso in autonomia. Mezza Europa insegue i discorsi vuoti di Greta per lo stesso motivo e per la medesima volontà di strumentalizzazione. Solo che pure le macchine ben oliate rischiano di incepparsi. Infatti, lunedì all' Onu la Thunberg e altri 15 attivisti hanno chiesto alla Commissione per i diritti dei bambini di pronunciarsi su Argentina, Brasile, Francia, Germania e Turchia colpevoli di non affrontare nel modo appropriato la questione delle emissioni di gas serra. In pratica dopo aver farneticato in lacrime e lanciato anatemi contro gli adulti colpevoli di averle rubato il futuro, ha pensato bene di snocciolare la prima lista dei «cattivi». Macron leggendo le agenzie è saltato sulla seggiola e ha inviato subito ai giornali una nota di smentita ed è volato diritto in radio. «Gli attivisti dovrebbero concentrarsi su coloro che stanno cercando di bloccare le cose», ha intervenendo su Europe 1. «Non ho l' impressione che il governo francese, o tedesco, oggi stiano cercando di bloccare le cose. Non credo che questo sia il migliore approccio», ha affermato ancora Macron. «Se sei su posizioni molto radicali, queste rischiano di creare antagonismi nella società». L' unica cosa positiva dello scambio di battute è immaginare Macron mangiarsi il fegato e doversi mettere sullo stesso piano di una sedicenne che va in giro a stringere mani e lanciare anatemi. D' altronde lui stesso si è infilato nel cul de sac srotolandole il tappeto rosso davanti. Ma se dunque può far piacere che la grandeur francese si schianti contro il guru verde creato a tavolino, non possiamo non notare che il giocattolo rischia di finire fuori controllo. Greta Thunberg è divisiva, ha sintetizzato Macron. E questa è una grande verità. Ora che ne è finito vittima, potrà comprendere che la ragazza incarna il populismo di sinistra che con finte ricette banali mira a muovere masse intere di elettori-cittadini. Il pericolo è che la violenza insita nel messaggio possa sfuggire al controllo degli Stati. I quali rischiano di finire vittime della macchina comunicativa e dello storytelling che loro stessi hanno avviato. Per il semplice motivo che dietro la macchina ci sono soggetti molto più abili a gestire la comunicazione o propaganda, che dir si voglia.Si tratta delle multinazionali. All' Onu, in terza fila, e dietro il vessillo dell' Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro, c' erano le grandi aziende del comparto energetico. Presenza comprensibile e legittima visto che si tratta di idrocarburi e affini. Una fila ancora più dietro al pari della Cina (che ha annunciato di voler creare un ecological zoning e totalmente esente dalle critiche di Greta) i colossi della distribuzione. La Danone ha lanciato un gruppo di lavoro con aziende alimentari, cosmetiche e tessili disposte ad adattare le loro catene di approvvigionamento - dalla produzione agricola alle offerte di prodotti - in modo da ripristinare la biodiversità. Tra i partner ci sono Google, Kellogg Company, L' Oréal, Unilever, Mars e Nestlé. Non ci vuole tanto a capire che i politici che ora si illudono di usare Greta dovranno, fra un po' di tempo, ammettere di aver subito la sorte che speravano di imporre. A quel punto i cittadini-elettori vittime dello storytelling incarneranno il ruolo immaginato per loro fin dall' inizio: quello del contribuente (più verde significa più tasse) e quello del consumatore (più green e sostenibilità significa prezzi più alti e margini maggiori). Chi sembra non aver compreso il meccanismo vizioso è Giuseppe Conte che poche ore prima del suo discorso all' Onu (avvenuto all' una di questa notte) ha pensato bene di annunciare che «i temi della tutela ambientale e della biodiversità dovranno finire in Costituzione». Già, come il pareggio di bilancio.

Da Libero Quotidiano il 25 settembre 2019.  La parola "fine" sul caso Greta Thunberg la mette Giulio Tremonti. L'ex super-ministro, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira su La7, mostra tutto il suo scetticismo circa la nuova paladina dell'ecologismo globale e circa la spontaneità delle sue azioni. Tremonti lascia intendere senza indugi di condividere il pensiero di chi ritiene che la ragazzina svedese sia manovrata, che insomma dietro alle sue azioni ci sia qualcosa di molto più grande e pesante rispetto a quanto il pubblico possa immaginare. "Il cambio climatico c'è sempre stato - premette Giulio Tremonti -. Se uno pensa che Greta Thunberg sia una fatto spontaneo e naturale, forse non ha idea di quale macchina politica e mediatica sta dietro di lei, con un investimento di capitali straordinario alle spalle", conclude.

Greta Thunberg, il deputato leghista la critica e gli ecologisti lo perseguitano: "Il mio incubo". Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. "Sono stato aggredito e stalkerato per un post contro Greta". Il deputato leghista Paolo Tiramani racconta ai microfoni di 7 Goldi il disagio vissuto dopo un messaggio pubblicato sulla sua pagina Facebook. "Greta ha affrontato a volte le istituzioni in modo maleducato e irriverente. Ieri ho scritto un post, sono stato stalkerato grazie alla mitica Selvaggia Lucarelli che ha ripreso quello che ho detto", dice Tiramani nel giorno della manifestazione Fridays for Future. Nel post, poi rimosso dallo stesso Tiramani dopo le ripercussioni, si leggeva: "Viaggia in barca a vela come una star a 16 anni, dicendo delle ovvietà imbarazzanti, finanziata da chi non si sa, per prendere a pesci in faccia le istituzioni. Più che l'infanzia, ti hanno rubato l'educazione! Mi fossi atteggiato come te alla tua età, prima prendevo due sberloni da mamma e per finire un calcio nel sedere da papà". "Sono stato aggredito dagli haters perché ho detto che non ho condiviso alcune frasi pronunciate da Greta all'Onu, prima di tutto quella relativa all'infanzia rubata. È una frase irrispettosa  - prosegue il racconto - verso tutti i bambini sfruttati come mano d'opera o per turismo sessuale. A loro sì che l'infanzia è stata rubata. Il problema c'è ma il modo di affrontarlo è totalmente sbagliato. Ci sono documenti di scienziati che evidenziano il problema ma non dicono le ovvietà di Greta".

PiazzaPulita, Greta Thunberg da Corrado Formigli? Ma lo share cala: ecco i dati di ascolto. Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. La puntata di ieri, giovedì 26 settembre, di Piazzapulita in onda su La7 sotto la conduzione di Corrado Formigli ha totalizzato solo il 5% di share, un punto in meno rispetto all'esordio della stagione della scorsa settimana. Eppure c'era come ospite di una intervista esclusiva la diva dell'ambientalismo mondiale Greta Thunberg. Evidentemente il tema non ha appassionato granché. "Facciamo compromessi su tutto ma non puoi essere 'un pochino' sostenibile. O sei sostenibile o non lo sei. Ci sono molte cose nella crisi climatica che sono o bianche o nere"", ha detto la svedesina. La scorsa settimana l'ospite di Formigli era Carola Rackete. La capitana, il collegamento esclusivo da Berlino, aveva raccolto davanti alla televisione il 6% del pubblico televisivo, circa un milione di persone. Non la migliore performance per Formigli. 

PiazzaPulita, Alessandro Sallusti gela Formigli: "Una figlia come Greta Thunberg? Dio me ne scampi". Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Uno strepitoso Alessandro Sallusti. Il direttore de Il Giornale è in collegamento con PiazzaPulita, il talk-show di approfondimento politico in onda su La7 dove tra i temi affrontati c'era quello di Greta Thunberg. E il conduttore, Corrado Formigli, chiede a bruciapelo: "Alessandro, non saresti contento di avere una figlia come Greta? Io sì". Sallusti trasecola, dunque risponde partendo in quinta: "No, assolutamente no. Dio me ne scampi e liberi. Sarei felice di avere un figlio che si impegna per migliorare l'ambiente, ma non per mangiare vegano e non comprare nulla, questo è un problema psichiatrico. La mia generazione ha ridotto della metà la mortalità infantile e ridotto di due-terzi la fame nel mondo. Noi qualcosa per l'umanità l'abbiamo fatta". Cala il sipario.

Greta Thunberg, Vittorio Feltri contro Maria Teresa Meli: "Quella ragazzina è una cretina". Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Oggi, venerdì 27 settembre, è il gran giorno di Greta Thunberg, con gli studenti di tutta Italia in piazza per l'ambiente, anche se non è ben chiaro contro cosa o per chi manifestino. E il tema tiene banco anche a L'aria che tira, il programma condotto da Myrta Merlino su La7, dove tra gli ospiti c'è Maria Teresa Meli, firma del Corriere della Sera, e in collegamento Vittorio Feltri. Il direttore di Libero ricorda come le masse amino seguire "i pazzi come Hitler e Stalin", dunque anche Greta. La Meli risponde: "Io sono contenta del fatto che le persone non seguano Hitler e Stalin, ma Greta. Poi è chiaro che non è una scienziata", ammette la firma di Via Solferino. E a quel punto si inserisce la voce di Feltri, con un commento tranchant: "È una cretina". La Meli ribatte ancora, affermando che "non è una cretina. I ragazzi - aggiunge - hanno ereditato da noi un mondo peggiore, soprattutto a causa dell'inquinamento. Non è che non esistano i cambiamenti inquinatici". In un precedente intervento, Feltri aveva puntato il dito contro la manifestazione: "Le masse popolari hanno sempre seguito volentieri dei pazzi, meglio se criminali, come Hitler e Stalin, adesso non mi stupisco che si vada dietro a una ragazza goffa come Greta - rimarcava il direttore -. Sto facendo un ragionamento, se non vi piace me ne vado nel mio ufficio e voi andate avanti. Questi cretini vanno in piazza senza sapere perché cacchio manifestano". E ancora, aveva sottolineato come i ragazzi "vanno appresso a una ragazzetta goffa e ignorante come una capra", ovvero Greta Thunberg.

Vittorio Feltri contro Greta Thunberg: "Le masse da sempre seguono pazzi come Stalin e Hitler. Così..." LIbero Quotidiano il 27 Settembre 2019. Al centro del dibattito c'è sempre lei, Greta Thunbeg, balzata agli onori di tutte le cronache dopo il discorso alle Nazioni Unite e oggi - venerdì 27 settembre - più che mai, con le manifestazioni pro-ambiente degli studenti un po' in tutta Europa. Greta in tv, in radio, sui giornali e nelle piazze. Ma anche su Twitter, dove Vittorio Feltri torna ad attaccarla, o meglio torna ad attaccare quel che rappresenta e chi segue la baby-paladina dell'ambientalismo globale in modo fideistico, quasi acritico. Il cinguettio del direttore è durissimo: "La vocazione della masse - premette Feltri - è da sempre quella di dare retta ai pazzi, meglio se criminali come Stalin e Hitler. Quindi non stupiamoci se oggi ha molto seguito una ragazzina goffa che ha finito a malapena la terza media". Tweet piuttosto definitivo, quello del direttore, che piove non a caso nel giorno dei cortei che stanno paralizzando le città. Cortei di manifestanti che, va detto, non è chiaro chi o cosa contestino. Manifestanti che non è chiaro cosa stiano facendo di concreto per il pianeta e l'ambiente, eccezion fatta per la risposta all'appello di Greta Thunberg.

Vittorio Feltri contro Greta Thunberg: "Perché non vedo l'ora che si sgretoli". Libero Quotidiano il 25 settembre 2019. "Non vedo l'ora che Greta si sgretoli". Vittorio Feltri, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, attacca la baby ecologista svedese Greta Thunberg che ha parlato anche davanti all'Onu e a Donald Trump dell'allarme sul clima che i potenti del mondo continuano a sottovalutare. Un problema che secondo il direttore di Libero non esiste: "A me Greta è antipatica anche se è una ragazzina che andrebbe protetta, soprattutto da se stessa perché invece di pensare al proprio futuro, va in giro col termometro in tasca per misurare la temperatura, come se fosse una novità che il caldo e il freddo si alternano in base alle stagioni", scriveva in un editoriale del 21 settembre Feltri. "È sempre stato così. A volte si scoppia a causa del sole e a volte si trema, intirizziti. Chi scopre nel 2019 che il tempo è variabile di anno in anno è un povero allocco che si adegua alle mode chiamiamole pure culturali sebbene di culturale non abbiano niente".

DAGONEWS il 26 settembre 2019. Greta che scende in piazza. Greta che parla all’Onu. Greta che raduna le folle. Ormai l’attivista svedese è diventata un simbolo della protesta contro i cambiamenti climatici, ma c’è chi sta iniziando a nutrire qualche preoccupazione per le sorti della ragazzina che potrebbe andare incontro a devastanti conseguenze psicologiche. A esprimere preoccupazione per la salute mentale di Greta è Michael Carr-Gregg, uno psicologo australiano, convinto che la ragazzina sia solo “una pedina manovrata che necessita di cure”, paragonandola a una stellina della tv per bambini che potrebbe “bruciarsi” dopo essere stata messa sotto i riflettori: «Temo che diventi come una star della TV per i bambini che si esauriscono finendo per dover fare i conti con un esito psicologico disastroso. Non sono un negazionista del cambiamento climatico. In realtà penso che dobbiamo fare di più per salvare il pianeta, ma sono preoccupato dal fatto che usiamo un bambino che probabilmente dovrebbe essere curato: ha detto di aver avuto l'anoressia, ha detto di avere l'Asperger e ha detto di aver combattuto la depressione. Come genitore, se fosse mia figlia, non sono sicuro che la metterei sul palcoscenico mondiale». Il dottor Carr-Gregg ha affermato di essere preoccupato per il futuro di Greta, per la sua attuale salute psicologica e per l'impatto che avrà sugli altri giovani. «Invia un messaggio ad altri adolescenti dicendo che possono parlare agli adulti in questo modo molto sprezzante. Sembra essere coinvolta in uno scenario del giorno del giudizio in cui sta ingigantendo enormemente le minacce poste dai cambiamenti climatici. Provoca tutta questa ansia esistenziale nei nostri bambini. Penso che i bimbi dovrebbero andare a scuola, ma invece si stanno radunando perché sono stati convinti che la fine del mondo sia vicina. Ora si è messa al centro del mondo, c’è una Greta-fobia o una Greta-mania e non credo che una ragazza di 16 anni dovrebbe essere al centro di questa questione». Il dottor Carr-Gregg ha affermato di non pensare che i bambini debbano essere usati come "oggetti sulla scena politica". «La mia critica non è tanto su di lei, ma sui suoi genitori e sugli attivisti dei cambiamenti climatici che la usano spudoratamente e penso che la sinistra si stia comportando  in modo ipocrita». Carr-Gregg ha affermato che il resto del mondo deve fare pressione sulla Cina e sull'India, i maggiori inquinatori: «Penso che si stia preparando per una grande delusione. È il resto del mondo che deve fare pressione su quei paesi, non una sola ragazza di 16 anni». Infine lo psicologo pone anche un’altra questione: l’impossibilità di criticare Greta perché si tratta di una ragazzina di 16 anni: «A nessuno è permesso discutere delle sue opinioni. Dobbiamo solo stare zitti e accettarle».

Striscia la notizia, Valeria Graci imita Greta Thunberg. Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. Sguardo imbronciato, treccine, cuffietta di lana. Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Valeria Graci esordisce con una nuova imitazione e si trasforma in Greta Thunberg, la giovane e famosa attivista svedese per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico. Ormai la piccola attivista è un personaggio globale. Sul caso è intervenuto su Twitter anche il direttore di Libero Vittorio Feltri.  "Non vedo l'ora che Greta si sgretoli", ha scritto sulla baby ecologista  che ha parlato anche davanti all'Onu e a Donald Trump dell'allarme sul clima che i potenti del mondo continuano a sottovalutare.  Un problema che secondo il direttore di Libero non esiste: "A me Greta è antipatica anche se è una ragazzina che andrebbe protetta, soprattutto da se stessa perché invece di pensare al proprio futuro, va in giro col termometro in tasca per misurare la temperatura, come se fosse una novità che il caldo e il freddo si alternano in base alle stagioni", scriveva in un editoriale del 21 settembre Feltri.

GLI SCIENZIATI CHE NON SONO GRETINI. Patrizia Floder Reitter per ''La Verità'' il 22 giugno 2019. Innalzamento dei mari, avanzata del deserto, prosciugamento dei ghiacciai, scenari apocalittici. Troppi allarmismi, privi di autorevolezza scientifica, inducono a credere che il riscaldamento globale sia solo causato dall' uomo, ma è una congettura non dimostrata. Contro il catastrofismo imperante alla Greta Thunberg, la scienza si ribella. Un centinaio di fisici, geologi, astrofisici, studiosi del clima e delle patologie tumorali, chiedono più rigore, più serietà e lo fanno con una Petizione sul riscaldamento globale antropico indirizzata ai presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio dei ministri. Il documento, nel quale gli scienziati invitano i politici a non intraprendere una riduzione acritica della immissione di CO2, con l' illusoria pretesa di governare il clima, è sottoscritto da figure di primissimo piano della ricerca. Da Antonino Zichichi, fondatore del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana di Erice, a Renato Ricci, già presidente delle Società di fisica italiana ed europea, da Antonio Brambati, responsabile del Progetto Paleoclima-mare del Programma nazionale per la ricerca in Antartide (Pnra), all' oncologo Umberto Tirelli, direttore del Centro tumori di Aviano, decine e decine di professori e specialisti dichiarano che «è urgente combattere l' inquinamento ove esso si presenti, secondo le indicazioni della scienza migliore». Chiedono pertanto che «siano adottate politiche di protezione dell' ambiente coerenti con le conoscenze scientifiche». Prima cosa da farsi, è dire apertamente che i modelli climatici, complessi programmi realizzati al computer e che vorrebbero spiegare un' origine antropica del riscaldamento globale - come pensa l' Ipcc delle Nazione Unite -, non sono invece in grado di riprodurre la variabilità climatica naturale. La premessa è fondamentale, come ci aiuta a comprendere Franco Prodi, già ordinario di fisica dell' atmosfera all' Università di Ferrara ed ex direttore dell' Istituto di scienza dell' atmosfera e del clima del Cnr. «L' unico libero docente di meteorologia in Italia oggi vivente», ama sottolineare il professore, grande oppositore del catastrofismo climatico, 78 anni, bolognese, fratello dell' ex premier Romano Prodi, lo scienziato è tra i promotori della petizione assieme a Uberto Crescenti, Giuliano Panza, Alberto Prestininzi, Franco Battaglia, Mario Giaccio, Enrico Miccadei e Nicola Scafetta, tutti esperti di fisica, geologia o di economia delle fonti di energia. Prodi è un fisico delle nubi, «che sono al centro del sistema climatico». Spiega: «il cambiamento è connaturato al clima, cambiano i parametri astronomici tra sole e terra, cambiano i flussi di radiazioni solari. Anche la sorgente cambia, il sole non è costante nella sua emissione. L' atmosfera si interfaccia con la criosfera, l' idrosfera, la vegetazione. Ognuno di questi ha aspetti scientifici e problemi. Molti parlano senza conoscere i principi fondamentali del passaggio fotonico terra sole». I modelli di simulazione climatica che da anni sono mostrati per annunciare un futuro spaventoso, non sono realistici. «In modo particolare, non ricostruiscono i periodi caldi degli ultimi 10.000 anni», viene indicato nel documento. Dicono di più: «I modelli falliscono nel riprodurre le note oscillazioni climatiche di circa 60 anni. Queste sono state responsabili, ad esempio, di un periodo di riscaldamento (1850-1880) seguito da un periodo di raffreddamento (1880-1910), da un riscaldamento (1910-40), ancora da un raffreddamento (1940-70) e da un nuovo periodo di riscaldamento (1970-2000) simile a quello osservato 60 anni prima. Gli anni successivi (2000-2019) hanno visto non l' aumento previsto dai modelli di circa 0.2 gradi per decennio, ma una sostanziale stabilità climatica». Il riscaldamento della superficie terrestre non sarebbe, così anomalo. Perché viene spacciata una congettura così sbagliata? «Se i modelli funzionassero, con i dati dei primi decenni del 1800, scarsi, ma che possediamo, dovrei riprodurre le variazioni climatiche che ci sono state da quella data fino ad oggi», chiarisce Prodi. «Invece producono solo degli scenari, del tutto diversi dal quadro della meteorologia in cui la previsione, oggi, è parecchio affidabile. Per il clima, che è il sistema più complesso presente sul nostro pianeta, non siamo in questa condizione. Certamente i modelli sono sempre più importati ma, producono solo degli scenari. Utili alla comprensione, però non permettono di fare previsioni attendibili. Anche un velo sottile di cirri può cambiare il bilancio delle radiazioni sulla terra e quindi l' essenza del sistema clima, lo scambio fra l' energia del sole con quella infrarossa terrestre».

Tutta colpa dell' uomo? «L' uomo ha un ruolo nel cambiamento solo dal 1700, quando fu inventata la macchina a vapore di James Watt. L' emissione nell' atmosfera di gas da combustibili fossili da parte dell' uomo industriale è cominciata appena due secoli fa: un battito di ciglia nella storia del clima della terra». La petizione sottoscritta dagli scienziati italiani afferma con chiarezza: «È scientificamente non realistico attribuire all' uomo la responsabilità del riscaldamento osservato dal secolo passato ad oggi. Le previsioni allarmistiche avanzate, pertanto, non sono credibili, essendo esse fondate su modelli i cui risultati sono in contraddizione coi dati sperimentali. Tutte le evidenze suggeriscono che questi modelli sovrastimano il contributo antropico e sottostimano la variabilità climatica naturale». E ancora: «Bisogna essere consapevoli che il metodo scientifico impone che siano i fatti, e non il numero di aderenti, che fanno di una congettura una teoria scientifica consolidata». L' invito è a non diffondere il messaggio che tutti gli scienziati siano d' accordo sulla causa antropica. «Non sono un negazionista», precisa Prodi, «dico che conosciamo l' enormità dei processi che avvengono fra i sottosistemi, ma non c' è ancora una modalità di previsione. Invece di insistere con gli allarmismi sulla CO2, sulla distruzione delle foreste tropicali, invece di impostare i rapporti internazionali sul dogma non scientifico del riscaldamento globale o dell' innalzamento dei mari difficilmente prevedibile, cerchiamo di rispettare il pianeta secondo il richiamo dell'enciclica Laudato sì di papa Francesco». Il degrado ambientale deve preoccupare, ma non bisogna cadere nell' ideologia «L' umanità è uscita dal suo ciclo naturale, questa deve essere la nostra consapevolezza e gli uomini di scienza devono dirlo, ragionando sulle nostre risorse ormai limitate. Purtroppo però oggi nel nostro Paese c'è un anti accademismo preoccupante, che nuoce alla ricerca e all' università», conclude con amarezza Prodi.

Solo un paese asfittico e rancoroso può discutere di Greta e non del cambiamento climatico. Antonio Scalari 17 Marzo 2019 su valigiablu.it. Certe osservazioni accigliate attorno al "fenomeno Greta Thunberg" e al movimento che ha ispirato potrebbero costituire, credo, il caso più clamoroso nella storia di contemplazione del dito invece della Luna (dove la Luna, in questo caso, è grande come la Terra). Per la prima volta da quando è chiaro (fattualmente certo) che sono in atto cambiamenti climatici causati da diverse attività umane, un diffuso movimento di protesta globale chiede di agire per contrastarli. A chi lo chiede? Ai "grandi della Terra", ai capi di Stato e di governo, ai parlamenti. La cosa è in sé ovviamente sensata, quantomeno non è per nulla inedita dal punto di vista storico se si considera che sempre i movimenti di protesta sono partiti dal basso per rivolgersi e colpire verso l'alto. Ma per qualche ragione oggi questo appare ad alcuni bizzarro, illusorio, sbagliato, scomposto. Non solo, è visto come un effetto del "vento populista" che soffia in Occidente. La critica in sintesi è questa: siccome siamo tutti responsabili dei cambiamenti climatici, allora il "fate presto" Greta e i suoi "seguaci" lo dovrebbero urlare davanti a tutti. Davanti a tutto il popolo. Insomma Greta non sarebbe dovuta andare a rompere le scatole solo ai "grandi" riuniti alla conferenza sul clima, ma anche ai salumieri, ai panettieri, agli operai, agli impiegati etc. Perché tutti noi (ed è vero) contribuiamo tutti i giorni ad emettere gas climalteranti in atmosfera (e sostanze inquinanti - problema, ricordiamolo, che va distinto dal clima). Anzi, dicono alcuni, se i parlamenti e i governi non fanno abbastanza per il clima è proprio perché il popolo non sopporterebbe le conseguenze che avrebbero, sulla vita quotidiana di tutti, interventi draconiani per arrestare le emissioni. "Questi scendono in piazza ma poi comprano gli iPhone", insomma. In verità quello (poco, insufficiente) che è stato fatto finora per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni non ha suscitato proteste di massa, ma non è questo il punto. Il punto è che non stiamo parlando di "cosa posso fare io", di rinunce individuali, di azioni isolate. Qui parliamo di decisioni collettive. Siamo avvitati in una discussione totalmente sterile attorno a contrapposizioni tra "popolo" ed "élites", perché abbiamo perso di vista cos'è la politica. Cioè la dimensione del discutere e del decidere collettivi. In un mondo in cui i partiti sono scomparsi o sono stati distrutti o sono stati svuotati dal loro interno della loro funzione civile, culturale e sociale, non siamo più nemmeno capaci di concepire il significato politico e l'utilità pratica di un'azione collettiva, di massa, che parta dal basso, dai subalterni. Per non parlare del fatto che, ormai, qualsiasi messa in discussione dello status quo viene additata come una minaccia alla stabilità, al sistema, etc. Greta Thunberg le risposte le chiede a chi è incaricato di trovarle. Non si tratta di evitare di buttare le cartacce per terra. Sì, si possono anche fare scelte individuali (Greta per esempio ha scelto di non mangiare carne per non contribuire all'impatto ambientale del settore zootecnico e di non viaggiare in aereo), ma sono insufficienti. Servono politiche energetiche, industriali, tecnologiche, economiche, infrastrutturali, per contrastare i cambiamenti climatici. Pensare che di questo siano responsabili soprattutto parlamenti e governi è "populismo"? Semmai è il contrario, è riconoscere la legittimità e responsabilità delle istituzioni e del potere legislativo ed esecutivo. Greta manifesta davanti al parlamento svedese e lo fa perché forse crede nella democrazia rappresentativa e nel suo potere di cambiamento (sì, anche nella sua sovranità) molto più di tanti suoi difensori. Alcuni storcono il naso di fronte all'esposizione mediatica e all'aura di celebrità che si è creata attorno a Greta Thunberg, che qualcuno ha già proposto per l'assegnazione del Nobel per la Pace. Ma Greta non è il capo di un movimento. Greta è un'ispirazione. È un simbolo. O, se vogliamo, un esempio. Per evitare comunque che la narrazione mediatica si concentri sulla sua figura, per non cadere in personalizzazioni e inopportune celebrazioni personali, allora non parliamo di lei, ma di ciò che il suo esempio ha ispirato. Parliamo del movimento contro i cambiamenti climatici. Le ragioni e gli obiettivi di questo movimento vanno ben al di là delle iniziative di una singola persona, per quanto carismatica. La questione climatica è importante e urgente perché si basa su una scienza solida e condivisa, non sulla biografia, sulla simpatia, sulle idee di questo o quell'attivista. Stiamo assistendo a una straordinaria opportunità di mobilitazione collettiva, che potrebbe portare a compiere azioni decisive per il clima. Anche un aumento della temperatura globale di mezzo grado centigrado in più può essere rilevante per gli effetti ambientali che può causare. In una lettera pubblicata sul sito della rivista Scientific American, 240 scienziati hanno dato il loro sostegno al movimento globale degli studenti. Questo passaggio della lettera è eloquente: Gli studenti di oggi delle scuole elementari e delle superiori hanno vissuto le loro brevi vite su un pianeta sensibilmente diverso da quello in cui ha vissuto qualsiasi altra generazione nella storia della civiltà umana. Ogni anno della loro vita è stato uno dei 20 anni più caldi da quando si è iniziato a registrare le temperature e hanno anche assistito a eventi meteorologici estremi sempre più frequenti, eccezionali e costosi. La generazione che in queste settimane, in tutto il mondo, manifesta per il clima è nata ed è vissuta nel pieno dell'accelerazione del riscaldamento globale che si è verificata negli anni più recenti. È proprio per questo che la sua mobilitazione è particolarmente significativa. Ed è per la stessa ragione che dovrebbe costituire per tutti noi un monito: non abbiamo più tempo. Tra l'altro è una mobilitazione che non nasce dal nulla, ma da anni di attivismo e impegno di movimenti, associazioni e scienziati. Invece di considerare tutto questo, molti si rivolgono accuse reciproche («e tu che hai fatto?», «e voi che fate?» e «quello che fa»?). Ditemi, dunque: perché non siamo stati noi più grandi in questi anni a fare quello che hanno fatto gli studenti in questi giorni? Perché non siamo stati noi, oggi adulti, a iniziare un'azione di massa? Perché non abbiamo chiesto noi, per primi, che il clima e altri temi ambientali entrassero nell'agenda? Tanti di quelli che manifestano in queste settimane non hanno neanche l'età per votare ed erano bambini quando, anni fa, già non si faceva quello che si sarebbe dovuto fare, quando gli allarmi rimanevano inascoltati. I giovani di #FridaysForFuture sono cresciuti in un mondo in cui troppi adulti hanno rimandato, ignorato, sottovalutato, spesso perfino negato e boicottato. Ora chiedono il conto. Mi pare cristallino e ineccepibile. Si sta formando un movimento democratico e popolare. Possiamo aderire anche noi. Magari per dare il nostro contributo, suggerire, informare, indirizzare, con le competenze che i ragazzi non hanno e non sono tenuti ancora ad avere. Oppure possiamo guardare il ditino. Nel frattempo le parti per milione di CO2 nell'atmosfera aumentano. Purtroppo lo fanno in modo "invisibile". E noi continuiamo a guardare il ditino.

Anche un premio Nobel può raccontare cose sbagliate sul clima. Testo di Stefano Caserini e Gianni Comoretto, con contributi di Mario Grosso, Sylvie Coyaud e Claudio della Volpe su climalteranti.it il 21 marzo 2019. In una seduta del Senato nel 2014 il Premio Nobel Carlo Rubbia fece numerose affermazioni infondate o chiaramente sbagliate sui cambiamenti climatici, rilanciando tanti miti del negazionismo climatico già più volte confutati. Da tempo ci arrivano inviti a confutare quanto sostenuto sul tema dei cambiamenti climatici dal Senatore Carlo Rubbia il 26 novembre 2014, durante la seduta congiunta delle commissioni 3a (Affari esteri, emigrazione) e 13a (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato della Repubblica e III (Affari esteri e comunitari) e VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati (qui il resoconto). Abbiamo fino ad oggi rinviato, sia per il dispiacere che un Senatore a vita e figura importante del mondo scientifico italiano fosse incorso in un tale incidente (Carlo Rubbia ha ricevuto il Nobel per la fisica nel 1984 insieme con Simon van der Meer “for their decisive contributions to the large project, which led to the discovery of the field particles W and Z, communicators of weak interaction”), sia perché di fatto nelle affermazioni di Rubbia non c’era in realtà niente di nuovo, ma solo tesi già più volte confutate su questo blog.  E anche perché altri avevano già dato delle risposte. Avremmo quindi preferito stendere un velo pietoso, ma la registrazione dell’intervento disponibile su youtube, che conta ormai quasi 800.000 visualizzazioni, è stata ancora recentemente più volte riproposta (ad esempio da Libero e dal giornalista Nicola Porro): Rubbia sembra ormai l’ultima sponda per chi nega le responsabilità umane sul clima. Provvediamo quindi a mostrare la quantità di errori gravi presenti nelle sue affermazioni. Ogni frase o gruppo di frasi della relazione di Rubbia sarà seguita da un breve commento e da una serie di citazioni che mostrano i dati scientifici che le smentiscono.

Rubbia: Sono una persona che ha lavorato almeno un quarto di secolo sulla questione dell’energia nei vari aspetti e, quindi, conosco le cose con grande chiarezza.

Risposta: questa frase si riferisce ragionevolmente al settore energetico. Sul tema del clima, Rubbia non ha alcuna competenza o esperienza scientifica (vedi qui un suo cv).

Rubbia: Vorrei esprimere alcuni concetti rapidamente anche perché i tempi sono brevi. La prima osservazione è che il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo (in un certo senso, probabilmente, in maniera falsa) che se non facciamo nulla e se teniamo la CO2 sotto controllo, il clima della Terra resterebbe invariato. Questo non è assolutamente vero.

Risposta: è vero che il clima è sempre cambiato per fenomeni naturali, ma molto più lentamente di quanto stia accadendo ora. Se si tiene la CO2 sotto controllo le variazioni di temperatura saranno più lente e meno pronunciate di quelle che ci sarebbero con maggiore presenza di gas climalteranti in atmosfera.

Rubbia: Vorrei ricordare che durante l’ultimo milione di anni la Terra era dominata da periodi di glaciazione in cui la temperatura era di meno 10 gradi, tranne brevissimi periodi in cui c’è stata la temperatura che è quella di oggi.

Risposta: la variazione di 10 gradi fra i periodi glaciali e interglaciali è relativa all’Antartide, la variazione a scala globale è stata circa la metà (vedi ad esempio le variazioni in varie zone qui).

Rubbia: L’ ultimo è stato 10.000 anni fa, quando è cominciato il cambiamento climatico che conosciamo con l’agricoltura, lo sviluppo, che è la base di tutta la nostra civilizzazione di oggi. Negli ultimi 2.000 anni, ad esempio, la temperatura della Terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei Romani, ad esempio, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati. C’è stato un periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all’ anno 1000 c’ è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani (ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era un grado e mezzo più alta di quella di oggi). Poi c’è stata una mini-glaciazione durante il periodo 1500-1600 che riguardo il Nord con i vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa mini-glaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali.

Risposta: Negli ultimi 2000 anni il clima della Terra si avviava lentamente verso una nuova glaciazione, un andamento ribaltato dalle emissioni di gas serra dalla rivoluzione industriale iniziata a fine Settecento. La temperatura in Europa supera di 2° C quella ai tempi dei Romani. La tesi del grande caldo del medioevo è stata smentita più volte, sulla base delle ricostruzioni paleoclimatiche (vedi i risultati del Pages2k Consortium oppure 2500 Years of European Climate Variability and Human Susceptibility”, Science 2011), e come ben visibile nelle seguenti figure tratti da questi due progetti.

Rubbia: Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici sostanziali, che sono avvenuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Per esempio, negli anni Quaranta c’è stato un cambiamento sostanziale. Poi c’è stato un cambiamento di temperatura che si collega all’uomo (non dimentichiamo che quando sono nato io, la popolazione della Terra era 3,7 volte inferiore a quella di oggi e che il consumo energetico primario è aumentato 11 volte). Questi cambiamenti hanno avuto effetti molto strani e contraddittori sul comportamento del pianeta.

Risposta: Negli ultimi 100 anni, tutte le registrazioni esistenti delle temperature mostrano un aumento che accelera dagli anni Settanta dopo un lieve calo della media a ridosso della seconda guerra mondiale. Il secondo e più breve calo è avvenuto dopo l’eruzione del Pinatubo nel 1991. I modelli climatici che considerano le diverse forzanti sono in grado di ricostruire l’andamento delle temperature negli ultimi 100 anni.

Rubbia: Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di 0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un’esplosione della temperatura. La temperatura è aumentata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti. Il fatto è che la temperatura media della Terra, negli ultimi 15 anni, non è aumentata ma diminuita.

Risposta: La tesi dal mancato aumento delle temperature globali era senza senso già nel 2014, ora di fatto non esiste più. Ci limitiamo a ricordare che, dal 2000, non solo la temperatura media ha continuato ad aumentare, ma sono stati registrati i 17 anni più caldi delle rilevazioni dal 1860 in poi. Rubbia basa le sue affermazioni su un intervallo di tempo limitato, dal 1998, anno caldo in modo anomalo, e si ferma al 2013 (l’intervento in Senato è del 2014). Se fosse partito dal 1997 o dal 1999, negli anni considerati avrebbe osservato un riscaldamento, come già più volte spiegato su questo blog. Inoltre dal 2013 ad oggi la temperatura è ulteriormente aumentata, anche rispetto al 1998.

Rubbia: Nonostante questo, ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente drammatica: le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale.

Risposta: La situazione è abbastanza drammatica, infatti; ma l’aumento delle emissioni negli ultimi 20 anni non è stato esponenziale.

Rubbia: Vorrei ricordare che l’unico Paese nel mondo riuscito a mantenere e ridurre le emissioni di CO2 sono gli Stati Uniti: non l’Europa, non la Cina, ma gli Stati Uniti. Per quale motivo? C’è stato lo sviluppo del gas naturale, che adesso sta rimpiazzando fondamentalmente le emissioni di CO2 dovute al carbone.

Risposta: L’Unione Europea ha ridotto le sue emissioni in modo molto più consistente degli Stati Uniti.

Leggendo altri interventi di Rubbia, non è facile comprendere quale sia il suo esatto pensiero sull’argomento, ma è difficile considerarlo uno “sbufalatore del global warming”. Più volte ha affermato e ribadito che le emissioni di CO2 sono un problema reale, che il “raffreddamento” di cui parla è dovuto al mascheramento del riscaldamento per altre cause che sono comunque contingenti, che il calore si sta accumulando altrove, ad esempio negli oceani. Ha affermato che già oggi il riscaldamento sta aumentando la frequenza dei cicloni tropicali. E da sempre sostiene che è necessario comunque ridurre queste emissioni, infatti i suoi progetti (Archimede, Desertec) sono motivati da questa necessità. Quindi Rubbia non ha mai sostenuto, in realtà, che il riscaldamento globale non sia collegato all’aumento di CO2, ma semmai ne sottostima l’impatto attuale. Anche nell’intervento in Senato di cui si sta parlando conclude proponendo una sua idea per produrre combustibili senza emettere CO2. Senza entrare nel merito della bontà dell’idea, sembra evidente che non si propone una soluzione ad un problema se non si pensa che questo sia reale.

La bufala del premio Nobel Carlo Rubbia che nega il cambiamento climatico. Antonio Scalari il 19 Marzo 2019 su valigiablu.it. In questi giorni, dopo le manifestazioni sul clima, ha ripreso a girare il video di un intervento del fisico, premio Nobel, Carlo Rubbia (non un climatologo) in una seduta delle commissioni riunite "Ambiente e Territorio" di Camera e Senato del 2014. Il video ha un titolo acchiappa-click – "Carlo Rubbia, Nobel per la fisica, smonta la bufala dei cambiamenti climatici" – che non sintetizza correttamente né rispecchia quello che viene detto. Rubbia, in questo video, non smonta nessuna bufala che riguardi il clima, anche se piacerebbe a chi è impegnato a diffondere disinformazione sul tema. Tra le altre cose, Rubbia dice che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata, è diminuita. Non è vero. Che la temperatura della Terra abbia sostanzialmente smesso di aumentare, o sia addirittura diminuita, dalla fine degli anni '90 è una tesi ricorrente, ripetuta dai negazionisti, che ignora però i dati sulla tendenza più recente. E trascura anche il fatto che la gran parte dell'aumento della temperatura globale è finita negli oceani.  Il 90% del riscaldamento che si è verificato negli ultimi 50 anni sul pianeta si è accumulato all'interno degli oceani, in particolare nella parte più superficiale fino a 700 metri di profondità. Dal 2000 a oggi le temperature registrate a livello della superficie marina e terrestre hanno mostrato un'anomalia positiva (cioè un aumento). Quando si parla di riscaldamento globale, ciò a cui si deve prestare maggiore attenzione non sono le variazioni di temperatura da un anno all'altro, ma è soprattutto la tendenza nel medio e lungo periodo. Tendenza che, anche per il 2018, ha dimostrato un chiaro aumento della temperatura globale, che è ancora più accentuato in alcune regioni del pianeta, come l'Artico. Non è del resto un caso che i 10 anni più caldi finora registrati, da quando si raccolgono misurazioni strumentali, siano concentrati proprio nell'ultimo ventennio. Tra gli anni più caldi troviamo tutti gli anni dal 2013 al 2018. Lo stesso Rubbia, subito dopo quell'affermazione, dice che «ci troviamo di fronte a una situazione drammatica, le emissioni di CO2 stanno aumentando». Nel resto dell'intervento parla di cosa è stato fatto o si può fare per ridurle e delle difficoltà a riguardo, di cosa hanno fatto gli USA, l'Europa, la Cina. E quindi? Quindi Rubbia non smonta nessuna bufala. Dice perfino che «il cambiamento climatico del CO2 registra un aumento esponenziale» (così si legge nel resoconto stenografico dell'intervento). Il fisico fa forse un po' di confusione con le parole, perché dire «cambiamento climatico del CO2» non ha senso e comunque l'aumento non è "esponenziale". In ogni caso il suo intervento non dimostra che non si devono tagliare le emissioni antropiche di CO2 né che queste non sono la principale causa dell'attuale cambiamento climatico. Altrimenti, non avrebbe senso nemmeno porsi il problema della riduzione delle emissioni. Il video di Carlo Rubbia gira in Rete, diffuso dai negazionisti, soltanto grazie a un titolo scorretto, che non rispecchia il contenuto e il senso dell'intervento del fisico. Molti si fermano a quello, pochi ascoltano l'intero discorso. Basta poco per fare disinformazione, è sufficiente un titolo inventato. Il quotidiano Libero ha pubblicato sul proprio sito il testo dell'intervento di Rubbia introdotto da questo titolo: Cambiamento climatico, il premio Nobel Carlo Rubbia svela la più inquietante menzogna. La vera menzogna è chiamare questa roba "giornalismo", solo perché registrata in un tribunale e pubblicata da persone che possono esibire un tesserino. Ma questo non c'entra con il cambiamento climatico. Nota finale: un Nobel può sbagliare? Sì, può fare affermazioni inesatte, imprecise, perfino sostenere scemenze, soprattutto in campi diversi dal proprio. Il Nobel non dà a chi lo riceve il dono dell'infallibilità, non è una patente di competenza su ogni argomento, è solo il riconoscimento per il contributo dato in uno specifico campo.

La bufala dei cambiamenti climatici spiegata dal Nobel Carlo Rubbia. Nicola Porro il 16 Marzo 2019. Cambiamenti climatici: l’intervento del premio Nobel per la fisica e senatore a vita Carlo Rubbia, dinanzi alle commissioni riunite Affari esteri e Ambiente-territorio di Camera e Senato il 26 novembre 2014. Sono una persona che ha lavorato almeno un quarto di secolo sulla questione dell’energia nei vari aspetti e, quindi, conosco le cose con grande chiarezza. Vorrei esprimere alcuni concetti rapidamente anche perché i tempi sono brevi. La prima osservazione è che il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo (in un certo senso, probabilmente, in maniera falsa) che se non facciamo nulla e se teniamo la CO2 sotto controllo, il clima della Terra resterebbe invariato. Questo non è assolutamente vero. Vorrei ricordare che durante l’ultimo milione di anni la Terra era dominata da periodi di glaciazione in cui la temperatura era di meno 10 gradi, tranne brevissimi periodi in cui c’ è stata la temperatura che è quella di oggi. L’ ultimo è stato 10.000 anni fa, quando è cominciato il cambiamento climatico che conosciamo con l’agricoltura, lo sviluppo, che è la base di tutta la nostra civilizzazione di oggi. Negli ultimi 2.000 anni, ad esempio, la temperatura della Terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei Romani, ad esempio, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati. C’è stato un periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all’ anno 1000 c’ è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani (ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era un grado e mezzo più alta di quella di oggi). Poi c’è stata una mini-glaciazione durante il periodo 1500-1600 che riguardo il Nord con i vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa mini-glaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali. Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici sostanziali, che sono avvenuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Per esempio, negli anni Quaranta c’è stato un cambiamento sostanziale. Poi c’è stato un cambiamento di temperatura che si collega all’uomo (non dimentichiamo che quando sono nato io, la popolazione della Terra era 3,7 volte inferiore a quella di oggi e che il consumo energetico primario è aumentato 11 volte). Questi cambiamenti hanno avuto effetti molto strani e contraddittori sul comportamento del pianeta. Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di 0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un’esplosione della temperatura. La temperatura è aumentata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti. Il fatto è che la temperatura media della Terra, negli ultimi 15 anni, non è aumentata ma diminuita. Nonostante questo, ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente drammatica: le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale. Tra le varie soluzioni dell’IPCC prevale la soluzione del business as usual. Essa è la soluzione più alta di tutte: indica che, effettivamente, anche grazie allo sviluppo della Cina e degli altri Paesi in via di sviluppo, l’aumento delle emissioni di CO2 sta avvenendo con estrema rapidità. Le emissioni stanno aumentando in maniera tale che, a mio parere, tutte le speranze che abbiamo di ridurre il consumo energetico facendo azioni politiche ed altro, sono contraddette dal fatto che oggi il cambiamento climatico del CO2 ha un aumento esponenziale senza mostrare una inversione di tendenza; sta crescendo liberamente. Vorrei ricordare che l’unico Paese nel mondo riuscito a mantenere e ridurre le emissioni di CO2 sono gli Stati Uniti: non l’Europa, non la Cina, ma gli Stati Uniti. Per quale motivo? C’è stato lo sviluppo del gas naturale, che adesso sta rimpiazzando fondamentalmente le emissioni di CO2 dovute al carbone. Ricordiamo anche che il costo dell’energia elettrica in America è due volte il costo dell’Europa. Perché? Il consumo della chimica fine in Europa è deficitario e in crollo fisso, perché fondamentalmente in America si stanno sviluppando delle tecnologie grazie ad uno sviluppo tecnologico ambientale importantissimo, che ha permesso veramente di cambiare le cose. Questo dà un messaggio chiaro: soltanto attraverso lo sviluppo tecnologico possiamo cercare di entrare in competizione con gli altri Paesi e non attraverso misure come quelle dell’Unione europea, che sono sempre state misure di coercizione e di impegno politico formale, senza una soluzione. Guardiamo la situazione americana (dove c’ è un progresso effettivo nel vantaggio tecnologico che crea business, posti di lavoro) e guardiamo la situazione europea. Secondo me, c’ è una grandissima differenza: anche le soluzioni provenienti dalle energie rinnovabili con gli sviluppi tecnologici nel campo del gas naturale si trovano in situazione estremamente difficile perché oggi il costo del gas naturale in America è un quinto di quello in Europa. In Europa il costo delle energie rinnovabili è superiore a quello del gas naturale. Pertanto, dobbiamo renderci conto che la soluzione tecnologica dipende da quello che vogliamo fare. Sto portando avanti un programma che, a mio parere, potrebbe essere studiato con molta più attenzione anche dal nostro Paese: trasformare il gas naturale ed emetterlo senza emissioni di CO2. Il gas naturale è fatto di CH4, cioè quattro idrogeni e un carbonio. È possibile trasformare questo gas naturale, spontaneamente, in black carbon (grafite) ed idrogeno. Questa grafite, essendo un materiale solido, non rappresenta produzione di CO2. Quindi è oggi possibile utilizzare il gas naturale, di cui ci sono risorse assolutamente incredibili. Non mi riferisco tanto allo shale gas che, a mio parere, è una soluzione discutibile, ma soprattutto a quelli che si chiamano clatrati. Onorevoli, vorrei chiedere quanti di voi sanno cosa è un clatrato. Nessuno? Questo è il problema. È un problema molto serio. Il mio parere personale è che si può portare avanti il programma attraverso l’innovazione tecnologica e lo sviluppo di idee nuove. Il programma è quello di evitare le CO2 emission utilizzando il gas naturale senza emissioni di CO2. Stiamo facendo degli esperimenti che dimostrano che effettivamente la cosa si può fare. Perché nessuno se ne occupa ancora? Mi piacerebbe saperlo.

Cambiamento climatico, il premio Nobel Carlo Rubbia svela la più inquietante menzogna. Libero Quotidiano il 16 Marzo 2019. Pubblichiamo di seguito ampi stralci del discorso tenuto dal premio Nobel per la fisica e senatore a vita Carlo Rubbia di fronte alle commissioni riunite Affari esteri e Ambiente-territorio di Camera e Senato il 26 novembre 2014. Sono una persona che ha lavorato almeno un quarto di secolo sulla questione dell' energia nei vari aspetti e, quindi, conosco le cose con grande chiarezza. Vorrei esprimere alcuni concetti rapidamente anche perché i tempi sono brevi. La prima osservazione è che il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo (in un certo senso, probabilmente, in maniera falsa) che se non facciamo nulla e se teniamo la CO2 sotto controllo, il clima della Terra resterà invariato. Questo non è assolutamente vero. Vorrei ricordare che durante l' ultimo milione di anni la Terra era dominata da periodi di glaciazione in cui la temperatura era di meno 10 gradi, tranne brevissimi periodi in cui c' è stata la temperatura che è quella di oggi. L' ultimo è stato 10.000 anni fa, quando è cominciato il cambiamento climatico con l' agricoltura, lo sviluppo eccetera, che è la base di tutta la nostra civilizzazione di oggi. Negli ultimi 2.000 anni, ad esempio, la temperatura della Terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei Romani, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati. C' è stato un periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all' anno 1000 c' è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani. Ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era un grado e mezzo più alta di quella di oggi; poi c' è stata una mini-glaciazione durante il periodo 1500-1600. Ad esempio, i vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa mini-glaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali.

POPOLAZIONE E CONSUMI. Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici sostanziali, che sono avvenuti ben prima dell' effetto antropogenico, dell' effetto serra e così via. Per esempio, negli anni Quaranta c' è stato un cambiamento sostanziale. La presenza dell' uomo ha probabilmente introdotto ulteriori cambiamenti. Non dimentichiamo che quando sono nato io, la popolazione della Terra era 3,7 volte inferiore a quella di oggi. Nella mia vita il consumo energetico primario è aumentato 11 volte. Per quanto riguarda il comportamento del pianeta, questo ha avuto effetti molto strani e contraddittori. Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di 0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un' esplosione della temperatura. La temperatura è montata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti. Il fatto è che la temperatura media della Terra, negli ultimi 15 anni, non è aumentata ma diminuita.

L'ESEMPIO USA. Nonostante questo, ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente drammatica: le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale. Tra le varie soluzioni dell' IPCC prevale la soluzione del business as usual. Essa è la soluzione più alta di tutte: indica che, effettivamente, anche grazie allo sviluppo della Cina e degli altri Paesi in via di sviluppo, l' aumento delle emissioni di CO2 sta avvenendo con estrema rapidità. Le emissioni stanno aumentando in maniera tale che, a mio parere, tutte le speranze che abbiamo di ridurre il consumo energetico facendo azioni politiche ed altro, sono contraddette dal fatto che oggi il cambiamento climatico del CO2 registra un aumento esponenziale senza mostrare una inversione di tendenza; sta crescendo liberamente. Vorrei ricordare che l' unico Paese nel mondo riuscito a mantenere e ridurre le emissioni di CO2 sono gli Stati Uniti: non l' Europa, non la Cina, ma gli Stati Uniti. Per quale motivo? C' è stato lo sviluppo del gas naturale, che adesso sta rimpiazzando fondamentalmente le emissioni di CO2 dovute al carbone. Ricordiamo anche che il costo dell' energia elettrica in America è due volte il costo dell' Europa. Perché? Il consumo della chimica fine in Europa è deficitario e in crollo fisso, perché fondamentalmente in America si stanno sviluppando delle tecnologie grazie ad uno sviluppo tecnologico ambientale importantissimo, che ha permesso veramente di cambiare le cose. Questo dà un messaggio chiaro: soltanto attraverso lo sviluppo tecnologico possiamo cercare di entrare in competizione con gli altri Paesi e non attraverso misure come quelle dell' Unione europea, che sono sempre state misure di coercizione e di impegno politico formale, senza una soluzione.

INNOVAZIONE TECNOLOGICA. Guardiamo la situazione americana (dove c' è un progresso effettivo nel vantaggio tecnologico che crea business, posti di lavoro) e guardiamo la situazione europea. Secondo me, c' è una grandissima differenza: anche le soluzioni provenienti dalle energie rinnovabili con gli sviluppi tecnologici nel campo del gas naturale si trovano in situazione estremamente difficile perché oggi il costo del gas naturale in America è un quinto di quello in Europa. In Europa il costo delle energie rinnovabili è superiore a quello del gas naturale. Pertanto, dobbiamo renderci conto che la soluzione tecnologica dipende da quello che vogliamo fare. Sto portando avanti un programma che, a mio parere, potrebbe essere studiato con molta più attenzione anche dal nostro Paese: trasformare il gas naturale ed emetterlo senza emissioni di CO2. Il gas naturale è fatto di CH4, cioè quattro idrogeni e un carbonio. È possibile trasformare questo gas naturale, spontaneamente, in black carbon ed idrogeno. Questa grafite, essendo un materiale solido, non rappresenta produzione di CO2. Quindi è oggi possibile utilizzare il gas naturale, di cui ci sono risorse assolutamente incredibili. Non mi riferisco tanto allo shale gas che, a mio parere, è una soluzione discutibile, ma soprattutto a quelli che si chiamano clatrati. Onorevoli, vorrei chiedere quanti di voi sanno cosa è un clatrato. Nessuno? Questo è il problema. È un problema molto serio. Il mio parere personale è che si può portare avanti il programma attraverso l' innovazione tecnologica e lo sviluppo di idee nuove. Il programma è quello di evitare le CO2 emissions utilizzando il gas naturale senza emissioni di CO2. Stiamo facendo degli esperimenti che dimostrano che effettivamente la cosa si può fare. Perché nessuno se ne occupa ancora? Mi piacerebbe saperlo. Carlo Rubbia

Clima di censura tra scienziati: vietato parlare male di Greta. Gli studiosi che osano confutare l'emergenza climatica bollati come «negazionisti». Il caso del convegno dei Lincei. Giuseppe Marino, Mercoledì 25/09/2019, su Il Giornale. Non c'è bisogno dell'olio di ricino: per un pestaggio bastano le parole. Succede che un gruppo di otto scienziati italiani rediga un documento che contesta l'allarme sul cambiamento climatico e il legame con le attività umane, una «Petizione sul Riscaldamento Globale Antropico». Il documento viene diffuso tra i colleghi senza particolare battage mediatico, soprattutto se comparato all'eco planetaria ottenuta dai fautori delle tesi opposte che hanno eletto a simbolo la giovane Greta Thunberg. Succede anche che, nonostante la disparità di forze, la petizione raccolga duecento firme di scienziati, tra cui quella del fisico Antonino Zichichi. Il testo viene inoltre tradotto in inglese e comincia a circolare fuori dall'Italia con un titolo più aggressivo: «European Declaration: There is No Climate Emergency». Si arriva in breve a 500 firme di studiosi di tutto il mondo e viene preparata una conferenza per discuterne a Oslo il 18 e 19 ottobre. Al centro dell'offensiva «scettica» ci sono tra l'altro dati presentati dal gruppo di studiosi che mostrano un aumento delle temperature minore delle previsioni dell'Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l'organismo dell'Onu che indaga il «climate change». Fin qui pare trattarsi di un normale confronto di idee, a fronte di un tema dalle tante implicazioni, anche politiche. Che però inevitabilmente attirano l'attenzione anche del movimento d'opinione che ha eletto il complesso discorso sul «global warming» a una forma di religione. In Italia il dibattito scientifico è subito diventato questione per curve da stadio. Succede ancora che l'Accademia dei Lincei organizzi un convegno sull'argomento previsto per il 12 novembre e inviti anche uno scienziato che sostiene tesi opposte a quelle dell'Ipcc, il professor Franco Battaglia, uno degli otto promotori originali della petizione (nel gruppo c'è anche il professor Franco Prodi). Un membro del comitato organizzatore del convegno, il professor Guido Visconti, climatologo di fama che non ha mai nascosto i suoi dubbi sul modelli di ricerca dell'Ipcc ma che conferma il rapporto tra attività umana e cambiamento climatico, si dimette in polemica con la scelta dei Lincei. Parte immediata la bastonatura contro il professor Battaglia. Il quotidiano Repubblica pubblica un articolo in cui sbeffeggia gli articoli del docente, storica firma del Giornale e punta a metterne in ridicolo l'attività scientifica. Il titolo dell'articolo, soprattutto, è già un marchio: «I Lincei organizzano un convegno sul clima. E fanno parlare il negazionista Battaglia». La scelta del termine è significativa: «negazionista» è il vocabolo usato per indicare gli estremisti convinti contro ogni evidenza che l'Olocausto sia una montatura del popolo ebraico. Un modo piuttosto scoperto non di confutarne le tesi scientifiche, ma la stessa legittimazione sociale a esprimere un'opinione. Con il risultato che ora appare lecito inserire questi studiosi in una lista di bersagli da colpire. Come fa il meteorologo Luca Mercalli in un articolo: «Comunque la petizione degli scienziati negazionisti ha almeno un vantaggio: rende disponibile ai nostri giovani studenti che, sollecitati da Greta Thunberg, lottano per il loro futuro, una lista autografa dei loro nemici». Frase che, in altri tempi, sarebbe stata degna dei «cattivi maestri» dell'estremismo rosso. Davvero un brutto clima.

Il guru Zichichi smonta le eco-balle: clima e smog, cosa sta succedendo. Libero Quotidiano il 29 Dicembre 2015. "Proibiamo di immettere veleni nell'aria con leggi draconiane" ma ricordiamoci che "l'effetto serra è un altro paio di maniche, e noi umani c'entriamo poco. Sfido i climatologi a dimostrarmi che tra cento anni la Terrà sarà surriscaldata. La storia del climate change è un'opinione, un modello matematico che pretende di dimostrare l'indimostrabile". Antonio Zichichi, 85 anni, in una intervista a Il Mattino avverte: "Noi studiosi possiamo dire a stento che tempo farà tra quindici giorni, figuriamoci tra cento anni".E poi si chiede Zichichi: "In nome di quale ragione si pretende di descrivere i futuri scenari della Terra e le terapie per salvarla, se ancora i meccanismi che sorreggono il motore climatico sono inconoscibili? Divinazioni". Lo scienziato spiega che "per dire che tempo farà tra molti anni, dovremmo potere descrivere l'evoluzione del tempo istante per istante sia nello spazio che nel tempo. Ma questa evoluzione si nutre anche di cambiamenti prodotti dall'evoluzione stessa. È un sistema a tre equazioni che non ha soluzione analitica". Quindi perché molti scienziati concordano sul riscaldamento globale? "Perché hanno costruito modelli matematici buoni alla bisogna. Ricorrono a troppi parametri liberi, arbitrari. Alterano i calcoli con delle supposizioni per fare in modo che i risultati diano loro ragione. Ma il metodo scientifico è un'altra cosa". E "occorre distinguere nettamente tra cambio climatico e inquinamento. L'inquinamento esiste, è dannoso, e chiama in causa l'operato dell'uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un'enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale. L'azione dell'uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali a oggi gli scienziati, come dicevo, non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future. Ma io sono ottimista".

"Clima tra 10 anni? Incalcolabile" Così Zichichi smonta i catastrofisti. Il presidente della federazione mondiale degli scienziati è scettico: "Inattendibili le previsioni sul lungo periodo". Nicola Porro, Sabato 05/12/2015, su Il Giornale.  Mentre lo intervistiamo è nel suo studio di Ginevra, impegnato al Cern. Antonino Zichichi, presidente della Wfs (World federation of scientist) e cioè della federazione degli scienziati mondiali, ha un atteggiamento scettico sulla pomposa riunione dei capi di Stato a Parigi sui problemi dell'ambiente. O meglio il suo scetticismo è rivolto alle previsioni drammatiche fatte sul riscaldamento del pianeta. Zichichi non entra nel merito, ma critica il metodo, il modo in cui si pretende di sapere cosa avverrà al pianeta tra dieci o addirittura cinquanta anni.

Eppure, gli chiediamo, esisterà un modo rigorosamente scientifico di trattare l'evoluzione del clima?

«Per descrivere in modo matematicamente rigoroso l'evoluzione del clima, sono necessarie tre equazioni differenziali non lineari fortemente accoppiate. Differenziali vuol dire che è necessario descrivere l'evoluzione istante per istante nello spazio e nel tempo (nel dove e nel quando). Non lineari vuol dire che l'evoluzione dipende anche da se stessa. Esempio: il mio futuro dipende anche da me stesso. Fortemente accoppiate vuol dire che l'evoluzione descritta da ciascuna equazione ha enormi effetti anche sulle altre.Questo sistema di tre equazioni non ha soluzione analitica; il che vuol dire nessuno riuscirà mai a scrivere l'equazione dell'evoluzione del clima. L'unica strada è costruire modelli ad hoc. Un modello matematico non è la verità scientifica ma l'equivalente del dire È così perché l'ho detto io; non a parole, ma scrivendo formule che obbediscono a ciò che io penso sia la soluzione.

Ma Lei mi sta dicendo che non si possono fare previsioni?

«Le sto dicendo che le previsioni hanno senso solo a breve termine. Quelle sul tempo di domattina hanno margini di errori bassissimi, quelle tra 15 giorni sono inattendibili. Si figuri una previsione sul clima a dieci anni. Quello che funziona bene è il cosidetto «now casting»; lo abbiamo scoperto noi con un progetto pilota della Wfs in Cina studiando il Fiume Giallo che causava migliaia di morti per le previsioni a lungo termine che davano troppo spesso falsi allarmi.La gente ignorava gli allarmi restando a casa. Fino a quando noi abbiamo introdotto le previsioni a breve termine: «now casting». Ecco perché il presidente Den Xiao Ping mi ricevette a Pechino come fossi un capo di Stato e mi disse che avrebbe sostenuto l'istituzione di un laboratorio mondiale per una scienza senza segreti e senza frontiere come facciamo al Cern e a Erice nel Centro di Cultura Scientifica che porta il nome del pupillo di Fermi, Ettore Majorana».

Professore, Lei nega che ci siamo delle emergenze ambientali?

«Io mi limito a dire che ci sono 72 emergenze planetarie che a differenza di quelle climatiche sono verificabili, certe, scientificamente provabili. Una di queste ad esempio e riguarda l'oggi, è l'acqua. Servirebbero molte risorse per renderla disponibile e pulita per milioni di persone come ha ricordato Papa Francesco».

Non negherà che l'uomo inquina e con ciò potrebbe compromettere il nostro futuro, ma anche il nostro presente.

«Si facciano leggi che puniscano severamente l'inquinamento senza confondere i veleni con le problematiche climatologiche, come sono CO2 ed effetto serra. Bisogna demonizzare i veleni che vengono impunemente versati nell'atmosfera.L'anidride carbonica (CO2) è cibo per le piante. Se nell'atmosfera non ci fosse stata CO2 non sarebbe nata la vita vegetale. E siccome la vita animale viene dopo quello vegetale noi non saremmo qui. L'effetto serra non è un nostro nemico. Se non ci fosse l'effetto serra la temperatura di questo satellite del sole sarebbe 18 gradi sotto zero. L'effetto serra ci regala 33 gradi».

Greta Thunberg, cinquecento scienziati scrivono all'Onu: "Ma che emergenza è? I dati non sono giusti". Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. È arrivata una letterina all' Onu. Ha la forza di 500 leoni stufi di stare in gabbia. Sono gli scienziati imprigionati nel bozzolo delle idiozie della fake science. Sono 500 tra cattedratici e ricercatori dell' intero orbe terracqueo. Nella missiva contestano i dati inventati e il catastrofismo apocalittico di Greta Thurnberg. Ci giocano la faccia e si espongono al linciaggio social. C' è infatti nonostante un clima, questo sì davvero ignobile e ustionante, da caccia alle streghe alimentato dalla piccola strega, una pattuglia di coraggiosi, inutilmente competenti. Il segretario generale dell' Onu António Guterres, che ha creato un ambiente da tempio della Dea Kalì per ospitare Greta dalle dieci braccia e trentatré trecce, ne ha invitato forse uno, almeno uno a sorte di questi 500? Figuriamoci. Nessun dibattito è ammesso. Cosa daremmo per assistere a uno scambio di tesi e dialoghi alla pari tra il Nobel Carlo Rubbia e questa furiosa creatura che sembra venuta da qualche girone dantesco con quegli occhi infiammati, con quei suoi discorsi sui sogni e sulla purificazione che ricordano quelli della gioventù hitleriana? Ci domandiamo: chi ha organizzato questa sua ascesa, chi organizza i viaggi, quale organizzazione le ha fatto fissare tempi e termini della sua partecipazione a questo evento globale? Ci sono concorsi pubblici per parlare all' Onu?

IL TORTO DI SAPERE. I 500 non hanno avuto citazioni sulle prime pagine del giornalone unico dove si spiega la magia del carisma della ragazzina. Ve ne diamo noi l' avviso, per dare un po' di salutare CO2 a tutti coloro, e sono tanti, che sono stati abbandonati dal servizio pubblico e da quello commerciale, e perciò hanno creduto di essere soli in mezzo a folle oceaniche di pupazzetti robotizzati dalle formule usate anche per aizzare i doberman. Tranquilli. Non siamo soli. Ci sono gli scienziati, che a differenza di Greta hanno il torto di avere la laurea ed essere in alcuni casi calvi; e c' è anche il buon senso a cui vorremmo fare da megafono. Siamo in un tempo assurdo. Si crede all' onniscienza delle masse e dei suoi like, e per un senso distorto della democrazia, per cui uno vale uno, stiamo arrivando al manicomio universale con l' umanità che segue la pifferaia verso l' abisso. Funziona così. Siccome milioni di ignoranti affermano in corteo, bloccando i parlamenti, che la terra è piatta e l' araba fenice esiste (più o meno siamo a questo punto) allora, essendo molti più dei 500 scienziati, hanno ragione loro.

BOMBA IDEOLOGICA. Una bomba atomica, altro che Hiroshima. Per ora non ha fatto morti, ma può fare persino più danni se il missile ideologico lanciato dalla Profetessa Greta all' Onu si tradurrà in scelte politiche. È esattamente il contrario di quanto ci viene fatto bere. Altro che contrasto all' anidride carbonica e agli incendi dell' Amazzonia. Detta così, applausi, ovvio. Chi è favorevole alla invasione della plastica che soffoca pesci e uccelli? Ma non è questo. C' è dietro la follia di chi vuole spegnere il motore del mondo, sulla base di un allarme bugiardo, basato sull' ignoranza di Greta e la furbizia di mestatori che intendono impadronirsi della disperazione indotta da questi poveretti di cervello, a cui strani poteri hanno dato in consegna il giacimento più prezioso di tutti, quello delle coscienze. Greta è adoperata come un' arma di distrazione di massa, ma anche di distruzione di un progresso che si vorrebbe dirigere secondo gli umori oggi della finanza globale, saltando gli Stati, tranne ovviamente la Cina, dove chissà perché Greta non viene trasportata. Altro che purificazione dalle sozzure. Questa gente, che sarebbe la generazione dei liceali del mondo intero con i mestatori interessati delle multinazionali green, vuol spegnerci la luce in casa. Se fosse solo questione di corrente elettrica, ce la caveremmo con le lampade a olio, ma oddio le balene non si possono più cacciare (per fortuna), e però neanche le mucche si potranno allevare, perché producono metano, e bevono acqua, e tutto è sporco, inquinante, vietato, tranne il lusso della barca a vela e dei cibi biologici d' alta gamma.

RITORNO ALLA BARBARIE. È la rivoluzione dei ricchi giovani del nord, che stanchi di distrarsi solo con le pasticche ci provano inventandosi un viaggio psichedelico nell' età dell' oro della preistoria, dove l' età media era di trenta anni, mentre ancora nell' 800 in Europa si era sotto i cinquanta. Questi intendono colonizzare con la loro pseudo-scienza e morale fasulla il resto del pianeta. E il problema è che ce la stanno facendo, stanno rintronando il mondo intero. In nome del diritto a sognare questa signorina con i suoi accoliti ci ricaccia nell' incubo dei tempi in cui la scienza non aveva ancora consentito alla tecnologia di creare e far funzionare quegli strumenti che consentono l' alimentazione di sette miliardi di persone e di portare elettricità, con i suoi benefici di sicurezza e libertà, dove prima era impensabile. Quanto è accaduto all' Onu e da lì è rimbalzato nel mondo, abbattendo i vetri delle nostre case, e gonfiandosi nei nostri tinelli, nei bar e sugli autobus si può sintetizzare così: un fenomeno di ipnosi collettiva ad opera di una maga con le treccine, una creatura arrivata cavalcando i Draghi da qualche saga nordica. Dicendola altrimenti: una strega bambina ci ha gettato un sortilegio. Tutti i potenti del mondo, tranne un ironico Trump e un lievemente dubbioso Macron, si sono prostrati davanti a Greta Thurnberg e alla sua oratoria di una violenza inaudita. La questione molto semplice è che non è vero. È proprio una bugia da bambina delle elementari che ha sbagliato libro delle fiabe. Ma nessuno osa eccepire. Noi, insieme ai 500 sì! Renato Farina

CLIMA, UNA PETIZIONE CONTROCORRENTE. L’Opinione delle Libertà il 19 giugno 2019. Pubblichiamo la petizione sul clima curata dal prof. Uberto Crescenti - Professore Ordinario di Geologia Applicata della Università G. d'Annunzio di Chieti, è stato Rettore della Università G. d'Annunzio dal 1985 al 1997, Presidente della Società Geologica Italiana da 1999 al 2005, fondatore e Presidente della Associazione Italiana di Geologia Applicata e Ambientale dal 1999 al 2005, fondatore e Presidente nel 2001 della Associazione Italiana Geologia e Turismo – in collaborazione con scienziati di fama internazionale, con l’obiettivo di incentivare un serio dibattito sul futuro del nostro pianeta in base alle attuali conoscenze scientifiche e scevro da condizionamenti politici.

Al Presidente della Repubblica

Al Presidente del Senato

Al Presidente della Camera dei Deputati

Al Presidente del Consiglio

PETIZIONE SUL RISCALDAMENTO GLOBALE ANTROPICO.

I sottoscritti, cittadini e uomini di scienza, rivolgono un caloroso invito ai responsabili politici affinché siano adottate politiche di protezione dell’ambiente coerenti con le conoscenze scientifiche. In particolare, è urgente combattere l’inquinamento ove esso si presenti, secondo le indicazioni della scienza migliore. A tale proposito è deplorevole il ritardo con cui viene utilizzato il patrimonio di conoscenze messe a disposizione dal mondo della ricerca e destinate alla riduzione delle emissioni antropiche inquinanti diffusamente presenti nei sistemi ambientali sia continentali che marini. Bisogna però essere consapevoli che l’anidride carbonica di per sé non è un agente inquinante. Al contrario essa è indispensabile per la vita sul nostro pianeta.

Negli ultimi decenni si è diffusa una tesi secondo la quale il riscaldamento della superficie terrestre di circa 0.9°C osservato a partire dal 1850 sarebbe anomalo e causato esclusivamente dalle attività antropiche, in particolare dalle immissioni in atmosfera di CO2 proveniente dall’utilizzo dei combustibili fossili. Questa è la tesi del riscaldamento globale antropico promossa dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazione Unite, le cui conseguenze sarebbero modificazioni ambientali così gravi da paventare enormi danni in un imminente futuro, a meno che drastiche e costose misure di mitigazione non vengano immediatamente adottate. A tale proposito, numerose nazioni del mondo hanno aderito a programmi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica e sono pressate, anche da una martellante propaganda, ad adottare programmi sempre più esigenti dalla cui attuazione, che comporta pesanti oneri sulle economie dei singoli Stati aderenti, dipenderebbe il controllo del clima e, quindi, la “salvezza” del pianeta. L’origine antropica del riscaldamento globale è però una congettura non dimostrata, dedotta solo da alcuni modelli climatici, cioè complessi programmi al computer, chiamati General Circulation Models. Al contrario, la letteratura scientifica ha messo sempre più in evidenza l’esistenza di una variabilità climatica naturale che i modelli non sono in grado di riprodurre. Tale variabilità naturale spiega una parte consistente del riscaldamento globale osservato dal 1850. La responsabilità antropica del cambiamento climatico osservato nell’ultimo secolo è quindi ingiustificatamente esagerata e le previsioni catastrofiche non sono realistiche.

Il clima è il sistema più complesso presente sul nostro pianeta, per cui occorre affrontarlo con metodi adeguati e coerenti al suo livello di complessità. I modelli di simulazione climatica non riproducono la variabilità naturale osservata del clima e, in modo particolare, non ricostruiscono i periodi caldi degli ultimi 10.000 anni. Questi si sono ripetuti ogni mille anni circa e includono il ben noto Periodo Caldo Medioevale, il Periodo Caldo Romano, ed in genere ampi periodi caldi durante l’Ottimo dell’Olocene. Questi periodi del passato sono stati anche più caldi del periodo presente, nonostante la concentrazione di CO2 fosse più bassa dell’attuale, mentre sono correlati ai cicli millenari dell’attività solare. Questi effetti non sono riprodotti dai modelli.

Va ricordato che il riscaldamento osservato dal 1900 ad oggi è in realtà iniziato nel 1700, cioè al minimo della Piccola Era Glaciale, il periodo più freddo degli ultimi 10.000 anni (corrispondente a quel minimo millenario di attività solare che gli astrofisici chiamano Minimo Solare di Maunder). Da allora a oggi l’attività solare, seguendo il suo ciclo millenario, è aumentata riscaldando la superficie terrestre.

Inoltre, i modelli falliscono nel riprodurre le note oscillazioni climatiche di circa 60 anni. Queste sono state responsabili, ad esempio, di un periodo di riscaldamento (1850-1880) seguito da un periodo di raffreddamento (1880-1910), da un riscaldamento (1910-40), ancora da un raffreddamento (1940-70) e da un nuovo periodo di riscaldamento (1970-2000) simile a quello osservato 60 anni prima. Gli anni successivi (2000-2019) hanno visto non l’aumento previsto dai modelli di circa 0.2°C per decennio, ma una sostanziale stabilità climatica che è stata sporadicamente interrotta dalle rapide oscillazioni naturali dell’oceano Pacifico equatoriale, conosciute come l’El Nino Southern Oscillations, come quella che ha indotto il riscaldamento momentaneo tra il 2015 e il 2016.

Gli organi d’informazione affermano anche che gli eventi estremi, come ad esempio uragani e cicloni, sono aumentati in modo preoccupante. Viceversa, questi eventi, come molti sistemi climatici, sono modulati dal suddetto ciclo di 60 anni. Se ad esempio si considerano i dati ufficiali dal 1880 riguardo i cicloni atlantici tropicali abbattutisi sul Nord America, in essi appare una forte oscillazione di 60 anni, correlata con l’oscillazione termica dell’Oceano Atlantico chiamata Atlantic Multidecadal Oscillation. I picchi osservati per decade sono tra loro compatibili negli anni 1880-90, 1940-50 e 1995-2005. Dal 2005 al 2015 il numero dei cicloni è diminuito seguendo appunto il suddetto ciclo. Quindi, nel periodo 1880-2015, tra numero di cicloni (che oscilla) e CO2 (che aumenta monotonicamente) non vi è alcuna correlazione. Il sistema climatico non è ancora sufficientemente compreso. Anche se è vero che la CO2 è un gas serra, secondo lo stesso IPCC la sensibilità climatica ad un suo aumento nell’atmosfera è ancora estremamente incerta. Si stima che un raddoppio della concentrazione di CO2 atmosferica, dai circa 300 ppm preindustriali a 600 ppm, possa innalzare la temperatura media del pianeta da un minimo di 1°C fino a un massimo di 5°C. Questa incertezza è enorme. In ogni caso, molti studi recenti basati su dati sperimentali stimano che la sensibilità climatica alla CO2 sia notevolmente più bassa di quella stimata dai modelli IPCC.

Allora, è scientificamente non realistico attribuire all'uomo la responsabilità del riscaldamento osservato dal secolo passato ad oggi. Le previsioni allarmistiche avanzate, pertanto, non sono credibili, essendo esse fondate su modelli i cui risultati sono in contraddizione coi dati sperimentali. Tutte le evidenze suggeriscono che questi modelli sovrastimano il contributo antropico e sottostimano la variabilità climatica naturale, soprattutto quella indotta dal sole, dalla luna, e dalle oscillazioni oceaniche.

Infine, gli organi d’informazione diffondono il messaggio secondo cui, in ordine alla causa antropica dell’attuale cambiamento climatico, vi sarebbe un quasi unanime consenso tra gli scienziati e che quindi il dibattito scientifico sarebbe chiuso. Tuttavia, innanzitutto bisogna essere consapevoli che il metodo scientifico impone che siano i fatti, e non il numero di aderenti, che fanno di una congettura una teoria scientifica consolidata. In ogni caso, lo stesso preteso consenso non sussiste. Infatti, c’è una notevole variabilità di opinioni tra gli specialisti – climatologi, meteorologi, geologi, geofisici, astrofisici – molti dei quali riconoscono un contributo naturale importante al riscaldamento globale osservato dal periodo preindustriale ed anche dal dopoguerra ad oggi. Ci sono state anche petizioni sottoscritte da migliaia di scienziati che hanno espresso dissenso con la congettura del riscaldamento globale antropico. Tra queste si ricordano quella promossa nel 2007 dal fisico F. Seitz, già presidente della National Academy of Sciences americana, e quella promossa dal Non-governmental International Panel on Climate Change (NIPCC) il cui rapporto del 2009 conclude che “La natura, non l’attività dell’Uomo governa il clima”.

In conclusione, posta la cruciale importanza che hanno i combustibili fossili per l’approvvigionamento energetico dell’umanità, suggeriamo che non si aderisca a politiche di riduzione acritica della immissione di anidride carbonica in atmosfera con l’illusoria pretesa di governare il clima.

COMITATO PROMOTORE. Uberto Crescenti, Professore Emerito di Geologia Applicata, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara, già Magnifico Rettore e Presidente della Società Geologica Italiana.

Giuliano Panza, Professore di Sismologia, Università di Trieste, Accademico dei Lincei e dell’Accademia Nazionale delle Scienze, detta dei XL, Premio Internazionale 2018 dell’American Geophysical Union.

Alberto Prestininzi, Professore di Geologia Applicata, Università La Sapienza, Roma, già Scientific Editor in Chief della rivista internazionale IJEGE e Direttore del Centro di Ricerca Previsione e Controllo Rischi Geologici.

Franco Prodi, Professore di Fisica dell’Atmosfera, Università di Ferrara.

Franco Battaglia, Professore di Chimica Fisica, Università di Modena; Movimento Galileo 2001.

Mario Giaccio, Professore di Tecnologia ed Economia delle Fonti di Energia, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara, già Preside della Facoltà di Economia.

Enrico Miccadei, Professore di Geografia Fisica e Geomorfologia, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Nicola Scafetta, Professore di Fisica dell’Atmosfera e Oceanografia, Università Federico II, Napoli.

FIRMATARI

Antonino Zichichi, Professore Emerito di Fisica, Università di Bologna, Fondatore e Presidente del Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana di Erice.

Renato Angelo Ricci, Professore Emerito di Fisica, Università di Padova, già Presidente della Società Italiana di Fisica e della Società Europea di Fisica; Movimento Galileo 2001.

Aurelio Misiti, Professore di Ingegneria Sanitaria-Ambientale, Univesità la Sapienza, Roma.

Antonio Brambati, Professore di Sedimentologia, Università di Trieste, Responsabile Progetto Paleoclima-mare del PNRA, già Presidente Commissione Nazionale di Oceanografia.

Cesare Barbieri, Professore Emerito di Astronomia, Università di Padova.

Sergio Bartalucci, Fisico, Presidente Associazione Scienziati e Tecnolgi per la Ricerca Italiana.

Antonio Bianchini, Professore di Astronomia, Università di Padova.

Paolo Bonifazi, già Direttore Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario, Istituto Nazionale Astrofisica.

Francesca Bozzano, Professore di Geologia Applicata, Università Sapienza di Roma, Direttore del Centro di Ricerca CERI.

Marcello Buccolini, Professore di Geomorfologia, Università Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Paolo Budetta, Professore di Geologia Applicata, Università di Napoli.

Monia Calista, Ricercatore di Geologia Applicata, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Giovanni Carboni, Professore di Fisica, Università Tor Vergata, Roma; Movimento Galileo 2001.

Franco Casali, Professore di Fisica, Università di Bologna e Accademia delle Scienze di Bologna.

Giuliano Ceradelli, Ingegnere e climatologo, ALDAI.

Domenico Corradini, Professore di Geologia Storica, Università di Modena.

Fulvio Crisciani, Professore di Fluidodinamica Geofisica, Università di Trieste e Istituto Scienze Marine, Cnr, Trieste.

Carlo Esposito, Professore di Telerilevamento, Università La Sapienza, Roma.

Mario Floris, Professore di Telerilevamento, Università di Padova.

Gianni Fochi, Chimico, Scuola Normale Superiore di Pisa; giornalista scientifico.

Mario Gaeta, Professore di Vulcanologia, Università La Sapienza, Roma.

Giuseppe Gambolati, Fellow della American Geophysica Union, Professore di Metodi Numerici, Università di Padova.

Rinaldo Genevois, Professore di Geologia Applicata, Università di Padova.

Carlo Lombardi, Professore di Impianti nucleari, Politecnico di Milano.

Luigi Marino, Geologo, Centro Ricerca Previsione e Controllo Rischi Geologici, Università La Sapienza, Roma.

Salvatore Martino, Professore di Microzonazione sismica, Università La Sapienza, Roma.

Paolo Mazzanti, Professore di Interferometria satellitare, Università La Sapienza, Roma.

Adriano Mazzarella, Professore di Meteorologia e Climatologia, Università di Napoli.

Carlo Merli, Professore di Tecnologie Ambientali, Università La Sapienza, Roma.

Alberto Mirandola, Professore di Energetica Applicata e Presidente Dottorato di Ricerca in Energetica, Università di Padova.

Renzo Mosetti, Professore di Oceanografia, Università di Trieste, già Direttore del Dipartimento di Oceanografia, Istituto OGS, Trieste.

Daniela Novembre, Ricercatore in Georisorse Minerarie e Applicazioni Mineralogichepetrografiche, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Sergio Ortolani, Professore di Astronomia e Astrofisica, Università di Padova.

Antonio Pasculli, Ricercatore di Geologia Applicata, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Ernesto Pedrocchi, Professore Emerito di Energetica, Politecnico di Milano.

Tommaso Piacentini, Professore di Geografia Fisica e Geomorfologia, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Guido Possa, Ingegnere nucleare, già Vice Ministro Miur.

Mario Luigi Rainone, Professore di Geologia Applicata, Università di Chieti-Pescara.

Francesca Quercia, Geologo, Dirigente di ricerca, Ispra.

Giancarlo Ruocco, Professore di Struttura della Materia, Università La Sapienza, Roma.

Sergio Rusi, Professore di Idrogeologia, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Massimo Salleolini, Professore di Idrogeologia Applicata e Idrologia Ambientale, Università di Siena.

Emanuele Scalcione, Responsabile Servizio Agrometeorologico Regionale Alsia, Basilicata.

Nicola Sciarra, Professore di Geologia Applicata, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Leonello Serva, Geologo, Direttore Servizi Geologici d’Italia; Movimento Galileo 2001.

Luigi Stedile, Geologo, Centro Ricerca Revisione e Controllo Rischi Geologici, Università La Sapienza, Roma.

Giorgio Trenta, Fisico e Medico, Presidente Emerito dell’Associazione Italiana di Radioprotezione Medica; Movimento Galileo 2001.

Gianluca Valenzise, Dirigente di Ricerca, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma.

Corrado Venturini, Professore di Geologia Strutturale, Università di Bologna.

Franco Zavatti, Ricercatore di Astronomia, Univesità di Bologna.

Achille Balduzzi, Geologo, Agip-Eni.

Claudio Borri, Professore di Scienze delle Costruzioni, Università di Firenze, Coordinatore del Dottorato Internazionale in Ingegneria Civile.

Pino Cippitelli, Geologo Agip-Eni.

Franco Di Cesare, Dirigente, Agip-Eni.

Serena Doria, Ricercatore di Probabilità e Statistica Matematica, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Enzo Siviero, Professore di Ponti, Università di Venezia, Rettore dell’Università e- Campus.

Pietro Agostini, Ingegnere, Associazione Scienziati e Tecnolgi per la Ricerca Italiana.

Donato Barone, Ingegnere.

Roberto Bonucchi, Insegnante.

Gianfranco Brignoli, Geologo.

Alessandro Chiaudani, Ph.D. agronomo, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Antonio Clemente, Ricercatore di Urbanistica, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Luigi Fressoia, Architetto urbanista, Perugia.

Sabino Gallo, Ingegnere nucleare.

Daniela Giannessi, Primo Ricercatore, Ipcf-Cnr, Pisa.

Roberto Grassi, Ingegnere, Amministratore G&G, Roma.

Alberto Lagi, Ingegnere, Presidente di Società Ripristino Impianti Complessi Danneggiati.

Luciano Lepori, Ricercatore Ipcf-Cnr, Pisa.

Roberto Madrigali, Metereologo.

Ludovica Manusardi, Fisico nucleare e Giornalista scientifico, Ugis.

Maria Massullo, Tecnologa, Enea-Casaccia, Roma.

Enrico Matteoli, Primo Ricercatore, Ipcf-Cnr, Pisa.

Gabriella Mincione, Professore di Scienze e Tecniche di Medicina di Laboratorio, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara.

Massimo Pallotta, Primo Tecnologo, Istituto Nazionale Fisica Nucleare.

Enzo Pennetta, Professore di Scienze naturali e divulgatore scientifico.

Nunzia Radatti, Chimico, Sogin.

Vincenzo Romanello, Ingegnere nucleare, Centro Ricerca, Rez, Repubblica Ceca.

Alberto Rota, Ingegnere, Ricercatore presso Cise e Enel.

Massimo Sepielli, Direttore di Ricerca, Enea, Roma.

Ugo Spezia, Ingegnere, Responsabile Sicurezza Industriale, Sogin; Movimento Galileo 2001.

Emilio Stefani, Professore di Patologia vegetale, Università di Modena.

Umberto Tirelli, Visiting Senior Scientist, Istituto Tumori d’Aviano; Movimento Galileo 2001.

Roberto Vacca, Ingegnere e scrittore scientifico.

·        5G, rischi per la salute?

5G, rischi per la salute? Gli esperti: "Le frequenze non sono dannose". Gruppi di cittadini e associazioni chiedono lo stop per le reti di quinta generazione, idem alcuni parlamentari. Ma in un'audizione alla Camera, l'Istituto superiore della sanità fa il punto sugli studi: "Con le antenne adibite i potenziali pericoli sono ancora più remoti rispetto a quelli connessi all'uso del cellulare", scrive Alessandro Longo il 5 marzo 2019 su La Repubblica. L'arrivo del 5G, previsto già da quest’anno in alcune forme, preoccupa un crescente numero di cittadini e associazioni. Persino qualche parlamentare chiede ora lo stop delle antenne. Ma la scienza ufficiale, attraverso l'Istituto superiore della sanità (Iss), getta ora acqua sul fuoco: in una recente audizione alla Camera chiarisce che le tante nuove antenne 5G, per le loro caratteristiche, sono un pericolo ancora più remoto per la salute rispetto alle attuali tecnologie. I resoconti dell’audizione non sono ancora disponibili, ma Repubblica si è procurato le relazioni di alcuni dei numerosi relatori, tra cui rappresentanti dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), del Centro Radioelettrico Sperimentale G. Marconi (CReSM), ma anche della Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti, Icnirp (un organismo non governativo, formalmente riconosciuto dall'Organizzazione Mondiale della Sanità) e, appunto, dell’Istituto superiore della sanità (nella persona del ricercatore che lo rappresenta per questi temi, Alessandro Polichetti). L'audizione è spinta dal rumore generato dalle polemiche sul 5G. Nelle scorse settimane un gruppo di cittadini ha raccolto 11 mila firme in una petizione consegnata al parlamento. Si tratta di Alleanza Stop 5G, gruppo che ha l’adesione del magazine Terra Nuova, di Oasi Sana, dell'Associazione italiana elettrosensibili, dell'Associazione elettrosmog Volturino, dell’Istituto Ramazzini, dell’Associazione obiettivo sensibile, dei comitati Oltre la MCS e No Wi-Fi Days, dell'équipe che ha realizzato il docufilm Sensibile. L’allarme si è esteso ad Andrea Maschio, consigliere regionale del M5s in Trentino e Andrea De Bertoldi, senatore di Fratelli d'Italia che hanno chiesto una sospensione del 5G (il primo anche in una lettera al ministro della Salute).

Uomini, ratti e campi elettromagnetici. In audizione sono stati citati uno studio dell’istituto Ramazzini (onlus) e un altro, simile, dell’americano National Toxicology Program da cui risulta un possibile aumentato rischio di tumore per l’esposizione di ratti a onde elettromagnetiche su frequenze usate dal 2G e dal 3G. Nel secondo caso i ratti sono stati esposti da quando erano feti al momento della morte naturale. Lo stesso istituto americano nota che i risultati non possono essere trasposti sugli esseri umani, dato che – tra gli altri motivi - le potenze assorbite dagli esemplari sono stati di circa un ordine di grandezza più alti rispetto all’uso di un cellulare.

Questione di potenza. L'Icnirp ha descritto come poco significativi i due studi, i quali comunque non riguardano le frequenze 5G ma solo le possibili conseguenze dell’esposizione massiccia e prolungata a campi elettromagnetici (generati – com’è noto – non solo da cellulari e relative antenne ma anche dagli elettrodomestici e vari altri strumenti). L'Istituto superiore della Sanità ha dapprima ricordato che le attuali linee guida internazionali e ufficiali (vedi Iarc e Oms) non evidenziano nessun rischio per le antenne cellulari, perché le potenze utilizzate nella realtà sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle che hanno sollevato qualche timore negli studi sperimentali sui ratti. Anche se uno scienziato certo non si esprimerebbe così, la si può mettere in questo modo: se si va in ospedale mangiando 5 chili di gelato non vuol dire che sia pericoloso mangiarne 500 grammi (e che tutte le gelaterie vadano quindi chiuse).

Telefoni cellulari e antenne. Le linee guide internazionali definiscono "possibile" cancerogeno solo un grande utilizzo dei cellulari (cosa molto diversa rispetto alla presenza di antenne, perché la vicinanza della fonte al nostro cervello aumenta di tanto l’assorbimento delle onde). E comunque – ha ricordato il ricercatore dell’Iss – "possibile cancerogeno" è il livello più basso di rischio, per cui la scienza ufficiale al momento è incerta che ci possa essere davvero un pericolo.

L'effetto delle frequenze sulle cellule. Ci si può chiedere poi se il 5G, usando nuove frequenze (vicine alle cosiddette "onde millimetriche") possa esporre a rischi diversi e maggiori per la salute. È appunto questo l'allarme lanciato da chi adesso chiede lo stop della tecnologia (già lanciata negli Stati Uniti e in arrivo in tutta Europa). Le nuove frequenze sono più elevate rispetto a quelle usate ora dai cellulari e serviranno tra l’altro a creare celle molto piccole e numerose nelle nostre città, per esempio per i servizi dell'internet delle cose (Iot). Il segnale su frequenze elevate penetra e si diffonde meno bene, ecco perché le celle devono essere più piccole e più capillari. Ma questo vuol dire anche – notano dall’Istituto superiore della sanità – che le potenze utilizzate saranno più basse e le onde si fermeranno a livello molto superficiale (della pelle). Gli studi fatti su queste frequenze (per esempio dall'Agenzia francese per la sicurezza, la salute e l'ambiente) dimostrano che gli effetti immediati sulle cellule sono meno rilevabili rispetto a quelli per l’uso delle attuali frequenze 2G/3G/4G (che pure danno effetti scarsamente percettibili, di riscaldamento cellulare).

I limiti sulle emissioni elettromagnetiche. Dal 2022, infine, il 5G userà anche le frequenze a 700 MHz, che però sono le stesse usate dai televisori e su cui nei decenni non sono emersi rischi dimostrabili per la salute. L’altro aspetto da considerare sono i rischi che l’Italia correrebbe, come sistema Paese, da un ritardo dell’avvio del 5G, visto che questo è considerato il futuro di tutte le reti di comunicazione. Futuro che da noi è già messo a rischio – notano tutti gli operatori telefonici – dalle norme italiane, che impongono limiti molto più stringenti rispetto agli altri Paesi sulle emissioni elettromagnetiche. La conseguenza è che gli operatori ora sono molto ostacolati nell’installazione delle antenne per il 5G. "Le norme sulle emissioni rischiano di penalizzare fortemente lo sviluppo della nuova tecnologia in Italia. È davvero venuto il momento di rivederle, altrimenti la tecnologia da noi potrebbe essere meno diffusa e costare di più agli utenti”, dice Stefano da Empoli, presidente dell'Istituto per la Competitività (Icom).

5G: “NON SIAMO CAVIE DA LABORATORIO!” Filippo Femia per “la Stampa” il 5/8/2019. Un chirurgo potrà operare un paziente di Buenos Aires da Parigi. Gli elettrodomestici «parleranno» tra loro. Le auto a guida autonoma ci porteranno ovunque. La rivoluzione promessa dal 5G - navigazione fino a 100 volte più veloce rispetto a oggi - è dietro l' angolo. Il debutto è fissato entro il 2020 e da più parti arrivano allarmi sul nuovo Internet ultraveloce. Le preoccupazioni riguardano i possibili rischi per la salute dei cittadini. «Prima del via libera su larga scala, bisognerebbe studiare i possibili effetti nocivi», chiede a gran voce il comitato Stop 5G, che riunisce un migliaio di attivisti. La nuova tecnologia, denunciano, ha un lato oscuro non ancora indagato. Il fronte dei tecnoribelli, come si definiscono alcuni, si è allargato negli ultimi mesi. Da Torino a Bari, oltre 50 città hanno ospitato flashmob e convegni contro la quinta generazione della telefonia mobile. Iniziative - non affollatissime, per ora - dove lo slogan principale è «Non siamo cavie da laboratorio». E si moltiplicano le richieste ai Comuni di una moratoria da affiancare a valutazioni dei rischi ambientali e sanitari. Di recente sono arrivati i primi successi. I sindaci di alcuni dei 120 Comuni scelti per la sperimentazione si sono messi di traverso. Pompu, Segariu e Noragugume, i tre paesini-laboratorio della Sardegna hanno fermato il 5G. Poi è stata la volta di Cogne (Aosta), Ricaldone e Solonghello (Alessandria). L' ultimo a vietare le antenne è stato il sindaco di Scanzano Jonico, in Basilicata. Anche il Codacons si è unito alla rivolta e ha annunciato «una crociata contro la nuova tecnologia. Abbiamo scritto agli ottomila sindaci italiani chiedendo loro di adottare provvedimenti simili». L' associazione dei consumatori ha anche presentato un esposto a 104 procure della Repubblica per indagare sui rischi per la salute. Il guru della rivolta è Maurizio Martucci, presidente del comitato Stop 5G: «Di questa nuova tecnologia si sa poco o nulla. Qualora ci sia anche un solo dubbio deve sempre prevalere il principio di precauzione per tutelare la salute dei cittadini». Il tam tam sui social ha diffuso numerose bufale sul 5G. Una semplice ricerca su Google ne svela decine (una su tutte: «Le radiazioni porteranno all' estinzione del genere umano»). I tecnoribelli, però, presentano come prove due studi scientifici indipendenti, uno dell' istituto Ramazzini di Bologna e uno dello statunitense National Toxicology Program: «Entrambi attestano il nesso tra i campi elettromagnetici creati da 2G e 3G e il cancro», sostiene Martucci. Gli esperti dell' Istituto superiore di Sanità ribattono che quelle ricerche non sono applicabili al 5G. Intanto, il dibattito su Internet ultraveloce sta creando imbarazzo all' interno del M5S, creando una spaccatura. Cataldo Curatella, presidente della commissione «Smart cities» nel Consiglio comunale di Torino e grillino della prima ora, ricorda le battaglie del Movimento delle origini per la tutela della salute: «Fa parte del nostro Dna. Da un anno proviamo a parlare con i nostri deputati ma ci hanno detto che sul 5G si è già deciso e non si torna indietro». La deputata Mirella Liuzzi, da parte sua, liquida le polemiche: «L' implementazione del 5G è stata approvata dalla base su Rousseau». Il video pubblicato da Liuzzi («Basta fake news: facciamo chiarezza sul 5G») è stato attaccato duramente dal neo portavoce grillino al Parlamento europeo, Piernicola Pedicini: «Se il M5S ha deciso di intraprendere la strada dell' innovazione senza capire che passa per la difesa della salute, allora il Movimento non ha la risposta ai problemi del Paese». Nei mesi scorsi le deputate Veronica Giannone e Gloria Vizzini, che avevano chiesto a gran voce un' interrogazione sui rischi del 5G, sono state espulse dal Movimento. Il motivo ufficiale? «I voti in difformità di numerosi emendamenti contrari alla linea politica del Movimento».

5G e aumento tumori, le ultime ricerche parlano chiaro: il pericolo esiste ed è fondato. Maurizio Martucci, Giornalista e scrittore l'11 settembre 2018 su Il Fatto Quotidiano. Mondiale, la posta in ballo è straordinariamente alta. Non solo nel business, ma nella tutela della salute pubblica. L’ho scritto (denunciandolo) nel mio ultimo libro inchiesta. Lo scontro è tra titani. “Era da aspettarselo – scrive su Facebook, polemizzando con la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti (Icnirp), Fiorella Belpoggi, ricercatrice dell’Istituto Ramazzini, a capo del più grosso studio al mondo sugli effetti nocivi delle radiazioni da antenne di telefonia mobile (banda 3G) – ora chi di dovere si prenderà la responsabilità di ignorare un pericolo”. Tra le polemiche, la partita è tutt’altro che chiusa e, clamorosamente, potrebbe riaprirsi: c’è attesa per le nuove linee guida sulla sicurezza per l’esposizione all’elettrosmog, depositati i risultati dell’istituto bolognese (condotto su cavie umane equivalenti, riscontrati tumori maligni su cervello, cuore e infarto) e dell’americano National Toxicology Program (cancro da cellulare),  la scorsa settimana bollati come “poco affidabili” dall’Icnirp, ma presto al vaglio dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Forse per questo, senza dar troppo nell’occhio, negli ultimi mesi stiamo assistendo a una forsennata corsa contro il tempo per implementare l’infrastruttura tecnologica di quinta generazione. Lo dimostrano i 500 milioni di euro prestati dall’Europa a Nokia, i 200mila lampioni LED/Wi-Fi appena installati a Roma e le mini-antenne accese a Torino: se l’Organizzazione Mondiale della Sanità dovesse rivalutare (al rialzo) la classificazione delle radiofrequenze, inserendole tra i “probabili” (Classe 2B) se non addirittura tra i “certi” (Classe 1) agenti cancerogeni per l’umanità, dall’oggi al domani crollerebbe l’intera impalcatura su cui – sbrigativamente – lobby dell’industria wireless e (spregiudicata) politica negazionista stanno costruendo il sogno digitale del 5G. Perché saremo tutti irradiati da una sommatoria multipla e cumulativa di nuove frequenze oggi all’asta, spingendo (presto con riforma di legge?) il campo elettrico nell’aria da 6 V/m a 61 V/m. Ovunque, uno tsunami di microonde millimetriche ci sommergerà: con quali conseguenze? Ecco: “Aumento del rischio di tumori del cervello, del nervo vestibolare e della ghiandola salivare sono associati all’uso del telefono cellulare. Nove studi (2011-2017) segnalano un aumento del rischio di cancro al cervello dovuto all’uso del telefono cellulare. Quattro studi caso-controllo (2013-2014) riportano un aumento del rischio di tumori del nervo vestibolare. Preoccupazione per altri tumori: mammella (maschio e femmina), testicolo, leucemia e tiroide. Sulla base delle prove esaminate, è nostra opinione che l’attuale classificazione delle radio frequenze come cancerogeno per l’uomo (Classe 2B) dovrebbe essere aggiornata a cancerogenico per gli esseri umani (Classe1)”. L’aggiornamento della ricerca medico-scientifica nei risultati dei nuovi studi parla chiaro. Il pericolo esiste ed è fondato. E non è uno scherzo, se si pensa all’uso compulsivo degli smartphone: le linee guida redatte nel 1998 dall’Icnirp sono vecchie, se non altro superate dall’incontrastato avanzamento tecnologico, più veloce per sfornare merce Hi-Tech priva di valutazione preliminare del rischio sanitario: l’aggiornamento è urgente! Non è procrastinabile. “Usano le parole magiche ‘incoerenti’ e ‘inaffidabili’ per minare le ultime scoperte – critici, sul blog scrivono i tecnoribelli di No Radiotion for you – accettando e promuovendo studi che mostrano un’immagine più sicura: l’Icnirp si dimostra ancora una volta inadeguato, insignificante e irrilevante”. L’appunto non è da poco: la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti è quell’organismo (privato) accreditato Iarc-Oms su cui alla fine degli anni 90 l’Unione Europea si basò nel considerare i soli effetti termici (cioè il surriscaldamento del corpo umano irradiato dall’elettrosmog, simulato con manichini riempiti di gel), ignorando le evidenze sui danni biologici. “E’ giunto il momento di aggiornare e rivedere giudiziosamente le linee guida dell’Icnirp”, afferma l’ex membro (ci lavorò 12 anni) Jim Lin, mentre – come il noto Angelo Gino Levis (ex mutagenesi ambientale Università di Padova) anche Dariusz Leszczyński (scienziato tra i massimi esperti al mondo, studiò il progetto Interphone Iarc-Oms) – sostiene l’inaffidabilità dell’Icnirp per dettare l’agenda governativa in materia di regolamentazione del rischio sulle pervadenti onde invisibili. Allora: se gli esiti Icnirp sono superati, vecchi di 20 anni, cosa succederà se la massima autorità sanitaria del mondo recepisse le più aggiornate prove scientifiche sulla cancerogenesi dell’elettrosmog? Il danno biologico evidenziato dagli studi (con finanziamenti pubblici) di National Toxicology Program e Istituto Ramazzini? Che sarà del 5G? E della conseguenze a cui, come cavie, senza informarci ci stanno esponendo?

5G – allarmiamo la popolazione. Michelangelo Coltelli maicolengel su butac il 20/06/2019. Nel giro di poche ore siete in tanti ad avermi segnalato come durante l’estate sono in programma tanti eventi pubblici per i cittadini italiani in merito al 5G. Siamo di fronte a un copione che conosciamo bene, l’abbiamo già visto in altre occasioni, ogni volta l’allarme da lanciare cambia ma il gioco è sempre lo stesso, girare la penisola per diffondere vario allarmismo. Si colpisce un pubblico di nicchia, ma a chi diffonde l’allarme basta e avanza.

Vi mostro due delle locandine che mi avete girato in queste ore:

Il primo dei due posterini è quello che impressiona meno, diciamo che è quello che rende l’idea che possa essere un dibattito serio, fatto con scienziati pro e contro il tema di cui si dibatterà. Il titolo perlomeno ci dà quell’idea: Dai campi elettromagnetici naturali a quelli artificiali.

Il secondo invece già dal titolo: Telefonia Mobile 5G, quali danni per la salute?

ci fa capire quale sarà l’impostazione della serata. Per approfondire sono andato a vedere chi sono i soggetti che interverranno ai due incontri. Lo sapete come si dice in UK? Curiosity killed the cat… la curiosità ha ucciso il gatto, beh io per fortuna non sono morto, ma il mio andare ad approfondire ha evidenziato quello che già temevo. Anche il primo incontro vede in cartellone solo soggetti con un evidente pregiudizio nei confronti del 5G. Non si tratterà quindi di serate di vero dibattito e confronto, ma solo di incontri nati esclusivamente per allarmare. Non che ci si debba sorprendere, gli organizzatori di questo tipo di eventi sono clonati da quelli che organizzano i dibattiti sui vaccini (contro l’obbligo), i dibattiti sulla Xylella, gli OGM, l’omeopatia. Non dobbiamo sorprenderci, sull’allarmismo nascono affari, a volte anche di grande valore economico. Basta spaventare quanto basta per riuscire a fare breccia nella mente e nel cuore di chi partecipa a questi incontri. La paura fa 90, e grazie a essa quei soggetti saranno più propensi ad acquistare materiale sul tema, rivolgersi ai medici sodali con questo tipo di eventi, curarsi con acqua e zucchero magari…Purtroppo solo un vero fronte unito di scienziati italiani può spazzare via allarmismi e mercanti d’olio di serpente dalla nostra penisola. Mi piacerebbe dirvi che sarà l’ormai noto Patto per la Scienza a fare qualcosa in merito, ma per ora vedo una macchina complessa, lenta a muoversi come tutte le strutture composte da troppi cervelli. Speriamo si snelliscano e diventino più incisivi con la comunicazione a livello nazionale. Sarebbe bello vedere esprimere pareri sugli studi dell’Istituto Ramazzini ad esempio, portato in palmo di mano da tantissimi sostenitori della pericolosità del 5G, senza però che abbiano portato alcuna prova della dannosità dello stesso. Se i paesi in cui si terranno questi eventi volessero fare un vero servizio ai cittadini avrebbero dovuto obbligare gli organizzatori ad avere un vero confronto con la comunità scientifica, con una seria rappresentanza a favore del 5G. Non facendo così si crea uno sbilanciamento opposto a quello che esiste nella comunità scientifica internazionale. La scienza, ad oggi, dice che il 5G non rappresenta un pericolo per l’essere umano, che le frequenze a cui opera non sono pericolose. Eventi di questo tipo, con patrocini di vario genere, non sono corretti. Chi vi assiste si convince dell’esatto opposto di quanto invece dice la comunità scientifica internazionale. Lasciatemelo dire, questo modo di fare…Allarmi scientificamente infondati possono fare comunque grossi danni, basta pensare alle tante campagne cavalcate da associazioni come quelle rappresentate agli eventi contro il 5G. Solo pensando agli ultimissimi anni abbiamo avuto la Xylella, la demonizzazione degli OGM, la messa al bando dell’olio di palma e recentemente gli attacchi contro il glifosato. Non dobbiamo fare gli ignavi, dietro queste campagne di disinformazione ci sono precisi interessi economici. Mi lascia sempre stupito che chi non si fida di BigPharma abbracci senza spirito critico tutte queste campagne, senza rendersi conto di quali precisi interessi abbiano i promotori… Qui su BUTAC abbiamo già parlato più e più volte di 5G, non credo sia necessario aggiungere altro.

Le bufale sul 5G pericoloso per la salute hanno un intento di destabilizzazione. In America la rete tv finanziata dal Cremlino scatena il panico. In Italia c’è un movimento che cresce. Eugenio Cau su Il Foglio il 14 Maggio 2019. Rt America, la filiale americana e in lingua inglese della rete tv finanziata dal Cremlino, ha cominciato da mesi una campagna antiscientifica contro i presunti pericoli per la salute delle reti 5G, le reti di nuova generazione che in Italia sono in fase di sperimentazione e che in alcuni paesi, come la Corea del sud, sono già attive su parte del territorio. Il New York Times, che ha pubblicato un’inchiesta sul tema, scrive che Rt ha mandato in onda dal maggio scorso sette servizi che parlano di “Apocalisse 5G”. In questi servizi, sedicenti esperti mettono in guardia il pubblico americano dalla possibilità che la costruzione di reti 5G sul territorio nazionale possa portare allo sviluppo di tumori tra la popolazione, e presentano dubbie testimonianze su bambini che perdono sangue dal naso vicino alle antenne o subiscono deficit dell’apprendimento a causa del 5G. Per tentare di rendere l’idea della pericolosità, i giornalisti di Rt tendono a usare la parola “radiazioni” al posto di “onde radio”. Tutti i servizi hanno titoli allarmistici: “Il 5G è un crimine per il diritto internazionale”, “Il 5G espone più bambini al rischio di tumore?”, “5G, un pericoloso ‘esperimento sul genere umano’”. Sono tutte evidenti bufale. Esattamente come non ci sono prove conclusive della pericolosità delle reti 3G e 4G per la salute umana, così non ne esistono per il 5G, anzi: secondo i ricercatori le onde ad alta frequenza del 5G hanno meno possibilità di penetrare nei tessuti umani, e dunque l’esposizione è meno ridotta. Quale interesse può avere una rete televisiva finanziata dal Cremlino a diffondere disinformazione sul 5G, un’infrastruttura che il Cremlino stesso ha definito come strategica e fondamentale per il futuro della Russia? L’ipotesi più probabile è che RT voglia ricreare in vitro un nuovo fenomeno vaccini. In occidente, il movimento no-vax non è soltanto un pericolo per la salute pubblica, che ha riportato in molti paesi malattie che si ritenevano completamente debellate come il morbillo. Il movimento no-vax è diventato un fenomeno politico che ha minato la fiducia di una parte consistente della popolazione nelle istituzioni. Ben presto i no-vax sono diventati un bacino elettorale attorno al quale sono cresciute o si sono coagulate forze politiche invariabilmente populiste: basta pensare al Movimento 5 stelle in Italia. Populismo, sfiducia no-vax e antiscientismo fanno spesso parte dello stesso cocktail di destabilizzazione e caos, e questo è indicato dagli esperti come uno degli obiettivi della Russia nelle sue operazioni all’estero. Negli anni, Rt America non soltanto ha cavalcato le proteste contro i vaccini, ma anche quelle contro il fracking e contro gli Ogm. Nella sua campagna antiscientifica contro il 5G, la rete finanziata dal Cremlino sembra aver trovato terreno fertile. Il New York Times scrive che decine di articoli online di tono complottista e allarmistico hanno ripreso i servizi contro le reti di nuova generazione. In Italia, dove ancora non c’è eco della campagna di Rt, la paura per il 5G è tuttavia già arrivata. Moltissimi siti internet, spesso gli stessi che propalano bufale contro i vaccini, e spesso con formule note (“quello che i media non vi dicono”, “ecco uno studio censurato”) da mesi fanno campagna sulla presunta pericolosità delle reti 5G per la salute dell’uomo. Lo scorso febbraio, un gruppo chiamato Alleanza Stop 5G ha consegnato in Parlamento una petizione con 11 mila firme per chiedere una moratoria della tecnologia. E quando l’Agcom ha pubblicato la lista dei 120 piccoli comuni italiani che avranno una via preferenziale nello sviluppo del 5G per colmare il loro digital divide, molte associazioni di cittadini hanno protestato scambiando la “sperimentazione” della nuova tecnologia per un “esperimento” contro di loro.

L'uso del cellulare (forse) non favorisce il cancro. Francesca Angeli, Giovedì 08/08/2019, su Il Giornale.  Cellulari sicuri? La risposta dell'Istituto superiore di sanità è un «sì» ma con riserva perché i dati di riferimento vengono ritenuti ancora incompleti. Insomma se da un lato è confermata la sicurezza dei cellulari rispetto allo sviluppo di determinate neoplasie restano ancora dubbi prima di tutto per i più piccoli, esposti sin dall'infanzia alle radiofrequenze. Il Rapporto dell'Iss «Esposizione a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche», curato da Susanna Lagorio, Laura Anglesio, Giovanni d'Amore, Carmela Marino e Maria Rosaria Scarfì sugli eventuali effetti cancerogeni dell'esposizione a radiofrequenze non arriva a conclusioni definitive. I dati e le evidenze epidemiologiche confermano che anche un uso quotidiano del cellulare non sembra collegato ad un aumento dell'incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenze durante le chiamate vocali. La ricerca fa riferimento agli studi pubblicati dal '99 al 2017 e non si rilevano aumenti del rischio di glioma, tumore maligno o dei tumori benigni come meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari collegati all'uso prolungato, ovvero dai dieci anni in poi, dei telefoni mobili. Quasi un'assoluzione rispetto allo studio del 2011 dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, che aveva decisamente collocato le radiofrequenze tra i possibili cancerogeni. Rispetto a quella valutazione, le stime di rischio considerate dal Rapporto, viene sottolineato, sono più numerose e più precise. Nello stesso rapporto però si sottolinea anche «un certo grado d'incertezza riguardo alle conseguenze di un uso molto intenso, in particolare dei cellulari della prima e seconda generazione caratterizzati da elevate potenze di emissione». Soprattutto si sottolinea che gli «studi finora effettuati non hanno potuto analizzare gli effetti a lungo termine dell'uso del cellulare iniziato da bambini e di un'eventuale maggiore vulnerabilità durante l'infanzia». Molto più critico infatti Paolo Maria Rossini, direttore dell'Unità di Neurologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli. «L'uso prolungato del cellulare fa male al cervello e potrebbe facilitare lo sviluppo di tumori», avverte il medico.

Telefoni cellulari e tumori, rapporto dell'Iss non evidenzia aumenti di rischio. Il rapporto Istisan sull'esposizione a radiofrequenze e tumori: l'uso del cellulare non risulta associato all'incidenza di neoplasie nelle aree più esposte durante le chiamate vocali. Ma servono altre indagini sui rischi legati all’utilizzo fin dall'infanzia. Irma D'Aria il 7 agosto 2019 su La Repubblica. L’utilizzo prolungato del cellulare, per oltre dieci anni, non fa incrementare il rischio di neoplasie maligne (glioma) o benigne (meningiomi, neuromi acustici, tumori dell’ipofisi o delle ghiandole salivari). Ma i dati attuali non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia. Sono queste le principali conclusioni del Rapporto Istisan "Esposizione a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche" diffuso oggi dall'Istituto Superiore di Sanità.

L'aggiornamento degli studi scientifici. Utilizzare per tante ore il cellulare può far aumentare il rischio di tumore? Quante volte ci siamo fatti questa domanda temendo il peggio? La continua esposizione alle radiofrequenze (RF) ha fatto sorgere negli anni legittimi dubbi sui rischi per la salute. La Iarc nel 2011 ha classificato le radiofrequenze nel gruppo 2B (possibili cancerogeni). Ma le ricerche scientifiche più recenti confermano o indeboliscono il sospetto che l’uso del telefono cellulare aumenti il rischio di alcuni tumori cerebrali? Il rapporto Istisa, curato da un gruppo multidisciplinare di esperti di diverse agenzie italiane (Iss, Arpa-Piemonte, Enea, Cnr-Irea), risponde proprio a questi dubbi.

Le caratteristiche dell'esposizione. Il rapporto prende in esame le caratteristiche e i livelli di emissione delle sorgenti di radiofrequenze più rilevanti per la popolazione come antenne radiotelevisive, stazioni radio base, WiFi, telefoni cellulari. L’esposizione personale dipende dai livelli di campo nei luoghi in cui si svolge la vita quotidiana, dal tempo trascorso nei diversi ambienti e dalle emissioni dei dispositivi utilizzati a stretto contatto. "Gli impianti per telecomunicazione sono aumentati nel tempo - scrivono gli esperti nel rapporto - ma l’intensità dei segnali trasmessi è diminuita con il passaggio dai sistemi analogici a quelli digitali. La distanza da sorgenti fisse ambientali non è un buon indicatore del livello di radiofrequenze all’interno di un’abitazione perché molte antenne sono direzionali e le radiofrequenze sono schermate dalla struttura degli edifici e da altri ostacoli naturali". Non solo: gli impianti WiFi hanno basse potenze e cicli di lavoro intermittenti per cui nelle case e nelle scuole in cui sono presenti, danno luogo a livelli di radiofrequenza molto inferiori ai limiti ambientali vigenti.

La dose maggiore di radiofrequenze arriva dai cellulari. La maggior parte della dose quotidiana di energia a radiofrequenze deriva dall’uso del cellulare. L’efficienza della rete condiziona l’esposizione degli utenti perché la potenza di emissione del telefonino durante l’uso è tanto minore quanto migliore è la copertura fornita dalla stazione radio base più vicina. Inoltre, la potenza media per chiamata di un cellulare connesso ad una rete 3G o 4G (Umts o Lte) è 100-500 volte inferiore a quella di un dispositivo collegato ad una rete 2G (GSM 900-1800 MHz). Ulteriori drastiche riduzioni dell’esposizione si ottengono con l’uso di auricolari o viva-voce. In modalità stand-by, il telefonino emette segnali di brevissima durata ad intervalli di ore, con un contributo trascurabile all’esposizione personale.

L’avvento del 5G e l’impatto sulla salute. Con l’arrivo delle reti 5G si sono fatti strada anche dei dubbi sulle possibili maggiori conseguenze per la salute. Il rapporto Istisan indaga e risponde anche su questo punto: "Per quanto riguarda le future reti 5G - scrivono gli esperti - al momento non è possibile prevedere i livelli ambientali di radiofrequenze associati allo sviluppo dell’Internet delle Cose (Iot); le emittenti aumenteranno, ma avranno potenze medie inferiori a quelle degli impianti attuali e la rapida variazione temporale dei segnali dovuta all’irradiazione indirizzabile verso l’utente (beam-forming) comporterà un’ulteriore riduzione dei livelli medi di campo nelle aree circostanti".

Nessun aumento dell’incidenza di tumori alla testa. La relazione tra uso del cellulare e incidenza di tumori nell’area della testa è stata analizzata in numerosi studi epidemiologici pubblicati nel periodo 1999-2017. La meta-analisi di questi studi non rileva alcun incremento del rischio di neoplasie maligne (glioma) o benigne (meningiomi, neuromi acustici, tumori dell’ipofisi o delle ghiandole salivari) in relazione all’uso prolungato (≥10 anni) del cellulare. I risultati relativi al glioma e al neuroma acustico sono eterogenei. Alcuni studi caso-controllo riportano notevoli incrementi di rischio anche per modeste durate e intensita? cumulative d’uso, ma queste osservazioni non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido aumento della prevalenza di esposizione. "Rispetto alle evidenze disponibili al momento della valutazione della IARC - chiarisce il rapporto - le stime di rischio per l’uso prolungato del cellulare considerate in questa meta-analisi sono più numerose e più precise, perché basate su un maggior numero di casi esposti. Inoltre, le analisi più recenti dei trend d’incidenza dei tumori cerebrali coprono un periodo di quasi 30 anni dall’introduzione dei telefoni mobili".

Mancano i dati sull’uso iniziato nell’infanzia. La validità dei risultati degli studi epidemiologici su cellulari e tumori rimane, però, incerta. Un intero capitolo del rapporto, per esempio, è dedicato alle sorgenti di distorsione più rilevanti e al loro impatto sui risultati. I dati attuali, inoltre, non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia. Gli studi in corso (Cosmos, MobiKids, GERoNiMo) contribuiranno a chiarire le residue incertezze. "Anche l’ipotesi di un’associazione tra radiofrequenze emesse da antenne radiotelevisive e incidenza di leucemia infantile, suggerita da alcune analisi di correlazione geografica, non appare confermata dagli studi epidemiologici", si legge nel rapporto.

Le prossime valutazioni di rischio. Nel 2011 le radiofrequenze sono state classificate dalla Iarc tra gli agenti possibilmente cancerogeni in base a limitata evidenza nell’uomo, limitata evidenza negli animali e debole supporto fornito dagli studi sui meccanismi. Cosa vuol dire? Proprio per il fatto che il significato di questa classificazione non è intuitivo, la Iarc ha ritenuto utile ribadire che le radiofrequenze sono classificate nel gruppo 2B perché c'è un’evidenza tutt’altro che conclusiva che l’esposizione possa causare il cancro negli esseri umani o negli animali. Valutazioni successive concordano nel ritenere che le evidenze relative alla possibile associazione tra esposizione a RF e rischio di tumori si siano indebolite e non richiedano modifiche all’impostazione degli standard di protezione correnti. L'Oms sta attualmente preparando un aggiornamento della valutazione di tutti i rischi per la salute da esposizione a radiofrequenze. In attesa di questa monografia, gli sviluppi della ricerca sono costantemente monitorati da panel nazionali e internazionali di esperti.

Chi ha paura del 5G? Il Codacons vuole vederci chiaro e invita tutti i 7.914 comuni italiani a lasciar perdere le sperimentazioni e a salvaguardare la salute dei cittadini. Antonino Caffo l'8 agosto 2019 su Panorama. Il 5G è dietro l'angolo, con la promessa di rendere le nostre vite connesse molto più intelligenti di quanto lo siano oggi. Non si tratta solo di velocità ma della possibilità di collegare in maniera ottimizzata smartphone, tablet, computer, dispositivi indossabili e tutto ciò che in città "parla" con la rete. Non si poteva già fare oggi con il 4G? Si, certo, con grossi limiti in quanto a spazio concesso ad ogni prodotto (per farla spicciola), con una decadimento della qualità. Il 5G sarà un network migliore e creato apposta per ospitare centinaia, migliaia di device. Per fare questo serviranno antenne diverse dalle attuali, sulle quali il Codacons ha avviato la propria battaglia del "contro".

Stop alla penisola. L’associazione dei consumatori ha chiesto a tutti i sindaci italiani di bloccare e rifiutare la sperimentazione del 5G sui loro territori. Il motivo? «Allo stato attuale – afferma Carlo Rienzi, Presidente Codacons – le evidenze scientifiche non sono in grado di assicurare con assoluta certezza l’assenza di rischi suo fronte sanitario per i cittadini. In tali situazioni si applica quindi il principio di precauzione che pone come interesse primario la tutela della popolazione, anche perché i sindaci sarebbero i primi soggetti chiamati a rispondere di eventuali danni prodotti da strutture tecnologiche autorizzate dalle amministrazioni».

La ricerca del misfatto. A marzo dello scorso anno si è conclusa la ricerca che l’Istituto Ramazzini di Bologna, attraverso il Centro di ricerca sul cancro “Cesare Maltoni”, ha condotto per studiare l’impatto dell’esposizione umana ai livelli di radiazioni a radiofrequenza (RFR) prodotti da ripetitori e trasmettitori per la telefonia mobile. Il risultato? L'Istituto Ramazzini ha studiato le esposizioni alle radiofrequenze mille volte inferiori a quelle utilizzate nello studio sui telefoni cellulari del National Toxicologic Program (USA), e ha riscontrato gli stessi tipi di tumore, ossia malattie rare delle cellule nervose. Insomma, per la ricerca, ripetitori e telefoni cellulari causano il cancro.

Il 3G non è il 5G (e viceversa). Ma c'è un problema: l'Istituto ha utilizzato, come tester delle sue indagini, dei ratti, esponendoli a radiazioni su frequenze da 1.8 Ghz per molte ore al giorno. I topi hanno sviluppato, in alcuni casi, una forma tumorale al cervello. A seguito di ciò, per chissà quale motivo, la ricerca del centro è stata citata da più fonti per condannare il 5G, nonostante il fulcro fossero tecnologie di rete precedenti. La frequenza da 1.8 Ghz è propria del 3G. Non a caso, l'ICNIRP, l'organismo internazionale per lo studio delle radiazioni non ionizzanti, ha ritenuto che i risultati di questo studio non possano essere impiegati per modificare gli attuali parametri sui livelli di esposizioni.

Ecco le testuali parole del Ramazzini: «Nello studio del Ramazzini, 2.448 ratti Sprague-Dawley sono stati esposti a radiazioni GSM da 1.8 GHz (quelle delle antenne della telefonia mobile) per 19 ore al giorno, dalla vita prenatale (cioè durante la gravidanza delle loro madri) fino alla morte spontanea. Lo studio comprende dosi ambientali (cioè simili a quelle che ritroviamo nel nostro ambiente di vita e di lavoro) di 5, 25 e 50 V/m: questi livelli sono stati studiati per mimare l’esposizione umana full-body generata da ripetitori, e sono molto più basse rispetto a quelle usate nello studio dell’NTP americano». Peccato che 50 Volts al metro (l'unità di misura delle radiazioni non ionizzanti) sia una metrica che è fuori legge in un paese dove il limite è di 6 V/m. Al massimo, valori elevati si possono raggiungere in fase di chiamata cellulare, non fino ai "50" e per limitate ore effettive ogni giorno.

Facciamo un po' di chiarezza. Secondo delle inferenze matematiche alquanto basilari, il 5G opera su frequenze maggiori del 4G, quindi la lunghezza d'onda di azione è inferiore. Questo è il motivo per il quale servono più antenne per coprire una certa zona, ma a bassa potenza. Il Codacons collega il numero maggiore a un rischio aumentato per la salute. Ma quasi quasi fa più male mettere una mano, per qualche ora, nel forno a microonde. Come spiegato in un articolo del sito Key4biz: «Il fascio di radiazione emesso da una stazione radio base 4G ha un diagramma di irradiazione fisso. Il raggio di esposizione di una stazione base 4G è maggiore rispetto al 5G e il fascio di radiazione si propaga anche su persone, animali e oggetti che non utilizzano la tecnologia 4G. Invece per la stazione radio base 5G il diagramma di irradiazione è dinamico e indirizzabile verso l’utente. Ogni servizio vede unicamente una “porzione virtuale” della rete e tutti i soggetti che in quel momento non richiedono una connessione mobile di quinta generazione non sono interessati dal fascio di radiazione».

Cosa dice l'Istituto Superiore di Sanità. Inoltre, in un recente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, in base alle evidenze epidemiologiche attuali, l’uso del cellulare non risulta associato all’incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenze durante le chiamate vocali. Nel periodo 1999-2017 non si sono rilevati rischi di tumori maligni (glioma) o benigni (meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari) in relazione all’uso prolungato (≥10 anni) dei telefoni mobili. Per quanto riguarda le future reti 5G, al momento non vi è certezza pratica che, in Italia, non faccia male. Sappiamo che non ci sono conseguenze altrove (tipo negli Stati Uniti dove pure sono state studiate radiazioni più elevate) ma l'azione precauzionale del Codacons non fa altro che alzare la guardia su un fatto che è una credenza e non un'evidenza. Ragionando in questo modo saremmo ancora fermi ai caratteri mobili, al cavallo, ai messaggi di fumo. Se c'è una curva dovuta dello sviluppo tecnologico che prevede un periodo di sperimentazione, non vuol dire che questa comporti la fine dell'umanità. Non se i dati sono trasparenti, pertinenti e calzanti con quello che si cerca.

·        Terra dei fuochi e il processo all’Italia.

Terra dei fuochi e tumori: uno studio conferma il legame. Le Iene il 16 dicembre 2019. Un gruppo di ricercatori italiani ha trovato una correlazione tra l’eccessiva quantità di metalli pesanti nel sangue di alcuni pazienti oncologici della Terra dei fuochi e l’attività di sversamento illegale dei rifiuti tossici. Un dramma di cui ci siamo a lungo occupati con Nadia Toffa. Lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi e i tumori hanno una correlazione nella Terra dei Fuochi. Una primissima conferma del legame sembrerebbe arrivare da una ricerca di alcuni studiosi italiani, che hanno osservato concentrazioni anomale di metalli pesanti come cadmio e mercurio nel sangue di malati di cancro di quella zona. Lo studio, pubblicato sull’autorevole “Journal of Cellular Physiology”, nasce dal lavoro di un gruppo coordinato da Antonio Giordano, che negli Usa dirige l’Istituto Sbarro di Ricerca sul Cancro della Temple University. In un’intervista all’Ansa il coordinatore dello studio scientifico ha spiegato: "Il legame causale tra sviluppo tumorale ed esposizione a questi metalli è un fatto noto da tempo, il superamento costante dei limiti di legge anche nel piccolo numero di individui esaminati nel nostro studio è un fatto di per sé allarmante, che quindi richiede l'immediata estensione dell'analisi a una popolazione più ampia, così da avere una rappresentazione accurata sul fronte epidemiologico”. Stiamo parlando di un territorio, denominato “Terra dei fuochi”, compreso tra Caserta e Napoli, di cui si era occupata più volte Nadia Toffa. Una zona chiamata anche “Triangolo della morte” perché lì le persone muoiono di tumore tre volte di più che nel resto d’Italia. Per anni in quei territori la camorra ha smaltito ogni genere di rifiuti speciali in discariche abusive o bruciati in roghi tossici, avvelenando così terra e aria. Avevamo intervistato anche Roberto Mancini, il poliziotto che per anni aveva indagato sugli sversamenti illegali di rifiuti proprio in quelle zone. Nel 2002 gli venne diagnosticato il tumore, e nel 2014 non ce l’ha fatta. Nadia Toffa, nel servizio che potete rivedere qui sopra aveva poi raccolto la testimonianza esclusiva di Carmine Schiavone, boss del clan dei casalesi, poi pentito:  “Quel materiale arrivava dalle centrali tedesche, austriache, svizzere. Arrivavano fanghi tossici, coloranti, amianto, piombo, cadmio, e persino scorie nucleari”. Quei campi dove erano stati interrati i rifiuti erano stati poi interdetti per la coltivazione, anche se le nostre telecamere avevano filmato il fatto che proprio lì crescevano pomodori, friarielli, pesche, venduti anche a una famosa ditta di surgelati e a multinazionali straniere. Le Iene hanno fatto condurre alcune analisi su quelle verdure, rilevando numerose tracce di metalli pesanti, tra cui mercurio, arsenico, piombo, in quantità di tanto superiori a quelle ammesse per legge. Con padre Maurizio Patriciello, il prete anti-roghi di Caivano, vi avevamo mostrato come quei rifiuti venivano sversati illegalmente e poi dati alle fiamme. Un copione che si ripete da anni e che don Patriciello conosce molto bene: “La piazzola viene riempita e poi svuotata in questo modo. Queste ceneri verranno disperse dal vento e noi continueremo a respirarle. Intanto si accumula altra immondizia che verrà a sua volta bruciata da altri delinquenti”.

Terra dei fuochi: la Corte di Strasburgo avvia il processo contro l'Italia. I ricorrenti sostengono che lo Stato non abbia preso misure per ridurre il pericolo, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La Corte di Strasburgo ha avviato il processo contro il Governo italiano per la situazione nella cosiddetta "Terra dei fuochi". La Corte ha accolto in via preliminare i ricorsi ricevuti da cittadini e associazioni che denunciano la violazione dei loro diritti alla vita e al rispetto della vita famigliare, sanciti dalla convenzione europea dei diritti umani. I ricorrenti sostengono che lo Stato non abbia preso misure per ridurre il pericolo, nonostante fosse consapevole del rischio reale e immediato.

La Corte ha comunicato al Governo Italiano i ricorsi ricevuti. Dopo aver analizzato i ricorsi arrivati a Strasburgo tra l'aprile del 2014 e lo stesso mese dell'anno seguente, la Corte ha deciso di dare il via al contraddittorio tra le parti, ritenendo almeno per ora ammissibile quanto in essi sostenuto. Ha quindi comunicato al governo le violazioni che oltre 30 persone e 5 associazioni dicono di aver subito. I ricorrenti sostengono che nonostante le autorità fossero a conoscenza dell'esistenza di un rischio reale e immediato per la vita delle persone (alcune decedute), causato dall'accumulo e dalla combustione di rifiuti tossici nelle discariche abusive, non abbiano preso misure per ridurre il pericolo. Inoltre imputano allo Stato di non aver introdotto leggi per perseguire efficacemente i responsabili dell'inquinamento, e di non aver informato la popolazione sui rischi per la salute.

La Corte chiede una serie di informazioni. Nel comunicare i ricorsi al governo la Corte chiede una serie di informazioni per poter poi decidere se i ricorsi sono effettivamente fondati e in caso affermativo quali violazioni siano state commesse. Tra l'altro chiede quali misure siano state adottate per identificare le zone inquinate e verificare il livello di inquinamento di aria, suolo e acqua e esaminare il suo impatto sulla salute della popolazione. E richiede informazioni sulle indagini condotte per individuare i responsabili dei reati ambientali e quali risultati abbiano portato. Spetta ora al governo fornire le prove per dimostrare che ha fatto tutto il necessario per proteggere i cittadini.

Oltre 3.500 i ricorsi presentati a Strasburgo. Sono stati oltre 3.500 i ricorsi presentati nel 2014 alla Corte di Strasburgo da cittadini e associazioni della Terra dei fuochi. L'accusa all'Italia era di aver violato l'articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani in cui è stabilito che "il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge". I ricorrenti chiedevano anche di condannare le autorità italiane per il mancato rispetto dell'articolo 10 della stessa Convenzione, quello che sancisce il diritto a essere correttamente informati. In quest'articolo, dedicato alla libertà d'espressione, è protetta anche la "libertà di ricevere o di comunicare informazioni".

Il traffico di rifiuti è meglio della droga: 690 roghi in 3 anni. Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 su Corriere.it da Antonio Castaldo, Milena Gabanelli. Al nord bruciano ton di plastiche, diossine 100 volte sopra i limiti, ma il governo dice «no» ai termovalorizzatori. Il 14 ottobre dell’anno scorso prese fuoco un deposito alla periferia di Milano, e la puzza si sentì fino a piazza Duomo. La «terra dei fuochi» si era definitivamente estesa anche al Nord, con discariche e depositi ricolmi di scorie distrutti da autocombustione o incendi dolosi. La legge prevede che a far fronte alle spese di bonifica sia il proprietario dell’immobile. Ma se non lo fa, interviene la pubblica amministrazione, con i fondi di una fideiussione bancaria. Negli ultimi anni sono state queste garanzie obbligatorie a mitigare i danni. Anche nel caso milanese, la titolare dell’impianto di via Chiasserini aveva presentato una garanzia finanziaria di un milione di euro, ma poco prima del rogo era subentrata un’altra società, che non avendo presentato la fideiussione non aveva titolo ad operare. Quando la Città Metropolitana ha escusso la polizza, è arrivato il ricorso davanti al Tribunale Civile di Milano, che ha bloccato tutto. Ma la bonifica non può attendere i tempi dei tribunali, e per il momento deve pensarci la Città metropolitana di Milano che ha dato inizio ai lavori stanziando 2 milioni di euro.La bonifica di roghi e rifiuti abbandonati sta diventando un corposo capitolo di spesa. Solo la Regione Lombardia negli ultimi anni ha sborsato 12,4 milioni per quattro siti dei quali non è stato possibile risalire al responsabile della contaminazione. Altri 13,5 milioni sono andati a coprire le spese di bonifica di 13 depositi pericolosi per la comunità: in questi casi i responsabili sono falliti o irreperibili, e sarà necessario affrontare un processo per il risarcimento delle spese. Secondo l’ Ispra, ogni tonnellata di rifiuti data alle fiamme produce 1,8 tonnellate di anidride carbonica. Il rogo di via Chiasserini ne ha bruciate oltre 5.000 tonnellate. Quasi tutti questi impianti contenevano scarto non riciclabile del trattamento dei rifiuti, definito in gergo «sovvallo». Nel 2017 ne sono state prodotte 37,6 milioni di tonnellate. I volumi aumentano sempre di più così come i prezzi di conferimento all’inceneritore. Secondo Borsino dei rifiuti, società di servizi specializzata, ogni tonnellata smaltita costa in media 160 euro, con picchi di 240. Cinque anni fa il costo non superava gli 80 euro. La filiera illegale nata nelle pieghe di quest’emergenza è descritta negli atti dell’inchiesta condotta dalla pm Donata Costa sul rogo milanese del 14 ottobre, il cui processo è alle battute finali: «I produttori di rifiuti li conferiscono ad aziende formalmente munite di autorizzazioni ma in realtà operanti in un regime di illegalità». In questa fase entrano in gioco i broker specializzati in capannoni industriali dismessi che, come annotano gli investigatori, «vengono stipati di rifiuti senza alcuna precauzione per l’incolumità pubblica». Secondo la legge se lo spacciatore di droga rischia non meno di 10 anni di carcere, per il trafficante di rifiuti la pena prevede da uno a sei anni. Per il gestore della discarica non autorizzata di via Chiasserini, accusato anche di calunnia, il pm non ha potuto chiederne più di 6 anni e 8 mesi. In sei mesi aveva fatturato 1,4 milioni di euro. Per gli altri imputati, accusati di aver trasportato illegalmente dalla Campania migliaia di tonnellate di scorie plastiche, le pene richieste si aggirano tra i 3 e i 4 anni.I capannoni industriali dismessi sono le praterie su cui scorrazzano i trafficanti. In Veneto sono quasi 11mila, e il Veneto importa oltre 4,3 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno da altre regioni. La Lombardia 11,7. Insieme all’Emilia Romagna, attraggono il maggior numero di scorie prodotte in Italia, poiché qui si concentra il maggior numero di impianti di smaltimento, e di capannoni, dove abbondano roghi e abbandoni di enormi cumuli di rifiuti. Nel solo nord Italia, il Noe dei Carabinieri ne ha scoperti 34 in sei mesi. Quasi tutti erano stipati di materiale plastico. Il solito sovvallo. Un tipo di rifiuti non riutilizzabile, e che secondo le aziende di rigenerazione costituisce il 30% del totale.L’unica possibile destinazione finale per questa tipologia di scorie è l’inceneritore, o il termovalorizzatore, che bruciando i rifiuti produce anche energia: Brescia alimenta così l’80% del riscaldamento di tutta la città. In Italia ne sono attivi complessivamente 40, contro i 96 della Germania e i 126 della Francia. Nel nostro Paese i timori legati alle emissioni ne ritardano la diffusione. Ma anche le paure andrebbero aggiornate ai nuovi traguardi della tecnologia. Sul tetto del nuovissimo inceneritore di Copenaghen, si potrà sciare: è alto 85 metri, con emissioni molto al di sotto dei limiti di legge.Sulle emissioni in Italia abbiamo fatto di meglio con l’impianto di Bolzano, controllato al 100% da una società pubblica, la Eco-center. Utilizza una delle tecnologie più all’avanguardia nel mondo, e l’obiettivo è la copertura dei costi e gli eventuali utili interamente reinvestiti nel sistema. Produce energia elettrica e termica che viene immessa nella rete di teleriscaldamento, ed è in grado di riscaldare 10 mila alloggi e illuminarne 20 mila. Dal camino dell’impianto di Bolzano escono emissioni di gas, idrocarburi e metalli molto al di sotto dei limiti europei. La media dei valori delle polveri sottili totali sono di 0,05 milligrammi per metrocubo, a fronte di un limite europeo di 10. Ugualmente per la diossina: 0,00003 nanogrammi nel 2018, meglio dell’inarrivabile impianto di Copenaghen, che si ferma a 0,002. Il limite europeo è di 0,1.Nei giorni successivi al rogo di via Chiasserini nell’aria si è diffusa una quantità di diossina fino a 100 volte il limite europeo, con un picco 22 volte superiore il valore guida fissato dall’Oms (0,3). «Andrebbe verificato l’impatto epidemiologico di una simile catastrofe», dichiara Alberto Zolezzi, medico e deputato M5S. «Oltre ai problemi respiratori, a lunga scadenza ci potrebbe essere un picco di malformazioni congenite». Quindi in attesa che si differenzi di più e meglio, e prima che l’economia circolare diventi una realtà, che si fa? È meglio che i territori sprovvisti adottino qualche impianto modello Bolzano, oppure dobbiamo continuare ad intossicarci di roghi, discariche abusive e camion che vanno su e già per l’Italia? Con buona pace per i trafficanti visto che a nessuno viene in mente di aumentare le pene.

Lombardia e rifiuti: la nuova Terra dei Fuochi. Nella regione più avanzata d'Italia aumentano gli smaltimenti illegali di rifiuti. Con problemi per la salute pubblica. Giorgio Sturlese Tosi il 9 luglio 2019 su Panorama. «Si invita la popolazione a tenere le finestre chiuse, a sostare il meno possibile all’aperto e a non mangiare verdure e frutta prodotte nell’area». L’appello del Comune di Milano è da coprifuoco. Tre scuole chiuse, la circolazione del «passante» ferroviario deviata, centri sportivi con i lucchetti ai cancelli. Alle 22 e 40 del 14 ottobre scorso, in via Dante Chiasserini a Milano, tra i quartieri di Quarto Oggiaro e Bovisasca, è divampato un incendio gigantesco in un capannone industriale stipato fino al tetto di rifiuti. I focolai, quasi contemporanei, erano stati innescati in posizioni strategiche e in pochi minuti le fiamme hanno raggiunto 40 metri di altezza. I trenta mezzi dei Vigili del Fuoco hanno impiegato tre giorni per spegnere i roghi: con quellla colonna di fumo denso, nero e acre che si alzava sopra il cielo di Milano, per poi ricadere depositando veleni al suolo.

In Lombardia i falò tossici di montagne di spazzatura hanno il ritmo di almeno due al mese. Sempre dolosi, sempre appiccati dai trafficanti di rifiuti. Sono 37 gli incendi in capannoni stipati di immondizia o in discariche nel capoluogo negli ultimi mesi, altre decine nella regione. Non è la terra dei Casalesi raccontata da Roberto Saviano in Gomorra, ma la città che si è appena aggiudicata le Olimpiadi invernali del 2026.

La mappa degli «incendi liberatori» provoca rabbia e apprensione. Cinisello Balsamo, Mariano Comense, Cassago Brianza, Cologno Monzese, Alzano Lombardo, Chiari, Pioltello, Cremona, Corteolona, Mortara, Novate Milanese, Arese, Lainate sono solo alcuni dei centri della regione colpiti dai roghi tossici, che spesso vicino a terreni agricoli, che hanno riguardato soprattutto i siti autorizzati allo stoccaggio dei rifiuti, segno che il virus della monnezza ha infettato anche il circuito legale dello smaltimento. Mentre i fascicoli sui tavoli dei magistrati annunciano prossimi terremoti negli uffici pubblici. Un rapporto dell’Università Statale di Milano è allarmante: in Lombardia sono state rilevate 399 infrazioni, che hanno portato a 451 denunce, a 21 arresti e a 268 sequestri. La statistica negli ultimi mesi si è però impennata, le cifre moltiplicate. Nell’incendio di via Chiasserini sono andati a fuoco tremila metri cubi di rifiuti stoccati abusivamente: 18 mila tonnellate di plastica, carta, cisterne di olii esausti, pneumatici, scarti di edilizia, furgoni e persino una barca. Materiali che arrivavano dalle regioni del Centro e del Nord Italia. Le indagini condotte dal Noe, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, e dalla polizia, su coordinamento della Direzione distrettuale antimafia di Milano, a febbraio hanno portato a 15 arresti. Quattro mesi dopo, il 4 giugno, altri 20 arresti tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Campania, per traffico illecito. Un milione di euro il profitto di pochi mesi per la gestione criminale di 10 mila tonnellate di rifiuti provenienti dalla Campania e da vari impianti, anche a partecipazione pubblica, del Nord.

Il business delle cave. Le indagini hanno quindi svelato come funziona il sistema dello smaltimento illecito di rifiuti e chi lo gestisce. Il territorio viene contaminano senza alcuna preoccupazione. Contano solo i guadagni illeciti e i soldi facili, che comunque vada sono tanti.

Il ruolo più importante spetta a imprenditori senza scrupoli che da anni operano nel settore. Sono i titolari di società che ritirano i rifiuti dalle aziende di raccolta per portarli in siti di trattamento o smaltimento. Questo sulla carta. In realtà i boss della monnezza si affidano ai cosiddetti broker, intermediari che ricercano sul territorio cave abbandonate o capannoni in disuso. Ai proprietari delle strutture mostrano documenti falsi o provvisori, millantano impossibili fideiussioni bancarie ed elargiscono qualche migliaio di euro per l’affitto dei siti. Pochi soldi che però sono come ossigeno per gli imprenditori, spesso strozzati dalla crisi. Entrano quindi in gioco i corrieri, aziende di trasporto conniventi che effettuano decine di viaggi al mese, trasportando migliaia di tonnellate di immondizia dai siti di raccolta a quelli di stoccaggio. Il compenso per i camionisti? Fino a 1.800 euro al giorno. Agli atti dell’ultima inchiesta della Dda milanese c’è la testimonianza di uno di loro che racconta di aver abbandonato il camion in mezzo alla piazzola di scarico, infuriato per la puzza che ne usciva e i ratti, grossi come gatti, che saltavano fuori dal carico. Il business prosegue fino a quando i capannoni o le discariche traboccano. E «alla fine interviene un incendio liberatorio che risolve loro il problema» spiega Alessandra Dolci, procuratore aggiunto di Milano e capo della Dda. Queste dinamiche si ripropongono identiche nelle numerose inchieste ancora aperte e condotte dalle procure del centro e nord Italia, delle Dda di Milano, Torino e Venezia e nelle indagini dei carabinieri forestali, del Ros e del Noe, polizia, Guardia di finanza e alcune polizie locali, sempre del Nord. Le inchieste aperte sono decine e raccontano il destino dei nostri scarti. L’apparente tregua dei capannoni dati alle fiamme non illude il presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno del traffico di rifiuti, Stefano Vignaroli, che ha scelto proprio Milano come tappa per la missione di luglio: «Il rogo alza troppo il livello di attenzione delle forze di polizia. Per questo, sempre più spesso, leggiamo di capannoni abbandonati stipati di rifiuti anziché di roghi. Certo è che prezzi bassi praticati da intermediari che operano nell’illegalità inquinano il mercato legale e mettono fuori gioco le aziende oneste».

Bonifiche milionarie. I guadagni illeciti del traffico di rifiuti possono mettere d’accordo gli imprenditori del settore e i boss della criminalità organizzata. Nel maggio 2018 la Guardia di finanza ha stroncato, con otto arresti, un colossale riciclaggio di denaro della cosca di Sinopoli e San Procopio di Reggio Calabria che stava per investire nell’attività di smaltimento rifiuti, con tanto di inceneritore, nel comune di Lezzate, provincia di Monza. Ma è almeno dal 2008 che le cosche calabresi della Lombardia avevano fiutato l’affare. L’indagine «Star Wars», condotta dalla polizia provinciale di Monza e Brianza, ha appurato che esponenti della cosca Iamonte di Melito Porto Salvo avevano riempito cave e terreni agricoli intorno a Desio con camion di pneumatici, scarti edili, residui plastici e altri materiali intrisi di idrocarburi, per un totale stimato di 160 mila metri cubi di rifiuti. Un traffico andato avanti per mesi, con centinaia di mezzi pesanti che scaricavano a ritmo continuo, tanto che ai camionisti veniva regalata cocaina per far fronte a turni di lavoro massacranti. Oggi la cava della ’ndrangheta è ancora lì. Il costo stimato per la bonifica ammonta a 5 milioni di euro, ma i soldi non si trovano. Il comune di Desio ha appena stanziato 150 mila euro per i carotaggi, che dovranno analizzare il terreno e le falde, pare già contaminate da piombo, cadmio e cromo. S’inquina senza limiti, qualcuno semmai provvederà a ripulire.

Pene troppo leggere. Secondo la Camera di commercio di Milano l’attività di gestione dei rifiuti in Lombardia vale 562 milioni l’anno, le società specializzate nel trattamento sono 134 e danno lavoro ad almeno duemila persone. Per l’assessore regionale all’Ambiente, Raffaele Cattaneo, in Lombardia arrivano ogni anno 400 mila tonnellate di rifiuti urbani da fuori regione, ma i dati si riferiscono soltanto al mercato legale e censibile. «Non conosciamo poi quanti rifiuti speciali siano spediti qui» ammette Cattaneo «perché è il mercato a dettare le rotte e il prezzo». I soldi dei rifiuti infatti non puzzano e fanno gola. Anzi, «la merda è oro» dice, intercettato dai carabinieri, il titolare di un’azienda di trasporti che consegnava carichi dall’odore pestilenziale nei capannoni di una banda che operava nel milanese. Il giudice che ha firmato gli arresti, nella sua ordinanza, ha parlato di «pervicacia criminale degli indagati, totalmente accecati dalla prospettiva di realizzare in tempi brevi ingentissimi guadagni con rischi penali contenuti». Oggi infatti i trafficanti rischiano una pena massima di sei anni, ma raramente vengono condannati a più di tre, evitando quindi il carcere. A fronte di guadagni importanti: ogni tonnellata di rifiuti rende all’organizzazione fino a 200 euro.

Spedizioni da nord a sud. Il mercato illecito della spazzatura è talmente vantaggioso che ci guadagnano anche le società municipalizzate o a partecipazione pubblica. In pratica i cittadini pagano la Tari, la tassa comunale sui rifiuti, mentre le aziende risparmiano sui costi affidandosi a chi offre il prezzo di raccolta e smaltimento più basso. Il prezzo di mercato per i rifiuti da smaltire aumenta di continuo e oggi arriva a 280 euro a tonnellata. I trafficanti, invece, chiedono al massimo 180 euro a tonnellata. Un risparmio che nasconde il malaffare. La procura di Brescia ad aprile ha chiuso le indagini su un traffico di grosse dimensioni gestito da un manager del settore, Paolo Bonacina. L’indagine, condotta dal Noe dei carabinieri, era partita dall’incendio di un capannone nel bresciano, in cui erano bruciati almeno 1.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani. Per risalire alla provenienza delle ecoballe incendiate i militari hanno viaggiato dalla Lombardia, al Piemonte, alla Campania e al Lazio. La maggior parte dell’immondizia bruciata proveniva dagli impianti di Caivano (gestito da A2A di Brescia) e di Giugliano, di proprietà della Regione Campania, dalla S.a.p.Na. di proprietà della città metropolitana di Napoli. Non solo: avevano conferito lì materiali di scarto anche la Co.La.Ri., il Consorzio Laziale rifiuti del patron romano della monnezza Manlio Cerroni. Altri rifiuti, stavolta di tipo umido, arrivavano dalle società pubbliche Acam di Vezzano Ligure, Net spa di Udine e Quadrifoglio di Firenze, che gestiscono la raccolta in migliaia di comuni. Nell’inchiesta bresciana risultano indagate le società Aral di Alessandria, di proprietà del Provincia, e A2A Ambiente, il colosso dell’energia partecipato dai comuni di Brescia e Milano e quotato in Borsa.

Amministratori Corrotti. Il generale Maurizio Ferla, comandante dei carabinieri per la Tutela ambientale, delinea un’altra in crescita della corruzione di pubblici funzionari: «Riscontriamo regolarmente situazioni di corruzione e di reati contro la pubblica amministrazione e truffe alla collettività, con bandi di assegnazione della gestione dei rifiuti cuciti su misura sulle aziende che in realtà non hanno i titoli per partecipare. In alcuni casi si può ipotizzare che la corruzione coinvolga gli amministratori e i politici che poi firmano quei provvedimenti».

Prova ne sono i 105 indagati e le 43 misure cautelari chieste dalla Dda milanese nell’ultima maxi inchiesta sul sistema di tangenti in Lombardia che lambisce in queste settimane il Pirellone. Uno dei filoni dell’indagine coordinata dai pm antimafia Alessandra Dolci, Adriano Scudieri e Silvia Bonardi riguarda politici, amministratori e imprenditori, e si focalizza proprio sugli appalti per la gestione dei rifiuti, la cui presunta regia occulta sarebbe in capo all’impresario Daniele D’Alfonso. Il quale, intercettato, diceva della sua attività: «Ho seminato talmente tanto, io a tutti quanti ho dato da mangiare». Il 7 maggio, con lui, è finito in carcere anche Mauro De Cillis, da 30 anni in Amsa, numero uno degli appalti dell’azienda milanese dei servizi ambientali, chiamato il «maestro d’orchestra», al quale sarebbe stata promessa una tangente di 100 mila euro per pilotare le assegnazioni dei lavori. Proprio uno dei testi dell’accusa, Matteo Di Pierro, dipendente di D’Alfonso, racconta di avere inoltrato per errore una mail a tutti gli indirizzi Amsa con i prezzi dello smaltimento per una gara che non era stata ancora neppure bandita. Sott’osservazione è finito anche il bando per il teleriscaldamento di A2A. Fino a oggi sono secretati gli accertamenti su una decina di situazioni che coinvolgono tutte le principali aziende municipalizzate pubbliche del territorio lombardo. Se i sospetti venissero confermati il terremoto giudiziario coinvolgerebbe gran parte del sistema dei rifiuti nella regione e non solo.

Non troppo "differenziata". Dove finisce la plastica che mettiamo da parte per essere riciclata? Il 20 giugno il Noe dei Carabinieri ha scoperto a Cumiana, nel Torinese, quattro capannoni stipati di ecoballe con 6.500 tonnellate di rifiuti plastici che arrivavano da Campania, Lombardia e Veneto. Una fonte autorevole conferma a Panorama quello che traspare leggendo le carte delle numerose inchieste giudiziarie: parte della plastica della nostra raccolta differenziata finisce in capannoni come quelli sequestrati a Torino. Il problema è che oggi all’estero non ci sono più Paesi disposti ad accoglierla, seppur a caro prezzo - come la Cina e la Malesia - perché il costo di quel riciclaggio che ci viene promesso è ancora troppo alto. Il presidente della commissione Ecomafie Vignaroli, oltre ad auspicare la necessaria riduzione degli imballaggi, coglie il punto, anche politico, della questione: «Se si spostassero gli incentivi dagli inceneritori al riciclo, supportando la nascita di nuove filiere per materiali che oggi non hanno sbocchi industriali, tutto il sistema ne trarrebbe beneficio». Le previsioni però non sono positive. In Lombardia ci sono 13 termovalorizzatori, 68 impianti di compostaggio e circa 300 di trattamento, con 16 milioni di tonnellate di rifiuti speciali e oltre 12 milioni di inerti. Numeri da record in Italia, che però non basteranno a reggere l’ondata di immondizia, destinata ad aumentare. Dice il generale Ferla: «La situazione è critica. Al blocco di importazioni di rifiuti dall’Asia e alle problematiche ricettive degli impianti del nostro Meridione, si aggiungono le emergenze che già si preannunciano per esempio in Sicilia». Le ecoballe arriveranno sempre più numerose in Lombardia.

Le scorie sotto la risaia. Le conseguenze della malagestione degli scarti, privati e industriali, le spiega il tenente colonnello dei carabinieri Massimiliano Corsano, comandante del Gruppo tutela ambientale del nord Italia: «Il problema è più grave di quel che si pensi. È come se i trafficanti si macchiassero del reato di strage per le gravissime conseguenze che le loro attività producono sull’ambiente e sulla nostra salute». Un esempio? In provincia di Pavia, a Mortara, sotto alcune risaie della Lomellina, sono stati scaricate 5 mila tonnellate di percolato proveniente da una acciaieria di Brescia. La gestione approssimativa del sito di stoccaggio ha portato alla probabile contaminazione di scorie radioattive con Cesio 137 di ben 197 ettari di territorio agricolo, soprattutto risaie. Un inquinamento che potrebbe aver interessato 240 mila consumatori, mentre agli atti della Commissione parlamentare sui rifiuti risulta «accertata una contaminazione chimica e radiologica della falda». Per la malavita dell’immondizia conta solo ciò che finisce nel portafogli, non quello che mettiamo nel piatto.

·        Ex Ilva e la condanna all’Italia.

Ex Ilva di Taranto, la Corte dei diritti umani condanna l'Italia: "Non ha protetto cittadini dall'inquinamento". Secondo i giudici di Strasburgo, c'è stata una violazione del diritto al rispetto della vita privata e alla vita familiare (l'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani) e del diritto a un rimedio efficace (l'articolo 13 della stessa Convenzione), scrive il 24 gennaio 2019 "La Repubblica". La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per non aver protetto alcuni cittadini di Taranto che vivono nelle aree colpite dalle emissioni tossiche dell'impianto dell'ex Ilva. Secondo i giudici di Strasburgo, c'è stata una violazione del diritto al rispetto della vita privata e alla vita familiare (l'articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani) e del diritto a un rimedio efficace (l'articolo 13 della stessa Convenzione). La Corte europea dei diritti dell'uomo, che è legata al Consiglio d'Europa di Strasburgo, ha rivelato che la persistenza di una situazione di inquinamento ambientale a Taranto ha messo in pericolo la vita dei ricorrenti e, più in generale, dell'intera popolazione che vive nelle aree a rischio. Secondo i giudici, le autorità italiane non hanno preso tutte le misure necessarie a proteggere il diritto dei ricorrenti al rispetto delle vita privata. La Corte ha inoltre considerato che ai ricorrenti non è stato garantito un rimedio efficace per sollevare davanti alle autorità italiane il fatto che non fosse possibile ottenere misure per assicurare la decontaminazione delle aree dell'Iva di Taranto. I ricorsi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo era stato presentato nel 2013 e nel 2015 da 180 persone che vivono o sono vissute a Taranto o nelle zone vicine. La Corte ha ritenuto che la condanna dell'Italia costituisca in sè una soddisfazione sufficiente per i danni morali, mentre ha ordinato il versamento di 5 mila euro ai ricorrenti per i costi e le spese legali.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 23 gennaio 2019. Nella serata di debutto, Adriano Celentano ha fatto un mezzo miracolo: il 19% di share (ben il 22% nell' anteprima) per un cartone animato in prima serata non è cosa che si veda tanto spesso. A quanto pare, però, il pubblico brama il Molleggiato in carne e ossa. E infatti i buoni risultati di lunedì sera sono scemati nella delusione del martedì: 13%, mica poco di questi tempi, ma non certo roba da Celentano. Oddio, visto quanto è stato travagliato il parto di Adrian, è già tanto che il prodotto vada finalmente in onda. Il progetto iniziale risale addirittura al 2009 e, come noto, la serie sarebbe dovuta arrivare su Sky nel 2011. A coprodurre il cartoon avrebbe dovuto essere la Cometa film di Enzo D' Alò (autore del celebre La freccia azzurra). Ma non è finita bene, anzi è finita in tribunale. Poi, come partner per la produzione, è stata scelta Mondo Tv. Ed è qui che la faccenda comincia a farsi interessante. I disegni di Adrian, è noto, sono di Milo Manara. Ma per realizzare un cartone animato ci vuole, appunto, qualcuno che lo animi. Non è un lavoro semplice, anzi è piuttosto pesante e difficoltoso. Nel campo gli asiatici sono maestri, anche grazie all' esperienza accumulata tramite gli anime giapponesi. Come si legge persino su Wikipedia e in vari articoli di giornale, Mondo Tv decise, per la realizzazione di Adrian, di appoggiarsi agli animatori di Sek Studio. Si tratta di uno studio famoso nel mondo, che ha lavorato con decine di aziende e ha contribuito alla messa in onda di opere importanti. Negli ultimi anni ha sfornato anche prodotti per i canali Rai, quasi sempre per conto di Mondo Tv. Qual è il problema, dunque? Beh, il fatto è che Sek Studio ha sede a Pyongyang, in Corea del Nord. Non a caso il famoso fumettista Guy Delisle ha scritto un graphic novel intitolato Pyongyang in cui racconta la sua collaborazione con gli animatori di Sek. Curioso, vero? Il cartone ideato da Adriano Celentano parla di un eroe in lotta contro una dittatura omologante e disumanizzante, un uomo coraggioso che mette in piedi una sorta di nuovo 68 (tutto lo show, infatti, è ambientato nel 2068). A qualcuno potrebbe venire in mente che, in effetti, la dittatura in Corea del Nord c' è davvero. Si potrebbe anche notare il paradosso: il cartoon «libertario» di Celentano viene realizzato da animatori che vivono sotto un regime comunista liberticida. E infatti ieri il sito Fanpage ha pubblicato un articolo appuntito: «Adrian, la serie contro le dittature, è stata prodotta in Corea del Nord». E ancora: «L' irresistibile paradosso di Adrian: un futuro distopico contro tutte le dittature però prodotto dallo Studio Sek, fiore all' occhiello delle aziende della Corea del Nord. Questo potrebbe spiegare i motivi per cui le scene di sesso non siano animate ma sostituite da illustrazioni ferme di Milo Manara. In Corea del Nord, il sesso è considerato una forma di edonismo che le persone non possono provare a manifestare». Ma è davvero così? Sul serio Adrian è stato animato in Corea del Nord? Già nel 2012, su La Stampa, Paolo Festuccia spiegava che, dopo la fine del rapporto tra Mondo Tv e il Clan Celentano, «la produzione finisce addirittura in Corea. Ma nemmeno alle maestranze coreane il miracolo riesce: di Adrian in tv non c' è traccia». Sulla vicenda aleggia un alone di mistero. Ieri abbiamo contattato Mondo Tv, chiedendo lumi. Ci hanno risposto che alla fase dell'animazione non sono mai arrivati, tutto si è interrotto prima. Un comunicato stampa Mediaset uscito qualche giorno fa spiegava che per mettere in piedi il cartoon sono stati impiegati «più di 1.000 animatori sparsi in tre continenti (Cina, Africa ed Europa)». Allora abbiamo provato a chiedere qualche spiegazione in più al Clan Celentano, ma dagli uffici milanesi non sono arrivate grandi risposte, se non un invito a scorrere i titoli di coda del cartone animato. Ed è proprio quello che abbiamo fatto. Nei titoli di coda si legge che l'animazione è stata realizzata da Beijing New Century Wit Technology (una compagnia cinese) e da Green Dreams Investments. Riuscire a capire tramite il Web che cosa sia questa Green Dreams non è affatto semplice. Ci è venuta incontro la versione inglese di Wikipedia, chissà come mai. Sull' enciclopedia online (anche nella versione italiana) la produzione di Adrian è attribuita proprio alla Studio Sek. Ma sulle pagine in inglese si legge che il medesimo studio nordcoreano viene accreditato come Green Dreams Investments. Ovvio: Wikipedia non è necessariamente oro colato. E allora ci domandiamo: non è che Adriano Celentano potrebbe chiarire una volta per tutte le faccenda? Un cartone contro le dittature realizzato in Cina e in Corea del Nord (gli ultimi due moloch comunisti al mondo) non è proprio un esempio di coerenza, no?

·        La mappa degli inquinanti le nostre città.

Allarme inquinamento, ecco la mappa di cosa inquina le città italiane. Non solo traffico: riscaldamento, industria e agricoltura le cause dell'emergenza. E la ricetta per combatterla non può essere la stessa ovunque, scrive Anna Migliorati il 27 febbraio 2019 su Panorama. Città diesel free, riscaldamenti più bassi, aziende green? Qual è la ricetta giusta per ridurre l'inquinamento nelle città italiane? Dipende. Perché l'inquinamento non è tutto uguale. Ecco perché prima di decidere quale soluzione scegliere va capito il problema ed ecco perché un Atalante dell'inquinamento, che Panorama ha consultato e tradotto nelle schede che seguono, può aiutare a decidere meglio. L'iniziativa arriva dalla stessa Unione Europea che ogni anno stila il suo bollettino di superamento dei limiti delle polveri sottili (le pm10 ma le ancor più insidiose pm2.5) con la conseguente triste stima di morti per smog. Il centro di ricerca di Ispra ha mappato le sostanze che inquinano le principali città europee e quelle italiane, categorizzandole e fornendo la fotografia dello stato attuale della salute dell'aria che respiriamo. Non senza sorprese.

Ecco cosa inquina le città più a rischio smog. In almeno 24 dei 55 capoluoghi italiani anche nel 2018 abbiamo respirato aria con polveri sottili oltre i limiti consentiti per quattro mesi all'anno dice il rapporto Mal'aria di Legambiente. E il 2019 non promette meglio. Le più a rischio sono le città nell'area della Pianura Padana, ma non sono le sole. Se, infatti, le pm10 sono entrate ormai nell'immaginario comune, ci sono altri parametri che sono fondamentali: il particolato ancor più piccolo e insidioso per i polmoni vale a dire le pm2.5, il biossido di azoto e l'ozono troposferico. E' l'insieme di tutte queste sostanze a rendere un mix insidioso l'aria che respiriamo. Oltre al traffico i responsabili sono riscaldamento, residui industriali, ma anche agricoltura e caratteristiche naturali del territorio. Ecco che, andando a guardare più da vicino cosa produce quel che respiriamo non mancano sorprese. Dall'atlante dell'inquinamento, per esempio, guardano alle pm2.5 scopriamo che a Milano a produrre sono per lo più i riscaldamenti mentre a Brescia, città tristemente sul podio più alto per gli sforamenti del 2019, è l'industria e non il traffico. Le auto sono invece il maggior responsabile a Bologna. E elementi nuovi arrivano anche ad un esame più attento delle città del sud, come emerge dalle tabelle città per città. Non stupisce che a Catania, città dell'Etna, le cause siano naturali, mentre a Napoli ne produce più il riscaldamento del traffico.

Cosa sono le pm10 e le pm2.5. Sottilissime e ancor più insidiose delle pm10, cosa sono le polveri sottili definite pm2.5? Il ministero dell'Ambiente le classifica così: “particelle di diametro aerodinamico inferiore o uguale ai 2,5 µm, una frazione di dimensioni aerodinamiche minori del PM10 e in esso contenuta. Il particolato PM2,5 è detto anche ‘particolato fine’, denominazione contrapposta a particolato grossolano che indica tutte quelle particelle sospese con d.a. maggiore di 2,5 µm o, all’interno della frazione PM10, quelle con d.a. compreso tra 2,5 e 10 µm.” A lasciarle libere nell'aria che respiriamo sono un po’ tutti i tipi di combustione, da quelli dei motori di auto e motoveicoli, degli impianti per la produzione di energia, della legna per il riscaldamento domestico, degli incendi boschivi e di molti altri processi industriali. Una delle maggiori fonti, ad esempio, sono le stufe a pellet. Ecco perchè superano i limiti consentiti ad esempio anche in centri abitati a poco traffico e poca vocazione industriale. Eppure non sono meno nocive delle pm10, anzi. Ed ecco perché conoscerle meglio aiuta.

·        Terre a Fuoco.

Aria irrespirabile e nubi tossiche: la Malesia sta soffocando. Federico Giuliani il 24 settembre 2019 su it.insideover.com. Mentre gli occhi erano e sono puntati sulla foresta amazzonica, in Asia si sta consumando una altrettanto gravissima crisi ambientale. Tutto parte dagli incendi che stanno divorando l’Indonesia, causati per lo più dalle scellerate pratiche degli agricoltori locali, intenzionati a raccimolare più spazio sul quale estendere le loro colture a discapito di parchi e riserve naturali. Lo Stato indonesiano dista poco meno di 2mila chilometri dalla Malesia, ed è qui che si è diffusa una vera e propria emergenza sanitaria. I venti hanno portato a Kuala Lumpur e dintorni una nube tossica che ha oscurato il brillante skyline e obbligato le autorità ad attuare un piano di emergenza. Secondo quanto riportato dalla Cnn, che cita l’agenzia stampa statale Bernama, giovedì scorso sono state distribuite 2 milioni di mascherine agli studenti delle aree più colpite dalla coltre di smog. Oltre 500 mila maschere hanno preso la via di Sarawak, nella Malesia occidentale, dove la qualità dell’aria ha raggiunto il picco di 273 microgrammi di polveri sottili per metro cubi di aria. Un livello definito “molto dannoso” dallo stesso ministero dell’Ambiente malese. Anche perché i valori compresi tra 101 e 200 sono considerati malsani, quelli da 201 a 300 molto dannosi mentre oltre i 300 si parla di vero e proprio pericolo.

Superato ogni livello di guardia. Gli incendi boschivi di Kalimantan, Indonesia, hanno letteralmente ricoperto i cieli del sud-est asiatico di sostanze tossiche, tali da compromettere la qualità dell’aria. Nello Stato indonesiano sono andati in fumo almeno 800 mila acri di terra ma il dramma ha colpito di riflesso anche le limitrofe Singapore e appunto Malesia. Kuala Lumpur sta soffocando sotto una foschia tossica. Le famose torri Petronas, una delle principali attrazioni della capitale malese, in questi giorni hanno un flebile contorno sfocato e sono, come gli altri palazzi, inghiottite dallo smog. La scorsa settimana qui si respirava l’aria più inquinata del pianeta e, tutt’ora, molte scuole sono chiuse e numerosi voli cancellati. C’è un dato che spaventa i cittadini: secondo gli scienziati, qualora una condizione del genere dovesse continuare per molto altro tempo ancora, potrebbero esserci 36mila decessi prematuri all’anno in Indonesia, Malesia e Singapore, il nuovo triangolo della morte.

Una situazione complicata. A causa del clima secco le autorità temono che lo stato di crisi possa prolungarsi fino a ottobre, provocando ulteriori danni. Anche all’economia, visto che l’inquinamento potrebbe far diminuire il numero di turisti nella regione. Il viceministro del turismo malese non ritiene che il turismo sia in pericolo, in quanto non tutte le zone del paese sarebbero state raggiunte dalla foschia. Eppure almeno cinque voli sono stati cancellati o dirottati nel giro di pochi giorni a causa della scarsa visibilità; una manovra, questa, che ha interessato oltre mille passeggeri. In ogni caso la Malesia può fare ben poco visto che la radice dell’inquinamento è l’Indonesia. Quando i numerosi incendi indonesiani saranno domani, allora i venti soffieranno via la nube tossica che ha avvolto Kuala Lumpur. Certo, un po’ di aiuto concreto da parte dei paesi occidentali, così desiderosi di scendere in campo in nome dell’ambiente, non farebbe affatto male. Anzi, aiuterebbe i cittadini malesi a tirare un sospiro di sollievo.

La foto del cielo rosso dell'Indonesia: niente ritocchi, «colpa dello smog». Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 da Corriere.it. Non è Marte ma l’Indonesia dei fuochi appiccati per «pulire» il terreno dalla vegetazione «inutile» e sviluppare la coltivazione di palme da olio, polpa e carta. La foto del cielo rosso fuoco sul cielo indonesiano è stata scattata a mezzogiorno di sabato con uno smartphone da Eka Wulandari, una giovane del villaggio di Mekar Sari nella provincia di Jambi (siccome Eka non è famosa come Greta Thunberg, arrivata in barca a vela di lusso a New York, le immagini hanno fatto fatica a imporsi all’attenzione)). La foto non è stata ritoccata. Si tratta del fenomeno noto in meteorologia come «Rayleigh scattering», ha spiegato alla Bbc il professor Koh Tieh Yong della Singapore University of Social Sciences (Singapore è colpita dallo smog dei roghi che arriva da Indonesia e Malaysia). «Nello smog da fumo di incendio le particelle più diffuse sono di circa 1 micrometro (un millesimo di millimetro), ma queste non cambiano il colore della luce che percepiamo, creano solo una cappa di foschia. Però ci sono anche particelle più infinitesimali, da 0,05 micrometri o meno, che diffondono luce rossastra creando l’effetto rosso nel cielo», dice il docente (scattering in inglese significa appunto dispersione o diffusione, il fenomeno è stato studiato dal fisico britannico John Rayleigh, Premio Nobel). Ecco spiegato dal punto di vista scientifico il cielo marziano dell’Indonesia. I roghi in Indonesia causano grave inquinamento ogni anno nella stagione secca, tra luglio e ottobre, nonostante le promesse di intervento da parte del governo indonesiano. Il fuoco disbosca e uccide i parassiti che attaccano le palme, per questo l’industria li fa appiccare, ma ovviamente su vasta scala il sistema è insostenibile (e vietato per legge): quest’anno sono stati censiti dai satelliti roghi estesi su 328.724 ettari di boscaglia. Le foto sono diventate virali su Twitter e Facebook e a qualcuno hanno ricordato il film distopico «Blade Runner 2049». La coltre di fumo coprirà come al solito anche le colpe? Dei responsabili ci sarebbero, lontanissimi dai palazzi dei governi centrali (o così dicono a Jakarta): il ministro delle foreste indonesiano ha sostenuto che sono i funzionari provinciali che dovrebbero tenere a bada i disboscatori-piromani visto che l’Indonesia, da quando nel 1998 è caduto il dittatore Suharto è uno dei Paesi più avanzati nel decentramento amministrativo. Cambiano i sistemi politici, ma non cambia la devastazione ambientale di cui tanto si parla (con ipocrisia) al Palazzo di Vetro dell’Onu in queste ore. E anche noi europei ci siamo accorti di sfuggita di questa crisi, guardando in tv le prove pomeridiane del Gran Premio di Formula 1 a Singapore, venerdì scorso: la città era immersa nella fuliggine arrivata dalla vicina Indonesia. Ma il Gran Premio è passato, la Ferrari ha trionfato e resta il rosso innaturale sul cielo indonesiano. Arrivederci al prossimo anno e alla prossima emergenza roghi.

Dopo la Siberia gli incendi devastano anche l’Amazzonia. Andrea Muratore su it.insideover.com il 23 agosto 2019. Luglio nero per l’ecosistema planetario. Dopo le foreste siberiane brucia l’altro grande “polmone verde” della Terra, la foresta amazzonica brasiliana. L’Inpe, l’ente brasiliano della ricerca spaziale, ha lanciato l’allarme sulla condizione della più grande foresta del Sudamerica: in Amazzonia si sono concentrati il 52,5 per cento degli incendi divampati tra gennaio e agosto 2019 in tutto il Brasile, cresciuti dell’82% rispetto a tutto l’arco del 2018 e passati da poco meno di 40.000 a quasi 73.000 in soli otto mesi. Il colpo è duro per una serie di fattori. In primo luogo quello ambientale. L’Amazzonia è il più ricco polmone di biodiversità del pianeta, popolata da specie animali e vegetali in larga parte endemiche, e al tempo stesso un vero e proprio regolatore degli equilibri climatici planetari come pochi altri elementi (essenzialmente la Corrente del Golfo e El Nino). I 5,5 milioni di chilometri quadrati dell’Amazzonia, in larga parte interni al territorio brasiliano, trattengono circa il 10% dell’anidride carbonica emessa a livello globale, in una quantità stimata in circa 110 miliardi di tonnellate. Una riduzione dell’area coperta dall’Amazzonia, specie negli oltre 2,7 milioni di chilometri quadrati protetti come riserve di biodiversità o santuari indigeni, colpirebbe al cuore tale potenzialità. Il secondo fattore è di ordine politico e sociale. L’Amazzonia è al centro di una vera e propria “guerra” di matrice economica che i roghi hanno tutta l’aria di incentivare gravemente. L’ascesa al potere di Jair Bolsonaro a inizio anno, infatti, ha scatenato appetiti e sfide sul futuro dell’Amazzonia. Da un lato, la biodiversità e i popoli indigeni, che vivono nelle aree loro assegnate dal governo centrale. Dall’altro, i fazendeiros del comparto agroalimentare brasiliano, sostenitori del Presidente e rappresentati nel governo dal ministro dell’Agricoltura Tereza Cristina, i cercatori d’oro, i finanzieri e gli industriali in cerca d’affari e un’amministrazione pubblica che si mantiene schierata sul loro medesimo versante.

Una guerra contro l’Amazzonia. Ne abbiamo avuto un assaggio alcune settimane fa, e lo abbiamo raccontato su queste pagine: “Nel Nord del Brasile è iniziata un’offensiva pericolosa, condotta contro una tribù indigena costretta a difendere con le unghie e con i denti i suoi terreni. Parliamo dell’attacco dei cacciatori d’oro abusivi, i garimpeiros, contro la piccola e isolata popolazione dei Waiapi, costituita da soli 1.200 individui sparsi su una distesa di oltre 600.000 ettari di foresta vergine che copre territori ricchi di risorse e materie prime. L’oro è il volano di un attacco che i Waiapi hanno subito dopo trent’anni di convivenza pacifica con le comunità locali e i governi brasiliani, nella giornata di sabato 20 luglio”. Assalti e incendi sono il mezzo con cui si sostanzia l’attacco all’Amazzonia: e innegabile è l’impatto del fattore umano e dei roghi dolosi nell’aumento del 15% della deforestazione della foresta pluviale tra il 31 luglio del 2018 e il 31 luglio del 2019 nei nove Stati brasiliani in cui l’Amazzonia si estende (Acre, Amapà, Amazonas, Parà, Rondonia, Roraima e aree degli stati di Mato Grosso, Tocantins e Maranhão). La somma di agricoltori desiderosi di espandere i loro terreni, cercatori d’oro abusivi e personaggi in cerca d’autore che agiscono per favorire l’antropizzazione della foresta ha più volto prodotto gravi danni all’Amazzonia, e non sarebbe strano ipotizzare un revival di queste azioni ora che a Brasilia si è insediato un governo aggressivo con la foresta e poco desideroso di mettere la conservazione dell’Amazzonia in cima alle sue priorità politiche. Bolsonaro ha incentivato con durezza la linea pro-business del predecessore Michel Temer, che nell’agosto 2017 ha provato senza successo a ottenere l’abolizione della riserva amazzonica di Renca, istituita nel 1984 al confine tra gli Stati federali di Amapa e Para su un’area di 46mila chilometri quadrati. E con le dichiarazioni e le sue azioni politiche ha mostrato di voler limitare gli spazi per la tutela dell’Amazzonia e dei popoli indigeni: scandalosa, in tal senso, è stata la nomina alla guida della Funai, agenzia governativa per la tutela degli indigeni, di un  paladino dell’agrobusiness, il 41enne Marcelo Xavier da Silva.

Bolsonaro dà la colpa alle Ong. Per Bolsonaro, gli studi dell’Ispe sono tutt’altro che attendibili. Come scrive Agenzia Nova, “Bolsonaro, ha criticato duramente il presidente dell’Inpe, Ricardo Galvao, per aver divulgato i dati che mostrano una preoccupante accelerazione nel processo di deforestazione dell’Amazzonia, accusando Galvao di essere un “bugiardo al servizio di qualche Ong”, e affermando che la deforestazione deve essere combattuta non facendo “campagna contro il Brasile”, dal momento che la diffusione di dati allarmanti “danneggia” il paese”. Immediata la replica di Galvao, che accusa Bolsonaro di essere “pusillanime e codardo […] Ha fatto commenti impropri, infondati e ha fatto attacchi inaccettabili”. L’attacco di Bolsonaro, che cozza con le migliaia di segnalazioni video e fotografiche degli eventi catastrofici, è un segno del nervo scoperto rappresentato dalla questione amazzonica. Il Presidente deve accontentare l’agrobusiness per favorire la ripresa dei suoi consensi in continuo calo, ma poterlo fare senza ricevere le critiche globali per aver scatenato una corsa all’Amazzonia è per lui difficoltoso. Non è detto, data l’ondata di sdegno suscitata, che possa però essere molto meno costoso politicamente attendere l’azione individuale dei singoli avventurieri. A perderci è il polmone verde del Sudamerica. Priva di tutele, colpita dagli incendi e da una corsa selvaggia all’accaparramento delle sue risorse, l’Amazzonia soffre. E ai tropici, come nel grande nord siberiano, il fuoco impone un durissimo prezzo alla salute dell’ambiente globale.

L’Amazzonia brucia, da Macron all’Onu tutti contro Bolsonaro. Alessandro Fioroni il 23 Agosto 2019 su Il Dubbio. Sotto accusa la politica ambientale di Bolsonaro. Sui social impazzano le critiche contro il presidente di ultradestra. Le risposte sono rabbiose. Iniziativa di Macron ma preoccupazioni anche dell’Onu. «Mi dispiace che il presidente Macron cerchi di strumentalizzare una questione interna del Brasile e di altri Paesi amazzonici per vantaggi politici personali. Il tono sensazionalista con cui si riferisce all’Amazzonia non fa nulla per risolvere il problema. Il governo brasiliano rimane aperto al dialogo, basato su dati oggettivi e rispetto reciproco. Il suggerimento del presidente francese di discutere le questioni amazzoniche al G7 senza la partecipazione dei Paesi della regione evoca una mentalità colonialista fuori luogo nel 21esimo secolo». Il presidente brasiliano Bolsonaro risponde con rabbia all’iniziativa del presidente francese. Il dato vero è che l’Amazzonia, e con essa il più grande polmone verde del pianeta, sta bruciando. Il mondo comincia a preoccuparsi e interviene anche l’Onu. Lunedì scorso per la città metropolitana di San Paolo in Brasile, è stato un giorno di black out, ma non si è trattato di un’improvvisa cessazione dell’erogazione di energia elettrica bensì un oscuramento avvenuto in pieno giorno. Alle ore 16, ben prima del tramonto come riportano le cronache, il cielo è diventato nero e sulla città è calato il buio. A 2700 chilometri di distanza l’Amazzonia stava bruciando. I fumi levatisi dalla foresta pluviale in fiamme hanno coperto il cielo, spargendo il proprio manto plumbeo. Si è trattato di un evento di proporzioni enormi ma non di un caso isolato. La Bbc ha riferito un dato che fornisce il segno della gravità della situazione. Rispetto all’anno passato gli incendi, almeno quelli rilevati, sono aumentati dell’ 84%. Un record confermato anche dall’Inpe, l’Agenzia spaziale brasiliana. Il dato pubblicato racconta una realtà che potrebbe portare a conseguenze non rimediabili. Solo in quest’ultima settimana i roghi sono stati 9500, facendo lievitare il totale a 72000 se si comincia a contare dal mese di gennaio. La rapidità con cui si propaga il fenomeno, deve essere messa in relazione anche con il fatto che le rilevazioni sono iniziate solo nel 2013. Ma ciò che è successo a San Paolo potrebbe costituire un punto di non ritorno anche dal punto di vista politico. Ad essere messa sotto accusa è la politica nei confronti dell’ambiente del presidente Jair Bolsonaro ed el suo governo. Solo pochi giorni fa era stato allontanato dalla sua carica, Ricardo Galvao, direttore dell’Inpe che aveva accusato proprio Bolsonaro di «comportarsi come in un bar» Mercoledì in occasione della “Settimana climatica latinoamericana e caraibica”, conferenza, organizzata dalle Nazioni Unite, il ministro dell’Ambiente Salles è stato sonoramente fischiato dalla platea. Segno forse che l’opinione pubblica brasiliana sta cambiando idea sulla destra al potere. D’altro canto anche le stesse spiegazioni di Bolsonaro sulle cause degli incendi hanno lasciato interdetti. Ha infatti incolpato le ong per aver acceso gli incendi come vendetta contro il taglio dei finanziamenti operato dal suo governo. In realtà la politica sviluppista e di consumo del suolo è stata un cavallo di battaglia durante la campagna elettorale dello scorso anno. E’ stata infatti incoraggiata la bonifica di terreni da parte di taglialegna e agricoltori, accelerando così la deforestazione della foresta pluviale amazzonica. I dati indicano che si sta andando in questa direzione a ritmo accelerato: soltanto il mese scorso sono stati distrutti 2.253 km quadrati di vegetazione.

Esercito in campo contro i roghi. Adesso Bolsonaro teme le «sanzioni». Pubblicato venerdì, 23 agosto 2019 da Rocco Cotroneo e Stefano Montefiori su Corriere.it. Alla fine persino il più spavaldo e sbrigativo dei leader populisti capisce quando si è passato il segno, e le reazioni negative possono superare, e di tanto, i vantaggi della propaganda. Jair Bolsonaro non ha ordinato di dar fuoco alla foresta amazzonica, ma il messaggio che circola nel mondo è più o meno quello. Ci sono variabili di molti tipi nella tragedia in corso, stagionali e metereologiche, ma ancora una volta il punto centrale è politico: chi appicca fuoco regolarmente in questo periodo dell’anno per «pulire» o aprire nuovi spazi ai pascoli si è sentito certamente più tranquillo per farlo, nel Brasile 2019 governato da estremisti che non credono al riscaldamento globale e vedono l’ambientalismo come una minaccia al progresso. Il governo di Brasilia, dunque, non può più negare i fatti e le sue conseguenze. Bolsonaro ha dichiarato che potrebbe mandare l’esercito sulla linea dei fuochi. Anche se non si capisce come e cosa i soldati potrebbero fare: gli incendi sono il più delle volte incontrollabili, non roba da Canadair. A otto ministri il presidente brasiliano ha chiesto «misure necessarie per la preservazione del nostro patrimonio nazionale». Nel governo qualcuno ha proposto un irrigidimento delle pene per reati ambientali. Le dichiarazioni dure di Bolsonaro dei giorni scorsi, soprattutto in risposta al collega francese Macron, hanno lasciato il segno nel mondo. È noto che l’Amazzonia è un tema assai sensibile a ogni latitudine, e quest’ultimo ritorno di attenzione rischia di annullare decenni di buone politiche di controllo. E poi ci sono le ripercussioni concrete, non solo quelle diplomatiche. Il ricco agrobusiness brasiliano, quello a cui Bolsonaro ha dato mano libera, e che si sviluppa soprattutto attorno alla foresta pluviale (soia e allevamenti in primis) rischia al contrario di venire ferito a morte da una reazione mondiale. Proprio mentre è in corso un negoziato commerciale enorme tra Mercosur e Ue, che aprirebbe le porte a molti prodotti agricoli brasiliani con azzeramento di tariffe, tutto potrebbe addirittura tornare indietro con applicazione di clausole ambientali o con una reazione massiccia dei consumatori (l’esempio più eclatante è quello del boicottaggio all’olio di palma dall’Estremo Oriente). Hanno già dunque preso le distanze da Bolsonaro importanti figure del mondo imprenditoriale, economisti e persino politici del suo stesso schieramento. Se la reputazione internazionale del Brasile può andare in cenere insieme agli alberi secolari della foresta, gli argomenti di popolarità interna per Bolsonaro, il suo negazionismo nazionalista, sono sempre più armi spuntate. Nelle scorse settimane il governo ha mandato a casa il presidente dell’ente pubblico che si occupa di monitorare la foresta dai satelliti, sostenendo che pubblicava dati fasulli. Ma le immagini che i computer dell’ente stavano elaborando erano corrette. Nelle aree di avanzamento della frontiera agricola, la foresta stava venendo giu a ritmi che non si vedevano da decenni. Era chiaramente l’effetto «liberi tutti» delle politiche di Bolsonaro. Poi è bastato l’inizio della stagione secca per far esplodere gli incendi: il fuoco si appicca dopo aver portato via i tronchi più pregiati. Il resto sono bugie.

Incendi Amazzonia, Bolsonaro invia l'esercito e teme le sanzioni internazionali. Primi provvedimenti del presidente che definisce la foresta "parte essenziale della storia del Brasile". Trump: "Gli Stati Uniti pronti ad aiutare". I vescovi brasiliani: "alzare la voce per fermare le depredazioni". La Repubblica il 24 agosto 2019. La pressione internazionale su Jair Bolsonaro per spingere il presidente brasiliano a prendere provvedimenti seri sugli incendi della foresta amazzonica sta avendo i primi effetti. Bolsonaro ha deciso di inviare l'esercito nella regione ed ha detto in diretta televisiva, che "la foresta amazzonica è parte essenziale della storia del Brasile". Bolsonaro, oltre ad una comunità internazionale preoccupata, deve dare risposte anche a molti cittadini brasiliani che durante il suo discorso televisivo hanno protestato in piazza contro la politica ambientale del governo. Ed ora anche i vescovi brasiliani alzano la voce per chiedere lo stop dei roghi e la protezione della foresta. Quello di cui ha paura il presidente brasiliano sono eventuali sanzioni visto che il problema sarà affrontato, per volere del presidente francese Emmanuel Macron, dal G7 che si riunisce oggi in Francia. "Gli incendi forestali avvengono in tutto il mondo - ha osservato il presidente brasiliano - e non possono essere utilizzati come pretesto per sanzioni internazionali". Bolsonaro ha dunque dichiarato che la foresta amazzonica "è parte essenziale" della storia del Brasile e che proteggerla è un dovere. "Ne siamo consapevoli e stiamo agendo per combattere la deforestazione illegale", ha affermato, dopo aver autorizzato il dispiegamento delle forze armate contro gli incendi. "Siamo un governo di tolleranza zero contro la criminalità e il settore ambientale - ha ammonito - non è differente". "Alzare la voce per l'Amazzonia è ormai indispensabile". La Conferenza episcopale brasiliana scende in campo per l'Amazzonia in fiamme e, rivolgendosi ai governi, lancia un accorato appello affinché vengano messe in campo azioni concrete: "E' urgente che i Governi dei Paesi amazzonici, specialmente il Brasile, adottino provvedimenti seri per salvare una regione determinante per l'equilibrio ecologico del pianeta, l'Amazzonia appunto". I vescovi brasiliani si rivolgono anche al presidente Bolsonaro, avvertendo che non è il momento di "deliri e debacle nei giudizi e nei discorsi". Intanto, di fronte al dramma ambientale, il presidente boliviano Evo Morales ha chiesto ieri una riunione urgente dei ministri degli Esteri dei Paesi che integrano l'Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica (Otca), la cui convocazione sembra però essere difficile perché alcuni dei membri si rifiutano di partecipare per non trovarsi accanto ai rappresentanti del governo del Venezuela. Mentre il capo indigeno Raoni ha chiesto aiuto alla comunità internazionale per "far andar via Bolsonaro il più presto possibile". In aiuto al leader brasiliano arriva Donald Trump pronto ad aiutare il collega. "Ho appena parlato con il presidente Jair Bolsonaro - ha twittato il capo della Casa Bianca - Le nostre prospettive commerciali sono entusiasmanti e il nostro legame è forte, forse più di sempre. Gli ho detto che se gli Usa possono aiutare il Brasile con gli incendi dell'Amazzonia, siamo pronti ad assisterli!".

Le foto finte in Rete per salvare l’Amazzonia (ma l’emergenza incendi è grave e reale). Pubblicato sabato, 24 agosto 2019 da Irene Soave su Corriere.it. Ci sono foto che oltre a documentare un evento ne influenzano il corso, come quella della bambina vietnamita bruciata dal napalm, che affossò il sostegno degli americani alla guerra. Oggi, quella della foresta pluviale orlata dal fuoco: ritwittata più di 4 mila volte e postata su Instagram, fra gli altri, da Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, e persino da Emmanuel Macron, in una campagna che ha raccolto gli occhi del mondo sull’Amazzonia in fiamme, con lo slogan #prayforamazonia. 

Dopo giorni di mobilitazione di politici e celebrity di tutto il mondo, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha smesso di liquidare l’emergenza come una «bufala antisovranista» e ha inviato ieri 44 mila soldati e aerei militari nelle zone dove i fuochi sono più fuori controllo. L’operazione durerà un mese; ma già ieri il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha minacciato di rivedere l’accordo Ue-Mercosur se la lotta alla deforestazione non torna continua. Al G7 l’Amazzonia, ha detto Angela Merkel, è «in cima all’agenda». La foto simbolo di tutta la mobilitazione, però, è falsa. È la prima volta che un’immagine tanto importante per le sorti di una causa lo è. La foresta che brucia nell’immagine è sì l’Amazzonia: ma nel 2003. Il fotoreporter che l’ha scattata, l’americano Loren McIntyre, è anche già morto. Il sito brasiliano di fact-checking Agência Lupa ha smascherato una a una le foto false di #prayforAmazonia. Quella scattata dall’alto e postata da Madonna è del 1989. L’orizzonte in fiamme instagrammato da Cristiano Ronaldo (8,6 milioni di «mi piace») è quello di Rio Grande do Sul, nel 2013. La scimmietta straziata dalle ustioni: India, 2016. Il coniglietto carbonizzato: Malibu, 2018. Due (improbabili) alci in fuga da una pineta in fiamme: non pare un habitat amazzonico, e infatti è un incendio in Montana, ma è tra le più condivise. Di impatto meno immediato, ma più utili per capire l’emergenza, sono le foto satellitari dell’agenzia spaziale brasiliana (Inpe). Da un lato mostrano che gli incendi sono raddoppiati dal 2013; e che la deforestazione, che incede al ritmo di tre campi da calcio al minuto, si è impennata nei sette mesi di governo Bolsonaro, in cui l’Amazzonia ha perso 3.500 km quadrati di alberi: il 39% in più del 2018. Ma ne risulta anche che a bruciare sono molte aree già disboscate, in un processo di deforestazione che prosegue, fra tregue e recrudescenze, dagli anni ‘70; trainato dalla crescente domanda di carne, legno, minerali. Le queimadas, fuochi appiccati da agricoltori e allevatori, sono una tecnica diffusa per preparare il terreno a nuove semine, anche se spesso diventano incontrollabili. Finora il governo Bolsonaro le ha tollerate come promesso in campagna elettorale; l’esercito potrebbe riportarle sotto controllo.

Sì, la crisi ambientale colpisce soprattutto i ceti più deboli. I ceti sociali fragili sono quelli che pagano il prezzo maggiore alla catastrofe del pianeta. Anche per questo serve un green new deal. Giovanni Carrosio il 10 settembre 2019 su L'Espresso. Con questo articolo di Giovanni Carrosio, sociologo dell’università di Trieste e ForumDD, prende il via la collaborazione su temi sociali e ambientali tra L’Espresso e il Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità coordinato da Fabrizio Barca. Il ForumDD è una rete di organizzazioni da anni attive in Italia sul terreno dell’inclusione sociale e di ricercatori e accademici impegnati nello studio della disuguaglianza e delle sue negative conseguenze sullo sviluppo. Lo scopo del ForumDD è fornire studi sul campo e proposte concrete per ridurre le disuguaglianze in Italia. L’estate 2019 ha segnato un punto di non ritorno della crisi ambientale e climatica, che ha dominato le pagine dei giornali. Se fino a ieri non erano bastati gli allarmi lanciati dagli scienziati, una improvvisa accelerazione degli accadimenti ha contribuito a scalfire quel senso comune negazionista al quale hanno lavorato alacremente le forze sovraniste e tanti interessi economici organizzati. I ripetuti e sempre più duraturi picchi di caldo, gli incendi in Siberia e Brasile, i temporali sempre più intensi in Europa, la velocità con la quale si sono assottigliati i ghiacciai della Groenlandia hanno reso tangibili le conseguenze del cambiamento climatico. Questa “pedagogia delle catastrofi” ha anche messo in evidenza come, nonostante la questione ambientale sia potenzialmente senza confini territoriali e sociali, vi sono luoghi e persone che più di altri ne pagano le conseguenze. E spesso sono i meno responsabili delle condizioni in cui versa il nostro pianeta.

Esiste infatti una relazione tra disuguaglianze socio-territoriali e crisi ambientale. Le disuguaglianze accelerano la distruzione dell’ambiente a monte e producono ingiustizia ambientale a valle, dove gli effetti della crisi si distribuiscono in modo disuguale tra ceti forti e ceti deboli, tra territori forti e territori fragili. Già dalla fine degli anni ’90, un gruppo di ricercatori dell’Università del Massachusetts guidato dall’economista James Boyce ha iniziato a indagare la relazione tra disuguaglianze e inquinamento dell’aria e dell’acqua per Paese. Ha scoperto che dove i divari di reddito sono più alti, le condizioni ambientali sono peggiori. Non c’entra tanto il Pil, quanto la distanza tra ceti forti e deboli in termini di ricchezza e potere. Successivamente i ricercatori hanno messo in relazione le disuguaglianze di potere con i tipi di politiche ambientali in nord America, scoprendo che gli Stati con le politiche ambientali più ambiziose e attente alla giustizia sociale sono quelli dove la distribuzione del potere è più equa. A partire da qui, tanti studi hanno dimostrato come al crescere delle disuguaglianze crescono i tassi di deforestazione, l’erosione di biodiversità, le emissioni climalteranti e l’incidenza della popolazione che vive in aree a rischio idrogeologico. Grandi divari di ricchezza consentono ai nemici dell’ambiente di costruire una visione di sviluppo che contrappone lavoro e ambiente, sottraendo i ceti deboli dalla lotta per una migliore qualità della vita; i divari di potere indeboliscono ad esempio chi difende le comunità locali da grandi opere che compromettono la vivibilità dei luoghi oppure rendono i legislatori più permeabili a interessi contrari rispetto alla giustizia sociale e ambientale. E questo non accade soltanto nel Brasile di Bolsonaro, dove la resistenza indigena alla deforestazione viene repressa con la violenza. Con pesi e misure diverse accade anche nel nostro Paese: si pensi alla forza delle lobby petrolifere sulla vicenda delle trivelle nell’Adriatico; alla collusione tra industria e potere politico sulla vicenda della contaminazione da Pfas in Veneto; alla legge obiettivo per accelerare l’iter delle grandi opere; al ricatto occupazionale nelle tante vertenze che contrappongono lavoro e salute, una per tutte l’Ilva di Taranto.

Le disuguaglianze dunque accelerano la crisi ambientale. E la crisi ambientale, a sua volta, colpisce soprattutto i ceti sociali più deboli e i territori più fragili. In assenza di politiche che riconoscano le disuguaglianze e le diversità, i territori più fragili hanno meno capacità e possibilità di adattarsi al cambiamento climatico. Molte volte, vengono utilizzati come aree di conservazione e compensazione ambientale rispetto ai centri industriali, o peggio relegati a ricettacoli di attività inquinanti. I ceti deboli, a loro volta, hanno meno possibilità di difendersi dai problemi ambientali. Vivono in quartieri degradati, spesso in prossimità di impianti industriali con produzioni inquinanti; non hanno beneficiato delle politiche di eco-modernizzazione, che hanno favorito soprattutto i ceti medio-alti. Si pensi alle operazioni di riqualificazione ambientale dei centri storici, mentre le periferie vengono dimenticate; alle piste ciclabili pensate soltanto come itinerari turistici, mentre tante persone hanno problemi di mobilità quotidiana; agli incentivi fiscali per la conversione energetica degli edifici, che hanno escluso dal meccanismo di finanziamento gli incapienti, redistribuendo ricchezza dal basso verso l’alto. E ancora alla diffusione delle rinnovabili secondo un modello disattento allo sviluppo locale e alla socializzazione della ricchezza prodotta. Bastano questi quattro esempi, tra i tanti possibili, per mettere in luce come le disuguaglianze prodotte dalla crisi ambientale vengano incrementate dalle politiche. Da questa consapevolezza muove il New Green Deal della sinistra americana, che vuole unire la lotta al cambiamento climatico con la riduzione delle disuguaglianze. Accanto alle misure radicali di conversione ecologica dei sistemi produttivi, il piano prevede un nuovo contratto sociale per ridurre le disuguaglianze, attraverso una legislazione sul salario minimo e il diritto universale all’assistenza sanitaria. Questo programma di transizione ecologica e sociale potrebbe rimettere in moto anche l’agenda politica progressista nel nostro Paese, ancora ferma a generiche intenzioni sullo “sviluppo sostenibile”. Un passo in questa direzione è stato fatto dal Forum DD, attraverso proposte che mettono al centro la lotta alle disuguaglianze. Una di queste affronta in modo congiunto giustizia sociale e giustizia ambientale, proponendo di introdurre elementi di progressività sociale anche nelle politiche ambientali, che fino ad oggi hanno favorito in modo diretto o indiretto i ceti medio-alti: una rimodulazione in chiave progressiva degli Ecobonus, la revisione dei canoni demaniali, una più puntuale e selettiva riqualificazione degli edifici con un’attenzione particolare a quelli che possono essere usati per scopi sociali. Conta dunque moltissimo non solo la messa a punto di politiche ambientaliste ma il modo con il quale le politiche vengono costruite. Conta chi favorisco e chi penalizzo, da chi prendo risorse e a chi concedo risorse. Conta il riconoscimento o meno di chi produce la crisi e di chi la paga o la deve pagare. Se il nuovo governo vuole imprimere un cambiamento radicale al nostro paese, e lanciare un segnale all’Europa, parta da qui. Da nuove politiche che vadano nella direzione della giustizia ambientale e sociale insieme, perché la transizione ecologica diventi una meta socialmente desiderabile.

L'Amazzonia brucia anche per colpa della soia che importa l'Italia. Gli incendi devastanti fanno parte di una strategia economica pianificata che ha il suo terminale nell’industria della carne, anche nel nostro Paese. Che importa il 40 percento della soia dal Brasile per gli allevamenti. Andrea Palladino l'11 settembre 2019 su L'Espresso. Lo chiamano Rio-mar, il fiume grande come un oceano. Sinuoso, un serpente che scivola tra foreste e culture antiche. È prima di tutto acqua, la foresta amazzonica, l’area che occupa gran parte del Brasile ma si estende anche in Colombia, Perù, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guyana e Suriname. Una rete di fiumi, porta di ingresso dei colonizzatori cinquecento anni fa. E oggi via di uscita dei prodotti che, lentamente, la distruggono. Legno, carne e soia. Un ciclo produttivo che divora la maggior riserva del mondo di vegetazione primaria, una filiera che arriva subito dopo le fiamme. Beni ormai globali, scambiati come commodities a Boston, a Londra, a Hong Kong e a Milano. «Ieri viaggiando in aereo da Manaus a Rio de Janeiro mi sono spaventato. Per un’ora, circa 900 chilometri, sotto vedevo solo fumo», racconta all’Espresso Marcus Barros, già rettore dell’università di Manaus e ex presidente dell’Ibama (l’Istituto pubblico brasiliano di difesa dell’ambiente), nominato nel 2001 da Marina Silva, all’epoca ministro dell’Ambiente del governo Lula. «È il segno più evidente di quello che sta accadendo», aggiunge, «con il vecchio ciclo di occupazione della foresta che avanza: l’incendio, il furto del legno, l’allevamento e, alla fine, la soia, la monocultura».

«Devi seguire i soldi, il valore dei prodotti che sfruttano la foresta», spiega il sociologo italiano Maurizio Fraboni, che per due decenni si è occupato della difesa di una delle principali colture tradizionali degli indigeni, il guaranà dei Sateré-Mawé. L’Amazzonia funziona a cicli economici predatori. A cavallo dell’800 e del ’900 fu l’epoca del caucciù, la gomma elastica estratta dagli alberi nativi del nord del Brasile che forniva materia prima alla allora nascente industria automobilistica. Venne poi il ciclo dell’invasione, negli anni ’70, con il progetto della dittatura militare: «Integrare per non consegnare ad altri». La foresta iniziò quindi a essere tagliata dalle strade, con l’obiettivo di trasferire qui la popolazione del Nordest. Lungo le piste come la Transamazzonica si aprirono i primi varchi, con una fascia di terra che arrivava per decreto fino a dieci chilometri per lato, da destinare al disboscamento e alla colonizzazione. Aree, promettevano i militari, da usare per l’installazione di chi fuggiva dalla povertà di altre zone del Brasile. Fu un fallimento devastante, tra morti, terre rubate e utilizzate solo per estrarre legno pregiato e l’esplosione delle periferie delle capitali degli Stati amazzonici. Gli anni ’90 e Duemila hanno visto un terzo ciclo di predazione. Funziona così: prima si prende il legno, con il taglio degli alberi secolari di mogano; poi c’è l’incendio, che lascia una terra povera ed esposta alle piogge torrenziali; quindi l’arrivo dei manzi, specie quelli di razza Nelori che sulle tavole italiane arriva sotto forma di bresaola. E, infine, la coltivazione della soia per produrre mangimi animali. Non una coltura qualsiasi, ma un sistema industriale basato sull’uso intensivo di urea, fertilizzanti e diserbanti. Piantagioni che hanno portato il Brasile al secondo posto nella classifica mondiale dei produttori di proteine vegetali. Un serbatoio molto poco green destinato agli allevamenti mondiali: dalla Cina alla Pianura Padana, per ingrassare il bestiame destinato alla macellazione.

DALLA FORESTA ALL’EUROPA. Il Brasile, per l’Italia, è il principale fornitore di soia, con circa il 40 per cento rispetto al totale. Tra il gennaio e il luglio 2019, secondo le statistiche ufficiali, abbiamo importato più di 130 milioni di dollari di prodotto non lavorato (tra semi e macinato) dal Paese sudamericano. Poco meno della metà è partito dai porti sul Rio delle Amazzoni (Manaus, Itacoatiara, Santarem e Belem). Sulla carta quella soia è certificata come “non proveniente dalle aree disboscate”: nel 2006 infatti il governo brasiliano ha creato il Gruppo di lavoro soia, con la partecipazione delle associazioni dei produttori e di alcune Ong, tra le quali anche Greenpeace. È stata decisa una data limite, il 2008: le terre disboscate dopo questo periodo non possono essere utilizzate per la coltivazione della soia. Ci sono però punti deboli. Il sistema prende in considerazione solo 85 comuni, quelli con almeno 5.000 ettari destinati alla produzione. Ed è escluso lo Stato di Amazonas, il territorio con maggiore presenza di foresta. Eppure in questa regione - secondo l’ultimo bollettino della Conab, l’organismo pubblico che monitora le coltivazioni - l’area destinata alla produzione della soia è aumentata del 47 per cento nell’ultimo anno. Poca la terra per ora usata in questo Stato per la coltivazione industriale, ma la tendenza statistica conferma la pressione sull’area della foresta. Aumenta l’espansione anche negli altri Stati amazzonici: dall’Acre, più 200 per cento, fino al Parà, più 2,4 per cento, dove la produzione di soia ha già raggiunto livelli preoccupanti, con 562 mila ettari. Dietro i numeri c’è una strategia ben definita. Il Brasile da anni sta puntando alla creazione di una logistica della soia - e degli altri prodotti agricoli, come il mais e il cotone - nel cuore della foresta. Due fiumi, affluenti del Rio delle Amazzoni, il Madeira e il Tapajos, sono già stati trasformati in idrovie. Centinaia di chiatte in fila portano milioni di tonnellate di soia dall’area a sud della foresta - Mato Grosso e Rondonia - fino ai porti sul fiume che sfocia nell’Oceano Atlantico. Da un anno è in discussione un progetto che amplierà ancora di più la via amazzonica della soia. I produttori sono pronti a costruire una ferrovia lunga mille chilometri, che collegherà la città di Sinop, in Mato Grosso, con il porto di Miritituba, in piena foresta, sul Rio Tapajos. I binari attraverseranno aree indigene, foresta primaria e parte di parchi naturali. Corridoi logistici che spingono verso Nord anche la produzione agricola, pronta ad entrare nelle aree disboscate, utilizzate oggi per l’allevamento. I grandi trader hanno costruito negli anni giganteschi terminali sul Rio delle Amazzoni, porti già utilizzati per spedire i prodotti oltreoceano. A Itacoatiara, vicino a Manaus, dove il Rio Madeira entra nel fiume delle Amazzoni, c’è l’Hermasa della famiglia di imprenditori brasiliani Maggi, uno dei principali produttori e distributori della soia. Da questo polo partono i cargo diretti in Italia, soprattutto verso il porto di Ravenna, dove i mangimifici dell’Emilia Romagna comprano la soia - quasi sempre Ogm - destinata all’alimentazione animale. Il gruppo Maggi non ha voluto rispondere alla richiesta dell’Espresso sui nomi degli acquirenti: «Non conosciamo la destinazione delle navi», hanno assicurato, confermando che quei carichi provengono dalla loro filiera produttiva. Ma i registri portuali sono chiari.

LA FILIERA SOTTO ACCUSA. Il gruppo Maggi - come gli altri grandi trader - fa parte fin dal 2006 del Gruppo di lavoro della soia. Un patto che dovrebbe garantire la sostenibilità del prodotto. Le cronache, però, mettono in dubbio quel sistema. Il primo aprile del 2014 gli agenti della Polizia federale e dell’Ibama entrano in un accampamento nell’area degli indigeni Menkragnoti, non distante dalla zona che verrà attraversata dalla futura ferrovia della soia. Trovano 26 motoseghe e 11 accampamenti con lavoratori in stato di schiavitù. Arrestano quaranta persone, intente a disboscare un’area di 13 mila ettari di foresta, nel cuore della riserva indigena. I braccianti utilizzati dormivano in capanne improvvisate, senza nessun servizio igienico, riparati solo da un telo di plastica. Il capo di quella organizzazione è un nome ben noto, Antonio José Vilela Filho. L’Ibama lo aveva già denunciato per il disboscamento di 30 mila ettari e multato per 200 milioni di reali (43 milioni di euro). Gli atti di indagine successivi - che L’Espresso ha potuto consultare - ricostruiscono la filiera che parte dal disboscamento e termina con l’allevamento di manzi e la coltivazione della soia. Dall’analisi dei conti correnti riconducibili a Vilela e al suo gruppo sono emersi pagamenti da parte di gruppi di grossi trader della soia per più di 10 milioni di reali (2,2 milioni di euro). Nel 2016 il pubblico ministero federale del Parà ha chiesto spiegazioni alle società. Oggi quell’inchiesta è «stata trasferita all’autorità di un altro Stato ed è coperta dal segreto d’indagine», ha spiegato l’organo giudiziario brasiliano all’Espresso. Tra i trader che avrebbero effettuato bonifici a favore di Vilela - secondo le prime informative - c’è anche il gruppo Maggi, che fa parte delle associazioni coinvolte nella «moratoria della soia»: «La società ha ricevuto una richiesta di chiarimento dal pubblico ministero federale e ha risposto prontamente; la società e il gruppo non sono oggetti di questa indagine e non appaiono come indagati nei documenti», è l’unico commento del gruppo Maggi. Il caso, però, pone almeno una questione: esiste un flusso di soia lungo quell’asse della logistica che attraversa la foresta e che sfugge ai sistemi di certificazione. Un buco nero che viene scoperto solo quando la Polizia federale e l’Ibama riescono ad entrare nelle fazendas. Azioni che peraltro diventeranno sempre più difficili, visto che il presidente Jair Bolsonaro ha già annunciato di voler ridurre drasticamente i controlli, chiudendo gli uffici e tagliando i fondi destinati alle verifiche.

Le foto più virali sull'Amazzonia? Un fake. (E ci è cascato anche Macron). In questi ultimi giorni sono diventate virali alcune foto che denunciano gli incendi in Amazzonia. Ma una delle maggiori organizzazioni di fact-checking del Brasile ha verificato: le più condivise sono un fake. Aurora Vigne, Martedì 27/08/2019, su Il Giornale. Da Leonardo Di Caprio fino a Emmanuel Macron. Sono diverse le personalità che hanno condiviso le fake-foto che denunciano i roghi in Amazzonia. Una figuraccia che è stata rivelata da Mother Jones. Il sito ha pubblicato i vari scatti diventati virali in queste ore e condivisi da milioni di utenti. Molte di queste sono false e sono state scattate diversi anni fa. Come riporta l'Huffington Post, la verifica delle informazioni è stata condotta da Agencia Lupa - una delle maggiori organizzazioni di fact-checking del Brasile - e anche da Estadao Verifica. Oltre al capo dell'Eliseo, anche l'attore americano DiCaprio è caduto nella trappola. Uno scivolone non da poco se si considera che il premio Oscar ha donato 5 milioni al fondo Amazon Forest Fund contro gli incendi che stanno distruggendo la foresta pluviale brasiliana. Di Caprio ha ricondiviso su Instagram una serie di immagini degli incendi, ma tra queste una è un fake. L’immagine, infatti, non è stata scattata in questi giorni e risale al 1989. E non è finita qua. Anche il calciatore della Juventus Cristiano Ronaldo ha condiviso una foto falsa. Lo scatto di CR7 è in realtà stato preso nel 2013 e non ha nulla a che fare con gli incendi di queste settimane. E oltre alle foto dei roghi anche alcune immagini che ritraggono animali sono false. In particolare a indignare il pubblico social è stata la foto di una scimmia che tiene in braccio un cucciolo ferito. Come segnalato dall'agenzia brasiliana, però, anche in questo caso si tratta di un fake.

L'Amazzonia brucia, da un pezzo. Anche il G7 ha lanciato l'allarme ed attaccato Bolsonaro. Ma l'emergenza è vecchia, di 30 anni. Oriana Allegri il 27 agosto 2019 su Panorama. L'Amazzonia brucia, e finalmente il mondo se ne accorge. Le copertine dei settimanali, le homepage dei siti, le aperture dei telegiornali grondano di foto del polmone della Terra che arde. Fiamme terribili. Inizialmente le foto erano fasulle, ma che importa. E' l'impatto che conta, la presa di coscienza di milioni di persone che su twitter rilanciano l'hashtag #prayforamazonia. Mai si era vista una simile mobilitazione. Le sorti delle tribù indios, di cui finora è interessato poco e niente a nessuno, hanno preso improvvisamente posto a sedere al tavolo dei grandi nel G7 di Biarritz. Il presidente francese Emmanuel Macron, in un anelito di spettacolarizzazione pro domo sua, ha lanciato un accorato e drammatico appello, cercando di imitare Leonardo Di Caprio, che però l'ha fatto impallidire, mettendo di tasca sua 5 milioni di dollari sul tavolo per salvare l'Amazzonia. I leader del pianeta si sono ritrovati uniti, per una volta, senza bisogno di negoziazioni estenuanti. Un unico nemico li ha raggrumati tutti sotto un'improvvisa (e improvvisata) bandiera verde. E quel nemico non è il fuoco che sta divorando la foresta pluviale e che può essere visto dallo Spazio, come mostrano le foto (vere) scattate dal nostro Luca Parmitano, ma ha un nome e un cognome: Jair Bolsonaro, il nuovo presidente del Brasile. L'uomo è antipatico di natura, sgradevole nelle esternazione, di destra per appartenenza politica. Praticamente incarna il nemico perfetto, ed ecco che i leader mondiali, improvvisamente diventati pasdaran dell'ambientalismo duro e puro, lo usano come bersaglio unico delle loro invettive, scaricandogli addosso le colpe per le fiamme in Amazzonia. In realtà, purtroppo l'Amazzonia brucia da anni. Anzi, da decenni. Nell'assordante silenzio del mondo. Anche di quelli che ora si stracciano le vesti. Era settembre del 1989, quando TIME dedicò la copertina alle fiamme che stavano distruggendo la foresta pluviale. Nella lunga inchiesta del settimanale si puntava il dito contro i contadini brasiliani, che davano fuoco ai campi per pulirli dopo il raccolto annuale. Mai accendere un fuoco in una foresta. L'unica differenza rispetto a trenta anni fa, è che allora al posto di Di Caprio c'era Sting, ma nessuno lo ascoltava. Chissà, forse era meno bello e più sofisticato dell'oscar hollywoodiano. Gli attivisti verdi oggi sostengono che da quando è stato eletto Bolsonaro gli incendi in Amazzonia sono aumentati. Ma dimenticano che a luglio di quest'anno si è registrato il record di alte temperature in tutto il pianeta, tanto che ci sono stati incendi anche nell'Artico, e il fuoco è divampato persino in Alaska e in Siberia, causando danni enormi all'ecosistema del pianeta. Dettagli messi agevolmente sotto il tappeto, quando c'è da attaccare il nemico Bolsonaro. Il dramma dell'Amazzonia è serio e grave e non dovrebbe essere strumentalizzato in chiave politica. Negli ultimi 50 anni gli agricoltori e i latifondisti con ampi ranch in Amazzonia hanno fiutato un nuovo business: il nuovo oro si chiama soia e carne di manzo. Per fare spazio a pascoli e campi da coltivare, non ci hanno pensato due volte a distruggere un patrimonio di ettari di alberi e ad appiccare fuoco alla foresta. Lo fanno da 50 anni. Lo facevano anche quando al governo non c'era Bolsonaro, ma Lula e poi la sua delfina, Dilma Rousseff. Tra il 1964 e il 1985 i contadini dell'Amazzonia hanno sostenuto la dittatura militare brasiliana, con la promessa che gli attivisti per i diritti degli indios e della foresta pluviale non gli avrebbero creato problemi. La deforestazione continuò tranquillamente (e nel silenzio del mondo) anche con l'avvento della democrazia, fino a toccare picchi drammatici dal Duemila in poi. Tra il 2003 e il 2006 l'ex presidente Lula aumentò le multe per i deforestatori. Ma, di fatto, per l'Amazzonia cambiò poco e niente. Per qualche anno gli incendi sembrarono sotto controllo, ma con l'arrivo al potere di Dilma Rousseff, più vicina alla classe rurale del Paese e più sensibile alle richieste dei contadini, la foresta pluviale tornò ad ardere. Contemporaneamente aumentava la richiesta mondiale di soia e carne di manzo, soprattutto dalla Cina. Come poter resistere a un mercato così ghiotto? Con 200 seggi in Parlamento, l'unione dei latifondisti orientava le decisioni della Rousseff, tanto che per tenerli buoni Dilma decise di essere meno rigorosa nell'applicare il cosiddetto “codice della Foresta”, principale strumento legale contro la deforestazione selvaggia. Per l'Amazzonia fu un disastro. Prima di allora gli incendi erano diminuiti, ma dal 2012 in poi il tasso di deforestazione (e distruzione) della foresta amazzonica cresce al ritmo del 75%. I 7 big del mondo (Francia, Canada, Italia, Regno Unito, Germania, Giappone e Stati Uniti) lanciano il loro grido di dolore dal summit di Biarritz, e staccano un assegno di 20 milioni di dollari per la riforestazione amazzonica. Peccato che, simultaneamente, si accordano anche per aumentare l'importazione di carne bovina dai Paesi dell'area Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) verso l'Europa. Più carne significa più pascoli. L'Amazzonia trema. Siamo così sicuri che il cattivo sia solo Bolsonaro?

ANSA il 27 agosto 2019. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha detto che se il suo collega francese Emmanuel Macron vuole che che si discuta l'assistenza del G7 per combattere la deforestazione in Amazzonia, come ha proposto al vertice di Biarritz, deve ritirare "gli insulti" che gli ha rivolto e rispettare la sovranità nazionale del Brasile sul suo territorio. Interrogato dai cronisti sulle dichiarazioni del suo 'ministro della Casa civile' (l'equivalente di un primo ministro), Onyx Lorenzoni, secondo il quale il Brasile intende respingere l'offerta di 20 milioni di dollari di assistenza per la lotta alla deforestazione presentata a Biarritz, Bolsonaro ha fissato quelle che considera le condizioni necessarie "per discutere o accettare qualsiasi cosa che venga dalla Francia". "Anzitutto, il signor Macron deve ritirare gli insulti che ha rivolto alla mia persona. Perché mi risulta che mi ha dato del bugiardo", ha spiegato il presidente brasiliano, aggiungendo che il leader francese deve anche chiarire se, "come mi risulta dalle informazioni di cui dispongo, la nostra sovranità sull'Amazzonia è messa in discussione". Lo scorso 24 agosto, l'Eliseo ha diffuso una nota nella quale ha dichiarato che "Bolsonaro ha mentito al vertice del G20 di giugno a Osaka, decidendo di non rispettare i suoi impegni sul clima e di non impegnarsi per la biodiversità". Durante il vertice di Biarritz, inoltre, Macron ha parlato della possibilità che "uno Stato sovrano" possa prendere "in modo chiaro e concreto misure che si oppongono all'interesse dell'intero pianeta", segnalando che "associazioni, Ong e attori internazionali, anche giudiziari, questionano da anni se è possibile definire uno statuto internazionale per l'Amazzonia". Alla domanda di un cronista, che gli ha chiesto se il Brasile potrebbe accettare l'assistenza offerta dal G7 se Macron ritirasse le sue dichiarazioni, Bolsonaro ha risposto: "che prima le ritiri, poi faccia la sua offerta e allora io gli rispondo".

Da Rainews.it il 27 agosto 2019. Il Brasile ha rifiutato gli aiuti di emergenza, da 20 milioni di dollari, proposta dai paesi del G7 per gli incendi che stanno devastando l'Amazzonia, sostenendo che le fiamme sono "sotto controllo". Onyx Lorenzoni, il capo dello staff del presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha formalizzato il rifiuto degli aiuti da parte di Brasilia: "Ringraziamo (il G7 per la sua offerta di aiuto, ndr), ma questi mezzi possono essere più rilevanti per il rimboschimento dell'Europa". 

"Chi ha fatto bruciare Notre Dame non ci dia lezioni". Lorenzoni ha quindi criticato aspramente il presidente francese Emmanuel Macron per l'incendio che lo scorso aprile ha colpito Notre-Dame: "Macron non può nemmeno evitare un incendio prevedibile in una chiesa che fa parte del patrimonio mondiale e vuole dare lezioni al nostro paese?". Sconfessato il ministro dell'ambiente In precedenza, il ministro dell'Ambiente, Ricardo Salles, aveva riferito ai giornalisti di aver accolto con favore i finanziamenti del G7, ma dopo un incontro tra il presidente, Jair Bolsonaro, e i suoi ministri, il governo ha cambiato idea. "Il Brasile e' un Paese democratico e libero che non ha mai avuto pratiche colonialiste e imperialiste, che e' forse l'obiettivo del presidente francese Macron", ha affermato il capo di gabinetto di Bolsonaro, Lorenzoni.

Tra offese sessiste e colpi bassi, al G7 di Biarritz lo scontro tra Bolsonaro e Macron che invita il capo degli indios dell'Amazzonia. Franca Giansoldati per Il Messaggero.it il 27 agosto 2019. C'è l'immensa tragedia dell'Amazzonia dietro l'offesa sessista e volgare nei confronti di Brigitte Macron che il presidente brasiliano Jair Bolsonaro - arcinoto per le sue battutacce machiste - ha rivolto alla premiere dame, la cui foto è stata postata sui social da un utente accanto a quella della first lady brasiliana, la 37enne Michelle. Con la scritta: «Adesso capite perché Macron perseguita Bolsonaro? È tutta invidia, presidente». Bolsonaro sotto alle foto delle rispettive mogli ha messo il carico da dodici, scrivendo: «Non la umiliare» e poi il simbolo delle risate. Parole che certamente hanno fatto crescere ulteriormente le tensioni diplomatiche tra la Francia e il Brasile. Una bufera iniziata in modo imprevisto alcuni giorni fa quando Macron lo ha accusato di mentire a proposito dei roghi in Amazzonia. INcendi di proporzioni enormi sostanzialmente facilitati da Bolsonaro eletto con i voti della Bancada Ruralista, la potente lobby dei possidenti terrieri. A Biarritz va in scena un G7 pieno di tensioni che sembrano non finire visto che oggi pomeriggio è atterrato in Francia, su invito di Macron, anche il capo indigeno Raoni, noto in tutto il mondo per la sua battaglia a favore della foresta pluviale. Una figura carismatica già ricevuta da Papa Francesco che continua a chiedere le dimissioni di Bolsonaro per avere svenduto l'Amazzonia. L'arrivo del capo indios non deve avere certo fatto piacere al presidente brasiliano che dovrà mandare giù un altro boccone amaro. «Spero che possa dimettersi il prima possibile» ha detto Raoni  facendosi precedere da una intervista ai giornali francesi.  «Mi auguro che il presidente francese e le altre forze presenti a Biarritz possano esercitare pressioni affinchè il popolo brasiliano lo costringa alle dimissioni e votare in Congresso la sua destituzione. L'Amazzonia è teatro di una catastrofe. Vogliono distruggere la foresta e con essa anche noi indio » per lasciare spazio all'agricoltura e allo sfruttamento minerario.

Amazzonia, c’è un nuovo mantra: per la sinistra la colpa è di Bolsonaro. In carica da sei mesi. Antonio Pannullo sabato 24 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Adesso il mondialismo ha una nuova parola d’ordine: tutti contro il presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Unione europea, organizzazioni internazionali, Tv, media, gruppi di intellettuali, artisti, sindacati, si sono schierati in una nuova crociata contro il neo presidente, la cui unica colpa è quella di essere di destra. E di cosa viene accusato il presidente? Per gli incendi dell’Amazzonia, altro mantra che ciclicamente viene riesumato dai teoreti del mondialismo e della globalizzazione. È ovvio che l’accusa è inconsistente, in quanto Bolsonaro è in carica da soli sei mesi, mente l’Amazzonia brucia da decenni. La cosa che i media ecologisti non dico è che spesso le foreste vengono bruciate da agricoltori che hanno bisogno di campi per coltivare roba da mangiare, e non da speculatori spietati che vogliono costruire villette a schiera. Ma la gente si commuove per le sorti dell’Amazzonia, “polmone verde” del mondo, e chiunque sia accusato a torto o a ragione di essere un untore, diventa automaticamente il nemico pubblico numero uno del pianeta.

Bolsonaro però reagisce alle calunnie: “Gli incendi boschivi esistono in tutto il mondo e questo non può essere un pretesto per possibili sanzioni internazionali” . È quanto ha detto il presidente brasiliano nel discorso televisivo in cui ha difeso, di fronte alla critiche internazionali, l’operato del suo governo nel contrastare gli incendi che stanno devastando l’Amazzonia. “Il Brasile continuerà ad essere, come è stato fino ad oggi, responsabile della protezione della sua foresta pluviale amazzonica”, ha continuato detto il presidente. Bolsonaro ha poi sottolineato come quello che sta succedendo “nella nostra Amazzonia” stia attirando “una crescente attenzione dal Brasile e dal mondo”, riporta il quotidiano O’Globo notando come il presidente brasiliano abbia evitato di ripetere le critiche alle Ong ambientaliste o a leader europei espresse in precedenza. Tanto è vero che per aiutare a domare gli incendi in Amazzonia, diventati ormai una crisi internazionale, Bolsonaro ha ordinato l’invio dell’esercito e promette tolleranza zero nei confronti dei piromani. “Noi siamo un governo con tolleranza zero nei confronti del crimine e nel campo dell’ambiente non c’è differenza: noi agiremo in modo deciso per mettere sotto controllo gli incendi”, ha detto, in un discorso televisivo, il presidente brasiliano che è stato duramente criticato per non aver protetto la foresta amazzonica.

Trump offre aiuto a Bolsonaro contro gli incendi. Prendendo le distanze dalle critiche al Brasile che arrivano da altri leader del G7, Donald Trump ha telefonato a Jair Bolsonaro per offrire aiuto in Amazzonia e ribadire la solidità dei rapporti con il presidente di destra brasiliano. “Ho appena parlato con Jair Bolsonaro – ha twittato Trump prima di partire per il vertice del G7 in Francia – le nostre prospettive future di commercio sono molto eccitanti ed i nostri rapporti sono forti, forse più forti che mai. Gli ho detto – ha concluso – che se gli Stati Uniti possono aiutare con gli incendi in Amazzonia, noi siamo pronti a farlo”. Ma ex ministri del governo Lula trombati, chiesa in tutte le sue forme, Ue, sinistra internazionale, nemici di Trump e quant’altro continua lanciare accuse a Bolsonaro, il quale, anche quando combatte gli incendi, lo farebbe per “pura propaganda”. Da parte sua la Ue interviene come al solito a gamba tesa contro i governi considerati “ostili”: la Ue sostiene infatti l’accordo con il Mercosur, ma “una ratifica armoniosa è difficile da immaginare fino a che il governo brasiliano permetterà la distruzione dei polmoni verdi della terra”. Lo ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a Biarritz parlando degli incendi in Amazzonia.

Gli italiani in Brasile: Macron si faccia gli affari suoi. Ma qualcuno difende l’operato del presidente Bolsonaro:  “Non è vero quello che ha detto Macron, la sua è una manovra politica. Il Brasile è responsabile e il Brasile se ne occupa. Non si può dare la colpa al governo, non si può pensare che la responsabilità sia di un presidente che è in carica da 6 mesi”. Carmine Santoro, presidente del Comites, il Comitato rappresentativo degli italiani in Brasile, di Rio de Janeiro, respinge con forza le critiche al governo Bolsonaro sull’emergenza incendi in Amazzonia, questione che irrompe nell’agenda del vertice del G7 in corso a Biarritz, con il presidente francese Emanuel Macron che minaccia di ritirare l’appoggio all’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Mercosur. “Ho visto le statistiche, gli incendi sono un fenomeno al quale siamo soggetti in questo periodo dell’anno. È un fenomeno naturale”, spiega Santoro all’Adnkronos. E al capo dell’Eliseo si rivolge senza mezzi termini: “Macron deve farsi i ca… suoi, guardi i problemi che ha la Francia che all’Amazzonia ci pensiamo noi. Il Brasile è capace di affrontare questo problema – assicura – non servono queste manovrine europee”.

Brasile, il progetto di Bolsonaro in Amazzonia per fermare cinesi, ambientalisti e cattolici. L'amministrazione vorrebbe ripopolare e controllare la regione, per opporsi al pericolo di una penetrazione cinese e all'influenza della chiesa cattolica e degli ambientalisti. Il piano è stato reso noto dopo la pubblicazione di alcuni audio. Lavinia Greci, Venerdì 20/09/2019, su Il giornale.  Un progetto per costruire una centrale idroelettrica e l'estensione dei collegamenti autostradali. Tutto in Amazzonia, con l'intezione di favorire uno spostamento di popolazione verso la regione. Da mesi, infatti, il governo del presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, sta lavorando proprio a questo: ripopolare e controllare la regione.

Il progetto "Barone di Rio Branco". Secondo quanto riportato da Tgcom24, a rendere nota la notizia è The Intercept, il sito del giornalista americano Glenn Greenwald, che avrebbe avuto accesso a registrazioni di riunioni ufficiali, nelle quali si sarebbe discusso dell'iniziativa. Con questo piano, l'obiettivo di Bolsonaro sarebbe quello di opporsi al pericolo di una penetrazione cinese e all'influenza della chiesa cattolica e degli ambientalisti, molto attivi nell'area. Secondo quanto ricostruito dal sito americano, infatti, il progetto, chiamato "Barone di Rio Branco", sarebbe stato preparato dalla segreteria per le questioni strategiche del governo e "prevede incentivi per grandi lavori pubblici che attraggano popolazioni non indigene di altre regioni del Paese, perché si stabiliscano in Amazzonia e aumentino il contributo del Pil nazionale del Nord del Paese".

Le riunioni a porte chiuse. L'iniziativa sarebbe stata presentata, in una serie di riunioni a porte chiuse, da un colonnello in pensione, Raimundo Cesar Calderaro. Durante uno di questi incontri, lo scorso 25 aprile, a Belem (capitale dello stato di Parà) un ufficiale militare avrebbe sottolineato che la Cina starebbe promuovendo migrazioni massicce verso regioni di frontiera, che considera strategiche. In quella circostanza è stato osservato che "sul confine con la Siberia, oggi, ci sono più cinesi che cosacchi, e la Russia sta cominciando a capire che esiste un problema di sicurezza molto serio".

Cosa osteggia Bolsonaro. Secondo i responsabili del governo, le popolazioni tradizionali (cioè le comunità indigene e i "quilombolos" dei discendenti degli schiavi africani) rappresentano un ostacolo per la presenza dello Stato in Amazzonia e lo sviluppo della regione, perché avrebbero prodotto paradigmi ideologici come "l'indigenismo, il qulombolismo e l'ambientalismo". Tutti fenomeni che l'amministrazione Bolsonaro osteggia con forza.

L’affondo di Bolsonaro all’Onu:«L’Amazzonia non è del mondo». Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 su Corriere.it da Rocco Cotroneo.  Platea dell’Assemblea generale incredula davanti al presidente brasiliano, che ha dichiarato: «La foresta è intatta». «L’Amazzonia non è patrimonio dell’umanità, e nemmeno il polmone del mondo. Tutte frottole. Tra l’altro è «praticamente intatta», e sarebbe meglio smettere di credere ai media. Venite a vedere con i vostri occhi!». Ha perso tempo chi aveva consigliato a Jair Bolsonaro moderazione nel suo primo discorso davanti a una platea internazionale. Il leader di estrema destra ha approfittato del palco all’Onu — dove dal 1947 per tradizione il Brasile apre l’Assemblea Generale — per ribadire la sua verità sui recenti allarmi nella grande foresta (aumento degli incendi e avanzata della deforestazione), in un discorso aggressivo e ideologico. Senza dimenticare i consueti elogi alla dittatura militare, e ai magistrati che lo aiutano a combattere il socialismo (in riferimento alle condanne di Lula). Ma è sul tema Amazzonia che le parole di Bolsonaro sono state accolte da un silenzio incredulo e qualche sguardo rassegnato, come quello colto dalle telecamere sul volto di Angela Merkel. «Questo o quel Paese che invece di aiutare ha creduto alle bugie dei media si è comportato con spirito colonialista. Sì è messa in discussione la nostra sovranità, la cosa più sacra che abbiamo, si è arrivati all’assurdo di proporre sanzioni al Brasile». Bolsonaro parla, senza citarlo, del francese Macron, mentre nomina ed elogia Donald Trump. L’Amazzonia non è del mondo ma nostra, spiega Bolsonaro, e gli indios non sono rappresentati da quei pochi soggetti «manipolati dai governi stranieri nella guerra per far avanzare i propri interessi sulla foresta». Il presidente brasiliano cita l’anziano capotribù Raoni (candidato al Nobel della pace, 50 anni di lotte per salvare il suo popolo) e gli contrappone la giovane Ysani Kalapalo, una ragazza india seduta nella platea al fianco di sua moglie Michelle. Dice Bolsonaro che Ysani — la quale ha sostenuto con lui che gli incendi non sono altro che fake news — è il simbolo degli abitanti dell’Amazzonia che vogliono sviluppo e progresso, lo sfruttamento delle enormi ricchezze minerarie e non hanno voglia di essere trattati «come fanno le Ong, cioè come uomini delle caverne». Il Brasile ha oggi il 14 per cento del suo territorio assegnato agli indios, e non abbiamo alcuna intenzione di aumentare queste aree «come vorrebbero alcuni capi di Stato stranieri». Appena l’8 per cento del territorio brasiliano è destinato alla produzione agricola, protesta Bolsonaro, contro il 50 per cento e più di Francia e Germania. Nessun altro Paese del mondo ha il 61 per cento del proprio territorio preservato. Il resto del discorso Bolsonaro l’ha dedicato alle proprie ossessioni ideologiche, dalla lotta all’ormai quasi estinto Foro di San Paolo (alleanza dei partiti di sinistra latinoamericani), il quale vuole impiantare dittature comuniste come a Cuba e in Venezuela; all’ideologia marxista che si è infiltrata nelle scuole e «vuole distruggere l’innocenza dei nostri bambini, pervertendo la loro identità più basica ed elementare, quella biologica». Ha ricordato che un militante di sinistra ha tentato di ammazzarlo con una coltellata, alla quale è sopravvissuto solo grazie a un miracolo di Dio. E l’Onu? Non dovrebbe restare a guardare ma aiutare a sconfiggere questo ambiente materialista e ideologico. Fine del discorso, decine di migliaia di tweet dal Brasile (che vergogna, che autogol!, quasi tutti) e la parola passa all’amico Trump.

Amazzonia, quel popolo invisibile che brucia con la foresta pluviale. Gennaro Malgieri il 26 Settembre 2019 su Il Dubbio. Dire che la giungla sudamericana «non è patrimonio dell’umanità» come ha fatto il presidente brasiliano è spregevole. Ancor di più lo è il disinteresse della comunità internazionale. Ci si chiedeva qualche tempo fa a chi appartenesse l’Amazzonia. Jair Bolsonaro, con l’arroganza che lo distingue, ci ha tolto ogni dubbio intervenendo con un discorso politicamente osceno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nel quale ha asserito che «L’Amazzonia non è patrimonio dell’umanità, e nemmeno il polmone del mondo». Ha aggiunto, rincarando la dose, che quelle che si raccontano sarebbero «tutte frottole», in quanto la regione «tra l’altro è praticamente intatta». Dunque, ha invitato a non credere ai media, ma a recarsi da quelle parti, nella foresta cioè, per «vedere con i vostri occhi». Come se fosse facile. Come se nessuno avesse già esplorato accuratamente l’Amazzonia, e non da quando sono divampati gli incendi che la stanno distruggendo. Come se le denunce decennali dei popoli che l’abitano e che stanno letteralmente morendo non avessero raggiunto con il loro grido i quattro angoli della Terra dai quali, va detto con sgomento e rabbia, nessun governante si è mosso per tutelare l’integrità dell’ecosistema amazzonico e degli indigeni che la popolano ( sempre di meno, purtroppo). Bolsonaro, un populista d’acciaio, non è uomo che si commuove facilmente. Incontentabile, ha pure aggiunto: «Questo o quel Paese che invece di aiutare ha creduto alle bugie dei media si è comportato con spirito colonialista. Sì è messa in discussione la nostra sovranità, la cosa più sacra che abbiamo, si è arrivati all’assurdo di proporre sanzioni al Brasile». Ecco la parolina magica, il passe- partout che apre perfino i cuori più duri: sovranità. Quella del Brasile, naturalmente, dimenticando le sovranità di altri otto Paesi che condividono il destino dell’Amazzonia e che la pensano in maniera diversa da Bolsonaro o, comunque, non hanno fatto della questione un elemento propagandistico al fine di coprire interessi rilevanti che non da oggi minacciano la grande foresta sudamericana. Interessi lontani da quei luoghi e che – essi sì sono imputabili di colonialismo a cominciare dall’appropriazione del caucciù, sottraendolo agli indios e costruendo, al fine di illecito arricchimento, interminabili autostrade che hanno inquinato milioni di ettari di territori oggi perlopiù destinati agli allevamenti intensivi che provocano emissioni di Co2 altamente inquinanti. Per Bolsonaro, che ritiene, evidentemente in nome e per conto di una “sovranità delegata” del tutto immaginaria, di parlare anche a nome della Colombia, del Venezuela, della Guyana, della Guyana francese, del Suriname, della Bolivia, del Perù e dell’Ecuador non si rende conto della responsabilità che si assume assolvendo gli incendiari che vogliono impadronirsi dell’Amazzonia per ricavarne profitti economici altissimi e condannando i residui popoli indigeni, dimenticati da tutti, soltanto da qualche tempo rappresentati per quel che sono: semplicemente esseri umani custodi di ancestrali tradizioni, dediti all’agricoltura per pura sussistenza e conservatori della stessa foresta della quale sono figli. Negli anni Ottanta vennero affiancati nella loro pacifica resistenza agli sfruttatori degli alberi della gomma ed ai costruttori di autostrade dal seringueiro Chico Mendes, sindacalista che si batteva contro la deforestazione dell’Amazzonia: riuscì a riunire in un’assemblea permanente della sua città, Xapuri, tutte le componenti politiche, sociali e religiose della comunità, ma senza ottenere l’appoggio delle formazioni politiche ufficiali, incluso il proprio partito di sinistra, il Movimento democratico brasilero, a testimonianza della dipendenza dal potere – in vario modo declinato – delle grandi conglomerazioni finanziarie che avevano messo gli occhi sull’Amazzonia e ne studiavano lo sfruttamento intensivo. Chico Mendes era evidentemente un ostacolo da rimuovere: minacciato, arrestato, torturato, perseguitato in vario modo anche con l’allesti- mento di processi- farsa, il 22 dicembre 1988 venne assassinato da due rancheros. Due anni dopo, Darly Alves da Silva, proprietario terriero e allevatore, con il quale Mendes si era scontrato più volte, riconosciuto come mandante dell’omicidio, venne condannato a 19 anni di prigione, mentre suo figlio, Darci, ottenne la stessa pena per esserne stato l’esecutore materiale. Da allora, si può dire, che la “guerra amazzonica” è entrata nella fase più cruenta. E tanto i governi di sinistra quanto di destra hanno avuto oggettive responsabilità nell’escalation di violenze, soprusi, devastazioni, mentre il mondo ha pressoché assistito impassibile ad uno scempio che soltanto oggi viene messo in luce più per la debolezza politica e culturale di un Bolsonaro manipolato dall’alta finanza che per la forza delle nazioni libere che dovrebbero denunciare con maggior vigore non soltanto il governo di Brasilia, ma coloro che al di fuori dei confini sudamericani fanno affari, ben protetti ovunque, bruciando l’Amazzonia e contribuendo a rendere il mondo un posto peggiore, invivibile, tormentato dal rischio della catastrofe ambientale sulla quale si giocheranno i destini dell’umanità. No, gli indios non sono rappresentati, come sostiene Bolsonaro capovolgendo lo stato delle cose e spudoratamente mentendo per assolversi dalle sue oggettive responsabilità, da pochi soggetti «manipolati dai governi stranieri nella guerra per far avanzare i propri interessi sulla foresta». Ma fidano sulla forza delle loro ragioni per non sparire. E se qualcuno comincia a prenderli sul serio, è un buon segno. Anche se la disperazione che ha portato in giro per l’Europa la scorsa primavera l’anziano capotribù Raoni Metuktire ( candidato al Nobel della pace dopo mezzo secolo di lotte per salvare il suo popolo), ricevuto tra gli altri dal Papa, non ha fin qui prodotto gli effetti immaginati, a cominciare da una presa di coscienza delle nazioni e dei governi su quanto tragica e terribile sia la condizione dell’Amazzonia e di chi la popola. Bolsonaro, abilissimo nel cambiare le carte in tavola, contrappone a chi difende la propria terra e le tradizioni alle quali sono legate genti antiche e gentili, la prospettiva di un non precisato «sviluppo e progresso» attraverso – parole sue lo sfruttamento delle enormi ricchezze minerarie dell’Amazzonia. È questo il suo obiettivo. E per raggiungerlo deve distruggere ciò che da milioni di anni esiste e costituisce non il patrimonio del Brasile, territorio costituitosi in nazione qualche secolo fa, e scoperto soltanto alla fine del Quattrocento, ma proprio di quell’umanità alla quale il presidente populista ( ed anche abbastanza ignorante) intende negare la “proprietà” dell’ultima foresta pluviale rimasta sulla Terra. Chiedersi di chi è l’Amazzonia è spregevole. Ancor di più lo è il disinteresse per le ricadute della sua distruzione sul già fragile ecosistema. Ma è insopportabile che nessuno si chieda che fine stiano facendo i popoli che l’hanno fin qui preservata. Da quel che si sa sono quasi estinti. Un genocidio silenzioso che ha colpito più di tutti l’antica “nazione” degli Yanomami. Una grande tribù della quale ci si disinteressa da almeno venticinque anni, da quando un reportage ne lumeggiò parzialmente la precaria esistenza ed il pericolo della sua imminente condanna a morte. Non si mosse nessuno. Si registrò una sola interrogazione parlamentare in Italia, fu assordante il silenzio da parte delle istituzioni europee e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Il problema vasto e decisivo per le sorti dell’umanità, afferisce in realtà, al quasi sempre negato tema della tutela dei diritti dei popoli portatori di differenze culturali, tradizioni religiose, usi civici, costumi e sensibilità artistiche tutt’altro che trascurabili. Temi poco glamour nell’universo del “politically correct”. Gli Yanomami non fanno eccezione. Popolano le rive del Rio Branco e Catrimani nello stato del Roraiama, nel nord del Brasile. Si estinguono a causa di malattie contratte dalle contaminazioni con i nuovi colonizzatori, degli incendi, della deforestazione selvaggia, e in conseguenza dello sfruttamento delle risorse naturali. Già negli anni Novanta subivano gli effetti delle speculazioni economiche della foresta in cui vivevano: erano rimasti soltanto in dodicimila; oggi non si sa quanti siano, come pure si ignora quante persone popolino le cinquecentoquarantaquattro aree tradizionalmente abitate dagli indios. La comunità internazionale, non soltanto dunque i governi brasiliani, nelle sue rappresentanze più complesse, a cominciare dall’Onu, è oggettivamente complice da decenni degli speculatori che si arricchiscono sulla pelle di chi non ha voce nell’immensa regione sudamericana “riscoperta” come gigantesca fonte di guadagno facile. Paradossalmente, bruciata vale anche di più. Il neo- colonialismo liberista ed il globalismo che vorrebbe esportare, nel nome dell’omologazione, i miserabili gadget occidentali laddove, come in Amazzonia, non se ne sente alcun bisogno, hanno fatto enormemente più male dei colonizzatori spagnoli e portoghesi del XVI secolo.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 7 ottobre 2019. L'asse ideale con l'Amazzonia per riscattarla dalle brame predatrici delle multinazionali e dei fazenderos con la complicità dei governi, è stata tracciata a San Pietro ieri mattina. Il Papa ha usato parole durissime. E' sembrato quasi voler sfidare il presidente Jair Bolsonaro che continua a negare che in Brasile la deforestazione in atto non sia poi così dannosa come si vuole fare credere e che, comunque, resta un affare interno al Paese e non materia internazionale. Come dire: fatevi i fatti vostri. Francesco gli ha replicato a distanza aprendo il sinodo sull'Amazzonia con gli occhi del mondo puntati addosso. A San Pietro ha denunciato la devastazione degli incendi continui che «divorano popoli e culture». Ha accusato «l'avidità dei nuovi colonialismi» che spiana la strada ai criminali che appiccano il fuoco per interesse, distruggendo senza possibilità di recupero il polmone verde. Da ieri fino al 27 ottobre il tema amazzonico sarà al centro della maxi assemblea dei vescovi che il Papa ha indetto per trovare soluzioni a problemi che si trascinano da tempo. Si parlerà tanto di ambiente, di povertà, di esclusione, di politica internazionale e di come la Chiesa può farsi più missionaria in zone dove è difficile arrivare. Tra le pieghe del sinodo troveranno spazi di discussione anche alcuni temi teologici spinosi, veri e propri tabù, sui quali sono già cominciati gli scontri sotterranei: come la questione del celibato sacerdotale e se dare alle donne la possibilità di svolgere servizi di diaconato in zone impraticabili nella foresta. Già da tempo diverse voci di teologi, vescovi e cardinali si sono fatte sentire con pareri negativi ma le pressioni di alcuni vescovi brasiliani, tra cui l'influente cardinale Hummes, restano fortissime. Hummes vorrebbe persino che il Papa proclamasse in blocco il martirio di tutti gli indigeni che sono stati massacrati in questi decenni per difendere la foresta, il loro habitat naturale senza il quale le loro culture ancestrali non sopravviverebbero. A Roma sono stati invitati alcuni rappresentanti di tribù indios per testimoniare in prima persona il loro lento stillicidio. Alcuni giorni fa Hummes parlando delle riserve di ciascuno dei nove paesi che compongono la regione amazzonica, ha spiegato perché queste popolazioni sono fondamentali al fine di tutelare l'habitat. Una visione che viene rigettata in toto dal presidente del Brasile deciso a non creare alcuna altra riserva indios. Bolsonaro ha insinuato che ci sarebbero governi stranieri interessati a manipolare le popolazioni native per influenzare la sovranità brasiliana. Non è chiaro se il riferimento fosse rivolto al Papa, tuttavia offre l'idea del clima di tensione che si sta creando. A San Pietro è così risuonata un'altra denuncia: «Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d'amore della Chiesa. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia hanno speso la loro vita». Un po' come dei martiri. La novità di questo sinodo è l'introduzione del criterio di sostenibilità. Tanto per cominciare a ognuno dei 184 padri sinodali, dei 17 rappresentanti di popoli indigeni e delle 35 donne invitate che però purtroppo, ancora una volta, non hanno diritto al voto è stata donata una borsa in materiale eco. La plastica è stata bandita. Verrà usata carta riciclata anche per le posate e i bicchieri e i documenti verranno spediti via mail per evitare le fotocopie di carta. Unico punto sul quale ancora non è stata presa alcuna decisione è se verranno piantati degli alberi a compensazione dell'inquinamento dei viaggi in aereo della maggior parte dei partecipanti. A questo problema sembra che nessuno ancora ci abbia pensato.

Amazzonia: storia, leggende e disastri di un nome leggendario. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Corriere.it. É una parola magica e straordinariamente preziosa. Fa parte da secoli di quel vocabolario geografico che ci accompagna tutta la vita, dalla mitologia alla scienza, per cercare di comprendere un po’ di più i misteri e la vastità del mondo che ci circonda. E come succede spesso ne sappiamo molto meno di quanto la nostra presunzione ci lascia credere. A maggior ragione quando l’Amazzonia, come è successo in questo 2019, ha invaso i notiziari di tutto sul mondo. Secondo l’agenzia spaziale brasiliana INPE, da gennaio ad agosto del 2019 sono stati registrati in Amazzonia circa 73mila incendi (nel 2018 sono stati 39.759). Sempre l’INPE denuncia un ritmo di deforestazione fuori controllo in Amazzonia, con record ripetuti a giugno (738 chilometri quadrati deforestati in 30 giorni), superato a giugno (932 km quadrati) e triplicato a luglio (2.115 km quadrati). L’emergenza è reale. Amazzonia è il nome di una regione geografica dell’America Meridionale, che corrisponde alla zona equatoriale, calda e umida, dominio della foresta pluviale, estesa per 7 milioni di chilometri quadrati. La foresta amazzonica ne copre quasi 6. I confini della regione sono identificati dal massiccio della Guiana a Nord, dall’Oceano Atlantico a Est, dalla cordigliera delle Ande a Ovest e dall’Altopiano del Brasile a Sud. L’origine deriva dal fiume che la attraversa. Il Rio delle Amazzoni storicamente contende al Nilo il primato di fiume più lungo al mondo. Recenti scoperte sulle sue sorgenti gli garantirebbero il primato: si trovano infatti a oltre cinquemila metri di altitudine nelle Ande peruviane, portando la lunghezza a 6992 chilometri, attraversando Perù, Colombia e Brasile e sfociando, con un gigantesco estuario largo più di 200 km], nell’oceano Atlantico. La più famosa e tramandata riguarda la scoperta del Rio delle Amazzoni da parte degli esploratori europei. Se i primi a navigarlo sarebbero il fiorentino Amerigo Vespucci e lo spagnolo Yanez Pinzon, tra il 1499 e il 1500, il primo a percorrere gran parte del suo tracciato fu Francisco de Orellana che partecipò nel 1541 alla spedizione di Pizzarro che conquistò (e distrusse) l’impero Inca. Tornato in Spagna raccontò che navigando su quel fiume aveva incontrato e combattuto tribù indigene con donne guerriere. Da qui il riferimento mitologico e leggendario alle amazzoni. Nella mitologia greca, che ce le ha tramandate, le amazzoni sono le guerriere che abitavano un regno sulle coste meridionali del Mar Nero dove gli uomini erano banditi ed erano governate da due regine. É interessante l’etimologia stessa della parola, così come le leggende sulle amazzoni, che essendo tramandate da uomini sono tutte in negativo. La parola amazzone sarebbe composta da un prefisso «a» privativo seguito da «mazon» che vuol dire seno. Il risultato, «senza seno», si è prestato all’invenzione - come riporta uno stuolo di storici maschi - che le barbare e selvagge amazzoni erano quelle guerriere che si tagliavano via la mammella destra per poter meglio stendere l’arco. Peccato che tutte le testimonianze artistiche dell’antica Grecia, vasi, altorilievi, che testimoniano i leggendari combattimenti delle amazzoni, le raffigurano con floridissimi seni. Tutti e due. Una delle più importanti società mondiali porta nel nome un esplicito riferimento alla regione, al fiume e al mito: Amazon. Quando Jeff Bezos la fondò nel 1994 si chiamava cadabra.com ma l’anno successivo, a seguito del consiglio del suo consulente legale, Bezos cambiò il nome in Amazon. Da una parte il fondatore voleva un termine che iniziasse con la A, così da comparire ai primi posti negli elenchi, dall’altra voleva che la sua attività online fosse imponente come il fiume Rio delle Amazzoni.

Viaggio in Amazzonia: dove la foresta è quasi sparita (e il silenzio pure). Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 da Corriere.it. A metà agosto 2019 il cielo di San Paolo, la più grande città del Brasile e dell’emisfero Sud, si è oscurato in pieno giorno. L’Amazzonia è lontana due volte l’estensione dell’Italia, ma spinto dai venti il fumo degli alberi in fiamme è riuscito ad arrivare. La nuova emergenza ambientale ha fatto il giro del mondo in un attimo. Il tempo sta scadendo anche per la più grande foresta pluviale rimasta sul pianeta. Ma l’Amazzonia oggi non è un immenso parco naturale di piante e animali; è una terra abitata da decine di milioni di persone che vogliono anche cibo, comodità e Internet. L’intrusione dell’uomo è un fatto, e non si può ignorare, anche se è un pericolo crescente. Ma cosa sta succedendo davvero? Come porre rimedio a una possibile catastrofe? Cercheremo di capirlo, a partire da oggi, con questo viaggio live per Corriere.it. Il Maranhão è lo stato amazzonico del Brasile dove più foresta è andata perduta. Oltre tre quarti della sua copertura originale, mentre nell’intera Amazzonia - brasiliana e non – la distruzione avanza, ma non ha superato il 20 per cento. Ci sono ragioni storiche, questo è stato tra i primi territori colonizzati dai portoghesi; e geografiche, perché l’Atlantico è vicino e la foresta inizia (o meglio iniziava) non lontano dal litorale. Segna poi il confine tra il Nordest semidesertico del Brasile e il Nord dalla vegetazione esuberante. Ma scuse e spiegazioni varie non colgono il punto. Il Maranhão è stato il primo Far West del Brasile, dove tutto era lecito, e in parte lo è ancora. Come conseguenza è uno dei Stati più poveri: il suo indice di sviluppo lo posizionerebbe nel mondo tra l’India e la Bolivia, se fosse una nazione a sé. Poche oligarchie, nei campi e nella politica, sono al potere da secoli. La foresta è stata eliminata prima per coltivare caffè e cotone, poi per il legname e l’allevamento. Oggi sono rimaste poche enclave verdi, dove vivono fieramente indios con storie incredibili di resistenza. Per questo ho deciso di far partire il viaggio da qui. Per una coincidenza felice ma del tutto casuale era il 12 ottobre, ricorrenza della scoperta dell’America, mentre mi spostavo dalla capitale São Luis verso la cittadina di Santa Ines. Da qualche anno l’anima intellettuale delle Americhe preferisce rileggere questa data come una giornata di orgoglio indigeno, di riflessione sulla tragedia della Conquista. Sono state tirate giu persino statue di Cristoforo Colombo in alcuni Paesi e quest’anno il movimento ha preso vigore anche negli Stati Uniti. A Santa Ines è impossibile soltanto trovare qualcuno che conosca questa storia. In Brasile, e ancora di più in quello profondo, il 12 ottobre è soltanto «o dia das crianças», la Festa dei bambini, un ricorrenza commerciale, un tripudio di acquisti per figli e nipoti, un Natale anticipato. Per i bambini brasiliani è un giorno atteso con ansia, importante come un compleanno. Quelli nati «meglio» magari vincono il viaggio dei sogni al Disneyworld di Orlando, Florida. Gli altri si accontentano di una bambolina made in China trovata su una bancarella dei mercatini, come in una città povera come questa. Santa InesSei ore e mezzo di autobus per poco più di 200 chilometri, perché le buche sulla strada sono voragini, portano dunque in un centro chiassoso e torrido di 90 mila abitanti, senza un albero, dove gli altoparlanti delle ultime offerte fanno tremare i vetri, lottando con la musica sputata dai camioncini. Nata come stazione ferroviaria, Santa Ines è tuttora una tappa di migliaia di vagoni carichi di minerale di ferro che dalla foresta vanno all’oceano per essere spediti in Cina: vedremo nei prossimi giorni come questa ferrovia che spacca in due il Maranhão incide sulla vita di moltissima gente. Ed è a poche ore di strada dalle terre degli indios Guajajara e Awá Guajá che combattono contro gli invasori delle loro terre. Nei loro territori ci sono persino minuscole tribù di «isolati», come li chiamano gli antropologi, gli indios che rifiutano ogni contatto con il nostro mondo e vivono come migliaia di anni fa. E sono minacciati di estinzione. Don Claudio BombieriLa città assordante e i suoi vicini indios a 80 chilometri si ignorano totalmente. Il ragazzo della reception dell’albergo di Santa Ines mostra uno sguardo interrogativo, quando dico dove sto andando. Nessuna idea della distanza, e nemmeno di cosa stessi parlando. Espressione disgustata, per tutta risposta, quella del capotribù dei Guajajara, quando ha saputo che per questioni logistiche avrei rinunciato alla terza notte sull’amaca all’aperto per l’hotel in città. «Santa Ines non la merita nessuno», («ninguém merece»), come recita un modo di dire brasiliano. Chi lavora da 30 anni con gli indios del Maranhão e sa tutto di loro con loro è un simpatico prete comboniano nato a Verona, don Claudio Bombieri, incontrato a São Luis. È arrivato in bermuda e havaianas nel negozietto dell’artigianato indigeno e ha accettato, da buon brasiliano d’adozione, due chiacchiere e una birra molto fredda in un bar del centro storico. Con i suoi consigli in valigia, e l’ospitalità deliziosa degli indigeni Guajajara e Awá Guajá, inizia il viaggio verso il cuore dell’Amazzonia. Alla prossima puntata.

Viaggio in Amazzonia. Come nasce un nuovo villaggio (ovvero Marinaldo e la «tribù personale»). Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it da Rocco Cotroneo. Continua il viaggio del Corriere nella foresta Amazzonica. Gli indios sono in boom demografico. Ma non sempre le condizioni di vita lo giustificano. Quando Marinaldo capì che le sue ambizioni di comando, e il suo spirito imprenditoriale, non avrebbero trovato spazio nel villaggio dov’era nato e cresciuto, la «aldeia» (il villaggio) Maçaranduba, era arrivato il momento del gran passo: fondarne un altro poco distante sulle rive del fiume, separarsi in armonia dall’amico Antonio, il «cacique» che mi ospita in questi giorni. A quanto pare, qui nella terra indigena Caru, e anche altrove, la moltiplicazione degli indios e dei villaggi è in corso, e anche un buon affare. Quando chiediamo a Marinaldo Guajajara quanti anni ha, prima tentenna, poi tenta di far un calcolo con le dita sul naso, infine si arrende aprendo il portafogli e passando la carta d’identità. 17 febbraio 1972. Quindi hai 47 anni, giusto? «Sì, ecco, è così». Piccolo, tarchiato e gran affabulatore, Marinaldo fa parte di una generazione di indios che ancora non aveva le scuole, quindi legge a malapena, non sa scrivere e ha problemi anche con i calcoli più elementari. Ma è sveglio e più ambizioso della media. L’insegna di bronzo della aldeia Nova Samyã luccica ancora, è del luglio 2019 e porta il marchio della Vale, il gigante minerario che nel Maranhão sponsorizza e finanzia un po’ di tutto per tenersi buoni gli abitanti vittime di rumori e inquinamento. Marinaldo spiega che ha voluto la separazione dalla Maçaranduba, dov’era nato e cresciuto, perché intendeva mettere su una porcilaia, un allevamento di galline e delle coltivazioni più diffuse, ma Antonio, il capo di là, non gliel’ha permesso in prossimità delle case, sostenendo che non ci fosse spazio a sufficienza. Nonostante gli indios abbiamo a disposizione centinaia se non migliaia di ettari a testa, nel rapporto tra terra e popolazione, preferiscono non allevare animali né coltivare la terra se non attorno alle loro case. Un po’ per comodità, per mantenerne il controllo, e per paura che le bestie vengano attaccate dall’unico animale selvatico davvero aggressivo in Amazzonia, la «onça», cioè il giaguaro. Una manciata di chilometri separano le due comunità, l’integrazione e i lacci familiari restano intatti. Marinaldo GuajajaraPer creare il suo nuovo villaggio Marinaldo non ha avuto bisogno di fare proseliti, gli bastava la sua famiglia. In casa sono in tanti. Lui e la moglie hanno sette figli e già una trentina di nipoti. Poi sono venuti dietro fratelli e altri familiari. Insomma la Nova Samyã già una cinquantina di abitanti li ha, ed è stato sufficiente per far scattare i benefici riservati ai villaggi indigeni. A un paio d’anni dalla fondazione ci sono già la luce, la chiatta a motore per passare da un lato all’altro del fiume, una sede per la comunità, il pozzo con le pompe per l’acqua, un fuoristrada per gli spostamenti. Come in tutti i villaggi della regione, anche questo ha già una casa modello, sempre finanziata dalla Vale. Scuola e ambulatorio i prossimi passi. La casa personale di Marinaldo e le altre cinque della Nova Samyã sono però ancora assai modeste e precarie, costruite in modo tradizionale. Se ne vedono in tutto il Brasile rurale, legno e argilla. Il tetto è coperto con le foglie di una palma e non dura più di due anni, a causa delle piogge torrenziali dell’inverno amazzonico (che poi sarebbe l’estate, da dicembre a marzo). Ci saranno una quindicina di bambini sotto i dieci anni, in giro, che giocano e razzolano con gli animali domestici. Sembrano tutti in buona salute, tranne uno piccolo con una pancia un po’ pronunciata (probabilmente vermi, nulla che farmaci ormai disponibili non possano risolvere). I Guajajara sono estremamente prolifici, come tutti gli indios quando si trovano in una situazione di relativo benessere. Non lo sono per i nostri standard, certamente, e la vita di quasi sussistenza (al netto di tv e Internet) potrebbe indurre il forestiero a pensare a una situazione di estrema indigenza. Marinaldo ridacchia quando gli faccio notare che le sue figlie adolescenti stanno sfornando neonati a raffica. «E ci credo, che spese avete voi qui? - lo prendo in giro – Nemmeno vi arriva la bolletta della luce». Vuole sapere com’è là fuori. Gli rispondo che nel resto del mondo per avere più di uno o due figli ormai bisogna essere benestanti. Non capisce bene perché, ma annuisce. E chi lo smuove da qui, soprattutto ora che è diventato cacique? I dati ufficiali confermano che la popolazione indigena in Brasile è in forte aumento negli ultimi decenni, dopo il crollo continuo dal ’500 a fine ’900. Le politiche di protezione e di demarcazione delle terre sono alla base della crescita demografica. L’ultimo censimento nazionale (2010) parlava di 900.000 individui, divisi in 240 etnie. Oggi gli indios brasiliani superano certamente il milione. Non un cattivo risultato se si pensa che negli anni Settanta la loro scomparsa era considerata ineluttabile.

Viaggio in Amazzonia: dove si sta seduti su ricchezze per i prossimi quattro secoli. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su  Corriere.it da Rocco Cotroneo. I minerali estratti dalla foresta: dal ferro dei record che parte per la Cina alle pietre che danno da vivere al limite della sussistenza. Prima scompaiono gli alberi più alti, poi quelli piccoli e infine anche gli arbusti. Si pensa subito a una devastante operazione di «pulizia» a fuoco della foresta e invece per una volta non è così. Su questo terreno non cresce quasi nulla naturalmente, perché stiamo passando su una gigantesca calotta fatta di ferro e altri minerali, troppo dura per le radici delle piante. La terra è rossa nella foresta nazionale di Carajás, nel sud del Pará, che vive questo strano dualismo: è un pezzo di Amazzonia assai ben preservato e allo stesso tempo la zona mineraria più ricca e sfruttata della Terra. Ferro, rame, manganese, oro, altri metalli e pietre preziose. Qui c’è di tutto. Fianco a fianco convivono la più grande produttrice di minerale di ferro del mondo e i più irriducibili e sognatori «garimpeiros» (cercatori di ricchezze). C’è una miniera che è una icona della globalizzazione - perché quasi tutta l’estrazione va in Cina – e «fazendas» dove ancora adesso esiste lavoro semischiavo. Sempre da queste parti c’è la leggendaria ex miniera d’oro di Serra Pelada, che merita un racconto a parte.

La miniera di ferro della Vale è talmente grande che il buco rosso su sfondo verde può essere visto dallo spazio. Il cratere che abbiamo visitato è lungo tre chilometri, largo due e al momento è profondo 300 metri. Quanto ferro ci sia da queste parti è difficile da stimare con certezza. Quando alcuni decenni fa il Brasile si rese conto della dimensione delle riserve (e venne costruita apposta la ferrovia da 300 vagoni che ho preso per arrivare fin qui) si stimò che a Carajás si poteva andare avanti a scavare per 300 o 400 anni. Poi venne il boom della Cina e la sua fame di commodity, i prezzi e la produzione di Carajás si impennarono ed è possibile che le miniere durino meno del previsto. Si pensi che ai tempi d’oro (2006-2008) la Vale riaggiustava i suoi prezzi alla Cina del 70-80 per cento da un anno all’altro, la società apportava all’export brasiliano 20 miliardi di dollari e il titolo valeva in Borsa più della Apple. Poi con il rallentamento dell’economia mondiale e dei prezzi del minerale molto è rientrato, ma il primato di questa miniera è solido. Così come la sua importanza nell’economia brasiliana. Da Carajás partono tre qualità di materiale di ferro. Quella più scadente resta in Brasile, la seconda va in Europa e la migliore in Estremo oriente. Dipende dal tipo di fabbrica siderurgica che andrà a lavorare il minerale, dal suo livello di evoluzione. Motivo, spiegano, per cui il Brasile è condannato a restare quasi solo produttore di commodity e perdere la parte più lucrativa del business ferro e acciaio. Anche le riserve di rame di recente scoperte nella regione sono già state vendute alla Cina, per i prossimi 20 anni.

La Vale è considerata dai movimenti ambientalisti una disgrazia planetaria. I crolli di due dighe fatte di detriti di minerali, nello stato di Minas Gerais, hanno fatto oltre 200 vittime nel gennaio 2019 a Brumadinho e 18 a Mariana nel 2015, inquinando per sempre il fiume São Francisco. Qui nel Pará l’azienda si vanta invece di preservare un pezzo importante di Amazzonia, in quanto, persino scavando per quattro secoli, la distruzione del parco di Carajás arriverebbe al massimo al 5 per cento della sua estensione. Vedremo. Ho visitato Carajás da turista, con Pedro, un bravo studente di Geologia come guida. Se lo avessi chiesto da giornalista, mi dice, avrei avuto fornire molte spiegazioni e una squadra intera delle relazioni esterne della Vale si sarebbe presa cura di me, tale è la preoccupazione d’immagine della società. La cosa incredibile è che a qualche curva da un’eccellenza mondiale (così si dice), si ripiomba nel peggior Brasile coloniale e schiavista. Pedro mi propone di andare a vedere l’altra faccia dell’attività mineraria in Amazzonia, quella povera e clandestina. Non tutti i «garimpos», le cave informali, sono visitabili. In alcuni casi avvicinarsi è assai poco raccomandabile per la presenza di guardiani armati o per nulla aperti ai curiosi. In mancanza d’oro, l’estrazione clandestina si sta concentrando su rame e manganese, che pure hanno tutta una filiera illegale di vendita. Spesso c’è un padrone, con i suoi lavoratori mal pagati, o cooperative legali o illegali.

La pulizia delle ametisteI. l «Garimpo das pedras» che ho visitato riceve invece con simpatia chi viene da fuori e c’è anche un negozietto per i souvenir. Basta con esagerare con le domande. È considerata una delle più ricche miniere di ametiste verdi del mondo, pietre cosiddette semipreziose. Il «garimpo» è all’interno di una grande «fazenda» di migliaia di ettari, di proprietà di una potente famiglia della vicina città di Marabá, non lontana da qui. I Miranda sono al potere da sempre, qui nel sud del Pará, e ora uno dei loro è sindaco della città, alleato del governatore dello Stato, a sua volta rampollo di una dinastia economico-politica, i Barbalho. Tutto come decenni fa, insomma, con gli eterni «colonnelli» sempre al potere. I cercatori di ametiste ora raccontano di far parte di una cooperativa riconosciuta legalmente, e che i Miranda si sono fatti da parte, perché da quando tutta la regione è finita nell’orbita della Vale, quindi con parecchie necessità di legalità, le antiche pratiche non sono più raccomandabili. Ma quali erano queste antiche pratiche? Lavoro alla miniera in cambio di cibo e acqua e una baracca per dormire. La definizione moderna di schiavitù. Ne parleremo ancora.

Viaggio in Amazzonia: sangue e carte bollate per la terra che un tempo era foresta. Il tragico bilancio di morti nel Pará. I ladri di territori grandi come Paesi europei: incontro con l’avvocato José Batista Afonso, che difende i contadini contro i fazendeiros. Rocco Cotroneo il 29 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera. A chi appartengono le immense terre dell’Amazzonia ormai deforestate? Chi ha diritto a vivere qui e coltivare fazendas enormi, a volte delle dimensioni di una provincia italiana, dopo decenni di abusi e violenze? Non ha dubbi l’avvocato José Batista Afonso, 54 anni, studi di Teologia e una tenacia senza pari. «La Costituzione è chiara. Poiché il Brasile non ha mai avuto una riforma agraria, la redistribuzione va fatta sui principi di legalità. A maggior ragione se le carte di chi si è assegnato le terre sono false». Lo incontro a Marabá nella sede della Commissione pastorale della terra (Cpt), organismo legato alla Chiesa cattolica. Marabá è la città più importante di questa regione dell’Amazzonia ed epicentro di numerosi conflitti legati alle terre. Da un lato lo storico Mst (lavoratori senza terra), il più forte movimento sociale brasiliano, dall’altro i «fazendeiros», con il loro potere economico-politico e, di frequente, i killer prezzolati per risolvere le questioni e spaventare chi li sfida. Poco distante da qui, a Eldorado do Carajás, nel 1996 sedici contadini sem terra vennero massacrati dalla polizia locale. Fu un episodio di risonanza mondiale, in larga parte rimasto impunito.

Contabilità della morte. L’avvocato Batista, così lo chiamano tutti, si occupa anche di questa triste contabilità. Ogni anno aggiorna le vittime della violenza, con morti e feriti. L’anno peggiore di recente è stato il 2017 con 71 vittime, scese a 24 nel 2018. Naturalmente è un conflitto asimmetrico, muoiono solo lavoratori e leader sindacali. Il Pará domina incontrastato tra gli stati brasiliani. Settantatrè vittime negli ultimi cinque anni. Casi risolti, un’estrema minoranza: «Gran parte della violenza in Amazzonia è in regioni come questa, dove la foresta è quasi sparita e le pratiche criminali si concentrano su quel poco che è rimasto per lo sfruttamento degli allevamenti e la corsa al legname pregiato». Batista ha un profilo molto basso e sussurra i suoi argomenti. Ma da solo e con pochissime risorse ha appena sconfitto nei tribunali uno dei più potenti finanzieri brasiliani, Daniel Dantas. Una sua società possiede alle porte di Marabá una fazenda da 10.000 ettari, la Cedro, nella quale vivono da otto anni circa 200 famiglie di contadini. Dopo aver vinto in prima istanza e ottenuto lo sgombero forzato dei senza terra, Dantas è rimasto spiazzato quando Batista ha messo le mani su centinaia di documenti che provano le illegalità. Metà della fazenda è su terra pubblica, le carte erano taroccate. I lavoratori non possono essere espulsi. «C’è un’ altra sua fazenda di 6.600 ettari, la Maria Bonita, nata su una area di preservazione totale, di alberi della nostra castagna del Pará. Tutta incendiata negli anni, per diventare pascolo. Lo Stato aveva il diritto di riprendersela perché i proprietari non hanno ovviamente rispettato le leggi ambientali, ma attraverso lo strapotere politico e economico sono riusciti a ripulire la situazione. Cinque o sei famiglie possiedono quasi tutte le terre in questa regione», dice Batista.

Effetto Bolsonaro. Non è ottimista per il futuro. «Non c’è dubbio che gli effetti di un governo nazionale (Bolsonaro, ndr) che sta dalla parte di chi ha sempre commesso illegalità si faranno sentire. Qui i grandi poteri legati all’agricoltura controllano tutto, eleggono sindaci, deputati e governatori. E ora hanno fretta di mettere propri uomini negli organismi federali che decidono la regolarizzazione delle terre, così da rendere vane le lotte dei contadini». In questa situazione, i movimenti sociali stanno vivendo una crisi molto forte. Non c’è nessuna nuova occupazione dell’Mst da tre anni. Stanchezza e disillusione perché lo Stato non risolve i conflitti, 160 fazendas sono ancora occupate con 14.000 famiglie dentro, e i processi di assegnazione fermi, alcuni da addirittura quindici anni». Si pratica ancora lavoro di tipo schiavistico negli allevamenti intensivi, nella produzione di carbone vegetale. Batista mi mostra un depliant della Commissione che avvisa i lavoratori di stare attenti a non cadere nell’inganno, essere portati con promesse in aree remote per poi ricevere solo cibo. È in portoghese e anche in spagnolo, perché il rischio è alto per i numerosi profughi dal Venezuela, disperati, che sono arrivati in Amazzonia.

Ladri di terre. Oltre che di morti nel campo, il Pará è campione mondiale di terre rubate allo Stato. In Brasile si chiama «grilagem», l’operazione che porta a creare titoli di proprietà falsi, attraverso manovre e connivenze. Si ritiene che addirittura un quarto dello stato, 30 milioni di ettari, la superficie dell’Italia, sia in situazione catastale irregolare. Anni fa diventarono famosi casi di possedimenti giganteschi, in parchi nazionali e terre indigene. Un solo imprenditore del sud del Brasile possedeva, si fa per dire, una fazenda grande come Belgio e Olanda messi insieme. Così come venne alla luce la lotta per la legalità di una magistrata di Manaus, Marinildes Mendonça, che avevo intervistato all’epoca ed era riuscita a recuperare allo Stato ancora di più, un’Italia e mezza.

A Serra Pelada, la miniera-inferno della foto di Salgado. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Rocco Cotroneo. Quarant’anni fa una pietruzza luccicante nello straccio di una bambina fece scatenare la corsa all’oro. Oggi sono rimasti in migliaia, sognando di ricominciare e diventare ricchi. Al posto del cratere verso l’inferno c’è un lago, e l’esuberanza della foresta che si è ripresa quel che le apparteneva. Erano 40.000 folli sognatori, oggi pochi anziani con il volto cotto dal sole bivaccano all’ombra delle stesse baracche di legno, in un villaggio da spaghetti western. E aspettano ancora di diventare ricchi. Quarant’anni fa, novembre 1979, nacque il mito di Serra Pelada, la scoperta nell’ Amazzonia brasiliana che fece scatenare una leggendaria corsa all’oro. «Una pietruzza luccicante nello straccio di una bambina che era andata a prendere acqua nel ruscello», racconta Genesio Silva, figlio dell’allora proprietario della fazenda dove tutto accadde, oggi titolare di una tv locale nella vicina Parauapebas. «Un contadino andò in città e la voce si sparse. Nei primi tre giorni arrivarono in 800. Poi successe il finimondo. Piovve gente da tutto il Brasile, e non solo». Qualche tempo dopo passò da qui anche Sebastião Salgado e i dannati di Serra Pelada finirono per sempre nell’Olimpo della grande fotografia documentale. Era arrivato per tutt’altro motivo, un servizio su una miniera di ferro vicina. Josiel Torres ha 52 anni e venne dal Pernambuco, ragazzino con il padre. È rimasto qui, vive in una casupola di legno a due passi dal lago. «Lo so che sembra bellissimo, ma c’è più mercurio che acqua, non ci metterei nemmeno un piede». Padre e figlio non trovarono nulla. Spuntarono solo pietre dal loro «barranco»: così si chiamava il fazzoletto di terra da scavare di 3 metri per 2, o anche meno, che veniva assegnato o venduto ai nuovi arrivati. Torres oggi fa parte della direzione della cooperativa dei «garimpeiros» (minatori) di Serra Pelada, migliaia di soci che hanno tuttora i diritti di sfruttamento del sottosuolo. Dal 1984, quando la miniera venne chiusa per ordine del governo brasiliano e il cratere aveva raggiunto i 200 metri di profondità, aspettano di poter ricominciare a lavorare. Torres è convinto che là sotto quel lago (che in origine era una collina) ci sia ancora molto oro, «ma lavorare a mano come a quei tempi è impossibile, oltre che vietato». Servono macchine, tecnologie, insomma una partnership con una società. In paese tutti ripetono la stessa cosa: «Ci hanno fermati perché il grosso è ancora da estrarre, lo vogliono tutto per loro». Non si capisce però perché una società canadese che ha fatto uno studio dettagliato del sottosuolo abbia poi rinunciato a diventare partner della cooperativa. D’altronde dove c’è oro due cose non mancano mai: le teorie cospirative e le leggende.

«Mio padre non ha guadagnato quasi nulla, ci dovrebbero 120 chili di oro di royalties che non abbiamo mai visto», racconta l’ex proprietario della terra. Ma quanti sono diventati davvero ricchi a Serra Pelada? Genesio dice che non arriva a contarli sulle dita di una mano. «Quasi tutti tornarono a casa, o sono rimasti a vivere qui senza un soldo. C’era un meccanismo per cui si vendevano le pepite per comprare altri “barrancos” o semplicemente si sperperavano i soldi in feste e soprattutto donne». Una parte delle ricchezze del «garimpo» finì infatti nelle tasche delle migliaia di ragazze che arrivarono da tutto il Brasile per prostituirsi. Una delle leggende racconta che la più accorta di tutte risparmiò tanto che aprì un negozio a Belem e oggi guida una catena di abbigliamento. Una storia (questa invece sicura) di arricchimento è quella di Zé Maria da Silva, all’epoca 30enne, che trovò in poche settimane 1.300 chili d’oro, presto investiti in case e fazendas. Oggi è un signore benestante della vicina Marabá, che lo celebra anche per aver aperto in città il Golden Motel, «un luogo dove i miei compagni potessero divertirsi con le donne in modo finalmente dignitoso, e non in quelle baracche fetenti a Serra Pelada» come spiegò in una intervista. Altre storie venne poi mitizzate in film e serie tv nate sull’epopea della corsa all’oro. Chi c’era respinge però la ricostruzione di un Far West dove la morte e l’inganno erano la norma. «Al contrario, erano tutti armati, quindi un luogo relativamente tranquillo» ricorda Josiel Torres. Dopo i primi mesi, quando fu il proprietario della fazenda a tentare di gestire il caos, il governo brasiliano mandò un militare, ex persecutore di dissidenti durante la dittatura, per mettere ordine nel garimpo. Sebastião Curió fu efficiente e furbo, organizzò il lavoro cercando di evitare ingiustizie e violenze e si guadagnò la fiducia dei minatori, che lo chiamavano il Dottore. Oggi per arrivare all’ex miniera si passa per una città da lui fondata, della quale è stato sindaco e che si chiama, ovviamente, Curionópolis. L’altra città vicina, nata per indotto del grande «garimpo», ha anch’essa un nome evocativo: Eldorado. Era tutto un sogno, ma ha lasciato tante realtà. I vecchi raccontano sempre le stesse storie, i giovani non ne possono più di sentirle e sognano un posto di lavoro alla Vale (la multinazionale del ferro, che opera non lontano da qui). E il fine settimana aspettano il gruppo che sale fin quassù a suonare il forró, per ballare tutta la notte.

La diga gigantesca che uccide il fiume sacro (e chi abita sulle rive). Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Rocco Cotroneo. Altamira, nello stato del Pará, è un concentrato di tutte le questioni: distruzione della foresta, minacce alle popolazioni indigene, l’impatto di una gigantesca centrale idroelettrica, l’apertura imminente di una miniera d’oro. Se la questione climatica è la più seria sul pianeta Terra, la foresta amazzonica è il suo epicentro, il topos del futuro dell’umanità. «Amazônia centro do mundo» è lo slogan preferito degli ambientalisti brasiliani, titolo di convegni e studi. Se c’è poi da scegliere una capitale, questa è sicuramente Altamira, nello stato del Pará, dove la Transamazonica incontra il Rio Xingu. Altamira è un concentrato di tutte le questioni: distruzione della foresta, minacce alle popolazioni indigene, l’impatto di una gigantesca centrale idroelettrica, l’apertura imminente di una miniera d’oro. È la città di frontiera della grande foresta, e non da oggi. Nel 1989, quando ci fu la prima ondata di interesse mondiale sull’Amazzonia, Altamira venne scelta per far arrivare 600 indios e centinaia di giornalisti da tutto il mondo, richiamati anche dalla presenza della popstar Sting, all’epoca il paladino mondiale della foresta. Allora la città contava poche migliaia di abitanti, oggi sono oltre 120.000. Per ragioni geografiche e di grandi interessi tutto continua a ruotare attorno a queste terre dove il Rio Xingu, fiume sacro per decine di tribù indigene, fa una strana giravolta nella foresta, chiamata «Volta Grande», prima di proseguire il suo cammino verso il Rio delle Amazzoni. Ed è qui che dopo decenni di resistenze il governo brasiliano (con la sinistra al potere, prima Lula poi Dilma Rousseff) è riuscito infine a costruire la gigantesca Belo Monte, terza centrale idroelettrica del mondo, che ha allagato un territorio di 500 chilometri quadrati e cambiato la vita di migliaia di persone in un’area assai più vasta. Belo Monte è stata giustificata dalla fame di elettricità del Brasile, soprattutto durante l’ultimo boom economico, qualche anno fa. Può arrivare a fornire, dicono, il 10 per cento del fabbisogno nazionale. È una energia pulita e rinnovabile. Le obiezioni, passate e presenti, di scienziati e ambientalisti riempiono invece volumi e videoteche. Vanno da questioni di efficienza (lo Xingu ha una portata limitata nella stagione secca e la centrale lavora a bassissimo regime) a questioni di impatto sociale e di diritti umani. L’allarme lanciato di recente è che, dopo qualche anno di operatività, è cambiato tutto l’ecosistema nella regione, soprattutto nella fauna acquatica che serve di alimento ad alcune popolazioni indigene. «Lo Xingu sta morendo, stiamo assistendo a un ecocidio e un genocidio» ha accusato una giudice di Altamira, Thais Santi, punto di riferimento di decine di osservatori arrivati in città dopo la crisi degli incendi di agosto. Lei e altri 23 pm della regione hanno firmato una raccomandazione al governo affinché venga rivisto il cosiddetto «idrogramma» di Belo Monte, cioè la gestione delle acque da parte della centrale. Minacciando un’azione legale, che potrebbe condurre allo stop della centrale. La Norte Energia sostiene che nessuna terra indigena è stata allagata e nessuna tribù ha dovuto traslocare. Ma - per mancanza di pesce a valle della diga - gli indios ricevono sussidi in forma di pacchi di cibo industrializzato pronto al consumo, che non avevano mai assaggiato prima. La denutrizione infantile è esplosa, così come le file negli ambulatori. Nella stessa regione, la società mineraria canadese Belo Sun sta spingendo la popolazione locale e i poteri politici del Pará per ottenere l’autorizzazione a sfruttare quella che sarebbe la più grande miniera d’oro a cielo aperto del Brasile. E inquinare con i rifiuti quel che resta della Volta Grande dello Xingu, accusano gli ambientalisti. L’innalzamento del fiume a causa della nascita del lago artificiale ha portato allo spostamento di 23.000 abitanti, la maggior parte da quartieri poveri della città (a 40 chilometri a monte dalla diga!) a rischio allagamento nella stagione di piena del fiume. Ho visitato i nuovi quartieri popolari di Altamira, costruiti dalla Norte Energia, la concessionaria della centrale, come uno degli obblighi del contratto. Sono tristi e pieni di problemi sociali, tra i quali l’esplosione di violenza e droga, e gli abitanti sostengono che le case cadono a pezzi dopo cinque anni, da tanto che si è risparmiato in cemento nella costruzione. A São Joaquim, vicino agli evacuati, vivono anche i tecnici e gli ingegneri della Norte Energia. Ma il loro quartiere di casette a schiera ha tutta un’altra faccia, oltre ad essere separato dal resto da chilometri di filo spinato. Culmine dell’esplosione di violenza un regolamento dei conti tra bande rivali nel carcere locale, lo scorso luglio. Ci furono 57 morti, di cui 16 decapitati, da decenni non si vedeva niente del genere in Brasile. Invasa da migliaia di tecnici e operai, una città tranquilla si è trasformata in un caos di motorini e offerte commerciali. Tra cui, mi hanno passato un depliant in strada, la proposta di installare il fotovoltaico in casa «per non pagare mai più le esose bollette elettriche». Sembra uno scherzo, a pochi chilometri da una potenza installata di 11.000 megawatt. La città si gira in mototaxi, il casco lo usano tutti ma dei dieci che ho preso in tre giorni soltanto la metà hanno sostenuto di avere tutti i documenti in regola.

Viaggio in Amazzonia: gli agricoltori che bruciarono la foresta «per far pressione su Bolsonaro». Il giornalista Adecio Piran: «Furono loro a proclamare una “Giornata del fuoco”. Volevano che il presidente (da loro votato) mantenesse le sue promesse sullo stop ai controlli ambientali e alle multe». Rocco Cotroneo su Il Corriere della Sera il 20 novembre 2019. «La foresta la bruciano ogni anno in questo periodo, prima della stagione delle piogge. Solo che stavolta gli è scappata la mano, si sentivano onnipotenti. E il disastro ha fatto il giro del mondo». Adecio Piran siede in una stanzetta senza finestre, una vecchia scrivania, computer portatile e cappello in testa. È la redazione del suo giornale personale, Folha do Progresso, unica pubblicazione della cittadina epicentro degli incendi dolosi in Amazzonia. Perché Novo Progresso, ironia del nome, è un Brasile d’altri tempi: qui dominano l’illegalità, la prepotenza, la legge del più forte. Piran non aveva la più pallida idea dell’effetto che avrebbe avuto quella breve notizia sul suo sito, lo scorso 5 agosto. Diceva così: agricoltori e allevatori di Novo Progresso hanno proclamato per domenica prossima la «Giornata del fuoco». Andiamo tutti insieme a bruciare la foresta. «Mi chiesero loro di pubblicarla, volevano addirittura pagarmi. Dobbiamo far pressione su Bolsonaro, dissero, affinché mantenga le sue promesse. Basta con i controlli ambientali e le multe. Qui l’abbiamo votato tutti».

Pressioni e minacce. Qualche giorno dopo, decine di migliaia di ettari di foresta attorno a Novo Progresso vennero davvero messi a ferro e fuoco, il fumo viaggiò migliaia di chilometri fino a San Paolo e da lì la notizia del nuovo attentato all’Amazzonia verso il resto del mondo. Sotto pressione internazionale, dopo aver negato l’evidenza, il governo di Brasilia mandò qui e altrove l’esercito. «Cominciarono le pressioni e le minacce - racconta il giornalista –. Mi ritenevano il colpevole di tutto. Dovetti cambiare aria e me ne andai per qualche settimana a casa di mio fratello, nel Mato Grosso». Discendente di veneti arrivati in Amazzonia negli anni Settanta dal sud del Brasile, Piran non si sente un eroe. Al contrario. «Purtroppo qui vivono tutti di illegalità: invasione della foresta, pascoli, miniere d’oro clandestine. Raccontassi davvero tutto...».

Case, segherie e compro oro. Novo Progresso è la morte annunciata della foresta. Trentamila abitanti, disoccupazione zero. Case, segherie e compro oro. Sei società aeree offrono voli per piste clandestine nella foresta. Il tutto ai margini della statale BR-163, la strada che taglia in due Mato Grosso e Pará e arriva al Rio delle Amazzoni. Per decenni gli ambientalisti hanno lottato affinché non venisse asfaltata, proprio perché sono le strade ad accelerare la morte della foresta. Ora è quasi ultimata, mancano una manciata di chilometri. In centro il monumento al «garimpeiro», il cercatore d’oro. «Sono stati i nostri eroi, hanno aperto il cammino verso la foresta, morti quasi tutti di malaria negli anni Settanta» spiegano in città. Insieme all’apertura di nuovi pascoli per i bovini, la ricerca d’oro (illegale al 99%) è una delle cause dell’avanzata verso la foresta vergine. Dopo il famoso «Dia do fogo», quella domenica, attorno a Novo Progresso i sistemi satellitari hanno identificato 200 incendi in aree di preservazione totale e 15 in terre indigene. Piran spiega che ormai la penetrazione all’interno ha raggiunto i 200 chilometri. «Da gennaio a maggio hanno tagliato alberi senza sosta. Credo che non si siano mai vendute tante motoseghe in un solo posto al mondo. Poi l’idea di dar fuoco tutti insieme era per dribblare i controlli satellitari. Idea stupida, tra l’altro».

Un devastante circolo vizioso. Per giorni e giorni il fumo ha oscurato il cielo. Un pilota racconta che in un volo da qui a Alta Floresta (1 ora e 45) non ha visto altro che fumo, tranne l’ultima mezz’ora. Secondo un’antica consuetudine, appena le fiamme si spengono, sulle braci ancora calde, si semina l’erba da pascolo che poi spunta alle prime piogge. Poi dopo qualche settimana entrano i bovini. E la foresta non torna mai più. Passato qualche anno, anche il pascolo diventa improduttivo e viene abbandonato. A quel punto bisogna bruciare altra foresta. È il circolo vizioso che sta devastando l’Amazzonia, a causa del business della carne. In realtà è il metodo più stupido e a buon mercato. In altre regioni del Brasile esistono tecniche agricole che fanno a meno del fuoco e i terreni si rinnovano per sempre. Ma qui aprire nuovi pascoli su terre pubbliche e vergini è talmente un buon business «che nemmeno si curano di portar via il legname», spiega Piran. Troppo lontano e faticoso e si rischia di venire intercettati. Meglio bruciare tutto.

Tagliati anche i fondi. Tutti conoscono nomi e cognomi dei «fazendeiros» che occupano e distruggono la foresta, e di tutti quelli che lavorano ad altre attività illegali. La polizia sta indagando, ci sono indiziati ma è difficile trovare le prove per condannarli. Dopo lo scandalo di agosto a Novo Progresso hanno chiuso i gruppi di Whatsapp e buttato via i cellulari. I controlli sono sempre meno, Bolsonaro ha tagliato i fondi. «Sono pessimista. Senza una grande mobilitazione internazionale l’Amazzonia è condannata» dice Piran. E lui vi assisterà in prima fila da Novo Progresso, dietro la sua scrivania, senza nemmeno poter fare l’eroe per caso.

Viaggio in Amazzonia: tra i pionieri veneti del Mato Grosso (che dovevano aprire spazio nella foresta). Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it da Rocco Cotroneo. I discendenti degli emigrati italiani in Brasile: «Negli anni Ottanta la dittatura regalava 100 ettari di terreno, metà del quale andava conservato e metà era da coltivare. Poi lo Stato non ha controllato le invasioni...«Vien vien che te conto tuto, in “talian” se te voi». Darci Zanon, 72 anni, risponde in dialetto al telefono e poi mi aspetta con un gran sorriso sulla porta di casa appena fuori la città di Guarantã do Norte. Una villetta circondata da ogni genere di alberi da frutta tropicale, dal mango alla jabuticaba. Siamo appena entrati nello Stato del Mato Grosso, arrivando da nord, per imbatterci in una delle storie più curiose dell’emigrazione italiana. Quando il governo militare brasiliano nei primi anni Ottanta decise la colonizzazione di questa parte dell’Amazzonia, all’epoca intatta, offrì terre ad agricoltori di comunità del sud del Paese. Dalle colline del Rio Grande do Sul arrivarono inevitabilmente discendenti di italiani, la stragrande maggioranza in quella regione. Di veneti, per meglio dire. La parlata di Zanon («talian», e ha dignità di lingua, con tanto di dizionari) si è dunque trasferita intatta nel tempo, da fine Ottocento, qui sotto il sole dell’Amazzonia, grazie a questa vicenda pressoché unica di seconda emigrazione. Zanon e altre 500 famiglie arrivarono da una città chiamata Erechim. «Terra ne avevo anche lì, i miei 8 ettari potevano anche bastare, ma era così ripida... Una fatica». Qui invece sembrava un sogno. Tutto piatto, 100 ettari gratis di foresta a famiglia, metà da lasciare intatta. L’altra da bruciare e coltivare al più presto, pena la rescissione dell’accordo. «Non è vero che all’epoca non ci fosse coscienza ambientale. D’accordo che abbiamo bruciato un sacco di foresta, ma l’altra metà, quella che non abbiamo toccato, l’hanno occupata altri negli anni successivi e distrutto. È lo Stato il responsabile, perché non ha saputo controllare le invasioni» si difende Zanon. Ogni domenica mattina prima della messa, nella locale fm Radio Meridional, l’agricoltore conduce un programma in «talian», racconta storie e commenta quelle di chi telefona. «Ogni tanto ci scappa qualche frase in portoghese, ma è normale. Succede anche qui in casa con mia moglie». Mantenere viva la lingua con il passare delle generazioni è un cruccio della comunità dei veneti d’Amazzonia. Zanon ha lottato per far rivivere l’Associazione di cultura italiana di Guarantã e mi ha portato a visitare la nuova sede, che sarà inaugurata a breve. Con una gran grigliata di carne, ovviamente, il «costelão» di bue fatto alla moda del sud, impalato con la brace sotto. Il cruccio principale però è mantenere viva la lingua, con il passare delle generazioni. Un gruppo di professoresse in pensione, tra cui sua moglie, intendono mettere in piedi corsi di «talian» per coinvolgere i più giovani. «No, non sono mai stato in Italia e mi piacerebbe tanto. Conoscere Venezia». Zanon e gli altri sanno poco delle proprie origini, da dove partirono gli antenati. Può stupire, considerata l’evidenza del legame, ma la spiegazione arriva subito. A differenza di centinaia di migliaia di brasiliani di origine italiana - che affollano i nostri consolati in file che durano decenni - quasi nessuno qui ha chiesto il recupero della cittadinanza e il secondo passaporto. Quindi non hanno fatto indagini per via dei certificati. Proprio loro che ne avrebbero più diritto. «Ma io sto bene qui, sono felice. I miei figli e nipoti resteranno su queste terre. La nostra città sta crescendo, arriverà l’Università e un sacco di nuovi ragazzi. Anche se voi pensate che l’Amazzonia sia tutta un disastro e un Far West, qui c’è un’altra realtà. Una agricoltura di qualità che funziona, soprattutto». Difficile dar torto a Zanon. Nel lungo viaggio iniziato a São Luis do Maranhão, a 3.000 chilometri da qui, il più forte stacco l’ho sentito nella penultima tappa, quando si è entra definitivamente nell’Amazzonia «bianca». Cambiano le facce, gli accenti, le abitudini. Per le strade di Guarantã, a 40 gradi, si beve il «chimarrão», quel té bollente di erbe aromatiche che gli argentini chiamano «yerba mate». Se la foresta a nord è stata colonizzata in prevalenza da emigranti del nordest brasiliano, qui i «sudisti» hanno portato un altro livello di organizzazione, una cultura secolare di lavoro della terra, tipica della loro patria d’origine. Poi c’è stato un secondo importante contributo. A partire dal 1999 un programma finanziato dalla cooperazione italiana e coordinato dall’Ambasciata di Brasilia ha insegnato agli agricoltori locali a controllare gli incendi in agricoltura. Si chiamava «Amazônia sem fogo» (Amazzonia senza fuoco) e lo ricordano tutti con entusiasmo. A Guarantã, in particolare, portò a una riduzione dei roghi del 93 per cento, praticamente azzerandoli. Era un programma di coscientizzazione ambientale, ma soprattutto di insegnamento di tecniche: in che modo, per esempio, sostituire con altri metodi la tradizionale «queimada» (l’incendio), per rinnovare il terreno a fine stagione. 

Amazzonia: appiccavano roghi, arrestati 4 volontari Ong. Ma la sinistra accusa: "Montatura per dare ragione a Bolsonaro". Operazione polizia Brasile, gli indagati fanno parte dell'associazione Psa che si batte contro incendi. La protesta del deputato del Psol. Polizia: il Wwf ha ottenuto per loro donazioni, come quella dell'attore Leonardo Di Caprio, per 500 mila dollari, per combattere i roghi in Amazzonia. Alberto Custodero il 27 novembre 2019 su La Repubblica. La polizia brasiliana ha arrestato quattro volontari di una Ong che combatte i roghi forestali in Amazzonia, accusandoli di aver appiccato incendi ad Alter do Chao, paradisiaca località nello Stato del Parà, per ottenere finanziamenti internazionali. Ma l'indagine solleva una polemica politica: insorge la sinistra radicale accusando gli investigatori di aver creato ad arte una montatura per dare ragione al presidente del Brasile Jair Messias Bolsonaro che nei mesi scorsi aveva accusato le Ong di essere responsabili degli incendi. Gli agenti hanno perquisito la sede del Progetto Salute ed Allegri (Psa) a Santarem, dove hanno sequestrato computer e documenti e arrestato i quattro volontari, tre dei quali sono attivi nella brigata antincendio di Alter do Chao. Un portavoce della polizia ha detto che sono sospettati di essere responsabili degli incendi registrati nella zona nel settembre scorso. In base ad intercettazioni telefoniche, ha spiegato, la polizia ha scoperto che la Ong "aveva ottenuto un contratto con il Wwf, al quale hanno venduto 40 immagini per 70 mila reais (circa 15 mila euro) e il Wwf ha ottenuto per loro donazioni, come quella dell'attore Leonardo Di Caprio, per 500 mila dollari, per combattere i roghi in Amazzonia". Il direttore del Psa, Caetano Scannavino, ha respinto le accuse, che ha definito assurde. "Sembra quasi uno scherzo, una situazione senza senso", ha detto in una conferenza stampa, aggiungendo che "ora manca solo che vadano ad arrestare i volontari che stanno pulendo le chiazze di greggio sulle spiagge". Il deputato Edmilson Rodrigues, del Partito Socialismo e Libertà (Psol, sinistra) ha ricordato che il presidente Jair Bolsonaro ha accusato le Ong di essere responsabili degli incendi in Amazzonia, aumentati in modo drammatico durante gli ultimi mesi. "Questa è chiaramente una montatura, una storia che stanno inventando per dare ragione a Bolsonaro", ha detto, sottolineando che "non si può permettere questa criminalizzazione dei movimenti sociali e delle Ong". Verso la metà di settembre lo Stato del Parà, il secondo più grande dell'Amazzonia brasiliana, aveva richiesto il sostegno dell'esercito per combattere un incendio apparentemente doloso in una riserva ambientale, dove vigili del fuoco e gruppi di volontari non riuscivano a domare il rogo. Vista l'entità dell'incendio nella riserva di Alter do Chao, il governatore locale Helder Barbalho aveva chiesto al governo del presidente Jair Bolsonaro di inviare soldati della Zona Militare del Nord e truppe della Forza nazionale di pubblica sicurezza. Il sindaco di Santarem, Nelio Aguiar, allora aveva dichiarato: "Sono in corso indagini della polizia su alcune persone che starebbero devastando l'area per poi mettere in vendita lotti della riserva ambientale". Ieri la svolta dell'inchiesta, tra le polemiche politiche.

Incendi Amazzonia, è giallo sulla liberazione dei volontari arrestati. I Verdi italiani attaccano Bolsonaro. Il sito Impacto annuncia la liberazione degli arrestati, ma la notizia non è ufficiale. L'ecologista Angelo Bonelli attacca il presidente brasiliano: "Il suo è un teorema del mondo alla rovescia: accusa chi spegne gli incendi, indios e volontari, e non chi li vuole sfruttare". Alberto Custodero e Daniele Mastrogiacomo il 29 novembre 2019. Stanno per essere liberati da un giudice i quattro volontari di una ong che combatte i roghi forestali in Amazzonia, arrestati dalla polizia nei giorni scorsi con l'accusa di aver appiccato incendi ad Alter do Chao, paradisiaca località nello Stato del Parà, per ottenere finanziamenti internazionali. Ma è scontro tra la polizia, che ha arrestato i volontari, e la procura federale che, invece, punta i suoi sospetti sugli accaparratori di terre, l'occupazione selvaggia e la speculazione immobiliare. La vicenda ha un risvolto politico internazionale: gli arresti della polizia rafforzano infatti la tesi di Bolsonaro che da tempo accusa indios e ong di appiccare gli incendi, e ciò avviene - forse non casualmente - proprio a ridosso della 25° Conferenza delle Parti dell'Onu sul cambiamento climatico che si terrà a Madrid dal 2 al 13 dicembre alla quale parteciperà lo stesso presidente brasiliano. C'è poi una ripercussione in Italia, con il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, che contesta "il teorema del mondo alla rovescia" dello stesso Bolsonaro che "accusa chi spegne gli incendi e non chi li vuole sfruttare". La notizia della imminente liberazione dei quattro volontari - ancora non ufficiale - è stata rilanciata dal sito The Impact: "La giustizia rilascia gli arrestati nell'operazione Fogo do Sairé" titola il network online con sede a Prainha. Ecco la storia. Ci sono quattro volontari di una nota ong dell'Amazzonia, la Alter do Chão (Apa) di Saltarém, nello Stato brasiliano di Pará, che sono finiti in carcere perché accusati di essere dei piromani. Secondo l'accusa della polizia, provocavano incendi che poi spegnevano per ottenere finanziamenti da organizzazioni ambientaliste internazionali. Ma l'operazione della polizia ha tempistiche forse non casuali e curiosamente fa gioco al presidente brasiliano. Da sempre ostile alle ong, Jair Bolsonaro ne ha subito approfittato per stigmatizzare la Apa e sostenere quello che ha sempre detto: "I responsabili degli incendi sono proprio le ong". Con ogni probabilità, sosterrà questa tesi nei prossimi giorni proprio a Madrid. L'intera vicenda sembra una vera provocazione. Perché non solo le prove dell'accusa, raccolte dalla Polizia civile, sono risultate confuse e deboli ma si sospetta che le indagini siano state avviate proprio per distogliere l'attenzione sui veri responsabili della serie di incendi che fino a ottobre scorso hanno devastato il cuore della foresta pluviale. Con un comunicato tutt'altro che diplomatico, è scesa in campo la Procura Federale che ha chiesto subito tutti gli atti dell'inchiesta alla Polizia civile. La procura si è sorpresa delle indagini visto che da settembre scorso era in piedi un'inchiesta proprio sulle cause degli incendi che stavano distruggendo l'Amazzonia. "Nell'inchiesta della Polizia Federale", si legge in un comunicato diffuso in mattinata, "nessun elemento ha indicato la partecipazione della brigata o delle organizzazioni delle società civile. Al contrario, la linea delle indagini federali, seguita dal 2015, punta i suoi sospetti sugli accaparratori di terre, l'occupazione selvaggia e la speculazione immobiliare come cause del degrado ambientale di Alter (la zona tutelata coinvolta dai roghi, ndr). Poiché si tratta di una delle località più famose del paese", ricorda la nota della Procura Federale, "la regione è oggetto dell'avidità delle industrie turistiche e immobiliari ed è sotto pressione da parte degli invasori di terre pubbliche". I quattro membri della Brigata della ong Alter do Chão, definita da Bolsonaro "terroristica", stando alle accuse avrebbero provocato il rogo di un'area grande come 1.600 campi di calcio. Ci sono voluti quattro giorni per circoscrivere le fiamme. Appiccare e poi spegnere gli incendi, sempre secondo l'accusa, avrebbe consentito alla ong di ottenere una serie di finanziamenti, vendendo foto in cui apparivano al lavoro e altre immagini acquistate dal Wwf. Fondi sarebbero arrivati anche da Leonardo di Caprio che l'estate scorsa era intervenuto nella battaglia contro la devastazione dell'Amazzonia. Le prove offerte dal delegato della polizia civile, José Humberto Melo Júnior, sarebbero dei video e delle intercettazioni telefoniche che sono state rese pubbliche ma non dimostrano alcunché. La difesa dei quattro spiega che mostrano le fasi di addestramento dei volontari assieme ai vigili del fuoco e le intercettazioni parlano delle perplessità che alcuni dei quattro arrestati sulla corretta destinazione dei fondi che venivano offerti da tutto il mondo. Il Wwf ha smentito di aver mai acquistato delle immagini dalla ong e spiegato che i fondi, 70.600 reais, circa 16 mila euro, servivano solo per l'acquisto di attrezzature antincendio. L'intervento della Procura Federale, che sta indagando su tutt'altra direzione, a questo punto potrebbe creare un serio conflitto e smascherare l'intera operazione. La sua è una chiara denuncia nei confronti di chi ha fatto le indagini e perché le ha indirizzate contro qualcuno che tra mille difficoltà e in modo volontario da guardiano della foresta è stato trasformato in piromane. L'obiettivo è dirottare l'attenzione degli investigatori sui veri potenziali responsabili, già individuati, e fornire un supporto alla politica di Bolsonaro contro le ong, fastidiosi ostacoli alla privatizzazione dell'Amazzonia. Angelo Bonelli conosce personalmente la ong e il suo presidente. "Le prove portate dall'accusa - sostiene il leader dei Verdi - sono dei video fatti dagli stessi arrestati che hanno ripreso l'incendio mentre tentavano di spegnerlo accuse inesistenti che si commentano da sole, mentre altre prove dell'accusa sono le donazioni che il Wwf Brasil ha fatto ai volontari attraverso un contratto di 70.000 real (16.000 euro) e la donazione dell'attore americano Leonardo di Caprio di 500 mila dollari sempre al Wwf." "La ong - spiega Bonelli - fondata nel 1987, opera in una parte dell'Amazzonia dove è più forte il conflitto sociale e ambientale legato alla deforestazione e agli interessi di cercatori d'oro, delle compagnie minerarie, coltivatori di soja e di commercianti di legno, grazie alla sua attività  la mortalità infantile è stata ridotta del 75% tra le popolazioni locali, indios, quilombolas e caboclo attraverso due barche ospedali con le quali forniscono assistenza socio sanitaria, tutto l'anno, alle popolazioni della foresta". "Al summit Onu  sul clima di settembre - ricorda l'ecologista - il presidente Bolsonaro aveva duramente attaccato il leader indios Raoni, candidato premio Nobel per la pace, mentre nel mese di ottobre scorso  il governo aveva accusato la nave di Greenpeace di essere la responsabile di uno dei più gravi sversamenti di petrolio nell'area della costa del Nord Est: nel frattempo il governo Bolsonaro ha proposto di ridurre tutte le unità di conservazione, ovvero parchi, e riserve indigene in Amazzonia per autorizzare le ricerche minerarie". "Come Verdi italiani da oltre 15 anni collaboriamo e sosteniamo la ong e con lei si vuole eliminare un presidio di difesa ambientale e dei diritti umani e sociali di indios e popolazioni della foresta, creando un assurdo teorema: sono gli ambientalisti e le ong a distruggere la foresta: viviamo in un mondo alla rovescia".

Brasile: Bolsonaro accusa DiCaprio per gli incendi Amazzonia. Liberati i volontari accusati di appiccare i roghi. Edoardo Bolsonaro, figlio del presidente del Brasile, via Twitter ha sostenuto che DiCaprio ha versato 300.000 dollari "alla Ong che ha incendiato l'Amazzonia" e che il Wwf ha raccolto per loro donazioni. Alberto Custodero il 30 novembre 2019 su La Repubblica. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha accusato l'attore e attivista per l'ambiente Leonardo DiCaprio di aver finanziato gli incendi nella foresta amazzonica. "Questo Leonardo DiCaprio è uno figo, no? Dare soldi perchè l'Amazzonia venga data alle fiamme", ha accusato Bolsonaro, secondo quanto riporta Folha de S. Paulo. Solo 24 ore prima, il presidente del Brasile, aveva lanciato un analogo attacco durante un live su Facebook, denunciando un presunto coinvolgimento della star di Hollywood "nella campagna contro il Brasile". Lo scorso agosto DiCaprio ha annunciato che la sua fondazione Earth Alliance avrebbe donato cinque milioni di dollari alle ong brasiliane impegnate a combattere gli incendi e difendere l'Amazzonia. E tra queste le ong che Bolsonaro accusa di provocare questi incendi proprio per raccogliere più fondi. "Che cosa fanno le Ong? Qual'è la cosa più facile? Incendiare la foresta. Scattano foto, girano video, una campagna contro il Brasile, si mettono in contatto con Leonardo DiCaprio e lui dà il denaro", ha affermato Bolsonaro senza presentare prove a sostegno delle sue accuse. "Una parte del denaro è andato alle persone che stavano provocando gli incendi. Leonardo DiCaprio - ha insistito il presidente - sta contribuendo agli incendi in Amazzonia". Le accuse di Bolsonaro a DiCaprio sono state precedute dall'arresto di quattro vigili del fuoco volontari in Brasile, poi rilasciati ieri, che la polizia ha accusato di aver appiccato il fuoco per conto di una ong per ottenere attenzione e fondi internazionali. Arresti che hanno suscitato la reazione della sinistra brasiliana e dei Verdi italiani che sospettano che la polizia abbia fatto una indagine per avvalorare le tesi anti ong e anti indios dello stesso Bolsonaro. Nei giorni scorsi c'era stato uno scontro fra la polizia e la procura distrettuale che indagava in un'altra direzione, quella di chi era interessato a distruggere le foreste per speculazioni immobiliari. Edoardo Bolsonaro, figlio del presidente del Brasile, via Twitter ha sostenuto che DiCaprio ha versato 300.000 dollari "alla Ong che ha incendiato l'Amazzonia" e che il Wwf ha raccolto per loro donazioni. Dopo i devastanti incendi dello scorso agosto, DiCaprio si era impegnato a raccogliere finanziamenti per 5 milioni di dollari per l'Amazzonia, considerata il polmone del pianeta.

Bolsonaro attacca DiCaprio: «Ha finanziato i roghi in Amazzonia». Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro accusa Leonardo DiCaprio di finanziare gli incendi che stanno devastando l’Amazzonia da agosto. «Questo Leonardo DiCaprio è un bravo ragazzo, vero? Fornisce (alle ong) il denaro per incendiare l’Amazzonia», ha detto il capo di Stato brasiliano puntando il dito, senza citare alcuna prova, contro l’attore americano da sempre impegnato in difesa dell’ambiente con la sua fondazione Earth Alliance. Proprio ad agosto la star di Hollywood aveva annunciato la donazione di cinque milioni di dollari alle organizzazioni impegnate a combattere gli incendi e difendere l’Amazzonia. E tra queste le organizzazioni che Bolsonaro accusa di provocare i roghi proprio per raccogliere più fondi. «Che cosa fanno le ong? Qual è la cosa più facile? Incendiare la foresta. Scattano fotografie, girano video, una campagna contro il Brasile, si mettono in contatto con Leonardo DiCaprio e lui dà il denaro», ha aggiunto. «Una parte del denaro è andato alle persone che stavano provocando gli incendi. DiCaprio sta contribuendo agli incendi in Amazzonia». Ad accusare l’attore anche il figlio del presidente, il deputato Eduardo Bolsonaro, che nei giorni scorsi su Twitter aveva detto che DiCaprio ha donato 300mila dollari «alla ong che incendia l’Amazzonia» e ha accusato il Wwf di aver pagato 70mila reis (circa 15mila euro) alla ong per le fotografie della foresta in fiamme. Intanto venerdì sono stati liberati i quattro vigili del fuoco volontari che la polizia locale aveva arrestato con l’accusa di aver appiccato — a settembre — un incendio ad Alter do Chao, nello Stato del Parà, per aumentare la raccolta dei fondi. E proprio l’asssociazione per la difesa dell’ambiente e delle specie a rischio respinge con forza le accuse e ha pubblicato un video su Twitter, scrivendo: «Che cos’è la verità o la menzogna? E cosa c’entra Leonardo DiCaprio con tutto questo? Il video riassume ciò che vuoi e devi sapere al riguardo».

Amazzonia, volontari ong arrestati: davano fuoco agli alberi per avere soldi. Aveva ragione Bolsonaro. Antonio Pannullo mercoledì 27 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Amazzonia, aveva ragione il presidente Bolsonaro. Aveva accusato certi ambientalisti di speculare sugli incendi. La polizia brasiliana ha arrestato quattro “volontari” della ong Psa, Progetto salute e Allegri). I “volontari” sono accusati di aver appiccato roghi nella zona Alter do Chao, nello Stato del Parà. Allo scopo di ottenere i generosi fondi internazionali e di ottenere attenzione mediatica in funzione anti-Bolsonaro. La polizia ha effettuato perquisizioni e sequestri nella sede della ong a Santarem. Guarda caso, tre degli “attivisti” sono anche nelle squadre antincendio di Alter do Chao. In quella zona a settembre sono divampati furiosi incendi. Nulla di nuovo sotto il sole, ma solo Bolsonaro aveva formulato accuse precise.

Amazzonia, la ong aveva un contratto col Wwf. Come riporta TgCom24, gli inquirenti erano ricorsi alle intercettazioni telefoniche. Dalle quali avevano scoperto che la ong avevano ottenuto un contratto nientemeno che con il Wwf. L’associazione ambientalista aveva comprato per 15mila euro le foto degli incendi dalla Psa. E grazie a queste foto il Wwf aveva ottenuto generosissime donazioni. Come quella dell’attore “caritatevole” Leonardi Di Caprio, che gli ha elargito ben mezzo milione di dollari. Tutto al nobile scopo di “combattere i roghi in Amazzonia”.

Si sospettò subito che gli incendi fossero dolosi. Nel luglio scorso c’era stato un picco di incendi in Amazzonia. Di questi incendi venivano fornite ai network immagini sensazionali allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica affinché aprisse il portafoglio. Il mese successivo il presidente brasiliano Bolsonaro ha espplicitamente accusato alcune ong e alcuni ambientalisti di esswre responsabili dei roghi. Bolsonaro ha detto anche di più. “Sospetto che dopo aver appiccato gli incendo qualcuno vada in giro con telecamere per riprendere la devastazione”. Da ricordare anche che il governatore dello Stato del Parà Barbalho e il sindaco di Santarem Aguiar avevano allor alanciato l’allarme. Crediamo – avevano detto – che alcune persone abbiano dato dolosamente fuoco alle foreste. I due avevano anche chiesto al presidente federale di inviare l’esercito, perché i pompieri non ce la facevano. Ovviamente la sinistra brasiliana nega tutto con forza.

Fuoco sui difensori dell'Amazzonia, uccisi due "Guardiani della foresta". Il ministro della Giustizia promette azioni di polizia, ma il presidente Bolsonaro tace. Daniele Mastrogiacomo l'8 dicembre 2019 su La Repubblica. Un mese fa era toccato a Pualino Guajajara, capo pattuglia dei "Guardiani della Foresta". Sorpreso con suo cugino da un gruppo di tagliaboschi illegali è stato fatto fuori con due colpi al petto. Ieri è stata la volta di altri due membri della tribù: un’auto di colore bianca è passata sulla BR-226, l’arteria che taglia in due l’Amazzonia brasiliana, ha rallentato davanti al gruppo di indigeni che stava rientrando da una riunione sul tema della sicurezza e ha esploso numerosi colpi di arma da fuoco. Raimundo e Firmino Guajajara sono morti, altri due sono rimasti gravemente feriti. L’agguato è avvenuto attorno alle 12:30, tra i villaggi di Boa Vista e El Betel, 506 chilometri a sud di São Luis, la capitale dello Stato di Maranhão. E’ l’ennesimo attentato nei confronti di questa vasta tribù indigena presa di mira per il suo impegno per la difesa delle aree protette e la battaglia contro l'esercito di garimpeiros che appicca gli incendi nella foresta pluviale. La sparatoria e il duplice omicidio hanno subito attirato decine di indigeni accorsi da tutta la zona. Si sono riversati sulla strada, hanno gridato la loro rabbia, pianto le nuove vittime, soccorso i feriti che, colpiti a braccia e gambe, rischiavano di morire dissanguati. La voce si è estesa al resto del Brasile. Il ministro della Giustizia Sergio Moro ha condannato l’agguato e ha twittato: “La Polizia federale ha già inviato una squadra sulla scena e indagherà sul crimine e sulla sua motivazione. Valuteremo la possibilità di inviare del personale delle forze nazionali nella regione. La nostra solidarietà con le vittime e le loro famiglie”. Sônia Guajajara, già candidata a vice presidente dello Stato con il Psol, presente in questi giorni a Madrid per il vertice sul clima, ha denunciato l’escalation di violenza e di aggressioni nei confronti degli indigeni che vivono in quel territorio. “Altri due fratelli Guajajaras sono stati assassinati a Maranhão. Niente più vittime, non vogliamo più martiri, vogliamo voci dal vivo”, ha postato su Twitter. Il sito tedesco Deutsche Welle che ha dei collaboratori sul posto, racconta che c’erano “almeno cinque persone a bordo dell’auto bianca”, a conferma della versione fornita dal capo della tribù Magno Guajajara. Amnesty International ha condannato l’attacco e ha chiesto “immediati chiarimenti sulle circostanze di queste morti e sulla realizzazioni dei diritti umani delle popolazioni indigene”. A parte il tweet del ministro della Giutizia, colpisce il silenzio del governo. Il presidente Bolsonaro ha sempre evitato commenti di condanna. La sua posizione sull’Amazzonia è nota: appartiene al Brasile che ne farà l’uso che riterrà più opportuno. Stesso giudizio nei confronti degli indigeni: non confermerà i confini dei loro territori. Sono ricchissimi di materie prime e vanno sfruttati, quindi aperti alle multinazionali e ai privati. Anche a costo di qualche vittima che si ostina a difendere foreste e terre da sempre appartenute ai loro avi e a loro affidate dalla Costituzione. I nemici non sono i sicari al soldo di chi vuole quelle aree ma le ong e le associazioni a difesa delle tribù “che vogliono mantenere isolati gli indigeni”. 

Amazzonia: il testamento di Paulino nel video di Survival. E su 7 il reportage tra i Guardiani della foresta. Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 da Rocco Cotroneo su Corriere.it. L’associazione ambientalista Survivallavora con gli indios che si battono contro i taglialegna in Brasile ed ha intervistato il militante 26enne poco prima che venisse ucciso in un’imboscata. Rocco Cotroneo racconta sul magazine del Corriere la sfida degli indigeni Guajajara: sono indios armati di spingarde, cellulari e droni; pattugliano i confini, localizzano i predatori di alberi e li costringono alla fuga. Storia di un gruppo di combattenti che ha già i suoi martiri. «Antonio, meu amigo, sono entrati! Hanno trattori e camion molto grandi, stanno tagliando tutto, distruggono dove passano. Aiutateci!». L’audio WhatsApp sorvola la foresta e arriva al cellulare del capotribù del villaggio Maçaranduba. Arriva dalla terra indigena Awá-Guajá, un centinaio di chilometri più a nord, sotto attacco dei cacciatori di legname pregiato. L’appello è in lingua guaja, simile ma non proprio la stessa di Antonio, che appartiene a un’altra etnia, i Guajajara. Nel dubbio, in audio segue anche un riassunto in portoghese. Antonio riunisce i suoi e decide: dobbiamo andar là subito, domani partiamo. Un vecchio pulmino per arrivare all’entrata della riserva, le amache, cibarie, quattro pentole, le spingarde per la caccia, reti per la pesca, i machete. E poi i telefonini, i caricatori solari e i droni. La missione è iniziata, può durare giorni o settimane. Può filare tutto liscio, oppure no. Dove non c’è potere dello Stato - o se c’è è lento o corrotto - sono nati in Amazzonia i Guardiani della foresta. Sono indios che si sono autoorganizzati in gruppi di sorveglianza dei loro territori e lavorano in due modi: con ronde periodiche, pattugliando i confini, oppure intervenendo in caso di necessità, come questa. Le terre indigene - cioè quelle che in Brasile lo Stato ha assegnato ai popoli nativi e solo da loro possono essere usate - possono essere gigantesche, vaste come intere regioni italiane. Solo gli indios che le abitano riescono ad orientarsi, trovare i sentieri, i fiumi che le attraversano. Purtroppo anche chi aggredisce la foresta ormai sa come muoversi. La terra indigena dove ci troviamo, il suo nome è Caru, è relativamente piccola con i suoi 173.000 ettari (comunque dieci volte il Comune di Milano). Lo Stato del Maranhão è affacciato sull’Atlantico: qui di foresta ne è rimasta davvero poca, la distruzione è cominciata secoli fa, il 75 per cento del territorio è già disboscato. «In pratica sono rimaste solo le riserve indigene nel mirino dei predatori di legname e degli allevamenti clandestini», spiega padre Claudio Bombieri, comboniano di Verona arrivato oltre 30 anni fa e che da allora lavora con gli indios. «Purtroppo le connivenze sono enormi, e non mi vengano a dire che il territorio è immenso e inaccessibile. I camion carichi di legna alla fine devono passare lungo le strade normali, arrivare a un porto... Ma davanti a una raffica di denunce non possono stare a guardare». È proprio così. Non è servito per esempio il via libera del governo Bolsonaro ai predatori della foresta: da quando è iniziata questa nuova e tragica stagione dei fuochi in Amazzonia il mondo ha saputo. E sta reagendo. Quando arrivo all’ aldeia (villaggio) dei Guajajara, Antonio e i suoi sono appena tornati dalla missione per la quale erano stati chiamati d’urgenza dagli indios vicini. Molto soddisfatti. Hanno segnalato per tempo la presenza degli invasori e le guardie forestali sono intervenute. Abbiamo percorso insieme, lungo il Rio Pindaré, una parte dell’area pattugliata. La foresta protetta è bellissima, ma oltre il fiume c’è un altro mondo. Un treno che corre giorno e notte trasportando minerale di ferro verso l’oceano, un paesaggio deteriorato da decenni di sfruttamento dove non cresce quasi più nulla. «Di là non c’è più un albero, e persino le vacche non hanno più nulla da mangiare perché il terreno è diventato sterile. Per questo attaccano la nostra terra», spiega Antonio. I “cugini” Guajá sono una etnia tra le più fragili e minacciate di estinzione dell’Amazzonia. Entrati in contatto con il mondo esterno da pochi decenni, hanno una cultura nomade e di sola caccia, quasi non conoscono l’agricoltura e sono ovviamente impreparati a difendersi. Ho vissuto l’emozione di conoscere due indios Guajá nati e cresciuti nel più totale isolamento, come fossero arrivati dalla preistoria, e che ora vivono in un villaggio prossimo a quello che mi ha ospitato (la storia di Carapirú e Jirohó è la quarta nelle serie Viaggio in Amazzonia su Corriere.it). I Guardiani partiti in tutta fretta due settimane prima sono entusiasti per l’esito della missione. Mostrano sul cellulare un servizio del tg regionale. Grazie alla localizzazione precisa dei predatori, la polizia è intervenuta sequestrando camion, trattori e legname. È una guerra di posizione, che dura da anni. Gli invasori costruiscono ponti sui fiumi, aprono sentieri con i trattori, tagliano gli alberi migliori e li portano nelle segherie clandestine. Poi bruciano quel che resta, fanno passare poche settimane e passano la mano agli allevatori, che seminano l’erba da pascolo e portano gli animali. Spesso migliaia di bovini (nell’assurda proporzione di un capo per ettaro), vengono lasciati soli per mesi a crescere. Quando le immagini satellitari li scoprono, è già troppo tardi. È questo il meccanismo alla base dell’ennesima crisi dell’Amazzonia, quella scoppiata ad agosto con il boom degli incendi che ha spaventato il mondo. Purtroppo, pochi giorni dopo la mia visita, i Guardiani sono stati attaccati a morte. In un’altra terra indigena, la Arariboia, una imboscata dei madereiros (cacciatori di legname) è costata la vita a Paulino Guajajara e gravi ferite a Laercio, suo compagno di ronda in quel momento. La notizia ha avuto una grande ripercussione in Brasile e nel mondo. Paulino aveva appena 26 anni ma era un leader riconosciuto tra gli indios del Maranhão, tra i fondatori dei Guardiani. È della generazione che ha detto basta a qualunque forma di compromesso con i nemici della foresta. Se un tempo anche qualche indio cedeva alla tentazione di contrabbandare gli alberi migliori (all’1 per cento del loro vero valore di mercato), oggi le popolazioni locali sono compatte. Per sopravvivere, e anche continuare a godere dei vantaggi della protezione dello Stato per la verità, devono mantenere la foresta in piedi e vincere la guerra contro gli invasori. Le ronde hanno una definizione giuridica incerta, ma ricevono aiuti da programmi di Ong e imprese. In pratica entrare nei Guardiani è diventata l’occupazione principale degli adulti maschi di un villaggio indigeno. Le donne, ancor più risolute sul tema, sono organizzate a loro volta in gruppi chiamati «Guerriere della foresta»: a loro spetta la militanza politica presso i vicini degli indios, i bianchi, come li chiamano, nei villaggi prossimi. Tengono incontri e corsi periodici di cultura della foresta, spesso con i bambini della scuole, spiegano perché va rispettata e mantenuta viva. «Penso che le Guerriere facciano un lavoro ancora più importante del nostro, perché in queste terre l’educazione ambientale è tutto», dice Antonio a fianco della moglie Rosilene, che ne fa parte. Claudio Guajajara, che è il capo dei Guardiani dell’ aldeia Maçaranduba, non ha potuto partecipare all’ultima missione dei suoi perché era impegnato, lontano da qui, in un corso di aggiornamento tecnologico. Finanziato da Greenpeace, insegna agli indios come usare le app di posizionamento con i cellulari, come marcare i punti, tracciare linee e infine mandare le denunce. Nei villaggi, gli indios hanno ormai una connessione Internet, ma in piena foresta, dove non c’è alcun segnale, i dati vanno raccolti e spediti successivamente. Claudio è poi diventato piuttosto bravo con un drone, uno degli strumenti in assoluto più utili contro la deforestazione clandestina, perché evita percorsi spesso impossibili o l’incontro faccia a faccia con gente potenzialmente pericolosa. La politica dei Guardiani della foresta è non andare allo scontro fisico con i cacciatori di legname, in caso di incontro e flagranza di reato, ma convincerli con le buone ad abbandonare i mezzi e andarsene dalla foresta. I volontari sono armati, certo, ma le spingarde servono ufficialmente solo per la caccia e i machete per i mille usi nella foresta. Ma non tutti sono della stessa opinione. Proprio dove è stato assassinato Paulino tempo fa sono stati diffusi video dove i Guardiani appaiono con il volto coperto e brandiscono armi ben più serie di una spingarda. Sono seguite polemiche: cosa sono alla fine queste squadre, che poteri hanno? Ed è per questo che gli invasori hanno attaccato a morte proprio nella terra Arariboia? I dubbi sono legittimi, in un continente dove le ronde di autodifesa (da guerriglieri, o narcos) si trasformano spesso in squadre paramilitari peggiori di coloro che vogliono combattere. Non succederà, giurano Antonio e i suoi. Questa non è una guerra, vogliamo solo difendere la foresta. Se lo Stato non fa nulla dobbiamo pensarci noi.

Clima, cosa c’entra la bresaola italiana con la deforestazione dell’Amazzonia. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. In 18 anni bruciati 361 milioni di ettari di alberi per fare posto a pascoli, soia e olio di palma: l’Italia tra i principali importatori. È un fenomeno che appare lontano, ma in realtà è direttamente collegato alla produzione di materie prime destinate all’esportazione: l’80 per cento della deforestazione è dovuta alla necessità di fare posto ai pascoli per la produzione di carne, soia e olio di palma, richiesti dai Paesi occidentali che consumano e anche sprecano sempre di più. Va poi aggiunta l’industria del legno che spesso fa da apripista al taglio delle foreste. Ecco perché dietro le immagini dell’Amazzonia che brucia (e non solo) si nasconde anche l’import europeo. L’Italia è il massimo importatore europeo di carne bovina congelata dal Brasile (25,4 mila tonnellate per 134,7 milioni di euro nel 2018). Il 50 per cento di questa carne è utilizzata per produrre la Bresaola della Valtellina Igp (13 mila tonnellate di Bresaola nel 2018). Nel 2018 l’Italia ha importato 267 mila tonnellate di soia (per 92,5 milioni di euro) dal Brasile e 114 mila tonnellate (per 37,4 milioni di euro) dal Paraguay (da cui è primo importatore europeo). Questa soia è usata per il 90 per cento per la produzione di mangimi, destinati ai nostri allevamenti intensivi. Tutto questo assicura almeno lavoro e migliori condizioni di vita dei Paesi esportatori? Forse non come dovrebbe. La multinazionale brasiliana JBS, dopo aver preso dall’Amazzonia 46 milioni di ettari per pascoli, fattura 50 miliardi di dollari l’anno. Ma le popolazioni più deforestate continuano a essere le più povere del Brasile come nel Pará dove il reddito medio è di 4,3 mila dollari l’anno contro una media in Brasile di 8,7 mila, e il livello di povertà raggiunge oltre il 20% della popolazione. Nel Parà solo nel 2017 sono stati denunciati 71 casi di schiavitù negli allevamenti. Mentre in tutta la regione amazzonica per fare spazio ai pascoli le terre, le riserve delle popolazioni indigene sono occupate con la forza, e si conta un morto ogni 6 giorni. L’Europa si interroga su come contrastare la deforestazione dietro la quale c’è la domanda di alimenti, mangimi, legname e altri prodotti. La convinzione è che proteggere le foreste, oltre a combattere l’emergenza climatica, preservi i mezzi di sostentamento delle comunità locali e ne aumenti il reddito. Frans Timmermans, primo vicepresidente responsabile per lo Sviluppo sostenibile della Commissione europea, dopo l’adozione di nuove linee di indirizzo della Ue, lo scorso 24 Luglio ha dichiarato: «Se non proteggiamo le foreste sarà impossibile raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati in materia di clima. Benché le più grandi foreste primarie al mondo non si trovino sul territorio dell’Unione, il comportamento di ciascuno di noi e le nostre scelte politiche possono fare la differenza. Siamo pronti ad assumerci un ruolo di primo piano». Siamo uno dei sette Paesi (insieme a Francia, Germania, Danimarca, Norvegia, Olanda e Regno Unito) che hanno sottoscritto la Dichiarazione di Amsterdam , che impegna i firmatari a contrastare l’importazione di soia, olio di palma e cacao provenienti da aree deforestate. Finora l’unico impegno preso è stata la costituzione dell’Unione Italiana dell’Olio di Palma Sostenibile, un organismo di certificazione e tracciabilità, mentre ai capitoli «soia» e «cacao» per l’Italia non risulta nessuna azione nazionale prevista.Se l’azione politica è imprescindibile, la vicenda dell’olio di palma dimostra quanto può essere determinante anche la consapevolezza dei consumatori: dopo una serie di inchieste giornalistiche che ne hanno denunciato l’impatto su ambiente e salute, oggi le informazioni sulla presenza o assenza di olio di palma campeggiano sulle etichette tra gli scaffali del supermercato e l’import italiano di olio di palma si è contratto sensibilmente negli ultimi anni, passando da 1,66 milioni di tonnellate nel 2014 a 1,29 nel 2018.

La foresta amazzonica è in fiamme ma perché avvengono questi incendi? Lorenzo Ciccarese su ilbolive.unipd.it.  il 22 agosto 2019. Oltre 5 milioni di ettari di foreste, una superficie pari a poco meno della metà dell’intero patrimonio forestale italiano, sono andate in fiamme in Siberia nel solo mese di agosto. Un dato senza precedenti nella storia della Russia. Per effetto di questi incendi una nuvola di fumo di oltre 5 milioni di chilometri quadrati (una superficie più estesa dell’intero territorio dell'UE) ha avvolto gran parte del paese, comprese le principali città siberiane, come Novosibirsk, ha attraversato l'Oceano Pacifico, raggiungendo gli Stati Uniti. All’inizio di questa settimana, un incendio nelle Isole Canarie ha costretto alla fuga oltre 8.000 persone. Qualche giorno prima i social media e le televisioni hanno mostrato le immagini di incendi vasti e violenti in Alaska, prolungando una stagione di incendi insolitamente lunga per lo stato boreale. La scorsa settimana, la Danimarca ha inviato vigili del fuoco e mezzi anti-incendio in Groenlandia (parte del suo territorio) per combattere un incendio che minacciava le aree abitate. Ma tra tutti gli incendi avvenuti questa estate nelle varie regioni del globo, la preoccupazione maggiore è rivolta verso quelli avvenuti nella foresta pluviale amazzonica, la più grande foresta tropicale del mondo. Da almeno due settimane le fiamme stanno divorando le foreste degli stati brasiliani di Amazonas, Rondonia, Mato Grosso, Parà e del Paraguay. Un fumo molto denso ha avvolto San Paolo, la più grande città del Brasile, distante migliaia di chilometri dal cuore degli incendi divampati nello stato di Rondonia e nel Paraguay. Circa 75 mila eventi incendiari sono stati registrati nel corso del 2019 nella foresta pluviale amazzonica, un numero record, quasi il doppio rispetto al numero di incendi nello stesso periodo del 2018. L’istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE) ha rilevato che nel mese di luglio sono stati bruciati 225 mila ettari di foresta pluviale amazzonica, anche questo un dato senza precedenti, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018.

Perché avvengono questi incendi e a questa scala? La foresta pluviale amazzonica, che rimane umida, zuppa di acqua per gran parte dell'anno, non brucia naturalmente. Gli incendi - come hanno testimoniato le istituzioni di ricerca e le organizzazioni non governative che operano in Amazzonia, tra cui IPAM - sono intenzionali. La responsabilità è addebitata agli agricoltori e alle grandi imprese zootecniche e agro-industriali, che usano il metodo "taglia e brucia" per liberare la terra, non solo dalla vegetazione, ma anche dalle popolazioni locali e indigene.  Tutto ciò è illegale in Brasile in questo periodo dell'anno. Ma questo è. Gli alberi vengono tagliati nei mesi di luglio e agosto, lasciati in campo per perdere umidità, successivamente bruciati, con l’idea che le ceneri possano fertilizzare il terreno. Quando ritorna la stagione delle piogge, l’umidità del terreno denudato favorisce lo sviluppo di vegetazione bassa per il bestiame.

“La foresta pluviale amazzonica, che rimane umida, zuppa di acqua per gran parte dell'anno, non brucia naturalmente. L'allevamento del bestiame è responsabile dell'80% della deforestazione in corso nella foresta pluviale amazzonica. Una parte significativa dell'offerta globale di carne bovina, compresa gran parte dell'offerta di carne bovina in scatola in Europa, proviene da terreni che un tempo erano la foresta pluviale amazzonica. In questo contesto, un ruolo chiave è svolto dai cambiamenti climatici. Molti di questi incendi sono il frutto di ondate di calore, prolungate e intense, e una siccità senza precedenti in molte parti del mondo. La National Oceanic and Atmospher Administration (NOAA) ha comunicato la scorsa settimana che lo scorso luglio è stato il luglio più caldo mai registrato da quando sono in uso gli strumenti per la misurazione del clima. Nella lista dei cinque mesi di luglio più caldi, appaiono quelli degli ultimi cinque anni. Questo non vale solo per l'emisfero settentrionale, dove in questo momento è estate, ma in tutto il mondo. La temperatura media globale dello scorso mese di luglio è stata di 0,56°C più calda della media del trentennio 1981-2010. Questo dato, che potrebbe sembrare insignificante, è una media e nasconde aumenti estremi registrati nel mese scorso in varie regioni del pianeta. Nei Paesi Bassi, in Germania e in Belgio sono stati stabiliti record di temperatura. Parigi ha registrato la sua temperatura più alta di sempre, 43 *C.  Anche parti della Polonia, della Repubblica Ceca e della Spagna hanno registrato temperature senza precedenti. Non è quindi singolare che molte delle aree del pianeta che in questo momento sono attraversate dagli incendi abbiano subito un caldo prolungato ed estremo il mese precedente. È noto a tutti che queste condizioni siano le più adatte per aggravare gli incendi. Temperature elevate e bassa umidità rendono la vegetazione facile preda degli incendi. Alcuni studi dimostrano che la stagione degli incendi si è allungata di 35-40 giorni, addirittura di 80 in California, ciò significa che iniziano prima e finiscono dopo. Cambiando le condizioni meteo-climatiche, cambiano anche le intensità degli attacchi degli insetti, che rendono le piante più vulnerabili, e la presenza di rami secchi e piante morte a sua volta fa aumentare il materiale comburente e dunque il rischio degli incendi. Questa deforestazione avrà importanti conseguenze regionali. Senza alberi e senza vegetazione che svolge la funzione di ancorare il terreno e trattenere l'umidità, la vegetazione sottostante può seccarsi, facilitando la combustione. Senza gli alberi, che attraverso la traspirazione liberano un enorme volume di acqua ed emettono sostanze chimiche che lo fanno condensare, diminuiranno le piogge. In questo momento, l'Amazzonia è stata disboscata per oltre il 15% rispetto al suo stato iniziale (epoca pre-umana). Gli scienziati sono preoccupati che se il disboscamento dovesse raggiungere il 25%, non ci saranno abbastanza alberi per mantenere l’equilibrio del ciclo dell'acqua. La regione attraverserà un punto critico e alla fine potrebbe evolvere verso la savana.  Ciò avrebbe enormi conseguenze anche per il resto del mondo. La foresta pluviale amazzonica produce enormi quantità di ossigeno. La sua vegetazione trattiene miliardi di tonnellate di carbonio nella vegetazione, nella lettiera e nel suolo, che potrebbero ossidarsi e liberarsi in atmosfera, aumentando l’effetto serra. L'Amazzonia è anche un hotspot della biodiversità e include il luogo più ricco di biodiversità sulla Terra, rendendo la sua conservazione una questione chiave per arrestare l’estinzione  estinzioni di piante e animali. Centinaia di migliaia di indigeni in oltre 400 tribù vivono anche in Amazzonia e fanno affidamento sulla foresta pluviale per sostenere le loro vite e preservare le loro culture. Molti osservatori ritengono che alla radice di questo aumento del ritmo di incendi e deforestazione che sta attraversando ci sia il nuovo corso del governo brasiliano rispetto alle politiche di conservazioni avviate dai governi precedenti, che avevano dato dei buoni risultati.  Adesso, allevatori e imprenditori agricoli si sentono incoraggiati e sostenuti dal governo ad avviare attività di ‘sviluppo’ in territori coperti da foreste, molti dei quali sono territori indigeni.

Molte ricerche hanno dimostrato che le pratiche di gestione indigene sono l'approccio migliore per mantenere la salute delle foreste pluviali tropicali a livello globale. Solo qualche settimana fa, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) - con la pubblicazione del riassunto per i decisori politici del rapporto Climate Change and Land: an IPCC special report on climate change, desertification, land degradation, sustainable land management, food security, and greenhouse gas fluxes in terrestrial ecosystems - ha riferito che la conservazione delle foreste e una gestione sostenibile del territorio dovranno essere parte integrante e decisivo nelle strategie di mitigazione dei cambiamenti climatici e della conservazione della biodiversità. L’attuale ritmo di deforestazione (13 milioni di ettari l'anno, 250 milioni negli ultimi due decenni) e degradazione delle foreste è la principale causa del declino della biodiversità e dell’accumulo di gas serra in atmosfera. Secondo l’IPCC la distruzione delle foreste in altre forme di uso del suolo, l’incendio delle foreste, il drenaggio delle torbiere e delle aree umide e la distruzione di prati e i pascoli sono alla radice delle emissioni di enormi quantità di anidride carbonica (CO2): circa 5,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO2eq), pari al 14% delle emissioni globali di gas serra.  La gestione delle aree agricole (specialmente la coltivazione per sommersione del riso) e l'allevamento di bestiame producono circa l’11% delle emissioni globali.  In totale, un quarto delle emissioni globali di gas serra. La distruzione degli ecosistemi naturali e seminaturali è grave non solo perché contribuisce all'effetto serra e ai cambiamenti climatici, ma anche perché rimuove una funzione chiave che gli ecosistemi garantiscono all'umanità, quella di assorbire le emissioni dall'atmosfera e 'sequestrarle' nelle piante, nella lettiera  e nel suolo sotto forma di sostanza organica. Con questo degrado e 'consumo’ di suolo stiamo pericolosamente rinunciando a un’opzione importante per raggiungere il livello net zero emissions entro il 2050, il target che lo Special Report 1.5 dell’IPCC pubblicato lo scorso anno indica ai decisori politici se vogliamo contenere il riscaldamento globale a meno di 1,5°C.

·        Chi gioca col fuoco.

Chi gioca col fuoco. Puntata del 16 giugno 16/06/2019 di Rosamaria Aquino e Stefano Lamorgese su Report Rai 3. I vigili del fuoco, sempre in prima linea sulle emergenze, hanno attraversato da protagonisti tutte le grandi catastrofi italiane. Ma loro come stanno? Hanno sufficienti uomini, viaggiano su mezzi sicuri, hanno le giuste tutele sanitarie? E che cosa si nasconde dietro agli appalti dei Canadair e degli elicotteri che spengono gli incendi boschivi? Grandi monopolisti e società che fanno cartello tra loro conquistano tutte le gare pubbliche. Tutto regolare? La nostra inchiesta, da terra all'aria analizzerà “chi gioca col fuoco”. 

I DOCUMENTI:

Manutenzioni, Babcock: "Sono certificate". Ma la società non risponde sulla fuga di tecnici che preoccupa il ministero. Sull'emorragia di tecnici che il ministero rileva a maggio comunicando a Babcock la   "la più viva preoccupazione" per la "progressiva riduzione dello staff tecnico" per l'impatto che potrebbe avere  "con l'approssimarsi della campagna anti incendio boschivo estiva", la società non risponde. Ci scrive invece sulle dichiarazioni del pilota, secondo il quale, ai tecnici, la società chiederebbe di non sostituire le parti dell'aeroplano e di soprassedere su alcuni controlli: "Per quanto riguarda la manutenzione della flotta Canadair - scrive Babcock - si conferma che queste sono eseguite come richiesto e regolarmente (....) come certificato dalle Autorità di Vigilanza che sorveglia e da cui dipende la certificazione Babcock richiesta per lo svolgimento delle sue attività". 

Babcock:"Nessuna fattura gonfiata, normale dialettica col ministero". Che però in una lettera avverte: la prossima volta segnaliamo all'Anticorruzione. Babcock ci risponde stasera sul richiamo che il ministero le aveva fatto a novembre scorso per non aver comunicato, prima di emettere fattura, lo sconto che riduceva a quasi la metà il prezzo di 40 radio  per i canadair. La società specifica che il prezzo di quelle radio "non è mai stato soggetto ad alcun sovraccarico", ma che  "possibili problemi di interpretazione e / o derivanti dalla normale dialettica in un rapporto pluriennale e complesso sono sempre stati risolti in assoluta trasparenza e con totale soddisfazione del Cliente stesso". Ma allora come mai il ministero dell'Interno scrive che "l'agire di codesta società non è apparso improntato alla correttezza necessaria" e che dunque la prossima volta non si esiterà "a segnalare tali comportamenti all'Autorità nazionale anticorruzione"?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Passiamo adesso a un’altra marmellata e ad altri mosconi. Siamo il Paese con la flotta più numerosa, più ricca di aerei antincendio: i Canadair. Costa, la manutenzione e la logistica, circa 100mila euro ogni giorno. Dovremmo pretendere un’organizzazione svizzera. Li gestisce indisturbata dal 2011 una multinazionale londinese, Babcock, il ramo italiano è gestito da un manager che si definisce lui stesso “un infelice vecchio”. Ora però scende in campo la pulce della nostra Rosamaria Aquino, che è entrata in possesso di alcuni documenti che imbarazzano il ministero dell’Interno. Sono datati pochi giorni fa. Si scopre che la sicurezza e la politica antincendio del nostro Paese, proprio alla vigilia di una calda estate, è a rischio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L'Italia con i suoi 19 Canadair ha la flotta più grande al mondo. Il servizio gestito dai privati dal '97 ha visto succedersi veri e propri “monopolisti” che per anni si sono aggiudicati appalti milionari. L'ultimo vale 360 milioni. Ci dobbiamo appoggiare al privato perché, per un inspiegabile motivo, non si riesce a programmare un servizio tutto interno ai vigili del fuoco?

ROSAMARIA AQUINO C'è quest'idea di far diventare tutto pubblico il servizio dei Canadair?

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Di sicuro noi vorremmo stare tutto in casa nostra. Ma non è facile trovare e formare un pilota oggi. Per formare in house un pilota di elicotteri ci vogliono due anni perché i centri di addestramento sono sempre gli stessi e sono appannaggio dei militari.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La mancanza di piloti e la manutenzione diventano la carta vincente di Babcock, la società che si è riaggiudicata la gestione dei Canadair. Una multinazionale britannica attiva nei settori della difesa, dell'energia, delle telecomunicazioni e trasporti. Presente in tutto il mondo con oltre 35mila dipendenti. La società italiana, controllata dalla holding, si chiama Babcock Mcs Italia, ha i piedi a Milano ma la testa è a questo indirizzo a Malta, dove risiedono altre decine e decine di società. Ma proprio tra Babcock Italia e il nostro Ministero dell’Interno emerge un carteggio di cui Report è venuto in possesso. È di pochi giorni fa, 21 maggio, e dentro c'è qualcosa di poco rassicurante in cui sarebbe a rischio il servizio antincendio alla vigilia dell'estate.

ROSAMARIA AQUINO Io ho in mano delle carte del ministero dell'Interno firmate da lei che riguardano la società Babcock che gestisce i Canadair e non le nascondo che queste carte destano un po' di preoccupazione. Ci dobbiamo preoccupare per questa stagione antincendio 2019?

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORDINAMENTO SERVIZIO AEREO VVFF Assolutamente, non vi dovete preoccupare assolutamente.

ROSAMARIA AQUINO I tecnici ci sono? Ci sono tutti? Le manutenzioni vengono fatte come dovrebbero essere fatte?

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORDINAMENTO SERVIZIO AEREO VVFF Assolutamente, diciamo, sì. Non si deve preoccupare di queste cose. Mi dovrei preoccupare io, scusi eh.

ROSAMARIA AQUINO Ci rendiamo conto che il dipartimento è preoccupato di questo appalto che ha affidato.

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORDINAMENTO SERVIZIO AEREO VVFF Guardi mi dovrei preoccupare io, non voi, assolutamente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Infatti si è preoccupato eccome. Almeno a leggere il carteggio tra lui e Babcok, dove teme che l’emorragia di tecnici possa mettere a rischio la politica antincendio del nostro paese. E che ci sia un problema ce lo confermano gli stessi piloti di Babcock.

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Siamo un po' preoccupati quest'anno.

ROSAMARIA AQUINO Per che cosa?

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Per la parte manutentiva. Sentiamo i tecnici che si raccomandano di non accettare gli aeroplani. Perché gli chiedono di non sostituire le parti e di soprassedere. Poi soprattutto escono i velivoli non rispettando i tempi di manutenzione. Anziché metterci 72 ore ce ne mettono 12 o 24. Omettono i controlli e questa è una cosa che ci fa preoccupare parecchio. Anzi, abbiamo proprio paura.

ROSAMARIA AQUINO E i tecnici cosa vi dicono?

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Ci dicono che per accelerare i tempi, visto che sono pochi, sono costretti a firmare le manutenzioni senza farle.

ROSAMARIA AQUINO Ci può fare un esempio?

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Per esempio recentemente alla base di Lamezia Terme c'era un cassone alare molto corroso, necessitava di una sostituzione e diciamo i dirigenti che seguono la parte manutentiva hanno premuto per non fare questo tipo di lavoro perché troppo costoso. Il tecnico non se l'è sentita di firmare la manutenzione e ha deciso di dare le dimissioni.

ROSAMARIA AQUINO E quando ne parlate tra di voi che cosa vi dite?

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Di stare attenti, di non accettare nulla quest'anno.

ROSAMARIA AQUINO Quindi se voi non accettate gli aeroplani, gli aeroplani rimangono a terra.

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Esattamente.

ROSAMARIA AQUINO Anche se c'è un incendio?

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Esattamente. La flotta si sta depauperando mano mano, per questo tipo di atteggiamento da parte dell'azienda.

ROSAMARIA AQUINO Da quanto tempo va così?

PILOTA CANADAIR - BABCOCK Beh è un trend che negli ultimi anni è peggiorato, per abbattere i costi, per fare più margine.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A proposito di margini. Dal carteggio del ministero dell’Interno emerge che Babkock avrebbe fatturato l'acquisto di 40 radio a quasi il doppio del prezzo effettivamente pagato, senza comunicare al ministero un grosso sconto ricevuto dal fornitore. Una manovra che le avrebbe consentito una plusvalenza di un milione 700mila dollari, se al dipartimento non se ne fossero accorti. Perché la società non li ha informati subito di quello sconto?

ROSAMARIA AQUINO Ci sono per esempio delle fatture che sono state, almeno a quanto voi dite, gonfiate e la prossima volta avete intenzione di denunciarli all'Anticorruzione, allora noi vorremmo capire...

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORD. SERVIZIO AEREO VVFF Non mi risulta.

ROSAMARIA AQUINO Guardi, io ho qui anche il numero di protocollo, lo avete tra l'altro... è del 26 novembre 2018. L'acquisto di alcune radio.

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORD. SERVIZIO AEREO VVFF Non mi risulta, signora.

ROSAMARIA AQUINO L'acquisto di alcune radio.

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORD. SERVIZIO AEREO VVFF Vorrei evitare di fare interviste diciamo in questo modo, per telefono.

ROSAMARIA AQUINO Però io la sento molto preoccupato. Perché qui da quello che dice...

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORD. SERVIZIO AEREO VVFF Assolutamente no.

ROSAMARIA AQUINO Da quello che c’è scritto però avete quasi minacciato, avete minacciato di denunciarli all'Anticorruzione.

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORD. SERVIZIO AEREO VVFF Guardi io non sono assolutamente preoccupato.

ROSAMARIA AQUINO Come mai non è preoccupato? Come mai scrive queste...

SANTO ROGOLINO – DIRIGENTE UFFICIO COORD. SERVIZIO AEREO VVFF E lo faccio con responsabilità, con molta responsabilità e con molta serietà il mio lavoro, quindi....

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questa corrispondenza getta un’ombra sui metodi di Babcock che, oltre a gestire come monopolista privato la flotta dei Canadair più importante al mondo, ma a spese dello Stato, gestisce in molte regioni anche gli elicotteri dell'elisoccorso. E sugli appalti regionali di elisoccorso e antincendio i privati da anni si spartiscono la torta. Con un'importante impennata, ossia da quando con la legge Madia, che ha smembrato la Forestale, la maggior parte dei 32 elicotteri pubblici nella disponibilità dei vigili del fuoco e carabinieri, sono rimasti a terra per almeno un anno.

RICCARDO BORIASSI - PORTAVOCE CONAPO Tutti affermavano a livello di Stato che non c'era nessun problema di volo per questi elicotteri. Però noi contattando i piloti con i quali avevamo conoscenza diretta questi ci dicevano: non si vola e non ci dicono il perché. Nel frattempo qualcuno ha approfittato di questo vuoto lasciato ovviamente dallo Stato e hanno fatto appalti.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Che hanno comportato un aumento della spesa pubblica. A maggio 2016 una fonte rivela all’Antitrust che sette società avrebbero fatto cartello per accaparrarsi gli appalti regionali per l'elisoccorso e l'antincendio. Si presentavano alle gare vincendo con ribassi risibili oppure le mandavano deserte per avere gli affidamenti diretti. La più grossa delle sette sorelle è proprio Babcock, che viene multata per 50 milioni per avere stabilito con loro un accordo anticompetitivo che fissava i prezzi del servizio con elicottero, con costi più alti della media. Babcock è finita anche nel mirino del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Ha arrestato due dei suoi più alti vertici per un appalto da 100 milioni per l'elisoccorso in Calabria. Una gara che le sarebbe stata cucita addosso.

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Una sera li abbiamo pedinati, sono andati in quattro ristoranti diversi, alla fine avevamo finito le microspie.

ROSAMARIA AQUINO Come avveniva materialmente lo scambio con i funzionari della Regione?

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Abbiamo visto la consegna di un pennino dove c'erano appunto dei file relativamente a questa gara. L'obiettivo, l'accordo era quello di modellare il bando di gara in base alle caratteristiche di questa società, in modo tale da eliminare altri eventuali concorrenti. Questi da Milano scendevano in Calabria si incontravano, quasi come fossero trafficanti di cocaina.

ROSAMARIA AQUINO Ingegnere De Pompeis, salve Rosamaria Aquino di Report.

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Ah, vabbè guardi, io sto andando a pranzo.

ROSAMARIA AQUINO Sì, lo so che sta andando a pranzo, noi volevamo farle qualche domanda.

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA E io non voglio rispondere.

ROSAMARIA AQUINO Perché non vuole rispondere?

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Perché sono un infelice vecchio.

ROSAMARIA AQUINO Questo appalto dei Canadair, no? Le società che hanno partecipato.

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Non posso rispondere.

ROSAMARIA AQUINO Perché non può rispondere? Le società che hanno partecipato dicono che era molto su misura per voi.

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Non posso rispondere.

ROSAMARIA AQUINO Il fatturato da otto milioni di euro per un anno per volo ad ala fissa per spegnere gli incendi, ce l'avevate solo voi, 22 equipaggi ce li avevate solo voi. Come mai si sono ritirate all'ultimo queste aziende? Però sono beni dello Stato, voi avete quest'appalto, dovete rispondere.

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Non a lei.

ROSAMARIA AQUINO Vorremmo sapere qualcosa di più sulle manutenzioni, se vengono fatte.

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Ma stia tranquilla.

ROSAMARIA AQUINO Cosa è successo in Calabria, perché Gratteri dice che vi muovevate come trafficanti di cocaina?

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Non posso rispondere.

ROSAMARIA AQUINO E questa indagine della Basilicata, perché questa indagine in Basilicata?

ROBERTO DE POMPEIS - DIRETTORE GENERALE BABCOCK MCS ITALIA Guardi c'è tutto sotto... ci sono delle indagini in corso. Non posso assolutamente rispondere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si definisce un infelice vecchio ma ha il passo di un maratoneta. Poi però Babcook ci ha scritto e dice: la gara, quella dei Canadair, risponde al criterio del massimo ribasso. Potevano partecipare anche altri, sta di fatto che non l’hanno però fatto. Gli appalti quelli per gli elisoccorsi sono finiti sotto il mirino del procuratore Gratteri e alla domanda della nostra Rosamaria Aquino, “ma è questo il modo in cui funziona, gli cuciono gli appalti addosso?”, lui dice: penso di sì perché abbiamo visto come si muove questa società anche al Centro e in altre regioni d’Italia, abbiamo inviato le intercettazioni anche in altre procure. Ora sta indagando anche la procura di Potenza, l’accusa è truffa aggravata ai danni della Regione per un appalto sull'elisoccorso notturno, Babcock sempre. Mentre invece gli appalti nazionali sono finiti sotto la lente della nostra Rosamaria Aquino, che è venuta in possesso di documenti, come avete visto, imbarazzanti dai quali emerge la preoccupazione del dirigente Rogolino sul funzionamento del servizio nazionale antincendio: è preoccupato per l’emorragia dei tecnici che dovrebbero garantire la manutenzione. Lui smentisce, ma i documenti portano la sua firma. E il fatto è stato anche confermato da un pilota che dice “abbiamo addirittura paura di salire su quegli aerei”. Poi è emerso anche un altro carteggio, risalente a novembre e dicembre 2018, dove emergerebbe il tentativo da parte di Babcock di presentare delle fatture gonfiate e di farsele rimborsare, si trattava di radio da installare sui Canadair. Il dirigente Rogolino li scopre e vorrebbe denunciarli, dice: la prossima volta se lo fate vi denuncio all’Anticorruzione. Ma poi si accontenta della risposta che dà Babcock: è stato un disguido col nostro fornitore, ha distribuito in vari uffici le fatture. Bene, ora però è scesa in campo la pulce della nostra Rosamaria per scoprire come questi hanno ottenuto gli appalti sui Canadair.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Ciò che i vigili del fuoco hanno fatto è una gara pubblica e una gara pubblica europea è una gara aperta a tutti, quindi...

ROSAMARIA AQUINO Sa che sono stati sollevati dei dubbi proprio su quel bando, come se fosse un bando un po' su misura.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Non lo so.

ROSAMARIA AQUINO Eh, però lei è il capo dei vigili non può non saperlo.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Eh beh sa, sa quante cose... sa quanti problemi si pongono ogni mattina svegliandosi con 33mila persone, con una emergenza al giorno.

ROSAMARIA AQUINO Soprattutto se non ci sono abbastanza soldi per i mezzi e per gli uomini e poi si spendono 360 milioni di euro per gli aerei, forse bisognerebbe saperle queste cose.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO E io ripeto; capisco che lei debba fare del giornalismo d'attacco ma questa cosa non la so. Lei mi ha messo una pulce nell'orecchio, adesso questa pulce farà il suo lavoro. E al prossimo contratto che riguarda i Canadair di sicuro avrò maggiore attenzione.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La pulce per fare il suo lavoro deve prendere una bella rincorsa, deve tornare indietro di almeno vent’anni. Deve partire da un piccolo aeroporto del Monferrato, dove un imprenditore stava facendo rullare i motori a una flotta di piccoli aerei, pronti a decollare.

CARLO GAIERO - IMPRENDITORE Ho scoperto degli aeroplani in Polonia che potevano essere ideali per il territorio italiano. Un estintore con le ali. Dromader, perché hanno una caratteristica una gobba e un grande serbatoio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I Dromader, aerei agricoli con una portata d'acqua limitata, sarebbero stati schierati su decine di basi e avrebbero dovuto pattugliare l'intero territorio, individuare e poi agire sui piccoli focolai.

CARLO GAIERO - IMPRENDITORE Se noi spegniamo il focolaio quando è piccolo l'incendio non si sviluppa. Abbiamo dimostrato che era il metodo giusto, economico rispetto a qualsiasi altro mezzo utilizzato.

ROSAMARIA AQUINO La differenza tra i suoi aeroplani e i Canadair?

CARLO GAIERO - IMPRENDITORE Quello che lo Stato spende con un Canadair io ne compravo 130 aeroplani e ne potevo mettere 10 per 13 regioni italiane.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO In Sardegna e Basilicata li hanno anche sperimentati, i Dromader, ma l’allora ministro per i rapporti con il Parlamento Giovanardi contestò che portavano poca acqua, era complesso rifornirli e il pattugliamento del territorio costava troppo.

CARLO GAIERO - IMPRENDITORE Assolutamente falso. E c'è il documento finale della Commissione che testimonia invece che è considerato ottimale per il primo intervento proprio per la limitazione dell'incendio. Io son rimasto praticamente dieci anni con gli aeroplani pronti in aeroporto a Casale Monferrato. Non c'è stata nessuna chiamata da parte del dipartimento.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La sperimentazione dei Dromader viene sospesa. Dopo quindici anni di battaglie giudiziarie lo Stato ha perso e ha pagato i danni a Gaiero, che da parte sua però ha perso l'azienda.

CARLO GAIERO - IMPRENDITORE Era evidente che c'era una volontà di dire: avete dimostrato che gli incendi si possono spegnere, ma noi dobbiamo continuare a far girare degli aeroplani sempre più grandi.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Come il Beriev, il jet russo che trasporta il doppio dell'acqua dei Canadair. Qui però la notizia non è cosa è stato riproposto dopo anni al nostro Governo, bensì chi lo ha riproposto. Pronto a tornare in pista è Giuseppe Spadaccini, detto il re dei Canadair. Spadaccini con la sua Sorem nel '97 soffiò l'appalto alla società pubblica Sisam di Alitalia e Finmeccanica. Iniziava con lui la stagione privatistica dei Canadair.

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE All'epoca ricordo che tutte le forze politiche si interrogarono per sapere chi c'era dietro di me.

ROSAMARIA AQUINO E chi c'era dietro di lei? GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE Nessuno.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Nel 2010 per Spadaccini scattano le manette. L'accusa della Procura di Pescara è quella di una maxi-evasione fiscale da 90 milioni. Al centro dell'inchiesta, un complicato sistema di società “estero-vestite” e false fatturazioni per consentire a Sorem di evadere il fisco in Italia. Cadranno le aggravanti e il processo finirà con una prescrizione. Ma dai fascicoli emergono rapporti di Spadaccini molto stretti con politici e faccendieri, in particolare con Valter Lavitola.

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE Ho indirizzato fondi della mia società per fare pubblicità sul suo giornale, sull'Avanti, sia per ringraziarlo, chiaramente.

ROSAMARIA AQUINO Per mantenere un appalto addirittura c'è bisogno di chiedere aiuto alla politica?

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE Non ho chiesto aiuto alla politica, ho chiesto una difesa contro un sopruso che si stava operando nei confronti della mia società.

ROSAMARIA AQUINO Valter Lavitola?

VALTER LAVITOLA Sì.

ROSAMARIA AQUINO Ex direttore dell'Avanti?

VALTER LAVITOLA Sì.

ROSAMARIA AQUINO Possiamo fare una chiacchierata?

VALTER LAVITOLA Sto lavorando.

ROSAMARIA AQUINO Che non sia più direttore dell'Avanti si vede…

VALTER LAVITOLA Scusa chi sei?

ROSAMARIA AQUINO Report, Rosamaria Aquino.

VALTER LAVITOLA Ah, allora dobbiamo chiacchierare per forza sennò mi fate a strisce.

VALTER LAVITOLA Ci vogliamo mettere di là? Qua dentro è un casino.

ROSAMARIA AQUINO Noi siamo qua perché una sua vecchia conoscenza, Giuseppe Spadaccini, se lo ricorda?

VALTER LAVITOLA Eh!

ROSAMARIA AQUINO Ha parlato di lei e ha detto che pagava l'Avanti, per l'appunto, per ringraziarla. Ma ringraziarla di cosa?

VALTER LAVITOLA Pagava l'Avanti? Peppe Spadaccini, persona alla quale io volevo e voglio molto bene ha fatto della pubblicità sull'Avanti.

ROSAMARIA AQUINO Ma chi è che decideva la linea politica del giornale?

VALTER LAVITOLA Io ero il direttore, però la linea politica era quella di Berlusconi, insomma. Uno che sapeva cosa diceva.

ROSAMARIA AQUINO Quindi si può dire che Spadaccini alla fine quei soldi li ha pagati per fare pubblicità sul giornale di Berlusconi?

VALTER LAVITOLA No, aspetta questa è un’altra storia. No, non è così.

ROSAMARIA AQUINO Come fa il direttore di un piccolo giornale, con tutto il rispetto per i piccoli giornali, a scatenare l'azione di 130, 140 parlamentari pro-Spadaccini?

VALTER LAVITOLA Ma io anzitutto scrivevo. E poi parlavo con tutti, è inutile farsi un mistero. L’azione di lobbying era con tutti, con tutta la… come poi, purtroppo, si è rivelato dalle indagini, avevo una rete di relazioni amplissime… facevamo una cosa giusta, tanto è vero poi mi risulta che lui abbia vinto le cause e allo Stato è costato un sacco di soldi.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Bertolaso, a capo della Protezione civile, dopo quello scandalo decide di revocare l'appalto. Il Tribunale di Roma dichiarerà poi quella revoca illegittima e condannerà lo Stato a risarcire Spadaccini oltre 50 milioni. L'imprenditore è convinto che sia stata tutta una manovra per farlo fuori e favorire la spagnola Inaer del fondo Investindustrial di Andrea Bonomi che voleva comprare in quei giorni la Sorem.

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE Il 21 di ottobre sono stato arrestato ed era lo stesso giorno in cui avremmo dovuto siglare il contratto, il pre-contratto per la cessione aziendale alla Inaer. Questa Inaer ha acquisito la società a un prezzo totalmente irrisorio rispetto al valore reale dell'azienda.

ROSAMARIA AQUINO A quanto?

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE Un milione 300mila euro.

ROSAMARIA AQUINO Per una società che valeva quanto?

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE La valutazione che io avevo dato era di circa 300 milioni. In venti giorni è stato nominato un liquidatore, sono stati venduti gli asset della Sorem, è stato indetto un bando di gara europeo ad hoc per riassegnare la gara, la Inaer con gli asset comperati a un milione 300mila euro ha partecipato alla gara casualmente da sola, vincendo la gara.

ROSA MARIA AQUINO FUORI CAMPO La Inaer di Bonomi viene poi acquisita da Babcock. E il procuratore è proprio l'infelice vecchio De Pompeis che nel 2018 si porta a casa l’appalto da 360 milioni. Ma è facile perché c'è solo lui a partecipare.

GIUSEPPE SPADACCINI - IMPRENDITORE Veniva richiesta la disponibilità, a priori, quindi prima della vincita della gara di un numero di equipaggi abilitati sul Canadair che è impossibile avere. Quindi praticamente non può partecipare nessuno a questa gara. E tant'è che ha partecipato solamente la società che attualmente gestisce i Canadair.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche un vecchio marpione monopolista come Spadaccini ha dei dubbi sulle modalità con cui si è svolta questa gara, sulla quale, dopo l’archiviazione a un esposto, pende l’impugnazione. Bonomi ci ha scritto, invece. Dice: è vero, ho comprato una parte della sua società, ma l’ho pagata molto più cara di quello che dice Spadaccini; è vero anche che ho partecipato da solo, però per una questione di urgenza della gara. Che cosa ha portato la politica nazionale antincendio fino ad oggi? I 19 Canadair sono stati gestiti sotto l’occhio vigile della Protezione civile prima, e poi quello dei vigili del fuoco, sono stati gestiti dai privati. Dal 1997 al 2010, anno del suo arresto, da Spadaccini, poi dalla Inaer di Bonomi e da Babcock fino a oggi. Questo è quello che riguarda, dicevamo, la politica nazionale. Poi c’è quella regionale. Ogni Regione affida ai privati, attraverso un bando, la politica antincendio. Privati che si sono infilati nelle pieghe della riforma Madia, che ha smembrato la Guardia Forestale. Per due anni gli elicotteri sono rimasti a terra, poi sono stati spalmati con gli uomini tra vigili del fuoco e Carabinieri. E cosa è successo? Dal 1997 ad oggi sono bruciati boschi equivalenti al doppio della superficie del Friuli Venezia Giulia, a quella del Lazio e dell’intera Calabria. Sarebbe stato diverso se tutto questo fosse stato in mano dello Stato? Non lo sappiamo. Quello che è certo è che intanto abbiamo risarcito il signor Gaiero, che ci aveva promesso, offerto, al prezzo di un Canadair 130 piccoli aerei che avrebbero pattugliato capillarmente il nostro territorio e sarebbero intervenuti a ogni spuntare di focolaio. Abbiamo risarcito anche per 50 milioni di euro Spadaccini, il quale oggi ci propone i Beriev-200. Sono dei super jet, contengono il doppio dell’acqua dei Canadair, aveva tentato di venderceli prima Putin all’epoca di Berlusconi sempre attraverso Spadaccini. Non ci sono riusciti, ci provano ora. Alla fine, dopo tutta questa girandola, queste spese miliardarie, indovinate a chi tagliano le risorse?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I primi ad arrivare, a scavare a mani nude tra le macerie o nel fango, a spegnere le fiamme che invadono boschi e minacciano le case. I vigili del fuoco sono la nostra prima richiesta di aiuto.

COSTANTINO SAPORITO – COORDINATORE NAZIONALE USB VIGILI DEL FUOCO Non è corretto che un vigile del fuoco che si faccia male in servizio addirittura si paghi il ticket quando va all'ospedale perché si è infortunato.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Costantino Saporito, il pompiere che ha denunciato Salvini perché indossava la divisa del corpo, ha occupato il Viminale per chiedere più diritti per la categoria.

COSTANTINO SAPORITO – COORDINATORE NAZIONALE USB VIGILI DEL FUOCO I vigili del fuoco da Amatrice in poi con l'amianto l'abbiamo respirato, abbiamo fatto colazione, ci siamo lavati con l'amianto: è paradossale, ma il mesotelioma non è riconosciuto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Costantino, dopo la protesta, è stato tenuto una notte in camera di sicurezza e lo hanno pure diffidato. Chiede un’alternativa all'Ona, l'Opera nazionale di assistenza, l’unica copertura che hanno e si finanziano loro stessi. L'Ona ha un patrimonio di oltre 30 milioni di euro ma se un vigile si infortuna gravemente o muore, l'unico modo per dare un vero contributo è la solidarietà.

COSTANTINO SAPORITO – COORDINATORE NAZIONALE USB VIGILI DEL FUOCO Quando muore un vigile del fuoco si applica un sistema molto semplice, si comincia a mandare un'email per tutti i comandi e ogni vigile mette un contributo. ROSAMARIA AQUINO Una colletta?

COSTANTINO SAPORITO – COORDINATORE NAZIONALE USB VIGILI DEL FUOCO Sì, una colletta.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Le tutele che i vigili del fuoco hanno sono le stesse che hanno i poliziotti, i carabinieri, l'esercito. Ciononostante comunque noi stiamo studiando le modalità assicurative o comunque di assistenza ai nostri lavoratori in casi di infortunio del lavoro.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L'ultima vittima di una scia troppo lunga è di qualche giorno fa. Antonio Dell'Anna Un vigile del fuoco in servizio a Taranto muore in seguito a una violenta esplosione.

ALESSANDRO LUPO – SEGRETARIO GENERALE UILPA VIGILI DEL FUOCO Noi abbiamo la necessità di avere un'assicurazione obbligatoria perché purtroppo noi, al di là degli infortuni, moriamo e abbiamo diciamo l'aspettativa di vita più bassa di tutti i corpi dello Stato.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Certo vorremmo non dover mai adoperare né le collette e, come dico, dobbiamo spingere sulla prevenzione. Noi abbiamo la possibilità che le vittime del dovere possano avere, che gli eredi anche in numero X, possano essere assunti anche aspettando la maggiore età, per cui anche questa è una cosa d'eccellenza del corpo nazionale.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I problemi, però, per i vigili del fuoco non finiscono qui. Questo è un pompiere che lavora a Roma, ha voluto restare anonimo perché parlare non è concesso.

VIGILE ANONIMO A via del Calice c'è un cimitero di elefanti... un deposito che dovrebbe essere utile per recuperare i mezzi per poi farli tornare operativi nei 33 distaccamenti di Roma, però in realtà stanno lì a marcire alle intemperie in attesa che i soldi per recuperarli arrivino.

ROSAMARIA AQUINO Che tipo di mezzi sono? VIGILE ANONIMO Dalle autovetture semplici agli autoscala, che poi sono quei mezzi che noi utilizziamo per gli interventi un po' più delicati. Ci sono 3-4 mezzi in tutta Roma, considerando che il comando fa circa 50mila interventi all'anno...

ROSAMARIA AQUINO E che cosa succede se ci sono due interventi ugualmente gravi in due posti diversi?

VIGILE ANONIMO Puoi aspettare in strada quel mezzo circa una o due ore.

ROSAMARIA AQUINO Perde olio scatola sterzo. È giusto lasciare una macchina così solo per questo motivo?

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Sicuramente no!

ROSAMARIA AQUINO Lo sa che molti dei suoi uomini tengono in piedi le serrandine con lo spago pur di non mandare....

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Quegli stessi uomini dovrebbero avere forse un po’ di maggiore amore per i propri mezzi.

ROSAMARIA AQUINO Loro hanno paura che poi finiscano in questo buco nero e non ne escano più.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO No, ma guardi, io di Roma non conosco nulla perché vengo da Venezia. Per cui...

ROSAMARIA AQUINO Però lei è il capo dei vigili del fuoco.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Di Roma, intendo… Ogni comando…

ROSAMARIA AQUINO Qualcuno le riferirà…

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO E adesso accerterò. È evidente che noi siamo pochi e abbiamo mezzi vecchi. Ma in questo ultimo anno da adesso, dal 2019 al 2021, sono già state consegnate una serie di macchine.

ROSAMARIA AQUINO Ma perché non vi rifiutate tutti di lavorare in queste condizioni? VIGILE ANONIMO Perché è una guerra tra poveri. E alla fine chi ci rimette è l'anziano che si sente male oppure chi è all'interno di un incendio. È per loro che lavoriamo.

ROSAMARIA AQUINO Eppure per la politica i pompieri sono un fiore all'occhiello.

VIGILE ANONIMO Eh, se io annavo a fa a spesa co a pacca sulla spalla c'avevo più soldi de Steve Jobs.

ROSAMARIA AQUINO Quanto guadagni?

VIGILE ANONIMO Il mio stipendio tabellare è di 900 euro. Più 400 de indennità di rischio che poi può esse che a casa non ci torno. Cioè 1300, meno di un autista dell'Ama.

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Stiamo costruendo una ipotesi di equiparazione del nostro stipendio a quello della polizia. E abbiamo già fatto i conti invece quanto costa avere l'equiparazione e viene 230 milioni di euro.

ROSAMARIA AQUINO Ce li abbiamo questi soldi?

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Io credo che si stiano sbracciando per procurarli questi soldi.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Intanto ai vigili chiedono anche lavori straordinari, come quello di arrampicarsi su balconi e finestre, per togliere gli striscioni ostili alle visite del ministro Salvini. Ma sarebbe tutto frutto di un equivoco.

ROSAMARIA AQUINO Un vigile del fuoco può essere utilizzato per eliminare uno striscione da un’abitazione privata perché questo striscione è sgradito al ministro dell’Interno?

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO C’era scritto, mi pare, “Non sei il benvenuto”? Io ho fatto una telefonata al comandante, perché il comandante era arrivato da due giorni. Ho detto: forse è per te questo striscione…

ROSAMARIA AQUINO Ma vedendo quella scena?

FABIO DATTILO – CAPO DEL CORPO NAZIONALE DEI VIGILI DEL FUOCO Vedendo quella scena, di cose, come dire, borderline, ne facciamo tante, poi ci rimettiamo seduti al tavolino e ci ragioniamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Almeno il comandante Dattilo c’ha messo la faccia, da vero capitano. Ora però ha un compito arduo, quello di fare ottenere uno stipendio più dignitoso ai suoi uomini, quello di fare ottenere delle tutele. Ma è mai possibile che i suoi uomini, come tutti quelli di tutti i corpi dello Stato che mettono a repentaglio la loro sicurezza per la nostra, non abbiano tutele infortunistiche, non abbiano l’Inail, per esempio. È a loro, è tutti gli uomini come loro, che dedichiamo quest’inchiesta. La dedichiamo ai vigili discontinui, quelli che lavorano a singhiozzo, fino a 160 giorni l’anno, sono 10mila e hanno meno tutele dei vigili fissi; poi ci sono i volontari, che addirittura in caso di incidente o di decesso hanno ancora meno tutele; poi ci sono gli elisoccorritori. Loro, che non prendono l’indennità dal 2016, hanno annunciato la mancanza di disponibilità dal primo luglio. Questo significa che saranno inutili gli elisoccorsi. Se quando scoppierà un incendio o quando ci sarà un soccorso urgente da fare arriveranno in ritardo non prendetevela con questi uomini, prendetevela con una politica che ha prediletto in questi anni la “pacca sulla spalla”, tante al punto tale che, ha detto quel vigile, se fossero trasformate in denaro sarebbero più ricchi di quanto lo era in vita Steve Jobs. Ecco alla fine di tutto questo hanno chiuso in camera di sicurezza il povero Costantino Saporito. È lui quello strano, alla fine di tutto. Ora il comandante Dattilo dovrà cambiare necessariamente rotta, dovrà anche combattere il tarlo della corruzione che sottrae risorse e sicurezza ai suoi uomini. Ora però può contare anche su un valido alleato, la pulce della nostra Rosamaria.

·        In fumo l'ambientalismo grillino.

In fumo l'ambientalismo grillino: detassate le auto più inquinanti. Dimezzata l'imposta di proprietà per le vetture con oltre 20 anni di età Mentre i motori di ultima generazione sono colpiti dall'«eco-tassa», scrive Pier Luigi del Viscovo, Sabato 02/02/2019, su Il Giornale. Se uno compra un'auto ibrida plug-in o addirittura elettrica, aiuta l'ambiente e il governo aiuta lui con un incentivo, che raddoppia se contestualmente toglie dalle strade (rottama) un'auto vecchia. All'opposto, se la sostituisce con un'auto a motore tradizionale, seppure di ultimissima generazione, che inquina poco, il governo lo punisce con un'eco-tassa. Fin qui lo spirito ambientalista dell'esecutivo, che poi di fronte al parco auto circolante si arresta e cambia casacca cosa non difficile, a giudicare dalle immagini quotidiane. Infatti, se uno continua a girare con un'auto di 10/15 anni, che inquina abbastanza ed è poco sicura, il governo lo lascia tranquillo. Di più, se l'auto ha tra 20 e 30 anni, il governo lo premia, dimezzando la tassa di proprietà. È l'ennesima illuminazione contenuta nella manovra, al comma 1048: «Autoveicoli e motoveicoli (...) in possesso del certificato di rilevanza storica (...) sono assoggettati al pagamento della tassa automobilistica con una riduzione pari al 50 per cento». A leggere la norma, in votazione nei prossimi giorni, dovrebbe trattarsi di pochi modelli storici, con scarso impatto ambientale ma grande rilevanza per la cultura motoristica del Paese. Ha certamente senso preservare un patrimonio che poi dà luogo a raduni e manifestazioni, che fanno bene allo spirito e (che male c'è?) all'economia. Il sacrificio dei conti pubblici, stimato in appena 2 milioni di euro, pare sopportabile e giustificato. Sfortunatamente non è così. In Italia poche cose sono facili da ottenere come il certificato di rilevanza storica. Non serve che sia una Jaguar XJ6 anni 90, anche la Tipo di Montalbano può averlo. Nella realtà, pure i numeri sono ben più consistenti. Non esiste un elenco di modelli ritenuti storici. La certificazione si può richiedere alle associazioni, col requisito dell'anzianità e producendo alcune informazioni e documentazioni abbastanza alla portata, ma nessun modello è escluso. Stando alle statistiche di fonte pubblica istituzionale, le sole auto che rientrano nella facoltà sono oltre 3,8 milioni, a cui si aggiungono 600mila motoveicoli. Tuttavia, secondo il codice della strada, gli «autoveicoli» (indicati nella norma) comprendono anche gli autocarri, ai quali tra l'altro non è preclusa la certificazione di rilevanza storica, così superando potenzialmente i 5 milioni di mezzi che verrebbero agevolati. L'incidenza economica, minore gettito, arriverebbe dunque potenzialmente a sfiorare i 400 milioni di euro, che nella congiuntura attuale sono rilevanti. Non è detto che tutti chiedano tale certificato e nemmeno che le associazioni lo rilascino a tutti, anche se una certa predisposizione positiva la si può legittimamente prevedere, visto che il certificato si paga. Allora, sorgono alcune domande. Perché tassare chi compra un'auto nuovissima e poco inquinante, spingendo tanti a continuare a usarne una più vecchia, meno sicura e certamente più aggressiva sia verso il clima sia verso l'aria, e mettendo in discussione miliardi di investimenti nell'automotive? Perché incentivare l'acquisto di una macchina elettrica o ibrida plug-in, ma con un tetto di fondi che permette al massimo di raddoppiarne le vendite, quando ciò avverrebbe anche senza incentivi? Ancora, è una coincidenza che l'icona delle auto elettriche, Tesla, abbia annunciato il listino della nuova Model 3 a 59.600 euro, solo «dopo» che l'ultima versione del maxiemendamento bollinata dalla Ragioneria Generale aveva alzato, pare dietro pressioni dei 5S, il limite per accedere al bonus a 61.000 euro?

Xylella, senatore Ciampolillo: «Patologia non avanza, la gente va a cercarla». Parla il senatore del Movimento 5 Stelle: «Il mio ulivo di Cisternino era vitale, sostanzialmente guarito», scrive Marco Mangano l'1 Febbraio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «In Puglia, non è la Xylella fastidiosa ad avanzare, ma gli uomini che vanno a cercarla. Nella regione la batteriosi è presente da un secolo». Ne è certo Lello Ciampolillo, senatore del M5s, 46 anni, barese.

A questo punto, lei mette in discussione pure l’approdo del patogeno nel Barese?

«Sì. Anche in quell’area la patologia c’è sempre stata».

Contesta anche l’emergenza?

«Certo. Questo termine indica un fenomeno che non dura molto. In Puglia, invece, come ho già detto, la malattia risiede da numerosi anni. A riprova di ciò, si rifletta su un dato: la percentuale di alberi campionati colpiti dalla Xylella è costante, sempre l’1,8%. Non c’è alcuna epidemia».

E allora la denominazione «Emergenza Xylella» del sito regionale non è appropriata?

«Non lo è. Dovrebbe essere “Emergenza disseccamenti”».

Beppe Grillo, nel suo blog, ospitò un articolo in cui si sosteneva che la Xylella altro non fosse se non una bufala.

«No. Con “bufala” non si intendeva negare l’esistenza della patologia, ma mettere in discussione quest’ultima come l’unica causa dei disseccamenti».

Quali sono le altre cause?

«Uso massiccio o errato di pesticidi, terreni abbandonati o non arati, mancanza o esecuzione poco professionale di potature».

Cosa pensa degli sradicamenti?

«Ritengo siano inutili, rappresentano una pratica folle».

Perché inutili?

«Perché la Xylella è presente su oltre 300 specie, 32 in Puglia. Pertanto, nella nostra regione, si dovrebbero tagliare le piante appartenenti a tutte le 32 varietà. Si devono, invece, curare terreni e alberi».

E allora per quale ragione in California le viti colpite dalla Xylella vengono sradicate da decenni?

«Ciò va verificato e, comunque, la realtà statunitense è diversa da quella pugliese».

Come crede si possa affrontare la questione?

«Con metodi naturali, la cui efficacia è stata scientificamente provata».

Ce li illustri.

«Una pianta ammalata può guarire facendo ricorso alle difese naturali. In altri casi, è provato che, con i trattamenti, si può ridurre in misura significativa la patologia. Questo lo ha dimostrato il professor Marco Scortichini e ciò è stato oggetto di pubblicazioni su autorevoli riviste scientifiche».

Lei si è opposto in ogni modo al taglio del suo ulivo di Cisternino. Mette in dubbio i risultati delle analisi che certificavano la batteriosi?

«No. L’albero è stato tagliato in maniera barbara. Ciò è stato inutile. Era un testimone scomodo: doveva diventare oggetto di studio dal momento che costituiva la prova che la Xylella può essere combattuta e vinta. Non aveva alcun segno di sofferenza e, nonostante fosse stato aggredito dal batterio da due anni, non presentava disseccamenti, ma piena vitalità ed era quindi sostanzialmente guarito».

Condivide l’utilizzo di insetticidi per uccidere la sputacchina, il vettore della patologia e distruggerne le uova?

«Basta rimuovere le erbe in cui l’insetto depone le uova».

La linea della Regione Puglia. 

«Vuole abbattere fino a 10-11 milioni di ulivi sani, molti secolari, sostituendoli con alberelli che vengono definiti “resistenti” o “tolleranti” alla batteriosi, ma ciò può essere provato solo dopo molti anni. Che senso ha sostituire gli alberi con esemplari giovani che potrebbero comunque contrarre la Xylella?».

·        Xylella, tutte le colpe di scienziati e tecnici: “Falsi e negligenti”.

Corte Ue: Italia venuta meno a obblighi per impedire diffusione Xylella. (LaPresse il 5 settembre 2019) - La Corte di giustizia dell'Unione europea ha stabilito che, alla scadenza del termine fissato dalla Commissione, vale a dire il 14 settembre 2017, l'Italia aveva omesso di rispettare due degli obblighi sulla Xylella, batterio che ha colpito gli ulivi in Puglia. La Corte constata in primo luogo che "l'Italia non ha proceduto immediatamente alla rimozione", nella zona di contenimento, almeno di tutte le piante infette nella fascia di 20 km della zona infetta confinante con la zona cuscinetto. In secondo luogo, "l'Italia non ha garantito, nella zona di contenimento, il monitoraggio della presenza della Xylella mediante ispezioni annuali effettuate al momento opportuno durante l'anno". La Corte respinge invece la domanda della Commissione diretta a far constatare "un costante e generale inadempimento da parte dell'Italia dell'obbligo di impedire la diffusione della Xylella". Nel 2018 la Commissione ha proposto ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte, ritenendo che l'Italia non si fosse conformata alla sua richiesta di intervenire immediatamente per impedire la diffusione della Xylella e che, in ragione del persistere degli inadempimenti, tale batterio si fosse ampiamente diffuso in Puglia.

Xylella, la Corte Europea condanna l’Italia: «Non ha fermato la malattia». Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Corriere.it. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha condannato l’Italia per non essere intervenuta tempestivamente per arginare la Xylella, la malattia che ha devastato una vasta area degli uliveti in Puglia e che sta continuando ad avanzare verso nord. La Corte contesta all’Italia di essere stata inadempiente e di non aver messo in atto le misure di contenimento richieste da Bruxelles. In particolare l’Italia non aveva attuato due obblighi : la rimozione delle piante malate nella zona infetta e il mancato monitoraggio della presenza dell’insetto «vettore» della malattia mediante ispezioni annuali nelle fasce non ancora investite dal disastro. Al momento la sentenza non comporta il pagamento di una pena per il governo (salvo le spese processuali) ma il pronunciamento potrà essere fatto valere in altre cause davanti a tribunali italiani. Il ricorso alla Corte era stato presentato dalla Commissione Ue nel 2018 e fa riferimento a inadempienze dei due anni precedenti. Bruxelles aveva imposto all’Italia la cosiddetta «eradicazione» degli ulivi attaccati dalla Xylella ma anche di quelle apparentemente sane in un raggio di 100 metri. Nel 2016 la misura era stata modificata, prevedendo abbattimenti più selettivi e contenuti e il solo monitoraggio del territorio interessato (in pratica le province di Lecce, Taranto e Brindisi). Il ricorso della commissione ue sosteneva che «l’Italia non si fosse conformata alla sua richiesta di intervenire immediatamente per impedire la diffusione della Xylella e che, in ragione del persistere degli inadempimenti, tale batterio si fosse ampiamente diffuso in Puglia». Con sentenza , la Corte spiega che «alla scadenza del termine fissato dalla Commissione, vale a dire il 14 settembre 2017, l’Italia aveva omesso di rispettare due degli obblighi ad essa incombenti in forza della decisione della Commissione». La Xylella, che provoca il disseccamento delle piante di ulivo, si è tradotto in un disastro economico e ambientale per la Puglia. Secondo una stima della Coldiretti di Lecce dell’inizio di agosto: la produzione di olio nel Salento è crollata del 90%, con un danno di 1,2 miliardi di euro. Riscontrata per la prima volta nel 2013 in un’azienda di Gallipoli, la malattia si è rapidamente diffusa. Il piano di emergenza messo a punto dal commissario per l’emergenza Giuseppe Silletti non era stato attuato ed era stato oggetto anche di un’inchiesta da parte della procura di Lecce che riteneva eccessiva la strategia di abbatti,mento delle piante malate e di quelle sane nelle vicinanze( le accuse a carico di Silletti sono state archiviate dopo 4 anni).

La Ue bacchetta l'Italia: "Inerzia sulla Xylella. Manca la prevenzione". Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Il Giornale.it. Lecce - La peste degli ulivi continuava ad avanzare e a fare strage di alberi secolari nel cuore della Puglia, mentre lo Stato italiano non applicava le misure obbligatorie disposte dall'Unione europea per arginare il batterio. Una parte della storia della xylella fastidiosa, il batterio che sta devastando le campagne salentine, è scolpito nella sentenza della Corte di giustizia dell'Ue. Che con questa motivazione ha accolto il ricorso della Commissione contro ritardi e mancanze nelle ispezioni e nell'abbattimento delle piante infette da parte delle autorità nazionali. Risultato: la procedura di infrazione avviata nel 2015 contro l'Italia si è conclusa con la condanna per primo inadempimento, che prevede solo il pagamento delle spese processuali. Ma al di là del danno monetario per la casse pubbliche, resta il disastro ambientale e anche economico in una terra dove l'antica magnificenza degli ulivi ha da tempo lasciato il posto a distese spettrali di tronchi tagliati a metà che si alternano a giganti dalle chiome irrimediabilmente secche. Il batterio è classificato come xylella dal 2015, ma in realtà già cinque anni prima le chiome degli alberi hanno cominciato a seccarsi. La zona maggiormente colpita inizialmente era quella di Gallipoli, ma da lì l'emergenza si è estesa rapidamente. Al punto che al capezzale della Puglia ferita è intervenuta la Commissione europea. Da Bruxelles sono partite precise misure di diversa intensità a seconda delle aree prese in esame, un intervento che si è scontrato ben presto con il fuoco di sbarramento alimentato da teorie negazioniste in salsa ambientalista che hanno contribuito a complicare le cose. Il termine fissato dall'Ue per ottemperare a quelle indicazioni era la metà del settembre del 2017 e nel 2018 è scattato il ricorso contro l'Italia per inadempimento. Ebbene, secondo i giudici della Corte di Giustizia l'Italia è colpevole sotto due aspetti: non ha proceduto immediatamente alla rimozione di tutti gli alberi infetti nella fascia di venti chilometri confinanti con la zona cuscinetto e non ha garantito nella zona di contenimento il monitoraggio necessario attraverso ispezioni annuali da fare al momento opportuno nel corso dell'anno. E a nulla sono valse le giustificazioni per i ritardi, tra cui il fiume di ricorsi amministrativi che hanno fatto inceppare le operazioni: per la Corte sono situazioni interne che non autorizzano "l'inosservanza degli obblighi e dei termini derivanti dal diritto dell'Unione". Adesso all'Italia tocca adeguarsi alla decisione per evitare sanzioni pecuniarie. Nel frattempo infuriano le polemiche. Anche a livello politico. "Il prevalere nel passato governo di teorie pseudoscientifiche, avallate irresponsabilmente anche dalla demagogia del governatore Emiliano ha provocato una catastrofe ambientale ed economica" dichiara la capogruppo al Senato di Forza Italia Anna Maria Bernini, che annuncia un sopralluogo nelle zone colpite per mercoledì prossimo. E mentre gli agricoltori sono da tempo sul piede di guerra e sottolineano come siano 21 milioni gli alberi infetti lamentando danni per oltre un miliardo di euro, il governatore pugliese Michele Emiliano alla guida di una giunta di centrosinistra respinge le critiche. Per il presidente della Regione la sentenza europea "riguarda tutto il periodo in cui la lotta alla xylella era sotto la esclusiva responsabilità del governo italiano e dei suo commissari"; inoltre - precisa - secondo la sentenza "i ritardi degli abbattimenti degli alberi infetti da xylella sono da ricercarsi nelle mancanze della legislazione nazionale e nei sequestri operati dalla Procura di Lecce che hanno impedito le estirpazioni". Il riferimento è a un'inchiesta avviata nel 2014, che si è conclusa il 7 maggio con l'archiviazione.

Xylella: in campo nuove varietà resistenti al batterio, c'è speranza. Dopo il Leccino, buone «prestazioni» anche dalla Maiatica, diffusa soprattutto in Basilicata. Tonio Tondo il 02 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Possiamo chiamarla la scala dei sintomi, in base alla manifestazione del disseccamento, della malattia da Xylella Fastidiosa, prima osservati e poi studiati con analisi di laboratorio, delle 19 cultivar di origine o ambientamento in Puglia e Basilicata allevate in un campo sperimentale nel Gallipolino, territorio di Parabita, dove c’è la più alta densità di popolazione batterica che sta flagellando la Puglia. Sono le cultivar maggiormente rappresentative del germoplasma olivicolo pugliese, un patrimonio di inestimabile valore. Indichiamo le cinque varietà resistenti oppure promettenti di una resistenza al batterio (oltre al Leccino diventato nel frattempo il benchmark, il riferimento per valutare le prestazioni delle altre cultivar) dopo una dimora di tre anni in mezzo. Per ogni cultivar sono state messe a dimora 24 piante. E’ il secondo campo sperimentale. Nel primo, area tra Parabita e Ugento, nato nel 2014, subito dopo la caratterizzazione del batterio, è stato osservato e valutato il comportamento di otto cultivar, per un numero complessivo di 200 piante. Ne parliamo con Donato Boscia, responsabile del Cnr di Bari, che ha coordinato e portato a conclusione il progetto di ricerca «Ponte» finanziato dall’Unione europea. Boscia è appena tornato da Ajaccio, in Corsica, dove ha presentato il rapporto a 350 ricercatori di 40 Paesi, inclusi gli Stati Uniti, il Brasile e il Giappone, direttamente interessati allo studio del batterio e delle sue quattro sottospecie, oltre alle delegazioni scientifiche di molti Paesi europei. Folta la delegazione di Bari, con una trentina di ricercatori, anche loro rientrati dopo un lungo viaggio tra pullman e quattro ore di traghetto. Il testimone della ricerca passa adesso a un’altra pugliese, Maria Saponari, scienziata tenace, che coordina un secondo progetto al quale partecipano ricercatori di numerose università europee. Presentiamo subito le novità. Dopo il Leccino buone prestazioni della Maiatica, un’oliva con doppia funzione da olio e da mensa, varietà diffusa soprattutto in Basilicata. Dopo tre anni e mezzo dieci piante infettate su 24, sintomi zero. L’accelerazione della malattia si è registrata nell’ultimo anno. Può verificarsi, infatti, che la malattia e gli stessi sintomi si manifestino nel tempo con un’impennata improvvisa. Zero sintomi significa che la malattia è presente ma senza disseccamenti. Al terzo posto della scala la Toscanina, che al di là del nome che fa pensare subito alla Toscana, è diffusa in Puglia tra le province di Bari e Brindisi. Quindici le piante ammalate su 24. 0,1 il valore di scala del disseccamento, un valore basso ma da osservare ancora nel tempo. Tutte le piante si sono ammalate nell’ultimo anno. Al quarto posto la Termite di Bitetto, molto buone anche sotto sale o fritte, oltre che per l’olio. La cultivar è molto diffusa nell’area intorno alla cittadina. Al quinto posto la Dolce di Cassano, 0,4 i sintomi di disseccamento su 18 piante invase dal batterio. Chiude questa graduatoria, che definiamo con prudenza virtuosa o promettente per arginare ed offrire altre alternative alle cultivar devastate, l’Ogliastra, proveniente dalla Sardegna. Su 15 piante intaccate dal batterio 0,5 il parametro della sintomatologia. Passiamo alle notizie negative. Particolare attenzione è stata dedicata al comportamento nei campi di produzione e nei due campi sperimentali della Coratina, varietà strategica della produzione pugliese, molto cara alle comunità baresi e non solo. Impianti di Coratina si sono diffusi in tutta la Puglia. Sotto osservazione costante cinque impianti di Coratina tra Casarano e Ugento. E’ sufficiente osservare direttamente le piante o le stesse foto per capire che purtroppo la Coratina non si più annoverare tra le varietà resistenti («La resistenza – chiarisce Boscia - è data dai geni che ostacolano la moltiplicazione della popolazione batterica nei vasi xilematici. La pianta può essere classificata resistente quando l’effetto dell’azione poligenetica è il contenimento del batterio impedendo l’occlusione dei vasi xilematici e quindi evitando il disseccamento»). La Coratina, purtroppo, lotta di più, resiste due-tre anni in più rispetto all’Ogliarola e alla Cellina di Nardò, ma poi cede al batterio e si avvia al disseccamento. Questo è stato osservato in campo aperto e nei due terreni con le piantine della sperimentazione. Le otto varietà osservate nel primo campo sono Coratina, Leccino, Arbosana, Koromeiki, Arbequina, Cima di Melfi e Frantoio. Ogliarola e Cellina inserite nel secondo gruppo. Solo Frantoio ha dimostrato una certa resistenza. Tutte le altre si sono ammalate con una progressione temporale di moltiplicazione batterica e di sintomi. Tutte con valori altissimi di infezione. L’osservazione diretta dei ricercatori e le prove in laboratorio hanno confermato la resistenza della Fs17, una pianta che deriva da un miglioramento genetico del Frantoio. Stessi valori del Leccino: 1-2 per cento di insediamento batterico rispetto ai parametri altissimi di Ogliarola, Cellina e purtroppo anche delle altre cultivar studiate. Ma le due varietà, da sole, non possono essere la sola alternativa colturale in Puglia. Per questo la speranza è che i primi risultati sulle altre 4-5 cultivar osservate e analizzate si consolidino nel tempo. Nel frattempo si può solo parlare di una promessa di resistenza alla malattia.

Xylella, arriva il primo olio dagli ulivi resistenti. «Una rinascita». Pubblicato martedì, 27 agosto 2019 da Michelangelo Borrillo su Corriere.it. A Gagliano del Capo la molitura anticipata di olio ottenuto dagli ulivi cosiddetti immunizzati grazie all’innesto di varietà resistenti di Leccino. Tecnica che ha permesso a piante malate di tornare a produrre dopo tre anni La speranza riparte dalla stessa area in cui, nell’ottobre del 2013, venne individuata per la prima volta la Xylella. Dal Sud della Puglia, da quel Salento da cui la peste degli ulivi, da sei anni a questa parte, si è mossa verso nord (province di Brindisi fino a lambire quella di Bari) e di recente anche verso ovest, da Taranto a Matera. La speranza si chiama olio nuovo, quello ottenuto dagli ulivi cosiddetti immunizzati grazie all’innesto di varietà resistenti di Leccino. Tecnica che ha permesso a piante malate di tornare a produrre dopo tre anni. L’esperimento è stato realizzato a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce — all’interno dell’azienda agricola di Giovanni Melcarne — grazie a una molitura anticipata (questo è il periodo solitamente dedicato, in Puglia, alla raccolta dei pomodori, non delle olive) resa possibile dal particolare clima di questa estate. Alla prima spremitura dell’anno, che ha aperto idealmente la raccolta in Puglia — la regione più olivicola d’Italia — erano presenti, oltre ad agricoltori, consumatori e rappresentanti del mondo della ricerca, anche i vertici regionali di Coldiretti: «È un segnale di rinascita per la provincia di Lecce che grazie alle varietà resistenti dovrà recuperare un patrimonio inestimabile — afferma Savino Muraglia, presidente Coldiretti Puglia — perso per ritardi, scaricabarile e mancata determinazione nella lotta al batterio che ha causato danni da 1,2 miliardi di euro». Nel dettaglio, a causa della Xylella fastidiosa sono andate perse quasi 3 olive su 4 in provincia di Lecce con il crollo del 73% della produzione di olio di oliva nell’ultimo anno, con il minimo storico di 5.295 tonnellate prodotte nell’ultima campagna 2018-2019 (contro le 19.587 della campagna precedente). In Puglia si produce oltre la metà dell’olio Made in Italy, con un extra vergine stimato nel 2019 in aumento del 70-80% dopo il drastico crollo dell’anno scorso, prevede Coldiretti. Ma solo grazie alla ripresa straordinaria delle aree di Bari, Bat e Foggia, con ottime performance di Taranto e Brindisi ma con uno scenario produttivo che a Lecce è stimato ancora «in calo del 90-95% rispetto alle medie storiche, perché sia nell’area Ionica che nell’Adriatica la produzione di cellina e ogliarola è azzerata e risultano produttive solo le piante di leccino». «A livello nazionale - sottolinea la Coldiretti - si punta ad una produzione di oltre 315 milioni di chili, che resta comunque notevolmente inferiore alla media dell’ultimo decennio. Rispetto allo scorso anno, stavolta la produzione tornerà a crescere al Centro Sud dove si concentra gran parte del raccolto nazionale mentre è prevista in discesa al Nord». E comunque bisognerà fare i conti con il clima e soprattutto con l’andamento delle piogge e delle temperature nei prossimi mesi. «Bisogna recuperare il pesante deficit italiano — sottolinea il presidente della Coldiretti Ettore Prandini — potenziando una filiera che coinvolge oltre 400 mila aziende agricole specializzate in Italia e che può contare sul maggior numero di olio extravergine a denominazione in Europa (43 Dop e 4 Igp) con un patrimonio di 250 milioni di piante e 533 varietà di olive, il più vasto tesoro di biodiversità del mondo». Più o meno sulla stessa lunghezza d’onda anche le previsioni di Italia Olivicola: «La campagna olearia si prospetta certamente di buona quantità, probabilmente quasi in linea con le medie del nostro Paese degli ultimi anni, eccezione fatta naturalmente per il disastroso raccolto dello scorso anno. Manteniamo però i piedi per terra — sottolinea il presidente Gennaro Sicolo — e aspettiamo qualche altra settimana perché, con le temperature più basse di settembre, potrebbero arrivare gli attacchi della mosca che potrebbero incidere sia sulla quantità, sia sulla qualità del nostro prodotto. Le premesse sono però sicuramente positive soprattutto nelle regioni meridionali, la Puglia in particolare, polmone olivicolo italiano, mentre più complicata è la situazione in alcune zone del Centro e del Nord. Al momento, a poco più di un mese dall’inizio della raccolta vera, possiamo prevedere per l’Italia il classico ruolo da protagonista per la qualità dell’olio extravergine d’oliva, unica rispetto a tutti gli altri Paesi produttori, condito con una buona quantità di prodotto». Quanto al confronto con gli altri paesi produttori del Mediterraneo, per Coldiretti «i primi dati globali provvisori per la raccolta dell’olio di oliva 2019-20 evidenziano che la Spagna dovrebbe produrre 1,35 milioni di tonnellate di olio d’oliva, un po’ meno rispetto alla quantità di 1.77 milioni di tonnellate dell’anno precedente mentre la Grecia raggiungerebbe le 300 mila tonnellate, in crescita rispetto alle 185 mila della stagione precedente».

Xylella, non c’è cura: per l’Efsa «tutta la Ue  è a rischio». Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Corriere.it. Controllo degli insetti vettori e corretta e tempestiva applicazione delle misure di emergenza attualmente in vigore a livello Ue (taglio delle piante infette e di quelle suscettibili di infezione nel raggio di 100 metri) risultano quindi decisive. Le simulazioni condotte dal panel Efsa suggeriscono che l’eradicazione potrebbe essere ottenuta anche con un raggio inferiore ai 100 metri, ma solo in caso di diagnosi precoce della malattia, controllo degli insetti vettori molto efficiente per adulti e larve, rimozione immediata delle piante. Al contrario, se il vettore è scarsamente controllato, anche nel caso del raggio di taglio attuale, l’eradicazione potrebbe fallire. Ridurre le zone tampone, quelle che separano l’area infetta dall’area indenne, aumenta drasticamente la probabilità di espansione dell’epidemia. Il batterio Xylella fastidiosa, capace di infettare oltre 500 specie vegetali in tutto il mondo con 100 milioni di dollari l’anno di danni calcolati solo sui vigneti californiani, è stato individuato per la prima volta in Europa nel 2013 in Salento, in Puglia, quale responsabile della sindrome di disseccamento rapido degli ulivi. Nel 2015 il batterio è stato identificato in Francia, in Corsica e nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Nel 2016 è stata la volta delle Baleari, con infezione di ulivi, viti e mandorli, e di una serra in Germania. Le piante nel focolaio tedesco sono state distrutte e il batterio eliminato, operazione resa più semplice dal fatto che si trattava di un vivaio e non di una vasta area, come accade in Puglia o nella Spagna sud-orientale, dove nel 2017 il batterio viene trovato sui mandorli nella provincia di Alicante, con l’area dell’epidemia che oggi supera i 134 mila ettari. Nel 2018, la Spagna ha notificato la presenza del patogeno in un ulivo situato nella regione autonoma di Madrid, e nello stesso periodo un vivaio belga distruggeva tutti gli ulivi in azienda dopo averne trovato uno infetto. All’inizio del 2019 sono stati segnalati due nuovi focolai, uno in Toscana sul Monte Argentario e l’altro nel distretto di Porto in Portogallo su piante ornamentali e spontanee.

Allarme Xylella, per l'Efsa: «Non c'è cura, tutta l'Ue è a rischio». Misure di controllo dell'Unione europea restano per ora l'unica soluzione. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Maggio 2019. Non esiste ancora una cura in grado di eliminare il batterio vegetale xylella fastidiosa che minaccia non solo i Paesi mediterranei ma la maggior parte del territorio Ue. Sono le conclusioni di due pareri dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) resi noti oggi. Le opinioni confermano che alcuni trattamenti sperimentati in questi anni possono ridurre i sintomi, ma non eliminano il batterio. L’applicazione tempestiva delle misure di controllo Ue resta quindi l’unico modo per fermarlo. La lotta alla xylella, sottolineano gli esperti Efsa nei documenti con cui aggiornano allo stato attuale delle conoscenze scientifiche altrettanti rapporti del 2015, è complicata dal ritardo con cui si manifestano i sintomi. Controllo degli insetti vettori e corretta e tempestiva applicazione delle misure di emergenza attualmente in vigore a livello Ue (taglio delle piante infette e di quelle suscettibili di infezione nel raggio di 100 metri) risultano quindi decisive. Le simulazioni condotte dal panel Efsa suggeriscono che l'eradicazione potrebbe essere ottenuta anche con un raggio inferiore ai 100 metri, ma solo in caso di diagnosi precoce della malattia, controllo degli insetti vettori molto efficiente per adulti e larve, rimozione immediata delle piante. Al contrario, se il vettore è scarsamente controllato, anche nel caso del raggio di taglio attuale, l’eradicazione potrebbe fallire. Ridurre le zone tampone, quelle che separano l’area infetta dall’area indenne, aumenta drasticamente la probabilità di espansione dell’epidemia. Il batterio xylella fastidiosa, capace di infettare oltre 500 specie vegetali in tutto il mondo con 100 milioni di dollari l'anno di danni calcolati solo sui vigneti californiani, è stato individuato per la prima volta in Europa nel 2013 in Salento, in Puglia, quale responsabile della sindrome di disseccamento rapido degli ulivi. Nel 2015 il batterio è stato identificato in Francia, in Corsica e nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Nel 2016 è stata la volta delle Baleari, con infezione di ulivi, viti e mandorli, e di una serra in Germania. Le piante nel focolaio tedesco sono state distrutte e il batterio eliminato, operazione resa più semplice dal fatto che si trattava di un vivaio e non di una vasta area, come accade in Puglia o nella Spagna sud-orientale, dove nel 2017 il batterio viene trovato sui mandorli nella provincia di Alicante, con l'area dell’epidemia che oggi supera i 134mila ettari. Nel 2018, la Spagna ha notificato la presenza del patogeno in un ulivo situato nella regione autonoma di Madrid, e nello stesso periodo un vivaio belga distruggeva tutti gli ulivi in azienda dopo averne trovato uno infetto. All’inizio del 2019 sono stati segnalati due nuovi focolai, uno in Toscana sul Monte Argentario e l’altro nel distretto di Porto in Portogallo su piante ornamentali e spontanee.

LE PAROLE DI ITALIA OLIVICOLA - "L'Efsa ha confermato oggi l'amara realtà che purtroppo sapevamo da tempo: al momento, nonostante gli sforzi di tanti bravi ricercatori, non esiste una cura per debellare il batterio della xylella dai nostri campi, ma abbiamo solo l'arma della prevenzione attuando le misure che l'Unione Europea suggerisce da tempo e che, purtroppo, in Italia non sono mai state attuate seriamente. Fare le buone pratiche agricole (aratura, potatura, etc.) ed eradicare le piante infette e morte sono le uniche soluzioni adesso per provare a fermare il contagio. La xylella è un problema nazionale ed europeo e come tale va trattato, facendo squadra tra tutte le istituzioni e gli agricoltori che hanno subito questa catastrofe per i campi e per l'economia. Ora più che mai è necessaria un'azione congiunta e seria per fermare il batterio e per provare a ricostruire l'olivicoltura salentina distrutta, ed in tal senso le intenzioni dell'Unione Europea, confermate dal Commissario Hogan nel nostro ultimo incontro a Tokyo la scorsa settimana, sono positive in merito al finanziamento del piano da 500 milioni di euro per nuovi impianti ed il sostegno alle aziende agricole in ginocchio". Così il Presidente di Italia Olivicola, la prima organizzazione della produzione olivicola italiana, Gennaro Sicolo, ha commentato i due pareri dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare resi noti oggi. In base alle stime contenute nello studio di Italia Olivicola, nelle scorse settimane sottoposto all'attenzione dei Commissari Ue Hogan e Andriukaitis, a causa del batterio sono 4 milioni le piante definitivamente improduttive, 50mila gli ettari desertificati, mentre la produzione olivicola si è ridotta del 10%.

L'ALLARME DELLA COLDIRETTI - «E' avanzato inesorabilmente verso Nord a una velocità di più 2 chilometri al mese il contagio della Xylella che già provocato, con 21 milioni di piante infette, una strage di ulivi lasciando un panorama spettrale con perdite di tempo, annunci, promesse e inutili rimpalli di responsabilità». E’ quanto afferma la Coldiretti nel commentare le conclusioni di due pareri dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). Dall’autunno 2013, data in cui è stata accertata su un appezzamento di olivo a Gallipoli, «la malattia - sottolinea Coldiretti - si è estesa senza che venisse applicata una strategia efficace per fermare il contagio che, dopo aver fatto seccare gli ulivi leccesi, ha intaccato il patrimonio olivicolo di Brindisi e Taranto, arrivando pericolosamente a Monopoli, in provincia di Bari, con effetti disastrosi sull'ambiente, l'economia e sull'occupazione». Il conto dei danni causati dalla Xylella in Italia è salito, secondo la Coldiretti, a 1,2 miliardi di euro. «Con l’importante approvazione del Decreto emergenze, profondamente modificato rispetto all’impostazione iniziale, serve ora - chiede Coldiretti - un deciso cambio di passo per sostenere gli agricoltori colpiti dell’area infetta che vogliono soltanto avere la libertà di espiantare, reimpiantare e non morire di Xylella e burocrazia». 

IL DL EMERGENZE È LEGGE - «E' una vittoria per tutto il comparto agroalimentare italiano». Così il Ministro delle Politiche agricole alimentari Gian Marco Centinaio la conversione in legge con voto finale al Senato del Dl Emergenze Agricoltura. Tra i provvedimenti il contrasto alla Xylella e le gelate in Puglia, interventi sulla questione quote latte e Pecorino romano/sardo, interventi per l’agrumicoltura, per la tutela del settore pesca e anticipo Pac. «Con misure concrete - continua il ministro - lavoriamo per ripartire e lasciarci alle spalle le problematiche che hanno coinvolto il settore nell’ultimo anno. Avevo promesso lavoro e impegno per riportare i settori olivicolo-oleario, agrumicolo, lattiero caseario e ovi-caprino al più presto fuori dalla crisi e competitivi. Adesso ci sono gli strumenti per poterci riuscire. Dobbiamo continuare a valorizzare il nostro made in Italy. Promuovere sempre di più le nostre eccellenze in tutto il mondo. Questo è un primo passo, la strada è quella giusta. Il Governo c'è, pronto a dare supporto all’agricoltura» conclude Centinaio. «L'approvazione del decreto legge anche in Senato e la prossima firma del Presidente Mattarella chiudono il cerchio del grandissimo lavoro portato avanti da tutti gli agricoltori liberi, dai sindaci, dai lavoratori, dai sindacati, dalle organizzazioni che si sono spogliati dei propri simboli e si sono uniti sotto il vessillo dei gilet arancioni. Abbiamo compiuto un’impresa straordinaria, gli agricoltori si sono ripresi la scena ed hanno ottenuto, manifestando pacificamente a Bari e a Roma in migliaia, risultati importantissimi». Lo afferma in una nota il portavoce dei 'gilet arancionì, Onofrio Spagnoletti Zeuli. «Siamo stati tutti protagonisti, siamo tutti orgogliosi di questo straordinario traguardo, ed è doveroso ringraziare il governo, tutti i parlamentari di maggioranza e opposizione, il Ministro Centinaio, il Ministro Lezzi, la sottosegretaria Pesce, la Regione Puglia per aver ascoltato le nostre istanze e per aver lavorato insieme, superando qualsiasi divisione, per provare a risolvere questi problemi. I gilet arancioni erano stati gli unici a chiedere un decreto legge, unico strumento in grado di fronteggiare le emergenze sin da subito, hanno lottato e hanno vinto». «I 34 milioni per la gelata - afferma ancora - lo stanziamento di 300 milioni di euro per aziende, frantoi e vivai del Salento e per la ricostruzione dell’olivicoltura salentina, l’anticipazione della Pac 2019, la copertura degli interessi dei mutui bancari, le misure per i frantoi e le cooperative danneggiate dalle gelate, le giornate lavorative riconosciute ai lavoratori per l’anno orribile appena trascorso, la semplificazione per le procedure di eradicazione sono davvero risultati straordinari che ridaranno un pò di ossigeno ad aziende e famiglie». «Vigileremo - conclude - affinché i decreti attuativi prossimi consentano di sfruttare sin da subito queste risorse e lavoreremo ancora per consentire all’olivicoltura di ritagliarsi lo spazio che merita quale settore trainante del Made in Italy. Adesso possiamo coltivare la speranza di rinascita del nostro settore». «Con il via libera al Senato, si chiude l’iter di approvazione del Decreto Emergenze, profondamente modificato rispetto all’impostazione iniziale. Serve ora un deciso cambio di passo per sostenere gli agricoltori colpiti dell’area infetta che vogliono soltanto avere la libertà di espiantare, reimpiantare e non morire di Xylella e burocrazia». Lo afferma Savino Muraglia, presidente di Coldiretti Puglia, dopo l’approvazione in Senato del Decreto Emergenze. «Non esiste cura per la Xylella - aggiunge - così come affermato dai due pareri dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa). Si può solo intervenire per fermare il dilagare della malattia e nelle aree infette trovare adeguati sistemi di convivenza, come innesti e sovrainnesti con varietà resistenti. E’ mancato finora un piano straordinario d’intervento per fermare il contagio che è avanzato inesorabilmente verso nord della Puglia ad una velocità di più 2 chilometri al mese che ha già provocato con 21 milioni di piante infette». La Coldiretti chiede che si smetta di perdere tempo con "annunci, promesse ed inutili rimpalli di responsabilità della politica regionale». «Quanto sta avvenendo circa l’ulivo di Monopoli, prima risultato infetto, con tutto quello che ha comportato, e nelle ultime ore dichiarato negativo ai test da Xylella - insiste il presidente Muraglia - fa emergere per l'ennesima volta la necessità che sia convocato immediatamente e a ritmo costante il tavolo istituzionale istituito dopo la nostra manifestazione del 9 marzo a Lecce che prevede la partecipazione degli enti di ricerca, per affrontare in maniera compatta tutte le problematiche che oggi ricadono esclusivamente sulla pelle delle imprese delle aree infette, contenimento e cuscinetto. L’assessorato regionale all’Agricoltura non può fare finta di nulla»

Xylella, l'epidemia era nota prima del 2013: nuove accuse ai ricercatori. I dettagli di uno stralcio del fascicolo archiviato dal gip di Lecce ma trasmesso a Bari per indagare su altri filoni. Massimiliano Scagliarini l'11 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Le tre documentazioni che attestano come avvenuto nell’ottobre del 2013 il ritrovamento in Salento del batterio degli ulivi «risultano tardive non solo con riferimento all’emergere del fenomeno del disseccamento ma anche del ritrovamento nel territorio del batterio della Xylella». È anche per questo che la Procura di Lecce ha trasmesso a Bari, con l’ipotesi di falso in atto pubblico, uno stralcio dell’indagine condotta dalla Forestale e che nei giorni scorsi è stata archiviata. Oltre al «giallo» dell’importazione dei campioni di Xylella allo Iam di Valenzano nel 2010 (l’ipotesi è che siano state falsificate le autorizzazioni), c’è infatti anche la questione della data ufficiale della «scoperta» del batterio quale responsabili del disseccamento degli ulivi. La tesi della Forestale è che alcuni ricercatori (Vito Nicola Savino e Franco Nigro dell’Università di Bari, Donato Boscia e Maria Saponari del Cnr) abbiano ritardato la comunicazione del ritrovamento. L’ipotesi è che «il ritardo sia, con alta probabilità, collegato alla necessità per i laboratori collegati alla rete Selge di munirsi dell'accreditamento necessario alla manipolazione del batterio». In questo senso, l’inchiesta valorizza il contenuto di alcune mail sequestrate nei computer degli scienziati, mail che proverebbero - sempre nella tesi di accusa - il fatto che la presenza di Xylella fosse comunque già nota, tanto che su una rivista scientifica edita dal Dipartimento scienze del suolo dell’Università di Bari era stata pubblicata una «disease note» in data precedente all’invio della comunicazione all’Osservatorio fitopatologico della Regione. Uno dei ricercatori si è difeso dicendo che prima della comunicazione ufficiale era necessaria una «validazione» del risultato attraverso la pubblicazione su una rivista scientifica: «Data l’urgenza e l'importanza dell’argomento, invece che muoversi attraverso una pubblicazione che avrebbe richiesto un’opera di refeeraggio (la verifica del contenuto da parte di esperti anonimi, ndr) e quindi avrebbe protratto i tempi, si è preferito agire attraverso una nota sulla rivista sopra indicata». Ma la rivista era pubblicata dagli stessi scienziati che hanno redatto la nota e dunque, per la Forestale, una validazione fatta in questo modo sarebbe «meramente pretestuosa». L’indagine ritiene insomma che i ricercatori di Università di Bari e Cnr sapessero del disseccamento - e probabilmente anche delle sue cause - almeno dal 2011, quando era stata concessa dal ministero della Salute una deroga straordinaria per l’utilizzo sugli alberi di un prodotto ritenuto «nocivo» e «pericoloso per l’ambiente» con l’obiettivo di sperimentarlo come possibile rimedio per «la lebbra dell’ulivo». Va ricordato che in merito all’accusa principale mossa agli scienziati (quella di aver contribuito alla diffusione della Xylella) è stata la stessa Procura di Lecce a chiedere e ottenere l’archiviazione. Anche le ipotesi di falso ideologico, tutte comunque molto vicine alla prescrizione, andranno eventualmente provate e sottoposte al vaglio di un giudice, soprattutto perché sottendono un’accusa molto grave: aver nascosto l’esistenza della malattia con il «secondo fine» di avvantaggiarsene per ottenere finanziamenti destinati alla ricerca. Accusa che tutti gli scienziati coinvolti respingono fermamente. 

Xylella, a Bari l'indagine sul batterio importato. Secondo l'accusa i documenti con cui nel 2010 vennero importati da Belgio e Olanda alcuni ceppi di Xylella Fastidiosa furono falsificati. Massimiliano Scagliarini il 10 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’accusa - che potrebbe essere prescritta - è di aver falsificato i documenti con cui nel 2010 vennero importati a Bari dal Belgio e dall’Olanda alcuni ceppi di Xylella Fastidiosa, quelli utilizzati nell’ormai famoso workshop svolto all’Istituto agronomico mediterraneo che secondo i complottisti avrebbe introdotto in Italia il batterio killer degli ulivi. Verte su questa ipotesi il fascicolo che la Procura di Lecce ha trasmesso ai colleghi di Bari dopo l’archiviazione dell’inchiesta sugli scienziati accusati di aver favorito l’epidemia. L’episodio ricostruito dall’ex Corpo forestale dello Stato ha i contorni del giallo, soprattutto perché uno degli indagati, il ricercatore Franco Valentini dello Iam, ha detto agli investigatori che gli esemplari importati appartenevano alla sub-specie «Multiplex», e non alla «Pauca» ritrovata in Salento. Per questo, nell’aprile 2015, la Forestale si era presentata con un ordine di esibizione allo Iam che - in quanto organo collegato alle Nazioni unite - gode di immunità paragonabile a quella diplomatica. Qui, una funzionaria dell’istituto consegna una dichiarazione con cui - pur non rinunciando all’immunità - lo Iam acconsente all’acquisizione, ma poi la stessa funzionaria chiede di restituire il documento e lo strappa dicendo «di essere stata aspramente richiamata dai suoi superiori». I militari riescono poi a ottenere una fotocopia di un «verbale di controllo» del materiale importato, firmata da Valentini e dall’allora responsabile dell’Osservatorio fitosanitario regionale, Antonio Guario. Secondo la ricostruzione della Forestale, i materiali effettivamente importati sono «del tutto differenti rispetto a quelli per i quali era stata richiesta l’autorizzazione», cioè quattro ceppi di Fastidiosa provenienti dal Belgio: una «ulteriore e diversa introduzione di materiale infetto», arrivato invece dall’Olanda e trasportato da uno studioso che avrebbe poi partecipato al workshop. La lettera di autorizzazione per questo secondo lotto di materiale, secondo la Forestale, sarebbe stata rilasciata in un secondo momento: lo proverebbe un timbro dell’omologo ufficio olandese con data posteriore a quella del verbale di apertura dei campioni, e - soprattutto - il corriere indicato nel verbale (Dhl) ha confermato che la spedizione non era mai avvenuta. «I due verbali attestanti il controllo del materiale in arrivo allo IAM-B di Valenzano (BA), così come anche i verbali di verifica e distruzione del materiale contaminato - secondo la Procura di Lecce -, risultano tutti redatti su carta semplice non riportante alcuna intestazione e/o protocollo di registrazione, prestandosi, pertanto, a facili sostituzioni nel tempo». La Forestale ritiene «priva di plausibile giustificazione» l’importazione in Italia da parte dello Iam «a scopi di ricerca scientifica e di studio per la formazione di esperti» di tutte le sottospecie di Xylella ad eccezione proprio della «Pauca» che infetta il Salento. Oltre che il giallo dell’importazione dei campioni del batterio, la Procura di Bari dovrà chiarire il contenuto di alcuni documenti redatti da ricercatori dell’Università di Bari, del Cnr e del «Basile Caramia» di Locorotondo, oltre che da un altro ed dirigente dell’assessorato Agricoltura della Regione.

Xylella, tutte le colpe di scienziati e tecnici: “Falsi e negligenti”. l gip di Lecce sulla strage degli ulivi in Puglia: interventi tardivi. Ma poi dice sì all’archiviazione: “Manca la prova certa del reato”. Gabriella De Matteis e Giuliano Foschini il 6 maggio 2019 su La Repubblica. Un primo colpevole c'è. Se gli ulivi della Puglia stanno morendo è per le "molteplici irregolarità", il "pressapochismo e la negligenza" con la quale avrebbero lavorato in questi anni i tecnici, gli accademici e i politici locali, sottovalutando il diffondersi del batterio della xylella. Una serie di interventi, i loro, "che si sono dimostrati assolutamente disarticolati, tardivi, caratterizzati da scarsa trasparenza e professionalità e non consoni complessivamente a una corretta gestione dell'emergenza". Ciò nonostante, però, secondo il tribunale di Lecce non è possibile accusarli di aver diffuso volutamente la peste degli ulivi. "E' indubbio - scrive il gip Alcide Maritati - che gli indagati (ndr, dirigenti regionali, professori universitari e degli istituti di ricerca) ciascuno per la sua parte, non hanno di certo agito seguendo le regole e le prassi che sarebbero state necessarie in quella situazione". "Ma è altrettanto vero - continua - che pare impossibile trovare la prova certe che, osservate le corrette regole di comportamento, l'evento non si sarebbe comunque realizzato". Da qui le 44 pagine di archiviazione (su richiesta della procura guidata da Leonardo Leone de Castris) che, però, suonano come un lunghissimo atto di accusa contro un sistema che avrebbe dovuto muoversi per tempo. E invece non l'ha fatto. Contribuendo a causare il nuovo, agghiacciante, paesaggio lunare salentino. "L'insorgenza del fenomeno del disseccamento rapido degli olivi salentini - si legge negli atti - pare risalire intorno alla metà degli anni 2000". E' possibile che sia arrivato attraverso l'importazione di piante ornamentali dall'estero. Ma, secondo gli investigatori, ci sono state comunque alcune situazioni poco chiare. La prima è un convegno organizzato nel 2010 dallo Iam, l'Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di Valenzano. In quell'occasione il batterio fu importato per motivi di studio. "Si è tenuto un workshop - si legge negli atti - nell'ambito di un'associazione scientifica che si dedica allo sviluppo di soluzioni propositive a malattie batteriche di drupacee (alberi da frutto) e noci". Ma perché, si chiede la Procura, "l'interesse per la xylella" che non attaccava gli alberi che producono "drupe e noci?". A questa domanda dallo Iam non hanno mai risposto. Perché, quando la procura di Lecce ha chiesto i documenti, dall'istituto si sono trincerati dietro "l'immunità giurisdizionale di cui gode", come se fosse un corpo diplomatico. I tecnici hanno dimostrato però che la sottospecie di xylella che ha attaccato gli ulivi in Salento non era stata importata in quell'occasione. "Ma è priva di ogni plausibile giustificazione - scrivono i pm - l'introduzione a scopi di ricerca e studio di tutte le sottospecie di Xylella fastidiosa conosciute ad eccezione della sola individuata nel Salento". "Reticenze, omissioni e falsità hanno condizionato l'esito dell'indagine" si legge ancora negli atti. Dove sottolineano anche "l'inadeguatezza delle misure adottate" nel corso del tempo da parte degli uffici regionali. "Misure che costituivano uno strumento di ottemperanza formale alle disposizioni imposte a livello comunitario, senza una effettiva presa in carico del problema". I magistrati parlano anche di "incredibile sciatteria nelle operazioni di campionamento", tali "da mettere in dubbio anche i risultati degli accertamenti". Per poi concludere con la peggiore delle accuse: "Quel che emerge è la preponderanza dell'interesse economico, ovvero la prospettiva di ottenere finanziamenti a beneficio esclusivo dell'università di Bari, rispetto alle finalità della ricerca scientifica".

Xylella, a Lecce archiviata inchiesta su scienziati. «Troppe omertà», il fascicolo passa a Bari. Accolta la richiesta dei pm salentini: negli ultimi 4 anni condotte negligenti e scorrette. E un pezzo di inchiesta finisce alla procura del capoluogo pugliese. Linda Cappello il 7 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Cala il sipario sull’inchiesta riguardante la diffusione della Xylella.  A scrivere la parola fine è stato il giudice per le indagini preliminari Alcide Maritati, che nei giorni scorsi ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone e dal sostituto Roberta Licci. Le indagini, condotte dai carabinieri del corpo forestale, hanno sì evidenziato irregolarità, negligenze e condotte colpevoli da parte di chi aveva il compito di prevenire e gestire l’emergenza: ma in base alle conoscenze del mondo scientifico, è impossibile provare che questi comportamenti abbiano certamente causato l’inarrestabile avanzata del batterio killer degli ulivi. Ora, però, potrebbero aprirsi altri scenari. La Procura ha infatti trasmesso gli atti a Bari riguarda ipotesi di falso di atti presso lo Iam ( Istituto Agronomico Mediterraneo) di Valenzano. Ma non solo. All’attenzione dei magistrati baresi ci sono anche due comunicazioni effettuate dal Fitosanitario (rispettivamente il 2 e il 15 ottobre 2013) relativi alla presenza del fenomeno del Codiro sia al rinvenimento della Xylella. Infine è stato trasmesso anche un esposto presentato nel febbraio scorso dalla European Consumers, in cui si fa riferimento alla gestione di finanziamenti da parte della Regione. Nella corposa richiesta di archiviazione, però, la Procura salentina ripercorre passo dopo passo le meticolose indagini svolte insieme ai carabinieri del corpo forestale, sottolineando che nel corso di questi quattro anni gli inquirenti si sono trovati davanti a condotte omertose, reticenze e scorrettezze. Nella corposa richiesta di archiviazione, però, la Procura salentina ripercorre passo dopo passo le meticolose indagini svolte insieme ai carabinieri del corpo forestale, sottolineando che nel corso di questi quattro anni gli inquirenti si sono trovati davanti a condotte omertose, reticenze e scorrettezze. In primo luogo, si fa riferimento ad imperdonabili ritardi nelle comunicazioni ufficiali alle autorità competenti sia per quanto riguarda il fenomeno dell’essiccamento degli ulivi che sul ritrovamento della Xylella nel territorio: illuminante al riguardo la deposizione di un ispettore fitosanitario, che riferisce di aver saputo da Guario che già nel 2005 la politica era a conoscenza del problema, ma procedere con gli espianti sarebbe stata una scelta troppo impopolare. Da quell’anno fino al 2013, quando il problema venne reso noto in tutta la sua gravità, nessuna azione di contrasto o contenimento del batterio venne pianificata o attuata. Come mai? Secondo la Procura perché i laboratori incaricati di effettuare le analisi avevano bisogno del tempo necessario per ottenere l’accreditamento al fine di effettuare la manipolazione del batterio. Un aspetto particolarmente delicato, poi, è quello che riguarda i campi sperimentali, creati in provincia di Lecce fin dal 2010 per testare prodotti fitosanitari efficaci contro la «Lebbra dell’olivo», fino al quel momento espressamente vietati. Le indagini hanno poi accertato che i campi sperimentali erano già stati creati nel 2009, ma né gli uffici della Asl né quelli della Regione avrebbero fornito alla magistratura le notizie necessarie per conoscere i motivi della sperimentazione oppure gli enti proponenti. Con la conseguenza che, in caso di una mancata valutazione del rischio, l’uso di fitofarmaci avrebbe ulteriormente indebolito le difese di piante già esposte all’attacco di batteri come quello della Xylella. I magistrati, fra le considerazioni finali, scrivono che sulla scorta del contenuto delle mail ricavate dai pc di alcuni indagati emergerebbe un interesse economico ad ottenere finanziamenti in favore dell’Università di Bari, a scapito della ricerca scientifica.

·        Lo smaltimento illecito del materiale nucleare.

Il libro inchiesta "Plutonio": "Così le navi dei veleni venivano usate per il traffico di materiale nucleare". Documenti inediti e confidenze nelle pagine scritte dalla giornalista Monica Mistretta e dal presidente onorario della Cassazione, Carlo Sarzana di Sant'Ippolito, scrive Giuseppe Baldessarro il 18 gennaio 2019 su "La Repubblica". Dietro il mistero delle navi a perdere (le imbarcazioni affondate nel Mediterraneo tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90) non venivano trasportati soltanto rifiuti tossici e radioattivi da inabissare per conto delle multinazionali, ma erano usate per i traffici di materiale nucleare per uso bellico, che partiva dall'Est e dall'Europa per arrivare clandestinamente in Iran. E' questa la tesi di un'inchiesta dal titolo "Plutonio", pubblicata da "Città del sole edizioni" (15 euro), a firma della giornalista Monica Mistretta e da Carlo Sarzana di Sant'Ippolito, presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione e docente universitario. Un libro che mette assieme i riscontri delle indagini di una mezza dozzina di procure italiane e gli atti delle commissioni parlamentari che negli anni si sono occupate di traffici di rifiuti e di alcune delle vicende più oscure del dopoguerra italiano (dall'omicidio di Ilaria Alpi alla strage di Ustica). Ma che soprattutto fa tesoro di alcuni documenti inediti e "confidenze" del comandate Natale De Grazia, l'ufficiale della Marina Militare morto misteriosamente il 12 dicembre del 1995, mentre da capo di un pool di investigatori si stava occupando di una serie di strani affondamenti a largo delle coste del Sud Italia. De Grazia da diversi mesi era alla guida di un gruppo di inquirenti che su indicazione di Franco Neri, magistrato in forza a Reggio Calabria che aveva raccolto un esposto di Legambiente, era impegnato a ricostruire un traffico di rifiuti che vedeva coinvolti esponenti della criminalità organizzata calabrese. Un sottile filo che nel tempo ha consentito agli investigatori di ricostruire, anche grazie ad altre procure, una vasta trama di interessi internazionali, arrivando a ipotizzare il coinvolgimento di multinazionali, esponenti di governi di diverse parti del mondo, armatori, faccendieri, trafficanti di armi e personaggi legati a doppio filo ai servizi segreti non solo italiani. Un'inchiesta poderosa e scottante, bruscamente interrotta dalla morte di De Grazia durante una missione a Livorno. L'ufficiale perse la vita per un presunto infarto mentre era in viaggio. Episodio sul quale tuttavia non sarà mai fatta piena luce, tra accertamenti lacunosi e omissioni varie. Il pool di Neri fino a quel momento e (si legge negli atti), "nonostante le incursioni di servizi segreti e infiltrati", era riuscito a raccogliere testimonianze, documentazioni e indizi importanti rispetto alla pratica di affondare decine di navi con l'intento di inabissare rifiuti tossici e radioattivi. Inchieste poi archiviate, rispetto alle quali però nuove verità sembrano riaffiorare. Prima tra tutte il traffico di materiale nucleare riconvertito da vendere ad alcuni paesi del Medio Oriente. Scrivono gli autori di Plutonio: "Verità che ancora oggi rischiano di mettere in imbarazzo l'intero mondo occidentale. La questione delle sanzioni all'Iran è più che mai aperta. Se non altro perché nessuno, fino a oggi, ci aveva raccontato chi ha fornito materiali e tecnologie nucleari agli ayatollah".

Bomba ecologica nel Nord Est: la mappa dei rifiuti radioattivi in Lombardia e Veneto. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Milena Gabanelli su Corriere.it. Nel Bresciano oltre 86mila tonnellate si trovano ancora dentro le aziende o in discariche realizzate senza l’isolamento del fondo. E così i veleni hanno raggiunto la falda sottostante. È il caso della discarica Metalli Capra di Capriano del Colle, la più grande discarica radioattiva d’Italia, con ben 82.500 tonnellate di scorie al Cesio 137 che dormono all’interno di un parco agricolo regionale costellato di vigneti. Un’altra discarica più piccola si trova alle porte di Brescia città, sempre dentro un parco urbano di recente costituzione: è l’ex Cagimetal, con 1800 tonnellate di scorie sempre contenenti Cesio. In altri casi il materiale contaminato è rimasto dentro le acciaierie. Per evitare che incendi, terremoti o altre calamità inneschino un disastro ecologico, in diversi casi la prefettura di Brescia ha scelto come soluzione la realizzazione di bunker in cemento armato, dove stoccare polveri e tondini per due secoli, il tempo di decadimento del Cesio. Non sono ancora state messe in sicurezza le 370 tonnellate di scorie che si trovano dentro la fonderia Premoli a Rovello Porro, nel Comasco. Sono lì dal 1990, quando venne fusa una partita di rottame contaminato comprato dalla società austriaca Almeta (che a sua volta lo importò dall’Est Europa). Per anni le istituzioni locali hanno sostenuto che non era il caso di allarmarsi, poiché si trattava di una contaminazione talmente bassa da non comportare rischi alla popolazione. Eppure l’ultimo report di Arpa Lombardia parla di cumuli di veleni e «fusti corrosi» conservati in pessimo stato, vicinissimi alle abitazioni ed al torrente Lura, che in caso di esondazione provocherebbe una catastrofe ecologica. Nel 1990 una partita di quello stesso rottame finì anche all’Astra di Gerenzano (Varese), dove oggi sono 320 le tonnellate in attesa di una soluzione definitiva. Come all’Eco-Bat Spa di Paderno Dugnano (Milano), dove nel 2015 si è fusa una fonte di Radio 226, stesso isotopo che nel 2011 ha contaminato anche la Intals Spa di Parona (Varese). Problema: i soldi per questi interventi non ci sono. Nell’elenco ufficiale dei siti a bassa radioattività c’è quasi esclusivamente la Lombardia, ma solo perché qui si trova oltre la metà delle fonderie italiane e quindi è statisticamente più alto il numero di incidenti rilevati e potenziali. Maurizio Pernice, direttore di Isin — l’ispettorato nazionale per la sicurezza nazionale operativo dall’agosto 2018 — si dice «stupito» dall’assenza di segnalazioni da parte di altre regioni. Fa eccezione il Veneto. Qui il primo incidente radioattivo mappato risale addirittura al 1974. Nell’azienda ospedaliera universitaria di Verona ben cento tonnellate di materiale sanitario venne contaminato da aghi di Radio 226. Visti gli ingenti quantitativi e un livello di radioattività più alto del solito il materiale è rimasto stoccato nel magazzino dell’ospedale, non finendo così nei venti depositi temporanei presenti in Italia, che accolgono le scorie a bassissima radioattività prodotte quotidianamente da ospedali e industrie. Più inquietante l’episodio del 2004 verificatosi alle Acciaierie Beltrame di Vicenza: il materiale radioattivo era arrivato dalla Italrecuperi di Pozzuoli specializzata nella raccolta di materiale ferroso, che a sua volta lo aveva acquistato da una ditta statunitense di Cincinnati (Ohio), la Ohmart, produttrice dell’isotopo per usi industriali. Il copione è sempre lo stesso: fonte radioattiva nel forno, contaminazione, sequestro, stoccaggio e anni d’attesa per capire il da farsi. Già, perché il famoso deposito unico nazionale, autorizzato dal 2001, e in cui confluire tutte le scorie radioattive provenienti dallo smantellamento delle centrali, centri di ricerca, ospedali, industrie, ancora non c’è. La messa in sicurezza delle scorie radioattive viene pagata da tutti gli italiani con accise presenti nelle bollette della luce. Lo Stato fino ad oggi ha riservato tutte le risorse (3,7 miliardi) alla gestione e allo smantellamento delle quattro ex centrali nucleari, dei cinque reattori di ricerca e dei quattro impianti sperimentali, il cui potere radioattivo è 40 mila volte superiore ai siti a bassa radioattività. Dopo quasi 20 anni quello smantellamento non è nemmeno a metà strada. Intanto sono decine le discariche contaminate sparpagliate in tutto il Paese. Se per le due discariche del Bresciano i tempi di intervento si annunciano biblici, la strada maestra per mettere in sicurezza le scorie radioattive presenti nelle altre acciaierie è quindi la creazione di altri bunker. Che hanno un costo. Quello realizzato alle Acciaierie Venete di Sarezzo — in grado di resistere anche all’impatto di un camion in corsa e con una durata garantita di 300 anni — è costato mezzo milione di euro. L’Italia entro il 2025 deve individuare un deposito nazionale per le scorie radioattive, ma nessuna regione lo vuole, e ora si sta trattando con la Slovacchia. Nell’attesa costruiamo bunker dentro le aziende. In conclusione: i problemi si raggirano, si tappano le emergenze quando non si possono più nascondere, si sprecano tante risorse. Mentre le ricadute sulle conseguenze di veleni senza odore e colore, andranno ad incrementare le statistiche oncologiche. Tanto nessuno sarà mai in grado di ricondurre l’effetto alla causa.

·        Farmaci contaminati e contaminanti.

REPORT PUNTATA DEL 28/10/2019. Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini, collaborazione di Simona Peluso e Alessia Pelagaggi. Quando pensiamo alla globalizzazione, immaginiamo scarpe da tennis fatte in Thailandia e smartphone prodotti in Corea. Ma anche le medicine che assumiamo ogni giorno sono prodotte in stabilimenti lontani e spesso privi di controlli stringenti. Così si possono offrire prezzi bassi ai pazienti e fare anche un buon margine di profitto. Ma a forza di tagliare i costi, in alcuni casi il farmaco può venir fuori contaminato da impurezze. Come per numerosi lotti di Valsartan, medicinale contro la pressione alta, che le autorità europee del farmaco, compresa l’italiana Aifa, hanno ritirato negli scorsi mesi perché contenenti nitrosammine, cioè agenti potenzialmente cancerogeni. A produrre le medicine era una società cinese, la Zhejiang Huahai, che pur di produrre più velocemente ha immesso per anni sul mercato un prodotto dannoso. Report farà un viaggio a ritroso a partire da una compressa per vedere cosa c’è dietro la sua catena di produzione, fra inquinamento dell'ambiente, proliferazione di batteri antibioticoresistenti e sfruttamento di cavie umane per i test clinici.

Report e l’inchiesta sui farmaci contaminati prodotti in India. Giovanni Drogo il  28 Ottobre 2019 su nextquotidiano.it. Questa sera Report manderà in onda l’inchiesta di Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini dal titolo Principi cattivi, un gioco di parole sui principi attivi contenuti nei farmaci. Il servizio prende le mosse dalla vicenda del batterio farmacoresistente New Delhi che tra il novembre 2018 e il settembre 2019 ha causato 36 decessi in Toscana. C’è poi un’altra storia, quella dei farmaci contenenti ranitidina ritirati dall’AIFA nei mesi scorsi perché contenenti nitrosammine, sostanze potenzialmente cancerogeni.

L’inchiesta di Report sui farmaci fatti in India. A produrre le medicine – scrive Report – era una società cinese, la Zhejiang Huahai. Il principio attivo contaminato però, scriveva l’AIFA, era stato prodotto presso l’officina farmaceutica SARACA LABORATORIES LTD in India. Come tante altre aziende del settore farmaceutico che si occupano della produzione dei prodotti intermedi e dei principi attivi ha sede nel grande distretto farmaceutico di Hyderabad (nello stato indiano del Telangana, nel sud del Paese) denominato Hyderabad Pharma City. Qual è il problema? Ad esempio il fatto che lo sviluppo del distretto industriale – che dovrebbe diventare la capitale dell’industria farmaceutica in India – abbia già causato parecchie preoccupazioni tra i residenti a causa dell’inquinamento delle acque dei fiumi nei quali le fabbriche sversano i rifiuti della lavorazione industriale. E per quanto riguarda noi europei? Uno degli ostacoli è che è estremamente difficile risalire a quale azienda (e dove) abbia prodotto un dato principio attivo. Ma molto spesso si finisce in India o in Cina. Le telecamere di Report sono andate proprio in una di quelle aziende dove vengono lavorati i prodotti intermedi, che poi vengono utilizzati dalle case farmaceutiche per innescare le reazioni chimiche che servono a produrre i farmaci. La situazione, igienicamente parlando, non è delle migliori. Potrebbe esserlo. Ma il titolare dell’azienda spiega che così il prezzo del prodotto finale aumenterebbe e quindi non sarebbe più possibile per le persone meno abbienti acquistare i farmaci generici che vengono prodotti a Pharma City. Ma la questione del rispetto degli standard igienici ed ecologici non è solo una fissa degli occidentali. Secondo i cittadini di Hyderabad che abitano vicino ai canali di scolo le acque sono contaminate dagli scarti delle lavorazioni chimiche. In quelle acque e nel suolo dei dintorni delle aziende l’Università di Lipsia ha trovato la presenza di batteri multi-farmacoresistenti. Secondo Christoph Lubbert, infettivologo dell’ospedale di Lipsia, che ha analizzato i campioni inviati dall’India «i batteri che stanno creando problemi in Toscana sono molto simili a quelli che sono stati trovati ad Hyderabad». I residui dei farmaci contaminati in India: così nascono i super batteri resistenti (come quello che uccide in Toscana).

Viaggio a Hyderabad, il cuore dell’industria farmaceutica indiana dove il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente è spesso sacrificato in nome della riduzione dei costi. Le immagini degli scarichi in cui i residui dei farmaci si mischiano alle acque fognarie: un bio-reattore a cielo aperto in cui alla presenza di antibiotici nelle acque si associa il ritrovamento di super-batteri resistenti ai farmaci. L’anteprima della clip di Report “Principi Cattivi”, in onda questa sera su Rai Tre alle 21.20. - Report /Corriere Tv il 28 ottobre 2019. Hyderabad è il cuore dell’industria farmaceutica indiana, un distretto produttivo con 400 aziende e 170 siti di produzione su larga scala che preparano medicine e principi attivi per il mercato internazionale. Ma il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente è spesso sacrificato in nome della riduzione dei costi. Secondo le normative indiane le acque reflue dovrebbero essere trattate dalle aziende in loco e depurate in impianti speciali. Report invece ha documentato diversi scarichi in cui i residui dei farmaci si mischiano alle acque fognarie. Si tratta di un bio-reattore a cielo aperto in cui alla presenza di antibiotici nelle acque si associa il ritrovamento di super-batteri resistenti ai farmaci, dello stesso tipo di quelli che stanno mietendo vittime negli ospedali della Toscana. Perché questi batteri con la globalizzazione girano il mondo e alla fine il risparmio dei prezzi ottenuto in India si paga anche in Italia.

Questa sera Report su RAI3, dall’India all’Italia la filiera sporca dei farmaci. Fedaiisf.it il 28 Ottobre, 2019. Su Rai3 Viaggio nelle fabbriche low cost delle medicine da dove arriva il batterio New Delhi, che ha già fatto decine di vittime in Toscana. Il Fatto Quotidiano – 28 ottobre 2019. Un fiume diventato un laboratorio a cielo aperto in cui batteri resistenti agli antibiotici proliferano e rischiano di uccidere i soggetti più deboli anche in Italia; farmaci contaminati da una filiera senza controlli e poco trasparente; un sistema che in nome del risparmio mette a repentaglio la sicurezza sanitaria europea e mondiale: il viaggio di Report, in onda questa sera su Rai 3 e di cui possiamo dare una anticipazione, è una spiegazione di ciò che accomuna il recente ritiro di alcuni farmaci per la pressione (Valsartan, Losartan e l’Irbesartan) e per lo stomaco come (Zantac e Randil) a causa della contaminazione dei loro principi attivi e i decessi che si sono registrati in Toscana a causa di un batterio resistente agli antibiotici denominato “Nuova Delhi”. L’articolo del Fatto prosegue riassumendo la vicenda che ha portato alla sospensione di alcuni farmaci per la presenza di nitrosammine (Mdma). Nel servizio di Report di Rai3 si dice che “Risalire la filiera di produzione è complicatissimo. I foglietti illustrativi riportano solo gli ultimi luoghi da cui si è mosso il lotto dei medicinali, ma in realtà i principi attivi per il 60% arrivano da paesi extra europei: India, Cina, Brasile, Armenia e Argentina. Ogni pillola può avere componenti provenienti anche da 12 paesi e quattro continenti. Sull’opportunità di segnalare la provenienza dovrebbe decidere l’Ema, che però è finanziata all’80 per cento proprio dall’industria farmaceutica. Le aziende, infatti, sostengono che Cina e India siano i posti migliori da cui rifornirsi, da lì arrivano anche i principi attivi dei medicinali generici. Si afferma che le ispezioni delle agenzie regolatorie sono “pilotate” oppure rilevino macchinari arrugginiti e condizioni igieniche insufficienti senza però apparenti conseguenze. Così si arriva in India dove c’è la fabbrica della Saraca, una di quelle che vende la ranitidina contaminata utilizzata anche per i farmaci in vendita in Italia. È al centro di un distretto farmaceutico a sud dell’India, uno dei più importanti al mondo con 170 impianti. Qui c’è anche Aurobindo, il gigante indiano fornitore dei generici, ma soprattutto ci sono le aziende che forniscono i prodotti intermedi necessari per scatenare le reazioni chimiche che poi portano al principio attivo. Le telecamere di Report mostrano solventi chimici, sporcizia, macchinari arrugginiti, reattori, barili di plastica. “Non sembra igienico” dice il giornalista. “Noi qui facciamo semilavorati e seguiamo i loro standard – risponde il titolare -. Se ne seguissimo di più alti, i costi si moltiplicherebbero e la gente comune non potrebbe permettersi farmaci a costo più basso”. Nel servizio si mostra il sistema delle acque di raffreddamento, gli scarti finiscono nei fiumi. Inquinano e i sistemi di trattamento non sono efficaci. accanto alle fabbriche che producono farmaci distribuiti poi in tutto il mondo, ci sono le baracche in cui vive la bassa manovalanza, pagata pochissimo, 5 euro al giorno. Nei villaggi attorno, l’inquinamento è una piaga, i pesci muoiono nei fiumi a causa delle acque di scarto dell’industria dei farmaci. I camion cisterna devono portare acqua potabile, le falde sono verdi e puzzano di solventi. Le persone si ammalano, gli animali non possono bere, la terra non si può coltivare. E l’inquinamento ha anche un’altra conseguenza: le acque sono piene di antibiotici. Nel servizio si riferisce che sono stati selezionati 28 siti, dove sono stati trovati batteri resistenti a moltissimi farmaci. “Ci aspettavamo di trovare il batterio Nuova Delhi – spiega Christoph Lubbert, infettivologo di Lipsia, riferendosi al germe che in Toscana ha già infettato 126 persone – ogni volta che c’è una nuova resistenza in India, in Cina o in Italia, non resta dove si trova. Quelli che stanno dando problemi in Toscana sono molto simili a quelli trovati ad Hyderabad”.

Le inchieste di Report – la sicurezza dei farmaci, la fabbrica della paura e i colori del sale. Aldo Funicelli (sito) su agoravox.it lunedì 28 ottobre 2019. Visto che Report fa informazione seria, non si occupa di Salvini solo prima delle elezioni, come maliziosamente hanno detto in tanti (sopo il servizio dedicato ai rapporti con gli oligarchi russi): anche questa sera uno dei servizi della puntata sarà dedicato al segretario della Lega e alla sua fabbrica della paura. Il servizio principale però riguarderà le medicine che prendiamo e che spesso sono prodotte in paesi con meno controlli sulla sicurezza. L'anteprima della puntata è, come di consueto, dedicata ad un tema legato alla vita quotidiana: ovvero il sale con cui condiamo i cibi che finiscono sulle nostre tavole.

Cinquanta sfumature di Sale di Chiara De Luca. Da una parte c'è l'OMS, secondo cui non dovremmo superare i 5 grammi di sale al giorno,dall'altra parte c'è chi lo produce o lo importa, che pubblicizza i sali colorati addirittura come benefici, vendendoli di conseguenza a prezzi maggiorati. Enzo Spisni, docente di fisiologia della nutrizione a Bologna, racconta di come ci sia una volontà a far ppassare un certo messaggio sul sale, “il sale costa poco, se trovo il modo di venderlo a 50-60 volte il prezzo, faccio un bel business”. Rosa, viola, nero, grigio: sono i colori dei nuovi tipi di sale che negli ultimi anni si sono diffusi sul mercato. Nell'immaginario collettivo hanno fama di essere salubri. Alcuni produttori e importatori infatti li pubblicizzano come ottimi per la salute e ricchissimi di oligoelementi. Report proverà a capire se sia giusto dare questo tipo di informazione, dal momento che l’Organizzazione Mondiale della Sanità consiglia un uso moderato del sale. Effettivamente le etichette che dovrebbero informare il consumatore non danno le giuste specifiche: qual è il punto di vista di chimici e nutrizionisti e quello di chi questi sali li immette sul mercato?

La globalizzazione dei medicinali. Le medicine come gli smartphone o come le magliette comprate a basso prezzo: oggi ci curiamo con medicine prodotte in paesi lontani dove il costo della produzione è molto basso (ma non il costo per il consumatore). Ma il risparmio delle case farmaceutiche corrisponde anche ad un risparmio sulla qualità e sulla nostra sicurezza? Giulio Valesini è andato in India, nel distretto di Hyderabad, un medicinale su dieci, tra quelli che arrivano da noi, è prodotto qui e gli effetti si vedono: le industrie farmaceutiche sversano le acque usate nella loro produzione, direttamente nel terremo, nei fiumi, che non sono più limpidi e dove invece si vedono le schiume degli scarti della lavorazione chimica. Nel 2016 la Corte Suprema indiana ha ordinato alle industrie farmaceutiche di applicare politiche di produzione a “zero liquidi”: ufficialmente quegli impianti hanno il trattamento in loco per le acque reflue, racconta al giornalista Christopher Lubbert medico dell'ospedale di Lipsia – “ma molti non funzionano a dovere perché così si risparmia”. Il giornalista è andato a vedere come si lavora dentro una di queste aziende del distretto, che produce semilavorati per conto di queste aziende farmaceutiche: da una parte raccontano che loro rispettano tutti gli standard di sicurezza che vengono loro dati, ma poi, di fronte all'evidenza di essere in un luogo poco sicuro, ammettono “se seguissimo standard più elevati i costi si moltiplicherebbero”. Così nelle acque trovi, oltre ai liquami fognari, anche antibiotici: campioni di acque e dei terreni sono stati fatti analizzare proprio all'ospedale di Lipsia, che ha trovato batteri farmaco resistenti ovunque. Hyderabad oggi rischia di essere l'epicentro di un pericolo che può arrivare in tutto il mondo. “Non voglio spaventarvi, ma ogni volta che c'è una nuova resistenza antibiotica in India, in Cina o in Italia, non rimane lì. I batteri che stanno creando problemi in Toscana (il batterio new Delhi scoperto a settembre), sono molti simili a quelli che abbiamo trovato a Hyderabad, la globalizzazione inversa ha trovato la sua strada per l'Italia” - spiega il professor Lubbert. E cosa è successo in Toscana? Mentre nel paese si discuteva di immigrazione, tasse, evasori da mandare in galera o meno, in Toscana ci sono un centinaio di pazienti colonizzati dal batterio New Delhi, per cui non esiste ancora un antibiotico specifico. Giulio Valesini ha intervistato il direttore dell'AIFA, Luca Li Bassi a cui ha chiesto se questo distretto farmaceutico indiano, con tutto il proliferare di batteri resistenti, sia sostenibile. Assolutamente no, la risposta. Non è ammissibile, tutto ciò: basterebbe che Aifa e gli altri enti regolatori chiedessero a queste aziende di produrre rispettando gli standard ambientali, altrimenti non esportate più in Europa. “Secondo me questa è un'ottima proposta costruttiva e sarebbe bellissimo poterla implementare” - la risposta del direttore.

Sul Fatto Quotidiano, Virginia della Sala da un'anteprima del servizio: Sull’opportunità di segnalare la provenienza dovrebbe decidere l’Ema, che però è finanziata all’80 percento proprio dall’industria farmaceutica. Le aziende, infatti, sostengono che Cina e India siano i posti migliori da cui rifornirsi, da lì arrivano anche i principi attivi dei medicinali generici. La filosofia dicono è andare dove costa meno ma solo se i produttori sono bravi e verificati secondo gli standard europei. Peccato che le ispezioni sono “pilotate” oppure rilevino macchinari arrugginiti e condizioni igieniche insufficienti senza però apparenti conseguenze. Così si arriva in India dove c’è la fabbrica della Saraca, una di quelle che vende la ranitidina contaminata utilizzata anche per i farmaci in vendita in Italia. È al centro di un distretto farmaceutico a sud dell’India, uno dei più importanti al mondo con 170 impianti. Qui c’è anche Aurobindo, il gigante indiano fornitore dei generici, ma soprattutto ci sono le aziende che forniscono i prodotti intermedi necessari per scatenare le reazioni chimiche che poi portano al principio attivo. Le telecamere di Report mostrano solventi chimici, sporcizia, macchinari arrugginiti, reattori, barili diplastica. “Non sembra igienico”dice il giornalista. “Noi qui facciamo semilavorati e seguiamo i loro standard risponde il titolare . Se ne seguissimo di più alti, i costi si moltiplicherebbero e la gente comune non potrebbe permettersi farmaci a costo più basso”. Cosa farà l'AIFA? E il ministero della salute? Riusciranno ad imporsi alle aziende, alle multinazionali del farmaco?

La scheda del servizio: PRINCIPI CATTIVI di di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella in collaborazione di Simona Peluso e Alessia Pelagaggi. Quando pensiamo alla globalizzazione, immaginiamo scarpe da tennis fatte in Thailandia e smartphone prodotti in Corea. Ma anche le medicine che assumiamo ogni giorno sono prodotte in stabilimenti lontani e spesso privi di controlli stringenti. Così si possono offrire prezzi bassi ai pazienti e fare anche un buon margine di profitto. Ma a forza di tagliare i costi, in alcuni casi il farmaco può venir fuori contaminato da impurezze. Come per numerosi lotti di Valsartan, medicinale contro la pressione alta, che le autorità europee del farmaco, compresa l’italiana Aifa, hanno ritirato negli scorsi mesi perché contenenti nitrosammine, cioè agenti potenzialmente cancerogeni. A produrre le medicine era una società cinese, la Zhejiang Huahai, che pur di produrre più velocemente ha immesso per anni sul mercato un prodotto dannoso. Report farà un viaggio a ritroso a partire da una compressa per vedere cosa c’è dietro la sua catena di produzione, fra inquinamento dell'ambiente, proliferazione di batteri antibioticoresistenti e sfruttamento di cavie umane per i test clinici.